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Tratto dal convegno La vita dopo la morte, Roma, 2-4 maggio 2003

Trascrizione integrale del parlato a cura di Laura Giusiano

Nuova edizione curata da Rossella Alemanno

Testo NON rivisto dal relatore

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www.liberaconoscenza.it

ISBN 978-88-96193-27-3

Pietro Archiati

La vita

Dopo la morte

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Indice

Prefazione

Prima conferenza

la morte scuote tutti

anche i più duri

Il materialismo, la premessa per potersi conquistare il mondo invisibile

Il senso di ogni morte è la risurrezione

La fine di un ciclo porta in sé un seme. Le ripetute vite terrene

Due Esseri che mi amano: l’Io superiore e l’Io dell’umanità

Cos’è la morte? La morte è nulla!

La morte diventa realtà per la coscienza umana. L’Epopea di Gilgamesh - L’Apocalisse

I quattro atteggiamenti della libertà umana di fronte alla morte: ignorarla, rifiutarla, rassegnarsi, essere grati

Dibattito

Seconda conferenza

come vivono i morti?

Il dopo-morte passo per passo

Voglia di vivere, voglia di morire. Riconquistarsi l’amore per la vita

La morte come spada a doppio taglio dell’evoluzione.
L’esperienza cristica della solitudine e della glorificazione

La prima esperienza del morto: vedere tutta la sua vita
simultaneamente

Nascere per godersi la cosa più bella che c’è: il morire

I tre gradini del dopo-morte: il livello della mente, il li- vello del cuore, il livello dello spirito

Liberarsi dalle brame. «Se non diventerete come
bambini non entrerete nel Regno dei Cieli»

Lo spirito umano entra nella sfera dei valori oggettivi

dibattito

Terza conferenza

i morti ci parlano,

come si fa ad ascoltarli?

L’importanza di farsi un’idea di come sono fatti i defunti

I morti operano negli elementi di natura

L’evoluzione della Terra come fondamento dell’evoluzio-
ne umana

Il regno delle possibilità: l’agire dei morti nei fatti che ci accadono

I morti ci parlano attraverso i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre azioni

La scienza dello spirito: il primo linguaggio comune tra i vivi e i morti

Leggere ai defunti

Momenti privilegiati per fare domande e ricevere risposte dai defunti

Dibattito

Quarta conferenza

siamo tutti immortali,

allora siamo anche “innatali”

Il pensare: peculiarità dell’essere umano

Incarnarsi per progredire nel pensiero

Dilettantismo e scientificità nello spirituale

Immagini e sentimenti suscitati in noi dal defunto

L’influsso dei morti nella sfera sociale

Quando nasce l’anima umana?

Immortali si diventa

Dibattito

Quinta conferenza

morire ogni giorno

per vivere meglio

Il rispetto della libertà umana

La percezione come morire quotidiano. L’asino reale

e l’asino ideale

Tre modi fondamentali del morire quotidiano

Il criterio della moralità

Ogni azione è un esporsi all’arbitrio degli altri

Le sette sfere dell’anima

Diventare buongustai dello spirito

Letture correlate

A proposito di Pietro Archiati

Prefazione

Da giovani, è ovvio, si pensa a ben altro che alla morte – e poi è troppo lontana. Per anni il suo mistero non ci sfiora nemmeno, non suscita alcun interesse. Poi, all’improvviso, muore una persona cara, forse l’amico con cui la sera prima eravamo andati a ballare in discoteca.

Allora la morte comincia a esistere ed è capace di riempire di sé tutte le ore del giorno e della notte. E ci si accorge di essere impreparati, sprovveduti, spaventati.

Ma che cos’è la morte? E che senso ha nascere se poi, non si sa né come né quando, ci toccherà morire? E dopo la morte, che succede?

C’è chi dice: nessun morto è mai tornato a raccontare ai vivi quello che avviene nell’altro mondo, ammesso che paradisi, inferni, purgatori – e limbi – esistano davvero.

E se invece fossimo noi a non capire il linguaggio dei morti, che muoiono dalla voglia di raccontarci la loro nuova e bellissima vita, quello che fanno fuori dal corpo in mezzo a miriadi di Esseri spirituali, in regioni dell’anima e dello spirito piene di meraviglie?

E se fosse possibile guardare anche da vivi oltre la soglia della morte, come accade ogni volta che apriamo la porta di casa e ci si presenta davanti agli occhi il mondo di fuori, tutto da esplorare?

Insomma, che succederebbe se piano piano si venisse a scoprire che la morte può diventare una cara e rincuorante amica?

Pietro Archiati

Prima conferenza

La morte scuote tutti

anche i più duri

Roma, 2 maggio 2003

Cari amici,

la situazione attuale nei confronti della morte, il modo in cui gli uomini e le donne d’oggi vivono la realtà della morte è determinato dalla temperie e dalla mentalità in uso. La caratteristica più importante della struttura mentale oggi più comune è ciò che noi chiamiamo materialismo; il materialismo rappresenta, in fondo, due grandi fortune per l’umanità:

• una è la capacità di godersi il mondo materiale. Materialismo è proprio questa bella capacità di vivere e godere il mondo materiale;

• l’altra è la possibilità di conquistarsi il mondo invisibile.

Siccome non ne godiamo già in partenza – proprio perché in partenza non lo conosciamo – il mondo invisibile è tutto da conquistare. Ma allo stesso modo in cui possiamo volgere in chiave positiva il materialismo, possiamo volgere positivamente anche la morte.

La morte è la soglia d’ingresso nell’invisibile, perciò chi ha paura dell’invisibile, perché non lo conosce, ha paura della morte, perché non sa dove porta. È quindi ovvio che confrontarsi col mistero della morte significa confrontarsi col limite del materialismo, dal momento che il morire è il terminare nell’essere umano di ciò che è materiale – della carcassa, di ciò che Francesco d’Assisi chiamava Frate asino.

Il mio compito sarà presentare la morte nella sua positività: una positività che è più bella perché va conquistata, e in tempi di materialismo è ancora tutta da conquistare. Cercherò di convincervi di quanto è bello concepire la morte in chiave di positività: non soltanto la morte che arriva alla fine della vita, ma anche l’altra morte – ancora più interessante – che è il morire quotidiano.

Seguirò quindi questi due filoni: la morte che arriva tutta in una volta e il morire quotidiano. La morte finale in un certo senso è meno interessante perché ci coglie di sorpresa, non sappiamo né come arriva né quando arriva. Molto più interessante invece è il morire quotidiano: lì la sfida è molto più forte. Nel morire quotidiano si gioca la capacità dell’essere umano di risorgereper usare un termine tradizionale – di ricaricarsi, di rivivere. Ecco, il senso del morire quotidiano è questo: rivivere ogni giorno.

Il senso di ogni morte, una volta si diceva che è il risorgere, ma se pronunciare questa parola oggi in Italia urta la sensibilità di qualcuno, si può usare rivivere, che forse è una parola più neutra. In questo Paese il rapporto col religioso è diventato problematico proprio perché è stato gestito per tanti secoli dall’autorità materna della Chiesa che, negli ultimi decenni soprattutto, è diventata un po’ indigesta. Considero questo fatto un sintomo psicologico della disaffezione nei confronti del religioso, e ne tengo conto: perciò penso sia importante sostituire i termini che avevano il loro significato religioso con termini accessibili a tutti.

Quando una volta si diceva che il senso di ogni morte è la risurrezione – possiamo sostituire questa parola con il rivivere – s’intendeva un ricominciare la vita in un modo nuovo, quotidianamente però. E la vita non si può ricominciare ogni giorno in un modo nuovo, a meno che non si muoia a qualcosa: il morire è il dover lasciare qualcosa per ricominciare da capo. Magari lasciare una cattiva abitudine, e questo veniva chiamato in passato un piccolo morire, una bella espressione per descrivere un qualcosa in me che vuol morire per far posto a qualcosa di più bello.

La situazione attuale nei confronti della morte è tale per cui tante persone, vivendo in questa immediatezza del mondo visibile, del mondo materiale, alla morte non ci pensano. Possiamo partire proprio da questa prima constatazione fondamentale: oggi, soprattutto nella prima metà della vita – quando ci sono forze vitali, quando ci sono anche ideali, quando c’è tutto da conquistare – molti alla morte non pensano.

Se sono giovane la morte non necessariamente mi tocca da vicino, però all’improvviso può succedere che una persona con cui ero in discoteca tre giorni prima, una persona con cui ho fatto una passeggiata ieri, una persona forse neanche tanto anziana, muoia, magari in un incidente stradale. E all’improvviso all’uomo d’oggi si evidenzia che quella persona, vissutagli accanto fino a ieri, è “scomparsa”. Chi si permette di farla sparire? All’improvviso l’enormità della morte ci colpisce. Colpisce anche i più duri, certo! Anche i più duri hanno amici, e vivono con persone che dall’oggi al domani possono veramente varcare la soglia.

Abbiamo quindi questo fenomeno molto comune – oggi anche molto frequente – di un individuo che alla morte non pensa. Va bene così, non vogliamo subito dire che non vada bene: non gli viene spontaneo, perché dovrebbe pensare alla morte? C’è abbastanza da fare nella vita. Però all’improvviso, la realtà della morte gli dà una “botta” e lo costringe a fermarsi. Quest’individuo si dirà: «La morte non colpisce soltanto gli anziani; se oggi ha colpito questo mio amico, questa persona così vicina a me, domani può toccare a me!».

Anche i più duri devono essere colpiti, perché la cultura materialistica, nei confronti della morte, ha generato una durezza di cuore. Reprimere la morte fa parte del capitalismo moderno – d’altronde, siamo nella Facoltà di Economia e Commercio! – fa parte proprio del modo di vivere dell’umanità di oggi in registro di globalizzazione. Non soltanto non ci si pensa, ma la morte viene addirittura repressa, che è ancora diverso dal non pensarci. Infatti se non ci penso non me ne occupo, non faccio una teoria sulla vita che esclude la morte, mentre se la reprimo voglio eliminarla dalla vita, voglio pensare che sia un’incidente casuale che sarebbe meglio non esistesse.

Non si può capire la vita senza includere nel progetto-vita l’evento più fondamentale che è la morte, perché ne evidenzia il carattere transeunte: evidenzia che la vita nel corpo non è eterna, ma effimera. E non posso nemmeno capire la vita senza interpretarla, senza basarmi sul fatto che si vive solo per un certo periodo – alcuni decenni, al massimo cento anni.

Come mai è così? Chi ha deciso che la vita deve finire? L’aver generato una tale durezza del cuore nei confronti della vita ha fatto sì che la maggior parte degli esseri umani sia del tutto impreparata e sprovvista di fronte alla morte. Quando la morte bussa all’improvviso alla porta, magari di una persona che mi è vicina, mi rendo conto che la mia formazione – anche accademica – mi ha preparato a tutto tranne che a far fronte alla morte, che è una realtà molto importante.

Pensavo in questi giorni alla guerra in Iraq e mi dicevo: «Non c’è forse, nell’umanità di oggi, un certo cinismo nei confronti della morte, tanto da considerare danno collaterale il compiere qualcosa che per natura ucciderà delle persone, e probabilmente non poche»? Qualche migliaio di persone va all’altro mondo e questo è considerato un danno collaterale, inevitabile se si vuol raggiungere l’obiettivo che è più importante da raggiungere. In altre parole, che queste centinaia di persone vadano all’altro mondo, è secondario; ma secondario rispetto a che cosa? Che cosa può essere moralmente più grave del porre fine a una vita, togliere la vita, uccidere delle persone? Mi sono chiesto: non è forse balorda, un’umanità che arriva al punto di considerare la morte, anzi proprio il fatto di uccidere un numero notevole di persone, come effetto collaterale?

Quando affermo che la morte scuote tutti intendo dire che deve, o meglio, dovrebbe, scuotere tutti! Perché se la morte termina di essere la provocazione, la sfida più micidiale che ci sia per l’essere umano, perde il suo valore. La morte conserva il suo valore soltanto se ci provoca. Il senso della morte è di farci ribellare in tutto il nostro essere, perché questa ribellione spontanea nei confronti della morte ci costringe a fare i conti con noi stessi.

Cosa scuote la morte?

• Scuote la nostra mente, perché è l’assurdo più assoluto che ci sia;

• Scuote il nostro cuore e tutta la sfera dei sentimenti perché genera la somma massima di paura;

Scuote la vita proprio perché sembra il suo opposto, sembra cancellare, annientare, il progetto di vita che ci portiamo dentro.

La morte scuote la mente perché pone il pensiero di fronte all’assurdo, al non-senso più assoluto: se non è insensata la morte, che cosa è senza senso?

Scuote il cuore perché ci riempie di dolore, di sofferenza e di paura. E scuote la vita, il comportamento, i valori.

Non è forse un’assurdità per la mente, per il pensiero, nascere con l’intento di morire?

Si nasce per morire, morire è inevitabile. Tant’è vero che qualcuno è portato a dire: «Allora sarebbe meglio non nascere», e qualcun altro dice: «No, si nasce per vivere. Poi, purtroppo, c’è questo fattore, questo danno collaterale che è la morte, però si nasce per vivere!». Ma come la mettiamo con chi muore subito, appena nato, o nei primissimi anni della sua esistenza? Non possiamo dire che sia nato per vivere, non ne ha avuto la possibilità.

Ogni nascita sfocia inevitabilmente nella morte, quindi è indubbio che la morte sia assolutamente immessa nel progetto di vita.

La morte scuote la mente perché è l’enigma più grande che ci sia. È la sfida somma, la provocazione più forte al pensiero umano. Trovare il senso, di fronte all’evidenza del suo non-senso, è forse uno dei cammini di pensiero più belli e più grandi che ci siano, proprio perché è arduo.

Abbiamo detto che la morte scuote la mente, ma scuote anche il cuore: basta vedere la somma di dolore e di sofferenza che ognuno di noi vive quando una persona cara muore! Ma, soprattutto, il senso di questa sofferenza, di questo dolore è la privazione: la persona cara che è morta mi manca. Ma che significa: mi manca? Significa che questa persona è sparita? Che non c’è più? Quando dico che soffro perché mi manca, significa che mi sento un essere umano del mondo d’oggi, abituato a vivere, a sentire come reale soltanto ciò che vede e sente materialmente. Non sento più la sua voce, non sento più il suo conforto, non sento più i suoi pensieri, non mi parla più, non mi accompagna più, non posso più consumare un pasto con lei.

La morte scuote il cuore, ci porta via persone care, infatti diciamo: «Ho perso la tal persona». Vivere la morte in questo modo – è un fatto, che la maggior parte degli esseri umani oggi la viva così – è una fonte di grande dolore perché nel mio vissuto, quello che riesco a cogliere di questa persona è che non c’è più: vivo nel vuoto. Certo, ci sono i ricordi, però i ricordi possono addirittura rincarare la dose della sofferenza perché sottolineano, a volte con maggiore crudeltà, che sono costretto a vivere di ricordi. Ai ricordi, il defunto non è più in grado di aggiungere il presente: non mi parla più, non mi dice più nulla di nuovo. Vivere di ricordi significa vivere del passato, una persona morta non mi dice più nulla di nuovo.

La terza dimensione della morte è che scuote la vita. Scuote il comportamento, nel senso che di fronte alla morte uno si chiede: ma allora, qual è il valore di ciò che faccio? Quasi mi cadono le braccia! Che senso ha il darmi da fare se domani, o addirittura oggi stesso, la morte afferrerà me? Che senso hanno le conquiste, gli ideali, i valori per cui vivo? Qual è il senso della mia vita nella sua totalità, se poi termina così?

Vi dicevo che la prospettiva di questo convegno, per quanto mi riguarda, è di presentare la morte come la realtà più positiva che ci sia, nel senso che ogni momento, ogni forma di morte trova il suo senso se viene trasformata in un ricominciare a vivere in modo nuovo. Però trasformare ogni morte quotidiana – e anche la morte alla fine della vita – in un rivivere, e vederla come una grande fortuna, perché chi muore rivive e vive molto più pienamente in mondi spirituali, è una prospettiva che non ci viene spontaneamente, per fortuna! La realtà positiva della morte non può che essere una conquista della libertà.

In altre parole, il conquistarsi nella mente, nel cuore e nella vita la positività di ogni morire riguarda la libertà di ognuno. Nessuno ce lo impone, però lo possiamo fare, è un’offerta data alla nostra libertà.

Vedremo che forse non c’è nessuna realtà di fronte a cui gli esseri umani sono così liberi come lo sono di fronte alla morte. Tutte le altre realtà della vita non ci possono lasciare del tutto liberi, perché dobbiamo fare i conti con tanti altri fattori, con tanti altri esseri umani. Ma nessuno può gestire il nostro modo di porci di fronte alla morte, di interpretarla e di viverla. Di fronte al mistero della morte ognuno di noi è confrontato con la propria libertà.

Ho intenzione di presentare la positività della morte a tutti i livelli, e barerei se dicessi: «Sì, cari amici, la morte è una cosa veramente brutta, però vediamo di provare a convincerci che non è del tutto così…». O riusciamo a vedere la morte nella sua positività intrinseca – e può essere proprio un cammino di pensiero libero, fattibile da chiunque – oppure la morte resta qualcosa di negativo.

La prima riflessione che offro al pensiero di ognuno è questa: ciò che è vivente si esprime in ritmi. Il ritmo è il mistero di tutto ciò che vive. Il ciclo della pianta, che è un essere vivente, si svolge per ritmi: c’è il seme che fa nascere la pianta, la pianta cresce, si espande e quando arriva al termine del suo ciclo (la fine porta in sé un germe) un seme ricade nella terra e fa ricominciare da capo il ciclo. Nel ritmo della vita degli animali c’è una nascita, una morte e poi attraverso il germe la vita ricomincia. Tutto ciò che è vita segue un ciclo di vita, morte e rinascita.

Una delle domande fondamentali che riguardano la morte è se vogliamo fare, per la vita dell’uomo, un’eccezione assoluta.

La cultura occidentale, nel suo insieme, ha pensato finora che si vive una volta sola. Ma se vogliamo fare una riflessione seria sul senso della morte, dobbiamo avere il coraggio di chiederci: se è vero che nelle piante e negli animali il senso di ogni morte è il rinascere, il rivivere, perché non dovrebbe esserlo anche per l’essere umano, in quanto partecipe del vitale e del mondo animale? Perché il rivivere non dovrebbe essere il senso di ogni morte umana?

Mi riferisco al rivivere non soltanto in un mondo spirituale, ma al rivivere sulla Terra: un ricominciare il ciclo come tutte le piante e tutti gli animali. Forse un frammento, o buona parte della nostra paura di fronte alla morte, è dovuta al fatto che il materialismo occidentale si è messo in testa che l’essere umano vive sulla Terra una volta sola…

L’affermazione fondamentale del cristianesimo è l’amore del Verbo cosmico per la Terra: l’incarnazione. Forse la nostra paura della morte proviene dal disprezzo – molto poco cristiano – della vita sulla Terra? Disprezzo che è nato pensando che si vive una volta sola? Può darsi che noi superiamo la paura della morte quando sinceramente, apertamente, ne parliamo e ci chiediamo: «Ma siamo proprio sicuri? Chi ha decretato che si vive una volta sola?». E se invece il senso della morte fosse di metter via un corpo ormai malandato, che quando arriva a sessanta, settanta, ottant’anni, non fa certo più salti come quando si è giovani? Il corpo vecchio si mette via proprio come si mette via un abito vecchio o uno strumento musicale che non serve più; si passa un po’ di tempo nei mondi degli Artisti che fabbricano un corpo umano, e poi si ritorna giù.

Le persone che dicono: «Una volta mi basta, mi basta, per carità!», le persone che ne hanno d’avanzo di una vita sulla Terra, non meritano neanche quella! Meritano la vita quelli che se la godono a un punto tale da riempirla di significato, da entusiasmarsene e volerla vivere ancora una, due, tre, quattro, cinque volte… Chi dice che una volta basta e avanza, non ha fatto nulla della vita! Vogliamo prendere quella persona a misura, a criterio dell’umano?

La morte ci porta a riflettere su domande fondamentali. A me interessa porle come domande, non voglio vendervi dei dogmi – ne son stati venduti fin troppi! – m’interessa provocare il pensiero di ognuno, perché importante è ciò che avviene nel pensiero di ognuno.

Ora faccio un passo indietro e chiedo: cos’è che potrebbe dar fiducia nei confronti della morte? Partiamo da una fiducia semplice, accessibile a tutti: il giorno e il modo della morte non vengono decisi da noi. Questo è un dato di fatto, un dato di fatto che il suicida, per esempio, non riesce ad accettare.

Il suicidio è un fenomeno molto complesso, ma tra le altre cose c’è certamente la difficoltà ad accettare che la morte – la mia morte, un evento che mi riguarda così profondamente da vicino – non sia nelle mie mani. È difficile accettare la mia impossibilità di decidere il modo e il giorno in cui morirò. Credo faccia parte dell’atteggiamento del suicida il non riuscire ad accettare, nell’esuberanza della propria libertà, che una delle cose più importanti, la propria morte, venga imposta. L’essere umano che vorrebbe una libertà assoluta vuole estendere la sua libertà all’ora, al giorno e al modo della sua morte. Anche questo è un abisso che nei tempi moderni è evidenziato ancora di più di fronte alla morte.

Perché non viene lasciato alla coscienza ordinaria di decidere il giorno e il modo della morte? Perché – ce lo dicono tutte le religioni e tutte le culture – sarebbe il caos più assoluto: quasi tutti sceglieremmo il giorno e il modo sbagliato di morire. Il giorno sbagliato perché vorremmo protrarre la nostra vita e magari rimandare il momento di morire al millennio successivo.

È stato sempre detto di «dar fiducia alla morte». Cito adesso una delle affermazioni che provengono da tutte le culture in modo che possiamo francamente dire la nostra. In sostanza afferma che la morte è saggia e buona ed è piena di positività; il giorno è quello giusto perché non viene deciso da te; e il modo è quello giusto perché non viene deciso da te.

Il giorno e il modo della mia morte vengono decisi da Colui che più mi ama, o da Coloro che più mi amano, e mi amano più di quanto io stesso sia capace di amarmi.

Ci sono due Esseri principali – per ora ne cito soltanto due – che mi amano più di quanto io stesso possa amarmi e lo fanno soprattutto scegliendo quello che per me è il giorno migliore per morire, quello che mi porta più avanti nella mia evoluzione. E ognuno muore nell’ora migliore, se non ci mette il proprio arbitrio.

Chi sono questi due Esseri spirituali?

il mio Io superiore

• e l’Io dell’umanità.

Da sempre si parla di due anime, di due Esseri dentro ciascuno di noi: l’io dell’egoismo e l’Io dell’amore; l’io dell’ottenebramento e l’Io della saggezza. Oltre all’io ordinario, in ognuno di noi c’è un Io più saggio, sovraconscio: l’Io superconscio. Il primo Essere quindi è l’Io superiore; il secondo l’Io dell’umanità, cioè Colui che i cristiani chiamano il Cristo e i giudei il Messia.

A questo punto il discorso diventa più difficile. Psicologicamente è più facile introdurre la categoria dell’Io superiore in quanto ognuno di noi fa l’esperienza che dentro di lui ci sono due forze opposte: una che mi tira in giù, l’altra che mi porta incontro le ispirazioni più belle che ho. Ognuno, bene o male, può capire il concetto di Io superiore, perché lo vive. È molto più difficile, invece, concepire l’umanità intera quale organismo e che la nostra morte sia armonicamente inserita in esso.

Tutte le religioni affermano che l’intera umanità è un organismo e che la vita di ogni essere umano, compreso il momento e il modo di ogni morte, vi è inserita armonicamente secondo il contributo che quell’essere umano può portare.

Per questo motivo si parla di un Io dell’umanità o di uno Spirito dell’umanità. Qualcuno poi potrà chiedere: come fai tu a sapere che questo Spirito dell’umanità esiste? Se l’umanità è un organismo, una realtà unitaria, allora deve esserci uno Spirito dell’umanità che concerta, articola, organizza gli esseri umani in modo così sapiente da far sì che ogni individuo abbia un compito ben specifico nell’organismo vivente dell’umanità, esattamente come accade per tutti gli organi, per tutte le cellule, le molecole e gli atomi di un organismo. Il mio Io migliore e l’Io dell’umanità sanno quale compito devo svolgere in questa vita o, per esempio, ciò che io dovrò fare per l’umanità dopo la mia morte.

Siete del parere che nell’umanità si possano immettere forze, ispirazioni, pensieri, unicamente da vivi, o credete che lo si possa fare anche da morti? Permettetemi una riflessione che sembra strana in tempi di materialismo. Supponiamo che una persona abbia un compito da svolgere nell’umanità e per l’umanità, un compito che può svolgere soltanto dopo la morte. Supponiamo che questa persona abbia il compito importante di immettere nell’umanità ispirazioni e pensieri che si possono immettere soltanto se si è oltre la morte, cioè in uno stato di purificazione dell’egoismo e di oggettività di coscienza. Certi pensieri non si possono immettere nell’umanità quando si è intrisi di soggettività, come lo è ognuno di noi quando è dentro al corpo.

Cosa deve fare questa persona, se vuole veramente svolgere questo compito? Se il suo pensare parte da una sfera di oggettività e saggezza che guarda spassionatamente ai destini dell’umanità, questa persona dirà a se stessa: «È importantissimo che io lasci il mio corpo, che io muoia. Gli esseri umani materialisti diranno che non ci sono più, però io so che dopo la mia morte comincia veramente la missione più importante della mia vita. So che tutta la vita nel corpo è stata una preparazione a ciò che ho da immettere nell’umanità dopo la mia morte. Se una persona riceve da me un’ispirazione che, socialmente o religiosamente, cambia profondamente l’umanità in bene, e non sa che gli viene da me, che sono morto apposta per potergliela dare, quello è un problema suo. Lui non lo sa, ma io lo so! So che il senso della mia morte è compiere quest’attività e posso compierla soltanto a partire da una consapevolezza più vasta, più saggia e meno intrisa di egoismo e di soggettività: una consapevolezza che viene consentita soltanto quando si lasciano le strettoie imposte “dall’inabitare” un corpo fisico».

Nel decidere il giorno e l’ora della mia morte, il mio Io vero e l’Io di tutti gli uomini scelgono il meglio per me e per l’umanità. E non soltanto il giorno e il modo della mia morte sono i migliori per me e per l’umanità, ma lo è anche ciò che io, con la mia morte, causerò alle persone che mi sono vicine per destino, alle persone che mi sono care. Il loro dolore è un vissuto voluto ed è positivo. Se lo vivono in negativo è soltanto perché la coscienza è ottenebrata, ma se lo vedessero nella sua realtà, saprebbero che è previsto per il bene loro e dell’umanità.

È negativa la sofferenza che si prova quando muore una persona cara? Forse non c’è nulla di più positivo della sofferenza, perché da che mondo è mondo gli esseri umani crescono massimamente là dove massimamente soffrono. Questo non vuol dire che dobbiamo andare a cercare più sofferenza di quella che già c’è.

Il concetto di karma (destino) è che la vita, l’Io superiore, dà a ognuno la giusta misura di sofferenza, ma quello che più ci fa crescere è viverla con coraggio e con gratitudine.

Detto ciò, pongo la semplice domanda, per introdurre un po’ il tema di questa sera: che cos’è la morte?

Immagino che vi aspettiate una risposta da me, visto che sono arrivato addirittura dalla Germania per parlarne. La morte è nulla! Il nulla ci mette paura, però il nulla ce l’abbiamo in testa. La realtà della morte è la nostra paura, è un nostro vissuto psicologico. È la paura che venendo a mancare il corpo, venga a mancare tutto.

Chi ci ha messo in testa questa paura? Socrate, per esempio, la pensava all’opposto. Lui diceva che il corpo gli era d’impiccio. Ai giovani che lo attorniavano e gli dicevano: «Socrate aspetta, non berla la cicuta! Non vedi che siamo tutti qui a piangere?», rispondeva: «Ma siete matti! È da una vita che aspetto di lasciare questa prigione del corpo, e quando ne sarò fuori, allora sì che comincerò a vivere! Questa vita nel corpo non è neanche una mezza vita, è forse un terzo di vita!». Questi giovani pensavano che Socrate fosse pazzo perché facevano già parte di quell’umanità che cominciava a vivere in misura sempre maggiore la realtà del corpo, e per noi, duemilaquattrocento anni dopo, accade ancora di più.

Se togliamo alla psiche e alla nostra esperienza tutto ciò che dobbiamo all’interazione col corpo – percezioni sensibili, sensazioni, emozioni, il gusto del cibo, gli incontri –, cosa resta? Nulla. Quindi, la nostra paura è giustificata. A questo punto sorge una domanda fondamentale: è possibile che esista un modo di pensare, un modo di sentire, un modo di volere, che non dipenda in tutto e per tutto dal corpo?

Secondo la scienza moderna, i pensieri che una persona pensa sono prodotti dal cervello, proprio come la bile è prodotta dal fegato. Il cervello ha un tipo di geni e la composizione ereditaria dei geni fa sì che noi abbiamo determinati pensieri. Se i geni si fossero combinati in modo diverso avremmo altri pensieri. Quando i geni muoiono, allora muoiono anche tutti i pensieri.

Oggi siamo arrivati ai geni; nel passato c’era il genio – ne bastava uno –, adesso dentro ogni uomo ce ne sono addirittura milioni!

L’affermazione più micidiale sulla morte è: se di me c’è soltanto ciò che produce un cervello fisico, allora non c’è via di scampo. Il cervello fisico è perituro, prima o poi sparisce, anche se campasse centovent’anni, presto o tardi per fortuna sparisce (per fortuna per i giovani, perché il senso della morte è anche il far posto ai giovani).

Esiste soltanto un tipo di pensiero che viene causato dal sostrato fisico o è possibile un processo di pensiero sempre meno dipendente da ciò che è perituro in me?

Il fatto che uno scienziato o un altro essere umano affermi di conoscere solamente esperienze di pensiero o di spiritualità – chiamatele come volete – dovute al sostrato fisico, non dimostra che non sia possibile un altro tipo di esplicazione dello spirito. Senza voler dimostrare l’opposto – forse non è dimostrabile –, domando: è scientifico affermare che «non è possibile un tipo di pensiero non dipendente dal sostrato fisico?».

La paura dell’uomo d’oggi è fondata su questa impossibilità di vivere una vita spirituale, o di pensiero, indipendente dal cervello fisico. L’uomo sa con certezza che prima o poi il fisico cesserà di esistere, quindi si chiede quale sia il rapporto tra ciò che è di natura corporea – destinato a morire – con il vissuto del suo animo, con la sua vita di pensiero, con gli ideali e i valori per cui vive.

Per prima cosa accennerei al fatto che la morte è una realtà opposta per i vivi e per i morti. Prima di morire si vive la morte in modo opposto a come la si vive dopo. Vi chiederete come faccio a saperlo. Ve lo spiegherò domani, così avrete un motivo in più per tornare…

Per noi che siamo in vita, la morte è la paura dell’annientamento di sé.

• Per chi è morto e l’opposto: guardare indietro al momento della propria morte è riaccendere sempre di nuovo la coscienza di sé.

L’aver vissuto la morte, il poter guardare alla mia morte con gioia, con gratitudine, significa fare l’esperienza che come spirito sono stato capace di portare a morte tutto il corpo! Non mi sono procurato una semplice malattia che ne disgrega solo una parte, no!, ho distrutto l’intero corpo, per dimostrare che sono uno spirito capace di vivere senza corpo. E questo mi dà l’esperienza di essere un Io immortale. Non può essere altrimenti.

Come dicevo, il cosiddetto morto è più vivo di noi e pensa: «I vivi mi pensano morto, hanno paura della morte… per me invece è la prova, la dimostrazione metafisica che io vivo anche senza il corpo… e loro mi credono morto… i morti sono loro! Per fortuna non lo sanno, sennò sarebbero in troppi a volersi tuffare nell’eternità. Farei venir loro una gran voglia di scappar via dai tre quarti di morte in cui vivono ogni giorno!».

Lasciamo ora da parte per un momento le religioni e le culture, e prendiamo in considerazione l’esoterismo dell’umanità, gli iniziati. Da sempre, l’essenza dell’iniziazione è il fare l’esperienza della morte prima di morire. L’iniziazione è fare l’esperienza di vivere in un mondo spirituale indipendentemente dal corpo. Gli iniziati esoterici di tutte le culture – non soltanto di quella cristiana – affermano che per chi è morto, la morte è la prova assoluta della coscienza dell’Io.

Noi vivi abbiamo paura che la morte sia l’annientamento dell’io, chi è oltre la morte invece vive il suo morire (che è un’azione compiuta dal suo Io superiore) come dimostrazione di essere un Io: la sua coscienza si accende.

Già Aristotele diceva che la coscienza dell’Io si accende proprio guardando eternamente al momento, all’ora e al luogo della propria morte, perché distruggendo in senso positivo tutto il sostrato fisico della mia vita terrena, io ho vissuto, ho dimostrato a me stesso e a tutto il mondo di essere un Io eterno, uno spirito le cui sorti non dipendono da un pezzo di materia che sorge e si disgrega.

La morte non è una realtà oggettiva, è un fatto di coscienza. La morte è l’illusione di chi non sa che è l’occasione privilegiata per rinascere a tutti i livelli dell’essere. Oggettivamente la morte è il nulla. Soggettivamente, dentro alla coscienza umana, è una somma infinita di illusioni e un vissuto fortissimo di paura. Ma al di là di questo vissuto della coscienza umana ordinaria (che è molto importante per chi lo vive), oggettivamente, in quanto dato di natura, la morte è nulla.

Di fatto è un nuovo modo di comporsi di una somma infinita di atomi e di molecole, che durante la cosiddetta vita erano composti in un certo modo, e in ciò che io chiamo morte si compongono in un altro modo.

Ma che cosa è morto? Nulla! L’anima non può morire, lo spirito ancora meno, dunque la morte è nulla, oggettivamente nulla! È un fatto di coscienza: nella coscienza umana è enormemente rilevante, ma nell’oggettività del cosmo è un’illusione.

L’altra domanda che vorrei porre è: c’è sempre stata la morte? La risposta è no, è nata nel corso dell’evoluzione dell’umanità. Ci sono state epoche in cui la morte come fatto di coscienza non c’era. Cosa significa che prima non c’era? Significa che c’è stato un tempo in cui gli esseri umani erano connessi col mondo spirituale tanto da viverne le ispirazioni come una realtà (se partiamo dal presupposto che ogni spirito umano partecipa dall’inizio alla fine a tutta l’evoluzione dell’umanità, vediamo che si tratta sempre di noi stessi).

Per esempio, si avevano ricordi del vissuto pre-natale. Non c’è bisogno di tornare tanto indietro nel tempo per trovarne le testimonianze. Solo trecento, quattrocento anni prima di Cristo, Platone affermava che conoscere significa «ricordarsi ciò che già sapevamo prima di nascere». In altre parole parlava della preesistenza, perché diceva che lo spirito umano esiste in un mondo spirituale ancora prima di entrare nella materia.

E la materia, dall’umanità antica, non era vissuta come una realtà. Basti pensare all’assunto fondamentale della sapienza orientale: «Il mondo materiale è maya», cioè illusione (Ma-ha-a-ya significa la grande illusione). Tutta la sapienza orientale ci dice che il mondo materiale è un’illusione, mentre lo spirito è realtà.

A quei tempi, oltre a ricordare ciò che si era vissuto nei mondi spirituali prima di nascere, durante la vita c’era una connessione con questi mondi, c’era proprio un ricevere le ispirazioni, un comunicare con gli Angeli, con i morti, con tutti gli Esseri divini che possiamo immaginarci.

Che cos’era allora la morte? Il passare da una stanza all’altra, dalla stanza di questo mondo, alla stanza dell’altro mondo. Quando una persona lascia la stanza dove siamo e va in un’altra stanza, diciamo forse che è morta? No, è andata di là, e se la seguiamo possiamo vederla. Per l’umanità antica il mondo spirituale era una realtà e la morte non esisteva. Era come passare da una stanza all’altra, da un mondo all’altro, ma niente moriva dell’essere umano. Bastava “andare di là” per parlare con chi se n’era andato.

Il primo grande documento in cui la morte diventa una realtà per la psiche, per la coscienza umana, è l’epopea di Gilgamesh – la grande epopea dei babilonesi, degli assiri. In questa epopea, sorta circa tremila anni prima di Cristo, troviamo per la prima volta il problema della morte. Gilgamesh, a cui è morto il caro amico Enkidu, per la prima volta non è più capace di andare nella stanza di là e continuare a parlare con lui: il suo amico Enkidu è sparito. Nell’epopea di Gilgamesh c’è la soglia del divenire dove nasce la morte, cioè nasce quest’esperienza: quando di un essere umano sparisce la realtà fisica, non c’è più nulla.

Questo non sarebbe successo mille, duemila anni prima di Gilgamesh, perché se fosse morto un amico si sarebbe potuto conversare con lui, se ne sarebbero sentite le ispirazioni. Ci si sarebbe detti: «Prima parlavo con una persona che era nel corpo, adesso parlo con la stessa persona che si trova fuori dal corpo, ma non è cambiato nulla». L’esperienza della morte come sparizione è sorta nella misura in cui l’umanità si è identificata sempre di più con il mondo materiale.

L’undicesima tavola dell’epopea di Gilgamesh narra di Utnapishtim, il grande iniziato dei tempi precedenti il grande diluvio, i tempi dell’isola Atlantide di cui parla anche Platone. Gilgamesh va da questo grande iniziato per farsi raccontare i misteri della morte, ma non sa di essere la prima individualità umana diventata incapace di cogliere come reale ciò che non è incarnato, ciò che non si esprime attraverso un corpo fisico. E quindi anche questo tentativo di iniziazione non riesce, sortisce solo un mezzo effetto che poi gli svanisce quando torna a Uruk.[1]

Un’altra immagine possente del sorgere, del nascere della morte è l’immagine dei quattro cavalli contenuta nell’Apocalisse di Giovanni, l’ultimo libro della Bibbia ebraico-cristiana.

Il cavallo è un simbolo delle forze pensanti della coscienza, della conoscenza.

Pensiamo al cavallo di Troia: il popolo nano dei greci che, con un astuto stratagemma, vince il popolo gigante dei persiani. Nelle fiabe il nano vince il gigante con l’astuzia, perché il nano ha sale in testa, il gigante invece ha un grosso pezzo di materia, ma gli manca il sale in zucca. Davide è piccolo, ma ha pensieri giusti; Golia è grosso, è un enorme pezzo di materia, però la materia è peritura, mentre i pensieri (lo spirito) non lo sono.

Nell’Apocalisse si presentano quindi quattro cavalli: sono i quattro stadi della nascita della morte, il modo in cui l’esperienza della morte è nata nell’umanità.

Primo cavallo (bianco): prima esperienza di coscienza, ai primordi dell’umanità, quando i pensieri degli uomini erano intrisi di sapienza divina. Il pensiero umano pensava ciò che è spirituale;

secondo cavallo (rosso): c’è già un’interazione tra spirito e materia; rosso perché la coscienza umana non è più così bianca da cogliere la realtà dello spirituale ma comincia a vivere il rapporto tra ciò che è materiale e ciò che è spirituale.

Terzo cavallo (nero): è la coscienza umana che vede reale soltanto il mondo fisico. Ma c’è di peggio;

Quarto cavallo (incolore): è il pensare umano che ha perso anche la realtà del mondo fisico ed è divenuto pura astrazione. Su questo cavallo cavalca la morte. Un essere umano che nella sua coscienza, nei suoi pensieri, nella sua conoscenza, non ha più la realtà del mondo spirituale, né la realtà dell’interazione tra mondo spirituale e mondo materiale, e non ha nemmeno più la realtà del mondo materiale, ma soltanto astrazioni, che sono nulla, questo essere umano vive da morto.

Gli atteggiamenti della libertà umana di fronte alla morte – e dicevo che ognuno di noi ha la massima libertà nel prendere posizione di fronte alla morte – si possono riassumere in quattro prese di posizione fondamentali:

C’è chi la ignora, non ci pensa, ma prima o poi deve farci i conti. Chi ignora la morte, ignora tanto attorno a sé perché la morte c’è, si fa sentire; per ignorare la morte bisogna mettere da parte tanto dell’umano.

• In secondo luogo c’è chi la respinge. Non soltanto la ignora, ma la rifiuta, la vede tutta negativa e si riempie lui stesso di negatività e di aggressività, perché la morte c’è ed è dappertutto.

• Terza presa di posizione: c’è chi si rassegna di fronte alla morte e la tollera. L’accetta a denti stretti, la vive come un fato, un’imposizione. Questo è un vivere da rassegnati, perché subire la morte significa subire un mondo dove vige la legge del più forte. Potremmo aggiungere che chi si rassegna di fronte alla morte si pone in un atteggiamento maggiormente depressivo, mentre chi la rifiuta si pone in un atteggiamento in maggior misura aggressivo.

• Il quarto modo fondamentale di porsi di fronte alla morte è di amarla, essere grati, riconoscenti, per ogni occasione di morte perché si sa che è il luogo privilegiato per trasformare ogni morte in vita.

Per ora lo accenno soltanto (domani e dopodomani lo vedremo meglio): il conforto più convincente che possiamo trovare nei confronti della morte è una conoscenza oggettiva di ciò che avviene nei mondi invisibili, soprattutto dopo la morte.

Per i due piccoli esempi che seguono, come per la maggior parte delle cose positive che dico sulla morte, attingerò in modo particolare dalla scienza dello spirito di Rudolf Steiner. I concetti che verranno detti sono contributi offerti al pensiero di ognuno, e qui ci prendiamo la libertà di parlarne apertamente.

Vivere con i morti significa prima di tutto conoscere oggettivamente i mondi in cui i morti vivono, e poi conoscere oggettivamente le esperienze che fanno oltre la soglia della morte. Ecco due esempi concreti di contributi della scienza dello spirito.

Il primo riguarda Raffaello Santi, il grande pittore, che perde il padre a undici anni. L’arte di Raffaello ha avuto, ha tuttora e avrà sull’umanità un influsso enorme: pensiamo a cosa hanno vissuto tanti esseri umani meditando, guardando, contemplando i quadri di questo grande artista.

Rudolf Steiner racconta che uno dei motivi fondamentali per cui Raffaello perse il padre quando era ancora undicenne, è che questo padre, che era anch’egli un pittore, dopo la morte ha avuto la possibilità di ispirare in modo decisivo tutta l’opera d’arte del figlio, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse rimasto in vita. Chi conosce Rudolf Steiner sa che non inventava nulla e descriveva soltanto cose osservate e percepite nei mondi spirituali; in altre parole, Steiner ci dice che non avremmo l’opera di Raffaello – o non l’avremmo in questa profonda fecondità per l’umanità – se non ci fosse stato il sacrificio conscio dell’Io superiore di suo padre, che ha scelto di morire in quel giorno e in quel modo.

Certamente questo non sarà l’unico significato di questa morte, ma uno dei motivi per cui Raffaello ha perso il papà da bambino, è che solo un padre oltre la soglia della morte avrebbe potuto dargli le ispirazioni che magari ha ricevuto nell’inconscio (subconscio, se preferite), e che gli hanno permesso di diventare il pittore che è diventato.

Da questo punto di vista, il perdere il padre in tenera età acquista un tutt’altro significato. Ma questa prospettiva presuppone che si conosca l’oggettività dell’operare del padre di Raffaello. Un operare reso possibile soltanto dall’aver lasciato le strettoie del corpo fisico, che costringono anche a una somma infinita di egoismo o di chiusura della coscienza.

Il secondo esempio è quello di una morte improvvisa, violenta, per incidente: una morte causata da fattori esterni. Uno dei significati più importanti di questo tipo di morte è che rafforza per natura, in un modo straordinario, la coscienza dell’io. Possiamo quindi partire dal presupposto che alcuni Io superiori scelgono liberamente una morte violenta proprio per rafforzare la coscienza dell’io: così facendo favoriscono il compimento di una missione, di un compito da svolgere nell’umanità – forse in vista di un contributo da dare all’umanità in tempi successivi.

Dibattito

Intervento: Mi sembra che lei abbia evidenziato che la paura della morte è negativa. Ma, a un aspetto negativo si contrappone in genere un aspetto positivo: non ritiene che la paura della morte sia la chiave di volta per l’evoluzione dell’umanità? Intendo dire questo: quando l’uomo aveva una conoscenza atavica, non aveva bisogno di religione e non aveva neanche paura della morte, ma individualmente non era assolutamente libero. Forse per diventare liberi individualmente si deve passare dalla paura della morte, perché senza questa ci sarebbe un rallentamento dell’evoluzione dell’umanità. È d’accordo?

Archiati: Qualcuno vuole “ricamare” su questa domanda prima che io intervenga?

Intervento: Io avevo proprio preparato una domanda simile: perché questo mistero? Perché noi non sappiamo? Forse perché se sapessimo tutto quello che avviene dopo la morte e conoscessimo i mondi spirituali, non saremmo più liberi di scegliere di fronte al bene e al male. Forse perché dobbiamo conquistare una forma di libertà? Perché questo mistero? Perché non sapere, che è tanto angoscioso per noi?

Archiati: Di fronte a domande così fondamentali dovrei tenere un’altra conferenza, quindi sono costretto a sintetizzare, e la risposta potrà suonare un po’ oracolare. Lascio al “pensatoio” di ognuno sviluppare ciò che dirò.

La paura della morte è la conseguenza necessaria di un oscuramento di coscienza che vede reale solo il mondo sensibile, e non conosce il cosiddetto mondo spirituale. Questo oscuramento di coscienza è stato chiamato dalle religioni – quella cristiana per esempio – la caduta dell’umanità, ed è un fenomeno complessissimo che abbraccia tanti millenni (i cavalli dell’Apocalisse rappresentano i diversi gradi della caduta, dell’oscuramento della coscienza umana: il primo cavallo è bianco, poi rosso, nero e infine grigio). Ma ora domandiamoci se tutto questo, con l’inevitabile paura che ne consegue, sia un bene o un male. Non è né l’uno né l’altro! La caduta è una necessità evolutiva, è il presupposto perché ci sia l’evoluzione. Ciò che è necessario per l’evoluzione non è né buono né cattivo: è necessario.

La categoria metafisica del necessario è pre-morale, non è né buona né cattiva: è il modo con cui la libertà umana la afferra e la vive, che potrà essere buono o non buono per l’essere umano. La paura della morte non si può vincere in pochi giorni, perché per vincere ogni frammento di paura della morte sarà necessario tutto il resto dell’evoluzione, che abbraccia millenni. La paura della morte non è moralmente né bene né male: è inevitabile, necessaria.

Intervento: Lei ha detto prima, a proposito del suicidio, che decidere la data della propria morte è un segno di grande libertà, cioè chi mette in atto il suicidio è una persona che si sente molto libera dentro, o meglio, che anela a una libertà… non so se ho capito bene. Vorrei che precisasse cosa intende. Ho anche una seconda domanda: mentre nel cattolicesimo e in molte religioni il suicidio è condannato come un fatto molto negativo – si dice che nell’aldilà questi suicidi saranno puniti per questo loro atto di presunzione – mi è sembrato di capire che invece lei dicesse che non è tutto così, non è tutto come appare…

Archiati: Affronteremo domani questo problema del suicidio, perché è veramente molto complesso. Se lei non ha la pazienza di aspettare fino a domani c’è un libricino[2] su Giuda, il grande suicida, in cui Giuda dice al Padreterno: «La vita mi era diventata insopportabile, e allora me la sono tolta». Supponiamo che adesso, dopo la morte, Giuda si renda conto di aver fatto un grosso sbaglio! Ma lo vede soltanto dopo… e allora si rivolge al Padreterno: «Sei così tirchio da non darmi neanche una seconda possibilità? Non sei forse tu il Dio dell’Amore?».

Il suicidio è la fatica che l’uomo fa ad accettare il morire quotidiano. Il morire quotidiano diventa insopportabile perché la vita è diventata troppo vuota. Nella fase del materialismo il senso della vita è diventato così sottile che tante persone non hanno più la voglia di vivere e scelgono di porre fine, col suicidio, al dolore insostenibile di una vita insensata. Dopo la morte però il suicida fa una scoperta: «Ma guarda, la vita riceve senso soltanto nella misura in cui tu glielo dai!». La vita dell’umanità d’oggi ha perso il senso proprio per darci la possibilità di darglielo noi, il senso.

Intervento: Durante l’esposizione lei ha fatto un’affermazione un po’ forte: la morte è nulla. Ma di solito la morte è l’opposto della vita, dunque, se la morte è nulla, che cos’è la vita? Se poi ci sono due Esseri in particolare (l’Io superiore e l’Io dell’umanità) che decidono il momento della morte, significa che essi sanno qualcosa che l’io ordinario non sa, e quindi che la vita ha un compito. Come si fa ad avere coscienza della vita e a sapere qual è il compito da svolgere, in modo da rendere un po’ più semplice il lavoro dell’Io superiore e dell’Io dell’umanità?

Archiati: Quello che intendevo dire è che noi viviamo sempre, quindi c’è un modo di vivere che noi chiamiamo vita e c’è un altro modo di vivere che noi chiamiamo morte. Ma non esiste mai un momento in cui noi non viviamo. Noi per morte intendiamo il terminare di vivere, e questo non esiste. Ecco il nulla! Non esiste. È un’illusione pensare che una persona quando lascia il corpo fisico termini di vivere. Vive ancora meglio! Ho affermato che la morte è nulla per provocazione, nel senso che è un’invenzione delle nostre menti “bacate”.

Intervento: Quindi non esiste nemmeno la nascita.

Archiati: Questo sarà il tema della conferenza di domani sera: se siamo immortali allora siamo anche “innatali”…

Intervento: Visto che l’Io superiore e l’Io dell’umanità decidono il momento in cui è giusto che una persona muoia, come faccio a far sì che l’Io superiore e l’Io dell’umanità compiano in maniera giusta il destino? Voglio dire, se durante la vita della persona c’è un percorso, c’è un compito da realizzare, come faccio a sapere qual è?

Archiati: Sono domande molto grosse. Faccio un piccolo accenno: per sapere cosa pensa, cosa vuole il mio Io superiore – ciò che i cristiani chiamano il Cristo –, basta che io ponga attenzione a ciò che mi capita. Nella mia vita ci sono cose che io voglio, ma anche cose che mi capitano. Ciò che voglio lo gestisco con l’arbitrio della coscienza ordinaria, mentre ciò che mi capita non lo gestisco io. Senza essere dogmatici, ma lavorandoci su con il pensare, possiamo affermare che ciò che mi capita è molto più saggio, ed è sempre il meglio per me, perché viene scelto e deciso da una coscienza più saggia, più amante, più vasta di quella dell’io ordinario. Essere d’accordo con l’Io superiore significa essere sempre d’accordo con ciò che mi capita. Di meglio non si può.

Intervento: Volevo estendere questa domanda, rifacendomi ai cosiddetti effetti collaterali della guerra in corso che ha citato durante la conferenza. Se l’Io superiore e l’Io dell’umanità conoscono il miglior percorso per tutti noi e permettono che migliaia di esseri umani vengano uccisi nelle guerre, significa allora che fanno bene?

Archiati: È una domanda importante: riduciamola a una situazione più semplice. Due persone vivono insieme: il signor A dice al signor B: «Io sono quello che ti capita». Lei ha fatto un sillogismo aristotelico: siccome ciò che ti capita è sempre la cosa migliore per te, io che faccio parte di ciò che ti capita sono sempre la cosa migliore per te… È così? Funziona il sillogismo? Oppure c’è uno sbaglio?

Intervento: A dice questo con la sua coscienza ordinaria; in realtà quello che capita fa parte, deriva, dall’Io superiore e dall’Io dell’umanità. Secondo questa logica A è solo lo strumento di quello che accade a B.

Archiati: Però quello che fa A per B è sempre il meglio per B

Intervento: Secondo quella logica sì: quando A diventa lo strumento di ciò che accade a B, che è il meglio per B.

Archiati: Attenzione, ora faccio una complicazione del sillogismo aristotelico. Mettiamo che A sia un arciegoista; il fatto che B sia esposto a questo egoismo fa parte del karma di B, e gli sta bene. Perché se per B non fosse una buona cosa, un’occasione di crescita, non gli capiterebbe. Il fatto che questo egoismo possa essere un fattore evolutivo per B non significa che A faccia bene a essere egoista – questa è un’altra questione. In altre parole, abbiamo a che fare con una sapienza evolutiva che ha la forza di trasformare in bene anche il male. Se tu mi tratti da arciegoista è un problema tuo, non mio! Si potrebbe obiettare che A è uno sfruttatore. Allora basta che io mi goda il fatto che mi sta sfruttando!

Intervento: Ma quando si parla di guerra, si parla del momento della morte di alcuni individui e di quel momento supremo che secondo questa logica è stabilito sia dall’Io superiore, sia dall’Io dell’umanità, e che perciò non è accidentale…

Archiati: Sì, però l’Io superiore e l’Io dell’umanità hanno sempre a che fare con l’arbitrio intriso di egoismo dell’io inferiore. Duemila anni fa è avvenuto il fenomeno archetipico dell’umano (non sto parlando del cristianesimo tradizionale, ma dell’essenza del fenomeno di duemila anni fa). L’uccisione della persona migliore che c’era… è stato un bene o un male?

Intervento: … un bene! Ne parlano da duemila anni.

Archiati: È stato inevitabile, necessario! È importante vedere che il bene e il male morale subentrano soltanto dove c’è la libertà. Dove non c’è la libertà siamo nella sfera del pre-morale. La coscienza dell’umanità era a un punto di oscuramento tale che è stato inevitabile che Lui venisse messo a morte. Ma Lui, di questa morte, cosa ne ha fatto? S’è arrabbiato? Ha ricambiato picchiando qualcuno?

Intervento: L’ha trasformata.

Archiati: E come? Che significa «l’ha trasformata»?

Intervento: L’ha trasformata in bene.

Archiati: E che significa «l’ha trasformata in bene»?

Intervento: Ha dimostrato che la morte non esiste.

Archiati: Ah, questo mi piace un po’ di più: ha dimostrato che la morte è nulla. Però quest’affermazione non basta ancora, qualcuno può dire: «Questo a me non dice niente». Cerchiamo di articolare un pochino il discorso, concentriamoci su ciò che ha fatto.

Intervento: È risorto.

Archiati: «È risorto» non mi dice nulla qui in Italia. Se fossi in Germania, magari mi direbbe qualcosa, ma qui, dove per secoli ci hanno costretti a essere cristiani, la parola risurrezione è solo aria fritta. È una faccenda psicologica, mi metto nei panni di tanta gente di qui, non credo di sbagliarmi (molti del pubblico in sala approvano). La categoria risurrezione va tradotta, altrimenti non si capisce. «Ha redento l’umanità», che vuol dire?, non mi dice nulla!

Intervento: Ha seminato l’amore nell’umanità.

Archiati: E che amore è? Le mie risposte servono per farci vedere che siamo agli inizi di un certo livello di coltivazione di coscienza. Abbiamo soltanto frasi fatte, abbiamo soltanto slogan. Ora vi chiedo di articolare minimamente il pensiero: che cosa significa redenzione?

Intervento: Secondo me la vita e la morte sono in mano all’uomo molto più di quanto sostenga lei, nel senso che oggi come oggi abbiamo mille mezzi e ognuno può essere padrone di togliersi la vita. Personalmente non mi riconosco in questa sua idea che ci sia qualcuno che decida per noi…

Archiati: Lei sa quanto dura la sua vita?

Intervento: No, ma posso influire sicuramente, in maniera decisiva, sul momento in cui morirò. Secondo me questa consapevolezza l’abbiamo, anche se potrebbe trattarsi di presunzione…

Archiati: Ho una proposta: tutti i problemi che non sono stati risolti questa sera verranno risolti domani o al massimo dopodomani. Intanto auguro una buona notte a tutti!

Seconda conferenza

Come vivono i morti?

Il dopo morte passo dopo passo

Roma, 3 maggio 2003

Cari amici,

questa mattina dedicheremo i nostri pensieri a come vivono i morti. Questo enunciato iniziale è già un paradosso, perché noi li chiamiamo morti, e li consideriamo tali mentre io vi racconterò come i morti vivono. Nel programma del convegno ho promesso addirittura che avrei descritto il dopo-morte passo dopo passo, e qualcuno vuol sapere se ascolteremo voci registrate di trapassati…

Riprendo il filo da alcune riflessioni iniziate ieri sul grande mistero del suicidio, sulla decisione di porre termine alla propria vita. Nessuno di noi sa cosa sperimenta chi si è tolto la vita, perché è un’esperienza che noi non abbiamo fatto.

Il suicidio però, ha un risvolto quotidiano, ed è proprio questo l’aspetto che m’interessa: i pensieri di suicidio. Molte persone, durante l’esistenza, hanno avuto il pensiero di togliersi la vita: inchieste condotte in vari Paesi hanno scoperto che il numero delle persone che pensano di suicidarsi, senza però arrivare a farlo, è molto alto.

A molti, anche in gioventù, più di una volta frulla per la testa il pensiero che sarebbe meglio andarsene all’altro mondo: «Questa vita è così brutta, così pesante, così tetra, così misera!». Visto che qui le cose vanno così male, e non sapendo nulla dell’altro mondo, si pensa che di là tutto andrà meglio. Poi però non si arriva a compiere l’atto del suicidarsi: per togliersi veramente la vita ce ne vogliono, di decisioni e di forze!

Questo risvolto quotidiano del suicidio, questo suicidio latente, è da ricondurre alla mancanza della voglia di vivere. Ma perché oggi molte persone non hanno voglia di vivere più di tanto? Per chi vuole affrontare concretamente il mistero della morte, questa è una domanda molto importante.

La cosa più bella della vita, ciò che rende più vivaci, più viventi, è proprio la voglia di vivere. Il presupposto, però, è che la vita venga vissuta come qualcosa di bello, pieno di significato, pieno di conquiste, con tante mete da raggiungere.

Potremmo chiederci: come mai tante persone oggi vivono così, alla giornata, senza una particolare voglia di vivere? Il non aver voglia di vivere più di tanto è una cosa bella, perché se la voglia di vivere mi viene spontaneamente, se mi viene data per natura, non ho la possibilità di conquistarmela io liberamente, individualmente. È un fatto naturale, come per il cagnolino, o il gattino, che hanno voglia di vivere perché la ricevono dalla natura, non ci possono far nulla.

A un’umanità che si fortifica, a un’umanità più matura, come la nostra – per umanità intendo ognuno di noi, ogni singolo – il senso della vita non viene dato già in partenza, per grazia ricevuta, proprio perché oggi abbiamo la capacità di conquistarcelo da soli. Quindi è una gran bella cosa non aver voglia di vivere, perché così ho la possibilità di farmela venire.

L’essere umano è libero proprio perché diventa maturo (più diventa maturo più ha forze proprie) e, man mano che evolve, la natura gli tira via quella voglia di vivere spontanea, affinché la conquisti da sè, giorno per giorno, a modo suo.

Quindi, ripeto: meglio dell’aver voglia di vivere è il conquistarsi giorno per giorno la gioia di vivere.

Una voglia di vivere conquistata è più forte, più micidiale, molto più irresistibile. Una persona che si conquista ogni giorno la voglia di vivere perché riconquista i valori dell’esistenza e fa propri gli ideali, non la ferma nessuno.

Ma questa conquista si può anche omettere. Il suicidio quotidiano – la mancanza della voglia di vivere, il vuoto esistenziale – è un’omissione della libertà. Se una persona non ha voglia di vivere è perché ha omesso qualcosa, qualcosa che era libero di creare o di non creare. In altre parole, più l’umanità va avanti e più la voglia di vivere sarà una conquista della libertà dell’individuo.

Parlo di aver voglia di vivere per evitare ogni moralismo, perché la predica sul dovere l’abbiamo sentita nel cristianesimo tradizionale da almeno duemila anni, e i risultati sono miserelli. Dire a un uomo: tu devi, non funziona. L’essere umano non è stato creato per dovere qualcosa. Il valore morale più alto non è il dovere, è la gioia. Sento la gioia, però, soltanto facendo l’esperienza del mio essere. Tutto sta nel capire sempre meglio come si fa a sperimentare la pienezza dell’umano, perché è lì che sento la gioia.

Il valore morale supremo non è dunque un comandamento, né un dovere, e nemmeno una sottomissione: il valore supremo è l’uomo. Può esistere un valore morale più grande dell’uomo? Non mi riferisco all’uomo decurtato, a un mezzo o a un terzo d’uomo, ma all’uomo nella sua pienezza, nella pienezza di ciò che può vivere nel suo pensiero, nel suo cuore, nelle sue azioni, nel suo modo di interagire non soltanto con gli altri esseri umani, ma con la natura e con tutti gli esseri attorno a lui.

Questa mattina ci sforzeremo di riconquistare alcuni concetti non soltanto a partire da quanto ci è stato tramandato, ma dalla nostra libertà individuale, dalla nostra capacità di pensiero, di amore… Quando parlo del pensiero non intendo mai un pensiero avulso dal cuore, perché il pensiero vero, quello che rende felice l’essere umano, è un pensiero intriso di gioia, intriso di forze del cuore.

I peccati originali dell’essere umano sono due: una mente che perde di vista il cuore, e un cuore senza la mente.

Nella lingua italiana c’è questa bella espressione, si dice: «Peccato!» con un bel punto esclamativo, quando avevo un’occasione e l’ho persa, avrei potuto farmi una bella mangiata, incontrare una persona, oppure sono arrivato in ritardo e ho perso un’occasione. Peccato! Non è successo! I peccati veri sono i colpi persi nella vita, altri peccati non esistono.

Oggi cercheremo di capire come si fa a vivere perdendo sempre meno colpi, perché così la vita diventa più interessante, e più è interessante, più è bella.

La testa perde colpi quando scopriamo, pensiamo, intuiamo meno di quanto si potrebbe intuire. Allora diciamo: «Peccato! Se l’avessi capito prima! Non ci ho pensato!». Datti da fare: coltiva il tuo pensiero. Dove sta il peccato, se non coltivo la mia testa, il mio pensiero? Nel fatto che altri penseranno al posto mio. Se faccio pensare gli altri al posto mio sono abbindolabile su tutta la linea. Questo è il peccato: sono manipolabile, sono esposto. Non mi faccio abbindolare, non mi faccio strumentalizzare soltanto se penso con la mia testa, se mi faccio idee mie, se scelgo ciò che mi sta bene e ciò che non mi sta bene. Questa presa di posizione presuppone però una mente mia. Pensiero e intuizione del cuore devono andare insieme, per perdere meno colpi possibili nella testa e nel cuore.

Parlavo dei due grandi peccati: uno è la mente che pensa, pensa, pensa, e perde di vista il cuore; e l’altro è un cuore che va in brodo di giuggiole, che piange, che ride, ma senza un minimo di comprendonio…

Sembrano verità lapalissiane, ma non ci rendiamo conto delle conseguenze enormi che hanno nella vita.

Evitare il peccato significa coltivare tutte e due queste dimensioni dell’umano: rendere il pensiero sempre più caldo, sempre più amante, sempre più intuitivo; e rendere il cuore sempre più luminoso, sempre più saggio. Non amare a vanvera, ma amare a ragion veduta.

Torniamo ora a quello che ho da dire sul dopo-morte: cosa vivono i morti? Supponiamo che io sappia tutto ciò che avviene dopo la morte e che stia parlando a gente che non lo sa.

Ieri abbiamo anticipato un pensiero fondamentale: la paura della morte, per noi gente comune, benpensante (non mi sto rivolgendo a degli iniziati), consiste nell’ignorare del tutto il mondo invisibile e conoscere soltanto quello visibile, che è la nostra unica realtà. Dunque, quando una persona muore, per noi sparisce: questo è il punto di partenza. La paura della morte dipende dal fatto che secolo per secolo, millennio per millennio, la coscienza umana si è sentita sempre più a casa nel visibile (ciò che vedo, ciò che sento, ciò che tocco, ciò che mangio e via dicendo), perché lo spirituale, innanzi tutto, non sappiamo nemmeno se esiste; e, in secondo luogo, ci chiediamo perché dovrebbe interessarci, dal momento che non possiamo mangiarlo, né toccarlo, né altro.

Vorrei partire dall’affermazione fondamentale della cultura cristiana, – che bene o male è la nostra. Mi scuso fin da ora con voi, se userò qualche parola che potrà urtarvi, perché, nonostante il nostro linguaggio sia del tutto intriso dal cosiddetto cristianesimo, in Italia, per via della sua storia, ci si deve scusare quando ci si riferisce ad esso. In Germania quest’esigenza non c’è.

L’affermazione fondamentale del cristianesimo è che duemila anni fa è avvenuto il fenomeno archetipico dell’umano.

I due millenni passati, in fondo, sono stati come un primo inizio, una sorta di cristianesimo infantile, un cristianesimo della fede e del cuore. Ovviamente non sto parlando di noi, ma delle generazioni passate, che vivevano un cristianesimo dove il cuore era molto presente: se penso alla mia mamma, di lei posso dire che era ancora un cuore cristiano. In questo cristianesimo del cuore (si chiamava cristianesimo della fede) la mente ancora non c’era, cioè non c’era la capacità di recuperare in chiave di pensiero, di interpretazione pensante, il fenomeno archetipico dell’umano.

Oggi, almeno qui in Italia, la disaffezione nei confronti del cristianesimo è diventata così forte che ci ritroviamo ad avere due sole possibilità: o recuperiamo il cristianesimo in chiave pulita, di conoscenza, di interpretazione pensante, oppure rischiamo di perderlo del tutto.

Uno degli aspetti fondamentali di questo fenomeno archetipico dell’umano, così centrale nel cristianesimo, è che la morte viene presentata come una spada a doppio taglio. Per rendercene conto attingeremo ai testi tradizionali che ognuno può leggere, ma vi dirò anche qualcosa di nuovo, cose che non troverete tali e quali nei testi.

Nel Vangelo di Matteo e di Marco c’è un’affermazione archetipica sulla morte dell’essere umano. Infatti, colui che chiamiamo il Cristo è l’Essere Umano per eccellenza, e su questo punto vi dico di lasciar perdere tutte le disquisizioni dei teologi, tutti i dogmi più o meno intelligenti, e partire dall’assunto fondamentale che il Cristo è l’Essere Umano per eccellenza che è in tutti noi. Se così non fosse, non c’interesserebbe, né ci riguarderebbe. Essere cristiani è più che essere umani? Direi di no: ognuno di noi può essere meno che umano, ma nessuno di noi può essere più che umano. Più dell’umano, meglio dell’umano, non c’è! Perché l’umano è la potenzialità assoluta a diventare sempre più divini, sempre più creatori, sempre più fantasiosi a tutti i livelli della vita.

Il Cristo, l’archetipo dell’umano, vive la morte citando le Scritture del giudaismo come preparazione al fenomeno umano. Studiando i vari manoscritti di Matteo e di Marco, troverete che il Cristo, morendo sulla croce, cita la Scrittura, in ebraico naturalmente, e dice: «Elì, Elì, lamà sciavachtanì?».[3] Viene trascritto con lettere greche, però la dicitura è ebraica e si rifà ai Salmi (21,1), si rifà addirittura a processi di iniziazione. In altri manoscritti, invece, ci sono due lettere diverse, soltanto due, ma la differenza è enorme: «Elì, Elì, lamà asaftanì» (ygiTbzx hM;L; yliae yliae).

Nel primo caso sciavachtanì significa innalzare, glorificare, portare in alto, nel secondo, asaftanì significa abbandonare. Ci ho studiato sopra e ho scoperto che esistono centinaia di manoscritti. Alcuni traducono, traslitterano in greco asaftanì, altri sciavachtanì. Ma il Cristo, morendo sulla croce, ha detto: «Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?»; oppure: «Quanto mi hai esaltato!»?

La morte è paura dell’abbandono oppure è esaltare, innalzare? L’esperienza della morte è duplice: per l’essere umano che noi conosciamo è un’esperienza di paura, di solitudine, di abbandono, un venir lasciati soli. Ma nello stesso tempo, nel momento in cui veramente si muore, in cui l’insieme delle forze vitali – che Rudolf Steiner chiama il corpo eterico – lascia il corpo fisico, c’è veramente un assurgere, un innalzarsi. Finalmente tutte le forze vitali, impregnate della memoria di tutta la vita (nel corpo eterico infatti ci sono tutte le percezioni, tutti i pensieri, tutte le sensazioni di un’intera vita), vengono liberate dal compito di strutturare e mantenere vivo il corpo fisico.

Il Cristo, l’essere umano per eccellenza, fa l’esperienza della morte come spada a doppio taglio dell’evoluzione, e lo fa in modo archetipico per tutti noi.

Nella misura in cui ognuno si è identificato in tutto e per tutto con ciò che è materiale, fisico, perituro – fa parte della nostra libertà – farà nella morte l’esperienza di venire abbandonato, di essere lasciato. E l’Essere dell’amore non poteva amare l’umanità se non facendo Lui stesso l’esperienza di aver vissuto soltanto ciò che è fisico, di non conoscere la realtà dell’animico, del vitale che si innalza e si espande nei recessi infiniti dell’universo – e quindi l’esperienza di essere soli, di sentirsi abbandonati, la paura di cadere nel nulla. Senza l’esperienza della paura di cadere nel nulla, la morte non è umana abbastanza. Però quest’esperienza è soltanto un lato della medaglia: la morte, come abbiamo detto, è una spada a doppio taglio.

Nella misura in cui l’essere umano, oltre a vivere ciò che è perituro – e questo nessuno lo può evitare – si è dato da fare liberamente per conquistarsi qualcosa che non può morire con il morire fisico, vivrà anche l’altro lato della morte. L’altro lato di questa spada a doppio taglio è che il corpo fisico viene abbandonato, viene lasciato, mentre il corpo eterico – tutte le forze vitali, tutti i pensieri, tutte le percezioni, tutto il pensato e anche il vissuto – compare.

Steiner descrive molte volte il comparire di questo quadro poderoso e immane di tutta la vita. Forse avrete letto autori come Kübler Ross[4], Raymond Moody[5], che si sono occupati dei misteri della morte: raccontano descrizioni, esperienze di quasi morte, da cui poi si è ritornati. Oppure avrete sentito di persone che stavano per annegare, o che sono precipitate giù da un crepaccio, e che descrivono di aver visto, in questo shock vicino alla morte, come un film velocissimo della vita. In pochi secondi hanno visto tutta la loro vita.

Ecco il primo grande passo del dopo-morte: da morto, per tre o quattro giorni vivo in questo poderoso quadro di tutta la mia vita in immagini. Il tempo degli eventi vissuti uno dopo l’altro si trasforma in spazio. Adesso vedo ciò che la memoria quand’ero in vita mi faceva ricordare, mi faceva riportare al cuore (questo significa ri-cor-dare): ora però ciò che ho vissuto dieci anni fa è soltanto un pochino più lontano, e quel che ho vissuto undici anni fa è ancora un po’ più lontano, ma lo vedo contemporaneamente. La vita estesa nel tempo, la vita delle cose una dopo l’altra diventa un panorama simultaneo.

La prima esperienza del morto, per due o tre giorni, è la simultaneità della sua vita vissuta nel tempo. È una cosa straordinaria avere questo panorama, questo sguardo d’insieme! Quest’esperienza dura circa tre giorni e mezzo, tanto quanto ognuno di noi riuscirebbe a restare sveglio, a non piombare addormentato. Proprio per questo nell’umanità c’è l’usanza di aspettare tre giorni e mezzo prima della sepoltura, in modo da accompagnare la persona apparentemente morta – che in realtà ha soltanto lasciato il corpo fisico – mentre vive questo esaltare, questo innalzare, questo espandersi.

Il microcosmo del mondo eterico diventa macrocosmo, e l’essere umano fa confluire il portato della sua esistenza terrena dentro il cosmo dell’umanità, dentro il cosmo della natura, dentro il cosmo di tutti gli Esseri spirituali. Tutte le Gerarchie spirituali, tutti gli animali – le loro anime di gruppo – stanno lì a guardare quale dono, quale grande regalo immette nel cosmo l’esistenza di questa persona. L’esistenza di un essere umano, in uno sguardo d’insieme, appare come una scena in cui sono squadernati tutti i suoi doni, quelli belli come quelli meno belli. Non se ne può nascondere nessuno.

Rudolf Steiner descrive come nei primi giorni dopo la morte ci sia un salto di coscienza tale, che l’essere umano ne è abbagliato. In quella condizione non si ha il problema di una coscienza ottenebrata, bensì ci si deve orientare, perché la luce riflessa delle immagini poderose di tutta la nostra vita è una luce abbagliante. Per dirlo con un’immagine, è come se guardassimo a occhio nudo la luce diretta del Sole.

La lotta interiore dei primi giorni del morto è abituarsi a questa luce così abbagliante, in modo da poterla sostenere.

Quindi il primo problema del morto non è la troppo poca coscienza, ma la troppa luce: deve abituare i suoi occhi a questo enorme salto qualitativo nella capacità pensante, interpretativa e conoscitiva, di penetrare il significato cosmico di tutta una vita. Pensiamo bene alla differenza che c’è tra il dare alla nostra coscienza, poveretta, la possibilità di assimilare la vita a centellini, un giorno dopo l’altro, una cosa dopo l’altra, come facciamo nella vita di tutti i giorni; e il darle il vissuto tutto insieme, come accade nel dopo-morte.

Quando ci muore una persona cara, è bello sapere cosa vive nei primi giorni dopo la morte. Accompagnarla è bellissimo: «Guarda, ti aiuto io. Tu adesso sei stordito, ti aiuto a orientarti. Ti ricordi dieci anni fa? Ti ricordi l’anno scorso? Ti ricordi vent’anni fa? Ti aiuto io, ti do dei punti di riferimento in modo che i tuoi occhi comincino a sopportare questa luce che ti abbacina».

Qual è il grande punto di orientamento, fondamentale per non perdersi del tutto in questa luce? È il guardare alla propria morte, lo dicevo già ieri. Là c’è il corpus mortuum, il corpo fisico lasciato, il cadavere – e non importa se gli atomi di materia sono stati inumati oppure bruciati. No, questo non importa. Il morto guarda al morire non tanto come a una vicenda della materia, perché non gli interessa. Interessa alle forze della Terra, il modo in cui gli esseri elementari si avvalgono delle forze del fantoma[6] del corpo fisico. Lui guarda alla sua morte come al vissuto, pensa che aveva avuto paura di sparire con la morte, paura che finisse tutto, e si dice: «Adesso mi trovo qui, a essere molto più di prima».

Chi avrebbe mai pensato alla morte come a una spada a doppio taglio, dove il senso del morire è un rivivere incredibile?

Chi avrebbe mai pensato che morire fosse un rivivere centuplicato? Ritornare sempre, con lo sguardo dell’anima, all’esperienza della propria morte crea la coscienza dell’Io: ecco il primo grande orientamento dopo la morte. In questa prospettiva sgorga dall’anima la gratitudine, la gioia infinita di aver potuto nascere per godersi la cosa più bella che c’è: il morire.

Il morto sa con assoluta certezza, per esperienza, che non c’è nulla di più bello, di più metafisicamente costruttivo del proprio essere e della propria coscienza, dell’atto del morire, dell’essersi permesso di lasciare indietro tutto il corpo umano, tutti i pezzi di materia, e far sparire tutto ciò che è visibile, percepibile. Per il morto, noi esistiamo, ma là dove ci sono i nostri pezzi di materia, per lui ci sono “buchi”, perché non ha più i sensi. Vede buchi, e vede i nostri pensieri.

Arrivati a questo punto apro una parentesi, ma per qualcuno di voi forse sto per toccare l’argomento più importante. Cosa significa che tante persone vanno in cerca del morto che si fa sentire, del morto che si fa vedere?! Personalmente, un morto che si fa vedere o sentire non mi dice nulla! Anzi, gli domanderei che senso ha farsi vedere o sentire, dal momento che la morte significa farsi pensare. Le persone si fanno sentire e vedere prima di morire, non dopo. Altrimenti era meglio starsene qua.

Non esistono morti che si fanno sentire e vedere esteriormente: esistono soltanto vivi che hanno queste esperienze perché non sopportano la libertà.

Quindi nulla in contrario se qualcuno qui afferma di aver sentito voci di morti o di averne visti… non creda però, con questo, di progredire nel suo cammino di spirito umano.

Il senso dei trapassati è il venir vissuti, percepiti sovrasensibilmente, altrimenti non si capisce perché dovrebbero lasciare il corpo fisico. Ne abbiamo già a bizzeffe di lesioni della libertà con cui ci impingiamo, ci urtiamo e ci sopraffacciamo a vicenda. Non ci sono forse abbastanza esseri umani che si fanno vedere e sentire? C’è davvero bisogno che lo facciano anche i morti?

Ancora più importante è però chiedersi: come faccio a sapere se la visione di un morto o le voci che sento sono oggettive? E se fossero proiezioni della mia soggettività? Per rispondere a questa domanda ci serve prima di tutto capire se esiste un criterio dell’oggettività. Forse qualcuno si starà chiedendo come faccio io a sapere che sono oggettivi, per esempio, questi tre giorni del dopo-morte che ho appena descritto. Non posso dimostrarvelo metafisicamente, perché il dimostrare dipende dalla capacità, anche pensante, della persona cui si vuol dimostrare. Posso soltanto dire il mio parere: a quanto ne so, Rudolf Steiner è la sola individualità a descrivere queste cose – ecco il suo spicco, anche morale, assoluto, nell’umanità moderna– e posso dirvi che ho girato il mondo, ho perfino perso i capelli per trovare di meglio, ma non l’ho ancora trovato! Metterei da parte Rudolf Steiner oggi stesso, se trovassi qualcosa di più bello, di più universale, di più convincente e avvincente. Ogni essere umano è stato creato per il meglio. Il meglio che conosce, naturalmente. Quindi parlo di Rudolf Steiner, proprio perché non conosco nulla di meglio.

Questo quadro poderoso descritto da Rudolf Steiner nel primo dopo-morte mi convince – proprio in termini di lucidità e sobrietà di pensiero – perché sarebbe assurdo che tutto il vissuto, tutte le percezioni, tutti i pensieri pensati da una persona durante la vita sparissero nel nulla. No, non esiste. Ciò che è spirituale – un pensiero pensato – non può sparire. Se siamo convinti del contrario, è perché non abbiamo capito nulla.

Considero coerente ciò che dice Rudolf Steiner, e se è il primo ad aver parlato di queste cose, probabilmente è perché è il primo ad averle capite veramente. È evidente, non può che essere così: liberate dalla prigionia del corpo fisico, la somma dei pensieri, delle percezioni e di tutte le immagini del corpo eterico che si sono accumulate nella vita si squadernano, e vengono reinserite nel cosmo oggettivo.

Nel dopo-morte ci sono tre gradini, tre passaggi:

il primo, a livello della mente, è la somma di percezioni, pensieri, rappresentazioni e immagini che si squadernano come in un quadro di memoria. Il tempo della vita diventa spaziale e si inserisce nel cosmo;

il secondo è maggiormente al livello del cuore, quindi riguarda tutto il mondo dell’anima: il vissuto, i sentimenti, gli stati d’animo;

• il terzo è lo spirito: il valore oggettivo, morale, di un’esistenza dentro il cosmo.

Il quadro di memoria sparisce dopo tre o quattro giorni: si ingrandisce a dismisura e si diffonde nel cosmo. Resta visibilissimo a Esseri con stati di coscienza più alti – gli Angeli, gli Arcangeli, per esempio – però per l’essere umano non è più visibile, perché è troppo diluito. Sarebbe come mettere due o tre gocce di vino rosso in una damigiana d’acqua: finché le gocce restano unite possiamo vederle, ma quando si sono disciolte nell’acqua della damigiana, si disperdono, sono come sparite. Allo stesso modo, il corpo eterico si espande e si diluisce. Supponiamo che esista una persona con occhi di lince (come il cane, che annusa odori che noi non sentiamo) e abbia una capacità veggente notevole: una persona tale saprebbe vedere le tre gocce di vino rosso nella damigiana, mentre la nostra percezione non sa vedere più nulla.

Sparito il quadro di memoria, si entra in ciò che la sapienza orientale, con una bellissima parola sanscrita, chiama kamaloca. Kama significa brama; mentre loca è il luogo, locus. Quindi, il kama-loca è il luogo delle brame. In italiano, nella terminologia cristiana, è invalsa una parola meno azzeccata, un pochino più moraleggiante: la parola purgatorio – la purga di ricino dopo la morte. Il morto vive nel kamaloca, nel purgatorio, per circa un terzo della sua vita. Se è morto a sessant’anni vi starà per circa vent’anni; se è morto a novant’anni, vi soggiornerà per circa trent’anni – un terzo della vita, appunto. Quel terzo che normalmente, da vivi, si passa dormendo (se qualcuno dorme un po’ di più, starà in purgatorio un pochino più a lungo!).

Nel kamaloca il defunto fa i conti: rivive a ritroso tutta la sua vita, dalla morte alla nascita, con il compito di purificare l’anima.

Questa fase riguarda il mondo animico: il defunto non è ancora nella sfera dello spirito, bensì in quella dell’anima, del vissuto, delle brame, dei desideri, delle passioni, delle gioie, delle sofferenze, dei dolori, delle aspettative, degli ideali. Ma cosa c’è da purificare?

Nell’anima ci sono tante brame, tanti desideri, tante voglie, gusti, che si possono soddisfare soltanto col corpo fisico. È comprensibile, no? Sfido chiunque di voi (mi ci metto anch’io, sono il primo) ad affermare il contrario. Siamo zeppi di desideri, brame, voglie che vengono soddisfatte col corpo fisico, non conosciamo quasi nient’altro! A meno di non essere ben più avanti nel cammino evolutivo, rientriamo tutti, in pieno, in questa sfera dell’anima.

Prendiamo, per esempio, un uomo che per tutta la vita si è gustato il chianti migliore che esista. Questo tizio ora è morto, ma la sua voglia del chianti non è affatto sparita, anzi! La voglia del chianti non è nel cadavere, è nell’anima. Dopo la morte, il desiderio di bere il chianti resta intatto, esattamente come l’aveva in vita – solo che nella vita poteva soddisfarlo. Adesso, senza il corpo, che fa? Non possiamo di certo portargli il chianti al cimitero…

Una brama che non ha più la possibilità di appagarsi, perché non ha più il corpo, letteralmente si brucia in se stessa. Dapprima è l’esperienza ardente della brama che mi brucia; poi, non avendo la possibilità di soddisfarla, mi diventa insopportabile, e l’unica soluzione che ho è il non averla più. La brama si brucia. Ma questo non avviene in un attimo, ci vuole un terzo della vita.

È davvero molto bello avere questo tipo di conoscenze oggettive, e accompagnare i nostri morti con pensieri come questi. Infatti, non è detto che il defunto capisca cosa gli sta accadendo, perché il peso morale dell’esistenza nel corpo è che ognuno di noi, dopo la morte, sa pensare non di più e non di meno, non meglio e non peggio, di quanto ha imparato a pensare nella vita. Uno dei significati fondamentali dell’esistenza è il progredire nella forza di pensiero.

Quando la persona morta, per esempio un mio caro, non si sa orientare, fa fatica a capire il senso di questo bruciare – di cui le fiamme del purgatorio sono un’immagine molto calzante – io, da vivente, se sono in grado di pensare questi pensieri, posso trasmetterglieli. Posso dirgli: «Adesso ti trovi questo problemino della brama del chianti che ti resta nell’anima. Non puoi cambiare l’anima dall’oggi al domani, così la brama resta. Però ti manca il corpo per saziarla: l’unica soluzione che hai è di fartela passare! Anche perché io non posso portarti il chianti nel mondo di là». Il defunto afferra questi pensieri, ed è grato di potersi orientare, di poter capire il senso di ciò che sta vivendo.

Le brame e i desideri (l’unione dei due sessi è la dimensione più potente, più irresistibile della brama) sono l’insieme della nostra soggettività, riguardano solo ognuno di noi, ecco perché vanno purificati. Certo, essere soggettivi è bello, ma c’è qualcosa di molto più bello: essere oggettivi, diventare oggettivi.

Essere soggettivo è bello perché mi mette in comunione con me stesso, sento la gioia di vivere tutti gli stati d’animo che sono miei. Diventare sempre più oggettivo, sempre più capace di oggettività, è mille volte più bello perché mi dà la capacità di essere in sintonia, in comunione con tutti gli esseri. La soggettività è la capacità di essere in sintonia con un essere solo, il mio; l’oggettività è la capacità di essere in sintonia con tutti gli esseri.

Il morto capisce sempre meglio che più purifica, più smaltisce, più brucia le sue brame, la sua soggettività – ciò che interessa lui solo – più si apre all’oggettività del cosmo, che è ancora più bella, più meravigliosa. Per questo è contento di bruciare, bruciare, bruciare: perché ogni fiamma fa sprigionare una luce oggettiva, infinita, una gioia senza fine.

Questo cammino nel kamaloca è un vissuto dell’anima. È molto interessante notare come, anche nei vangeli, alcune frasi possono essere capite soltanto in chiave di una scienza dello spirituale oggettiva (lo dico per i cattolici qui in sala, casomai ne fossero rimasti…). Prendiamo per esempio la preghiera de L’eterno riposo, che parla proprio di questo cammino: riposo è la pace dell’anima, non dello spirito. Dona a loro Signore l’eterno riposo, cioè pace, ordine e non questo subbuglio delle brame che non possono essere soddisfatte.

Il cammino di purificazione dell’anima è il presupposto per diventare capaci di spirito.

Alla fine di questo cammino a ritroso si entra nel mondo dello spirito, nella terza fase del dopo-morte. Il vissuto dell’anima, l’animico di un’esistenza è la seconda fase. Lo spirito è la terza, è il valore oggettivo, morale, di un’esistenza dentro il cosmo.

Nei vangeli ci sono passi che si riferiscono proprio a queste cose. La frase: «Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli»[7] ha tanti significati, ma vuole anche dire che nel dopo-morte si vive la vita a ritroso, all’indietro, dalla morte fino alla nascita: diventiamo bambini. E il regno dei cieli è il regno oggettivo dello spirito, in cui si potrà entrare soltanto quando avremo purificato tutto ciò che è animico.

Queste frasi, che nei primi duemila anni del cristianesimo sono state capite in un senso più animico, più del cuore, hanno un significato ben più profondo: un significato di oggettività, di cammino spirituale.

Su questa fase, che dura un terzo della vita, ci sarebbe ancora molto da dire (invito chi vuole approfondire a studiare Rudolf Steiner), ma accenniamo ancora almeno a uno dei significati del rivivere la vita a ritroso. Un terzo della vita è circa il tempo che abbiamo passato dormendo. A pensarci bene – non c’è bisogno che lo dica un Rudolf Steiner – noi per due terzi della vita siamo svegli, quello che viviamo da svegli l’abbiamo già vissuto, non ci serve ripeterlo. Ciò che abbiamo vissuto durante il sonno, invece, non l’abbiamo portato a coscienza perché dormivamo. Nel sonno c’è moltissimo vissuto.

Ognuno di noi vive tante cose nel sonno, ma non le porta a coscienza.

Questo terzo della vita serve a portare a coscienza ciò che abbiamo vissuto incoscientemente durante il sonno mentre eravamo in vita.

Il risvolto del karma, del destino, dell’esistenza che viviamo durante il giorno, è che da sveglio io vivo ciò che mi riguarda dalla mia prospettiva. Se faccio un complimento, se per esempio dico a una ragazza: «Quanto sei bella!» (in modo sincero però), oppure se le dico: «Quanto sei brutta!», io vivo di quest’esperienza soltanto un lato… il mio! Durante la notte viviamo in modo incosciente ciò che ha sentito l’altra persona, quando le abbiamo detto: «Quanto sei brutta» oppure quando le abbiamo dato uno schiaffo, o fatto passare qualcosa di brutto. Il senso del sonno è l’andare in una sfera in cui viviamo le conseguenze oggettive di ciò che abbiamo causato negli altri col nostro dire e col nostro fare. Per fortuna non lo portiamo a coscienza mentre siamo nel corpo, perché non sopporteremmo, non saremmo capaci di portare il peso morale delle conseguenze oggettive di tutte le nostre azioni nell’umanità.

Dopo la morte invece viviamo tutto quello che gli altri hanno vissuto in base alle nostre parole, alle nostre azioni. A ritroso io non vivo la mia vita, perché quella l’ho già vissuta, ma vivo l’altra parte delle esperienze. Fanno parte di me? Eh, sì! È ciò che io stesso ho immesso nel mondo, quello che durante la vita non avrei avuto la forza morale di sopportare: le conseguenze oggettive di tutto ciò che sono stato.

È molto bello sapere che possiamo accompagnare i nostri cari per anni interi in questo cammino, addirittura a partire dal terzo, quarto giorno dopo la loro morte. Sapere che ora sono confrontati, per esempio, con gli eventi che hanno passato con noi, e potergli dire: «Ti ricordi, cinque anni fa? Ti ricordi di quello che mi hai fatto passare prima di morire?». Adesso lui vive a ritroso ciò che io ho vissuto con lui – nella misura in cui l’ha causato lui, tocca a lui viverlo. Magari mi sta chiedendo perdono, e io posso dirgli che lo perdono, che ora so di averne combinate tante anch’io, e che dopo la morte vedrò anch’io tutto quello che ho combinato negli altri.

È tutto un altro modo di vivere con i morti e di accompagnarli.

La possibilità evolutiva di vivere con i morti in questo modo presuppone una conoscenza oggettiva di ciò che i morti vivono. Non stiamo entrando nel merito specifico del dopo-morte di una determinata persona, questo lo lasciamo a ognuno. Qui si parla di fenomeni, di leggi che valgono per tutti. Sono leggi importanti da conoscere, perché se per esempio un morto mi proietta un’immagine oppure mi fa percepire dei suoni, ma non so cosa mi vuole dire perché non riesco a collocarlo nel kamaloca, nel purgatorio, a cosa mi serve una comunicazione isolata, di cui non ho la chiave di interpretazione?

La conoscenza oggettiva delle leggi del dopo-morte è la chiave di interpretazione per capire ogni manifestazione concreta senza perdersi in fantasticherie. Per manifestazione concreta intendo avere una visione, un’immagine, delle percezioni uditive, o sognare una persona morta – i morti si fanno sentire soprattutto nei sogni– e non dico che questo sia un male. Dico soltanto che l’unica possibilità vera di capire, di collocare queste esperienze è saperle collocare nel loro contesto oggettivo. Ogni affermazione, ogni immagine, ogni frammento di percezione ha senso soltanto se inserita in un contesto.

Come si può capire il senso di una comunicazione, se non si ha la benché minima conoscenza di cosa vive l’essere umano nel dopo-morte? Sarebbe come dire a un tedesco la parola giuggiole: mi guarderebbe stranito perché dire giuggiole ha senso solo nel contesto della lingua italiana. Come la parola diventa comprensibile soltanto all’interno di un linguaggio, così un’apparizione o una visione hanno senso soltanto se posso inquadrarle nel loro contesto globale.

La frenesia e la povertà spirituale degli esseri umani di oggi – la nostra fissazione alla percezione sensibile – tendono a raddoppiare il materialismo. Stiamo materializzando tutto, addirittura il mondo spirituale! Vogliamo renderlo visibile, percepibile, udibile. Lo spiritismo è proprio questo. Mi dico: è già un problema immenso avere tutto questo mondo di materia – che non è neanche reale –, perché raddoppiarlo visto che ci ingolfa? Cercare di rendere materiale addirittura il mondo spirituale è una paranoia collettiva!

L’importante, per vivere con i morti, non è avere frammenti di percezione, ma avere la possibilità di conoscere oggettivamente il senso del dopo-morte e quindi ciò che ogni essere umano vive di là.

Ci sono quattro sfere fondamentali in questo punto due[8]:

la sfera lunare (kamaloca)

La sfera di Mercurio[9] – astronomicamente Venere – (sfera del morale)

La sfera di Venere – astronomicamente Mercurio – (sfera del religioso)

La sfera del Sole (sfera dell’universale umano)

Tutto il kamaloca si svolge nella sfera lunare. Dopo aver smaltito ciò che è personale, soggettivo, l’essere umano si amplia e diventa capace di spirito, diventa capace di ciò che è oggettivo.

A questo punto si entra nella prima sfera, quella di Mercurio (astronomicamente Venere), la sfera del morale. La seconda, esotericamente parlando, è quella di Venere (astronomicamente Mercurio) ed è la sfera del religioso, mentre il Sole è la sfera dell’universale umano. Mercurio, Venere e Sole, queste tre sfere dei pianeti sub-solari, vengono vissute dopo il kamaloca, che è la sfera lunare[10].

Il morto quindi, dopo il kamaloca (che abbiamo detto dura un terzo della vita), fa il bilancio della sua esistenza e si domanda qual è il peso morale, il valore della sua vita.

Nella sfera successiva si domanderà qual è il peso della sua esistenza in chiave di religiosità, e in seguito – moralmente ancora più importante –, si domanderà qual è il peso della sua esistenza nel contesto dell’umanità, al di là di religioni particolari, al di là di una moralità particolare.

Che differenza c’è tra moralità e religione? Moralità è il rapporto inter-umano; religione è il rapporto col divino.

La moralità è il modo in cui gli esseri umani si rapportano fra loro; la sua essenza è l’amore, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà. In questa sfera, il morto fa i conti col peso morale o immorale della sua esistenza. Immaginiamo per un attimo questo vissuto: è un’esperienza enorme! Il senso amico della morte è che ogni volta (supponendo che ognuno di noi muoia diverse volte) abbiamo la possibilità di liberarci dalle strettoie, di superare tutto ciò che è soggettivo, immorale, irreligioso, per portarci in sfere di purificazione – nella sfera dei valori morali oggettivi.

Prendiamo per esempio l’uguaglianza: nella vita dopo la morte, quando è nella sfera di Venere (chiamata sfera di Mercurio) l’essere umano vive con gli Angeli, gli Arcangeli, con altri morti che gli fanno capire il peso morale dell’uguaglianza, della dignità umana. Sulla Terra non può capirlo più di tanto, è tutto indaffarato a difendere i propri diritti e non riesce a cogliere il peso assoluto dell’uguaglianza della dignità umana. Parlo per esperienza personale, ho trascorso cinque anni in Sud Africa, ai tempi dell’Apartheid, e ricordo molto bene tutti questi bianchi arroccati sui loro diritti, tutti intenti a difendere i loro privilegi… Alcuni di loro mi dicevano: «A essere generosi, i negri possono essere considerati essere umani al settanta per cento, ma non di certo al cento per cento!». A me si rizzavano i capelli in testa a sentire queste cose!

Nel dopo-morte, passiamo in una sfera in cui siamo circondati da altri esseri umani e divini che hanno questo senso assoluto dell’uguaglianza della dignità di ogni persona umana, e ne cogliamo il valore morale. Ci rendiamo conto delle nostre carenze, degli abissi di immoralità in cui eravamo immersi con i nostri pensieri, e… ci diamo una bella ripulita al cervello…

La sfera successiva è quella delle religioni. Il mio essere vive un ampliamento continuo, perché finché ero nella sfera lunare (kamaloca) abbracciavo un campo più ristretto, ma nella sfera di Venere il campo diventa più grande, e ancora più grande quando poi abbraccio la sfera di Mercurio, e addirittura la sfera solare. In altre parole, il campo di coscienza di colui che è morto diventa sempre più ampio.

La sfera di Venere (esotericamente parlando) è quella del religioso, dell’amore. Qui si fa l’esperienza di cosa significa essere stati seguaci di una determinata religione: eri musulmano, induista, buddista, cattolico? Quanto hai vissuto questa religione come diversa, o come migliore di altre? Hai forse vissuto l’umano universale? Qui avviene una purificazione, si vince ogni settorialismo religioso. I cosiddetti cristiani (coloro che sono morti negli ultimi duemila anni) in questa sfera mercuriale – o di Venere – fanno i conti con il loro cristianesimo tradizionale. Si chiedono quale cristianesimo sia stato il loro, magari una religione accanto ad altre, se non addirittura contro le altre.

Rispetto a certi tipi di religiosità l’ateista è evolutivamente un passo avanti, perché essere ateisti intelligenti significa mandare al diavolo ogni divinità inventata dagli uomini, ogni concetto di Dio talmente ristretto e bacchettone da far inorridire…

Il senso di ogni religione è di diventare sempre più universale, perché il Padre divino degli esseri umani è uno solo: l’unico concetto vero di divinità è il concetto di divinità universale.

Un concetto di divinità che vale soltanto per i cristiani o soltanto per i musulmani è uno schiaffo dato in faccia alla divinità, perché una divinità settoriale non esiste: c’è solo nelle menti razziste degli esseri umani. Finché le religioni sono al plurale sono intrise di razzismo, perché ognuna esclude tutti gli altri esseri umani. Il futuro di ogni religione è passare dal plurale al singolare. Questo è il compito quando si entra nella sfera del Sole.

La sfera del Sole è la sfera dell’universale umano, di tutto ciò che tutti abbiamo in comune al di là delle particolari razze, al di là delle particolari religioni, al di là dei particolari valori morali. È la sfera dell’umanità quale organismo unico, di cui ognuno di noi è un membro vivente. Questo Essere spirituale del Sole è l’amico di tutti gli uomini – non dei cattolici o dei musulmani, o degli induisti, o dei buddisti, ma degli uomini in quanto uomini. Essere uomo è molto di più che essere cattolico, o buddista, o induista, o musulmano. Essere cristiano in senso tradizionale, o musulmano, significa essere ancora nella pienezza dell’umano: è la chiamata a camminare oltre.

Cammina, cammina ancora, e non ti chiamerai più cattolico, o musulmano, ma sarai un essere umano. Se pensiamo a un italiano, a un tedesco, a un francese, ne abbiamo di cose da dire; se pensiamo a un cristiano altrettanto, ma quando pensiamo all’umano… cosa sappiamo dire? E allora, ce n’è di strada da fare!

Ieri a Francoforte l’aeroporto era pieno di americani. Mentre aspettavo di imbarcarmi sull’aereo ho avviato una conversazione, con la scusa di Bush e dell’Iraq. Conosco l’America, ci sono vissuto, posso dire di conoscere bene gli americani e la loro lingua. La cosa che mi colpisce di più è il loro dire we americans (noi americani)! È così poderoso! In Italia quando si sente dire noi italiani è del tutto diverso… Dei tedeschi poveretti, non ne parliamo: dopo le due botte prese nel secolo scorso, non si fidano neanche a dire noi tedeschi… L’italiano, quando dice noi italiani, non si presenta con questa forza militare che ha l’americano con il suo we americans! All’aeroporto pensavo: «Adesso andrò a Roma a parlare della morte – non gliel’ho detto, però lo pensavo – tu, vent’anni dopo la tua morte, quando sarai entrato nella sfera dell’umano universale, che cosa dirai: we americans!?».

Dibattito

Intervento: La domanda è questa: l’averroismo[11] diceva in sostanza che l’anima dell’uomo, dopo la morte, si ricongiunge con la divinità dell’universo… si può dire che sia così, no?

Archiati: Per gli studiosi di Steiner questo argomento è trattato nel volume 74[12] dell’Opera Omnia, che contiene tre conferenze: la prima su Agostino, la seconda sul tomismo e la terza sulla moderna scienza dello spirito. Tra l’altro sono tre conferenze bellissime…

Intervento: Quando lessi per la prima volta queste conferenze, rimasi colpito, perché Sant’Agostino spese una vita intera per lottare contro una tesi molto importante. Secondo me, infatti, l’immortalità dell’anima non ha significato se non c’è coscienza. Inoltre, la coscienza, il percepire qualcosa che avviene attorno a me, non basta: per me era importante capire se l’uomo avesse, nell’aldilà, una coscienza individuale. Un giorno un mio amico scherzando sul fatto che io leggo le opere di Steiner, mi ha detto: «Di cosa ti stupisci? La morte è semplicissima! È come il coma profondo – muori, vai in coma e non percepisci nulla, proprio come avviene nel sonno profondo!». Era una semplice battuta, ma io ne sono rimasto molto colpito, perché la domanda fondamentale, quando si inizia a concepire il tema dell’immortalità dell’anima, è questa: se il corpo eterico abbandona il corpo fisico, e il fisico non è solo lo specchio che ci permette di percepire il mondo dei sensi, ma è anche il mezzo per renderci individui, persone differenti gli uni dagli altri, nel momento in cui si varca la soglia deve esserci un qualcosa che ci permette di percepirci come individui e di avere una coscienza. Non sto parlando degli iniziati, perché per loro il discorso è un altro.

È chiaro che all’inizio – quello che lei ha citato riguardo ai primi tre giorni, cioè fino a quando c’è ancora il corpo eterico – è possibile avere una coscienza, perché il corpo eterico stesso agisce da riflesso, da specchio. O mi sbaglio?

A quel punto ho cercato di capire che cos’è che permette all’uomo – non iniziato – di avere un minimo di coscienza nell’aldilà. Ho cominciato a leggere opere di Steiner e ho capito che l’unica parte in cui potevo trovare una chiave di comprensione era la cristologia, nelle conferenze di Karlsruhe Da Gesù a Cristo, ma ancora di più in quelle sull’anima umana, di Norrkoping (Danimarca), Rudolf Steiner cita il fantoma.[13] In queste conferenze Steiner introduce un tema di vitale importanza, che è quello del fantoma. Il fantoma, in sostanza, è una parte del corpo eterico (il formatore del corpo fisico). La domanda è questa: come fa l’uomo a percepire, una volta varcata la soglia e aver deposto il fantoma e anche il corpo eterico? Che cosa gli permette di avere una coscienza anche individuale?

Archiati: Partiamo da un presupposto: la cosiddetta immortalità senza coscienza di essere un io, sarebbe una parola vuota, perché sarebbe come se di me, restasse tutto, le molecole, gli atomi, le correnti animiche, fuorché io! Se così fosse io non sarei immortale, lo sarebbero la sostanza animica, le forze vitali – quelle sono sempre immortali – e gli atomi del corpo fisico. Giustamente tu hai pensato che l’essenza dell’immortalità dell’individuo è il viversi come io anche dopo la morte, senza l’ausilio del corpo. Soltanto questo può chiamarsi immortalità.

Torniamo indietro di alcuni secoli, alla controversia micidiale tra Tommaso d’Aquino e Averroè. Ci sono dei quadri dove Tommaso d’Aquino, gli scolastici, schiacciano sotto i loro piedi i musulmani. In che cosa consisteva questa controversia? Il pensiero fondamentale di Averroè, un arabo, era che non esiste uno spirito individualizzato. L’intelligenza che noi abbiamo, il pensare che noi abbiamo è il pensare divino. Quando ti crei un corpo, tu ne prendi una goccia, io un’altra goccia e via dicendo. Quando moriamo, la goccia ritorna nell’oceano, ma non esiste un’individualità dopo la morte. Tommaso d’Aquino e gli altri scolastici percepivano, invece, che la teoria di Averroè inabissava il nostro cristianesimo e negava l’immortalità. Se l’individuo dopo la morte non esiste più, non può essere reso responsabile né del bene né del male, perché come individuo non c’è mai stato.

Gli scolastici cristiani avevano un cristianesimo del cuore, ma erano pensatori – anche se non ancora a livello di cogliere col pensiero il mistero – e avvertivano che il mistero cristico dell’umano è l’io individualizzato.

Quando Tommaso è andato nel suo kamaloca, ha scoperto quello che tu hai letto da Steiner, e che Steiner ha aggiunto con la sua opera, in base ai conti che Tommaso d’Aquino si è dovuto fare dopo la morte (anche lui aveva qualcosa da imparare, perché se fosse stato perfetto, sarebbe stato alla fine dell’evoluzione…). Tommaso d’Aquino imparò che la cosiddetta immortalità, cioè il sentirsi e viversi come io anche senza il corpo fisico, ha due caratteristiche fondamentali, che nel Medioevo non potevano ancora essere colte come possiamo coglierle noi oggi.

Questo è stato un passo nel cammino evolutivo, e ciò che la scienza dello spirito di Rudolf Steiner aggiunge come nuova conquista della coscienza umana, non certo come contraddizione del cristianesimo, è:

l’immortalità non viene data, ma è oggetto di conquista della libertà

l’immortalità ha gradi di intensità: non si è tutti immortali allo stesso modo.

In altre parole: di ogni essere umano resta immortale ciò che è immortale ed era immortale in lui già prima di morire – e nell’intensità in cui se lo è creato durante la vita. Quale coscienza dell’io è immortale (immortale significa che non dipende dal corpo)?

Intervento: Quella del pensiero.

Archiati: Quella del pensiero! Dunque, se mi costruisco in modo sempre più forte una coscienza dell’io, e quindi un’auto-identità che non dipende da ciò che bevo, da ciò che mangio e così via, ma dai pensieri, quando muoio non mi sarà portato via nulla.

Prendiamo per esempio un’altra persona che con il pensiero si è creata pochino, pochino, di questa sfera di auto-identificazione con ciò che è eterno: dopo la morte le resterà un lumicino di autocoscienza, e capirà. Il kamaloca infatti consiste proprio nel capire che non posso avere dopo la morte più coscienza dell’io di quella che mi sono creato durante la vita. Sarebbe un’ingiustizia se due persone, di cui una si è data da fare, mentre l’altra ha poltrito, si ritrovassero con la stessa coscienza dell’io – no, non sarebbe giusto.

Il senso dell’esistenza nel corpo è di acquisire la coscienza dell’io, e questo processo dipende dal corpo perché soltanto nella materia ci distinguiamo l’uno dall’altro. Acquisirla significa recepirla nel proprio spirito e renderla eterna, però a gradi diversi d’intensità. Una volta acquisita, la coscienza dell’io non dipende più dal corpo.

Intervento: Recentemente è uscito, sulla rivista «Antroposofia», un inserto legato all’eutanasia, in cui si parla della coscienza e si dice che l’uomo, una volta morto, ha una coscienza nettamente superiore rispetto a quando è in vita. Del resto anche lei ha detto questo durante la conferenza… In un altro articolo, un antroposofo afferma che l’uomo, mentre pensa, è come se bruciasse le sue cellule cerebrali. Di conseguenza, quando il corpo è completamente morto, la sua coscienza diventa nettamente superiore.

Ma ciò che lei ha appena detto pone un nuovo problema. Ho fatto apposta un distinguo tra iniziati e non-iniziati, perché è chiaro che chi è iniziato può purificare anche gli altri corpi – eterico, astrale e via dicendo – e avere nell’aldilà, in questo modo, una percezione maggiore proprio perché ha degli strumenti rispecchianti maggiori. Una persona che invece non ha questa possibilità, perché magari ha vissuto una vita dissoluta, varca la soglia: nei primi tre giorni ha una coscienza superiore, ma poi sarà in uno stato d’incoscienza?

Archiati: Credo che molte cose potranno diventare più chiare nelle conferenze di questo pomeriggio e di questa sera…

Intervento: Vorrei sapere cosa pensa delle preghiere per i morti… Lei ha ricordato Dante, e so che ne è un appassionato lettore. Dante insiste molto sulle preghiere, sul ricordo… le sarei grata se dicesse qualcosa al proposito.

Archiati: Le preghiere per i morti sono una cosa molto bella, perché documentano l’affetto, l’amore, l’essere legati con chi è morto. Qui non stiamo parlando di qualcosa che smentisce l’importanza della preghiera, anzi. La preghiera è un accompagnare il morto con il cuore, ma se impariamo ad accompagnare il morto col cuore e con la mente è ancora meglio. Certo, si può pregare per il morto anche senza sapere minimamente ciò che lui sperimenta, ma cosa sentirà quando noi preghiamo per lui senza sapere cosa sta passando? Penserà: «Ma guarda quanto mi vuole bene! La mia mamma, o questi miei cari, pregano per me, però sarebbe ancora meglio se avessero una minima idea di quello che io sto passando, se mi accompagnassero un pochino».

La soglia in cui ci troviamo ora è di aggiungere alla preghiera – che è l’accompagnamento del cuore – la conoscenza oggettiva di ciò che si vive dopo la morte, per accompagnare il morto con il cuore e anche con la mente. Una mente talmente immersa nella realtà in cui vive il morto, da far sì che questa conoscenza renda le preghiere molto più belle.

Supponiamo che io, pregando, auguri al mio caro che è morto di andare subito in paradiso ed essere felice. Lui mi risponderebbe: «Ma cosa mi stai augurando? Io muoio dalla voglia di passare questo kamaloca, perché se non mi purifico, del mondo spirituale non capirò nulla! Mi stai augurando qualcosa che non voglio, perché io voglio assolutamente farla, questa purificazione!».

Supponiamo che il caro rimasto sulla Terra si rinfreschi il cervello, e impari ciò che il morto sta passando. In questo caso la sua preghiera sarà diversa. Gli augurerà di passare questo purgatorio in un modo così conscio, così bello e con così tanta gioia che dopo, quando avrà bruciato tutto ciò che è puramente suo, egoistico e personale, possa vivere con gioia nei mondi spirituali.

La preghiera tradizionale per i morti era più un contentino per i vivi, che altro. Non c’è niente di male in questo, però c’è di meglio: un tipo di preghiera che rende felice sia il vivo sia il morto.

Intervento: Come mai, nonostante tutto questo excursus così particolare di presa di coscienza nel post mortem, alcuni si reincarnano e sono completamente grezzi e inevoluti? Come è possibile? Nel periodo di purificazione c’è molto da fare, immagino che dopo si dovrebbe rinascere, non dico come un Dante Alighieri o un Tommaso d’Aquino, però con un certo grado di evoluzione.

Archiati: Tu conosci persone grezze e inevolute? Io non ne ho mai incontrata nessuna…

Intervento: Beh…! Ci sono persone sanguinarie, per esempio, che fanno veramente del male. Persone che fanno soffrire migliaia, milioni di persone ci sono sempre. Queste persone si sono reincarnate tante volte e quindi hanno passato tutto questo itinerario così dettagliato, così opportuno. Come mai dopo aver subito su se stessi il dolore che hanno fatto provare agli altri, ricascano un’altra volta ritornando a farlo, e forse anche peggio di prima?

Archiati: È una domanda molto complessa, aggiungerò solo un pensiero come avvio di conoscenza. La libertà umana è la possibilità che dobbiamo avere, altrimenti non saremmo liberi, di omettere, omettere, omettere. Omettendo, omettendo, omettendo tu puoi passare tutto il kamaloca e renderti conto di ciò che hai fatto agli altri, di ciò che hanno vissuto gli altri per causa tua. Ma, avendo omesso, omesso, e ancora omesso, il tuo cuore non viene trafitto più di tanto. Vedi ciò che gli altri hanno vissuto ma, uso questa metafora, il tuo cuore viene trafitto a seconda del tuo gradino evolutivo.

L’evoluzione è complessa, e non può essere ridotta a una formuletta. L’evoluzione deve essere complessa, del resto per convincersene basta guardare l’organismo umano: il corpo è di una complessità vertiginosa! Immaginiamo l’evoluzione… da questo punto di vista, noi qui stiamo avviando solo degli orientamenti, proprio gli orientamenti conoscitivi iniziali, e non certo per illuderci che le cose siano semplici, ma per avere un minimo di orientamento in una complessità che è infinita. Tutto ciò ci dimostra quanto sia ingenua l’umanità di oggi, sia in campo scientifico, sia in campo religioso – dove non c’è nemmeno la consapevolezza del fatto che questo cammino conoscitivo ci aspetta e ormai urge alla porta.

In altre parole, quello che ci diciamo qui, in questi due, tre giorni, serve piuttosto a mettere la pulce nell’orecchio, a creare mille domande, non a darci la rispostina; la rispostina è sempre stata data, ma non basta perché le cose sono complesse.

Intervento: In effetti, anche nella vita alcune persone sviluppano una sensibilità alla sofferenza maggiore, mentre altri altri sono totalmente indifferenti. E quindi i conti tornano.

Archiati: Certo. Se la persona A ha sviluppato una certa sensibilità mentre la persona B non l’ha sviluppata, la persona A vivrà il kamaloca in modo diverso. Vedere la sofferenza che ha causato negli altri le trafiggerà il cuore. La persona B è indifferente e resterà indifferente! Il dopo-morte serve a fare il bilancio dell’esistenza, a rendersi conto in chiave conoscitiva di ciò che si è fatto o non si è fatto, di ciò che si è combinato, di ciò che si è omesso e così via, ma non consente di fare neanche un minimo passo evolutivo di tipo morale. Per riprendere la propria evoluzione e fare dei passi avanti bisogna ritornare sulla Terra.

Intervento: Abbiamo visto che l’anima si purifica col kamaloca (che poi nella tradizione cristiana è il purgatorio), ma nella visione cattolica – cioè quando si pensa che ci sia una sola vita –, il purgatorio serve per arrivare in paradiso, per arrivare nello spirito, mentre in questo nuovo contesto di più vite la cosa è un po’ più complicata. Come è possibile, se abbiamo purificato le nostre brame nel kamaloca, che poi in qualche modo le riprendiamo quando torniamo a incarnarci? In questo senso, cosa significa purificarle?

Archiati: Per rispondere articolerò un tantino il discorso, proprio per questo poco fa dicevo che la pulce nell’orecchio serve a far venire la voglia di studiare Steiner… non è una battuta, è un’affermazione molto seria: volendo approfondire i concetti dobbiamo complessificare un pochino il discorso. Purificazione è una parola che rasenta il moralismo perché non si tratta di purificare, si tratta di rendersi conto.

Naturalmente la brama verso il chianti si brucia, e si brucia perché la lascio indietro. Dopo aver passato la sfera saturnia – che Steiner chiama la mezzanotte dell’esistenza – si ritorna per tutte le sfere planetarie, che troviamo anche nella Divina Commedia: quella saturnia, gioviale, marziale, solare, mercuriale, venerea, lunare. Infine si ritorna sulla Terra.

Quando si ripassa per la sfera lunare, si ritrova il pacchetto karmico che si era lasciato su quella sfera – infatti nella sfera solare non si può portare nulla di soggettivo – e questo pacchetto karmico è tutto quello che ci resta da fare nelle incarnazioni successive. Sarebbe errato pensare che il kamaloca serva a smaltire tutto il karma: serve a renderci conto di quanto ancora c’è da fare. Nella sfera lunare l’essere spirituale che ritorna si riveste del suo corpo astrale, e in questo corpo astrale ci sono tutte le forze karmiche che gli faranno incontrare quelle persone cui ha dato uno schiaffo, cui ha fatto un complimento, che ha mandato al diavolo e via dicendo.

Intervento: … allora si può dire che serve a correggere la nostra anima.

Archiati: Correggere… sono tutti termini piuttosto negativi. Serve per crescere nelle forze dell’amore, serve per recuperare. Quanto ancora c’è da amare? Siamo all’inizio delle forze dell’amore. In questo pacchetto karmico c’è il rendersi conto che devo assolutamente rincontrare quella persona, che nella vita precedente è stata mio marito, ma gliene ho dette di tutti i colori… forse se l’è meritate, ma, poveretto, adesso ci riprovo, vediamo se mi riesce di amarlo un pochino di più. Lo voglio assolutamente rincontrare… immaginiamo che queste due persone si incontreranno a trent’anni. In questo pacchetto di forze karmiche, di forze astrali, c’è quella forza che muove tutti i passi, i passi suoi e di quell’altro, fino a trent’anni, fino a che si incontreranno.

Intervento: La cosa è reciproca?

Archiati: Sì, la cosa è reciproca, e se non lo è sarai tu ad andare a trovare l’altra persona. Se è reciproca ci si viene incontro, se invece l’altro non vuole, allora lo vai a trovare tu. E lui dirà: «Ma chi ti vuole?!». E tu risponderai: «Ti voglio io!»… Il karma è complesso.

Intervento: Tenendo conto del percorso dopo la morte, cioè considerando i tre giorni importanti subito dopo la morte, qual è il danno che si apporta a un essere togliendogli degli organi per donarli? C’è un danno?

Archiati: Ecco un altro “problemino” il trapianto di organi… è una domanda complessa, che richiederebbe almeno un po’ di contesto.

Supponiamo che l’umanità arrivi a livelli evolutivi tali da conoscere in tutto e per tutto – però ci vorranno un paio di millenni – le forze karmiche esistenti tra queste due persone: il donatore e il ricevente. Sono due mondi da conoscere, due mondi con il loro corpo fisico, tutta la compagine del corpo eterico – che noi ora ignoriamo –, tutta la compagine del corpo astrale, del donatore e non, e dell’Io. In base a questa conoscenza minuta e concreta del karma, si è in grado di dire se questa donazione è nella saggezza del karma oppure se lede la volontà karmica dell’Io dell’uno o dell’altro.

Detto in altre parole, noi abbiamo un cammino della scienza che si fa forte della sperimentazione: a furia di sperimentare, qualcosa salta fuori e a furia di far saltare fuori le cose, si impara. Uno dei tratti fondamentali del karma dell’umanità di oggi, e delle esperienze che gli uomini d’oggi fanno dopo la morte, è la discrepanza assoluta di evoluzione tra le conquiste della scienza (il fattibile) e la conoscenza (il dato morale). L’umanità sta facendo passi da gigante nella scienza e nella tecnica, e non si muove quasi per niente per quanto riguarda il cammino di coscienza di ciò che è invisibile, e per quanto riguarda il cammino morale.

Quindi, il quesito morale della scienza e della tecnica d’oggi non è tanto se si stia facendo qualcosa di male, bensì che non si sa ciò che si sta facendo! Questo è il mistero karmico della scienza e della tecnica: che l’uomo d’oggi è in grado di fare, di fare, di fare – vedi la clonazione per esempio –, però non ha la minima idea di ciò che combina nel suo corpo eterico, di ciò che combina nella sua anima, di ciò che combina nel suo spirito. La scienza ignora il mondo dell’eterico (del vitale), e non conosce il mondo dell’anima. In fondo neanche la religione tradizionale lo conosce: presume che ci sia, ma non comincia nemmeno a conoscerlo scientificamente. Non parliamo poi di ciò che è spirituale. Non si tratta di moraleggiare su ciò che fanno la scienza e la tecnica dicendo che è male: sarebbe un discorso troppo semplicistico. Si tratta invece di rendersi conto che è bene per l’essere umano soltanto ciò che l’essere umano compie a ragion veduta, sapendo ciò che fa.

Alla svolta dei tempi, duemila anni fa, il Figlio dell’uomo – l’emergenza dell’umano – chiese perdono al Padre dell’umanità per tutto ciò che l’umanità aveva combinato fino allora. Perché chiese perdono? Leggiamo nel Vangelo: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno».[14] Questo significa che l’umanità finora era bambina. Quindi questo perdona loro perché non sanno quello che fanno, non varrà sempre! Se valesse sempre, saremmo destinati a non sapere mai quello che facciamo. Invece la legge dell’evoluzione è che ogni essere umano è chiamato a sapere sempre meglio ciò che fa. Quindi è molto meno legittimo invocare oggi, rispetto a duemila anni fa, questo perdono. Perché adesso l’umanità dovrebbe sapere un po’ di più ciò che fa, e lo potrebbe sapere, ma omette questo cammino di conoscenza.

Intervento: Prima lei parlava del personaggio B, il sanguinario, che non è trafitto dal suo periodo nel kamaloca. Come passa poi le altre sfere?

Archiati: Dormendo. Non ci vede quasi nulla e non ci capisce quasi nulla.

Intervento: E quindi ritornerà…

Archiati: … obnubilato!

Terza conferenza

I morti ci parlano,

come si fa ad ascoltarli?

Roma, 3 maggio 2003

Cari amici,

questa mattina le nostre considerazioni erano maggiormente rivolte a ciò che i morti vivono, al tipo di vita che si fa dopo la morte. Questo pomeriggio invece, ci occuperemo del contatto con i morti, di come si colloquia e ci si mette in rapporto con loro. Siccome le discussioni dopo la conferenza si sono rivelate molto più interessanti di quanto ho da dire io, vi propongo di fare un quarto d’ora di scambio anche al termine di questa conferenza, anche se non è previsto dal programma.

Questa mattina parlavamo di un pensiero fondamentale, un pensiero molto semplice: per farci un’idea di cosa passano i morti, come minimo dobbiamo sapere che i morti sono vivi. È una conoscenza di base, ma non è facile da coltivare, perché questa ipnosi del sensibile, questo vivere nell’immediato di ciò che si vede, di ciò che si tocca e così via, che è il materialismo, ci bombarda da ogni parte. Vi faccio un esempio: per venire qui dall’hotel in cui sono alloggiato impiego circa dieci-quindici minuti di strada a piedi, e sono arrivato sudato perché è tutto un trambusto. Come si fa a pensare ai morti, mentre si è immersi in questa realtà così martellante?

Per noi che siamo continuamente bombardati da ciò che è visibile, sensibile e via dicendo, è molto difficile pensare che i morti – senza il corpo, senza i sensi – vivano, e per di più in un mondo spirituale. Noi bravi materialisti non sappiamo neppure se esiste quel mondo, e quando parliamo di realtà spirituale ci sembra aria fritta.

Naturalmente siete invitati a prendere posizione, a dire la vostra: non ho per nulla intenzione di essere creduto da voi, e tantomeno di convincervi. Offro le mie convinzioni al pensiero di ognuno, in modo che ognuno si faccia dei pensieri con la propria testa.

Ci siamo detti, e lo ripeto come assunto fondamentale, che per avere un minimo di possibilità di entrare in rapporto con i morti, bisogna farsi un’idea di come sono fatti, bisogna farsi un’idea del mondo in cui vivono. In altre parole: in un rapporto, la conoscenza dell’altro è fondamentale. Se io da genitore o educatore non ho una minima idea del mondo in cui il bambino vive, e non riesco a immedesimarmi, non riuscirò a mettermi in rapporto con lui… L’arte del rapporto è l’arte di immedesimarsi nell’altro.

Ora, se è vero che i morti sono del tutto diversi da noi perché non hanno il corpo, non hanno i sensi, non mangiano e non bevono, come possiamo addirittura illuderci di metterci in rapporto con loro, se non abbiamo un minimo di conoscenza oggettiva della loro realtà, del loro mondo, di ciò che vivono?

Proviamo a immaginare di tirar via il corpo fisico dall’essere umano: immaginiamo che ora, in questa sala sparisca tutta la materia… cosa resta? Per quanto mi riguarda spero proprio che resti qualcosa, per esempio spero che restino i pensieri che ho preparato per parlarvi oggi. E se non sbaglio qui, oltre ai miei pensieri, ci sono anche quelli degli altri.

Ma i pensieri, cosa sono? Aria fritta o realtà?

I morti sono fatti di pensieri – primo elemento non materiale –, devono avere dei pensieri. Se voglio parlare con loro devo farmi un’idea di quali pensieri pensano, perché se è vero che essere incarnati, essere inseriti nella materia, giocoforza ci intride di brame e di desideri egoistici, il senso della morte è di diventarne sempre più disinteressati.

Lasciando il corpo, lasciando questo fascio di interessamenti del tutto personali che sono inevitabili, spariscono anche gli interessi egoistici dati dal corpo. Ecco che allora i morti devono avere dei pensieri almeno un pochino più amanti, più pieni di amore, più disinteressati, più universali.

Questa mattina abbiamo visto tutto il processo del kamaloca, che è il luogo della purificazione, sono le fiamme del purgatorio; abbiamo visto che morire è una cosa bella perché significa diventare più oggettivi – e che quando si muore, ci si accorge di quanto fossimo soggettivi, di quanto fossimo fissati su noi stessi. Da vivi non se ne può fare a meno, ognuno deve pensare a se stesso, mentre morire significa liberarsi da questo assillo del pensare a sé e allargare lo sguardo, vedere un pochino anche gli altri, vedere un pochino anche l’evoluzione delle piante, degli animali e della Terra.

Parlavo questa mattina della prima metà del dopo-morte. I cattolici qui in sala mi perdoneranno, perché parto dal presupposto che dopo la morte passi un arco di tempo e poi ci sia una nuova nascita, ma in questo contesto non posso fondare tutte queste cose ai cristiani cattolici, ci vorrebbe molto più tempo.

La grazia divina – uso termini religiosi per chi ha alle spalle un cristianesimo, un cattolicesimo e così via – ha creato l’essere umano così pieno di belle cose, capace di pensieri in grado di scandagliare tutti i misteri nel mondo e con un cuore capace di amare: ci ha dato la vita, che è la cosa più bella che ci sia. Perché mai la divinità, piena di amore, dovrebbe darcela soltanto una volta?

Se vogliamo intenderci con i morti dobbiamo partire da questo pensiero, perché i morti sono convinti di preparare la loro rinascita. Come possiamo intenderci con loro, parlare lo stesso linguaggio, se siamo convinti che si viva una volta sola, oppure (come dice il cristianesimo tradizionale) che si vada all’inferno eterno o in paradiso, mentre loro si stanno preparando a ritornare? La metà dei morti è composta di nascituri, cioè di esseri in procinto di nascere.

Su questo punto occorre chiarirsi le idee, perché uno dei grossi problemi del cattolicesimo è il non permettere nemmeno che la domanda, se si viva una volta sola, venga posta. Tutte le religioni orientali sono partite dal presupposto che ogni essere umano partecipi a tutta l’evoluzione, dall’inizio alla fine, mentre nel cattolicesimo la questione non è nemmeno affrontata. Poniamo anche solo l’ipotesi, supponiamo che ci siano ripetute vite – una cosa bellissima –, in tal caso, se qualcuno fosse stufo di questa vita, avrebbe un motivo in più per tornare e cambiare registro, perché la vita può essere una cosa stupenda ed è bello pensare che se io non riesco a renderla bella questa volta, mi viene data un’altra possibilità, un’altra chance per renderla sempre più bella.

Viene da chiedersi perché proprio nel cristianesimo – nella sua coscienza – si sia persa la realtà di questa dovizia della grazia divina che ci offre il vivere tante volte… Che senso ha l’aver perso la coscienza di questa realtà? Il senso c’è, ed è bellissimo, perché l’essenza del cristianesimo – che è puro umanesimo – è di una divinità che si rifiuta di pensare al posto nostro, e ci rende capaci di pensare con la nostra testa.

Nella prima metà dell’evoluzione l’umanità, accompagnata dall’Oriente, era ancora bambina, e la sapienza divina veniva comunicata. Ma nel mezzo dell’evoluzione è avvenuta una svolta. Nella svolta la sapienza divina si tira indietro sempre di più: il dato di rivelazione, potremmo dire la pappa pronta – importante e necessaria per i bambini – si è fatto sempre di più da parte. Questo è avvenuto perché gli esseri umani si rendessero sempre più capaci di pensare con la propria testa. Nel taoismo, nel buddismo, nello scintoismo e così via, la realtà delle ripetute vite terrene era stata conferita come rivelazione; nella seconda metà dell’evoluzione, invece, ogni individuo ha ricevuto la possibilità – bellissima – di riconquistarsi da sé la coscienza della realtà delle ripetute vite a partire dal proprio pensiero, a ragion veduta.

Era il compito del cristianesimo, il compito dell’emergenza dell’Io, della libertà del singolo, far recedere amorevolmente questo contenuto di rivelazione divina, affinché il pensare umano singolo, individuale, potesse riconquistare questa realtà. Al giorno d’oggi, il cristianesimo tradizionale si trova in questa grande soglia: teme ancora, addirittura, che certe domande vengano poste!

Io sono dovuto scappare dalla Chiesa cattolica – ne sono contentissimo, non dubitate –, fondamentalmente per aver posto questa domanda: «Ma chi ha deciso, chi ha decretato che si deve vivere una volta sola?». Mi hanno cacciato via dandomi dell’eretico.

Come possiamo immaginarci di colloquiare con i morti, se ci manca questa lunghezza d’onda fondamentale in comune con loro? Subito dopo la morte si sa che si vive più di una volta sulla Terra, perché la coscienza si amplia enormemente, come vi ho descritto stamattina. Il morto si rende conto di avere diverse vite dietro di sé: le vede, e inizia a vedere anche quelle che ha davanti a sé! Pensa: «Ecco, ora mi do una bella ripulitina agli “occhiali” in modo da vedere ancora meglio». Questa ripulitina l’abbiamo chiamata kamaloca, purgatorio; ci si pulisce, perché senza pulizia non si può vedere. Dopo il kamaloca, lo sguardo si apre sempre di più: abbiamo visto il quadro dei nostri pensieri, il nostro vissuto – che era da liberare dalla zavorra dell’egoismo. Dopo il vissuto c’è l’oggettività dell’evoluzione, ciò che è oggettivo.

In questa sfera dell’oggettivo il defunto che si immerge nei misteri dell’evoluzione comincia a pensare che deve lavorare non soltanto all’umanità, ma anche ai regni della natura, e che deve partecipare al modo in cui gli Esseri angelici (con uno stato di coscienza superiore a quello umano) trasformano la flora e la fauna. Perché, per ritornare sulla Terra, per reincarnarsi ci sono dei presupposti cui i morti lavorano.

Il presupposto fondamentale per ritornare sulla Terra è che le condizioni evolutive, le provocazioni alla crescita per lo spirito umano – per il cuore e per la mente – siano cambiate. Diversamente, per il morto è inutile ritornare qui, a meno che non abbia il compito di mettere in secondo piano la sua evoluzione individuale, e di incarnarsi per dare un contributo all’umanità. In questo caso, può darsi che ritorni poco dopo essere morto, perché ha da compiere una missione: le condizioni evolutive nella natura saranno più o meno le stesse, perché magari ha un compito di cultura da immettere nell’umanità.

Generalmente, però, in questa sfera dell’oggettivo i morti lavorano alle piante, lavorano all’ambiente, lavorano agli animali; sono i grandi promotori dell’evoluzione dell’ambiente. Per loro ciò che conta è reincarnarsi soltanto quando le condizioni evolutive sulla Terra saranno così diverse da permettere nuovi passi evolutivi. Un trapassato potrebbe pensare: «Nell’ultima vita non c’erano i computer, non c’era l’Aids, non c’era la Sars – allora aspetto, tornerò sulla Terra soltanto quando queste belle cose nuove ci saranno, come provocazione a superarle e a crescere!».

Per parlare con i morti l’importante è capire che dopo il purgatorio essi vivono nel mondo dell’oggettività, delle condizioni dell’evoluzione umana. I morti partecipano intimissimamente ai misteri dell’ambiente, e al massimo grado alle forze che conducono l’evoluzione delle piante, delle pietre, degli animali: è lì che troviamo i pensieri, l’operare dei morti.

Amare la Terra, occuparsi dell’evoluzione della Terra, significa aprirsi – e lo si può fare coscientemente – ai pensieri, alle ispirazioni dei morti che ci dicono come dovremmo fare, come dovremmo trattare il minerale, come dovremmo trattare le piante, come dovremmo trattare gli animali e, soprattutto, come dovremmo trattare gli esseri umani. Il mondo in cui i morti vivono è il mondo dell’evoluzione oggettiva, e i pensieri fondamentali dei morti sono le leggi dell’evoluzione.

I morti pensano i pensieri che reggono le grandi leggi dell’evoluzione e se ne innamorano, perché le trovano bellissime! Poniamo che la legge delle ripetute vite terrene esista – dico così perché non voglio ledere la libertà di nessuno, qui in Occidente, dove siamo in fase di riconquista di questa realtà. È una legge fondamentale dell’evoluzione ed è chiaro che il pensiero della reincarnazione è uno dei pensieri cardine di ogni persona morta, perché con la reincarnazione tutto quadra, tutto diventa comprensibile.

Un Giuda è morto: dove sta ora? Che cosa fa? È sparito, finito? Il cattolicesimo per un certo tempo l’ha messo all’inferno, ma negli ultimi decenni non conosco quasi nessuno (neanche i preti) che, in buona coscienza, se la senta di metterlo all’inferno. Mi sono detto: «Se nell’inferno non c’è neanche Giuda, allora chiudiamolo questo inferno, tanto non ci va nessuno». Giuda però potrebbe anche dire: «Ma io sono già ritornato, un paio di volte!».

Siamo all’inizio di una conoscenza oggettiva, scientifica, di ciò che è invisibile. E i trapassati ci urlano a gran voce di occuparci delle realtà e delle leggi dell’evoluzione. Un Giuda che è appena morto, che si è tolto la vita, non vede l’ora di ritornare sulla Terra… e il pensiero di un cattolico l’ha sbattuto all’inferno. Come potranno comunicare? Manca la lunghezza d’onda comune… Per comunicare con i morti è fondamentale pensare i pensieri giusti sull’evoluzione dell’umanità, sull’evoluzione della Terra.

Siccome i morti lavorano alla realtà oggettiva, è importante conoscerne i pensieri, il vissuto, ma anche ciò che sta loro a cuore. Ai morti sta a cuore, sopra ogni cosa, l’evoluzione di tutti e di ognuno. Il loro sguardo è limpido e scevro da egoismo, centrato sull’oggettivo: guardano agli esseri umani (quelli incarnati e quelli disincarnati) col desiderio di contribuire all’evoluzione di tutta l’umanità, e all’evoluzione di ognuno.

I loro pensieri sono intrisi di amore – è una realtà evidentissima – perché sia lo sguardo, sia i pensieri sono resi più oggettivi dalla purificazione che avviene subito dopo la morte, in cui si lascia indietro la zavorra dell’egoismo, e in cui sorge l’amore verso l’evoluzione dell’umanità intera e di ogni individuo.

Il presupposto necessario, la conditio sine qua non per la cultura umana e i suoi destini è la natura; dunque i morti si occupano dell’evoluzione della natura (delle pietre, delle piante e degli animali) quale sostrato e base per l’evoluzione umana.

I due grandi amori dei morti sono due mondi infiniti:

l’evoluzione della Terra

e l’evoluzione dell’uomo.

I morti amano pensare pensieri sempre più profondi, sempre più belli, sempre più oggettivi e lucidi sull’evoluzione dell’uomo e della Terra. Tutto sta nel costruirsi un’antenna sintonizzata sulla loro stessa lunghezza d’onda per poter cogliere i loro pensieri, e raccogliere i loro messaggi. Per metterci una simile antenna intellettuale e morale dobbiamo occuparci con sempre più gioia e con sempre più amore dei destini dell’umanità e della Terra, perché entrambi questi destini sono i due grandi amori dei morti. Noi continuiamo a chiamarli morti, anche se andando avanti ci è sempre più chiaro che i mezzi vivi siamo noi, pieni di egoismo e mezzi pieni di amore. I morti sono vivi in tutto e per tutto perché sono pieni di amore: si sono liberati dall’egoismo.

Rudolf Steiner descrive a più riprese come, per capire sempre meglio i messaggi dei morti, sia importante fare attenzione a un regno fondamentale, che chiamerò il regno delle possibilità. Facciamo un esempio: per quanto riguarda la giornata di oggi, esso comprende tutto ciò che in questa giornata sarebbe potuto accadere. Ciò che accade noi lo conosciamo, perché lo sentiamo, lo vediamo, lo viviamo: in una parola, lo percepiamo. Molto raramente, però, ci fermiamo a domandarci che cosa sarebbe potuto succedere, nella giornata di oggi, che invece non è successo.

Sono questi i pensieri che ci mettono veramente in comunione profonda con i morti, perché i morti partono dal regno delle possibilità. Se davvero mi pongo questa domanda, devo rispondermi che oggi sarebbero potute accadere infinite cose: per esempio, mentre bevevo il caffè, la tazzina sarebbe potuta restare un centimetro più indietro dalla mia bocca – magari perché stavo parlando – e tutto il caffè si sarebbe rovesciato a terra. Oppure, mentre scendevo la scala, avrei potuto non notare l’ultimo gradino, e rompermi la testa. Il concetto è chiaro: il regno delle possibilità è infinito. Di tutto quello che sarebbe potuto succedere oggi, ne è accaduta soltanto una minima parte – la parte che noi viviamo.

I morti vivono nel mondo delle possibilità, e scelgono coscientemente e liberamente, in questo mare infinito di tutto ciò che sarebbe possibile, proprio quello che è il meglio per noi, lo conoscono e lo fanno accadere. Ogni cosa che accade è una scelta dei morti fra innumerevoli possibilità che vengono decisamente e volutamente scartate. Noi constatiamo ciò che ci capita soltanto quando lo percepiamo con i sensi: ho visto l’ultimo gradino, sono sceso e ho proseguito. Non ho neanche badato al fatto di averlo visto, e non mi viene neanche in mente che sarebbe stato possibile non vederlo, e quindi cadere. No, non ci penso, ho mille altri pensieri e ho da fare…

Quindi noi non pensiamo affatto al possibile; ciò che sarebbe stato possibile lo ignoriamo, oppure ne concepiamo soltanto la parte negativa per noi (nell’esempio della scala penso che sarebbe stato possibile rompermi la testa). Ma la realtà è un’altra: ogni volta che vengo preservato da qualcosa di negativo, da qualcosa che sarebbe stato possibile ma non è accaduto, è perché mi è venuta incontro una persona cara che in quel momento ha fatto la scelta di preservarmi. È lui che mi ha portato via, che mi ha tirato via questa possibilità che c’era: se non lo avesse fatto io sarei caduto.

I morti mi hanno preservato, volutamente e amorevolmente, da tutto il male che non mi è capitato. Sarebbe interessante domandarsi quanti sono i colpi che avrei potuto ricevere e che invece non ho ricevuto… infiniti. Nulla avviene per caso, ma tutto avviene per decisione di amore; e le decisioni di amore che noi non siamo in grado di prendere, le prendono Esseri con una coscienza più vasta – Esseri con una consapevolezza di queste possibilità reali. Se questi Esseri ritenessero che la possibilità di cadere è qualcosa che mi fa bene, che mi fa crescere, allora, operando con le forze del karma, farebbero in modo di farmi cadere.

Si può dire che tutto ciò che mi accade è perché i morti lo vogliono; e tutto ciò che non mi accade è perché i morti non lo vogliono. Ma la decisione, sia di fare in modo che qualcosa mi accada, sia di preservarmi da qualcosa, è sempre loro.

È evidente che le cose non avvengano per caso: ho sempre detto che il caso è un alibi, è un buco nel cervello degli uomini che non sanno spiegare altrimenti le cose. Infatti, dire che qualcosa è avvenuto solo per caso significa in realtà che non so il perché. Ma allora è meglio dire che non sai perché qualcosa è avvenuto ed evitare di parlare di caso! Il caso, cos’è? Come fa a causare le cose, se è caso?

Le cose avvengono casualmente, oppure avvengono causalmente. Casuale e causale sono due concetti opposti: causale significa che c’è una causa, mentre casuale indica proprio che una causa non c’è!

La scienza moderna è fondata sul dogma fondamentale della causalità per tutti i fenomeni, mentre il caso è la mancanza di causa. Lo scienziato moderno, che spiega tutto causalmente, quando non trova spiegazioni non può permettersi di ricorrere alla categoria del caso, perché cade in una contraddizione assoluta.

La scienza moderna si occupa soltanto delle cause e degli effetti visibili, quindi cerca la causa di un accaduto nel mondo visibile, nella natura, ma ciò che non ha una causa nella natura ha una causa spirituale; dove non è la natura a causare qualcosa, sono spiriti a farlo. Quindi, quando parliamo di caso intendiamo dire in realtà che non stiamo trovando una spiegazione nel mondo visibile. Non trovando una spiegazione nel mondo visibile (il mio dogma mi dice che una spiegazione ci deve essere), allora la spiegazione deve essere di natura sovrasensibile: sono i morti, è quello che i morti vogliono! Sono loro la causa di ciò che noi riteniamo avvenga a caso, perché non ne percepiamo materialmente la causa.

I tre grandi campi su cui i morti influiscono, e dove noi possiamo colloquiare con loro sono:

• i nostri pensieri,

• i nostri sentimenti,

• e la nostra volontà, le nostre azioni.

Quando dico: «Ho avuto un’intuizione» in realtà intendo dire che questa bella pensata non è del tutto mia, ma che l’ho avuta, appunto; l’ho ricevuta da qualche parte. Non c’è nulla di strano se nell’intuizione che ho avuto c’è l’amore, l’ispirazione di uno spirito che ha oltrepassato la soglia della morte… colloquiare con i morti significa proprio parlare con loro, chiedere che queste belle ispirazioni ci vengano date. Possiamo dire loro: «Tu sei morto da vent’anni, sei nella fase in cui si vive la vita a ritroso, e cominci a vedere le cose un pochino più spassionatamente, come ti comporteresti in questa situazione? Che consiglio mi dai?».

È bellissimo il passo in cui Steiner dice che dovrà sorgere un’umanità in cui i Parlamenti diventeranno molto meno importanti del colloquio con i morti, dell’ascolto dei loro consigli. Non c’è da dubitare. Se nel Parlamento ci sono soltanto le coscienze incarnate, intrise di oscuramento e di egoismo, cosa salta fuori da cinquecento egoismi messi insieme? La bella società che abbiamo!

Steiner racconta cosa sarebbe un Parlamento dove tutti per un po’, se ne stessero zitti. In Parlamento, che è il luogo dove si parla per antonomasia, non parla più nessuno, e tutti ascoltano le ispirazioni dei morti, chiedono consiglio ai morti. Pensate se lo dicessimo ai nostri politici!

Mi par di capire che Steiner con le parole «Dovrà sorgere…» intende dire che ci vorrà ancora un pochino di tempo, che probabilmente gli esseri umani, a forza di soffrire, dovranno imparare a prendere sul serio i morti, i loro consigli intrisi di saggezza – se non vorranno soffrire sempre di più.

Mi pare una prospettiva evolutiva molto bella! Di fatto però, ci vuole tempo, stiamo appena iniziando ad avvicinarci all’idea che i morti vivono; e poi, addirittura, che si possono recepire i loro pensieri, i loro saggi consigli. C’è molto da fare, ed è ora che ci rimbocchiamo le maniche per farlo, perché è un cammino evolutivo molto bello.

Il colloquio, l’incontro, il rapporto con i morti rappresenta il futuro più luminoso e più pieno di speranza per l’umanità. Se partiamo dal presupposto che fra cent’anni nessuno di noi sarà più vivo, quindi psicologicamente immaginiamo noi stessi ormai defunti, ci riempie di una tristezza infinita il constatare che gli esseri umani non ci parlano più, non vogliono saperne di noi, non si occupano dei nostri pensieri e ci considerano spariti. Il pensiero che una persona morta non c’è più, per i morti è sconfortante, significa sentirsi ignorati. Inoltre, loro sanno che i primi a soffrire per il fatto di non considerarli siamo proprio noi.

Il materialismo è una cosa poderosa, una cosa fenomenale, ma uno dei suoi tratti fondamentali è questo ignorare tutti gli spiriti umani, anche se sono più vivi di noi.

Nell’Opera Omnia (O.O.) di Rudolf Steiner ci sono diversi volumi in cui si parla dei morti: sono l’O.O. 140, 141, 153, 157a, 168, 181, 182, e altri.[15] Questi sono volumi particolarmente incentrati sui morti. Se invece volete un testo più “diluito”, c’è la nuova edizione di Angeli e morti ci parlano,[16] in cui ho parlato di quattro atteggiamenti, di quattro lunghezze d’onda, quattro stati d’animo fondamentali senza i quali non possiamo capire i morti (il riferimento all’Opera Omnia di Steiner è nel volume 181). Senza coltivare questi quattro stati d’animo fondamentali non è possibile capire il loro linguaggio, e se non capisco il linguaggio di un altro, non potrò mettermi in rapporto con lui.

Come abbiamo detto, il linguaggio dei morti è il linguaggio oggettivo della realtà, e nell’umanità il primo inizio di linguaggio oggettivo è proprio la scienza dello spirito. La scienza naturale degli ultimi cinquecento anni è stata un primo inizio di linguaggio oggettivo sul mondo sensibile; è stata necessaria per l’evoluzione dell’umanità, perché ha sviscerato e tuttora sviscera il visibile, il tangibile, il sensibilmente percepibile a tutti i livelli. Ma la scienza dello spirito di Rudolf Steiner è un primo inizio di conoscenza scientifica oggettiva di tutto l’invisibile: essa è un’offerta alla libertà individuale, non aspetta altro che di essere colta dagli uomini, e vi garantisco che approfondirla è un’esperienza inesauribilmente bella.

Nel volume 181 si parla di quattro stati d’animo fondamentali in cui vivono i morti e che è importante per noi coltivare:

la gratitudine per tutto ciò che avviene

il senso di comunione con tutto

il senso di fiducia verso l’avvenire

la capacità di diventare sempre più giovani.

Dopo la morte si vive in un mondo di gratitudine; si sente gratitudine per tutto, perché si vede il lato positivo di ogni cosa. I morti si sentono in comunione con tutto ciò che esiste, come una cellula, come un membro dentro a un organismo vivente. Si sentono in comunione con tutti gli esseri: tutto il cosmo per loro è come un organismo spirituale.

Per quanto riguarda il futuro, hanno una prospettiva di speranza tutta positiva, e vedono ogni cosa che avviene come un invito a procedere nel cammino. Sanno che nulla avviene contro l’uomo, ma tutto avviene per l’uomo, e se io vivo qualcosa contro di me, è perché ho omesso di trasformarlo in qualcosa che favorisce la mia evoluzione.

Infatti, è soltanto l’uomo stesso che può mettersi – nella sua libertà – contro se stesso. Contro di me, posso mettermi soltanto io. Tutto il mondo, tutti gli altri, tutto ciò che avviene, avviene con l’intento di favorire la mia evoluzione. Qualcuno obietterà che non è vero, che ci sono persone che non vogliono affatto favorirci, che anzi, ci vogliono imbrogliare. Ma se qualcuno cerca di imbrogliarmi, danneggia se stesso: il problema è suo. Quanto a me, nessuno m’impedisce di fare del suo imbroglio un motivo di evoluzione… «Ma mi ha rubato diecimila euro!». Meno male, dico io, diecimila grane in meno!

Adesso penserete davvero che sono completamente matto, ma al proposito vi cito quello che ho scritto nel libro Il mistero dell’amore[17] perché arriva sempre qualcuno a dirmi: «Fai presto tu a parlare così: a me quei diecimila euro servivano per campare». Dico io: «Ma se ti servivano per campare, come hai fatto a campare finora senza spenderli? Perché se i diecimila euro te li hanno rubati, non li avevi spesi. Quindi hai campato finora senza usarli. Perciò non dire che ti servivano per campare. Ora hai soltanto le tasche più leggere!» È possibile vivere il lato positivo di tutto, anche del furto di diecimila euro…

Cari amici, la scienza dello spirito è il primo linguaggio comune tra i vivi e i morti. Per la prima volta, proprio nel tempo in cui viviamo, è sorto nell’umanità dei cosiddetti viventi un linguaggio scientificamente degno dei morti. La scienza dello spirito – così come l’ha inaugurata Rudolf Steiner – è il primo linguaggio che i morti capiscono veramente, perché è un’indagine scientifica e rigorosa dell’invisibile, almeno quanto la scienza naturale lo è del mondo visibile.

Noi diciamo che la scienza è un linguaggio comune a tutti perché è oggettiva. Se la scienza fosse una questione soggettiva, non ci capiremmo, ma quello che ci permette di capirci è proprio il linguaggio oggettivo della scienza, che è incardinato sulle leggi di natura. Il linguaggio della scienza dello spirito parla invece delle leggi di evoluzione dello spirito. Siamo in grado di parlare con i morti nella misura in cui conosciamo oggettivamente queste leggi, e questo perché i morti vivono in pensieri che sono le leggi oggettive di evoluzione dello spirito umano.

Steiner descrive un’altra cosa interessantissima, a proposito di come comunicare con i nostri cari defunti, ed è leggere ai morti, cosa impossibile nell’umanità anche solo duecento anni fa.

Leggere ai morti significa prima di tutto convocare il defunto, e questo lo si fa creandosi nella fantasia un’immagine, una rappresentazione tipica di lui. I morti cercano il rapporto con i cari che hanno lasciato, ma siccome non vedono la materia, né la Terra fisica, possono vedere i cari soltanto quando questi ultimi creano nella fantasia un’immagine caratteristica della figura del morto quando era in vita. Quando questa immagine si crea, è come se sulla Terra si accendesse una luce, e il morto capisce che laggiù dove si è accesa una lucina c’è la sua mamma, c’è suo fratello. Ma l’immagine deve essere vivida, devo immaginare il morto proprio come era, com’era solito mettersi nell’angoletto perché nessuno lo disturbasse, col giornale aperto sulle ginocchia… oppure il modo in cui metteva i piedi, come si nascondeva per tre quarti dietro al giornale, e via dicendo. Solo così il mio papà morto potrà presentarsi. Soltanto ora io, il figlio, posso mandargli pensieri oggettivi sullo spirituale e sulle sue leggi. Il morto beve questi pensieri, li capisce, li fa suoi ed è pieno di gratitudine perché nessun essere umano dopo la morte può pensare pensieri che non ha pensato durante la vita.

Il peso morale dell’esistenza sulla Terra è che gli esseri umani possono progredire, evolvere nella loro forza di pensiero soltanto nello stato incarnato. L’unico modo di poter fare qualche passo in più è l’aiuto karmico delle persone care lasciate sulla Terra. Se voglio chiamare il mio caro, devo creare questa immagine nella mia fantasia e visualizzarlo con i suoi tratti tipici, così saprò che a presentarsi non può essere altri che lui.

Gli comunico pensieri sui primi giorni dopo la morte, gli dico che vedrà questo quadro immenso delle memorie, ma che poi dopo tre, quattro, giorni il quadro sarà sparito. Poi gli spiego che dovrà passare tutta la sua vita a ritroso, cominciando da quando è morto all’indietro, fino a quando è nato. Il morto pian piano comincerà a orientarsi. Oppure posso dirgli: «Guarda che tu, a un certo punto, tra la morte e una nuova nascita, dopo che hai tirato il bilancio della tua esistenza, dovrai cominciare a distinguere tra un Angelo, un Arcangelo, e così via e… guai se li confondi! Perché se li confondi non capisci nulla. Dovrai distinguere un Trono da un Cherubino, e, soprattutto un Angelo da un Diavolo».

È grazie alla scienza dello spirito che potrò dargli queste indicazioni, questi orientamenti. Tanti morti aspettano questo pensiero, perché non hanno mai pensato alla differenza che c’è tra un Angelo e un Demone. Molti di noi probabilmente hanno il ricordo della mamma, che da piccolini ci diceva che l’angioletto è sulla spalla destra mentre il diavoletto è sulla spalla sinistra. Ma la differenza è tutt’altra cosa: Angelo è ogni essere che si mette al servizio dell’evoluzione dell’uomo, mentre Diavolo è ogni essere che strumentalizza l’uomo per la sua evoluzione.

Questo criterio è un pensiero comprensibile, ma uno che è morto e non l’ha mai pensato, da solo non lo capisce. Però se glielo facciamo arrivare noi con questa chiarezza (una distinzione molto semplice), potrà dire: «Grazie, adesso capisco. Questo essere mi viene vicino e mi accorgo che mi vuol bene: mi dà consigli che mi favoriscono. Poi mi viene vicino un altro essere che… mi sta abbindolando: deve essere un Diavolo!».

Se il defunto non ha mai avuto chiara la differenza tra un Angelo e un Demone quand’era sulla Terra, dopo la morte non la saprà pensare da solo. È necessario pensare che in tempi di materialismo abbiamo tanti morti che vivono nel mondo spirituale e sono pieni di solitudine, perché non riescono a orientarsi, non riescono a distinguere nulla, non capiscono nulla.

Rudolf Steiner dice addirittura che tanti esseri umani tendono a ritornare sulla Terra cento, duecento, trecento anni prima di ciò che sarebbe bene per loro, perché nel mondo spirituale si stufano: una grande stufata! Le brame del mondo visibile sono talmente forti che vogliono ritornare giù prima – però questo scombussola tutto il karma dell’umanità.

La concretezza del rapporto con i morti ci dice che i momenti privilegiati per colloquiare con loro sono lo svegliarsi e l’addormentarsi. Portare attenzione a questi due momenti di passaggio tra la veglia e il sonno, con l’intento di comunicare sempre più profondamente con i morti, fa parte dell’esercizio della fantasia morale e dell’esercizio della tecnica morale, per accogliere sempre di più le loro ispirazioni, i loro pensieri e i loro consigli.

L’addormentarsi è il momento privilegiato per esprimere domande ai morti, perché noi stessi lasciamo il corpo fuoriuscendone con l’anima e lo spirito, e portiamo loro incontro le nostre domande.

Il momento del risveglio, invece, riporta nella coscienza diurna le loro risposte. È importante sapere che nei sogni del risveglio riportiamo nel mondo ordinario le risposte dei morti. Quando tu ti risvegli, non te ne accorgi, ma nei sogni del risveglio ci sono le risposte dei morti, soprattutto di quelli che ci sono cari.

Ma quali risposte ci possono dare per esempio, i morti da piccoli, i bambini? Tutto il senso della religiosità, il senso del sacro, della pietà, che secondo Steiner non esisterebbero già più, se coloro che sono morti da bambini non ci parlassero al momento del risveglio. Quando ci risvegliamo, portiamo sempre nella coscienza desta i loro messaggi, anche se non ce ne accorgiamo: sono morti bambini proprio per fare il sacrificio di mantenere acceso nell’umanità il senso del divino.

Un’altra cosa interessante è che le domande che noi poniamo vengono dal morto, e le risposte che il morto ci dà sorgono da noi: è tutto invertito. Quando noi ci addormentiamo e sogniamo un morto, è come se le nostre domande, i nostri quesiti, i nostri rovelli fossero diventati oggettivi in lui. In altre parole, ciò che abbiamo da domandargli è ciò che lui porta dentro di sé. Il motivo per cui non cogliamo tante risposte è che noi pensiamo di colloquiare con i morti come dialoghiamo con le persone incarnate.

Quando faccio una domanda, la domanda parte da me e va verso l’altro. Quando lui mi risponde, la risposta parte da lui e viene verso di me. Con i morti è l’opposto! La domanda che io ho da fargli vive in lui, e la risposta la pone lui nella mia interiorità e nasce da me. Questo è importantissimo perché altrimenti, quando sentiamo qualcosa sorgere dalla nostra interiorità, siamo portati a pensare: «Questo viene da me, non può venire dai morti». No, no… le risposte che i morti ci danno sorgono proprio dalla nostra interiorità!

Resterebbe ancora da fare un lungo discorso sulla grande differenza che passa tra le persone che muoiono da bambine e le persone che muoiono da anziane. Steiner dice, per esempio, che fare un funerale consono al bene del morto, è più importante che non tante decisioni parlamentari. Dice che è una cosa mostruosa celebrare allo stesso modo il funerale di un bambino e quello di un anziano. Per chi muore da anziano il funerale giusto è quello protestante, perché è una celebrazione in cui non c’è quasi nulla di rituale, c’è pochissima liturgia. Al centro del funerale protestante c’è la predica, l’orazione funebre, il necrologio: vuol dire che c’è qualcuno che per venti minuti, mezz’ora, articola e rende visibile e vivente la biografia di questo individuo che ha vissuto sulla Terra per settanta, ottanta o novant’anni.

Quando si celebra il funerale a una persona anziana, l’individuo, nella sua unicità, deve venir portato a coscienza per chi resta sulla Terra. Quando muore un bambino è tutto diverso: il bambino non ha avuto la possibilità di un’esistenza individualizzata; non ha sviluppato uno spicco individuale, un contributo tutto suo, ma la sua morte è un sacrificio di comunanza nell’umanità. In questo caso va molto meglio un rito in chiave cattolica.

Chi muore da bambino non lascia la Terra, non ci perde, perché resta con noi. È molto importante pensare a queste individualità come a un’aura che aleggia intorno a noi, ma che non lascia la Terra. Noi non perdiamo i bambini che muoiono, e gli anziani che muoiono non perdono noi. Come vedete, la scienza dello spirito è capace di offrire importanti chiavi di lettura della realtà.

Coloro che muoiono da anziani non ci perdono, perché sono diventati spiriti umani con una matrice di pensiero talmente esercitata, da portarci dentro il mondo spirituale attraverso il ricordo di cui sono intrisi e attraverso il vissuto trascorso con noi. Il dolore per un bambino che è morto è, invece, di tutt’altra natura. L’umanità di oggi non conosce più queste differenze – vanno imparate, e impararle è una gran bella cosa.

Il dolore per un bambino che è morto è un dolore di com-passione. Si soffre con lui, si soffre della sua sofferenza, perché è pieno di rammarico per aver lasciato la Terra senza essere riuscito a gustarsela: stava ancora formando il suo corpo. Per questo i bambini restano con noi. Quindi il dolore per una persona morta bambina è un dolore di amore, di compassione, di immedesimazione. Invece il dolore per una persona anziana è eminentemente egoistico, perché siamo noi a perderla.

Quindi, chi muore bambino sente dolore, perché aveva davanti a sé una vita e la voleva vivere, anche se la sua morte è stata un sacrificio per compiere qualcosa nell’umanità. Invece chi muore anziano gioisce e non sente dolore, perché ha svolto il compito che aveva da svolgere sulla Terra.

Il nostro dolore è comprensibile, però è importante capire che è una faccenda nostra, è un dolore di natura egoistica. Non c’è nulla di male in questo – l’egoismo ce l’abbiamo tutti – però se noi pensassimo che il nostro dolore per la morte di un anziano fosse anche il suo dolore, ci precluderemmo il dialogo con lui. Possiamo entrare in comunione con il nostro caro soltanto nella misura in cui ci sforziamo di vincere l’egoismo che ci fa soffrire per averlo perso, e siamo capaci di gioire della sua morte come ne ha gioito lui.

Allora sì che parliamo lo stesso linguaggio.

Dibattito

Intervento: All’inizio si è detto che i morti ci aiutano a decidere fra tutte le infinite possibilità che abbiamo ogni giorno. Le chiedo ora: qual è il confine della nostra libertà? Voglio dire: se esistono tutte queste influenze nel nostro karma da parte dell’Io superiore (che influenza il momento della nostra morte), da parte dei morti (che possono influire nel mio quotidiano perché capiscono qual è il meglio per me) allora, quanto sono libero io?

Archiati: Il dislivello tra ciò che non è libero e ciò che è libero sta nel fatto che ciò che non è libero c’è di necessità. Voglio dire che ci sono infinite cose, e sono così come sono. La mia libertà non sta nel fare le cose diversamente, ma nel fare il meglio di ciò che mi capita. Se ometto di fare il meglio di ciò che mi capita, non posso lamentarmi: sta nella mia libertà, e la libertà è la somma di tutto ciò che mi è possibile. Tu dirai: «Però ciò che mi è possibile è una minima parte di tutto quello che c’è». È vero, ma il peso morale di un solo frammento di libertà che io afferro e realizzo è infinitamente più grande di tutto il resto che già c’è e non è libero, perché la differenza sta proprio nell’agire della libertà. Quindi non si può fare un discorso quantitativo, perché verremo schiacciati dalla superiorità quantitativa del non libero; ma vediamo che un frammento di libertà vale qualitativamente più di tutto ciò che è determinato.

Intervento: Quindi le non-omissioni sono comprese nella mia libertà.

Archiati: Esatto. E anche una sola non-omissione al giorno pesa moralmente più di tutto il dato di natura insieme, perché quella è bene morale.

Intervento: Se sono i morti a volere tutto quello che mi accade, e tutto ciò che non mi accade è perché i morti mi stanno preservando, come interagiamo noi con il nostro pensiero, con il nostro volere? Ho la possibilità di cambiare anche quel karma, di creare un pensiero nuovo, di creare una realtà nuova?

Archiati: (rivolto a chi ha fatto l’intervento precedente). Lui l’ha capito, te lo spiegherà lui… c’è bisogno di variazioni.

Intervento: Secondo me, nel momento in cui riesci a fare un atto di libertà, cioè un atto che ti allontana dalla necessità del tuo vivere, agisci nella direzione della tua libertà. Cioè, non omettendo un’azione fai una piccola trasformazione che poi trasforma tutto il seguito del divenire.

Archiati: Bravo! Il pensiero c’era, nel senso che gli Angeli e i morti decidono ciò che mi capita, ma decido io come reagire, e questa è la mia libertà. Il modo in cui io reagisco sono affari miei. Ti pare poco?

Intervento: Allora coloro che non reagiscono lo fanno di necessità?

Archiati: Si lasciano fare. Invece di prendere in mano ciò che capita e farne il meglio, si lasciano fare. È facile: basta lasciarsi andare. Di fronte a ogni cosa che mi capita la libertà mi dà due possibilità fondamentali: prenderla in mano e reagire in modo da farne il meglio – e questo è sempre possibile – oppure perdere i colpi!

Intervento: Rimuovendo?

Archiati: Pensiamo a una malattia, per esempio: che senso ha? Come afferro una malattia, nella libertà? Facendone un trampolino di crescita. Il senso di una malattia non sta né nel suo inizio né nella sua fine, perché l’inizio non è interessante e la fine è la fine dello spasso. Il senso di una malattia è il lottare contro. Nel lottare contro una malattia faccio sorgere in me forze, che non potrei far sorgere altrimenti – ed è proprio per questo che il morto me la manda.

Il morto mi dice: «Adesso ti sei dato una bella riposata: per tre anni non ti è capitato nulla e sei pieno di forze. Allora approfitta di queste forze, adesso ti mando una bella malattia e tu, con tutte le forze che ti sei procurato, lotti contro questa malattia. Te la godi proprio per superarla, e quando l’avrai superata ti troverai con forze che prima non avevi». Meglio di così non si può!

Intervento: Chiedo scusa a tutti, sembrerò anacronistico, ma vorrei fare un paio di domande un po’ più generali. Apprezzo e ho profondo rispetto per la buona fede che spinge e che motiva le tue affermazioni, però resto scettico. Anche se sono alla ricerca, come penso tutti qui (la grande frequenza dimostra che siamo tutti interessatissimi a questi argomenti), non riesco a credere a tutto quello che dici, anche se chiaramente prende spunto e ampio riferimento da quello che dice Steiner.

Archiati: No, no, no! Io non ho mai creduto a nulla, nella mia vita, e la Chiesa cattolica mi ha sbattuto fuori – con ragione – proprio perché mi chiedeva di credere. Ho detto a mia madre: «Ti invidio ché sai credere a cose che non capisci, mentre io voglio credere soltanto alle cose che capisco».

Intervento: Ma in questi argomenti la differenza tra il capire e il credere è molto sottile, perché se si capisce si può credere, se invece non si capisce non si crede. Allora io non ho capito nulla… e chiedo proprio questo: di capire.

Archiati: Quando mi riferisco a Steiner, non intendo dire: ipse dixit, e cioè: «il Dottore ha detto». Intendo dire che l’opera di Steiner è a disposizione di tutti: cimentatevi, se siete interessati a goderne quanto ne ho goduto io! Non cito Rudolf Steiner per dar peso alle mie affermazioni, non mi interessa per niente. Parlo a partire dal mio spirito, perché ho girato un po’ tutto il mondo, e guardando l’esperienza umana ho cercato di usare il pensiero che il Padreterno mi ha dato (non l’ho creato io…). Quindi dico soltanto le cose che mi pare di aver capito, nel senso che mi spiegano, meglio di altre ipotesi, il mondo in cui viviamo. Non è importante se i pensieri che io dico ti convincono oppure no, ma se ti mettono una pulce nell’orecchio… allora sì che va bene, vai avanti con la pulce!

Intervento. In altre parole, tu fai riferimento alla vita come a qualcosa di ciclico, dove praticamente nulla muore ma tutto si trasforma: l’animale, il vegetale, l’essere umano. Ma questo ciclo vitale delle specie non basta alla mia sete di conoscenza… che ne è delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni, dei nostri pensieri, della nostra individualità dal momento in cui si muore? Se io ho avuto diverse vite e non ho coscienza delle vite che ho avuto, che senso ha riavere altre vite?

Archiati. No. Siccome siamo intrisi di egoismo sarebbe micidiale, se nella fase mediana dell’evoluzione avessimo il ricordo delle nostre vite passate. Sarebbe micidiale perché siamo intrisi di egoismo, e se io per esempio sapessi che tu l’altra volta eri mia moglie e me ne hai fatte di tutti i colori… Il ricordo delle nostre vite passate nascerà soltanto quando saremo capaci di farne un uso positivo. Il motivo per cui ora non ci ricordiamo delle vite passate è che distribuiremmo le colpe a tutti coloro con i quali abbiamo vissuto, fuorché a noi stessi. Tu ti ricordi di quello che ti è successo quando avevi un anno?

Intervento: Qualcosa…

Archiati: Ti ricordi di ciò che è avvenuto quando avevi sei mesi?

Intervento: No.

Archiati: Il fatto che non ti ricordi vuol forse dire che non è avvenuto? Come vedi, il discorso non funziona. Il fatto di non ricordare qualcosa non è la prova che c’è stato, ma nemmeno significa che non c’è stato. Allora ritorniamo a dei pensieri fondamentali – però i pensieri devi farli tu – perché il mio compito è quello di tirar fuori le persone dalla letargia di pensiero, che uccide l’uomo. Allora ti chiedo: Giuda muore (ho scritto un libricino[18] su questo); dov’è finita la sua evoluzione? Dimmi, dimmi i tuoi pensieri su questo, perché i miei li conosco già!

Intervento: … non lo so, altrimenti non sarei qui a chiedertelo.

Archiati: Allora è giusto che lasci parlare me. Però stai attento, il dire: «In fondo non lo so» è diverso da dire quello che hai detto all’inizio, e cioè che non ti convinco. Quando tu hai detto: «Non mi convinci, non mi convinci!». Io ti ho solo chiesto di darti una calmata. E adesso tu sei arrivato al punto di dire: «Non lo so». E così va molto bene, perché ciò che non sai lo puoi imparare.

Intervento: Mi fa piacere, perché voglio proprio queste risposte per poterci riflettere sopra dopo.

Archiati: Quindi tu mi hai mandato una bella provocazione, e io te l’ho restituita. L’importante è che tutti e due andiamo avanti nel cammino!

Grazie a tutti e buona cena!

Quarta conferenza

Siamo tutti immortali

allora siamo anche “innatali”

Roma, 3 maggio 2003

Cari amici,

questa sera vogliamo dedicare i nostri pensieri all’esistenza dell’essere umano, al fatto che il nostro vivere – il godere pensieri, il provare emozioni e sentimenti, il compiere azioni, insomma questo bel progetto di essere uomini e donne – non si limita a quello spazio di tempo incluso fra la nascita e la morte che è soltanto un trattino della nostra evoluzione.

Ci chiederemo se c’è qualcosa prima della nascita. Ci chiederemo se ci sono dei morti che stanno qui e stanno per nascere, per ritornare sulla Terra… Questa è una domanda un po’ inusuale per la nostra cultura, mentre l’altra domanda, più nota, è quella sull’immortalità: il corpo muore, ma l’essere umano continua a vivere per tutta l’eternità. L’essere umano è dunque immortale?

Abbiamo già parlato del desiderio che i defunti nutrono nei nostri confronti: un grande desiderio che sorga nell’umanità un linguaggio comune. Sicuramente questo è il desiderio di tutti i morti nella misura in cui vivono, esistono, e ci accompagnano nel nostro cammino. Essi sono vivi nel senso che vivono nel mondo spirituale e vivono in compagnia di altre anime trapassate, in compagnia di Esseri angelici a vari livelli di evoluzione, vivono in compagnia di spiriti della natura (in un certo senso più modesti dello spirito umano). Conoscendo altri Esseri, i morti fanno una scoperta importantissima: scoprono che lo spirito umano è caratterizzato da qualcosa di comune a tutti gli esseri umani, qualcosa che lo distingue da ogni altro essere, sia che si trovi prima della morte, sia che ne abbia oltrepassato la soglia.

Ciò che distingue l’essere umano da tutti gli altri esseri è il pensare. In un certo senso tutti gli spiriti sovraumani, a partire dagli Angeli e dagli Arcangeli, ci invidiano il nostro pensare umano, perché non sanno cosa significhi pensare dentro la materia, pensare con lo strumento fisico.

Possiamo immaginare gli Angeli, tutti pieni di stupore, mentre guardano questi spiriti umani incarnati, spiriti che inabitano un corpo e sono capaci di pensare servendosi di un cervello fisico. Gli Angeli si chiedono: «Come si fa a far sprigionare qualcosa di spirituale addirittura dalla materia?». Probabilmente qualche Angelo farebbe volentieri un tentativo di possedere anche lui un cervello. In fondo il fenomeno del possedimento, l’essere posseduti, sta proprio in questo: ci sono tanti spiriti che ci invidiano questa corporeità meravigliosa e complessissima, questo strumento del pensiero, e quindi cacciano fuori dalla corporeità un io un po’ deboluccio per mettersi al suo posto, e possederne in questo modo il corpo.

L’unico essere spirituale sovraumano che ha lasciato la sfera del divino o spirito puro, per entrare in un corpo umano e far l’esperienza della morte in modo da poterla raccontare a tutte le Gerarchie angeliche – e poter raccontare cosa significhi averne paura –, è stato l’Essere solare, Colui che i cristiani chiamano il Cristo e che gli ebrei chiamano il Messia. Il Cristo è l’unico Essere che ha voluto creare i presupposti per inabitare un corpo umano, e fare l’esperienza della morte come la fanno gli esseri umani. Tutte le Gerarchie celesti si chiedevano come avrebbe fatto…

Però l’ha fatto solo Lui ed è una cosa complessissima. Ci vuole tutta la cristologia di Rudolf Steiner per entrare un pochino più scientificamente nel merito di ciò che ha fatto l’Essere solare – molto più vasto, molto più divino di tutte le schiere angeliche. Di come sia riuscito, per gradi di ravvicinamento all’umano attraverso le forze della compassione e le forze dell’amore, a immedesimarsi nell’umano a un punto tale da entrare per tre anni sulla Terra proprio in un corpo fisico (quello di Gesù di Nazareth) e fare l’esperienza della morte. Tutti gli altri esseri non-umani non hanno la più pallida idea di cosa significhi pensare pensieri col sostrato di un cervello fisico.

Dopo la morte, gli esseri umani imparano che, in quanto spiriti umani, possono pensare soltanto pensieri umani. In altre parole, imparano che l’unica cosa umana che resta uguale a tutti i livelli dell’essere, sia fuori che dentro il corpo, è il pensare.

Ma fanno anche un’altra esperienza: scoprono che nessun essere umano può progredire nella sua capacità pensante, quando si è fuori dall’esistenza terrena. L’essere umano capisce le cose solo nella misura in cui le sa pensare. Allora il grande desiderio dei morti in questo tempo è che sorga nell’umanità una scienza dello spirito affrontata in chiave di pensiero – pensieri che distinguono, che sotto-distinguono e che sanno cogliere le leggi dell’evoluzione. I morti desiderano, ci chiedono questi pensieri che non riguardano soltanto il mondo visibile, la scienza naturale, ma soprattutto l’invisibile.

Non avendo più l’aiuto, il supporto del cervello fisico per pensare pensieri umani, desiderano che glieli comunichiamo noi questi pensieri. Chi muore, infatti, porta con sé soltanto il bagaglio dei pensieri che ha saputo pensare; se vuole fare dei passi in avanti nell’evoluzione del suo pensiero, deve ritornare sulla Terra. Questo è il senso del ritornare sulla Terra. Ritornare volentieri, oltretutto, con molta gioia e molta gratitudine per porre le premesse di… di che cosa? Cosa si ripromette chi ritorna sulla Terra?

Chi nasce, ritorna sulla Terra con l’intento di non omettere, di non disdegnare o trascurare il pensare, perché magari durante la bella passata nei mondi spirituali non ci capiva niente, non sapeva distinguere un Angelo da un Arcangelo, o da un diavolo; e allora pensa: «Stavolta torno sulla Terra, e guai se non coltivo il pensiero!».

Ma entrando nel corpo la coscienza si oscura e dimentichiamo quello che ci eravamo ripromessi: siamo presi dalla vita sulla Terra, e ci può succedere di trascurare di nuovo il pensiero. Quindi ritorniamo nel mondo spirituale, dove ci accorgiamo che ci è successo un’altra volta: «Mannaggia, me l’ero detto che mi dovevo dar da fare! E invece c’erano tante cose da fare sulla Terra… e poi io sono nato in Italia, dove c’era la cucina… è una cosa così bella, mangiare! E una volta fatte tutte le cose che ci sono da fare, dove lo trovo il tempo per pensare?».

Costui, da morto, andrà a mendicare i pensieri da quelli che sono sulla Terra. Ma l’amico sulla Terra gli risponderà: «Cosa credi? Anch’io ho da cucinare, ho il lavoro, la macchina e un sacco di impegni… non ce l’ho mica il tempo per pensare». Così si ritorna sempre sulla Terra con l’intento principale di far fare passi in avanti al nostro spirito umano – che è uno spirito pensante – ma poi ci si dimentica tutto.

Per esempio, ed è un esempio importante, dopo la morte ognuno vorrebbe cogliere o capire il pensiero dello spirito dell’umanità, dell’universale umano. Si trova di fronte a questo Essere solare (che gli esseri umani chiamano il Cristo, il Messia) ma non capisce cos’è, perché avrebbe bisogno di forze di pensiero che interpretano, che capiscono, approfondiscono e articolano l’universale umano. Ma se non lo ha fatto sulla Terra, come farà a pensare l’universale umano dopo la morte?

Accennavo che una conoscenza scientifica intrisa di pensiero e di comprensione intellettuale, diventa concreta. Ogni scienza consiste nel superare la fase del dilettantismo; è chiaro che essere scientifici in un certo campo significa diventare sempre più specifici. Prendiamo l’esempio della pedagogia: il dilettante è chi va per sommi capi, e dice che il bambino è bambino, sia che abbia due, tre o quattro anni, per lui il bambino è bambino! Il pedagogo invece sa che un bambino, a due anni e due settimane, è ben diverso da quando ha due anni e quattro settimane. Scientificità significa distinguere sempre di più, diventare sempre più specifici, sempre più concreti. Naturalmente nel mondo visibile ciascuno di noi ha la possibilità, le forze e il tempo di affrontare scientificamente tre campi al massimo, però in quanto spiriti pensanti tutti noi abbiamo la capacità, la chiamata, la potenzialità a diventare sempre più scientifici nel campo che ci riguarda tutti: lo spirito, l’invisibile, il campo dei pensieri.

In questo contesto il compito evolutivo del materialismo è di farci sentire la privazione di ciò che è spirituale, fino al punto in cui non riusciremo più a sopportarla. È allora che cercheremo lo spirituale con gioia, liberamente, e diventeremo sempre più scientifici, sempre più specifici, sempre più concreti nella conoscenza delle sue leggi.

A questo proposito accennerò uno o due esempi concreti citati da Rudolf Steiner, proprio in questo poderoso inizio di una scienza dello spirituale. Rudolf Steiner descrive come nel dopo-morte tutte le forze vitali (il corpo eterico) si espandano in una rete composta da tutti i ricordi della vita. Questa rete diventa sempre più grande, fino al momento in cui (come nell’esempio delle tre o quattro gocce di vino rosso in una damigiana d’acqua) il morto la perde di vista. Ma il mondo di immagini resta una realtà: di tutte le percezioni, di tutti i frammenti di memoria e di tutte le rappresentazioni di una vita non si perde nulla – nulla dell’umano va perso. Come può andar persa una rappresentazione di fantasia, o di memoria? Una volta avuta resta!

Steiner dice: il morto, che ha davanti a sé questo quadro poderoso e globale di tutta la sua vita, vorrebbe comunicare qualcosa a una persona cara che è rimasta sulla Terra, soprattutto se era una persona a lui molto vicina. Ma se gli manda direttamente un pensiero, può succedere che quella persona lì sulla Terra (magari un bravo materialista) non ne venga neppure sfiorata. Il defunto si convincerà allora che è meglio lasciar perdere, ma poi nel kamaloca può venirgli ancora il pensiero di mandare, suscitare in chi è rimasto indietro, uno stato d’animo. Supponiamo che si tratti di far sentire questa persona cara un pochino “depressiva”, un pochino triste. Alla persona sulla Terra non verrà in mente che questa tristezza proviene dal morto che le vuol dire qualcosa… no, si dirà: «… Oggi mi sono alzato col piede sinistro!» Attribuendo la sua tristezza al piede sinistro, costringe il morto a creare un altro modo per comunicare. Il morto si chiederà: «Come posso fare per farmi sentire? Come posso fare in modo che capisca che sono io a volergli dire qualcosa? Qua ci vuole l’immagine, perché a un’umanità imbambolata dall’immagine e dalla televisione occorre mettere davanti qualcosa che vede. Ora, da questa rete infinita dell’immaginario di tutta una vita, prendo un’immagine e gliela appiccico sul naso».

È proprio questo che avviene quando le persone sulla Terra hanno visioni di morti – sono tutte cose descritte da Rudolf Steiner –, hanno un’immaginazione, un’apparizione oppure un’immagine del defunto che si presenta in sogno.

Quando qualcuno dice: «Ma io ho visto il mio caro, ho visto una persona cara morta!», non sa di non aver visto la persona. Non l’ha vista perché il morto è uno spirito, sta molto di più nella sua anima e il tramite della comunicazione non è stato né l’anima del morto, né lo spirito del morto, ma un frammento del suo corpo eterico, di cui il morto si serve perché è l’unico modo che ha per farsi sentire.

Forse chi vive sulla Terra non ha la più pallida idea di queste cose un po’ più scientifiche, non da dilettanti. Capirete bene che c’è una bella differenza, tra l’avere questo tipo di conoscenza scientifica e il non averla. Se so in che modo il morto sta comunicando con me, so anche che mi sta mettendo in contatto con frammenti reali dell’immaginario totale della sua vita, dove ci sono miriadi di percezioni, di rappresentazioni che ha avuto, e non mi sogno certo di essere in contatto diretto con lui, oppure con la sua anima o con il suo spirito.

Sono in grado di chiedermi: «Che cosa mi sta dicendo, attraverso quest’immagine? Perché, tra tutte le immagini possibili del suo corpo eterico, ha preso proprio questa? Che cosa mi vuol dire?». Insomma, non mi fermo al fatto dilettantesco di averlo visto, ma so e capisco che quest’immagine è soltanto un tramite attraverso il quale lui – con un frammento del suo corpo eterico – mi sta dicendo qualcosa.

Non intendo vendervi una verità preconfezionata, non è questo il concetto. Il concetto è che anche nelle cose dell’invisibile – nella comunicazione con i morti per esempio –, c’è un livello di pre-scientificità in cui manca una conoscenza molto più profonda e specifica; e c’è un livello di conoscenze più scientifiche, dove il tutto diventa più complesso.

Se ci chiediamo che cos’è una scienza, dobbiamo risponderci che è il contrario del dilettantismo. Una scienza è andare verso la complessità, l’approfondire quello che invece il dilettante (chi non conosce quella scienza) semplifica. Per il pedagogo la crescita del bambino è una cosa infinitamente complessa. Per chi pedagogo non è, la crescita è una cosa relativamente semplice.

Se questo è vero, nell’approccio al mondo dell’invisibile siamo solo all’inizio di uno studio scientifico; ma non c’è da scoraggiarsi, anzi, è una cosa bella perché vuol dire che c’è da fare ancora tutto, e abbiamo davanti a noi ancora tutto il godimento di questo bel lavoro! L’umanità di oggi è analfabeta riguardo allo spirito, è un dato di fatto palese. E il materialismo consiste proprio nell’essere analfabeti o, se volete, nell’essere dilettanti e non ancora scientifici in fatto di conoscenza del mondo spirituale.

Vi ho descritto il modo principale con cui un morto si fa sentire. Ma c’è anche un altro modo, più profondo, con cui però il morto rischia che il messaggio non venga recepito nella sua purezza: si serve di un frammento del suo corpo eterico non per far sorgere un’immagine, una visione, ma per far sorgere uno stato d’animo o – come dicevo prima – un umore. Si serve di immagini del sogno: uno si sveglia e si ritrova in un certo stato d’animo, che è il risultato del sogno (in cui tesseva, lavorava il morto).

In base a certi orientamenti fondamentali a disposizione dell’umanità di oggi – nella misura in cui questo dialogo, questo rapporto con i morti viene coltivato – si diventa sempre più capaci di cogliere il messaggio di un sogno che ci ha provocato uno stato d’animo. So perciò che attraverso questo stato d’animo il morto sta cercando di dirmi qualcosa: magari che è morto all’improvviso senza aver risolto quella tal cosa, e quindi, attraverso il sogno, mi sta chiedendo di fargli il favore di andare a trovare una persona. Oppure sta cercando di comunicarmi che in un certo cassetto c’è una lettera, o qualcosa che lui avrebbe volentieri distrutto, ma non è riuscito a distruggere, e così via.

La comunicazione tra i vivi e i morti è destinata a diventare sempre più scientifica, perché se restiamo al livello del vedere qualcosa, o di aver avuto la visione di un essere di luce, o simili, significa che ci fermiamo a un livello estremamente dilettantesco.

Vi farò un esempio che ho già portato diverse volte, ma è un esempio importante per capire quale differenza c’è fra il vedere un’immagine (o avere una visione), e penetrarla col pensiero: sono due cose ben diverse! Ci sono due genitori che vanno su un monticello con un bambino di un anno e mezzo, e vedono, in una valle, una battaglia in atto – siamo andati un po’ indietro nel tempo. È una situazione pericolosa, la gente si sta scannando, per cui i genitori dicono: «No, no, qua è meglio scappare subito».

Supponiamo che con loro ci sia anche un cagnolino, o un asino. Viene da chiedersi: cosa vedono i genitori? Che cosa vede il bambino piccolo? E cosa vede l’asino? L’asino, se non è cieco, ha la percezione e vede quello che c’è nella valle. Il bambino, se è un bambino normale, vede. Possiamo dire che vede la battaglia? Che vede il pericolo? No, il pericolo è una faccenda di interpretazione del pensiero e non può essere nella percezione. Il pericolo è l’interpretazione del pensiero che dice: questa è la percezione di una battaglia. Voglio dire che il pensiero, attraverso le immagini, coglie l’interiorità degli esseri umani che si stanno scannando e che sono nemici fra di loro.

Le percezioni mi dicono che non si vogliono bene, che si stanno uccidendo a vicenda. Ma, Si stanno uccidendo a vicenda, si vogliono male a vicenda, non sono cose che si percepiscono, sono concetti che afferra il pensiero. Noi adulti siamo abituati a intridere subito ogni percezione di pensiero, perché interpretiamo la percezione.

Diventare scientifici nel modo di trattare i morti significa non fermarsi alla percezione. Una visione, un’immagine, è una percezione. Ma se ho soltanto la percezione manca tutto. Devo capire che cosa mi si vuol dire con questa immagine, e lo posso capire solo col pensiero, col pensare.

Quindi, a chi mi dice. «Ho visto questo, ho visto quest’altro», io rispondo che non c’è proprio niente di eccezionale, di cose ne abbiamo viste tutti. Immaginate quante percezioni abbiamo ogni giorno: milioni, ma non è quello l’importante. L’importante è il significato, è come il pensiero afferra e interpreta le percezioni che ha e – lo dicevo all’inizio – il modo in cui il pensiero umano prende posizione interpretativa nei confronti della percezione. Questa struttura di interazione tra percezione e pensiero resta uguale anche dopo la morte. Quindi il morto è confrontato con una serie di percezioni sovrasensibili, e ha il compito di interpretarle, di capirle. Può capirle con la capacità pensante che si è creato sulla Terra. E se non se l’è creata, se ha esercitato poco il pensiero sulla Terra, capirà poco le cose che vede, che sono tantissime, perché i frammenti da percepire, il percepibile nel mondo spirituale, non è meno ricco della somma del percepibile del mondo fisico… al contrario! In genere la gente non ha la più pallida idea della ricchezza infinita dei mondi invisibili.

Tutto l’infinito percepibile nel mondo visibile è nulla rispetto al percepibile nel mondo spirituale. Però se io non lo interpreto, se non lo capisco, se non lo approfondisco, non saprò distinguere un essere che mi vuole abbindolare da uno che invece mi vuol favorire, che mi vuole bene e così via: queste sono tutte interpretazioni di pensiero. Del resto, il senso dell’esistenza è proprio di abituarsi, di esercitarsi a pensare sempre meglio. La gioia della vita non è in ciò che si vede, perché se così fosse, dovremmo essere tutti felicissimi proprio perché siamo tutti imbottiti di percezioni. L’infelicità che c’è nel mondo d’oggi proviene dall’esuberanza delle percezioni rispetto ai pensieri che noi ci appiccichiamo sopra.

Nel bombardamento di percezioni in cui ci troviamo perdiamo tutte le nostre energie, perché passiamo continuamente da una percezione all’altra, e non ci resta – o meglio, non lo cerchiamo nemmeno – il tempo per pensare. In fondo siamo poverelli, siamo un sacco pieno di percezioni e vuoto di pensieri… Ma la gioia della vita sono i pensieri. L’essenza dello spirito sono i pensieri, non la percezione, perché la percezione è l’essenza del mondo perituro, del mondo che passa: è l’apparenza. L’essere appare e si presenta nella percezione per provocarmi a trovare, attraverso il pensiero, la sua essenza dietro la parvenza.

Come agiscono i morti sui nostri stati d’animo, sul nostro umore? Se riflettiamo sugli eventi della storia, gli eventi della vita sociale, su come avviene tutto lo sfilarsi della cultura, vediamo che il modo in cui gli esseri umani si comportano fra loro, la storia stessa, non viene creata dagli uomini con piena coscienza, ma in uno stato sognante. Determinanti nelle decisioni storiche, e nello svolgersi della vita sociale ci sono sempre le ispirazioni, i desideri e gli intenti dei morti: in altre parole, al decorso della storia e allo svolgimento del sociale partecipano per metà i vivi e per metà i morti.

Rudolf Steiner ha spesso parlato dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ha detto che se si analizzasse lo stato di coscienza delle poche persone – dieci, forse quindici in tutto – che sono state decisive per lo scoppio della guerra, ci si renderebbe conto che è stato molto più determinante l’agire di Esseri extraumani (tra cui anche i morti). Attraverso questo stato di obnubilamento della coscienza degli Esseri incarnati, gli Esseri extraumani e i morti hanno voluto raggiungere i loro scopi.

Ecco un altro esempio, questa volta molto bello, di come i morti ispirino i vivi. Steiner descrive come i discepoli del Cristo, gli apostoli che duemila anni fa hanno vissuto l’evento Cristo, mentre erano in vita avevano capito poco, in chiave di pensiero, di quello che avveniva. Conservando ancora rimasugli di una chiaroveggenza naturale, atavica (che migliaia di anni prima avevano tutti), con questo “terremoto” successo duemila anni fa ebbero un rapporto del cuore.

Nel terzo secolo dopo Cristo questi dodici apostoli – ormai da tre secoli nel mondo spirituale, dopo aver passato, come ogni essere umano, il loro bel kamaloca –, all’improvviso cominciarono a capire sempre meglio in chiave di pensiero, con pensieri umani, quello che era successo.

Steiner descrive che un Tertulliano[19] (scrittore poderoso, pieno di temperamento, di impulsività, che ha scritto e coniato per primo il linguaggio cristiano-latino nel terzo secolo) non è comprensibile, se non si parte dal presupposto che molti pensieri, molte intuizioni e interpretazioni dell’evento-Cristo gli sono stati ispirati direttamente dagli apostoli. Furono gli apostoli, dopo tre secoli passati nel dopo-morte, a cominciare a mandar giù questi pensieri a coloro che si erano aperti a ricevere queste ispirazioni. Tertulliano non avrebbe potuto assolutamente esprimere certi pensieri da solo, se gli apostoli non li avessero pensati e mandati giù per ispirazione, nel loro stato di dopo-morte…

Veniamo ora alla questione da cui eravamo partiti, cioè alla contraddizione della cosiddetta fede nell’immortalità dell’anima presente nella nostra cultura. La chiamo fede perché la maggior parte delle persone crede nell’immortalità dell’anima. Ma dire che ho fede significa che non ho l’esperienza diretta, perché non sono ancora morto, e non ho neanche l’esperienza diretta di persone morte. Se l’avessi mi convincerei che non si muore con la morte, che la morte riguarda solo il corpo fisico. Ciononostante, sono convinto, credo che l’essere umano non termini con la sua morte, ma continui a vivere.

Se questa fede fosse convinta, fosse profonda, fosse forte, che senso avrebbe la paura della morte? Il fatto che abbiamo paura ci dice che la fede nell’immortalità è diventata molto esile – è diventata debolissima. È una specie di assunto teorico che ci trasciniamo dietro, in un certo senso per tradizione: le religioni hanno sempre detto che l’essere umano non muore con la morte e che l’anima è immortale.

Però noi di quest’anima viviamo così poco, percepiamo così poco, che la nostra fede nell’immortalità non basta a vincere la paura della morte.

Uno dei motivi per cui la fede nell’immortalità diventerà sempre più esile, e sarà un conforto sempre minore, è che essa è in assoluta contraddizione col fatto che non c’è “l’innatalità”.

L’anima umana nasce ma non muore mai. Però nasce, nel senso che a un certo punto comincia a esistere. Il buon cattolico cosa dice? Il cristianesimo tradizionale dice che al momento del concepimento comincia a nascere il sostrato fisico: la divinità crea l’anima e ce la mette dentro.

Quindi, secondo la fede cattolica quest’anima non c’era prima, viene creata al momento. Ci chiediamo se questo è sostenibile, se è veramente plausibile al pensiero umano – perché ci permettiamo di usare il nostro pensiero –, e se questi pensieri, che ci siamo trascinati per molto tempo, oggi non vadano rivisti profondamente.

Il dogma fondamentale del materialismo dice che prima della nascita del corpo l’anima non esiste, bensì viene creata da Dio quando il corpo, attraverso l’atto del concepimento, comincia a formarsi. Qui si cade in contraddizione, perché il dogma del materialismo dice anche che nell’anima non c’è nulla che non dipenda dal corpo. Se l’anima umana non dipendesse in tutto e per tutto dal corpo, potrebbe esistere anche prima. Questa bella pensata, secondo cui l’anima umana prima non esiste, ma viene creata dalla divinità con il corpo, è un errore pauroso del pensiero umano e dell’abisso del materialismo.

Nella misura in cui il cristianesimo tradizionale ha fatto proprio questo pensiero, ha dimostrato di essere arrivato a un punto morto. Si è intriso talmente di materialismo che nel suo dogma fondamentale è diventato materialismo anch’esso. Del resto, questo pensiero non ha nulla a che fare con i vangeli cristiani, con lo spirito originario del cristianesimo.

Se l’anima umana non esiste prima della nascita del corpo, né senza il corpo, vuol dire che dipende in tutto e per tutto dal corpo fisico. Arriva la morte, il corpo sparisce e – se non vogliamo contraddirci – dovremmo dire che sparisce anche l’anima, proprio perché abbiamo detto che essa non può esistere senza il sostrato, senza lo strumento corporeo. Vedete, in fatto di immortalità dell’anima la sedicente cultura occidentale, la cultura cosiddetta cristiana, vive una profonda contraddizione di pensiero.

Non voglio criticare nessuno, ma sono cose fondamentali, si tratta di onestà intellettuale. Se è vero che la nostra cultura vive in questo errore di pensiero, allora è importantissimo correggerlo. Proviamo a immaginare che non sia così, supponiamo che le anime che entrano nel corpo dal concepimento esistano già prima – supponiamo la preesistenza –, allora verrà spontaneo domandarsi: da dove arrivano queste anime? Sono anime di morti che stanno per ritornare nel corpo. Immaginate cosa può significare, il nostro continuare a pensare che non esistono, mentre loro sono lì…

Il concetto della preesistenza dice che il nascituro esiste da sempre come spirito umano e che, forse già da secoli, si sta creando i presupposti per ritornare sulla Terra. Steiner addirittura dice che il nascituro partecipa alla linea di sangue, all’ereditarietà nella quale si vuole incarnare, per trentacinque-trentasei generazioni: segue già tutti i bisnonni, i bisavoli, i trisavoli… Se consideriamo la durata di una generazione, circa trentatré anni, e la moltiplichiamo per trentasei, arriviamo a mille anni. È ben diverso dall’affermare che l’anima non esiste o viene creata da Dio al momento del concepimento!

Uno dei grandi compiti della nostra cultura è di riconquistarci la realtà della preesistenza, e correggere l’errore di pensiero in cui siamo immersi.

Le anime in attesa di ritornare esistono, hanno già passato diverse vite sulla Terra. Si trovano tutte nell’arco di vita che va dall’ultima morte alla nuova nascita e hanno partecipato, addirittura per secoli, a tutto quello che avviene sulla Terra, seguendo la linea di sangue in cui vogliono nascere. Ma noi, con la nostra idea che l’anima viene creata da Dio – perché senza il corpo non esiste – ci priviamo della possibilità di capire molte esperienze umane.

Una di quelle che ci riescono comprensibili solo a partire dal presupposto della preesistenza è l’innamoramento. Cos’è l’innamoramento? Non mi riferisco all’innamoramento a senso unico, che può creare tanti problemi, bensì all’innamoramento reciproco, quello a doppio senso, al fenomeno puro. L’innamoramento è uno dei fenomeni di cogenza più micidiali che ci siano. Quando è reciproco poi, la cotta è tale che arriviamo a dire: non posso farci nulla.

Il vissuto animico dell’innamoramento di chi è incarnato è una brama irresistibile: la brama dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo. Questo è un vissuto animico; ma se pensiamo che tutto l’animico è il rispecchiamento di una realtà spirituale, qual è allora la realtà spirituale che si rispecchia nell’innamoramento? È la volontà perentoria di chi si vuole incarnare – quella è la realtà spirituale.

L’attrattiva dei due sessi non è solamente un fatto di natura; essa sorge nell’anima di chi vive sulla Terra come riflesso di una volontà di un nascituro ben preciso, che sa che nel suo karma, nel destino della sua vita successiva, quella donna dovrà essere sua madre e quell’uomo suo padre. Uno è nato in Canada, l’altra è nata in Cina e lui vuole farli mettere insieme. Quel “signorino” lì è capace di farli incontrare.

In tutti i passi che questi due futuri genitori compiranno fino al loro incontro ci sono le forze di volontà incarnatoria di colui che li porterà a incontrarsi e a mettersi insieme.

Alla luce di tutto ciò, sorge spontanea la domanda dell’innatalità, perché il pensiero che i nascituri, gli spiriti che vogliono incarnarsi, vengano “fabbricati” al momento della formazione del corpo è sempre più grottesco. Se è vero che Dio crea l’anima ogni volta che avviene un concepimento, significa che non è Lui a decidere quante ne dovrà “fabbricare”. Obblighiamo Dio a un dovere, a dover “appiccicare” un’anima ogni volta che due persone si accoppiano – e magari lo fanno senza volerlo.

Son cose enormi, veramente importanti. Pensiamo alle conseguenze di questo modo di pensare nell’educazione, nella pedagogia, per esempio. Partire dal presupposto che l’anima del bambino prima non c’era, è molto diverso dal pensare che è sempre esistita. Nel primo caso – se è stata creata da Dio al momento della nascita – viene giù, e il nostro compito è darle una “regolata” e insegnarle come ci si comporta sulla Terra. In questo caso, gli educatori, gli adulti dicono: «Cosa sei venuto a fare? Siccome noi siamo qui da un po’ più di tempo rispetto a te, noi sappiamo, e tu devi imparare!».

Nell’altra prospettiva questo essere che si è incarnato (poniamo un bambino di un anno, o di sette anni, che va a scuola) ha alle spalle secoli, millenni di evoluzione. Ha lavorato al sangue, alla generazione, all’ereditarietà per trentacinque, trentasei generazioni. Poi, attraverso l’innamoramento reciproco, ha fatto incontrare i suoi genitori da due parti opposte del pianeta e viene giù sulla Terra – insieme col suo Io superiore, con l’Angelo custode e con l’Io dell’umanità – con una missione. Viene giù a far qualcosa, si è fatto dei piani. L’educazione quindi non consisterà nel dirgli cosa deve fare, ma nel chiedergli: dicci cosa sei venuto a fare, chi sei tu?

L’educatore è un giardiniere – e non di più – che crea le condizioni, il suolo giusto. Però quello che salterà fuori da questa pianticella devono deciderlo le leggi immanenti della pianticella stessa.

Aristotele è stato il primo a perdere di vista la preesistenza, e questo è accaduto per darci la possibilità di riconquistarla individualmente in chiave di pensiero e non più in chiave di rivelazione (anche il cristianesimo l’ha perduta dopo aver recepito questo pensiero di Aristotele).

Nella prospettiva della preesistenza, ogni bambino che nasce è uno spirito che dopo l’ultima incarnazione si è purificato e poi, nel mondo spirituale, ha partecipato a cambiare le condizioni evolutive sulla Terra – per potersi reincarnare un’altra volta in condizioni diverse e poter fare passi evolutivi diversi. Questo essere ora viene giù non soltanto nelle condizioni nuove del mondo, che sono uguali per tutti, ma viene giù con un compito unico, individuale, specifico, tutto suo, una biografia che sarà diversa da tutte le altre.

Questo ci fa dire che ci sono due tipi fondamentali di pedagogia: l’uno parte dal presupposto che le vite precedenti non esistano; l’altro tipo di pedagogia parte invece dal presupposto della preesistenza, e pensa che ogni spirito umano, ogni bambino, sia un adulto di millenni nel suo spirito. Ogni bimbo è bambino soltanto nel corpo, che gli serve come strumento di nuovi passi evolutivi del tutto individuali.

Ecco quindi una pedagogia che gli crea tutte le condizioni affinché questo fiore (c’è differenza tra una rosa e un tulipano…) si espanda, possa crescere e manifestarsi. Il pedagogo che lavora in questa prospettiva non dice al bambino cosa deve diventare: questo sarebbe un omicidio animico. Sarebbe come uccidere in lui quello che è venuto a essere, che non è soltanto ciò che vuole ma ciò che deve essere, quale cellula specifica dell’organo unico nell’umanità.

Quindi il pedagogo, parlando con l’Io superiore e con l’Angelo custode del bambino, gli domanderà: «Chi sei tu nell’umanità? Qual è il tuo compito? Qual è il tuo contributo, il tuo modo specifico di amare, di servire l’umanità? Che cosa sei venuto a fare questa volta sulla Terra? Devi dirlo tu!». Perché se la generazione precedente dicesse a quella successiva come deve essere, saremmo dei conservatori a tutti i livelli e l’umanità non andrebbe mai avanti.

La generazione nuova porta giù sulla Terra impulsi di cui quella vecchia non ha la più pallida idea, proprio perché è vecchia. In altre parole, avendo perso la prospettiva della preesistenza soffochiamo già in partenza il nuovo, il rinnovamento, i passi in avanti che il cosiddetto bambino porta giù. Vogliamo dirgli noi cosa deve fare, come deve essere, gli diciamo: «Qui abbiamo uno Stato e tu per essere un bravo dipendente statale, per essere un bravo soldato, devi fare questo, poi questo e quest’altro. Tu sei venuto a servire ciò che già esiste, ciò che è già stabilito». Ma quello risponderà: «Io sono venuto per portare qualcosa di nuovo… lasciatemi respirare!».

Nella storia dell’immortalità c’è un’evoluzione sia dell’immortalità, sia dell’innatalità. In questo senso possiamo individuare tre pietre miliari, tre gradini che ci faranno capire tante cose:

• Aristotele

• Tommaso d’Aquino (alle prese con gli arabi, con il mondo dell’Islam e con gli averroisti)

• la situazione oggi.

Aristotele è il primo grande pensatore che non parla della preesistenza. Anche se non arriva a negarla espressamente, la mette nel dimenticatoio e si concentra su quell’aspetto dell’animico che si vive nell’interazione col corpo. Tra l’altro, descrive tutto questo scientificamente.

Secondo Aristotele, il vissuto dell’anima parte da quando nasce il corpo, e tutta la memoria di ciò che l’anima ha vissuto, grazie all’interazione col corpo, resta dopo la morte. In base a queste affermazioni è sorto il pensiero della non-preesistenza e poi dell’immortalità. Perché il fatto di poter guardare, in chiave di memoria, a ciò che si è vissuto quando si era nel corpo, rende l’anima immortale. In base a questo assunto, nella vita spirituale, l’anima guarda sempre al momento della morte e pensa: «Ah, io ero nel corpo! Quindi mi ricordo di tutto ciò che ho vissuto quando vi ero dentro» – c’è un non cadere nel nulla.

Il secondo passo fondamentale viene fatto molti secoli dopo Aristotele (dodici, tredici secoli dopo Cristo circa), al tempo in cui Tommaso d’Aquino si arrabbiava moltissimo con gli averroisti. Averroè sosteneva che l’immortalità dell’anima è un’illusione e non esiste l’anima individuale che resta cosciente del proprio Io dopo la morte. Grazie al corpo abbiamo l’illusione di essere separati dagli altri. Grazie al corpo abbiamo la sensazione di essere qualcosa di distinto, ma una volta che sparisce la corporeità, il nostro frammento d’anima ritorna nell’anima universale e l’immortalità individuale non esiste.

Tommaso d’Aquino diceva: «Ma questo è madornale! Se non c’è l’immortalità individuale, l’individuo sparisce nel nulla dopo la morte; dunque non c’è nessuna possibilità di metterlo né all’inferno né in paradiso! Se sparisce nel nulla, vuol dire che era un’illusione anche sulla Terra». Tommaso d’Aquino avverte che l’essenza dell’umano sta proprio nell’immortalità dell’Io, nel sentirsi un Io anche dopo la morte, nel viversi come Io anche senza il corpo, e dice che l’essere umano è immortale.

Oggi (terzo passo) siamo a un altro punto dell’evoluzione, perché se lo vogliamo, siamo in grado di aggiungere al pensiero di Tommaso d’Aquino un altro pensiero, che lui a quei tempi non poteva pensare: immortali non si è, immortali si diventa. Ognuno è tanto immortale quanto lo è diventato nel corso della vita, ognuno ha tanta immortalità in sé quanto ha costruito in sé di spirituale, quanto ha vissuto quale spirito indipendente dalla materia – che è proprio il compito dell’evoluzione. Quindi l’immortalità non soltanto viene conquistata nel corso dell’evoluzione, ma ha tantissimi gradi d’intensità, che variano da persona a persona.

Il compito più importante non soltanto per la pedagogia, ma anche per il cammino dell’umanità, è proprio il riconquistare la consapevolezza della preesistenza. Altrimenti resteremo nel convincimento che l’anima umana non esiste prima che sorga il corpo, e resteremo nell’abisso del materialismo.

L’unico modo per riconquistarci la realtà della preesistenza e vincere il materialismo, è superare questa convinzione dogmatica, perché la conseguenza – inesorabile – di questo pensiero è che l’anima umana è in tutto e per tutto un risultato, un effetto della realtà corporea.

Se continueremo a coltivare questa prospettiva, avremo di necessità un tipo di pedagogia che continua a uccidere le forze migliori degli spiriti umani che si incarnano, forze che essi portano con sé con l’intento di fruttificare e immettere nell’umanità, in modo da farla camminare verso mete continuamente nuove.

Ognuno nasce con un compito, con una missione individuale, e aver cancellato la preesistenza significa aver ucciso il senso della vita. Come posso io scoprire il senso della mia vita? Come posso sentire che sono venuto sulla Terra con una missione, con un compito ben specifico, con un progetto di vita, se mi sono messo in testa che prima del concepimento io non esistevo? Come potrei aver portato giù un senso, un progetto della mia vita?

Riconquistare la preesistenza significa – in chiave psicologica – sentire questa gioia, questo prorompere di significato; sentire che ognuno di noi porta in sé una missione nel suo spirito. Finora non l’ha portata a coscienza, ma c’è! Non esiste uno spirito umano che si incarni senza avere uno scopo tutto positivo, altrimenti non s’incarna.

Riusciamo a immaginare la decisione di passare un’esistenza sulla Terra per nulla? È assurdo! E ci lamentiamo che la vita è senza senso, che non c’è voglia di vivere… no! O riscopro la realtà della preesistenza e comincio a chiedere al mio Io spirituale, al mio Angelo custode: «Cosa hai pensato prima che quest’animuccia semi-conscia s’incarnasse? Tu che sei il mio vero Io, tu che sei il mio spirito, cosa sei venuto a fare? Di sicuro hai una missione tutta tua, dimmela»; oppure mi condanno a vivere da rassegnato, a vivere la depressione endemica del materialismo.

I compiti, non soltanto pedagogici ma di cammino spirituale che incombono nell’umanità sono grandi, sono belli, ma sono urgenti; sono veramente urgenti.

Dibattito

Intervento: Mi pare di aver capito che il numero delle anime è un numero chiuso… nel senso che in questa stanza, per esempio, sicuramente siamo tutti scesi sulla Terra già un po’ di volte. Ma se è così, come posso io porre un limite alla facoltà del divino di inviare, in un dato momento, qualcosa di nuovo, qualcosa che non ha un precedente? Ecco, mi manca questo passaggio.

Archiati: Tu che risposta ti dai?

Intervento: Credo che ci siano momenti nella storia della Terra, in cui il divino decide di inviare delle anime speciali, con dei compiti particolari per l’evoluzione dell’uomo. Ma mi verrebbe anche da dire che il numero delle anime gira, che io non sono qui per la prima volta, che ho un percorso da fare e che l’obiettivo finale è quello di non ritornare, di finire questo percorso… un po’ come diceva Aurobindo,[20] probabilmente nel nostro futuro non c’è solo l’incarnazione umana, ma il percorso si evolverà in altra maniera. Ecco, mi sembra così…

Archiati: La tua domanda comporta diversi elementi, tutti molto importanti, ma comincerò dall’ultimo. Il concetto cristiano di reincarnazione, diverso da quello orientale classico, è che non c’è una ruota che si muove all’infinito, ma che le reincarnazioni hanno un inizio e una fine. Benché siano parecchie, non sono infinite. In altre parole, l’evoluzione della Terra è concepita e va dal suo inizio alla sua fine, dopodiché ci sarà una nuova forma planetaria della Terra che la Bibbia chiama la Terra Nuova (la nuova Gerusalemme) in cui non ci sarà questa legge fondamentale dell’evoluzione che è la reincarnazione. Quindi i passaggi sulla Terra hanno un inizio e una fine, ma non c’è un tipo solo di esistenza. Un altro aspetto che hai sollevato è che noi diciamo che gli spiriti umani sono stati tutti creati all’inizio, oppure che a ogni concepimento ne viene creato uno nuovo…

Intervento: Oppure metà e metà! Intendo dire che ogni tanto può essere previsto che ne venga creato uno nuovo.

Archiati: Questo complica un pochino il compito. Diciamo che se l’organismo spirituale dell’umanità non fosse stato concepito completo dalla fantasia divina, allora la fantasia divina sarebbe carente. In altre parole, il concetto di organismo spirituale dell’umanità comprende tutti i suoi membri nella mente divina. Quindi non possono subentrare più tardi. Che un essere, presente da sempre nella mente divina, si manifesti in un certo senso o in un altro, in un senso innovatorio, per esempio, è da riferire a questioni di manifestazione sulla Terra e non del sorgere di uno spirito che prima non c’era. Altrimenti il concepire l’organismo dell’umanità sarebbe stato carente all’inizio. Il problema dell’aumento della popolazione è tale solo per chi pensa che si vive una volta sola, e quindi che vengono create sempre nuove anime: che motivo avrebbe, la divinità, di creare più anime oggi rispetto a tremila anni fa? Perché proprio oggi di più?

L’altro pensiero, invece, è che gli spiriti umani sono stati creati tutti all’inizio, in quest’organismo dell’umanità, ma siccome quest’organismo non era ancora differenziato, ecco il senso di inserirsi ripetute volte nella materia: diventare sempre più autonomi in un organismo non ancora differenziato. Gli Scolastici infatti dicevano: materia principium individuationis. Soltanto congiungendoci ripetutamente con l’elemento della materia acquisiamo, oltre al fatto di essere organizzati in un organismo spirituale, di diventare un io autonomo.

Il numero degli spiriti umani è sempre lo stesso. Sono stati creati dalla fantasia divina all’inizio, però abitano in due sfere diverse, ci sono quelli incarnati e quelli fuori dal corpo (i morti). Se mettiamo insieme queste due parti, la somma degli Io umani è sempre uguale. Del resto, far sorgere un Io umano adesso sarebbe come far nascere qualcuno a trent’anni… Così come non si può nascere a trent’anni, non si può nascere come spirito umano quando l’evoluzione è già avanti di uno, o due terzi.

Quando gli spiriti incarnati aumentano, quelli che sono nel mondo spirituale diminuiscono, perché il numero totale è sempre lo stesso. Siccome il tempo che si passa nello spirito, tra una morte e una nuova nascita è normalmente molto più lungo del tempo che si passa sulla Terra, il numero degli spiriti umani escarnati in questo momento è molto maggiore di quello degli spiriti incarnati. Quelli incarnati sono circa sei miliardi, quelli escarnati sono tre, quattro, cinque volte di più, però sono numerati. Quindi le incarnazioni hanno un inizio e una fine. Tu dicevi che c’è sempre bisogno di missioni particolari, ma una missione particolare puoi affidarla a uno spirito che, come tutti gli altri, esiste da sempre, a uno spirito che non ha bisogno di nascere apposta per ricevere questa missione. Perché lo spirito di un Francesco d’Assisi (o di uno Sri Aurobindo) non può essere stato creato dalla mente divina fin dall’inizio, pur avendo in questa incarnazione – supponiamo come Aurobindo – il compito di immettere importanti impulsi evolutivi per l’umanità? Come spirito non ha bisogno di sorgere ora.

Intervento: Ho pensato anche a figure demoniache come Hitler, e mi chiedo se nell’evoluzione dell’uomo, nell’assolvimento di un karma (per esempio quello del popolo ebraico) la divinità decide di mandare sulla Terra un Angelo o un Demone perché quel karma si compia.

Archiati: Non è proprio così, nel senso che questi Demoni ci sono sempre: non è la divinità a mandarceli! Come ogni individuo ha un Angelo custode e un suo Demone individuale, allo stesso modo ogni popolo ha uno Spirito del popolo e un Demone del popolo. Se non ci fossero forza e controforza non ci sarebbe la libertà. La libertà è possibile solo se io posso scegliere. Se ottanta milioni d’individui – prendiamo per esempio il popolo mitteleuropeo – omettono di congiungersi, di aprirsi alle ispirazioni dello Spirito di popolo, allora si espongono alle ispirazioni del Demone del popolo.

Il presupposto da cui parto è che il Demone del popolo è un Essere spirituale reale. Se un questo popolo omette in modo forte di congiungersi con il suo Spirito, conferisce al Demone del popolo una potenza tale da renderlo capace di possedere un essere umano. Il fenomeno Hitler non è spiegabile senza ricorrere alla possessione, senza ricorrere al fatto che il vuoto lasciato dall’infedeltà allo Spirito del popolo, ha reso il Demone talmente potente da afferrare un catalizzatore e compiere quello che ha compiuto.

Resta una domanda molto importante che, tra l’altro, Steiner ha espresso nei confronti di Napoleone (Napoleone è morto prima che venisse Hitler); Steiner ha detto che ha cercato a lungo l’Io di Napoleone, ma non l’ha trovato. In altre parole, Napoleone non era un Io umano. Quindi forze extra-umane si sono impossessate di questo corpo astrale, di questo corpo eterico, di questo corpo fisico: ma un Io umano non c’era. Per me la domanda, se Hitler fosse veramente un Io umano, resta aperta. Perché per permettere un fenomeno di possessione a questo livello, c’è da chiedersi se si trattasse di un Io umano fin dagli inizi.

Ci sono esseri umani che cominciano a omettere l’umano a livelli tali da cominciare a disfare l’Io – almeno parzialmente. Steiner dice che ce ne sono tanti. Questo, naturalmente, conferisce alle controforze una potenza sempre maggiore.

Intervento: Lei ha spiegato che i morti ci trasmettono visioni: parlava dei morti in questa vita? Mi spiego meglio: io non riuscivo a seguire questo discorso perché in questa vita non ho fatto l’esperienza della morte di persone care. Quindi mi chiedevo chi è a mandarmi queste intuizioni o queste visioni.

Archiati: Non c’è bisogno che il morto sia stato una persona cara; può trattarsi di un morto che sa che certe cose, nell’umanità, può farle soltanto lei, e perciò acchiappa lei.

Intervento: Quindi non è detto che debba essere un morto caro?

Archiati: No, con un morto caro avviene più frequentemente e più facilmente, ma i morti agiscono dappertutto, dove possono.

Intervento: Volevo una precisazione. Lei ha detto che quello che rimane nell’Io del morto è il pensiero. Ma c’è differenza tra pensiero e ragionamento? Vorrei capire quale parte del pensiero rimane poi costante nell’Io.

Archiati: Riassumo perché non ho molto tempo: ci sono due tipi fondamentali di pensiero, profondamente distinti. Uno è maggiormente passivo; l’altro è un tipo di pensiero maggiormente attivo. In questa qualità di passività, di automatismo, di ricezione, o in questa qualità di attività, di creatività, di fantasia, si decidono le sorti del pensiero. Mi spiego meglio: il pensiero della scienza moderna è quasi tutto speculare. Che significa speculare? Speculum è lo specchio, è un pensiero riflesso, quindi passivo, indotto – la percezione mi fa apparire automaticamente una rappresentazione. Il creare un tipo di pensiero sempre più attivo è il compito evolutivo che abbiamo davanti, perché è la conquista della libertà.

Chi muore oggi, in tempi di materialismo, dice: «Sulla Terra io credevo di pensare, ma quello non era un pensiero. Mi venivano, mi frullavano tante cose per la testa, ma quello non è pensare. E adesso mi vengono soltanto i pensieri che creo Io, ma non me ne vengono perché non sono abituato a creare i pensieri. Mannaggia, magari avessi imparato a crearli sulla Terra! Ora ci ritorno; ci ritorno il più presto possibile per imparare a creare i pensieri».

Intervento: Quindi se vogliamo evolverci, dobbiamo saper distinguere tra il pensiero speculare e la libertà dell’intuizione, che ci permette di avere un pensiero creativo, per poterlo poi portare dall’altra parte. È questo il compito?

Archiati: Ti convince?

Intervento: Sì, sì.

Archiati: Ecco, è quello l’importante, perché è un compito non da poco. Il compito di ricreare tutta la creazione, a partire dall’attività pensante del mio spirito, è una cosa meravigliosa, meglio non si può! Ne abbiamo da fare…

Intervento: Quando ha parlato di Cristo – forse ho capito male io –, ha detto tre anni o trentatré? Perché se ha detto tre, voleva dire che lo spirito di Cristo era entrato in Lui quando aveva trent’anni, quindi si era messo dentro di Lui. Se invece ha detto trentatré, vuol dire che c’era fin dall’inizio.

Archiati: Riassumo anche qui. Una delle cose che rendono indigesto Steiner a certi teologi è proprio il fatto che ti fa guardare a cose che altrimenti non vedresti, o non vorresti vedere. Se il Verbo, il Cristo, l’Essere del Sole – chiamatelo come volete – si fosse incarnato, si fosse fatto uomo fin dalla nascita, allora non mi spiego due cose fondamentali che ora vi evidenzio. Una è che due dei quattro vangeli non ne parlano: perché? Marco e Giovanni cominciano i loro vangeli quando Gesù aveva trent’anni, ma come possono ignorare l’incarnazione del Verbo?

Intervento: Ma qui dicono che Lui era un esseno, che aveva vissuto…

Archiati: Stai parlando di Gesù di Nazareth, non del Cristo. Sì, ma se il Cristo si è incarnato alla nascita di Gesù di Nazareth, come fanno addirittura due vangeli a non parlarne? Questa è la prima pulce nell’orecchio. Seconda pulce nell’orecchio: se l’incarnazione del Verbo fosse avvenuta a Natale, quindi alla nascita del bambino, non si spiegherebbe che il cristianesimo dei primi tre secoli (fino al 391 a Roma) non avesse la festa di Natale. Proprio non esisteva. C’era la festa dell’Epifania: la festa del battesimo nel Giordano con lo Spirito Santo che si univa a Gesù. Epifanei in greco significa rilucere, rilucere su Gesù di Nazareth per restare congiunto con lui. Questa era la grande festa, il battesimo nel Giordano. Il Natale è stato introdotto a Roma nel 391: come fa il cristianesimo a vivere per quasi quattro secoli senza l’incarnazione del Verbo?

Gesù di Nazareth è un uomo, non è il Cristo. Gesù di Nazareth è il portatore del Cristo. Tutto ciò è molto complesso, perché il Gesù di Nazareth di cui ti parla Matteo è tutta un’altra faccenda rispetto a quella di cui ti parla il Vangelo di Luca. I teologi su questi punti dicevano a noi studenti: «Tu devi studiare quello che hai imparato per passare l’esame e poi stai zitto!». E noi rispondevamo: «Nei due vangeli neanche il nonno è lo stesso. Poi Luca li fa tornare a Nazareth e parla dei pastori, mentre Matteo te li fa andare in Egitto. Ma allora è tornato a Nazareth o è andato in Egitto?».

Il concetto di Gesù di Nazareth è che in questo essere umano sono riassunte tutte le forze più belle dell’umanità. In Matteo Gesù di Nazareth riassume tutta la corrente zaratustriana e in Luca riassume tutta la spiritualità buddista. Gesù riassume la saggezza dell’imperatore, del re, da una parte; e dall’altra tutta la compassione dell’anima candida. Poi avviene quel putiferio descritto nel racconto della perdita di Gesù nel tempio a dodici anni – c’è una sintesi, e questo Gesù di Nazareth trentenne è la somma di tutte le forze più belle dell’umanità, che come un calice va incontro al Logos che si incarna. In quel momento il Cristo si congiunge col Gesù. Però Gesù di Nazareth è l’umano, è un essere umano.

Intervento: Quindi avevo capito bene, lei ha detto tre anni…

Archiati: Certo, ho detto proprio così, non mi è scappata sbagliata…Intervento: Volevo chiederle: come si inserisce, l’aborto, nella scelta dei genitori?

Archiati: L’aborto cosciente?

Intervento: Sia cosciente, sia non cosciente.

Archiati: In quello di natura non c’è l’intervento dell’arbitrio umano, quindi bisogna vedere che costellazioni di forze karmiche ci sono in atto. Tutt’altra cosa è l’arbitrio di una coscienza incarnata, quando decide di interrompere il processo incarnatorio. Ogni caso è un caso a sé: occorre l’osservazione sovrasensibile, per vedere quali realtà, quali forze karmiche sono presenti o non sono presenti in un caso o nell’altro.

Supponiamo che la mamma faccia fatica o non riesca (non necessariamente per motivi economici, ma per motivi psicologici) a portare avanti la gravidanza. Il nascituro che si è messo in testa che quella lì deve esserne la madre, non può aver preso questa decisione senza aver avuto a che fare karmicamente con questa persona per dei millenni. Quindi, queste individualità hanno avuto un influsso reciproco per millenni, e il nascituro sa che questa mamma lo accoglierà a fatica. E pensa: «Questa mamma farà fatica ad accogliermi perché io stesso sono stato così egoista e, tra l’altro, ho concorso anch’io a renderla così egoista che fatica a farmi nascere. Spero che riesca, io le mando tanti incoraggiamenti: mamma, dai che insieme ce la facciamo… La Chiesa cattolica però le ha messo in testa che io non esisto, così lei mi chiude la porta!».

Se c’è un karma che va vissuto, il karma non si raggira perché distruggeremmo noi stessi. Allora il nascituro potrebbe pensare: « Volevo continuare questo karma, questo conto aperto incarnandomi come figlio di questa donna; ma visto che questa volta la libertà dell’arbitrio non me lo consente, aspetto che questa donna abbia un altro concepimento, e vediamo se ce la fa – io m’incarnerò nella prossima occasione».

Oppure potrebbe dire: «Io devo incarnarmi adesso, altrimenti il tempo non è più quello giusto». Ecco allora che s’incarna da un’altra donna. In questo caso penserà: «Vediamo se un po’ più avanti nella vita riesco ad acchiappare, almeno come amica, quella donna lì che doveva essere mia mamma. Questo però sarà un surrogato di karma». Oppure potrebbe esserci un’altra possibilità, il nascituro potrebbe pensare: «Questo rapporto è molto importante perché ci sono tante cose da compensare, perché dobbiamo imparare a riamarci là dove siamo stati egoisti. È troppo importante, lo devo rimandare alla vita successiva». In questo caso, però, il tipo di karma che in questo momento, con questa mamma, in questa vita, avrebbe avuto le condizioni migliori, non troverà più le stesse condizioni: sarà un karma con un po’ di sofferenza in più.

Ma chi di noi nella vita ha sempre le condizioni migliori in tutto? Se devi fare una gita il tempo lo pigli così com’è. Il karma è l’arte del possibile, perché fare l’impossibile non è meglio – non è possibile. Quindi torniamo a ribadire questo concetto (che accennavo all’inizio): l’evoluzione è complessa. Tutto ciò che si studia in modo scientifico diventa complesso, e noi, rispetto allo studio scientifico dei misteri complessissimi del karma, siamo appena all’inizio.

Sulle forze karmiche in atto tra l’individuo che si vuole incarnare e la mamma che poi decide di chiudergli la porta, c’è una riflessione che vale per tutti (ed è quella che ho fatto), cui poi va aggiunto ciò che è specifico in quel caso e che spiega altre cose ancora.

Intervento: E col papà come la mettiamo?

Archiati: Il papà ha la responsabilità delle decisioni che prende lui.

Intervento: Nel caso in cui la madre abbia avuto un aborto e poi, dopo tre, quattro anni sia rimasta di nuovo in stato interessante dallo stesso padre, è possibile che allora l’individuo che voleva incarnarsi prima, ce la faccia in questa seconda occasione?

Archiati: Ce la può fare anche se il padre è diverso.

Intervento: Nel senso che lo stesso padre non presuppone una possibilità in più?

Archiati: No, noi stavamo parlando di una gravidanza che è già in corso.

Intervento: … Una donna ha una gravidanza in corso e la interrompe; poi con lo stesso uomo ha un’altra gravidanza…

Archiati: Il pensiero è molto semplice. Ci può essere un individuo che, rispetto a una certa incarnazione, pensa: «Per me questa volta acchiappare il padre giusto è più importante, perché quello che devo fare con lui è più importante che non acchiappare la madre giusta». Per un altro è l’opposto. Perciò ho detto che i casi sono individuali, e come tali andrebbero osservati. Per chi considera l’avere il padre giusto come la cosa insindacabilmente più importante, il fatto che la madre gli chiuda la porta non è così grave come potrebbe esserlo per un altro.

Questi sono orientamenti del pensiero fondamentali, e il fatto che il Cristo abbia dato all’umanità questo Rudolf Steiner, che ce li ha donati, è davvero una bella cosa. Faccio un altro esempio: nel periodo di cultura greco-romano il fattore di incarnazione di somma importanza era la corrente del sangue, la discendenza, mentre ora non è più così. A partire dal quindicesimo secolo, ancora più importante del sangue è il fattore climatico-geografico. Il nascituro pensa: «Per me la cosa più importante è nascere accanto a un lago, o in pianura, o in montagna, o al mare, e mi piglio i genitori che mi capitano perché là devo nascere». La Terra, il peso morale della Terra diventa più importante del sangue, per l’incarnazione. Trovatemi voi qualcosa di paragonabile a questi spunti conoscitivi che uno Steiner ti mette lì. Non esistono. Non esistono!

La Chiesa cattolica non ha niente da offrire in confronto. Era una brava mamma mille anni fa, ma una mamma che non muore prima diventa una nonna. E non soltanto la mamma diventa nonna, ma i figli crescono, se non muoiono prima anche loro. Questo oggi lo vediamo. Paragonato a ciò che uno Steiner ti offre come spunto per far camminare il tuo spirito, con quello che il cattolicesimo offre oggi è poco o niente. È anche comprensibile che i preti abbiano un po’ di paura esistenziale, perché è difficile accettare che non c’è più nulla da dire… Ci vuole compassione, però dobbiamo essere onesti con il cammino dell’umanità.

Intervento: Mi ha un po’ colpito, del suo discorso, il fatto che l’immortalità ce la dobbiamo conquistare. Se ce la dobbiamo conquistare vuol dire che prima non c’era? Come si concilia questo discorso con la preesistenza?

E poi mi ha colpito anche il discorso sui Demoni di popolo, sulle controforze. Volevo sapere se Steiner ha spiegato che fine faranno un giorno questi Demoni, e se anche loro hanno una possibilità di evolversi, di uscire dalla situazione in cui sono.

Archiati: Partiamo dall’ultima questione: Steiner ha detto tutto quello che c’era da dire. La risposta più bella – perché è in chiave artistica – alla tua seconda domanda è il Faust di Goethe.

Mefisto è il diavolo: chi gli dà il ruolo di diavolo? Il Padreterno. E lui lo fa bene il diavolo? Mefisto è Mefisto, non si scherza; il diavolo lo fa molto bene. Faust però è bravo, e non molla. Perché il senso della controforza, il senso della molla, che è la controforza dei muscoli, qual è? Quello di cedere? No. È di aumentare la forza, di rendere più forte la forza del bene. Cimentandosi col Mefisto quindi, la forza del bene di Faust diventa così forte che vive cent’anni. La scommessa del Mefisto era: «Caro Padreterno, vogliamo vedere se sei più bravo tu o se sono più bravo io? Sei più bravo tu se non riesco ad abbindolare il Faust; sono più bravo io se riesco ad abbindolarlo». Faust ha fatto l’evoluzione più bella che si possa immaginare: l’evoluzione dove non si perde nessun colpo. Goethe ha esposto l’archetipo, il fenomeno puro dell’umano e il fenomeno puro dell’umano è il tipo di uomo che non perde nessun colpo.

Faust muore a cent’anni: chi ha vinto? Il Padreterno o Mefisto? Tutti e due! Quella è la trovata geniale. Il Padreterno ha vinto perché l’essere umano va in Paradiso, e Mefisto ha vinto perché è stato il diavolo più bravo di questo mondo. Lo spettatore che vive tutto il dramma – ci vuole una settimana a metterlo in scena – si innamora di Mefisto, perché è veramente il diavolo più bravo che esista. Egli concorre all’evoluzione di Faust, ne è un fattore determinante. Lo spettatore, quando alla fine del dramma vede l’ascensione al cielo di Faust, s’immagina che anche il Mefisto vada con lui. È immaginabile che il Padreterno rimandi il diavolo all’Inferno dopo che l’ha aiutato e ha fatto il suo ruolo così bene? Il Mefisto è diventato simpatico in modo spontaneo, tanto che la psiche umana immagina, vede il Mefisto salire spiritualmente. E perché sale al cielo? Perché il suo compito è finito. Si è fatto una bella sudata, ha fatto il diavolo così bene, perché non ricompensare anche lui? Dopo cosa avverrà? Il Padreterno gli dice: «Mefisto, se questo compito l’hai svolto così bene ti faccio passare di grado». Perché anche l’essere umano passa di grado… Bello, no?

Il cattolicesimo, per esempio, è pieno di negatività, di moralismi. Ma i moralismi a cosa ci servono, quando abbiamo a che fare con una divinità che ha fatto un mondo che sprigiona positività da tutte le parti?

Intervento: Nell’ambito dell’evoluzione dell’umanità è probabile che in relazione all’ipotizzata morte del nostro pianeta, cessi anche l’evoluzione umana?

Archiati: «Cieli e Terra passeranno»[21] cioè tutto ciò che è fisico perisce. Tu mi chiedi se sia possibile che tutti gli spiriti umani omettano l’evoluzione positiva… Teoricamente sì. E siccome teoricamente questo abisso della libertà dovrebbe essere contemplato, altrimenti non saremmo liberi, la divinità si è fatta uomo apposta per assicurarsi che in quest’Uno l’umano sia salvo. Quest’Uno da solo è più buono di tutti noi messi insieme. Il cristianesimo è una cosa dell’altro mondo! In Lui è salva l’umanità: il progetto umano è fatto in modo tale che non può fallire.

Vi auguro una buona notte.

Quinta conferenza

Morire ogni giorno

per vivere meglio

Roma, 4 maggio 2003

Cari amici,

questa mattina vi esorto ad ascoltare la voce dei morti – una voce vivace, vivente, perché sono molto viventi, molto vivaci, sono più vivi di noi.

Nella vita di coloro che ci hanno lasciato qui per andare in regni più vasti e più belli, si segue una legge fondamentale: il rispetto assoluto della libertà per chi è rimasto sulla Terra. Rispetto assoluto significa che non ci impongono nulla, che non ci soverchiano con la loro voce in modo da costringerci a qualcosa, ma la loro presenza è così dolce da lasciarci liberi addirittura di non percepirli. Se invece vogliamo imparare ad ascoltarli liberamente, ne hanno di cose da dirci!

Il fatto che i morti arrivino al punto da non farsi nemmeno sentire, ci dice quanto sia preziosa, quanto sia moralmente importante la libertà dell’essere umano incarnato. Perché la libertà interiore è il criterio della moralità: tutto ciò che avviene nella libertà interiore, per slancio dello spirito, è moralmente buono, e tutto ciò che lede la libertà è moralmente cattivo. Ciò che favorisce il creare libero, l’esubero dello spirito, è moralmente buono perché nulla è più buono della libertà che crea; mentre tutto ciò che mortifica la libertà, che arriva con i comandamenti, con le leggi, con il dovere («Tu devi, devi, devi, e se non fai vai all’inferno»), questo modo, questo tipo di ricatto della libertà è moralmente cattivo. Non c’è nulla di moralmente peggiore del ricattare la libertà degli esseri umani.

Il Cristo è talmente rispettoso della libertà umana da non essersi fatto sentire in tutti questi duemila anni: infatti la maggior parte degli esseri umani lo ignora. Ce ne vuole di amore per la libertà degli uomini, per arrivare a rispettarla in un modo così eccelso, così sublime! Ma Lui ha tempo, ci aspetta, perché sa che camminiamo lentamente e sa che la nostra libertà ha a disposizione millenni. Il Cristo aspetta perché rispetta i tempi di crescita di ognuno: lascia che ci sia chi lo ignora, perché non ha certo bisogno dei nostri complimenti… Col nostro ignorarlo non lo smontiamo per nulla, Lui gode della nostra libertà e del fatto che la gestiamo anche nei più profondi abissi di oscuramento.

Che cosa ci dicono i morti di cui abbiamo parlato in questi giorni? Con voce sommessa ma piena di amore, ci dicono: «Caro amico, cara amica che sei rimasta sulla Terra, la legge del vivere da uomini è il morire e il risorgere continuo ogni giorno, sempre». Penso a Martin Heidegger,[22] il filosofo esistenzialista di cui ero innamorato quando, da studente, cominciavo a cimentarmi col tedesco. Martin Heidegger, che ha vissuto nei tempi non facili del nazismo, viene definito esistenzialista perché parla della struttura dell’esistenza umana come un essere proiettati verso la morte, come un vivere con la morte in faccia.

Sapete da dove viene la parola esistenza? Ex-sisto: sisto significa porre in piedi, mentre ex significa viene fuori. Quindi ex-sisto vuol dire: viene fuori da qualcosa, da un mondo, e si pone lì. L’esistenza è quel modo di essere che noi conosciamo molto bene e che viviamo ogni giorno, è l’essere stati catapultati fuori dal mondo reale – il cosiddetto mondo spirituale, invisibile – e messi lì in piedi, in questo mondo sensibile. Ve lo dico nei termini della scienza dello spirituale, inaugurata da Rudolf Steiner: ex significa sbattuto fuori dal mondo dell’eterico, dell’astrale, dello spirituale – dal mondo vero. Sisto: messo lì, nell’esistenza corporea, fisica, materiale.

Quella che noi chiamiamo nascita è in realtà una bella morte: nascere vuol dire essere sbattuti fuori dal mondo vero. Ma che senso ha questa ex-sistenza, questo essere stati sbattuti fuori dal mondo vero? È chiarissimo: accorgerci di esserne fuori per godere di ritornarci dentro sempre, ogni giorno, ogni momento. Se fossimo rimasti sempre dentro il mondo vero non proveremmo il gusto di ritornarci dentro per esercizio di esuberanza e attività libera del nostro spirito.

Sono cose bellissime e le abbiamo sotto gli occhi, stanno nelle parole normali del vocabolario: esistenza, ex-sisto. Chi ha inventato questa parola deve aver fatto un pensierino su questo ex, su questo fuori… perché siamo tutti degli ex. Noi che esistiamo, che viviamo l’esistenza, siamo tutti degli ex.

Proprio ieri parlavamo della preesistenza, e cioè del fatto che prima di cominciare quest’esistenza eravamo tutti – per forza – nel mondo reale. Nascere significa quindi entrare in una coscienza illusoria che ritiene reale ciò che non lo è. Il mondo della materia è passeggero, effimero, transeunte, perituro. Oggi c’è, domani non c’è: ecco il modo migliore per esercitare la libertà di risorgere ogni giorno per forza propria, di risorgere nel pensiero, accendendolo di fronte alle percezioni… Le percezioni sono il mondo morto; appiccicarvi i concetti, trovare i concetti, è far risorgere il mondo.

Il percepire è un morire quotidiano continuo, e trovare il concetto nel pensiero è il modo migliore di vivere. Moriamo ogni giorno nella percezione, guardando questo mondo che sembra tutto vero; poi viviamo formulando nel pensiero la realtà eterna delle cose. L’asino che io ho nella percezione è una realtà? No! È un frammento di morte perché l’asino che io vedo ora, fra trent’anni non ci sarà più. Secondo voi, è una realtà, quella che oggi c’è e domani non c’è più?

Ogni frammento di percezione è un entrare nel campo di morte dell’universo, mentre ogni volta che col pensiero trovo il concetto, entro nella realtà. Perché l’asino che io penso è diverso dall’asino che io vedo: è l’asino in tutti gli asini – Platone direbbe che è l’idea dell’asino, l’idea eterna. Da quando la divinità l’ha pensata – e l’ha pensata da sempre, sennò non avremmo gli asini – quest’idea dell’asino è una realtà sovrasensibile, è un insieme di forze vitali, eteriche, astrali, e tutto quanto fa sì che la materia di volta in volta si componga in forma di asino. Voi direte: ma l’asino che si vede è più reale dell’asino sovrasensibile… No, no, non è così!

Prendiamo un orologio: è una cosa reale. L’idea dell’uomo ha congegnato l’orologio. L’orologio che percepiamo sarebbe stato possibile senza l’idea che l’ha creato? No, ed è così per tutte le cose che l’essere umano ha creato. Pensiamo a quando, per la prima volta, è sorta la ruota. Per millenni gli esseri umani si sono spaccati la schiena a portare pesi, finché nella testa di una persona (un Archimede della ruota) è saltata fuori l’idea: «Se trovo qualcosa di rotondo, lo faccio rotolare e poi ci metto qualcos’altro sopra, non ci sarà più bisogno di spaccarsi la schiena!».

Com’è nata la ruota? Grazie a una risurrezione del pensiero umano. L’idea è realissima, tanto che ha creato l’oggetto fisico, ma la ruota o l’orologio fisico – picchiatelo pure quanto volete – non tirerà mai fuori un’idea. L’orologio fatto di materia è così irreale da non essere capace di creare nessuna idea; mentre l’idea umana è così reale da far saltar fuori l’orologio. Non mi dite che l’idea dell’orologio è meno reale dell’orologio materiale. Il materialismo in cui viviamo è una fregatura del pensiero senza fine, è roba da menti bacate. Vuol metterci in testa che la materia è più reale del pensiero… Roba da matti!

I primi grandi filosofi che hanno cominciato a pensare sono stati i greci, prima di loro la sapienza divina si beveva, non c’era bisogno di pensare. Per la sapienza orientale, la rivelazione era l’essere umano che beveva, beveva a damigiane, ma i pensieri erano articolati dalla divinità. Poi sono arrivati i greci, che hanno iniziato a dire: «No, non è bello che il pensare sia un’attività esclusiva degli esseri divini… vogliamo pensare anche noi, con la nostra testa…». Il popolo greco è stato il primo a voler provare a pensare: i greci sono stati i primi a dire che l’essere umano, quando pensa per conto suo, gusta di più i suoi pensieri perché li crea lui; non importa se sono pensieri più modesti di quelli di Giove, di Pallade Atena, o degli altri dei… sono i suoi. Se qui ci fosse un greco di quei tempi, un tal Ippocrate – non dico Aristotele o Platone, basterebbe uno di quei giovincelli che erano accanto a Socrate a discutere – e gli dicessimo: «Caro Ippocrate, sai che noi riteniamo reale il mondo visibile e non i pensieri?», credo che quello ci guarderebbe e direbbe che siamo tutti matti!

Il senso del materialismo è la morte del pensiero che ci dà la possibilità di infinite risurrezioni. Però è una vittoria interiore, è una risurrezione interiore: sono io, ogni giorno, che devo vivere questa conversione. Posso convertirmi alla realtà di ciò che c’è nel pensiero, e convincermi sempre di nuovo che la parvenza passeggera di ciò che chiamo percezione è soltanto una provocazione a pensare. Il visibile è qui per provocarci a pensare l’invisibile all’infinito, solo così raggiunge il suo senso.

Moriamo ogni giorno nella percezione quando ci diluiamo in questa distesa quantitativa del mondo percettibile, e risorgiamo a una vita migliore, a una vita nuova, quando ci concentriamo nel pensiero. Porre termine a questa diluizione del nostro spirito nella distrazione delle percezioni e concentrarlo nel pensiero, significa morire ogni giorno per vivere meglio.

Il materialismo è lo spirito diluito degli esseri umani, e la risurrezione quotidiana è il concentrato dello spirito. Ma come si fa a concentrare lo spirito? Uno dei modi di concentrazione dello spirito è l’attenzione. È una cosa semplice: l’attenzione è il primo passo della concentrazione del pensiero.

Gli Scolastici dicevano omne trinum est perfectum;[23] secoli dopo in Hegel, nell’idealismo tedesco che ho avuto la fortuna di studiare, funzionava anche lì tutto per trinità (tesi, antitesi e sintesi). Ora arriva un Rudolf Steiner: il suo pensiero si articola tutto per trinità. Anche le mie conferenze sono tutte piene di cripto-trinità: la trinità del pensare, del sentire e del volere. A ognuna di queste tre parti dell’umano corrispondono tre modi di morire ogni giorno:

• Pensare ciò che non capisco

• Sentire ciò che non mi dà soddisfazione

• Volere ciò che non mi riesce

Il primo modo di morire è arrovellarmi su ciò che non capisco ancora: a meno di non appartenere a quel fior di persone che hanno sempre capito tutto, ne abbiamo ancora, di cose da capire… Ma anche se aveste già capito tutto, non vi invidierei, perché la vita diventerebbe noiosa e non ci sarebbe più nulla da scoprire.

Muoio ogni giorno nelle cose che non capisco, e il senso di questa morte quotidiana è di vivere meglio. Cosa c’è di meglio dell’aver già capito? Capire adesso, capire nel presente: il venire confrontato, sempre di nuovo, con cose che non riesco a capire più di tanto è una bellissima occasione di morire quotidianamente.

Ogni mio: «Ma cos’hai detto? Non ti capisco…», è un’occasione, e questo arrovellarsi, questo sforzo interiore del passare dalla morte di qualcosa che non capisco alla vita del capirlo sempre meglio, è un trapasso, una pasqua di morte e di risurrezione quotidiana. È una bella cosa, perché l’esistenza è fatta di questo.

Esistere significa trapassare continuamente da morte a risurrezione, essere cioè in questo passaggio, in questa vivacità, in questa concentrazione dello spirito. La risurrezione della vita è capire sempre meglio sempre più cose, in modo sempre più profondo, più vasto, in contesti sempre più interessanti.

Ce n’è da fare! Siamo qui per questo, perché se a un essere umano fosse possibile far tutto in una vita, chissà dove ci avrebbe messo il Padreterno… ma la cosa migliore è questa nostra esistenza, una continua esperienza di morte e risurrezione.

Il secondo modo di morire quotidiano è ciò che non mi dà soddisfazione. Infatti i destini del pensiero non bastano da soli: io ho bisogno di un criterio di morte e di risurrezione tutto mio. Se avessimo soltanto il pensiero come morte e risurrezione, non ci basterebbe, perché ognuno ha le convinzioni sue, che sono diverse da quelle di tutti gli altri. C’è un criterio esistenziale di morte e di risurrezione che è individuale, che è specifico, unico per ognuno: è il criterio di ciò che mi piace e ciò che non mi piace, di ciò che mi dà soddisfazione e di ciò che non me ne dà.

Qualche moralista potrebbe dire che è un criterio pagano – è un problema suo! Perché se l’essere umano non ha il coraggio di prendersi sul serio, di prendere moralmente sul serio ciò che gli va bene e ciò che non gli va bene, non è un essere umano morale. Forse il Padreterno mi ha creato per cercare ciò che non mi soddisfa? Allora è malato: doveva crearmi in un altro modo. Il Padreterno mi ha creato per vivere nella gioia e nella pienezza e l’unico motivo, l’unico criterio moralmente accettabile di lasciar perdere qualcosa è che non mi soddisfa. Potrete obiettare che ci sono tante cose in cui gli esseri umani pensano, si illudono, di trovar soddisfazione. Però magari dopo dieci, venti, trent’anni arrivano a dire: «Ah, in effetti pensavo soltanto di essere felice, ma di fatto non lo sono». A quel punto iniziano a cercare qualcosa di nuovo. La morte quotidiana e la risurrezione, nel suo senso individuale, personale di ognuno, è quest’attenzione al proprio cuore, questo prendersi sul serio.

Cari amici, una persona che non sa prendere se stessa sul serio come essere umano, non sarà capace di prendere nessun altro sul serio. Soltanto chi è capace di prendere moralmente se stesso sul serio come essere umano, sarà capace di prendere anche gli altri sul serio. Una tal persona si illude di prendere gli altri sul serio, e magari lo fa per masochismo o per eroismo fasullo, ma tutto ciò non ha nulla a che fare con la moralità.

Il fondamento della moralità è il peso assoluto della persona umana, e il primo accesso alla persona umana è in me. Quindi, per quanto mi riguarda, è morale ciò che mi fa vivere nella pienezza, ciò che mi dà gioia, ciò che mi dà soddisfazione. Ciò che non mi fa vivere nella pienezza, è moralmente non-buono proprio perché diminuisce l’umano. Il senso del morire quotidiano in tutte le cose che non mi danno felicità (basta capirla giustamente questa parola), è di risorgere sempre più attentamente, di imparare sempre meglio l’arte di trovare e fare quello che mi rende felice. La risurrezione quotidiana è l’arte della felicità. È un arte non semplice, perché essere felici non è una cosa da poco: bisogna prima di tutto conoscersi bene, senza barare con se stessi.

Tante persone, avendo paura di ammettere la loro infelicità, fingono di essere felici. C’è di meglio, c’è di meglio nella vita! Meglio di far finta di essere felici è esserlo! E dove trovo la felicità? In queste infinite risurrezioni di onestà con me stesso, quando sono contento di ammettere che qualcosa non mi dà soddisfazione, e mi metto a cercare, a cercare sempre di più qualcos’altro, che mi soddisfi. Ogni sincera soddisfazione è una risurrezione, è un vivere meglio; mentre il non essere felice, il non sentirsi nella pienezza dell’umano – della mente, del cuore e delle azioni – è la morte quotidiana.

Mi piace usare la parola risorgere, anche se qui in Italia può suonare fastidioso per via della forte disaffezione nei confronti della religione tradizionale, ma questo anelito, questo tendere verso la pienezza dell’umano che è il vivere meglio, è proprio un risorgere ogni giorno.

Il terzo gradino del morire quotidiano è misurarmi con ciò che non mi riesce, e riguarda la sfera della volontà, delle azioni. Quindi,

Al livello del pensiero c’è ciò che non capisco (per capire sempre meglio).

• Al livello del cuore, dei sentimenti, ciò che non mi dà soddisfazione (per vivere sempre meglio nel cercare ciò che mi rende felice, ciò che mi dà soddisfazione);

Al livello della volontà, delle azioni – la terza sfera – c’è ciò che mi riesce (dove ho successo nel mio fare, nel mio agire) e ciò che non mi riesce.

Se ci riuscisse sempre tutto ciò che facciamo, non ci sarebbe gusto. È molto più interessante fare cilecca, almeno ogni tanto, in modo da avere ancora qualcosa da imparare. Il senso di questo terzo tipo di morte quotidiana è di vedere, individuare sempre meglio in che cosa sono bravo.

Per esempio, posso vedere se sono capace di una bella riconciliazione con il mio amico, con mia moglie o con mio marito, con cui ho avuto da poco una baruffa. L’idea di riconciliarmi mi dà soddisfazione: dunque vado da lei, o da lui, un paio d’ore dopo, ma… forse è troppo presto, lui o lei vorrebbe continuare ancora a godersi la rabbia che ha dentro, almeno per altre tre ore… e la riconciliazione non riesce!

In fondo il gusto di una zuffa è proprio il godersi la rabbia, e ci può benissimo essere chi vuole godersela a lungo… e sta lì, nel suo brodo di giuggiole, a pensare che io sono stato impossibile, che aveva ragione lui e via dicendo… forse è meglio che io, con la mia riconciliazione, aspetti almeno fino a domani. Allora lui avrà goduto la sua rabbia, e potrò dirgli: «Sei pronto per fare pace… o arrivo troppo presto?».

La vita è piena di cose che ci riescono e che non ci riescono, perché la struttura della vita è morte e risurrezione – bello, vero? Basta avere sempre l’attenzione del cuore, e nell’esempio che abbiamo appena fatto basta capire il motivo per cui questa riconciliazione non mi riesce: perché io la voglio costringere troppo presto. Se imparo questo, vinco la mia impazienza e vivo meglio. Anzi sono contento di offrire all’altro la possibilità di godersi la sua arrabbiatura almeno per altri due o tre giorni.

La vita non è un’arte per sommi capi, è un’arte molto concreta! Siamo tutti Artisti della vita, perché essere uomini significa essere artisti della vita. Ogni arte ha due componenti:

il talento innato (che ci è stato stato dato quando siamo stati catapultati qui, quindi ce l’abbiamo tutti) e

l’esercizio quotidiano, che omettiamo troppo.

L’esercizio quotidiano è l’esercizio di morire ogni giorno per vivere meglio. Però io devo fare attenzione concretamente, in prima persona, ai miei modi di morire – a ciò che non mi riesce, e al perché non mi riesce. Nella misura in cui lo faccio trovo il modo di vivere meglio, nel senso che ciò che non mi riesce, mi riuscirà sempre di più.

Facciamo un altro esempio. Sono mamma di un sedicenne: da anni non riesco ad avere un minimo discorso con questo bel figliolo. Niente da fare, non mi riesce! È colpa sua? Se chiedessi al figliolo, mi risponderebbe che è colpa della mamma.

Uno dei modi di morire quotidianamente è distribuire le colpe agli altri. Perché se io distribuisco tutte le colpe agli altri, cosa c’è in me? Nulla. Morto, sono morto su tutta la linea. Divento vivo quando attribuisco qualcosa anche a me stesso: perché mai dovrebbero essere responsabili soltanto gli altri di tutto quello che mi capita? Vivere meglio, cioè risorgere, rivivere ogni giorno, significa prendere in mano la mia esistenza, capire che le persone attorno a me concorrono alla mia esistenza, sono concause, ma la causa principale della mia esistenza sono io! Altrimenti sarei un burattino, una marionetta. Una persona che non ha colpa di nulla è morta, perché non ha mai fatto nulla.

Mi sono sempre chiesto se in italiano colpa fosse il femminile di colpo… Infatti, a un individuo che perde colpi su tutta la linea restano solo le colpe. Quindi, o ci si rende causa di qualcosa (si affrontano i colpi, non si perdono) oppure si distribuiscono le colpe. Il genio della lingua ha creato queste due parole, il colpo e la colpa… come avrà fatto? È un caso etimologicamente molto interessante, sarebbe da approfondire.

La vita è fatta per dar colpi e non per dar colpe, è fatta per fare, per provare, e provando si fa e si fa sempre meglio. Essere umani nell’esistenza significa non sapere già in partenza cosa salterà fuori da quello che si fa, altrimenti saremmo il Padreterno, non saremmo nell’esistenza del tempo. Essere uomini significa provare a far qualcosa e guardare cosa salta fuori. E se gli altri si arrabbiano? Modifico il tiro. Se io modifico il tiro, vuol dire che prima avevo sbagliato? No, prima ho provato.

Il moralismo da sempre ci ha messo in testa che la vita buona è quella dove non si fanno sbagli, dove tutto ciò che si fa deve andar bene. Allora non si fa niente. Uno sbaglio è soltanto una prova andata male, da cui non ho imparato nulla. Soltanto se la ripeto diventa uno sbaglio, ma lo sbaglio sta nel fatto che non ho imparato nulla. La prima volta non può essere uno sbaglio, perché sto ancora provando, devo ancora vedere cosa salta fuori. E se sono flessibile abbastanza da orientarmi a seconda di quello che salta fuori, vivo nell’esistenza.

Ogni azione che compiamo è un piccolo morire quotidiano perché non sappiamo cosa ne verrà. Non possiamo preventivare tutte le reazioni delle persone che ci sono accanto… Ogni azione, ogni intervento nel mondo è un esporsi all’arbitrio degli altri – ecco la morte – perché anche gli altri vogliono avere la loro libertà. Se io mi espongo, accettando coscientemente questa piccola morte, faccio qualcosa e poi sto a guardare come il mondo reagisce – ecco l’attenzione.

In questa vivacità, in questa flessibilità e capacità di prendere sul serio le reazioni degli altri e rettificare me stesso a seconda di come posso essere veramente loro d’aiuto, io vivo meglio.

Nel provare qualcosa mi espongo all’arbitrio altrui, ed è una piccola morte. Rettificare ciò che faccio diventa una risurrezione. Ma partire in quarta e far qualcosa col presupposto che deve andar bene, perché gli altri non hanno la libertà di reagire come piace a loro, è assurdo! È un non voler morire. Vivere l’esistenza è un morire quotidiano, è un esporsi agli altri così come sono. Permettiamo forse all’altro di manipolarci? No, pretendiamo dall’altro che si esponga al nostro modo di essere.

Il coraggio di esporci l’uno alla libertà dell’altro è questo morire volentieri. E questo risorgere nel rapporto, risorgere nella realtà di ciò che viene fuori dal concorrere delle nostre libertà – la tua e la mia – è il vivere meglio.

I morti vivono meglio perché vivono da morti ogni giorno, hanno superato la paura della morte a un punto tale che ci sono sempre dentro. Sono morti all’illusione, alla non-libertà del mondo delle costrizioni, del mondo delle leggi deterministiche della natura. Sono morti a questo mondo di morte e perciò vivono meglio. La loro voce ci dice: «Se ti eserciti volentieri, nell’esistenza, a morire – non totalmente come quando si muore veramente, ma più che puoi – giornalmente al potere del mondo fisico, allora vivrai sempre meglio, perché potrai risorgere sempre di più nel mondo vero dello spirito, del soprasensibile, dell’amore e della conoscenza».

In altre parole, non si può essere contemporaneamente vivi nel potere e vivi nell’amore. O si muore al gioco del potere, che è il gioco di questo mondo, per vivere meglio nel gioco dell’amore, oppure si muore nel gioco del potere (che è fatto apposta per farci morire a vicenda, per costringerci, per schiacciarci a vicenda) e non si risorge alla vita migliore che è quella dove c’è posto per tutti. Quindi la morte è essere fissati su un mondo di concorrenza, dove ci diamo gomitate a vicenda; risorgere è servirsi di questo mondo, dei soldi, delle istituzioni, come strumenti per vivere sempre meglio.

La vita migliore è quella del pensiero, la vita migliore è quella del cuore che ama, e la vita migliore è quella delle azioni che cercano non solo il proprio tornaconto, ma il tornaconto di tutti. Il gioco più bello non è quello dove ci sono vincitori e perdenti, il gioco più bello è quello dove ci sono solo vincitori. L’esistenza è un gioco che funziona soltanto se siamo tutti vincitori – chi di noi vuole essere perdente?

Funziona soltanto se riusciamo a praticare sempre meglio l’arte di essere tutti vincitori – tutti però, senza esclusione alcuna. In tutte le razze, in tutte le religioni, in tutti i paesi ogni essere umano è un’aspirazione a vincere, a non farsi schiacciare, a vivere in pienezza, sennò non sarebbe un essere umano.

Cominciamo ora a passare in rassegna uno dei settenari di cui è composta la vita dopo la morte. Il ternario è uno dei numeri fondamentali (pensiamo al concetto di trinità); ma quando si vuole complicare un pochino il discorso, si ricorre al numero sette.

La vita dopo la morte_immagine.png

Il numero sette contiene due trinità: uno, due, tre (prima trinità) e poi cinque, sei e sette (seconda trinità). Siccome sono due trinità speculari, a un certo punto c’è una virata: il punto quattro sta in mezzo, è il punto di svolta. Quindi possiamo dire che tutto ciò che è settenario è composto da due trinità, con la svolta in mezzo – questo come aiuto al pensiero per aspiranti metafisici e filosofi.

C’è un libricino di Rudolf Steiner: Teosofia,[24] è un testo poderoso in cui Steiner descrive le sette sfere dell’anima che si attraversano dopo la morte. Ispirandomi a questa descrizione, ho pensato di trasporre queste sette sfere dell’anima nei sette modi quotidiani di morire per vivere meglio ogni giorno. Mi sono detto: «Vediamo se la cosa riesce», – partendo dal presupposto che i morti diventano vivi nella vita dello spirito proprio grazie a una settuplice morte, cioè attraversando queste sette sfere di purificazione.

Purificazione infatti, significa morte. Qualcosa che deve essere purificato, deve morire, deve sparire. Devono sparire certe brame – come quella del miglior chianti, per esempio. Siccome dopo la morte l’animuccia non può bere il chianti, che soluzione ha? Può soltanto smettere di volerlo bere. Perché se continua a bramare il chianti, ma non può averlo, è molto peggio – quindi la brama si brucia.

All’animico queste sfere di morte servono per risorgere, per vivere meglio nei mondi spirituali. Steiner descrive che l’essere umano, dopo aver passato la sfera dell’anima, entra in quella dello spirito, nei mondi dello spirito – e anche lì sono sette sfere! Ma queste sette sfere spirituali sono ardue da affrontare, per parlarne dovrei arrampicarmi sui vetri.

Perciò preferisco cominciare con quelle dell’anima; sulle sfere spirituali metto soltanto una pulce nell’orecchio, in attesa che tutti quelli che hanno intenzione di approfondire l’argomento vadano a leggersi Teosofia. Che cosa sono queste sette sfere dell’anima? Sette modi di morire nel quotidiano.

La prima sfera è quella della brama ardente. La brama ardente si riferisce soprattutto agli istinti più profondi, più cogenti, quelli riferiti al corpo, per esempio a tutte le forze della sessualità. Quando l’essere umano vive le forze della sessualità, dell’attrattiva sessuale, generalmente vive una brama bruciante, una brama talmente forte che non gli consente di aprirsi a nient’altro. Questa sfera dell’anima fa morire l’essere umano nella misura in cui lo riduce a un minimo punto di istinto, che esclude l’interesse a tutto il resto. Il quesito morale non è se vivere o no l’istinto di natura (che in quanto tale, è un fatto di natura): l’aspetto morale è la privazione della possibilità di aprirmi, di avere interesse a tutto il resto – quello è problematico.

Se dentro al pulsare dell’istinto (quello di procreazione, per esempio) fosse possibile essere contemporaneamente aperti alle conquiste del pensiero, andrebbe tutto bene, perché nell’istinto di natura le cose avvengono appunto secondo natura. Però, ridursi a natura, per l’essere umano diventa un fatto morale rilevante perché c’è qualcosa di positivo che, almeno in quel momento, viene cancellato nel suo essere.

Il morire quotidiano sta nel purificare, nel far morire tutto ciò che mi riduce. E la brama ardente è il punto di riduzione, di impoverimento massimo del mio essere. Tutti noi abbiamo esperienza sufficiente per capire che succede proprio questo, tutti noi siamo in grado di affermare che è così. Non ci interessa moraleggiare, stiamo soltanto evidenziando una realtà oggettiva.

Questa è la prima sfera che i morti passano perché è quella più cogente, è quella che rende meno liberi: è un modo di fissarsi su un punto assoluto e perdere la connessione con tutto il resto. Il trapassato passerà più o meno tempo in questa sfera – quindi dovrà soffrire di più o di meno –, a seconda di quanto la sua anima è imbevuta di queste brame ardenti: una cosa molto reale.

La seconda sfera è la sfera delle sensazioni fluttuanti. È come un mare magnum di eccitabilità della sensazione. Quando sentiamo squillare un cellulare cosa avviene? L’attenzione viene attratta lì. È forte e cogente come una brama ardente? No, però la corrente animica va là.

Questa seconda sfera – la sfera degli stimoli, delle eccitazioni, delle irritazioni, delle attrazioni, dell’allettamento, del fascino, dell’incanto, la balìa delle percezioni e delle impressioni dei sensi – è come un fluido che scorre e va sempre dove c’è una percezione. È come se ci fosse una pendenza e l’acqua che scorre va lì. Cosa c’è di male, cosa c’è da purificare, in questa eccitabilità? C’è che se l’anima vive in questa eccitabilità delle percezioni, se vive nel mondo delle sensazioni non può aprirsi più di tanto (anzi molto poco) al mondo dello spirito. Inoltre, quando il corpo viene dismesso le sensazioni cessano, non possono più rendere felice l’essere umano, perché sono di natura passeggera.

Oggi è molto difficile fare questo discorso, perché ci troviamo in una fortissima compagine di materialismo. Qualcuno potrebbe rinfacciarmi di voler far diventare tutti asceti, di volergli portar via gli istinti, e poi addirittura il mondo delle sensazioni: non gli resterebbe più nulla. In tutto questo materialismo l’anima si impoverisce, vive soltanto in se stessa, non ha quasi più la minima idea di ciò che è spirituale. E si ribella, si arrabbia, quando le viene detto: «Guarda che per vivere meglio, per goderti ciò che è spirituale, è importante che tu bruci, purifichi, la tua irruenza».

L’uomo d’oggi non capisce nulla, non conosce nulla del mondo spirituale: ha soltanto l’anima. E adesso arriva qualcuno a dirgli: «Ti porto via anche l’anima». Come vedete, il discorso si fa difficile, ma barare non avrebbe senso. Non avrebbe senso fare sconti o concessioni per rendersi simpatici: dobbiamo avere il coraggio di dirci che c’è di meglio.

Pongo i presupposti per vivere meglio, se muoio coscientemente a queste costrizioni dei sensi: è questo il concetto che intendo, quando dico che c’è di meglio! Ognuno di noi ha il diritto legittimo di lasciare qualcosa soltanto quando trova qualcos’altro di moralmente migliore. E se non lo trova, questo qualcosa, fa moralmente male a lasciare ciò che ha, perché si getta nel nulla. Va detto però che questo meglio non è dato dalla natura (in quel caso non sarebbe meglio), è un meglio dato dalla conquista.

È importante cominciare a cogliere questo concetto a livello della coscienza – ognuno di noi vedrà poi come porsi di fronte al meglio che ha capito col suo pensiero. Quanto tempo ci metterà a vivere sempre meglio, è una faccenda del tutto individuale. Però ha capito che può vivere meglio soltanto morendo al peggio. Qualcuno dirà che vivere nell’animico gli sta bene e che lì vuol restare. Padronissimo! Io non voglio convincere nessuno, ma vi dico che queste cose sono prese dalla scienza dello spirito di Rudolf Steiner.

La terza sfera animica con cui i morti fanno i conti dopo la morte è quella che Steiner chiama la sfera dei desideri e delle voglie. Naturalmente, la brama è un desiderio fortissimo; l’eccitazione dei sensi è un desiderio meno forte; una voglia è un desiderio ancora meno forte. In altre parole l’anima, di passo in passo, si dà sempre di più una calmata, e morendo a questa violenza animica si dà la possibilità di vivere meglio.

Quindi, la brama ardente è di un’anima che non si placa. Le sensazioni, le eccitazioni, l’eccitabilità dei sensi sono di un’anima già un pochino meno intrisa di desideri. Infine le voglie sono uno stadio ancora meno forte. Nonostante ciò, in tutti e tre questi casi, l’anima vuole qualcosa, è orientata, parte per una direzione e non si interessa di ciò che è a destra, di ciò che è a sinistra, né di ciò che è dietro.

Brama ardente: più forte.

• Eccitabilità: meno forte.

• Desiderio: ancora meno forte.

Però è sempre l’anima che decide ciò che vuole e quindi non si apre al resto.

La quarta sfera è il punto di cerniera perché, come abbiamo visto, in ogni settenario il quarto è il punto di svolta che crea una polarità: in questo caso è l’elemento puro dell’animico, l’oscillare tra il piacere e il dispiacere. Qui l’anima diventa già capace di oscillare, di distinguere, diventa capace di tutti e due. Diventa capace di vivere in ciò per cui prova piacere, e anche di morire dove c’è dispiacere – quando dice: «No, questo no».

Leggendo in tedesco Teosofia, di Steiner, mi sono accorto che nella versione italiana c’è un grosso problema di traduzione. Traducendo con piacere e dispiacere le parole tedesche Lust e Unlust utilizzate da Steiner, c’è un enorme pericolo di moraleggiare. Perché il piacere e il dispiacere non sono da purificare, il piacere si può sentire anche nei confronti della conoscenza, perché no? I piaceri e i dispiaceri che l’anima ha vissuto nel cammino di conoscenza restano, anzi divengono ancora più forti. Invece le due parole tedesche Lust e Unlust si riferiscono più chiaramente a una sfera da purificare nel senso di piacere e dispiacere originato dal corpo – questo va purificato perché il corpo non c’è più.

Quindi piacere e dispiacere non rendono esattamente il significato dell’espressione usata da Steiner; così, pensa che ti ripensa, ho trovato due parole italiane che esprimono meglio il concetto: le parole gusto e disgusto. Questa, secondo me, sarebbe una traduzione migliore perché toglie via ogni moraleggiamento. Gusto e disgusto stanno a significare che, ora che non hai più il corpo, ti tocca ammettere onestamente che tutto il vissuto del gusto e del disgusto è dovuto all’interazione della tua anima col tuo corpo. Riferendoci allo spirito potremmo usare gioia e dolore, ma è ben diverso.

C’è un modo fondamentale del morire quotidiano per vivere meglio, ed è diventare buongustai dello spirito. Oggi, in tempi di materialismo, molti potrebbero obiettare: «Ma io il chianti me lo gusto! Quello sì che me lo gusto! E tu vieni a dirci che è meglio gustare lo spirito?!».

Steiner dice che personaggi come Hegel,[25] il grande pensatore tedesco, andavano in brodo di giuggiole nel pensare. Noi diciamo che erano matti… No, i matti siamo noi, che non sappiamo cosa ci aspetta nell’evoluzione.

Però, sta di fatto che in Teosofia si legge cosa passa il morto nelle sfere dell’anima per purificarsi, per diventare capace della vita migliore, per vivere meglio nello spirito:

• deve bruciare le brame ardenti;

deve far trascorrere, far sparire, tutte le eccitazioni dei sensi;

• deve vincere desideri e voglie, e deve diventare neutro (perché «Io voglio questo» significa non aprirmi a ciò che il mondo vuole da me).

• Poi arriva la quarta botta: non più gusto e disgusto, ma gusto neutro.

A questo punto o ci si intende in un modo giusto, oppure saltano fuori accuse di moralismo, di ascesi, di macerazione, e via dicendo. È un concetto che va capito giustamente, per questo ho preferito usare gusto e disgusto, proprio per non essere frainteso, per specificare che stiamo parlando di un godimento dell’anima dovuto al corpo.

Intervento: E se avessimo usato la parola sensualità?

Archiati: Sensualità sarebbe la traduzione italiana perfetta per la seconda sfera – il vivere nel fluttuare dei sensi e delle sensazioni. Ormai però anche la parola sensualità ha acquisito un’accezione moraleggiante, e si riferisce maggiormente alla brama del sesso: ecco come saltano fuori i problemi. Sono tutti problemi di terminologia, ma non sono questioni di poco conto, sulla terminologia è necessario capirsi.

Naturalmente tutte le conseguenze di questo discorso vengono lasciate al pensiero di ognuno. Il rendere sempre meno determinante il gusto e il disgusto – ciò che mi piace a livello corporeo e ciò che non mi piace – e morire volentieri alla preminenza, alla prepotenza di gusti e disgusti per vivere meglio (cioè per godere, per provare gusti o disgusti più duraturi) è lasciato a ognuno di noi.

L’elemento di purificazione di questa sfera è proprio la transitorietà, perché quando il corpo non c’è più, anche questa sfera non esiste più. Questo è un dato oggettivo, mentre se nella mia vita ho passato il tempo a gustare pensieri belli – per esempio opere d’arte – questo è un piacere, è una gioia spirituale che l’anima si porta dietro perché quello è il gusto migliore, la vita migliore.

Il materialismo non ci fa rendere conto di quanti elementi di morte ci portiamo dentro. Nella misura in cui diventiamo coscienti di questi elementi di morte, nella misura in cui decidiamo, volentieri e con gioia, di morire a queste morti, di farle terminare, diventiamo capaci di vivere meglio.

Cosa intendo con meglio? Cosa c’è di meglio dei gusti che può godere il corpo? Meglio dei gusti del corpo sono i gusti dell’arte, della religione, della conoscenza. Sono meglio nel senso che questi gusti (piaceri) sono più duraturi, più intensi, più beatificanti, più profondi.

Pensiamo alle persone che arrivano ad arrabbiarsi, a fare una tragedia per il fatto che qualcosa che stanno bevendo, o mangiando, non è di loro gusto… Come fa un essere umano ad alterarsi per una cosa simile? Rendere il gusto così importante è una morte umana terribile. Significa non avere nient’altro da godere, avere innalzato il gusto del palato alla cosa principale. Il fatto fisiologico (che una cosa sia di suo gusto oppure no) è un fatto di natura… ma il fatto che gli manchino tutti gli altri gusti, che non abbia null’altro di cui godere, questo è l’elemento morale del fenomeno.

Se avesse qualcos’altro di cui godere, forse si lamenterebbe, ma non farebbe un putiferio. Ho conosciuto persone che vanno in albergo e se non è tutto di loro gusto, se ne vanno! Dopo si rendono conto che non c’è nessun albergo che va bene… alla fine, vanno a dormire nel bosco – là all’improvviso è tutto di loro gusto!

Riassumendo, le sette sfere di purificazione dell’anima sono:

• La sfera della brama ardente

• La sfera delle sensazioni fluttuanti

• La sfera dei desideri e voglie

• La sfera del gusto e disgusto

• La sfera della luce dell’anima.

• La sfera della forza dell’anima

• La sfera della vita dell’anima

La sfera numero cinque è la sfera della luce dell’anima (qui le cose diventano un po’ più rarefatte). La sfera numero sei è la forza dell’anima. La sfera numero sette è la vita dell’anima – qui, per chi è abituato soltanto a ciò che è corporeo, le cose si fanno davvero rarefatte. Queste tre sfere (cinque, sei e sette) sono di nuovo una trinità del pensare, del sentire e del volere. Pensate: ci sono addirittura sette sfere di ciò che è animico. E non è finita qui, poi cominciano le sette sfere dello spirito…!

Partiamo dalla quinta sfera, quella della luce dell’anima. Cosa significa? Che cosa resta ancora da purificare dopo che mi hai tolto tutte le brame – una bella sudata! – mi hai tolto tutte le sensazioni, addirittura tutti i gusti? Steiner descrive la luce dell’anima come l’esperienza del bearsi, del godere la natura. L’anima vive nella sua luce quando si gode, si bea della natura. Direte: che male c’è? Manca lo spirito, mi dispiace – è goduria animica. A questo punto il morto dice: «Mannaggia, mi portano via anche questo! Non mi resta più nulla…».

La luce dell’anima è il benessere fisico. Per quanto inevitabile, questo benessere fisico, questo bearsi della natura, sparisce insieme al corpo. Perciò il morto deve abituarsi al fatto che il benessere fisico (cioè la natura vissuta nella sua quintessenza, che è il corpo umano) e la natura (cioè il bearsi della natura) sono anche questi presupposti del morire quotidiano. C’è da imparare a non fare della natura e della corporeità il fine, ma vivere la natura come un campo di conquiste dello spirito, e la corporeità come uno strumento per un cammino dello spirito. Il bearsi della natura è un diluirsi dell’anima, proprio uno spappolarsi dell’anima, un auto-godimento… Per quanto bello, questo auto-godimento preclude un vero e proprio cammino di creatività spirituale.

La sesta sfera, quella della forza dell’anima è la sfera delle azioni –non soltanto del bearsi nelle percezioni. È la forza animica attiva, operante, è la goduria dell’attivismo, il godere di fare qualcosa, le forze dell’anima applicate, è l’amore all’azione. Secondo voi che cosa c’è da purificare, nell’amore all’azione? L’amore al risultato dell’azione. Se l’azione è un’unità, è un risultato che perseguo (l’azione, per esempio, di scrivere un libro), l’anima dipende dal fatto che questa azione venga compiuta. Cosa c’è di meglio, di più spirituale? C’è l’amore all’agire, lasciando al mondo il risultato di questo agire – che ci sia, che non ci sia, che sia parziale o no.

Lo stesso Steiner, nella prima edizione de La filosofia della libertà,[26] parlando di questa sfera animica scrisse: Liebe zur Handlung (amore all’azione), ma nella seconda edizione, circa venticinque anni dopo, lo cambiò in Liebe zum Handeln (amore all’agire). La differenza è evidente: questa seconda forma di amore non ricatta l’agire in vista di un successo, di un risultato, ma è il godere l’agire puro.

Morire all’amore all’azione per vivere meglio, significa aprire veramente l’anima allo spirito, perché si lasciano allo spirito i risultati dell’agire. Il godere l’agire è essere animicamente indipendenti dai risultati, e lasciarli al karma. Possiamo dire che l’amore all’azione è ancora animico, mentre l’amore all’agire diventa sempre più spirituale.

La vita dell’anima, nel suo insieme, è l’attaccamento al mondo visibile – non solo alle azioni, al mondo delle percezioni, ma proprio a tutto il mondo visibile in quanto tale. Morire a questa vita dell’anima per vivere meglio significa vivere nella vita dello spirito, senza il ricatto dell’attaccamento al mondo visibile.

La vita dell’anima nel nostro tempo è l’attaccamento al mondo visibile più fenomenale, più paradigmatico che ci sia: il materialismo. Ma c’è un modo di morire ogni giorno a questo attaccamento, per vivere meglio. Un modo in cui il mondo visibile non è più lo scopo, il fine, ma diventa uno strumento per il cammino eterno dello spirito.

Arrivederci a tutti!

[1] Archiati a questo punto fa una riflessione a latere: «Uruk esiste ancora oggi, è una grande città dell’Iraq che mi fa pensare, con grande rammarico, a quanti e quali documenti della nostra civiltà umana siano andati distrutti in questa guerra». Si riferisce alla cosiddetta guerra preventiva intrapresa dagli USA e i suoi alleati contro l’Iraq di Saddam Hussein, nel periodo in cui si sono svolte queste conferenze (l’Iraq fu invaso il 20 marzo 2003). Durante questa guerra sono stati distrutti tesori d’arte e di storia di inestimabile valore e saccheggiato il museo archeologico di Bagdad. Il museo conteneva preziosissimi reperti di epoca sumera, assiro-babilonese, persiana, sassanide e islamica. [NdR]

[2] P. Archiati / P. Agnello, Giuda ritorna – Ed. Archiati

[3] Mt 27,46; Mc 15,34

[4] Elisabeth Kübler Ross (1926-2004), medico psichiatra, ha lavorato per molti anni con i malati terminali. Su queste esperienze ha scritto il libro Sulla morte e sul morire.

[5] Raymond A. Moody, medico psicologo e parapsicologo statunitense. Il suo libro La vita oltre la vita, basato su testimonianze e racconti sugli stati di pre-morte ha venduto milioni di copie nel mondo.

[6] Sul fantoma, V. R. Steiner, Il fenomeno uomo. Da Gesù a Cristo –Ed. Archiati

[7] Mt 18,3

[8]Il punto due è nell’elenco puntato del riquadro grigio a p. 51

[9] L’esoterismo ha invertito Mercurio con Venere per confondere le acque a chi non ha la competenza di occuparsi di queste temi.

[10] In Dante si trovano molti aspetti di questa saggezza atavica dell’umanità

[11] Averroè (1126-1198), ha tentato di conciliare l’arabismo, il maomettanesimo, con l’aristotelismo [NdR]

[12] R. Steiner, La filosofia di Tommaso d’Aquino – Ed. Antroposofica

[13] Questi cicli di conferenze sono ora disponibili anche nella versione redatta da P. Archiati, col titolo: Il fenomeno Uomo. Da Gesù a Cristo; Cristo e l’anima umana – Ed. Archiati

[14] Lc 23,34

[15] Dei volumi citati sono pubblicati in Italia i seguenti:

Vita da morte a nuova nascita in relazione ad eventi cosmici; Natura interiore dell’uomo e vita fra morte e nuova nascita; Formazione del destino e vita dopo la morte; Morte sulla Terra e vita nel Cosmo – Ed. Antroposofica

[16] P. Archiati, Angeli e morti ci parlano – Ed. Archiati

[17] P. Archiati, Il mistero dell’amore – Ed. Archiati

[18] P. Archiati / P. Agnello, Giuda ritorna – Ed. Archiati

[19] Tertulliano di Cartagine, teologo apologeta (155-220 ca)

[20] Sri Aurobindo (1872-1950), filosofo mistico indiano

[21] Mt 24,35; Mc 13,31; Lc 21,33

[22] Martin Heidegger (1889-1976), filosofo tedesco

[23] Dalla locuzione latina: «Ogni trinità è perfetta»

[24] R. Steiner, Teosofia – Ed. Antroposofica

[25] Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), filosofo idealista tedesco

[26] R. Steiner, La filosofia della libertà – Ed. Antroposofica

Letture correlate

Archiati Edizioni

Pietro Archiati

Angeli e morti ci parlano

Equilibrio interiore

Giuda ritorna

Guarire ogni giorno

Il pensiero via maestra alla felicità

Il mistero dell’amore

La vita dopo la morte (Collana Audio)

Nati per diventare liberi

Rudolf Steiner

Che cosa fa l’Angelo nell’anima dell’uomo?

Il bello di essere uomini

Il fenomeno uomo

Il pensiero nell’uomo e nel mondo

La via dal sensibile al sovrasensibile

L’uomo e la tecnica

Vivere con gli Angeli e gli spiriti della natura

Tra destino e libertà

A proposito di Pietro Archiati

Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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