Gustav Dorè - “La resurrezione di Lazzaro”
Indice
Martedì 26 agosto 2003, mattina
Martedì 26 agosto 2003, pomeriggio
Mercoledì 27 agosto 2003, mattina
Mercoledì 27 agosto 2003, pomeriggio
Mercoledì 27 agosto 2003, sera
Giovedì 28 agosto 2003, mattina
Giovedì 28 agosto 2003, pomeriggio
Venerdì 29 agosto 2003, mattina
Venerdì 29 agosto 2003, pomeriggio
Sabato 30 agosto 2003, mattina
A proposito di Pietro Archiati
Lunedì 25 agosto 2003, sera
Introduzione
Benvenuti a tutti!
Nell’ultimo incontro eravamo arrivati al capitolo 9, dove si parla del cieco nato. Anche nei sinottici di Matteo, Marco e Luca ci sono guarigioni di ciechi, certo che ci sono. Però, se proprio volete cogliere una differenza molto importante, in nessun altro vangelo c’è la guarigione di un cieco nato.
Nel vangelo di Giovanni c’è soltanto una guarigione di un cieco, ed è il sesto dei sette segni di questo vangelo (l’ultimo segno che ancora vedremo nell’11° capitolo è il risveglio di Lazzaro). I miracoli del Cristo nel vangelo di Giovanni vengono chiamati “segni” e non “miracoli”. Il sesto segno è la guarigione di una persona nata cieca, e tutto il testo continua a sottolineare il fatto che è nata cieca; pensate voi che sia importante questo fatto? Nella teologia tradizionale non ci si dà importanza più di tanto, anche perché gli altri tre vangeli parlano di guarigioni senza neanche riferire che ci sia un cieco nato.
Faccio un’introduzione, questa sera, prima di entrare dentro questo evento bellissimo: uno dei tratti fondamentali dell’operare del Cristo – cosa che avviene in questo momento e sempre – è di ridare la vista a esseri umani che sono nati ciechi. Occuparci del vangelo, occuparci del fatto che il Cristo dà, ridà la vista a un cieco nato, per noi può essere interessante soltanto se cogliamo l’aspetto fondamentale che ci riguarda tutti, uomini e donne: e cioè che essere uomini significa strutturalmente essere nati ciechi. Perché se noi non siamo tutti nati ciechi, allora non ci riguarda il fatto che il Cristo guarisca un cieco nato. Non mi riguarda se non sono io.
Soprattutto per coloro che sono nuovi, in tanti già lo sanno, devo dire che con tutta la filosofia e soprattutto la teologia, l’esegesi, la conoscenza del greco, io non sarei in grado di star qui a dirvi le cose che sto per dire senza gli apporti, ai miei occhi colossali, enormi, di questo gigante dello spirito che è Rudolf Steiner – “pietra scartata”. Ogni gigante deve cominciare come “pietra scartata” altrimenti sarebbe una mezza cartuccia. Se viene recepito troppo alla svelta vuol dire che l’impulso che porta non è immenso.
L’impulso del Cristo è talmente smisurato che anticipa tutta la seconda metà dell’evoluzione e quindi è chiaro che deve essere una “pietra scartata”, perché gli esseri umani ce ne devono mettere di tempo per recepirlo! Dopo duemila anni abbiamo cominciato sì e no a capirci qualcosa, se tutto va bene… Allora, se questo fantomatico Rudolf Steiner pone le basi conoscitive, cioè i presupposti di coscienza per il ritorno del Cristo (per un nuovo inizio del cristianesimo, se preferite, le categorie possono essere tante), se così è (come io ritengo e chi mi conosce lo sa), allora la sua scienza dello spirito avvia l’ingresso del Cristo nella coscienza del singolo.
La differenza tra la prima e la seconda venuta del Cristo – lo dico adesso con parole mie, ma sono cose fondamentali – è che la prima è stata l’opera del suo amore per l’umanità: si è incarnato, ha fatto quello che aveva da fare, ha detto quello che aveva da dire, è morto ed è risorto. La prima venuta del Cristo è un evento storico e metastorico, spirituale, universale, e proprio perché ha una sua oggettività come evento storico, gli esseri umani hanno tutto il tempo, tutti i millenni per prendere posizione in base al loro pensiero.
La cosiddetta seconda venuta del Cristo non è un ripetere la prima, perché se lo fosse vorrebbe dire che la prima è manchevole di qualcosa – non sia mai!, perché il concetto del Cristo è quello sommo della perfezione, della vastità, del massimo che gli esseri umani riescano a pensare.
Il Cristo non è venuto a fare qualcosa agli esseri umani, altrimenti farebbe tutto lui, nella completezza, e noi non avremmo nulla da fare. Il Cristo è venuto invece a rendere possibili tante cose, tanti passi evolutivi alla coscienza e al cuore dell’uomo. In altre parole, l’amore del Cristo per gli esseri umani sta nel fatto che si rifiuta di trattarci come bambini, perché allora non ci amerebbe, amerebbe se stesso in noi. Egli ci mette a disposizione tutti gli strumenti per diventare sempre di più cogestori responsabili dei destini della terra e dell’umanità, in base al capire sempre meglio i destini della terra e dell’umanità, a partire dalla libertà, a partire dalla consapevolezza.
La seconda venuta non è più universale, ma individuale. Non è più un fatto storico oggettivo uguale per tutti, ma è un’acquisizione del singolo. Sono io che faccio entrare il Cristo nella mia coscienza, nel mio pensiero. Questa seconda venuta è quindi un evento della libertà del singolo, avviene in tempi diversi, con intensità diverse, a seconda degli individui umani.
Nella terminologia tradizionale dei vangeli, la prima venuta è quella del Cristo, del Figlio, ma è il Cristo stesso a dire (poi vi faccio l’aggancio col cieco nato) che la prima venuta è propedeutica, è preparatoria, e non ha senso senza la seconda. E come la chiama, questa seconda? La chiama avvento dello Spirito Santo. Ci arriveremo, se le fila dei partecipanti a questo seminario non si assottiglieranno: arriveremo ai famosi discorsi dell’Ultima cena, capitolo 13, 14, 15, 16 e poi il 17, dove c’è il bellissimo colloquio col Padre cosmico.
In questi discorsi dell’Ultima cena il Cristo dice: è importante, è necessario che io sparisca, altrimenti non può venire lo Spirito Santo. È importante che il Cristo sparisca come istanza esterna all’uomo: fintanto che Lui è lì e parla, gli esseri umani lo ascoltano e vanno da Lui per farsi dire cosa devono fare. Allora il Cristo dice: no, no, no, questo deve finire! Il compito di un pedagogo è quello di rendersi superfluo... allora sì che ha fatto un buon lavoro! Il Cristo dice: se io sono un pedagogo, se veramente amo voi esseri umani, devo far di tutto perché la mia guida dall’esterno si renda superflua, se no resterete bambini!
Ecco la differenza tra il Figlio e lo Spirito Santo (la riduco a due tratti fondamentali, però immaginate le conseguenze nella vita: sono enormi): il Cristo in quanto figura storica è esterno mentre lo Spirito Santo è il Cristo interiorizzato, fatto mio, che diventa spirito del mio spirito.
La prima venuta è esterna, la seconda è interna: primo tratto fondamentale.
Secondo tratto fondamentale: la prima venuta è uguale per tutti. Finché il Cristo è lì che parla, lo fa in modo uguale per tutti, per i dodici apostoli, per quelli che lo ascoltano fino alla fine... Invece lo Spirito Santo è il Cristo che parla in ognuno in modo del tutto diverso: è il Cristo interiorizzato e individualizzato.
Un Cristo esterno è generalizzato, mentre interiorizzare il Cristo, cioè “macinarlo” col nostro pensiero e accoglierlo con le forze del nostro cuore, è la forza propulsiva di tutte le azioni, è un cammino, è un compito evolutivo senza fine del pensiero e delle forze d’amore. Il Cristo che viene interiorizzato e individualizzato quando parla si esprime in ogni persona in modo diverso, con sfaccettature diverse. Lo Spirito Santo è un Cristo di infinita ricchezza e varietà.
Il Cristo storico è uno; lo Spirito Santo è il Cristo diverso in ogni essere umano. In altre parole, ciò che il Cristo compie è di mettere a disposizione degli esseri umani gli strumenti per interiorizzare e individualizzare il divino, lo Spirito: porge tutto quel che c’è da capire (con la testa), tutto ciò che c’è da amare (con le forze del cuore, del sentimento) e tutto ciò che c’è da fare (con le forze della volontà).
Quando leggo Rudolf Steiner a varie riprese, per esempio queste bellissime conferenze di Amburgo sul vangelo di Giovanni, e col passare degli anni magari mi familiarizzo un pochino su tante cose che all’inizio sono nuove anche per me, spesso mi capita di dire: ma perché non ci sei arrivato da solo a capire?
Per esempio, ricorderete che ne I promessi sposi don Abbondio, siccome i Bravi gli hanno detto che don Rodrigo ha messo il veto sul matrimonio fra Renzo e Lucia, deve trovare qualche cavillo per spiegare a Renzo che di quel matrimonio non se ne parla più. Vi ricorderete che legge una pastrocchia in latino e tra le altre cose cita il si sis affinis come uno degli impedimenti fondamentali. È l’affinità di sangue. Si sis affinis, se tu sei affine di sangue, il matrimonio non si deve fare. E perché?
Sono cose che noi sappiamo, magari le abbiamo studiate in teologia, solo che ci vuole ‘sto pinco pallino di Rudolf Steiner per dirti: ma fai quella connessione con il cieco nato dei vangeli! Falla! E quello è il momento in cui io mi dico: ma perché non ci sei arrivato da solo?
Qui abbiamo a che fare proprio con una delle caratteristiche fondamentali della svolta storica che il Cristo ha portato: prima del Cristo le forze portanti dell’evoluzione erano quelle del sangue, e più ci si sposava fra consanguinei e più si favorivano le forze dell’antica chiaroveggenza.
Se le cose fossero restate così, se i bambini avessero continuato a nascere nello stesso sangue, se fino ad oggi il sangue avesse continuato a dare automaticamente le forze più belle, quelle della connessione con lo spirituale, sarebbe stato meglio? No, perché mancherebbe la libertà! Saremmo a tutt’oggi determinati dalle forze di natura. Invece la legge fondamentale dell’evoluzione prevede il ritirarsi dell’onnipotenza del Padre dentro l’uomo per far posto alla libertà. In ebraico shabat significa riposarsi, e perché si riposa, il Padreterno? Per far posto alla libertà dell’uomo! Se resta un Allah onnipotente anche dentro l’uomo (e non solo nella natura), la libertà è un’illusione, diventa assurdo parlare di libertà.
Ecco il concetto ebraico-cristiano del Padre che volutamente si ritira, che rinuncia alla sua onnipotenza dentro l’anima umana. Rinuncia ad essere onnipotente nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti e nelle nostre volizioni in modo da darci la possibilità di gestire liberamente e di partecipare liberamente all’evoluzione. Tutto ciò significa che più si va avanti nell’evoluzione, più si va vicini alla svolta di duemila anni fa, e più le forze del sangue diventano anacronistiche.
Da che cosa si dimostra che diventano anacronistiche? Dal fatto che quando oggi ci si sposa fra consanguinei – e certe etnie, in Africa, sono ancor oggi alle prese con questo grande mistero dell’umanità perché hanno conservato la tradizione di sposarsi nello stesso sangue – sono altissime le possibilità di nascite con enormi difetti fisici, in modo particolare la cecità. Fra tutte le malattie che sorgono quando c’è uno sposalizio consanguineo, la percentuale della cecità è la più alta – e se qui ci son dei medici dovrebbero confermarcelo. Il vangelo non sgarra mai!
Che significa questo? A me interessava prima di tutto porre la cecità come un fatto oggettivo, biologico-oggettivo. Perché il vangelo di Giovanni è biologia, è geologia, è fisica, è tutto, non è soltanto una teologia; è uno dei testi più universali, più fondamentali e scientifici che ci siano!
Essere veggenti nello spirituale significa non vedere la materia – guardiamo a tutta la cultura paleo indiana –, significa considerare il cosiddetto mondo della materia come illusione, come maya. Il fondamento della libertà individuale, invece, è proprio la percezione sensibile, e di tutti e dodici i sensi dei quali parla la scienza dello spirito, qual è quello più importante? La vista! Di gran lunga la vista è il massimo della percezione; naturalmente anche l’udito, che viene subito dopo, però la vista è molto più individualizzata che non l’udito. Voi qui udite, e ciò che udite è più o meno uguale per tutti, ma quello che vedete no! Basta anche soltanto mezzo metro di angolatura diversa ed è tutto un altro tipo di percezione, tutt’altre sfaccettature. Inoltre, si può ascoltare passivamente, ma per vedere bisogna guardare, non si può vedere senza guardare, e il guardare è del tutto individualizzato.
Se allora le forze del sangue arrivano al punto di generare uomini ciechi dalla nascita, ciò significa che il sangue non è e non sarà più in grado di essere l’elemento portatore dell’evoluzione; e che l’essere umano deve fare il trapasso dalle forze del sangue, che sono comuni, alle forze della libertà individuale.
L’evoluzione va avanti soltanto se, rompendo la consanguineità, sei felice di non aver più la veggenza atavica, e non avendola ti si aprono gli occhi. La vista fisica è la base della percezione ed è la provocazione al concetto: ma costruire il concetto in base alla percezione è opera del singolo.
Chi ci rende capaci di vedere fisicamente in questo momento? Il Cristo! Il vangelo in questo sesto segno ci dice: se non ci fosse l’operare del Cristo, nessun occhio fisico umano potrebbe vedere, perché la forza visiva dell’occhio umano a tutti i livelli – fisiologico, biologico o, come diceva Platone, al livello di emissione di fasci astrali, animici –, tutto quello che è necessario per vedere fisicamente, è dovuto all’opera delle forze dell’Essere del Sole, dello Spirito del Sole.
Intervento: Prima di Cristo, come vedevano?
Archiati: Vedevano e non vedevano. Prendiamo il Ciclope, con Odisseo che, nel quarto periodo postatlantico (periodo greco-romano), vince quel modo di vedere, accecandolo. Qual è la differenza fra il Ciclope, con un occhio solo, e Odisseo, l’uomo con due occhi fisici? Che tipo di passaggio è?
Si passa dal vedere panoramico – ciclope, in greco kÚklwy (kýklops), è composto da kÚkloj (kýklos) cerchio, e wy (ops) occhio – al vedere individuale. Steiner la chiama “veggenza immaginativa”, il primo modo di vedere. Se uno vede panoramicamente, com’era per l’antica veggenza, cosa vede? Tutto e nulla!
Intervento: Ma non tutti erano veggenti!
Archiati: Certo che erano tutti veggenti! Anche tu, 5.000 anni fa! Il mito nell’Odissea ti sta a dire che si può passare da un tipo di visione mono-oculare (era una specie di lanterna in cima al capo, l’occhio di Polifemo), da un tipo di visione immaginativa (che è come la percezione che ha il bambino appena nato: il bambino non distingue, non percepisce le cose, ci vive dentro), alla visione con i due occhi, che hanno lo scopo di incrociarsi. I due assi si incrociano e così permettono nel vedere la percezione dell’io: un’autopercezione. In altre parole, la differenza tra la veggenza di Polifemo e la veggenza di Odisseo, è che il vedere di Odisseo è un vedere mirato, cioè un guardare; Polifemo non poteva guardare, vedeva soltanto! Che differenza c’è in italiano tra vedere e guardare? Guardare significa rivolgere gli occhi verso qualcosa, e questo Polifemo non lo poteva fare!
Intervento: Polifemo era uno, ma gli altri avevano due occhi, nel quarto periodo. Tutta la civiltà greca! Gli scultori, i filosofi ecc.. non vedevano?!
Archiati: Il mito ti sta a dire che ci sono state transizioni, ci sono stati passaggi, da questo modo di vedere infantile, a un modo di vedere cosciente che guarda qualcosa, che si rivolge con lo sguardo: adesso voglio guardare lì, adesso voglio guardare là, questa è la differenza! Ma quello che Ulisse fa in una serata, supponiamo, sono passi evolutivi di secoli! Nell’uno un po’ più alla svelta, nell’altro un po’ più lentamente, qui nel vangelo di Giovanni hai gli archetipi dell’evoluzione. Soprattutto archetipi della svolta, perché poi dovremo fare anche il rapporto con tutto il discorso della porta – “Io sono la porta” –, che viene nel capitolo 10. La porta è la soglia e la soglia è il punto d’incontro fra due mondi. Rappresentiamoli con una lemniscata:
Prima di Cristo l’evoluzione era in chiave di sangue, l’elemento fondamentale era il sangue. Poi, con l’avvento del Cristo, si ha una svolta, inizia la seconda parte dell’evoluzione: è quella che possiamo chiamare della libertà individuale. Prima affinità di sangue, poi affinità spirituale.
Il Cristo si avvicina al cieco nato, che rappresenta il vicolo cieco di un’evoluzione che si fonda sulla natura, e incontrando lui incontra ogni essere umano che è arrivato al punto di dirsi (pensate a Edipo, che alla fine si è accecato): la natura non mi porta più, non mi sostiene più, non mi dà più da sola tutto ciò che vorrei avere da lei. Quindi nel cieco nato si cristallizza il fatto che il senso della natura è quello di far posto alla libertà.
L’antica chiaroveggenza crea malattia, crea cecità fisica, quindi deve finire. E come va avanti l’evoluzione? L’evoluzione va avanti esaurendo volentieri l’antica chiaroveggenza e amando, volendo, desiderando la percezione fisica, il vedere fisico. L’incontro col cieco nato sta a dire: caro essere umano vedi l’abisso in cui ti porta la natura? La natura ti porta nell’abisso che ha fatto nascere il cieco, perché il senso della natura è di farsi da sostrato per il cammino della libertà.
Intervento: Cosa si intende per natura?
Archiati: Tutto ciò che la natura dà, il sangue, tutto ciò che non fa parte della libertà umana. Il dato di natura, la necessità, il determinismo. Quattro, cinquemila anni prima di Cristo per il fatto stesso di sposarsi tra consanguinei, i figli avevano, tutti, la chiaroveggenza.
Nell’Antico Testamento, nella Torah, qual è una delle cose più misteriose che ci siano? Il modo in cui il popolo ebraico da un lato era tutto fondato sull’importanza del sangue e, dall’altro, era anche il popolo che doveva preparare la rivoluzione assoluta della svolta, e perciò c’è sempre il mistero di andarsi a prendere delle mogli fuori, a cominciare da Abramo.
Nella Bhagavad-Gita (che è il 6° capitolo del Mahabharata), uno dei messaggi più importanti che Krishna rivolge ad Arjuna è: non tergiversare, non aver paura di combattere e uccidere i tuoi consanguinei! Tanti dicono che l’induismo, o il buddismo, sono religioni molto mansuete, piene di pace e vogliamoci bene..., ma perché non vanno a leggersi bene le scritture? Altro che pace!
L’affermazione fondamentale dice: l’evoluzione va avanti soltanto se i meccanismi, la necessità, i determinismi del sangue vengono rotti, in modo da far posto alla libertà individuale.
Intervento: Scusa, hai detto che nell’Antico Testamento andavano a prendersi le mogli in altri paesi: ma non era proibito?
Archiati: No, e allora come fa Abramo ad avere due mogli? Una era egiziana. Il Vecchio Testamento è pieno di misteri, che tanti ebrei o anche tanti teologi cristiani non riescono a spiegare. Però il testo te li mette lì!
Intervento: Cercavano mogli straniere per avere figli più sani?
Archiati: Ma certo, perché cominciavano a saltar fuori i problemi, cominciavano a saltar fuori le malattie fisiche.
Intervento: Avevano tutti la chiaroveggenza? Che cosa intendi per chiaroveggenza? È il nostro concetto di chiaroveggenza oppure...?
Archiati: Fa’ il paragone con il nostro vedere: tu cosa intendi quando dici che noi tutti abbiamo la vista? Che percepiamo tutti il mondo fisico. Con l’antica chiaroveggenza gli esseri umani percepivano tutti il mondo spirituale: angeli e arcangeli, diavoletti, spiriti della natura ecc... Per cui per loro quella che noi chiamiamo la realtà, non era una realtà, ma un’illusione, una maya.
Intervento: Beh, comunque il mondo fisico era una manifestazione reale del mondo spirituale. La vera realtà era nel mondo spirituale, ma quello che percepivano materialmente era comunque una manifestazione del mondo spirituale...
Archiati: Attenta! Lo dici tu! Il passaggio da Platone ad Aristotele è proprio in questo che tu dici. Platone è, potremmo dire, l’ultimo uomo che non era ancora capace di dire quello che dici tu! Per Platone il mondo visibile non è l’espressione reale dello spirito, ma era ombra, pura ombra. Aristotele è il primo che dice: no, il mondo visibile, il cosiddetto mondo materiale non è soltanto illusione, ma è l’incorporazione reale di ciò che è spirituale. Ma questo che significa? Chi ha ragione? Platone o Aristotele? Tutti e due hanno ragione! Platone aveva un’altra costituzione psicofisica, o psico-spirituale, e Aristotele un’altra!
Intervento: Occhi diversi!
Archiati: Occhi diversi, modo di vivere diverso. Platone non ti concederebbe mai l’affermazione che tu hai fatto, onestamente non potrebbe. Pensa al suo bellissimo paragone della spelonca con le ombre[1]: cos’è un’ombra? Non è nulla di reale! Aristotele invece dice: no, no, no, lo spirito si incorpora nella materia in modo tale che ne diventa la forma[2]. Quindi la connessione tra spirito e materia in Aristotele è molto più profonda che non in Platone.
Per Platone l’anima è come l’auriga[3]: c’è una connessione organica tra l’auriga e il carrozzino? No, restano esterni l’uno dall’altro! C’è un passo enorme in Aristotele che dice no, no, il rapporto tra anima e corpo non è come il cavaliere e il cavallo, che restano due esseri diversi, ma è come forma e materia, che fanno un tutt’uno!
Steiner in tante conferenze insiste su questo trapasso, su questo Rubicone fondamentale che c’è stato tra il modo di pensare di Platone e il modo di pensare, due, tre decenni dopo, del suo discepolo Aristotele.
Riassumo: il cieco nato, nel vangelo di Giovanni, è il risultato, è il “vicolo cieco” della prima metà dell’evoluzione, dove le forze portanti erano quelle del sangue che inserivano l’uomo nella realtà dello spirito e lo portavano quasi a non vedere, a non considerare reale il mondo della materia. Gli esseri umani erano come in uno stato prenatale, embrionale, non erano ancora nati al mondo fisico.
Il Cristo incontra l’essere umano quando esso vive l’esperienza della necessità di redenzione. Perché se l’uomo non porta incontro al Cristo la propria esperienza della caduta, dell’essere nato cieco, non può capire nulla della “redenzione” (tra virgolette, naturalmente) che il Cristo gli porta incontro. Detto in un modo ancora più provocatorio – come provocazione al pensiero, però – il Cristo, dandoci la vista fisica, ci rende volutamente ciechi nello spirito!
E perché lo fa volutamente? Affinché la riconquista della realtà dello spirito possa essere il frutto del nostro cammino di libertà, a partire dalla percezione sensibile. In altre parole, il Cristo, il Logos fatto carne, ci presenta lo spirito col gioco del nascondino: la percezione fisica è il nascondino dello spirito. In Germania, a Pasqua si nascondono le uova per dare ai bambini la gioia di trovarle. La percezione sensibile è lo spirito che si nasconde, è la premessa per la vera vista, quella spirituale. E qual è la vera vista? È il concetto: però il concetto lo devo produrre io, col pensare.
Intervento: Ci spieghi la differenza tra spirito e materia?
Archiati: La materia, la cosiddetta materia, è il velo, è il nascondiglio dello spirito. Spesso ho portato l’esempio della rosa: dov’è la realtà della rosa? Nella percezione che ne ho? Ma la percezione oggi c’è, domani è sparita, e allora ciò che io vedo con gli occhi materiali non può essere la rosa. La rosa reale, vera, eterna, che non è peritura, è la sua essenza, quella che io penso col mio pensiero.
In altre parole, il Cristo rende il cieco nato – che vive nel vicolo cieco delle forze del sangue – capace di percezione visiva, sensibile, come provocazione a pensare tutto il sensibile. E perciò per il vangelo di Giovanni è fondamentale che sia un cieco nato, perché sono le forze dell’eredità, le forze del sangue che l’hanno reso cieco, non lui stesso, non il suo karma, o i suoi peccati e omissioni individuali, no! Il sangue, l’eredità di natura l’ha reso cieco, perché l’evoluzione non va più avanti retta dai determinismi di natura.
Vorrei di nuovo sottolineare l’universalità assoluta di tutto l’operare del Cristo nel vangelo di Giovanni: tutti gli incontri del Cristo, tutte le parole del Cristo sono archetipi dell’evoluzione. O si capiscono nella loro universalità assoluta che travalica religioni, teologie ecc... e quindi si riferiscono all’umano che tutti abbiamo in comune, oppure non è il vangelo di Giovanni. Il vangelo di Giovanni è il vangelo del Logos, deve essere logico, logico nel senso pulito della parola, da cima a fondo.
Intervento: Prima si è accennato al karma del cieco nato. Alla domanda degli apostoli, Cristo risponde “Non ha peccato né lui né i suoi genitori”. Questa risposta esclude l’ereditarietà, è una forma coperta per reintrodurre il concetto della reincarnazione.
Archiati: Il modo in cui le forze ereditarie operano nei genitori non ha nulla a che fare con i peccati di omissione dei genitori: ha a che fare con le leggi evolutive.
Intervento: Va bene, ma prima l’avevamo considerato alla luce del karma dell’individuo.
Archiati: No, gli apostoli pongono la domanda in quest’ottica, e il Cristo risponde: non è questa l’ottica giusta. Il Cristo nel vangelo di Giovanni compie soltanto due opere, a Gerusalemme e di sabato: una è la guarigione del paralitico, inizio del capitolo 5 – tant’è vero che Lui stesso verso la fine dice: “Ho compiuto soltanto un’opera” e si riferisce al paralitico, al quale poi, quando lo rincontra, dice: “Non peccare più perché non ti avvenga di peggio” – e poi, come seconda opera, questa guarigione del cieco nato.
Ti faccio una proposta: siamo a livelli propedeutici nello studio del vangelo di Giovanni, ma poiché non possiamo restare a questi livelli di struttura, adesso vogliamo tuffarci verso per verso, per rendere tutto più concreto. Io penso che, nella misura in cui uno approfondisce questo vangelo – ma ci deve passare tutta la vita, lo deve amare, lo deve meditare – credo che arrivi alla polarità bellissima, fondamentale, dei due segni compiuti a Gerusalemme dal Cristo, di sabato.
I farisei, vedremo, se la pigliano col Cristo perché ha operato di sabato, mica perché ha guarito un cieco! Quello che a loro importa è che manda per aria il sabato, quello per loro è importante!
Sono conclusioni, queste, risultati di laboratorio a cui io stesso sempre di più arrivo, e mi fanno capire quel che Rudolf Steiner ha detto già un secolo fa: che un testo di questo tipo è inesauribile, ce ne potremmo occupare per altri millenni e scopriremmo cose sempre nuove. Tra i due fatti c’è una polarità bellissima: Cristo affronta col paralitico il karma individuale e col cieco il karma dell’umanità.
Il karma dell’umanità, dove non c’entrano il peccato e le omissioni dell’individuo, è che fino alla svolta le forze del sangue, le forze ereditarie, erano positive, mentre dopo la svolta diventano sempre più negative se vogliono continuare ad essere portanti per l’evoluzione.
Questo è karma dell’umanità, e vederlo in questa polarità ti fa innamorare del vangelo di Giovanni sempre di più, perché vedi che gli elementi di strutturazione sono infiniti, ma così belli perché ti ritrovi sempre con delle polarità che fecondano il pensiero. Noi vedremo che il Cristo rincontra il cieco ma non c’è nessun accenno al peccato; invece rincontra il paralitico e accenna al peccato, parla del peccato – “Non peccare più”, gli dice. Queste cose sono fondamentali, non sono per caso, però presuppongono una famigliarità col testo che non è soltanto studio intellettuale ma è vivere col testo.
Intervento: Ma come pensavano, millenni fa? Noi vediamo perché possiamo pensare il visibile.
Archiati: Che cosa significa “pensare il visibile”? Diventa per noi difficile risalire a stadi pregressi dell’evoluzione, per esempio a 4000 anni prima di Cristo. Ci aiuta moltissimo metodologicamente (questo me l’ha insegnato la scienza dello spirito di Steiner) considerare l’evoluzione del bambino, perché ripete tutti gli stadi evolutivi.
Allora, siccome tu mi poni la domanda: ma come pensavano 5000 anni fa?, io ti rispondo: pensavano come bambini piccoli! Un bambino appena nato, o diciamo, dopo due mesi, la percezione ce l’ha! Diffusa ma ce l’ha! Che pensa? Non pensa! Vive nel mondo!
Quando ci diventa difficile farci un’idea di stadi animici o spirituali dell’evoluzione passata, è importante cercare analogie nell’embriologia, che ripete tutta l’evoluzione. Già ai tempi di Haeckel si dimostra che si comincia dalla sola cellula e si arriva al punto di avere otto cellule…; si riparte dall’organismo monocellulare e si rifà tutta l’evoluzione in senso compresso, sintetico.
Il Cristo, che è lo Spirito del Sole, donando agli esseri umani la luce che rende visibili le cose, e donando agli occhi la luce che fa percepire le cose, ci ha reso capaci di pensare, perché prima non lo si era. Allora l’affermazione diventa ancora più bella: il Cristo ci rende capaci di pensiero perché illumina le cose, le rende percepibili, e perché illumina i nostri occhi rendendoli capaci della percezione sensibile. Entrambi sono i presupposti per pensare.
Vi sembra un po’ arido questo tipo di spiegazione? Sarebbe forse più bella una spiegazione teologica? No. Io ho studiato teologia e questa spiegazione mi convince molto di più perché è scienza universale, e poi dà la gioia, e questo godimento viene lasciato a ognuno. O il Cristo, il vangelo, mi portano a questi fondamenti della condizione umana, oppure vado a cercare qualcos’altro.
Di diversità, di antagonismi tra individui, fra nazioni, fra popoli, ne abbiamo abbastanza; l’umanità oggi cerca ciò che accomuna, cerca le leggi fondamentali dell’evoluzione, che sono uguali per ognuno di noi. L’evento dell’incontro del Cristo con il cieco nato evidenzia i fondamenti dell’esistenza nei quali noi continuamente viviamo: cosa faremmo, cosa potremmo fare senza la luce del sole, senza la luce degli occhi?
Uno potrebbe obiettare: lo dici tu che la luce del Sole c’è perché c’è il Cristo! Io non ho bisogno del Cristo: mi basta il Sole! Sarebbe come un ragazzo che porta una bella rosa a una ragazza per dirle che le vuol bene, e la ragazza gli risponde: a me non importa niente che mi vuoi bene, mi interessa solo la rosa. Il materialista rifiuta gli Esseri spirituali: ci può essere un dialogo con lui? No, perché egli sostiene che dimostrare lo spirito non si può. Lo spirito o si mostra, e allora c’è, ma se non c’è che vuoi dimostrare?! Il materialista è, nel senso tecnico della parola, un cieco nato.
Il senso positivo di essere ciechi nati sta nel fatto che hai la possibilità (che altrimenti non avresti) di riconquistare la vista, in base alla libertà. Ma la libertà non piace, è una grossa responsabilità! Richiede anche un po’ più di sforzo e di fatica per vincere uno dei tratti fondamentali della natura umana, che è l’inerzia (ma se questa non ci fosse… non avremmo nulla da fare!). La libertà non è mai libertà, è sempre liberazione; ma un processo di liberazione è possibile solo se esiste qualcosa da cui liberarsi. Queste sono verità lapalissiane, che però dimentichiamo; il vangelo di Giovanni, in particolare, è fatto apposta per riportarci a quelle realtà fondamentali, che noi continuamente dimentichiamo.
Intervento: Il paralitico può rappresentare, per tutto il genere umano, una possibilità di movimento come il cieco lo è per il vedere?
Archiati: Bisognerebbe costruire intorno alla categoria di pensiero che proponi tutto un contesto conoscitivo: i pensieri hanno senso soltanto se hanno un contesto.
Intervento: Come il miracolo del cieco ci indirizza a vedere e a scoprire un’altra vista, non potrebbe essere che il miracolo del paralitico ci induca a muoverci in una certa direzione valida per tutto il genere umano?
Archiati: Se tutte le persone qui presenti conoscessero La filosofia della libertà di Rudolf Steiner… qualcuno di sicuro la conosce qui, e l’aggancio sarebbe immediato. La riassumo: è un testo in due parti. La prima parte (che Steiner chiama “Monismo del pensiero”) dice che dove si tratta del pensiero, si tratta di un elemento universale. Il concetto di rosa non è diverso per ogni individuo ma vale per tutti, è un dato oggettivo; quindi dove si tratta del pensiero si tratta dell’universale (ed è il caso del cieco perché si ha a che fare con percezione e pensiero).
Invece nel caso del paralitico si tratta non di pensiero ma di impulsi volitivi: il paralitico non ha paralizzata la percezione come provocazione al pensare, ma ha paralizzati gli arti come presupposto dell’agire, della volontà, del fare. È generalizzabile il bene che facciamo nelle azioni? No! e il sostenerlo è uno dei più brutti anacronismi possibili! La seconda parte de La filosofia della libertà è chiamata “Individualismo etico” perché le azioni, i contributi, i talenti, diciamo gli impulsi volitivi in ogni essere umano devono essere del tutto diversi da quelli di ogni altro essere umano, altrimenti avremmo un’uniformazione, un cimitero, un impoverimento assoluto.
Intervento: Dunque l’etica va sviluppata differentemente da persona a persona?
Archiati: In campo morale le leggi di comportamento valide per tutti sono le leggi di natura. In che cosa consiste la svolta? Prima del Cristo la legge mosaica era il tutto della moralità, perché non c’era ancora l’impulso a fare qualcosa di individuale, di proprio. Dopo la svolta di duemila anni fa, quindi nella seconda metà dell’evoluzione, la legge mosaica non sparisce ma si fa sostrato necessario per ciò che è individuale: non è più l’elemento portante della morale ma il suo presupposto.
La morale, il bene e il male, è individuale; però nessuno di noi potrebbe agire individualmente, nessuno potrebbe immettere nell’umanità qualcosa che è unico e suo – un bene che è soltanto suo e che per un altro sarebbe un male – se non ci fosse un’osservanza di quelle leggi che permettono a tutti i presupposti necessari per questo individualismo etico.
Per esempio, se dall’alto vediamo duemila, tremila automobili che vanno e ci chiediamo che cosa stia facendo ognuno di quegli automobilisti, la risposta è su due livelli. Il primo è il livello delle leggi, delle regole del traffico uguali per tutti (guai se non ci fossero!): ma gli individui si sono messi in macchina per osservare le leggi del traffico? No, l’osservanza della legge uguale per tutti è il sostrato, il presupposto, la condizione perché ognuno possa fare qualcosa di tutto suo, di individuale: nella testa di ognuno c’è una direzione, e questo è il secondo livello.
Poiché gli esseri umani non erano ancora individualizzati, prima di Cristo i dieci comandamenti, cioè la legge mosaica, erano tutto e la persona moralmente buona ai tempi del Vecchio Testamento si chiamava Sadik, cioè “il giusto”, l’osservatore della legge. Dopo il Cristo, nella seconda metà dell’evoluzione, l’osservatore della legge è ancora l’essere umano moralmente buono? No, perché sarebbe come chi si mette in macchina soltanto per osservare le leggi del traffico e non sa cosa deve fare, dove andare. Il Cristo dice: Io non sono venuto ad abolire la legge ma a compierla. Allora la legge che non permette l’emergenza dell’individuo è incompiuta, è senza senso perché non porta al compimento per il quale è stata fatta.
Si può pretendere che un bambino piccolo osservi le leggi dei genitori, degli educatori, quale fondamento per esprimersi in un modo suo proprio e del tutto individuale? No, in lui non c’è ancora la capacità individuale.
Un grosso fraintendimento si ripete continuamente, non soltanto fra i cristiani ma anche fra cristiani e musulmani, cristiani e giudei. Alcuni dicono: i dieci comandamenti sono validi oggi come allora – no! siamo tremila anni dopo! – ; altri dicono: non sono più validi – altra cosa sballata. I dieci comandamenti sono validi in quanto fondamento, base necessaria per costruire ciò che è diverso in ognuno.
Consideriamo una suora che si presenta al Padreterno e dice: Io ho sempre ubbidito. Il Padreterno che farà? In paradiso non può mandarla perché lei non ha preso decisioni proprie; all’inferno nemmeno; per fortuna c’è il limbo[4], area di parcheggio in cui l’individuo sosta finché impara a decidere e diventa capace di ritornare sulla terra responsabilmente.
Intervento: Il discorso che fai è logico, ma c’è anche la componente del cuore…
Archiati: Io non ho costruito un antagonismo tra mente e cuore. Però, visto che tu ci richiami a questa prospettiva, una delle differenze fondamentali tra la legge valida per tutti e il bene individuale è che la legge valida per tutti è un elemento squisitamente di conoscenza, perché devo capire il contenuto. Se i dieci comandamenti sono leggi, le leggi sono pensieri, sono concetti universali validi per tutti: si tratta, insomma, di capire di che si tratta . Tutti dobbiamo ben capire le leggi per osservarle, perché io posso osservare soltanto ciò che ho capito. Se non ho capito che cosa mi dice un comandamento che cosa osservo?
Sulla base di questa osservanza comune, che ci deve essere altrimenti non avremmo la base dell’esistenza, si tratta ora di intuire per me ciò che il Cristo-in-me immette di unico nell’uma-nità. Questa intuizione di ciò che è assolutamente individuale non è più preminentemente della testa (perché la testa è fatta per ciò che è universale) ma è intuizione del cuore, per usare la tua metafora. Chi mi dice qual è il contenuto unico della mia individualità? Non il pensare che coglie l’universale! Quindi è chiaro che proprio costruendo questa polarità tra la legge univer-sale e la morale del tutto individuale, ritorniamo alla polarità fra mente, cioè saggezza, e amore.
Il pensiero è anche una forma di interiorizzazione, ma il concetto di interiorizzazione non è polarizzabile. Ti chiedo: che differenza c’è fra trasformare attraverso il cuore e trasformare attraverso la mente?
Intervento: Secondo me il cuore serve per metabolizzare quello che la mente mi ha fatto conoscere: lo faccio mio, lo elaboro, lo sento e lo vivo, lo trasformo. Io rispetto i comandamenti però poi dentro di me li elaboro e li vivo.
Archiati: E basta? E ciò che è individuale?
Intervento: Facendo così faccio anche cosa individuale: procedo con il mio sentire, con la mia conoscenza, con la mia percezione….
Archiati: No, non vedo ancora il contenuto oggettivo, unico, del tuo Io nell’umanità, nell’organismo dell’umanità. Il concetto dell’organismo è che il pensiero coglie l’unità dell’umanità, mentre (per usare la metafora di prima) il cuore coglie la natura dell’occhio, la natura del rene, dello stomaco, del polmone, cioè dei singoli organi che costituiscono l’organismo. Chi sei tu nell’umanità?
Intervento: Mi sento un piccolo cosmo che fa parte del grande cosmo. Io mi sento così!
Archiati: C’è l’individualità in questa affermazione? Questa affermazione vale per tutti!
Intervento: Però è la concezione mia personale!
Archiati: No, questa affermazione che tu hai fatto vale per tutti. Dunque vedi che l’individuo non è dicibile a livello della testa, perché la testa è per sua natura universale. In altre parole, l’individuo nella sua unicità è un mistero che si può soltanto amare. Perché per capire fino in fondo l’altro dovrei essere l’altro.
Intervento: E per capire me stesso?
Archiati: Non hai bisogno di capirti fino in fondo (il Cristo sì che ti capisce fino in fondo!). Perciò è un individualismo etico, non un individualismo pensato fino in fondo – questo, forse ci sarà alla fine dell’evoluzione. È un individualismo di comportamento. E l’individualismo di comportamento dove ci diviene accessibile? Nella percezione. Tramite la vista il Cristo ci apre gli occhi, perché siamo nati tutti ciechi, nel senso che a tutt’oggi non abbiamo la più pallida idea di quale sia la funzione morale, il peso morale della vista.
Adesso le vostre riflessioni ci hanno portato al punto dell’unicità individualizzata di ognuno, che risiede nella percezione. Se non sono capace di percepire che il modo di camminare di Luciana, il suo modo di guardare, il suo modo di avere strutturato il naso, è diverso da tutti gli altri esseri umani, non ho colto l’individualità di lei; e con che cosa colgo questo individualismo etico che mi si rende percepibile? Con la vista! Però lo colgo con la vista soltanto se capisco che cosa il Cristo mi dà dandomi la vista: mi dà la percezione di ciò che è individuale.
Intervento: La percezione non è data dalla vista, però!
Archiati: Certo che è data dalla vista, come percepisci la forma del naso di un’altra persona?
Intervento: Nella forma!
Archiati: No, scusa, se non la vedi.
Intervento: Beh, non è detto, perché i ciechi riescono in qualche maniera a vedere...
Archiati: Naturalmente la vista sta per tutti i sensi, la vista rappresenta la percezione sensibile in generale. Stiamo dicendo che la pura percezione sensibile ce l’abbiamo, ma perché siamo ciechi pur avendo la percezione sensibile? Perché siamo capaci di vedere, ma non di guardare: vedo il naso, ma non guardo che è diverso per forma da tutti gli altri nasi. Allora il vedere me lo dà il Cristo, mentre l’attenzione del guardare è lasciata alla mia libertà (però non posso guardare se non ci vedo).
Che il linguaggio distingua tra vedere e guardare è rilevantissimo da un punto di vista morale, perché la vista mi evidenzia di una persona potenzialmente un fenomeno unico. Però diventa per me un fenomeno unico soltanto se aggiungo alla vista l’attenzione del cuore che guarda, perché guardando distinguo io questo naso da tutti gli altri nasi.
Intervento: È come il sentire e l’ascoltare?
Archiati: Proprio così, tant’è vero che se uno ha sentito ma non ha ascoltato, non sa neanche di aver sentito. Cosa aggiunge l’ascoltare al sentire? L’attenzione, che si può chiamare attenzione del cuore: non è un’attenzione intellettuale.
Intervento: Osservare.
Archiati: Osservare, guardare. Ob-servare quindi guardare verso, da sopra: osservare è un po’ uno sguardo d’insieme. Se qui facessimo una discussione su che cosa significa guardare, saremmo tutti abbastanza d’accordo, ma se facessimo una discussione su ciò che significa osservare avremmo mille opinioni. In altre parole, il concetto di osservare è molto più ampio, molto più complesso! Invece guardare significa: guarda!
Intervento: Discernere.
Archiati: Discernere è già pensare.
Intervento: Guardare è rivolgere l’interesse, entrare nell’altro, è un trasporto, qualcosa che coinvolge il cuore.
Archiati: Interessamento. Uno chiede: l’hai visto quel film? Oppure chiede: l’hai guardato quel film? Perché si dice l’hai visto e non l’hai guardato? Perché il vedere ce l’abbiamo tutti e quindi il film lo vedono tutti, il guardare non necessariamente.
Intervento: Però, nel guardare si presuppone sempre di tornare al pensiero, perché quando si cerca la diversità si fa un confronto, si tende ad oggettivizzare.
Archiati: In proposito ci sono degli esercizi fondamentali che si fanno, ad esempio, studiando La filosofia della libertà: uno consiste nel vedere che nella percezione c’è già potenzialmente il pensiero. Perciò attribuire agli animali la percezione è una raffazzonatura di pensiero enorme. Soltanto un essere capace di concetti, di pensiero, ha la percezione: l’animale non percepisce il colore giallo, lo vive! La percezione è la capacità di estraniarsi del tutto dal giallo in modo da ricrearlo in tutto e per tutto a partire dal pensiero; se io non mi tiro fuori del tutto, non posso ricreare il percepito ma ne resto dentro. Quindi la percezione è una momentanea sospensione del pensare. Si può dire solo negativamente cos’è la percezione.
Intervento: Si può dire anche che la percezione è sentire con il cuore?
Archiati: No, la percezione è il nulla del pensiero. La si può definire soltanto negativamente, soltanto dicendo ciò che nella percezione manca; perché se la percezione fosse qualcosa, questo qualcosa sarebbe già un concetto. Soltanto lo spirito è qualcosa, la percezione è il nulla dello spirito: è come il presupposto, la provocazione a metterci lo spirito.
Concludendo: il Cristo guarisce, dà la vista al cieco nato intridendo della sua saliva la terra; ne fa fango, perché fango è terra ed acqua insieme. Perché non guarisce il cieco nato direttamente? La saliva è tutta intrisa dei pensieri e delle parole che si esprimono, quindi la saliva del Cristo è, come dire, la portatrice biologica, fisica, dei suoi pensieri e del suo amore, della sua luce e del suo calore. La sua saliva è intrisa delle forze del Logos, e Logos significa esprimere, sulle ali delle parole, i pensieri che sono la realtà delle cose. Quindi questa saliva è, diciamo, l’elemento portante di tutti i pensieri e di tutto l’amore del Logos.
Il Cristo deve dare la luce della vista ad un corpo fisico, quindi lo può fare soltanto congiungendo tutti i suoi pensieri e tutto il suo amore – che si esprimono nella saliva – col suo corpo terrestre. Il Cristo, allora come adesso, intride realissimamente, fisiologicamente, fisicamente, con la sua luce di saggezza, con il suo calore di amore, tutte le forze della Terra. Questo e soltanto questo ci rende capaci di vista. Se Lui in questo momento terminasse per un istante di intridere realmente le forze della Terra (che si esprimono nella terra del fango) con la sua saliva (cioè con tutta la luce dei suoi pensieri, come aura della Terra, e con il calore del suo amore), noi tutti in questo momento cadremmo nella cecità. Questo è il cristianesimo!
Martedì 26 agosto 2003, mattina
vv. 9,7 – 9,23
Non c’è bisogno che io espliciti ogni volta la dimensione eterna e quindi quotidiana degli eventi che stiamo considerando: questa guarigione dalla cecità è ciò che avviene sempre e per ogni essere umano. Per ognuno di noi si tratta di portare a coscienza la presenza e l’operare spirituale, ma realissimo, del Cristo.
A colui che si rende conto di essere un cieco nato il Cristo dice che le forze del sangue, le forze ereditarie, non sono più l’elemento conducente dell’evoluzione, ma si fanno base e fondamento per l’emergere della responsabilità individuale, della moralità, di ciò che chiamiamo libertà. Libertà significa moralità, libertà significa capacità di responsabilità individuale; il risvolto positivo della libertà è prendersi la responsabilità delle proprie azioni, non è soltanto fare ciò che ci pare e piace – quello è il risvolto negativo della libertà.
Il Cristo dice all’essere umano che si rende conto di essere nato cieco che le forze del sangue, tutto il fattore ereditario, non lo rendono veggente, nel senso che non lo rendono capace di interpretare le percezioni sensibili; soltanto il pensare gestito liberamente, individualmente, rende veggenti, nel senso che ci dà la capacità di interpretare, di capire ciò che vediamo.
Anche fisiologicamente – sembrerà un paradosso, ma la scienza fisica medica dovrà riconoscere queste cose – una persona cieca non è che non vede: la percezione c’è, quel che manca è il portare a coscienza la percezione. E questo la medicina, la scienza, man mano che si camminerà arriverà a provarlo anche fisiologicamente.
Molti assunti della scienza sono stati tramandati, ma sono assunti sbagliati. Per esempio, quando abbiamo fatto il sesto capitolo, abbiamo visto più da vicino cosa avviene quando si mangia: non è la materialità del cibo che si ingerisce a costruire il corpo, ma la materia che costruisce il corpo viene presa dal cosmo per osmosi finissima. Ciò che si mangia crea le controforze che rendono l’organismo capace di accogliere la materia da tutto il cosmo (si diceva infatti: “il pane che scende dal cielo”).
9,7 E gli disse: «Vai, lavati nella piscina di Siloàm» che significa Inviato. Egli andò, si lavò e tornò vedente.
In questo versetto ci sono le parole fondamentali con cui il Cristo ci aiuta a portare a coscienza la nostra cecità e ciò di cui c’è bisogno per vincere la cecità ogni giorno: “Vai”, cioè continua a camminare, ad evolverti e “lavati nella piscina di Siloàm”. In quel “vai” c’è una prima affermazione fondamentale: che l’essere umano è in evoluzione. E dicendogli vai, continua ad evolverti, il Cristo indica all’uomo anche la legge fondamentale dell’evoluzione: se continuerai ad evolverti farai queste cose.
Infatti, se vogliamo cogliere l’evoluzione nel suo insieme, in un modo centrale, dobbiamo distinguere almeno due passi fondamentali: il passo prima della svolta e il passo dopo la svolta. Una volta colti questi due caratteri fondamentali, poi possiamo entrare maggiormente nei particolari (il secondo grande passo, quello dopo la svolta, di quali piccoli passi è fatto?...). Però, se prima non distinguiamo almeno due registri fondamentali, non abbiamo la chiave d’interpretazione.
Se il Cristo, che è sempre il punto di svolta, dice: “Continua ad evolverti”, sta pronunciando la legge fondamentale dell’evo-luzione col Cristo e dopo il Cristo. Il carattere fondamentale del passo evolutivo prima del Cristo e dopo il Cristo, l’abbiamo descritto più volte: prima di Cristo c’è la fase infantile, quindi la conduzione dall’esterno; dopo, il grande passo in avanti dell’evoluzione che il Cristo rende possibile, che il Cristo favorisce, che il Cristo ama e che il Cristo desidera che avvenga in ognuno è di trasformare la conduzione dall’esterno – quella necessaria quando non si è ancora in grado di condursi dall’interno, quando si è ancora bambini perché le forze del pensiero, della coscienza, ancora non sono sufficienti – in conduzione dal di dentro. Che significa: capire sempre meglio ciò che faccio, vederne e conoscerne le conseguenze e quindi prenderne la responsabilità.
Il Cristo dice: Continua a evolverti, non ti arrestare, va’ a lavarti nella piscina chiamata Silw£m (Siloàm), immergiti nell’ele-mento vitale dell’acqua la cui forza astrale è Silw£m, che in greco significa “inviato”.
Il primo passo dell’evoluzione del Figlio, dell’Inviato, rappresenta proprio questo cambiamento di registro, questa svolta. La Trinità cristiana è importantissima proprio per farci capire che nell’evoluzione ci sono tre registi fondamentali: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo – cosa che poi l’islamismo, come dire, si è rimangiato, ritornando al monoteismo assoluto. Monoteismo assoluto significa che il Padre non manda il Figlio, che continua sempre a comandare tutto restando onnipotente senza far posto né al Figlio, né a una gestione in proprio da parte dell’essere umano. Il Figlio rappresenta l’umanità, rappresenta l’uomo.
Il Cristo dicendo “vai a lavarti alla piscina Inviato”, gli fa capire che il senso del Figlio, il senso del Cristo in ogni essere umano, è di sentirsi inviato dal Padre, e non più gestito in tutto e per tutto. Quando il bambino è piccolo il papà e la mamma non lo possono “inviare”, perché si invia chi è capace di gestire le cose in proprio. Se il figlio è l’inviato del padre non farà le cose contro il padre suo: quindi c’è una continuità, il figlio fa le cose nello stesso spirito del padre, però le fa lui! Nel senso che ha capito di che si tratta e le gestisce lui.
Quindi l’essere umano è l’inviato, il grande inviato cosmico sulla Terra dal Padre dei cieli, così come lo è il Figlio. Inviato significa: tu devi capire qual è la tua missione e poi devi compierla non per meccanismi di natura, ma in base a responsabilità, in base alla tua libertà, in base a una gestione tutta tua.
Quindi il Figlio, il Cristo, immette, comunica, trapassa ad ogni essere umano la sua realtà di Grande Inviato del Padre dei cieli sulla Terra, come Essere solare. Egli pone i presupposti per l’interiorizzazione, per l’individualizzazione: tu diventi essere umano adulto, perciò libero e responsabile, nella misura in cui ti senti inviato dal Creatore divino. Il creatore uomo è l’inviato del Creatore divino.
Facendo queste riflessioni cosa stiamo dicendo? Che il vangelo di Giovanni lascia perdere i particolari e picchia sempre su cose fondamentali; perciò possiamo partire dal presupposto che ogni minimo particolare che viene dato riguarda sempre aspetti fondamentali dell’evoluzione. Le cose fondamentali sono così importanti, e anche in un certo senso così complesse, che il vangelo non si ferma ai particolari. Questi poi si evincono da soli una volta capite le cose nel loro fondamento. Una chiave di lettura metodologica per chi studia questo vangelo, o ancor meglio lo medita nella sua cameretta, è: sta’ attento, non perderti nei particolari, fa’ di tutto per tirar fuori da ogni versetto, da ogni parola, le leggi fondamentali, gli aspetti fondamentali del divenire. Questo è l’assunto fondamentale della lettura.
Il cieco nato porta sugli occhi la terra intrisa di elemento acqueo, che è la saliva del Cristo: adesso l’animico e lo spirituale ce lo deve mettere l’uomo, portando a coscienza il suo carattere di inviato, di missionario, di apostolo. Il verbo greco ¢po-stšllw (apò-stèllo) significa “inviare”, se usato in forma attiva, ed “essere inviato”, se in forma passiva; in ebraico “shiloà” significa proprio “inviare”; anche in latino mittere significa “inviare, affidare a qualcuno una missione” – missus, da cui “missionario”, è la traduzione del greco “apostolo”.
Quando il vangelo dice: “Il Padre ha mandato me, e come il Padre ha mandato me così io mando voi,” la parola apostolo è la stessa parola che viene usata per il Cristo (il Grande Inviato, il Grande Missionario, il Grande Apostolo) e per ogni essere umano nel quale abita il Cristo. Il Cristo è l’essenza di ogni essere umano: con le acque della piscina dell’Inviato ognuno di noi deve comprendere sempre meglio in quale modo individuale, particolare, unico, il Cristo si manifesta nell’umanità attraverso ognuno, perché ogni essere umano è un modo diverso di manifestarsi del Cristo. Quindi ogni uomo è un inviato diverso, immette un messaggio specifico, ha una sua missiva da portare, è un’espressione, una comunicazione particolare del Cristo, che a sua volta è il grande Inviato del Padre.
“Andò, lavò gli occhi e tornò vedente”(Fig. 3). Questo “tornò” è il ritorno dell’evoluzione: l’andata è l’evoluzione che procede fino alla svolta, è scendere sempre più giù nella materia; e poi c’è il ritorno. Andò cieco – l’andata è diventare sempre più ciechi – e ritornò veggente. Il ritorno, la seconda parte dell’evoluzione, sta nel diventare sempre più veggenti, e cioè nel trasformare sempre più le percezioni in concetti.
Consideriamo ora la struttura del testo che segue: dal v.8 al v.12 si parla dei consanguinei, dei parenti; dal v.13 al v.17 si parla dei farisei; dal v.18 al v.34 si parla dei giudei; dal v.35 in poi il Cristo incontra di nuovo il cieco nato.
Cioè: fino al v.35 c’è una specie di discernimento degli spiriti, c’è il loro scindersi, nel senso che abbiamo tutta una fenomenologia di varie categorie di persone che vengono confrontate con la guarigione del cieco nato, vale a dire una fenomenologia dell’umanità che medita su questo sesto segno del Cristo. E noi a quale categoria apparteniamo? Ognuno di noi appartiene a tutte e tre queste categorie.
Infatti, quando si tratta dei consanguinei, siamo noi, perché ognuno di noi è nato in un contesto di sangue. C’è quindi una presa di posizione dei parenti consanguinei (ognuno di noi ha parenti), ed è quella delle persone che si identificano con le forze di eredità – perciò vengono definiti come “parenti”, affini di sangue. Nella misura in cui ognuno di noi si identifica con la parentela, col paese di estrazione, ecc. (chi più chi meno, naturalmente) non soltanto fa questo ma anche, di fatto, ne viene gestito (ognuno di noi, chi più chi meno, viene gestito dai parenti). L’operare del Cristo ci aiuta a prendere posizione conoscitiva nei confronti dell’elemento del sangue, della consanguineità, dell’elemento di parentela, dell’ereditarietà.
9,8 Allora i parenti e quelli che avevano visto lui prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è questi colui che stava seduto e mendicava?»
I consanguinei, ge…tonej (ghèithones) – vicini, parenti, affini di sangue – vedendolo, guardandolo (partono dalla sola percezione del fatto), dicevano: ma non è costui colui che sedeva e mendicava? È lo stesso o non è lo stesso? L’uomo prima della svolta, rispetto all’uomo dopo la svolta, sono la stessa realtà o sono due realtà del tutto diverse?
9,9 Alcuni dicevano: «È lui», altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Egli diceva: «Io sono».
C’è subito una scissione degli spiriti, una presa di posizione, c’è l’interpretazione in base alla percezione (perché i concetti si fondano sulla percezione): alcuni dicevano è lui, è lo stesso, quello che sedeva lì e adesso ci vede; altri invece dicevano no, ma è simile, sarà forse un parente suo, ma non è lui. Ma il terzo elemento, decisivo per l’interpretazione, è ciò che il cieco nato stesso dice: sono io! Però nel testo greco c’è ‘Egè e„mi (egò eimì), Io sono, che è il nome esoterico del Cristo, l’attributo di Cristo stesso. Uno degli elementi compositori del vangelo di Giovanni sono le 7 parole dell’Io-sono: Io sono il pane della vita, Io sono la resurrezione e la vita, Io sono la porta, Io sono il buon pastore… Il cieco nato usa le stesse parole: Io sono.
Ma allora è lo stesso che lì stava prima a mendicare o non è lo stesso? È lo stesso e non è lo stesso! L’errore conoscitivo delle due schiere sta proprio nel fatto che ognuno è unilaterale e perciò le due affermazioni si escludono a vicenda: o è lo stesso e allora non è un altro, oppure è un altro e allora non è lo stesso. Invece la forza cristica è la forza di mediare tra gli opposti e di vedere in essi una polarità in interazione, così che sorge un dinamismo conoscitivo. Le polarità della vita non sono fatte per escludersi a vicenda, ma per fecondarsi a vicenda.
Quindi è lo stesso e non è lo stesso, è un altro e non è un altro. In quanto Io, in quanto individualità eterna, è la stessa individualità, ma la sua anima, la sua coscienza, in base all’incontro con il Cristo, è diventata del tutto diversa. Così accade nella conversione classica: Paolo di Tarso viene convertito e cambia addirittura il nome, si chiamava Saulo e adesso si chiama Paolo. È lo stesso o non è lo stesso? Tutti e due.
Il comodismo, la pigrizia del pensiero sta nel dire: se è così non è cosà e se è cosà non è così. Invece l’evoluzione, l’andare sempre avanti nel pensiero, sta proprio nella capacità di cogliere le polarità della vita; l’evoluzione non sta nell’astrazione di due elementi che si escludono a vicenda ma nella concretezza del modo in cui si fecondano e si approfondiscono a vicenda. L’essere umano maschio e l’essere umano femmina, sono lo stesso essere umano o no? Sì e no, no e sì; è lo stesso e però non è lo stesso!
Il cieco nato dice: Io sono, però sono diverso, e tuttavia non sono un altro. Quindi essere diventati diversi non significa essere diventati un altro. L’esperienza dell’Io è la gestione della continuità nel cambiamento, l’esperienza dell’Io è l’abbraccio tra ciò che è eterno, l’Io, e ciò che è sempre in cambiamento, l’anima. Spirito e anima. Lo spirito è sempre lo stesso (un Io è sempre quell’Io, non è che domani sarà un altro Io) però l’anima è sempre diversa: la stessa persona che ieri era tutta scoraggiata, oggi è tutta allegra. Sei la stessa persona o non sei la stessa persona? Io sono la stessa, però la mia animuccia è diversa. Perciò l’anima non è il tutto dell’essere.
Su ogni versetto io faccio alcune considerazioni, ma non è che intendo dire: questa è l’unica interpretazione! Sto usando, esercitando gli strumenti fondamentali del pensiero. Se hai uno strumento (un martello, una tenaglia) una volta che hai capito a che cosa serve lo puoi usare non in un modo solo, ma per mille cose. Quindi io non vi dico: questa è l’interpretazione, significa questo e questo… no, sto cercando di trasformare ogni versetto in uno strumento, in una piccola metodica di conoscenza, poi tocca ad ognuno saperla usare.
9,10 Allora gli dissero: «Come ti sono stati aperti gli occhi?»
I parenti, infatti, non ne vengono a capo: tu dici che sei lo stesso mentre noi parenti siamo coloro che non solo a livello di coscienza si identificano con l’elemento ereditario, ma siamo anche coloro nei quali l’elemento di eredità è determinante. Perciò, laddove l’eredità è determinante e ha deciso che uno nasca cieco, è impossibile che le leggi di natura più fondamentali vengano revocate! Non puoi essere lo stesso, perché non è mai successo che un cieco nato abbia acquistato la vista.
Questo dialogo è importante ed è fondamentale in questo nono capitolo l’insistenza sul fatto che è cieco fin dalla nascita. Perché sino a quei tempi si erano verificate guarigioni di persone che erano nate con la vista, poi l’avevano persa e poi l’avevano riavuta. Ma qui si insiste nel dire: non è mai successo da che mondo è mondo che una persona nata cieca abbia acquistato la vista; perché se è nata cieca in questa cecità si manifesta l’assolutezza delle leggi del sangue, dell’ereditarietà. Dunque: “Come sono stati aperti i tuoi occhi?”.
9,11 Quegli rispose: «L’uomo chiamato Gesù fece del fango, mi spalmò gli occhi e mi disse: vai a Siloam e lavati. Io essendo andato ed essendomi lavato, riacquistai la vista».
“L’uomo”, Ð ¥nqrwpoj (o ànthropos), l’uomo per eccellenza, l’inviato umano del mondo divino. Il Cristo personifica, se così si può dire, tutte le forze dell’umano, in quanto intrise, in quanto chiamate a diventare sempre più divine, sempre più creatrici, sempre più vittoriose sui meccanismi di natura.
L’uomo è “chiamato Gesù”, ma non è Gesù, perché Gesù è uno dei tanti uomini e un uomo normale non può dare la vista ad un cieco nato. Nell’uomo Gesù, ‘Ihsoàj (Iesùs), c’è la quintessenza delle forze creatrici insite nell’uomo come apostolo, come inviato del Padre dei cieli. Gli esseri umani lo chiamano Gesù, ma di fatto è l’Essere del sole, è lo Spirito del Sole, che porta e immette nella Terra tutte le forze solari. Che cosa sono la luce e il sole? Luce che fa vedere le cose e luce degli occhi per vedere le cose. Quindi lui sottolinea: lo chiamano Gesù, ma quest’uomo, l’uomo, se ha dato la vista a me, cieco nato, deve essere l’Uomo per eccellenza che raccoglie in sé tutte le forze divine che il Creatore divino ha immesso nell’essere umano.
E qual è la differenza tra un uomo qualsiasi e le forze divine nell’essere umano? L’uomo qualsiasi subisce la natura, l’essere divino crea la natura. Uno che fa riacquistare la vista a un cieco nato crea il dato di natura, non lo subisce. Questi poveri parenti (che finora hanno vissuto fra loro e hanno conosciuto soltanto l’ineluttabilità delle forze di natura ereditarie del sangue) debbono aver detto: Stai parlando di un essere, che chiamano Gesù, che revoca le leggi di natura, che le comanda, anche quelle di generazione, le più fondamentali che ci siano?! Ma ognuno ha una sua fisiologia, che ha ricevuto dalla nascita per tutta la vita, che può cambiare soltanto morendo, cambiando corpo...
L’uomo che si chiama Gesù “ha fatto…”: ™po…hsen (epòiesen), da poišw (poièo) che significa “fare creativamente”. È il fare dell’artista. La lingua italiana richiama questo verbo solo nella parola “poesia”, invece in greco la poesia è in ogni fare dove c’è lo spirito, è un fare creatore, inventivo, fantasioso, estroso. Gesù fece questa nuova creatività, questa nuova fantasia divina della svolta. C’è stata una prima fantasia divina creatrice che è la legge di natura e, poi, c’è una nuova poesia, un creare ancora più fantasioso, che è il creare le leggi della libertà.
“…e me lo ha spalmato”, unto, “sull’occhio”. In questo ™pšcrisšn (epecrisèn), “unse”, c’è la stessa radice linguistica di CristÒj (Christòs), “unto, atto ad essere unto, spalmato”. Il Cristo unge l’essere umano come sacerdote, come profeta e come re: per ogni essere umano sacerdote significa gestore del suo rapporto col divino; re significa gestore delle questioni sociali, quindi della convivenza umana; profeta significa gestore non soltanto del passato, ma anche del futuro.
In che modo, con quali forze può l’essere umano gestire sia il suo rapporto di spirito col mondo spirituale, sia il suo rapporto di essere umano nel sociale, sia il suo rapporto, diciamo, di precipitato del passato in quanto aperto al futuro? Come diventa capace di gestire tutto questo? Col pensare: il pensare è il vedere spirituale! Questo vedere spirituale, questo capire spirituale, presuppone la percezione sensibile, quindi il Cristo dà la vista corporea come presupposto, come base della vista del pensiero. Perché se io non percepisco nulla non posso creare concetti.
Ed è bellissimo che nella parola greca “spalmare, ungere”, ci sia la parola “Cristo”; perché il Cristo è l’unto solare del Padre, che vive nell’eternità dei segni zodiacali, le stelle fisse. Mandandolo nel tempo, nei pianeti dove c’è movimento, dove c’è evoluzione nel tempo, il Padre, l’eternità, manda, immette nel cosmo della Terra, il tempo. Il sistema planetario è il tempo, l’evoluzione nel tempo.
A proposito, non so quanti di voi hanno coscienza del fatto che domani mattina verso le 11 si verificherà un evento astronomico di assoluta unicità: il pianeta Marte raggiungerà la vicinanza somma alla Terra, che non ha avuto da 60.000 anni.
Intervento: C’è anche un allineamento Sole Marte e Terra.
Archiati: Sì, la Terra deve essere fra Sole e Marte, altrimenti non potrebbe essere così vicina. Avete visto Marte? Di sera in sera diventa sempre più grosso, più luminoso, una cosa straordinaria. È importante fare la connessione fra questa vicinanza assoluta di Marte (che rappresenta le forze della guerra) con il recente assurgere virulento di forze di disgregazione, di guerra, di odio reciproco. Nel mondo ci deve essere, in queste settimane, una certa culminazione dell’elemento guerresco, egoistico, degli uni contro gli altri.
Il cieco dice: “l’uomo chiamato il Cristo fece un po’ di fango, lo spalmò, lo pose ungendo sui miei occhi (si ungevano gli inviati, gli inviati sacerdotali, gli inviati regali e gli inviati profetici) e mi disse: vai alla piscina Siloé e lavati, io essendo andato e lavatomi, riacquistai la vista”. Sono forze che emergono dalla terra, in un certo senso si affrancano dalla prigionia di tutto ciò che è elemento di natura, e aggiungono a quel determinismo un primo inizio di concorrenza del fattore della libertà umana.
E ora ci vedo! Prima non ci vedevo, ora ci vedo! È lo stesso o non è lo stesso? È la stessa persona e non è la stessa persona!
9,12 Dissero a lui: «Dov’è costui?» Rispose: «Non so».
Prima gli avevano chiesto: “come?”. Adesso gli chiedono: “dov’è colui?”. Che c’entra chiedere dov’è colui? E il cieco risponde: “Non lo so”. Dov’è il Cristo che rende gli esseri umani veggenti? Dappertutto e da nessuna parte. Come mai il Cristo, che ha compiuto questa guarigione attraverso l’uomo Gesù di Nazareth, ha cancellato le sue tracce? Perché altrimenti il cieco avrebbe dovuto dire: l’ho visto andare da quella parte! Però lui era ancora cieco quando il Cristo gli ha detto: “Vai a lavarti”, e mentre lui andava a lavarsi il Cristo è sparito. Quando poi ha cominciato a vedere il Cristo non c’era! Quindi, prendiamolo proprio storicamente, lui dice: non so. Quando Lui mi ha detto di andarmi a lavare nella piscina non soltanto io ero ancora cieco ma avevo addirittura il fango sugli occhi, quindi non lo so!
9,13 Allora portarono dai Farisei colui che prima era cieco.
Perché lo portano dai farisei? Pensano di non essere capaci, loro, di capire cosa è successo, se è lo stesso o se non è lo stesso e allora vanno dalle autorità religiose, dai depositari della conoscenza.
Nei parenti vigono le leggi di natura, nei farisei vigono le leggi della tradizione. Natura, cultura. Conservatori gli uni, conservatori gli altri. Trovandosi di fronte ad un fenomeno che non è mai successo, il popolo ebraico di allora si pone la domanda: che ciò abbia forse a che fare con la venuta del Cristo, del nostro Messia? Perché se è vero che a un cieco nato è stata ridata la vista, questa è cosa che soltanto il Messia può fare; perciò andiamo dagli esperti del Messia, della Scrittura, che conoscono bene i profeti, la storia, la legge.
In chiave di scienza dello spirito si potrebbe dire: i consanguinei compiono una disamina maggiormente arimanica, nel senso che confrontano ciò che il Cristo fa con il dato di natura, con la potenza assoluta e indiscussa della natura; e i farisei sono l’elemento polare luciferico, sono la spiritualità da popolo eletto che si arroga di gestire la venuta del Messia e tutta la sua interpretazione. C’è una bellissima polarità.
9,14 Era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi.
A questo punto portano il cieco nato dai farisei. La prima cosa che il vangelo dice, perché è la più importante per i farisei, è che questo segno è stato compiuto di sabato. Quindi i farisei hanno a che fare con un trasgressore della legge mosaica: questo è l’importante per gli esperti della legge, per coloro che pongono la legge mosaica al di sopra di tutto, tanto che l’osservanza della legge mosaica è ancora più importante del dato di natura .
I farisei interpretano il dato di natura come sostrato necessario per poter essere l’osservatore della legge mosaica, per essere la persona “giusta”: ciò che ti rende grato a Dio non è ciò che la natura ti ha dato, ma è l’osservanza della legge. Qui abbiamo a che fare con un uomo che trasgredisce il sabato. Fare il fango era un’azione e questa azione era proibita di sabato. Vi ricorderete che c’era tutta una legislazione cavillosa, che indicava 53 cose che non si potevano fare di sabato, perché si doveva imitare il riposo assoluto della divinità che al settimo giorno si era riposata. Sabato è l’ultimo giorno della settimana, il settimo: in ebraico la parola “shabat” significa riposare.
Quindi era sabato il giorno che Cristo fece il fango e aprì gli occhi al cieco nato.
9,15 Anche i Farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Egli disse loro: «Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo».
Prima lo avevano chiesto i suoi parenti, stavolta sono i farisei: come, in che modo è avvenuto, come ha fatto ad aprirti gli occhi? Il cieco nato (ormai è già la terza, quarta volta che gli chiedono cosa è successo) per rispondere non usa le stesse parole di prima (ci sono sempre variazioni) ma dice “mi pose il fango sugli occhi”. La parola usata per i farisei non è il verbo cr…w, “ungere” (il Cristo è l’Unto), ma è “sovrapporre”. “Mi pose sugli occhi del fango, mi sono lavato e ci vedo”.
Siccome il cieco nato ha più paura di fronte ai farisei, che lo potrebbero escludere dalla sinagoga, che non di fronte ai suoi parenti, parlando con i parenti ci mette degli elementi molto più aulici, molto più spirituali, più profondi, mentre nel rapporto che fa ai farisei è più modesto, tant’è vero che dice: “Ci vedo” ora ci vedo, non dice ho riacquistato la vista.
9,16 Allora alcuni dei Farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come un peccatore può compiere tali prodigi?». E c’era dissenso tra di loro.
Alcuni dei farisei dicevano, altri dicevano: c’è subito una scissione di spiriti. Siccome il fenomeno Cristo è il fenomeno che dà la possibilità della libertà, deve essere il fenomeno che dà la possibilità di prendere posizione in modo diverso, secondo libertà, perché se tutti prendessero posizione in modo uguale non porterebbe alla libertà. Quindi fa parte intrinseca del fenomeno Cristo che quando dice delle cose e fa delle cose esse siano di natura tale che ognuno prende posizione in modo diverso, suo, libero.
In altre parole, il Cristo provoca la risposta libera e individuale sia del pensiero che dell’operare. E perciò qui non si dice che i farisei, tutti, reagirono in questo modo. Alcuni! Li mette in difficoltà, perché se finora i farisei erano tutti belli solidali fra di loro, forse è la prima volta che qualcuno li spacca. Ma cosa viene spaccato? Solo il potere perché, per il resto, l’individuo ci guadagna a non essere più incamerato in un insieme.
Dobbiamo abituarci con questo tipo di testo a non sorvolare sulle parole: dire “i farisei reagirono così”, e dire “alcuni”, è tutt’altra cosa, c’è un mondo di differenza! Dicendo alcuni introduce l’elemento della libertà. Se avesse detto “risposero così”, saremmo di fronte a tutto automatismo, non sarebbero ancora individui e il loro essere farisei determinerebbe come interpretare la legge, ecc.., come agire. Invece c’è che alcuni fanno così e altri cosà – e questo ci porta via il nostro potere, ci divide fra di noi farisei. Infatti l’altra parte, la metà che vede le cose così, dice: io le vedo così, tu convincimi che è diversa la cosa!
In altre parole il Cristo, che si voglia o no, suscita la capacità del pensare individuale e questo rende la vita non più comoda, ma più scomoda e più bella. Anche ai farisei la rende più scomoda: per la prima volta si sono divisi. Alcuni dei farisei dicono: “Costui non viene da Dio, perché non osserva il sabato”. Se fossero tutti a dirlo, se fossero tutti solidali, sarebbero un po’ più facili le cose, sarebbero tutti d’accordo a farlo fuori!
Per loro è importante solo il fatto che non osserva il sabato. Ma non l’osserva secondo l’interpretazione del sabato che danno loro. Ha fatto una cosa che è stata proibita da loro, mica c’è nella Genesi o nella Torà di Mosè, che di sabato è proibito mettere un po’ di fango su un cieco nato! Il loro dire “non osserva il sabato” non è un’affermazione oggettiva, è un’affermazione che riguarda la loro interpretazione di ciò che è permesso e di ciò che non è permesso fare di sabato. Ma non se ne rendono conto. Se se ne rendessero conto sarebbero, nell’evoluzione della loro coscienza, molto più avanti.
In altre parole, sono arrivati al punto che non sono più capaci di distinguere tra il dato rivelato e l’interpretazione data (cioè la tradizione) e quindi non sono più capaci di mettere in discussione la loro interpretazione della Scrittura. Invece la Scrittura, tutta la legge, è proprio la preparazione alla venuta del Messia.
Costui non può venire da Dio perché non osserva il sabato, il nostro sabato. Così la chiesa cattolica una volta diceva (adesso non lo dice più): se tu non vai a Messa la domenica, vai all’inferno. C’è scritto nel vangelo? L’ha detto il Cristo? No, però identificando sempre più la tradizione con la Scrittura si pensa che le due cose non si possano più sceverare.
Se uno chiedesse a un giudeo di oggi: ma il Cristo, facendo questa cosa di sabato, ha trasgredito il sabato? salterebbe fuori una discussione che non finisce più! Qualcuno direbbe no, non ha fatto nulla che trasgredisce il sabato, e altri sì, ha fatto delle azioni che di sabato non si devono fare. Quindi è proprio questione di interpretazione .
Altri dissero: adesso diventa interessante perché gli uni guardano soltanto al loro sabato, gli altri, invece, guardano al fatto che ha guarito un cieco nato. E dicono: sabato o non sabato, la cosa più importante è il fatto che ha guarito un cieco nato! È una cosa che non era mai successa! Come può una persona che, come dite voi, va contro Dio perché trasgredisce il sabato, fare delle cose che si possono fare soltanto se si è intrisi della forze divine?
I farisei sono spaccati in due fazioni. Come arrivano queste due fazioni ad avere pareri, posizioni diverse, a dire l’una: costui agisce in nome del maligno, e l’altra: no, non può agire dal maligno? Come prendono posizione? Col pensare, e come se no?! Infatti è nel pensiero che gli uni pongono l’accento sul sabato, sull’osservanza del sabato, sul trasgredire del sabato e gli altri, sempre nel loro pensiero, nella loro coscienza, pongono l’accento sul fatto che è accaduto un qualcosa mai successo prima.
Intervento: Ma il testo dice: “Come può un peccatore…”
Archiati: Certo, perché voi farisei dicendo che è un trasgressore della legge, lo caratterizzate, lo presentate come un peccatore! Ma il vostro peccatore non può aprire gli occhi (cosa che può fare soltanto la divinità), e allora questa persona non è un peccatore, perché il peccatore va contro Dio mentre quest’opera può essere fatta soltanto da qualcuno nel quale agisce la divinità.
Quindi la domanda alla quale ogni fariseo deve rispondere per conto proprio è: colui che ha guarito il cieco nato agisce con Dio o contro Dio? Il risultato evolutivo della diatriba di queste due fazioni è il cammino del pensiero. Si misurano due interpretazioni diverse (così come avviene nei dialoghi di Platone): pensiero e contropensiero. Mettendo a fronte pensiero e contropensiero si affina il pensare, che nel confronto va indietro e avanti, indietro e avanti integrandosi di quanto prima non era stato considerato e diventa sempre più universale, cioè abbraccia sempre più aspetti
I peccati del pensiero non sono mai peccati di commissione, sono sempre peccati di omissione. Un errore non è mai una verità sbagliata, è sempre un buco nel pensiero: colgo un aspetto della realtà, lo assolutizzo perché non vedo che c’è un altro aspetto, poi un altro aspetto e un altro aspetto ancora. L’unico modo per diventare sempre più vasti, più profondi, più universali nel pensiero, è di integrare aspetti sempre più importanti, dialogicamente, nel Logos che va indietro e avanti, tra persona e persona.
Qui abbiamo due aspetti fondamentali. Gli uni dicono: come la mettiamo col sabato? E gli altri dicono: come la mettiamo col fatto che ha guarito il cieco nato? Come può un uomo peccatore compiere tali segni? Perciò dicevo ieri che qui è importante la prospettiva del fatto che è nato cieco, prospettiva che non c’è nei sinottici, perché guarigioni di ciechi ce n’erano a quei tempi, ma soltanto il Cristo ha guarito uno nato cieco.
E sorse uno scisma tra di loro, una scissione – bella cosa, era ora che la finissero di essere sempre d’accordo fra di loro! Quando si è d’accordo predomina il potere, quando non si è d’accordo predomina la conoscenza. Nella conoscenza non si può essere d’accordo, non si deve essere d’accordo; perché conoscenza significa che ognuno nel proprio pensiero coglie aspetti differenti, ma aspetti diversi non significa che si contraddicono a vicenda, è la provocazione a integrare aspetti sempre nuovi.
Quindi il compito evolutivo dello scisma nella conoscenza è proprio di continuare a camminare nella conoscenza; invece lo scisma in fatto di potere scinde proprio i poteri. Se questo gruppo di farisei, dieci supponiamo, era omogeneo, aveva un certo potere; se viene spaccato in due fazioni, che potere avranno le due fazioni? Voi pensate cinque e cinque! No! Avranno forse due o tre! Il potere diminuisce in proporzione aritmetica nella misura in cui sorge uno scisma.
Invece la conoscenza guadagna quando c’è la diversità di veduta, e nei dialoghi di Platone il godimento sta proprio nel fatto che ognuno ha un’opinione diversa. Socrate è colui che ha sempre ragione perché è capace di integrare, di dimostrare che l’un aspetto non contraddice l’altro ma si tratta di metterli l’uno accanto all’altro e di pensarli insieme. Questa è l’arte di Socrate: a pensare è più bravo lui, però ne godono anche i giovincelli che lo frequentano perché in questo esercizio loro stessi camminano nel pensiero.
Quindi questo creare uno scisma conoscitivo di interpretazione è bello, perché chi lo crea questo scisma? Il cammino della conoscenza! È brutto per il potere, lo scisma, ma è bello per il cammino della conoscenza! E che sia brutto per il potere va bene, perché il potere è proprio fatto per proibire il cammino della conoscenza e funziona soltanto se si è tutti d’accordo; però essere tutti d’accordo significa mortificare la parte più bella dell’essere umano.
Pasticcio non da poco ‘sto Cristo, perché per la prima volta i farisei sono scissi fra di loro. Fra l’altro la parola farisei significa una setta (in ebraico “faras”), significa separato. Siamo i puri, dicono i farisei, mentre la gentaglia va un pochino dozzinale in fatto di leggi; noi siamo quelli che vogliono osservare la legge in un modo coscienzioso.
Quindi già loro sono separarti, si considerano scismatici rispetto al popolino, ed è questa la loro forza di coerenza e quindi di compattezza fra di loro; posti di fronte a questa gentaglia, che è il popolo ebraico, t’arriva uno che scinde loro! Una cosa dell’altro mondo! Separa tra loro i separati e manda per aria il loro potere!
E c’era spaccatura tra loro. Il vangelo non lo sottolineerebbe se non fosse importantissimo, se non fosse la cosa più importante. È fondamentale fermarsi su ogni minimo particolare del vangelo; il mio compito è di evidenziare, un pochino, quel che c’è in greco e che va perduto nelle traduzioni, ma poi il lavoro va fatto da ognuno.
9,17 Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta».
Adesso i farisei sono scissi fra di loro, problemino non da poco, e siccome hanno paura ad accozzarsi fra di loro, perché per la prima volta fanno l’esperienza di non essere d’accordo e di essere scissi in due, vedono un pochino se riescono a salvarsi dando un paio di botte al cieco. Altrimenti resta soltanto il cozzo fra le due fazioni, e di questo hanno paura. Allora gli chiedono a lui: “Tu che dici di lui, che ti ha aperto gli occhi?”. E il cieco potrebbe rispondere: finché eravate uniti fra di voi che vi interessava del mio parere? Era proprio la cosa che disdegnavate! Adesso che siete divisi fra di voi volete sentire il mio parere?
Il cieco nato è l’essere umano che arriva al punto da venire redento dal Cristo perché ha vanificato il vigere dell’antica chiaroveggenza, ne ha dimostrato la nullità, i risultati negativi e l’anacronismo. Il cieco nato è l’essere umano per eccellenza, pronto per la percezione sensibile delle cose in modo da poter attivare il pensare. E come dimostra di essere colui che ha messo fine all’antica chiaroveggenza, e incontra il Cristo proprio perché è pronto per la percezione sensibile, per il pensare? Il vangelo te lo fa capire mettendogli in bocca una risposta intelligente!
Se lui rispondesse: “È il Messia!”, non sarebbe particolarmente intelligente, perché direbbe qualcosa che i farisei non vogliono sentire né avrebbero la capacità di capire, e poi si metterebbe nei pasticci lui stesso. D’altra parte, negare lo spicco assoluto di colui che l’ha guarito sarebbe anche fuori posto e sarebbe disonesto. Se la cava con una via di mezzo: “Deve essere un profeta!”.
Fa venire in mente il Cristo posto di fronte all’adultera, quando i farisei, i giudei, erano sicuri che non ci fossero alternative alle domande che gli avevano posto. Se Lui avesse detto “lapidatela” si sarebbe contraddetto su tutto quanto aveva detto sull’amore; se avesse detto “non lapidatela” si sarebbe messo contro la legge di Mosè. Invece c’era una terza via d’uscita, e il Cristo disse: “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra!”.
Perché i farisei pongono la domanda: tu che dici di lui? Per fargli prendere una posizione. O il cieco nato si mette dalla parte di chi dice che è un diavolo perché ha trasgredito il sabato, o si mette dalla parte di chi dice che deve venire per forza da Dio. Invece il cieco nato prende una posizione di mezzo: non dice “è un mezzo diavolo”, non dice “è il Messia inviato da Dio ”, ma dice: “è un profeta”.
Ha il diritto un essere umano di pensare alla sua testa, di salvarsi? Sì, da persona intelligente sì! Una risposta più intelligente non la troverete: perché se fosse andato all’uno o all’altro estremo non sarebbe stato meglio, né per loro né per lui. Invece questa terza risposta li provoca di nuovo a prendere posizione perché non sanno metterlo né di qua né di là. Così spiazza anche noi! Non soltanto ci spiazza chi l’ha guarito, il Cristo, ma ci spiazza anche lui.
Però non è ancora in grado di dire “è il Messia”: questo passo in avanti della sua coscienza per arrivare a riconoscere in colui che l’ha guarito il Messia, avverrà alla fine del capitolo, dopo che tutta la fenomenologia delle prese di posizione conoscitiva di fronte all’evento Cristo sarà avvenuta. Il Cristo lo va ad incontrare e allora lui riconoscerà il Messia, quando gli verrà posta la domanda: “Tu cosa pensi di colui che ti ha guarito?”.
Il nono capitolo è articolato in due parti: la fenomenologia del cieco nato e, poi, la presa di posizione. Questo ci sta a dire che l’esperienza del Cristo è sempre duplice: percezione e pensiero. La guarigione è qualcosa da percepire; e vediamo il peso morale della percezione nel fatto che continuamente gli si chiede di riferire, di riportare ciò che è avvenuto. Se una persona l’America non l’ha mai vista, cos’ha come sostituzione? Altri che gli raccontano le loro percezioni! Cosa hai visto? Sei stato a New York là dove c’erano le due torri? Adesso cosa hai visto? Fammi un rapporto di ciò che hai visto!
In altre parole, tutta questa fenomenologia del sesto segno, della guarigione del cieco nato, è la fenomenologia di una serie di percezioni; e poi, molto più interessante, c’è il diverso modo dei cervelli umani di interpretare queste percezioni.
I farisei chiedono: dicci cos’è avvenuto. Di fronte a questa serie di percezioni riportate prendono posizione con il loro pensiero. Quelli che pensano che la cosa più importante sia l’osservanza della legge dicono che è un trasgressore – l’ha fatto di sabato, ha trasgredito la legge! Quelli che ritengono la divinità, che ha creato la legge, ancora più importante della legge dicono: ma è impossibile che una persona che si mette contro la divinità, un peccatore, possa ridare la vista a un cieco nato!
Avevamo già visto una prima fenomenologia di presa di posizione: i parenti, coloro che sono inseriti in un elemento ereditario di sangue comune. Poi c’è la presa di posizione secondo un sangue animico, che è la tradizione religiosa: i farisei. Adesso arriva un elemento ancora più vasto, che è quello di avere in comune l’essere giudeo; è più vasto perché i parenti sono poche persone e i farisei sono una piccola fazione dentro al popolo giudaico.
Prima presa di posizione pensante: i parenti; seconda presa di posizione: i farisei; terza presa di posizione: i giudei. Il vangelo di Giovanni è molto interessante nei suoi elementi strutturanti: anche dal punto di vista, se vogliamo, compositorio. È un testo sovrano a tutti i livelli! Come prendono posizione i giudei di fronte all’operare, di fronte alla fenomenologia del Logos che rende l’essere umano capace di percezione sensibile come presupposto per il pensare, per il pensiero proprio? Il Logos rende l’uomo “capace” di pensare, cioè gli dà la facoltà di pensare. Aristotele, Tommaso d’Aquino direbbero: la percezione sensibile, il vedere fisico, è la potenzialità del pensare.
9,18 Ma i Giudei non credettero che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva recuperato la vista.
Non credettero, i giudei; giustamente! Mica si lasciarono convincere su uno che era nato cieco e che poi ha cominciato a vederci! Non ci credevano! Quando uno mi riporta una serie di percezioni, io non devo credere alle sue percezioni ma devo attivare il mio pensare. La gente sta dicendo: questo ci ha raccontato una fandonia, l’ha inventato! Se escludiamo la loro cattiva fede, che sarebbe un moraleggiare da parte nostra, cosa resta? Resta che per loro è inconcepibile che un cieco nato riacquisti la vista, lo escludono, non esiste; quindi ha mentito, l’ha inventato. Però se questa è la battuta d’inizio il vangelo ci dice: poverini! Si troveranno in grossi pasticci perché escludono in modo assoluto, come impossibile, proprio ciò che è realmente avvenuto!
Intervento: La mia traduzione dice “non vollero credere”.
Archiati: Sono moraleggiamenti! Il vangelo di Giovanni, come un pochino lo conosciamo, potrebbe metterci un “vollero”? No. “Non vollero credere” sarebbe un sindacare sulle loro intenzioni morali, un sindacare sulla loro interiorità. Questo il vangelo non lo fa mai! Se loro mi dicono no, questa cosa la riteniamo impossibile, io non dico che non vogliono ammettere che è possibile, perché se lo dico emetto un giudizio morale su di loro!
Invece la mia lettura, la mia interpretazione, è conoscitiva: non erano in grado, al loro livello di coscienza, di vedere la possibilità che qualcosa del genere avvenisse. Non è che non vogliono, non possono. Non sono in grado. Anche se volessero, per loro sarebbe impossibile. Quindi mettendo nella traduzione “non vollero” il lettore viene fuorviato. Nel testo non c’è; il vangelo dice oÙk ™p…steusan (uk epìsteusan), “non credettero, non si convinsero”. Questo verbo significa “convincersi di qualcosa”: a quei tempi non era un credere astratto. Finché non chiamarono i genitori. Prima c’è una disamina, adesso i parenti di colui che aveva riacquistato la vista.
9,19 E li interrogarono: «Questo è il figlio vostro, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?».
Adesso c’è tutta una lunga disamina con i genitori, soprattutto con la mamma che deve rispondere a domande come: ma è tuo figlio? è nato veramente cieco? Siccome non credono a lui, chiedono ai genitori. Abbiamo a che fare con un dialogo tra i giudei e i genitori del cieco nato.
I giudei hanno in comune il sangue di popolo, che è molto più diffuso, molto più vasto che non il sangue comune tra la mamma e il figlio. Però più importante ancora del sangue, nel popolo giudaico, è la legge; il sangue, per il giudeo, è portatore dell’identità del popolo della legge mosaica. In altre parole, la corporeità abramitica per il giudeo è meno importante che non la legge mosaica, che è l’elemento animico. Quindi la comunanza corporea, ereditaria – siamo tutti figli di Abramo – fa da base per capire e per avere in comune la legge mosaica, che è nell’anima. Giudeo è colui che dà importanza a due cose: la realtà corporea comune, l’essere del sangue di Abramo, di discendere da Abramo e, più importante ancora, il senso di questa corporeità abramitica, che è quello di aver potuto recepire, capire e prendere sul serio, quindi osservare, la legge mosaica che è la comunanza animica.
Dicono i giudei: in nome di questa comunanza animica della legge che ci fa giudei, sul retroscena di una comunanza di sangue che ci fa giudei a livello di Abramo, chiediamo ai due genitori se veramente questo figlio è nato cieco, perché se fosse diventato cieco più tardi e poi fosse stato guarito non sarebbe una cosa straordinaria, mentre non è mai successo che un cieco nato abbia riacquistato la vista. Allora chiedono ai genitori: la mamma porta in sé il sangue che ha fatto nascere un figlio cieco? – tutto il discorso che facevamo ieri sera vale per la mamma molto di più che per il figlio, perché il figlio è il risultato.
È il risultato di tutto il cammino prima di Cristo, dove ci si sposava nello stesso sangue per poter mantenere la veggenza atavica che si fondava sul sangue comune; ora tutto ciò è diventato così anacronistico che invece di far sorgere in questo figlio, il cieco nato, la veggenza atavica, fa sorgere una malattia, una disfunzione corporea enorme, la cecità. È cieco, come presupposto del venire del Cristo che dice: questa cecità è proprio il segno che le forze del sangue che facevano sorgere la veggenza atavica ora sono del tutto da superare, ora gli esseri umani devono imparare a non sposarsi tra consanguinei in modo da far nascere essere umani che vedono, che hanno la vista, perché la vista è il presupposto per il pensare individuale, che è il senso della seconda parte dell’evoluzione.
A questa mamma, intrisa di forze ritardatarie, viene aggiunta un’altra domanda che esula dalla competenza dei genitori: come è avvenuto che ora ci vede? Tra l’altro blšpw (blépo) significa “guardare, prendere in considerazione, porre mente”, non è il solo “vedere”. Se questi due genitori hanno evidenziato la fenomenologia dell’anacronismo delle forze del sangue, delle forze di eredità, perché in loro non funzionano più – e invece di far sorgere la veggenza atavica, hanno fatto sorgere il presupposto per incontrare il Cristo che dà l’altra veggenza, quella del pensare in base alla percezione – significa che questi genitori, questa mamma, partecipano al fatto di essere, col loro figlio, pronti. Siccome hanno portato le vecchie forze non soltanto al punto di annullamento, ma all’assurdità (perché invece di favorire l’essere umano lo mortificano nel suo corpo), essi fanno parte di questo sforzo della coscienza di capire, di aprirsi verso il nuovo, proprio perché vedono la tragedia di ciò che è vecchio.
In altre parole, come devono aver vissuto il fatto che il loro figlio è nato cieco? Dicendosi: le forze che 1.000, 2.000 anni fa erano buone, erano positive, ora sono diventate del tutto negative; se non subentra qualcosa di nuovo nell’umanità siamo perduti. Quindi essere genitori di questo figlio significa aver vissuto tutti gli anni nel desiderio di qualcosa di nuovo, perché ciò che c’era prima si è dimostrato disastroso, disumano, contro l’uomo, facendo nascere cieco il loro figlio. I genitori ora sono confrontati col fatto che il loro figlio ci vede. Guardiamo la loro risposta:
9,20 I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è il figlio nostro e che è nato cieco».
Prima cosa: “è figlio nostro”; seconda cosa: “è nato cieco”, questo lo sappiamo, ve lo possiamo garantire – e così dicendo non rischiano nulla perché è un dato di fatto. Nati ciechi ce n’erano! L’abbiamo visto ieri sera, ciò che millenni prima era il presupposto per la chiaroveggenza naturale poi diventa sorgente di malformazioni. Ho fatto riferimento anche ai Promessi Sposi dove don Abbondio, per impedire il matrimonio, legge sul suo prontuario il si sis affinis, uno degli impedimenti più importanti: l’affinità di sangue, che crea disgrazie.
9,21 «Come poi ora ci veda non sappiamo, chi gli ha aperto gli occhi non sappiamo; interrogate lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso».
“Non lo sappiamo”. Intendono dire: noi non eravamo neanche presenti – nel racconto evangelico non viene detto che i genitori erano presenti. Dove si manifesta il fatto che questi genitori, più di tante altre persone, hanno lottato interiormente per trovare il senso di questo controsenso della cecità del loro figlio? Per degli anni sono vissuti in questo rovello della negatività delle nascite consanguinee, diventate così micidiali, e allora vuol dire che anche in questo caso il Messia porterà qualcosa del tutto nuovo. Quindi sono aperti, i genitori: vedendo la catastrofe della tradizione, di tutto ciò che è di natura conservatrice, sono aperti a qualcosa di nuovo che revochi questa catastrofe.
E questo arrovellarsi per capire il senso del controsenso si manifesta nel fatto che sono diventati più intelligenti della media (sia dei farisei, sia dei giudei). Si cavano d’impiccio in un modo che a quei tempi non era solito – un modo che abbiamo già visto nel cieco nato, che non prende posizione decisa né per l’una fazione né per l’altra – dicendo: è grande abbastanza, chiedetelo a lui, ha un’età sufficiente per dirlo lui stesso, cos’è successo, noi non c’eravamo neanche! Questa bella pensata individuale non va sottovalutata, non va data per scontata, perché è il risultato di una lotta interiore con il mistero della cecità del loro figlio.
Il terminare dell’antica chiaroveggenza è il sorgere della percezione sensibile, come presupposto del pensare individuale. “In che modo ora ci vede (da intendere anche come “sa guardare”) non lo sappiamo”. Non sappiamo né come è stato guarito, né chi l’ha guarito. Cioè: noi c’entriamo col fatto che è nato cieco, non col fatto che adesso ci vede. Noi gli abbiamo dato le forze del sangue che l’hanno fatto nascere cieco, adesso qui è successo l’opposto e voi volete ritenerci competenti sull’opposto? Se c’è qualcuno che ha fatto l’opposto, chiedete a lui; nostro compito è stato di farlo nascere cieco e vi garantiamo che il nostro figlio è nato cieco.
Questo livello di gestione individuale del pensare, di intelligenza, e anche la capacità di cavarsi d’impiccio, non era ordinario a quei tempi. Noi sorvoliamo su questo aspetto, ma in quel tempo siamo di fronte all’anima di gruppo a tutti i livelli: i parenti, i farisei, i giudei… l’individuo non c’è, l’individuo salta fuori nel cieco nato che si cava d’impiccio, salta fuori nei genitori che hanno lottato per tanti anni (non si dice quanto fosse anziano il cieco nato, ma la mamma di un bambino cieco ne passa di cose, e quindi la coscienza va!). Adesso, di fronte al loro figlio che ha riacquistato la vista, è chiaro che sono i primi a capire: il senso di questa cecità era di riconquistare la vista, perché uno che sta bene non può riconquistare la vista.
“Chiedetelo a lui, ha l’età giusta”: ¹lik…an (elikìan), l’età, si riferisce soprattutto alle forze vitali eteriche che sono di un tipo a sette anni, tutt’altre a quattordici anni e soprattutto dopo la pubertà. Quindi il senso è: le domande che riguardano il suo nascere cieco riguardano noi genitori, ma quelle che riguardano il suo capovolgere la cecità, fatele a lui, a chi l’ha guarito.
9,22 Queste cose dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; poiché i Giudei avevano già concordato che, se qualcuno avesse riconosciuto apertamente il Cristo, l’avrebbero escluso dalla sinagoga.
I giudei si erano già accordati e la loro decisione era stata comunicata: colui che riconoscerà questo Gesù di Nazareth come il Cristo, come il Messia, verrà escluso dalla sinagoga. In altre parole, la gestione sinagogale della preparazione al Messia e la gestione della sua venuta e della sua presenza, si escludono a vicenda: perché o abbiamo la religione di preparazione o abbiamo la religione del compimento. In loro il potere intende mettere a tacere ogni voce che implichi che la preparazione è finita perché il compimento è arrivato.
Il giudaismo vive tutt’oggi nell’attesa del Messia, perché ha interpretato l’attesa e la venuta come escludentesi a vicenda. Ma vanno insieme l’attesa e la venuta? L’attesa del Logos, la tensione di ricerca del Logos, è l’unico modo Suo di venire. Chi crede di averlo già, il Cristo, lo fa sparire, lo perde. Il giudaismo dice: noi siamo nell’attesa, la venuta non c’è. Il cristianesimo dice: noi ce lo abbiamo già, l’attesa è finita. Due parzialità tragiche!
Intervento: Dicono: abbiamo già il Logos, ma non sanno quanto sia presente!
Archiati: No, perché dire di averlo già, significa non aver capito che lo può avere soltanto colui che lo cerca. Pensateci un attimo: il Cristo (detto in un modo molto semplice) è la forza del pensare. Se dico: io il pensare ce l’ho già, dico una stupidaggine perché l’esperienza del pensare la si fa soltanto pensando, in un cammino pensante che è sempre in processo, mai concluso. Il Cristo ce l’ha soltanto chi lo cerca!
Se poi alle affermazioni del giudaismo e del cristianesimo aggiungiamo anche quelle dell’islamismo, abbiamo il Corano che dice: Dio non ha figli: il Figlio non c’è, non esiste. Tutte e tre le religioni hanno ragione, ma ci salviamo soltanto se le mettiamo insieme tutte e tre; invece la tragedia è che ognuna, nella sua parzialità, esclude e combatte l’altra. Ho fatto una conferenza in proposito, che mi pare sia tradotta anche in italiano.
La venuta universale, oggettiva del Cristo è già avvenuta, ma è soltanto la base, il presupposto per una venuta che è sempre in corso, quella individuale, della interiorizzazione del Cristo. Perciò, per quanto riguarda la realtà storica hanno ragione i cristiani. Per quanto riguarda la venuta individualizzata nella coscienza del singolo, invece, l’affermazione del giudaismo è molto più giusta: non siamo neanche all’inizio, perché non c’è neanche la coscienza di questa seconda dimensione del suo venire, che è sempre in corso.
Poi, grazie alla scienza dello spirito di Steiner, possiamo aggiungere addirittura la provocazione assoluta, ma reale, dell’Islam che dice: se io dico che è già venuto, o che deve ancora venire intendo dire che Lui comunque c’è (c’è soltanto da vedere se è già venuto o ancora no). Ma se il Cristo in me c’è già, io non ho nulla da fare! Ecco dunque una terza dimensione che va integrata: e cioè che il Cristo in me non c’è se io non lo creo in me. L’affermazione del Corano è una provocazione a crearlo dentro di me. Al Gabriele che dettò il Corano posso dire: tu affermi che non c’è, e in effetti è vero. Non c’è per natura o per grazia, perché se non lo creo io, dentro di me, non c’è.
Quindi mettendo insieme tutte e tre le affermazioni abbiamo la totalità del fenomeno: che la sua venuta, già storicamente avvenuta per tutti, la venuta universale, crea il presupposto per l’altro, tipo di avvento, il secondo, molto più importante, che è quello nella coscienza individuale. Questo secondo avvento, se uno è fortunato è all’inizio, se non è fortunato non l’ha ancora neanche intravisto, e quindi in questo caso ha ragione il giudaismo che dice: deve ancora venire.
Ma questa venuta, questo avvento, non è soltanto un venire, è anche un portare all’essere la figliolanza divina in me, che non c’è già da sola ma viene generata attraverso l’evoluzione umana. Tu Gabriele, che hai scritto il Corano, dici che il Figlio non esiste perché vorresti proibire agli esseri umani che lo creino; però io prendo la tua affermazione che lo nega, come provocazione a farlo nascere.
Ho fatto queste riflessioni per dire che l’avvento e l’attesa del Cristo non si escludono a vicenda e non escludono neanche che la venuta individuale del Figlio sia addirittura un creare una realtà individuale che non c’è già in partenza (perché se c’è già non la posso creare).
Però anche l’affermazione del Corano, se la prendo da sola, è del tutto unilaterale, perché non quadra il discorso! L’affermazione del cristianesimo, se la prendo da sola, non quadra perché è parziale. L’affermazione del giudaismo se la prendo da sola non calza perché è unilaterale. Ognuna delle tre affermazioni va integrata con le altre due, allora diventa vera.
9,23 Perciò i genitori di lui dissero: «Ha l’età, chiedetelo a lui».
Intervento: I genitori ci tengono a non essere espulsi dalla sinagoga, per loro lo scisma qui non avviene. Ci tengono a rimanere nella sinagoga e infatti il vangelo specifica che avevano paura.
Archiati: Facciamo un paragone con i nostri giorni. In Germania (ma penso che il fenomeno ci sia anche in Italia) diverse persone, ponendosi il quesito: mi sento veramente connesso con la Società antroposofica? Si rispondono: ci sono parecchie cose che lì non funzionano, ma se mi si toglie questo bel gruppo con cui io mi incontro ogni settimana, non mi resta più nulla!
Anche 2.000 anni dopo Cristo l’individuo ha bisogno della solidarietà: nessuno di noi è un’isola. Ma a quei tempi l’individuo era talmente inserito nel sociale, nella realtà religiosa, che venir sbattuto fuori significava praticamente morire (io ho detto che avevano solo un primo inizio di autonomia): non era soltanto questione di sicurezza, era la base dell’esistenza. Non possiamo usare le nostre categorie, il nostro odierno livello di coscienza non può essere catapultato indietro di 2.000 anni. A quei tempi, se gli toglievi la sinagoga gli toglievi l’aria per respirare. Cosa facevano?
Intervento: Quei genitori erano inseriti nelle forze del sangue dei giudei, quindi a maggior ragione fanno fatica a staccarsi.
Archiati: Sono persone che hanno bisogno del contesto di sangue, però l’aver fatto in proprio l’esperienza della tragicità delle forze ereditarie del sangue, dell’anacronismo, l’aver lottato con questo grosso interrogativo li apre, almeno minimamente. Tant’è vero che il Cristo, già da sempre, aveva creato questi due genitori perché facessero nascere questo figlio che Lui voleva incontrare.
Intervento: Così come leggiamo non dobbiamo interpretare che i genitori avevano capito? Perché qui è detto abbastanza chiaramente: “non dissero perché avevano paura”, se no avrebbero detto! Cioè, non vuol dire che questi genitori avevano capito?
Archiati: No, la cosa è più semplice. Loro sanno che il loro figlio è nato cieco e vedono che adesso ci vede, quindi qualcuno ‘sto miracolo l’ha fatto! I giudei pensano che sia un imbroglio. Se i genitori dicono ai giudei: guardate che non è un imbroglio ma è successo veramente, rischiano! Non c’è nulla da capire! Devono solo dare atto che è successo qualcosa!
La categoria dell’aver capito è troppo intellettuale, troppo astratta, è una categoria nostra, non c’entra nulla, allora! Loro hanno dovuto dare atto del fatto che il loro figlio nato cieco, ci vede – non è mai successo che uno nato cieco riacquistasse la vista, ma noi adesso vediamo che ci vede.
Intervento: Tra tutti quelli che sono stati interpellati, i genitori erano in realtà gli unici che potevano capire.
Archiati: No, se proprio vuoi cavillare puoi dire: erano gli unici ad essere assolutamente sicuri di essere i genitori. Ma anche gli altri sapevano che i genitori erano loro.
Intervento: Poiché i genitori rappresentano la parte ereditaria, il fatto che dicano “chiedete a lui” lo leggo come il fatto che troviamo la ragione compiuta delle cose nell’Io stesso, senza dover ricorrere a questioni di causalità ereditaria per comprendere i fenomeni.
Archiati: Però il vangelo ti dice che loro parlano così non perché hanno capito questo, ma perché hanno paura. Invece di stare a quello che il vangelo dice, agli elementi che fornisce, e di approfondirli in tutte le direzioni, voi ci mettete dentro altri elementi, cose che il vangelo non dice. Prendi le parole “avevano paura”: se tu mi fai una fenomenologia della paura rimani nel testo, se invece mi parli della categoria “hanno capito”, questa nel testo non c’è, è un’astrazione.
Intervento: I giudei avevano concordato, quasi a priori, di escludere dalla sinagoga chi l’avesse riconosciuto come Cristo. Quindi qui c’è quasi una volontà a priori di non riconoscerlo, comunque c’è il concordare, l’accordarsi, forse anche un discutere e decidere che non è il Cristo.
Archiati: No, il testo dice: se uno dichiara quello (essere) il Cristo lo escludiamo dalla sinagoga. Cioè è una decisione di potere, non c’entra nulla la conoscenza: se la gente gli corre dietro è finito il nostro potere.
Intervento: Se va interpretato in modo che ogni aspetto è un aspetto dell’Io, per quanto riguarda i giudei c’è: se io prendo questa posizione devo rinunciare al potere; ma per quanto riguarda i genitori cosa c’è quando dicono: lasciate dire a lui?
Archiati: I genitori hanno paura di venire estromessi dalla sinagoga, perché mancano due presupposti fondamentali per l’autonomia dell’individuo: un presupposto esterno, ed è che la società goda che tu sei autonomo; e un presupposto interiore, ed è che l’individuo non abbia bisogno di tutti gli appoggi. Quindi il fatto che loro hanno paura ci sta a dire: non possiamo pretendere che, nel punto della svolta evolutiva, ci siano già una società e un tipo di individui che si concedono una certa autonomia a vicenda perché l’apprezzano (faremmo degli anacronismi se pensassimo a questo modo).
Intervento: Non c’è neanche oggi!
Archiati: Non c’è neanche oggi.
Intervento: In pratica sono tutte resistenze, resistenze che si frappongono al cambiamento dell’individuo e …
Archiati: Non resistenza, ma mancanza di autonomia interiore. L’autonomia interiore non è un fattore negativo, è un fattore positivo da costruire. Nella misura in cui una persona diventa interiormente autonoma dice: non mi importa niente di quello che fanno gli altri! È un’autonomia da costruire, però ci vuole tutta l’evoluzione, per costruirla!
Intervento: Non potrebbero essere le controforze?
Archiati: No, la controforza è soltanto la provocazione a creare l’autonomia interiore. Il vero peccato è sempre un peccato di carenza. Tutto ciò che c’è ha una funzione, mentre crea pasticci ciò che manca, ciò che si omette di costruire. Dopo quello che è successo duemila anni fa, ogni individualità ha avuto a disposizione duemila anni per costruire, sempre di più, forze di autonomia (pensare con la propria testa, ecc.). Per cui uno che oggi dice: non posso vivere senza la chiesa cattolica, o non posso vivere senza la Società antroposofica ci fa chiedere: a cosa sono serviti questi duemila anni?
Intervento: Come interpretare Gabriele, l’ispiratore del Corano? Devo vederlo in un certo senso come un traditore? Oppure si mette al servizio del piano evolutivo creando delle forze di opposizione?
Archiati: Sarebbe chiedersi: come devo vedere il Mefisto del Faust? Come una controforza. Se uno legge tutto il Faust vede che Mefisto è il miglior diavolo che esista, perciò Dio Padre gli ha dato il ruolo di controforza; e lui lo fa benissimo, e guai se venisse meno al suo ruolo perché è indispensabile, fondamentale.
La controforza è buona o cattiva? Non è né buona né cattiva: è necessaria. Per chi interagisce con la controforza in modo tale da diventare lui più forte, la controforza è stata buona: non perché sia buona lei, ma perché il modo di interagire di lui è stato buono. Se uno invece si lascia abbindolare, diventa sempre più deboluccio: allora non sarà la controforza a essere stata cattiva ma il modo di interagire di lui non favorevole, non opportuno per l’essere umano.
La teologia, con tutta la buona volontà, aveva il compito di gestire la tradizione del primo avvento. Per gestire in chiave di coscienza il secondo, che è quello a livello della coscienza individuale, ci vuole un’altra teologia, che ravviso, che vedo, nella scienza dello spirito di Steiner. Questa scienza dello spirito, se è veramente la teologia o l’interpretazione della seconda venuta, ti dà degli elementi che la prima non ti poteva dare, ed è ingiusto rimproverare ai poveri teologi le cose che non si possono pretendere da loro.
Steiner ti dice: se il Cristo ha segnato una svolta dicendo che ora ci sono tutte le forze, nella Terra e nell’umanità, che rendono possibile la libertà individuale, ci sono tutti gli strumenti, tutte le condizioni – la “pienezza dei tempi” vuol dire che non manca nessuno strumento –, allora tra gli strumenti ci sono le forze e le controforze, perché senza le controforze come fai ad esercitare la volontà? Quindi adesso ci sono tutte le forze e le controforze necessarie a che un individuo (se vuole, perché è libero) diventi sempre più creatore nel suo pensiero, sempre più forte nel suo amore, ecc.
Se la controforza è necessaria tutte le Gerarchie celesti, tutte le Gerarchie di Esseri spirituali che prima del Cristo (quando non c’era la libertà) agivano per natura dentro l’essere umano, si devono essere spaccate in due. Una metà deve aver detto: la libertà degli esseri umani è la cosa più bella che ci sia! Perciò anche noi facciamo come il Cristo, rinunciamo al nostro agire onnipotente sugli esseri umani e li lasciamo liberi. L’altra metà delle Gerarchie, quella mefistofelica, ha detto: no, gli esseri umani lasciati liberi fanno un finimondo. Quindi gli Esseri gabrielici che si sono cristificati non ti pongono bastoni fra le ruote, ma ci devono essere anche gli Esseri gabrielici che hanno preso il ruolo della controforza, e quello è l’ispiratore del Corano.
Intervento: Ma c’è un Gabriele che si è messo al servizio…
Archiati: No, è rimasto veterotestamentario.
Intervento: Ma il Gabriele dell’Annunciazione?
Archiati: Quello è andato col Cristo! Quale è l’affermazione fondamentale del Gabriele del vangelo? “Sta per nascere il Figlio di Dio, il Figlio di Dio viene!”. E qual è l’affermazione fondamentale del Gabriele del Corano? Proprio l’opposto: Allah non ha Figlio. Gabriele gestisce le forze della nascita e ha due modi fondamentali per farlo: o le forze della nascita sono tali che determinano l’individuo in tutto e per tutto (Allah, Dio, è il solo e onnipotente), oppure sono tali che si fanno da sostrato per la libertà (Dio manda il Figlio). Dunque sono due modi.
Ma ci si può arrivare da soli, basta capire le cose nella loro sostanza! Basta capire che la controforza ci deve essere se no non c’è evoluzione nella libertà. Quindi l’Islam nella sua essenza è la controforza necessaria, essenziale al cristianesimo: perché è la contro-affermazione. Il cristianesimo afferma: il Figlio c’è e decide in tutto e per tutto dei destini non soltanto della natura, ma della libertà, addirittura. Invece il Gabriele del Corano ripete diverse volte: il Figlio non esiste, Allah non può avere figli. Però guai se non ci fosse questa controforza!
Goethe aveva letto in Plutarco le idee di Platone: i pensieri divini fanno nascere tutte le cose. Faust arriva al fatto che c’è un Regno delle Madri (le Madri sono le forze generatrici) e vuole entrare in quel mondo spirituale che crea quello fisico. Mefisto si dice: se Faust scopre la realtà dello spirito io, povero diavolo, come controforza sono finito (perché la controforza deve far di tutto perché l’essere umano pensi che lo spirito è nulla). E allora gli dice: nel Regno delle Madri non sentirai neanche i tuoi passi, non c’è nulla, lì. Cosa risponde Faust? “Nel tuo nulla io ho la speranza di trovare il tutto!” E noi a Gabriele rispondiamo: dal tuo nulla io creerò il Figlio, perché il Figlio o è una creazione dal nulla, o non vale nulla (infatti se già c’è in me, che ho da fare, io?).
Intervento: Devo pensare allora che da qualche parte c’è un corrispettivo di Michele, che si è schierato contro le forze cristiche?
Archiati: È già abbastanza che ci raccapezziamo su Gabriele e l’anti-Gabriele, ci basta Gabriele per adesso.
Intervento: Hai detto che nel fango dobbiamo vedere le forze terrestri compenetrate dalle forze del Logos. Se così è perché il cieco nato si deve andare a lavare? È come se dovesse liberarsi dalle forze del fango. Il Cristo gli dice: “Vai a lavarti”, poi il cieco ritorna: “Mi sono lavato”. Si insiste sul lavarsi.
Archiati: Il Cristo evidenzia che queste forze terrene invece di permettere la vista, la ostruiscono. Questo evidenzia. Il lavarsi consiste nel fatto che il dato di natura, che finora ostruiva il tuo esercizio di libertà, viene trasformato dal Cristo in modo tale che termina di ostruire e si fa sostrato per il vedere. Il dato di natura, invece di determinare ciò che avviene nell’occhio, si fa sostrato per permettere all’occhio di vedere. Prima determinava in tutto e per tutto l’occhio e non permetteva all’occhio di vedere; adesso questo determinare viene portato via e resta il sostrato, tutte le forze che si fanno da base per il vedere. Ciò che prima determinava il tuo occhio ora non agisce più perché lo determini tu. Il Cristo intride di forze di amore quelle forze che ostruivano la percezione sensibile, ed evidenzia che la ostruivano mettendocele sopra.
Intervento: Ma tanto non vedeva lo stesso, era cieco!
Archiati: Ma devi capire il senso delle cose! Deve lavarsi, cioè deve tirar via queste cose.
Intervento: Ma in queste forze ci sono anche le forze del Logos!
Archiati: No, esse diventano la base. L’acqua con cui ti lavi sono le forze della missione che ognuno ha, che è individuale. In altre parole: tu finora sei stato determinato dal non individuale; ora lo devi tirar via e qui ci devi mettere l’acqua, le forze eteriche, vitali, della tua missione individuale. Allora dai all’occhio la capacità di vedere.
Intervento: In questo caso sono rappresentate dall’acqua della piscina.
Archiati: Certo, per questo si chiama piscina dell’Inviato. Se io so che sono inviato, che ho qualcosa da fare nel mondo, allora non soltanto vedo ma guardo le cose, guardo come vengo interpellato e così tiro via l’elemento di natura che non mi determina più.
Ma che senso ha metterci il fango se poi devo tirarlo via? È la controforza! Che senso ha che il Mefisto ci sia se io devo dargli contro? Se non ci fosse non potrei andargli contro. Sono testi che richiedono una certa vivacità e anche una certa malleabilità del pensiero. Se ti metti in quarta su una sola linea di pensiero e poi non guardi né a destra né a sinistra, non capisci.
Intervento: È un fatto attivo che richiede l’impegno dell’individuo. Ricevere la guarigione così, semplicemente, è un fatto passivo. Il fatto di andarsi a lavare richiede l’impegno della persona.
Archiati: Cristo gli sta dicendo: guarisci soltanto se fai qualcosa anche tu. Se pensi che basti che io ti faccia qualcosa, siamo al Vecchio Testamento. Quindi il Cristo deve dare qualcosa da fare a lui!
Intervento: I genitori dicono: “Adesso ha l’età e può spiegare lui”. Questa età è quella data dal Cristo quando ci dà la capacità di fare? È allora che abbiamo l’età, o che cos’è?
Archiati: Il testo non dà l’età anagrafica, e ciò è importante perché l’età anagrafica non c’entra nulla. In italiano e in francese si parla di “età della ragione”, quella in cui l’individuo, indipendentemente da quanti anni ha, diventa capace di pensare in proprio, di rispondere per sé, è responsabile dei suoi atti, non è più un’appendice dei genitori. Siccome questo tipo di età varia con la persona, è importante non indicare l’età anagrafica nel vangelo, perché ne faremmo argomento di un nuovo azzuffamento. I genitori dicono: ha l’età della ragione!
Ma il Cristo avrebbe guarito, avrebbe fatto un segno del genere, ad uno che non ha l’età della ragione?!
Martedì 26 agosto 2003, pomeriggio
vv. 9,24 – 9,41
Di fronte ai giudei che li interrogavano, i genitori se la sono cavata molto bene, con la loro paura di venire espulsi dalla sinagoga; vediamo ora come se la cava il cieco nato. Ora non sono più i farisei ma i giudei: è importante, di volta in volta, il tipo di persone che viene presentato.
Il popolo giudeo ha un’identità di gruppo duplice. Tutte le identità di gruppo, in effetti, possono essere duplici perché: cosa può essere di gruppo? Non lo spirito, perché lo spirito è per natura individualizzato. Invece è passibile di “gruppizzazione” tutto ciò che è animico (l’anima) e tutto ciò che è corporeo. Perciò essere giudei significa avere una particolare identità comune, sia di natura corporea sia psichica – l’abbiamo visto soprattutto nel capitolo ottavo.
E cioè:
1) Noi siamo figli di Abramo: c’è un’identificazione con la corporeità di Abramo, con la discendenza di sangue, con le leggi formanti e le leggi evolutive della corporeità di Abramo. Siamo giudei in quanto discendiamo da Abramo, Isacco e Giacobbe;
2) Noi siamo discepoli di Mosè, rispettiamo i dieci comandamenti. È evidente che l’adesione alla legge mosaica non è un fattore corporeo e che i dieci comandamenti non sono le leggi naturali che formano il cervello.
Il tratto fondamentale abramitico è invece proprio una struttura particolare del cervello fisico, sorta per la prima volta nell’uma-nità in Abramo: solo l’essere umano che sviluppa il cervello fisico secondo le leggi formanti, strutturanti di Abramo (che fu il primo ad averlo) può avvalersi di questo cervello fisico per un pensare individualizzato, creante e libero. Il senso importantissimo del contributo abramitico all’evoluzione dell’umanità è il cervello fisico, tale da consentire il pensare individualizzato, la capacità propria di creare concetti, di farsi un’idea sui fenomeni del mondo, e quindi di prendere posizione in modo responsabile.
I genitori del cieco nato dicono: è grande abbastanza, risponda lui per le cose che lo riguardano. Ora, che il singolo risponda lui per se stesso non è una cosa scontata: lo è oggi per noi, ma a quei tempi era diverso. Un greco, per esempio, ancora ai tempi del Cristo, non si sentiva più di tanto un singolo individuo: si sentiva piuttosto inserito nel contesto, diciamo così, psico-sociologico della polis, della città, ma aveva ben poco di pensieri propri. Tant’è vero che il pensare individuale – preparazione alla venuta dell’Io-sono – fu ritenuto addirittura un elemento di rivoluzione, non di innovazione!
Cominciò ad emergere in Socrate e anche nei suoi discepoli, quei giovani che venivano conquistati dall’arte dialettica individualizzata di Socrate. Socrate fu ritenuto un sobillatore, una minaccia tale alla coesione sociale della polis, che lo invitarono a bere la cicuta. Al che Socrate rispose: non mi volete? ma io dall’altra parte sto meglio che non qua con voi! e se ne andò tranquillamente. Prima che l’umanità arrivi al livello di godersi un sociale molto più bello, molto più coesivo proprio grazie al contributo unico di ognuno avremo bisogno di millenni.
Quando il singolo cominciò a presentarsi per la prima volta, fu percepito come una minaccia assoluta. Si capisce: con il ragazzino e la ragazzina tutto va bene finché hanno 11 o 12 anni, poi emerge in loro la capacità e la volontà di far valere il proprio pensiero e per i genitori questo diventa una minaccia assoluta. Giustamente!
Quindi i destini dell’evoluzione umana consistono nella capacità futura – ora siamo agli inizi – di gestirsi tra l’estremo della comoda tendenza a un livellamento privo di particolarità, di emergenza, di spicco del singolo, e l’altro estremo, dove ognuno tende a fare quello che gli pare senza preoccuparsi di offrire ad ognuno la base fondamentale della coesione, della solidarietà.
Nel secolo scorso abbiamo conosciuto le due grandi e opposte matrici dell’Est e dell’Ovest. In oriente c’è stata maggior insistenza sulla comunità, il comunismo, il socialismo, ecc., senza però un’uguale capacità di cogliere l’importanza, anzi l’imprescindi-bilità del contributo creativo di ognuno. In occidente, soprattutto nell’estremo occidente, l’America, c’è stato un bellissimo apprezzamento della libertà individuale, però al capitalismo manca ancora la capacità di dare ugual peso alla coesione, alla solidarietà, all’aiuto reciproco.
L’immagine archetipica della composizione bilanciata di questi due valori eterni dell’umanità, il singolo e la comunità, è l’organismo. L’immagine dell’organismo è richiamata da tutte le Scritture quando cercano di far capire i concetti che di per sé sono un po’ astratti (a meno che uno li prenda come un Hegel…). Le Scritture ricorrono a immagini, e quella dell’organismo meglio esprime questi due valori: la preziosità dell’unicità di ognuno, la libertà di far valere i propri talenti e, contemporaneamente, il senso di questi talenti sta nel venire offerti alla totalità dell’umanità, come servizio per gli altri. Nell’organismo c’è l’equilibrio, il bilanciamento assoluto di funzioni singole: non sia mai che l’occhio, il rene o la spalla o il polmone facciano tutti la stessa cosa! Ogni organo riceve tutto, ma dà tutto in modo specifico e unico. Questo è il grande mistero del futuro dell’umanità.
La grande svolta dell’evoluzione sta nel fatto che con la venuta del Cristo viene affermato che ogni tipo di fenomeno di gruppo – la corporeità giudaica di Abramo e la legge del popolo ebraico, la legge uguale per tutti data da Mosè – non è il fine dell’evoluzione ma fa da strumento per l’emergere del singolo.
Poi però il Cristo dice: l’evoluzione non si ferma al Figlio, ma va avanti con lo Spirito Santo, perché il singolo deve imparare che lo scopo dell’evoluzione non è né il gruppo né il singolo senza gruppo, ma il moltiplicarsi di reciproche fecondazioni dentro la comunità, a tutti i livelli, per costituire la comunanza umana dove vengono abbracciati tutti gli esseri umani e l’individuo. Un’interazione bellissima, piena di infinite variazioni, tra il singolo e la comunità.
Nell’incontro tra il cieco nato e i giudei, c’è un frammento di fenomenologia dell’incontro tra un fenomeno di gruppo e il singolo. Questo singolo, rappresentante dell’individuo umano, ha vissuto in sé l’anacronismo del fenomeno di gruppo, sperimentando quanto sia letale l’avere solo le forze del sangue. Riacquistando la vista, ha poi fatto l’esperienza che tutto ciò che è di gruppo deve fare da fondamento per l’emergere dell’individuale, e che il fondamento dell’individuale è la percezione singola.
L’inizio dell’individualizzazione di una persona sono le sue percezioni, e non ci possono essere due persone che abbiano le stesse percezioni. Ognuno, in base agli occhi che vedono il mondo fisico, ha percezioni in assoluto individuali, viene provocato dalle percezioni come grazia divina, come provocazione divina al mistero dell’individualizzarsi. Ognuno viene provocato a creare concetti del tutto individuali: i contenuti potranno essere universali, ma il creare concetti a partire dalla percezione è un’attività individualizzata, perché tutte le percezioni sono individuali. Perciò, quando una persona dice: ma non hai visto quella cosa?, sta generalizzando il senso della parola “vedere”, perché anche se l’altro fosse stato presente, avrebbe visto con altri occhi.
Non ci possono essere due uomini che vedono la stessa cosa: è escluso. Anche se guardano la stessa cosa non vedono la stessa cosa, perché già gli occhi sono intrisi del karma individuale: di un quadro di percezione, una persona privilegia certi elementi, un’altra persona, nel suo karma, ne privilegia altri. Infatti ogni quadro di percezione, ogni sguardo, abbraccia un’infinità di elementi: voi tutti adesso vedete davanti a voi un oratore, una persona (gli ubriachi potrebbero certo vederne anche due o tre!), ma questo non vuol dire che tutti vedete la stessa cosa. Anzi!
Quando si generalizza non ci si rende conto di quanto la percezione sia individualizzata, come provocazione al proprio pensare, che diventa attività spirituale, creazione spirituale dell’individuo.
9,24 Chiamarono dunque l’uomo per la seconda volta, colui che fu cieco, e dissero a lui: «Da’ gloria a Dio. Noi sappiamo che quest’uomo è peccatore».
Chiamarono l’uomo, tÕn ¥ntrwpon (ton ànthropon): bellissimo questo! Quindi non il cieco, neanche il cieco nato, ma l’uomo: avendo ricevuto la vista dal Cristo, dall’Io-sono, dall’Essere che chiama ogni essere umano a diventare un Io responsabile dei destini della Terra e dell’umanità, è l’uomo colui che vede.
Gli animali, invece, non vedono come l’uomo. Certi insetti, per esempio le coccinelle, hanno due affarini qui davanti, ma non c’è un asse, uno è di qua e uno è di là, per cui i due occhi non possono venire messi a fuoco e quindi non sono organi di percezione. Noi che generalizziamo un po’ tutto e a sommi capi, li chiamiamo occhi, ma non sono assolutamente paragonabili agli occhi dell’essere umano (dicevo già ieri sera di come certe cose andrebbero riviste e di quanto sia assurdo parlare di percezione da parte degli animali).
Chiamano una seconda volta, infatti già glielo avevano chiesto, colui che era cieco: il Vangelo non dice “colui che era cieco e adesso ci vede”, ma “colui che era cieco”. Quindi, nella loro prospettiva i giudei non sono ancora arrivati al punto di dire : adesso ci vede. Perché non ci credono! Vorrebbero riuscire a convincersi che ha mentito, che qualcuno ha inventato una storia, sono ancora al punto di voler rifiutare i fatti. Sono loro i ciechi! Perché non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere, e loro non vogliono vedere che è stato guarito.
E gli dissero: “Da’ gloria a Dio”. Dar gloria a Dio significa dire la verità, significa essere amorevoli invece di essere egoisti, significa essere un frammento di irraggiamento del divino. Siccome il divino è uno sprigionarsi di verità e uno sprigionarsi di amore, significa: tu smettila di non dar gloria a Dio, basta raccontare fandonie, da’ gloria a Dio e di’ la verità, non ci ingannare, che è cosa egoistica e disamorevole. Dicci la verità in modo da manifestare il tuo amore anche per noi. In altre parole, da’gloria a Dio significa: tu hai inventato!
“Noi sappiamo che quest’uomo (colui che t’ha guarito) è un peccatore”. Questa affermazione è madornale, in un certo senso è abissale! Perché prima di tutto è una menzogna assoluta: loro non possono sapere, nessuno può sapere se un altro essere umano è un peccatore, perché nessun essere umano conosce la coscienza, l’in-teriorità, la moralità, lo stadio evolutivo morale di un’altra persona. Se io dico: quella persona ha ucciso un’altra persona ed è un omicida, faccio un’affermazione oggettiva; per dire invece “è cattivo”, io dovrei sapere quanto lui potrebbe essere buono, quante forze ha per vincere l’egoismo (chi non è egoista non uccide un altro). Se lo conoscessi veramente nelle sue capacità, nelle sue forze morali, sarei in grado di dire se le ha usate o non le ha usate.
Una delle frasi più importanti del Cristo è: non giudicate. Non giudicate moralmente, proibitevi ogni giudizio morale. I giudizi conoscitivi sono sempre benvenuti perché sono un appurare ciò che esiste, ma un giudizio morale esprime ciò che uno avrebbe dovuto fare e non ha fatto, e nessuno di noi sa cosa un altro potrebbe o dovrebbe fare, cosa sarebbe capace moralmente di fare. Quindi un giudizio morale oggettivo, a ragion veduta, è escluso da parte di un uomo su un altro uomo. È proprio escluso, e quando lo si fa si è sempre nell’errore.
I giudei emettono un giudizio morale sul Cristo: noi sappiamo che costui è un peccatore. E così intendono dire: noi siamo fatti in modo tale che chiunque mette in questione il nostro potere, chiunque mette in questione la nostra religione stabilita, la nostra interpretazione del sabato, è un peccatore – perché noi, il sabato, lo interpretiamo senz’altro come lo interpreta Jahvè. Ma loro non sono la divinità! Capiscono e interpretano a modo loro! Decidono che una persona che è contro il loro modo di interpretare il sabato va contro Jahvè, tale e quale! Si percepiscono come una parte di Jahvè, e siccome soltanto la divinità può passare un giudizio morale su una persona, loro pronunciano un giudizio morale: è trasgressore del sabato, dunque è un peccatore.
Tra parentesi (ma detto tra parentesi!): anche a noi verrebbe la tentazione di fare un giudizio morale, su questi giudei! Lo dicono in buona fede o no? Non lo possiamo sapere. Possiamo sapere che hanno paura di perdere il loro potere, perché ce l’hanno oggettivamente; ma non possiamo sapere se avessero forze morali tali da poter superare questa paura. Perché se l’uomo caduto che uccide il Cristo avesse addirittura le forze morali per non farlo, la redenzione non sarebbe necessaria; la redenzione è necessaria perché di fatto gli uomini non hanno le forze di accoglierlo, non sono capaci, pur con tutta la loro buona volontà.
In altre parole, una chiesa che si dice cristiana e che manda certe persone all’inferno, agisce contro lo spirito del Cristo, perché non può mai sapere quale giudizio morale la divinità passa su una persona. Mandare una persona all’inferno significa dire: tu avevi la possibilità di far molto meglio! Ma come puoi mai saperlo?!
Quindi un conto è conoscere le leggi, i comandamenti, ciò che dovremmo fare, un conto è conoscere le forze reali di ognuno. Le forze reali non s’inventano, ma se tutto va bene si costruiscono un po’ alla volta; e se tutto va male si omette di costruirle. Le forze morali reali che un altro ha, o che non ha, di volta in volta devo coglierle con la percezione, le devo appurare.
Ma ognuno di noi non fa così? È proprio questo il comportamento che ognuno di noi pretende dagli altri: non tocca a te dirmi cosa io potrei e dovrei essere capace di fare, tocca a me. E tu mi prendi così come sono, oppure te ne vai via.
Nei Misteri drammatici di Steiner c’è un personaggio simpaticissimo, importantissimo, anche: Romanus. La forza, il contributo specifico di questo personaggio, è che non ha la minima idea che a decidere delle azioni delle persone sono le forze reali (che ci sono o non ci sono). Romanus parte sempre in quarta con ciò che si dovrebbe fare, o che non si dovrebbe fare, e si arrabbia ogni volta che uno non fa le cose giuste, perché pensa che basta saperle, basta dirgliele e quello dovrebbe farle. La morale è però molto più complessa perché ha a che fare con le forze reali esistenti, o non esistenti, a un livello già molto individualizzato in ogni persona. E quindi il compito della morale non è di predicare “dovresti, dovresti, dovresti”, ma quello di fare di tutto per aiutare ogni persona a costruire sempre più le forze morali del bene (perché se non ci sono, non ci sono!).
Un esempio concreto: il grosso problema reale del sociale è che l’umanità di oggi è così debole nelle forze di volontà da capitolare di fronte all’istinto di natura: io lo so che quando sono al lavoro sarebbe meglio se mettessi il servizio da fare per gli altri al di sopra del mio piacere, ma non ce la faccio! Allora il quesito della morale è chiedersi: cosa possiamo fare per aiutarci vicendevolmente a rendere più forti le forze di volontà? Perché ciò che è bene o male lo sanno quasi tutti, però poi quasi ognuno dice: ci ho provato e non ce la faccio…, sì, sarebbe meglio, ma io…
Dunque è raccapricciante questa frase dei giudei sul Cristo: “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”. Però si trovano di fronte al cieco che ha incontrato il Cristo e che adesso ci vede, e che dà loro delle belle sberle (le sberle che si pigliano dal cieco nato sono una delle pagine più belle del vangelo!).
9,25 Rispose quegli: «Se sia un peccatore, io non lo so; una cosa so: che essendo io stato cieco, ora ci vedo».
Risponde bello pulito. Non dice: non date un giudizio morale, ché non ne siete capaci, ma dice: io non sono in grado di dare un giudizio morale sul personaggio. Li mette in riga subito dicendo: voi lo sapete che è un peccatore?! io no, io non lo so se è un peccatore. Dicendo io non lo so, non dà loro alcun appiglio per condannarlo, dice soltanto ciò che lui non sa. E gli mette la pulce nell’orecchio: ma siete sicuri di sapere che è un peccatore? Se lui sia peccatore, poi, neanche mi riguarda; una cosa so (e gliela sbatte lì): che prima non ci vedevo e adesso ci vedo!
9,26 Dissero dunque a lui: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?».
Ritornano alla carica: che cosa ti ha fatto? in che modo? come? La domanda che ritorna è: come? come? cos’è avvenuto e in che modo, che tipo di processo evolutivo bisogna fare perché si aprano gli occhi?
Fa parte di questo “come” il fatto che lui è figlio in base alle forze di consanguineità, il fatto che per tenere puro il sangue giudaico papà e mamma, invece di andare a sposare persone da due linee di sangue diverse, si sono uniti fra loro. Quindi il modo in cui Cristo opera presuppone la cecità, presuppone il tracollare delle forze di coesione dell’ereditarietà. Questo fa parte del nuovo, quindi ogni essere umano deve passare per questa cruna dell’ago, deve farne l’esperienza: fa parte di questo “come” che il Cristo ti redime soltanto quando sei al punto di necessità della redenzione. Se una persona non fa mai l’esperienza di “non essere a posto”, non può mettersi a posto.
A questo punto t’arrivano gli psicologi europei, ma soprattutto gli americani, e dicono: ma come ti permetti di dire che l’essere umano non è a posto? Allora, l’essere umano è a posto o non è a posto? Abbiamo visto che i giudei chiedono: in che modo è avvenuto, cosa ti ha fatto? Del “come” fa parte la posizione di partenza, perché se non c’è quella, se non c’è la cecità di nascita non lo può curare. Allora la posizione di partenza è quella dell’essere umano bisognoso di redenzione, per usare il linguaggio religioso; però il linguaggio religioso traducetelo pure in linguaggio politico, sociologico, psicologico, come volete – non è il linguaggio a cui ci appigliamo, d’accordo?
Ma questi bravi pensatori e psicologi che ti vengono a dire? Che l’essere umano è a posto così com’è. Che stanno dicendo? Stanno dicendo – proprio da menti bacate perché non hanno capito la cosa più fondamentale dell’umano – che l’essere umano è a posto per natura, quindi è al grado dell’animale e perciò la libertà non c’è!
Se l’essere umano è libero non può essere a posto automaticamente, perché essere a posto automaticamente, senza far nulla su di sé, significa essere un puro essere di natura e non un essere libero. Se l’essere umano è libero deve avere la possibilità di andare male, di far qualcosa contro di sé, altrimenti non sarebbe libero. Chi dice che l’essere umano è a posto così com’è, che la natura fa già le cose perfette, non ha capito che la libertà è il fattore di emergenza assoluta dell’umano, che lo differenzia dagli animali. Non ha capito la differenza fondamentale tra un animale e l’uomo: che l’animale è a posto per natura, non può non essere a posto, mentre l’essere umano può essere a posto soltanto per libertà. Non per natura, non per necessità, non automaticamente.
Quando l’uomo si abbandona agli automatismi di natura, quando ad esempio “si lascia andare”, vediamo bene come tutto “esca di posto”: ogni giorno un paio di decine di ammazzati (ma tutto è a posto! non abbiamo problemi, va tutto benissimo!). Sono livelli di povertà di pensiero allucinanti, perché poi questi psicologi usano una prosopopea tale che ti intimoriscono. Tutti stanno zitti. Provate a dire: sono stupidaggini, avete menti bacate, che non hanno la minima idea dei fondamenti, dell’interpretazione della natura umana… Provate.
“Come ti ha guarito?” La prima risposta da dare è: se avviene una guarigione è perché c’è una malattia, quello è il punto di partenza. Ma loro non vogliono ammettere che c’è la malattia, questo è il problema: perché se veramente ammettono che era nato cieco e adesso ci vede, sono costretti ad ammettere la guarigione grazie ad una forza, nell’essere umano, più forte delle leggi di natura. Neanche la chiesa cattolica ha mai fatto l’affermazione bella pulita, tutta cristiana, che il Cristo rende possibile nell’uomo una forza più forte di tutte le leggi di natura, che gli rende possibile la libertà. La teologia degli ultimi 2.000 anni è tutto uno scusarsi di fronte alla scienza naturale, un tentativo di rendersi accettabili; ma qual è l’assunto della scienza naturale? Che l’essere umano non è libero, che la libertà è un illusione.
9,27 Rispose a loro: «Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete di nuovo sentire? Forse anche voi volete diventare suoi discepoli?».
Ve l’ho già detto in aramaico, in ebraico, in una lingua che capite: pensate di avermi intimorito in modo che vi dica un’altra cosa? Ve l’ho già detto e non avete ascoltato, io ho parlato ma voi siete sordi. Gli dice proprio che sono sordi: oÙk ºkoÚsate (uk ekùsate), non avete udito. Questo ºkoÚsate oscilla tra “sentire” e “ascoltare”, tra ¢koÚw e ™p-akoÚw, che significa anche “esaudire, obbedire” (l’obbedire latino è composto di ob e audio = “ascoltare verso”; è un udire pieno di dedizione a ciò che odo). Qui è udire con attenzione, prendere sul serio.
In altre parole: io ve l’ho già detto prima, ma non mi avete preso sul serio, perché volevate soltanto una conferma di quello che pensate voi. Non avete voglia di sentire quello che ho da dire io, volete sentire quello che volete sentire voi, non avete udito, non avete ascoltato. È interessante che alcuni manoscritti hanno tirato via questo oÙk (uk), “non”, e traducono: ve l’ho già detto e avete già sentito. Che cosa vi piace di più come risposta del cieco nato? “Ve l’ho già detto e avete già sentito”, oppure “ve l’ho già detto e non avete ascoltato”?
Intervento: La seconda.
Archiati: È lasciata a ognuno! A me piace di più “non avete ascoltato”. Perché o questo cieco nato lo si pone come un individuo che ha la capacità di tener testa ai giudei, come una persona che sta per arrivare al secondo incontro col Cristo, al livello del suo Io superiore con l’Io del Cristo, oppure lo mettiamo lì tutto impaurito, e allora mancano i presupposti perché il Cristo (come vedremo alla fine del capitolo) vada a rincontrarlo e gli faccia fare quel salto qualitativo di coscienza che lo rende capace di riconoscere il Cristo.
L’oscillare delle traduzioni ci fa capire come l’umanità ebbe a lottare sulle interpretazioni di testi così profondi, così fondamentali. “Perché volete di nuovo sentire? Perché volete di nuovo ascoltarmi? Perché me lo richiedete? Perché ve lo devo dire un’altra volta? È successo qualcosa di nuovo in voi? che forse anche voi volete diventare suoi discepoli?” Adesso si è spinto un po’ troppo in là, diremmo noi! Il precedente “ve l’ho già detto ma non avete sentito” era solo una preparazione a questa bella botta!
Intervento: È provocatorio.
Archiati: È più che provocatorio! Che tipo di ispirazione ha fatto dire al cieco nato una frase di così forte effetto? Possiamo partire dal presupposto che questo guarito dal Cristo, intriso delle sue forze di guarigione, comincia proprio a fare l’esperienza del Cristo e quindi anche le sue parole sono ispirate dal Cristo; non ancora a livello perfetto ma, certo, c’è il Cristo operante in lui.
L’affermazione: ma che forse anche voi volete vedere se diventare suoi discepoli?, in fondo è un contributo conoscitivo per la conoscenza di sé. Al di là di ogni intento provocatorio, se lo prendiamo nella sua oggettività egli dice: Voi vi trovate in questa grande scelta: o avete paura di Lui perché minaccia il potere col quale vi siete identificati e al quale non siete assolutamente capaci di rinunciare (cosa comprensibile e umana), perché se volete il vostro potere dovete eliminare Lui; oppure l’altra alternativa è che diventiate suoi discepoli. Cioè: o contro di lui o per lui.
In altre parole, il cieco nato guarito aiuta a capire che di fronte al fenomeno Cristo non si può restare neutri; questo è il suo contributo. Dice loro: l’incontro col Cristo è una radicalizzazione, l’essere umano non ha più modo di tergiversare o di cavarsela. Adesso voi siete confrontati con la scelta fondamentale che ogni uomo, nella sua evoluzione, deve fare: o sceglie il potere e uccide l’individuo, oppure sceglie la preziosità dell’individuo, ma allora deve rinunciare al potere. La libertà del singolo o il potere che incamera il singolo: bisogna scegliere, non si possono avere tutt’e due. Questo è il suo contributo conoscitivo.
Dice: me lo avete chiesto due volte; la prima, ho capito che si trattava di salvaguardare il vostro potere; ma se ora me lo chiedete ancora, forse state considerando l’alternativa di diventare suoi discepoli? Un contributo alla conoscenza di sé bellissimo, fondamentale! Perché i giudei recepiscono tutt’e due le cose: la paura di perdere il potere e l’eventualità di diventare discepoli dell’Io-sono. Capiscono che la libertà umana si trova sempre di fronte a questa scelta: o amare o uccidere l’umano. Di fronte all’umano non si può restare neutri, o si è contro l’umano o si è a favore dell’umano. Nessuna azione, nessun pensiero lascia l’essere umano così com’era: o lo peggiora o lo migliora, lo rende più umano. Il potere che gestisce la preparazione deve rinunciare a se stesso, se accoglie la venuta del Messia.
La preparazione che gestisce l’attesa della venuta del Messia deve rinunciare, deve dire: adesso ho finito con la preparazione che gestisce il potere perché il Messia è venuto. Loro si trovano a dover scegliere: o accolgono il Messia, o l’ammazzano. Parliamo di dimensioni evolutive che valgono sempre per ogni essere umano e per ogni minuto dell’evoluzione.
9,28 Lo ingiuriarono e dissero: «Tu sei discepolo di lui, noi siamo discepoli di Mosè!
9,29 Noi sappiamo che a Mosè parlò Dio; costui non sappiamo neanche da dove viene».
Prima lo ricoprono di improperi, un sacco di parolacce, lo stramaledicono. Poi è implicita un’argomentazione quantitativa: Mosè ha messo in piedi la comunanza di tutto un popolo, invece questo pinco pallino che si mette contro è uno solo, e come può uno solo aver ragione, essere più importante di tutto un popolo?!
Cos’è più importante, una persona o un popolo? Un popolo è nessuno, perché non è un essere umano, ma in quanto popolo composto da individui, è diverso. Dove c’è soltanto anima di gruppo, l’essere umano ancora non c’è, vale nulla, perché manca lo spirito individuale. Il singolo, in quanto spirito individuale, moralmente ha un peso infinitamente maggiore di ogni tipo di gruppo (gruppi religiosi compresi, chiese, ecc.).
“Dio parlò a Mosè”. “Non sappiamo da dove viene costui”. Possiamo richiamare l’altra guarigione fatta di sabato a Gerusalemme, quella del paralitico (capitolo 5): riguardava gli arti, l’elemento della volontà, mentre quella del cieco nato riguarda l’elemento della conoscenza (percezione e pensiero). Già nel quinto capitolo i giudei si erano riferiti a Mosè e il Cristo aveva fatto un commento (“diatriba”, così si chiamano queste conversazioni con i giudei), e alla fine (5,46) aveva detto “Mosè ha scritto di me”. In altre parole, Mosè era stato ispirato dal Dio, dall’Io-sono (la parola stessa “Jahvè” significa: “Io sono”), aveva parlato, scritto dell’Io-sono.
La divinità dei giudei, Jahvè, è come il riflesso lunare della luce solare. Così come il Sole è l’origine della luce e la Luna riflette la luce del Sole, così il Cristo e Jahvè stanno l’uno nei confronti dell’altro. Come il Sole e la Luna. Quindi l’elemento giudaico javitico è l’elemento della coscienza riflessa, della chiamata degli esseri umani a diventare individui singoli. Con Mosè sorge la coscienza riflessa come preparazione per la venuta dell’Io-sono solare, della totalità delle forze di pensiero e di amore individualizzate, del tutto libere. In Jahvè si sono espressi in modo riflesso la sapienza e l’amore dell’Essere solare del Cristo.
E in nome di Mosè loro lo mettono a morte, perché è cattivo colui che non vuole sottostare alla solidarietà di gruppo. Che tipo di impulso è questo di difendere a denti stretti la solidarietà del gruppo? Volete che ve lo dica io senza peli sulla lingua! È la paura della libertà! E guai se non ci fosse!, perché se non ci fosse da vincere la paura della libertà, la libertà non ci costerebbe nulla, e non varrebbe nulla. Però gli esseri umani devono capire che la paura più grande che c’è, e che ci deve essere, è la paura della libertà, e per camuffare questa paura si trovano tutte le scuse di questo mondo.
La quintessenza della legge di Mosè sono i dieci comandamenti, le dieci leggi evolutive per diventare un Io. “L’Io-sono è il tuo Dio e non avrai altro Dio oltre all’Io-sono” (Jahvè = Io-sono). I dieci comandamenti ispirati a Mosè dal Cristo, dal Messia che doveva venire, proprio per annunciare in che modo ogni essere umano si individualizza sempre di più, proprio questi dieci comandamenti sono stati presi come legge mosaica di gruppo per ammazzare l’individuo!
Sarebbe meglio che non fosse accaduto così? No, doveva essere, deve essere così, altrimenti l’individuo non avrebbe le controforze necessarie.
Ora le cose diventano drammatiche, perché i giudei dicono: Mosè sì che sappiamo chi era, perché Dio, Jahvè, ha parlato a lui. Mosè è venuto giù dal monte mentre quelli si scalmanavano attorno al vitello d’oro e rimpiangevano le cipolle d’Egitto ecc; venne giù con due tavole – magari non come vuole Michelangelo che gliele sbatte in testa, ma insomma quasi – e portò giù queste dieci leggi, portò giù tutta la spiegazione della legge … una cosa bellissima! È comprensibile che il popolo giudaico abbia coltivato con amore profondo questa legge mosaica. E la divinità mai ha preteso che la dovessero capire subito.
Allora dicono: Mosè sì, ci sta bene, noi siamo nati e cresciuti con questa venerazione verso il decalogo, verso i dieci comandamenti di Mosè; ma chi è questo pinco-pallino (che non ti osserva nemmeno il sabato!)? Non sappiamo neanche da dove viene! Adesso si pigliano una bella botta dal cieco nato, perché li prende in castagna. Dice: ma che gente siete? Uno che fa una cosa che non è mai stata fatta, voi che siete gli esperti delle opere divine, non sapete neanche da dove viene?!
9,30 Rispose l’uomo e disse loro: «Questa è proprio una cosa straordinaria, che voi non sapete da dove è, e lui mi ha aperto gli occhi».
Rispose Ð ¥ntrwpoj (o ànthropos), l’uomo. Adesso siamo al punto che il cieco nato viene caratterizzato soltanto come “l’uomo”, neanche più “l’uomo che era cieco” (come era scritto l’ultima volta che era stato caratterizzato). Adesso parla l’essere umano in quanto individuo.
Rispose l’uomo e disse loro: ma questa è proprio una cosa straordinaria, una cosa strabiliante, che suscita stupore, questa è una cosa stupefacente: che voi non sapete da dove viene e lui ha aperto gli occhi a me, nato cieco – cosa che può essere fatta soltanto dalla divinità, attraverso un essere umano. E voi che siete esperti del divino non sapete neanche da dove viene! Dice: Questa è la cosa straordinaria, stupefacente, sconcertante: che non capite. Perché non si capisce? Spiegatemelo!
Non perde colpi il cieco nato, eh! Perciò viene chiamato Ð ¥ntrwpoj, l’uomo! E mica ha finito! Sono due le cartucce, adesso arriva la seconda.
9,31 «Noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma solo se qualcuno onora Dio e fa la sua volontà, Dio lo ascolta».
Adesso l’uomo si fa forte di una cosa che tutti sanno, che appartiene all’umano comune: non soltanto noi giudei, ma tutti noi esseri umani sappiamo che Dio non ascolta i peccatori. Peccatore è, per definizione, colui che va contro Dio, o che cerca di andare senza Dio: perciò mai Dio può operare attraverso un peccatore. Esseri intrisi di forze divine e essere peccatori sono agli opposti, o l’uno o l’altro. Voi avete detto “noi sappiamo che quello è un peccatore”, quindi escludete che sia intriso di forze divine, che agisca sotto l’ispirazione della divinità.
“Sappiamo anche che Dio ascolta soltanto colui che a sua volta ascolta Dio, fa la volontà di Dio, lo onora, lo venera”. È una specie di sillogismo aristotelico. Sono tre le affermazioni che fa, la prima dice: in ciò consiste la cosa stupefacente che voi non sapete da dove viene e ha aperto a me gli occhi. Seconda affermazione: noi sappiamo che Dio non esaudisce qualcuno a meno che sia con lui la divinità e faccia la volontà di Dio. Il v.32 è la conclusione di questo sillogismo, la terza affermazione:
9,32 «Da che mondo è mondo non si è mai udito che qualcuno abbia aperto gli occhi di un cieco nato».
Se dice questo deve essere sicuro di ciò che afferma, perché se non fosse vero gli salterebbero subito addosso. Che vuol dire che prima di questo intervento del Cristo sulla cecità generata dalla nascita, nessuno mai ha ridato la vista a un nato cieco? Vuol dire che se fosse già successo prima, allora la svolta evolutiva, l’intervento del Figlio del Padre sarebbe avvenuto prima.
In altre parole, intervenire su questa impotenza assoluta delle forze di natura, che non sono più capaci di far nascere un essere umano sano, intervenire su queste forze per far andare avanti l’evoluzione non più condotta dalla natura, ma col dato di natura posto come base, immettendo l’elemento del tutto nuovo della libertà individuale, tutto questo fa parte della fenomenologia specifica ed esclusiva della redenzione, quindi non può mai essere avvenuto prima.
Detto in altro modo, soltanto il Cristo, il Messia incarnato, venuto, che compie la svolta evolutiva, solo Lui può guarire un cieco nato.
Intervento: C’erano stati altri miracoli, fatti da altri…
Archiati: Ma mai su una persona nata cieca! L’affermazione dice: non è mai successo, non si è mai udito! Tutti i taumaturghi di questo mondo hanno fatto tutto quello che vuoi, fuorché dare la vista ad un nato cieco. Perché se è nato cieco, questa cecità è il risultato della totalità delle forze ereditarie di natura, quindi bisogna intervenire non parzialmente, non su un solo aspetto delle forze di natura, ma sulla loro totalità. Dove le forze di natura generano di sana pianta tutto l’essere nella sua totalità, o c’è un principio operatore, un principio di creazione alternativo alle forze di natura che può cambiare le carte in tavola, oppure non si può!
In altre parole, le forze di generazione non sono una delle forze di natura, sono la totalità delle forze di natura. Tutte le leggi evolutive della corporeità si manifestano nella generazione di un altro corpo; quando io intervengo su una malattia, invece, intervengo solo parzialmente sulle forze di natura. Ma dove si tratta di raddoppiare, di riprodurre la corporeità, siamo di fronte all’operare concertato di tutte le forze di natura; perciò, o c’è qualcuno che ha la capacità di immettere una forza evolutiva alternativa alle forze di natura, anzi più forte, e noi la chiamiamo libertà, oppure non si guarisce uno che la totalità delle forze di natura ha fatto nascere cieco.
Allora il cieco nato dice che la prova che qui è avvenuto qualcosa di assolutamente rivoluzionario è che non era mai successo prima, perché non era possibile che avvenisse e se lo fosse stato sarebbe successo. In altre parole, abbiamo di fronte a noi qualcuno che compie ciò che di fronte alle leggi di natura finora era assolutamente impossibile, e da qui nasce la difficoltà degli altri che scappano di fronte all’impossibile.
Non sottovalutiamo la difficoltà psicologica dei giudei ad ammettere che un uomo potesse fare ciò che a ragion veduta era ritenuto impossibile, perché non era mai successo. È stolto il pensiero di chi dice: ma che massa di manigoldi, ci voleva tanto a capire? l’hanno messo in croce! Noi, là, avremmo fatto di meglio? Ci vuole tutta la seconda parte dell’evoluzione per digerire questo fatto impossibile; tanto è vero che il cristianesimo finora non ha ancora trovato il coraggio di dire “è possibile”.
9,33 «Se costui non fosse da Dio, non potrebbe fare nulla».
Non molla, c’è ancora l’ultima coda. Se costui non fosse da Dio, presso Dio, se non fosse in comunione con le forze del divino, non potrebbe fare nulla. Nulla! In altre parole, le forze dell’evoluzione sono di duplice natura (non triplice, né quadruplice): o provengono direttamente dal divino e favoriscono l’umano, oppure sono controforze.
Cosa fanno le controforze? Sono negative, vogliono annullare il positivo, dunque fanno nulla, perché se facessero qualcosa sarebbero positive. Quindi esistono soltanto la forza, che è positiva, e la controforza. I bastoni fra le ruote non sono una ruota alternativa, sono bastoni fra le ruote: o questa cosa fa parte della ruota oppure è un bastone fra le ruote. I bastoni fra le ruote sono necessari come controforza ma la controforza non è qualcosa. Quando il Mefisto dice: Caro Faust, nel regno delle Madri non troverai nulla!, cosa ha da proporgli? Nulla! E allora Mefisto a che serve? Serve a che io capisca che non ha nulla da offrire. Però tocca a me capirlo e se lo capisco, poi, cerco il tutto.
Questa frase è una provocazione al pensare enorme, perché il cieco nato fa un salto mortale e dice: “Se costui non fosse da Dio non potrebbe fare nulla”. Ma come? Il diavolo ne combina di cose! È pulita questa affermazione, per noi che abbiamo il concetto che il male agisce, fa? Ad esempio, uno che uccide una persona non ha forse “fatto” qualcosa? No! Uno che uccide una persona non ha fatto qualcosa, ha soltanto omesso di amare! Questa è l’essenza del fenomeno. Se noi diciamo che “ha fatto” qualcosa siamo talmente materialisti che ci fissiamo sulla percezione visibile di un corpo che smette di funzionare; ma che un corpo smetta di funzionare non significa ancora nulla, se io non l’interpreto. La realtà di ciò che l’omicida ha fatto sono i suoi pensieri, e la realtà dei suoi pensieri era un vuoto di amore. Questa è la realtà!
Quindi il male non è qualcosa, ma è sempre un’omissione di bene. Perché se il male fosse qualcosa sarebbe un bene. Quindi un omicidio è un’omissione di amore; quella è l’essenza morale del fenomeno: mancando l’amore parte la pallottola! Ma la pallottola non partirebbe se ci fosse l’amore, quindi l’origine, la forza propulsiva di quella pallottola è la mancanza di amore, è il vuoto, è come un risucchio perché dove c’è il vuoto l’aria viene succhiata dentro. In altre parole, il male è l’annullamento del bene; ma siccome il bene esistente non può essere annullato, viene “annullato” attraverso i peccati di omissione. Per questo l’unico male morale che esiste sono i peccati di omissione, cioè l’assenza del bene.
Ciò che abbiamo detto ora è un pensiero liberante! Andare in giro pieni di patemi d’animo per il tanto male che c’è nel mondo è tutta aria fritta! Invece il mondo è pieno di omissioni di bene che si potrebbe fare! Questa sì che è più consolante come affermazione! Perché se un bene non si poteva fare, non c’è omissione; si ha il diritto di parlare di omissione soltanto quando ci sarebbe stata la capacità reale di amare, di fare qualcosa di bene e non lo si è fatto. Cioè, tutto il male che c’è è evitabile, se no non è un male. E questo è consolante. Però ci fa paura, perché significa che le cose andranno meglio soltanto se ci rimboccheremo le maniche e “perderemo meno colpi”; perché se continuiamo tutti a perdere colpi omettendo su tutta la linea, i buchi diventeranno sempre più grossi e finiremo per caderci dentro.
9,34 Risposero a lui: «Tu sei nato tutto nei peccati, e vieni ad insegnare a noi?». E lo sbatterono fuori.
Quindi la loro interpretazione del cieco nato è che uno nasce cieco se nasce nel peccato; e ciò è giusto, perché questo nascere cieco è il risultato ultimo del peccato originale. Lo sbaglio che i giudei stanno facendo (per difendere il loro potere) è che considerano vera la prima parte (che è nato nel peccato) come scusa per non vedere la seconda parte (che adesso ci vede). Lui, ora, li sta ammaestrando non come cieco nato, ma come uno che ha superato la cecità di nascita; loro invece non possono dire di essere intrisi di forze che superano la cecità di nascita, perché non sono nati ciechi.
Il loro sbaglio sta nel fatto che non riconoscono che qui c’è uno che ammaestra, che è intriso di forze che vincono il peccato, che vincono la somma totale del peccato. Non dicono: noi, che non siamo nati ciechi, che non abbiamo vissuto fino in fondo l’ostacolo delle forze di natura che uccidono l’uomo facendolo nascere cieco, noi che non siamo intrisi di forze nuove come invece è lui, che ora ci vede, noi, qui, abbiamo da imparare.
I giudei lasciano da parte tutto il positivo, si concentrano sul fatto negativo che è nato cieco, e lo sbattono fuori. Finalmente hanno capito che qui c’è la minaccia assoluta al loro potere, e se vogliono difenderlo devono sbattere fuori, devono eliminare l’individuo. È la legge fondamentale del potere: l’individuo è la minaccia assoluta al potere. Bisogna scegliere tra il potere e la libertà, non si possono avere tutt’e due.
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A volo d’uccello ripercorriamo la bellissima struttura di questo nono capitolo: c’è all’inizio la descrizione del segno, della guarigione del cieco nato; a partire dal v.8 e fino al v.12 c’è la presa di coscienza, il cammino evolutivo di coscienza da parte dei parenti, dei consanguinei; dal v.13 al v.17 questo fenomeno, il segno (il miracolo), viene offerto come dato di percezione al pensiero. Poi dal v.18 al v.23 abbiamo visto i giudei che parlano con i parenti, e infine dal v.24 fino al v.34 i giudei parlano col cieco nato.
C’è infatti la reazione del pensiero di varie categorie di persone di fronte a questa serie di percezioni: prima le reazioni dei parenti, quindi di coloro che sono intrisi delle stesse forze del sangue; poi, dal v.13 al v.17, ci sono i concetti che di fronte a queste percezioni si formano i farisei, tutto un altro tipo di fenomenologia. Queste sono tipologie dell’umano: come reagiamo quando lasciamo operare in noi le forze di eredità – i parenti –; come reagiamo quando lasciamo operare in noi il cattolico (es. Comunione e liberazione) – i farisei –; come reagiamo quando lasciamo operare in noi il fatto di essere Italiani – i giudei.
Non sto ingiuriando nessuno, cerco di contestualizzare questa fenomenologia se no non ci serve a nulla! Sono tutti stati dell’umano, con l’affermazione di fondo che dice: quando c’è una serie di percezioni (che tu vedi perché siamo tutti vedenti), ci sono anche diversi modi di formare i pensieri, e devi stare attento a quale elemento prevale nel tuo modo di formare i pensieri. Se tu sei un giudeo che vuole difendere il potere della religione stabilita devi stare attento, ché l’interpretazione sarà indotta dal potere che vuoi difendere.
Finita tutta questa serie di prese di posizione di fronte all’evento, il Cristo incontra il cieco nato; lo incontra dopo che egli ha fatto l’esperienza di quale spina dorsale l’individuo debba avere per sostenere il confronto con i giudei. E dopo aver dato quel tipo di risposte ai giudei è un essere umano che ha fatto passi evolutivi. Adesso la sua situazione esistenziale è di tutt’altra natura.
In quale situazione esistenziale si trova, adesso? In quella di uno che letteralmente è stato sbattuto fuori (queste sono le ultime parole che abbiamo letto oggi pomeriggio). Coloro di voi che conoscono Steiner, ricorderanno che una delle leggi fondamentali per certi cammini evolutivi è di diventare un “senza patria”, perché finché c’è una patria ci si identifica con un insieme – non è che io dica che è male! – e non ci sono ancora i presupposti per mettere in primo piano l’Io singolo individuale. “Sbattuto fuori” significa che si trova a fare i conti, in un modo puro, in un modo semplice, con le forze dell’Io, perché non ha più nulla che lo porti, nessuna identificazione di gruppo, nessuna identità oltre al suo Io – mica è cosa da niente! È questo individuo che il Cristo va a cercare. Non è per caso che si sono incontrati per strada, no: il Cristo lo cerca.
9,35 Gesù sentì che l’avevano sbattuto fuori e, trovatolo, gli disse: «Tu credi nel figlio dell’uomo?».
Si ripetono le due parole usate nel v.9,34: ™xšbalon œxw (exèbalon èxo), “sbattuto fuori”, e cercandolo, “trovò lui”: eØrën aÙtÕn (euròn autòn).
Intervento. Sul nostro testo è scritto “incontratolo”.
Archiati: Io lascerei “lo trovò” perché incontrare è fuorviante, nel senso che è casuale. Invece il significato del verbo greco eØr…skw (eurìsko) mette insieme due verbi italiani: “cercare” e “trovare”. Non è neppure “scoprire”. La traduzione interlineare com’è?
Intervento: Incontratolo. Trovatolo. Si potrebbe dire “rintracciare”?
Archiati: No, io rintraccio un animale perché l’animale ha lasciato le tracce; il Cristo non segue le tracce che un animale ha tracciato. È cercare più trovare; chi cerca trova. Noi siamo abituati a cercare cose materiali e poi a trovarle: ad esempio uno cerca di guadagnare un po’ di più ma non sempre ci riesce. Cioè, nella fase della materia scindiamo il cercare dal trovare; ma nell’evoluzione spirituale, nelle cose spirituali, cercare è già trovare, chi cerca trova!
Quindi se il Cristo trova il cieco nato è perché l’ha cercato. In altre parole, nessun essere umano incontra il Cristo se non viene cercato e trovato dal Cristo; ma ciò presuppone che questo essere umano abbia fatto un’evoluzione tale da aver superato ogni identificazione di gruppo, che sia stato sbattuto fuori: qui abbiamo letto due volte che lo sbatterono fuori! E il Cristo ode, sente, che l’hanno sbattuto fuori. Naturalmente in qualche modo ognuno di noi resta immesso in una realtà di gruppo, ma l’importante è cessare di identificarsi con l’anima del gruppo, il che è ben diverso!
Si arriva a considerare tutto ciò che è di gruppo non come elemento portante dell’evoluzione, ma come elemento fondante. Portante l’evoluzione, quindi rilevante in senso morale, nel senso del bene e del male, è soltanto ciò che l’individuo compie nella sua libertà. Nel cammino evolutivo questo atteggiamento interiore è il Cristo che ti cerca e ti trova: perché il Cristo è l’Io-sono. Detto in termini più poveri: non si può venire cercati e trovati dal Cristo senza aver fatto l’esperienza, una qualche esperienza di solitudine, di indipendenza, di autonomia interiore, senza avere per lo meno incipientemente vinto la paura della libertà. Allora il Cristo ode, sente che l’hanno sbattuto fuori, lo cerca e lo trova.
Il Cristo gli disse: “Tu credi nel figlio dell’uomo?” Che tipo di domanda è? Credere, ce lo siamo detto tante volte, non significa aderire intellettualmente a dei contenuti, ma significa dar fiducia a delle forze evolutive che coinvolgono tutta la persona (non soltanto l’intelletto). In altre parole il Cristo gli chiede: hai tu fiducia, hai acquisito fiducia nell’individuo singolo, nel figlio dell’uomo? (non dice “i figli” dell’uomo, perché non è un gruppo). Figlio dell’uomo è l’essere umano che, oltre ad essere figlio di Dio, quindi intriso di forze di natura governate dalla divinità, ci aggiunge l’elemento umano individuale della libertà.
Hai acquisito fiducia nella forza primigenia dell’individuo umano? E il cieco nato si dice: oh sì!, mi è appena capitato di tener fronte a tutta ‘sta masnada di giudei, m’hanno sbattuto fuori, però non m’hanno tagliato la testa… me la sono cavata e manco mi son pentito, sto meglio ora che non prima! Lui sta davvero acquistando fiducia nel figlio dell’uomo, quello che gli è successo è servito a questo.
Il Cristo con questa domanda lo aiuta a capire l’esperienza che sta facendo. Il Cristo è sempre un contributo, un aiuto al pensiero che vuol conoscere l’essere umano: “Conosci te stesso” è il grande motto dell’evoluzione. Se non ti conosci non puoi sapere cosa va bene e cosa non va bene per l’uomo. L’amore del Cristo per l’uomo è nei contributi conoscitivi alla conoscenza di sé; quindi questa domanda è una domanda maieutica, cioè una domanda che aiuta a ricercare e a tirar fuori la verità autonomamente, da dentro. È una domanda che ha un contenuto denso di significato: ti pare o no di stare acquistando fiducia nell’individuo singolo, in cui c’è non soltanto l’operare divino ma anche il concorrere della libertà dell’uomo? È questo che ti sta accadendo.
9,36 Quegli rispose e disse: «E chi è, Signore, affinché io creda in lui?».
L’ultimo passo per questa conoscenza di sé, è di terminare di guardar fuori. “Chi è il figlio dell’uomo?” e la risposta è: “Sei tu! perché se non lo fai nascere in te, non c’è per te il figlio dell’uomo”.
Signore, kÚrie (kýrie) (lo riconosce come Signore), tu che hai guarito un cieco nato, tu che governi le forze evolutive, che sei sovrano sulla totalità delle forze di natura generanti che m’hanno fatto nascere cieco, tu, Signore, dimmi chi è il figlio dell’uomo, dimmi chi è affinché io possa credere in lui, affinché io possa dargli fiducia.
9,37 Gesù gli disse: «L’hai visto e colui che ti parla, lui è».
O il figlio dell’uomo lo vedi e lo ascolti ovunque, oppure non sai chi è, perché per te non c’è. Non diamo l’interpretazione: lui è un privilegiato perché il Cristo ha parlato con lui, e non con me. Il Cristo non sta dicendo: io sono l’unico figlio dell’uomo e tu sei fortunato, sei privilegiato perché stai parlando con lui, ma dice: ogni essere umano che tu incontri, che vedi, con cui parli e che odi, è il figlio dell’uomo, in potenza, in divenire, in evoluzione. O vivi, ascolti, cogli conoscitivamente con le forze del cuore l’umano in ogni incontro, oppure il figlio dell’uomo per te non c’è, non ci sarà mai, non lo troverai mai! Chi è il figlio dell’uomo? Ogni uomo!
9,38 Lui disse: «Credo, o Signore». E si prostrò a lui.
Il cieco disse: credo, ho fiducia. Acquista fiducia non nel fatto che il Cristo è un caso unico, diverso da tutti gli altri, ma nel fatto che il Cristo rappresenta l’umano puro, ciò che tutti gli esseri umani hanno in comune. È l’opposto del dire: soltanto lui. L’interpre-tazione della teologia nei primi 2.000 anni di cristianesimo ha sempre teso (proprio perché era un cristianesimo incipiente) a sottolineare l’emergenza di eccezione del Cristo. Ma questo tipo di interpretazione fa a calci e pugni con il fenomeno di cui stiamo parlando, perché se l’umano vale soltanto per il Cristo, allora noi abbiamo la scusa per dire: Lui sì, ma noi no! E allora viene fuori che Lui ci salva, che la chiesa amministra la sua grazia, e noi siamo solo dei puri recettori. Invece tutto il testo va capito all’op-posto: o tu incontri, in me Cristo, l’umano che c’è in ogni essere umano, oppure tu l’umano non lo incontrerai mai.
Quella matrice interpretativa del Cristo come eccezione assoluta, è la componente di elitarismo che ogni essere umano deve vincere per sfociare nella comunanza dell’umano, è un aspetto del potere, è il voler essere migliori, è il credersi migliori di altri. Chi si crede migliore degli altri è peggiore perché ritiene ciò che è particolare più importante di ciò che è comune nella natura umana. Ciò che fa parte della natura umana ha un peso morale infinitamente maggiore che non ciò che ha una persona sola; ciò che è fattore di privilegio individuale divide gli uomini.
La mamma di Gesù, la Madonna, Maria, è sempre stata presentata come una privilegiata, ma questo è un insulto assoluto alla natura umana perché Dio non dà privilegi! Come può un privilegiato avere qualcosa di moralmente migliore della natura umana? O Dio ha creato nella natura umana il meglio che c’è dell’umano, oppure ha fatto i conti sbagliati. Quindi ogni privilegiato è meno dell’umano e per sfociare nell’umano deve vincere l’illusione del privilegio, del vanto.
Allora lui disse: credo Signore e inginocchiatosi, prostratosi, lo venerò. Fece la prostrazione, che è il modo classico di venerare una persona. Questo ci indica che è all’inizio della sua evoluzione, non è ancora alla fine, perché questo gesto del prostrarsi è il gesto incipiente che considera l’umano, il figlio dell’uomo, come qualcosa di esterno all’uomo. All’inizio è infatti esterno, però il cammino consiste nel farlo entrare in noi, nell’interiorizzarlo.
Il testo a questo punto chiude questo registro di incontro del Cristo col privilegiato-cieco nato e del cieco nato col privilegiato-Cristo, e risvolge il tutto in chiave di universalità. Quindi i conti tornano, non è che li ho inventati io! Leggiamo:
9,39 E disse Gesù: «Come crisi io sono venuto nel cosmo, affinché coloro che non ci vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi»
Gesù adesso sta parlando a tutti: Io sono venuto per porre uno spartiacque, per imprimere una svolta. Io sono il crinale dell’evoluzione. In greco c’è e„j (èis) “come”, e kr…ma (krìma) “crisi, acme, punto culminante, crinale, spartiacque”. L’origine della parola crisi è medica: tante malattie si svolgono in cicli settenari di sette giorni e al settimo giorno c’è la crisi, cioè il momento in cui si decide che o comincia a migliorare, oppure non c’è più niente da fare. Quindi è il punto culminante, lo spartiacque. Quando c’è una montagna prima si sale, si sale e si è in un certo tipo di registro; poi, quando si arriva in cima si cambia registro, non si può continuare nella stessa direzione, da lì vai in giù.
L’esperienza dell’Io è la grande svolta, lo spartiacque dell’evoluzione: Io sono venuto come spartiacque per scindere gli spiriti umani tra coloro che danno fiducia all’evoluzione, alla libertà del singolo e quindi vanno verso l’alto – l’evoluzione in positivo – e coloro che hanno paura della libertà del singolo. Quindi l’Io-sono divide l’essere umano in due, o di qua o di là: o si dà fiducia all’Io e si fa di tutto, si mette tutto a disposizione dell’evoluzione individuale dello spirito singolo, oppure non si dà fiducia all’Io singolo, lo si mette sotto sospetto e lo si riassorbe nei vari tipi di comunanza, e così facendo si omette l’individua-lizzazione.
Questo concetto di crisi, di spartiacque, è un annuncio di ciò che il Cristo dirà nel decimo capitolo: Io sono la soglia, la porta. Che immagine è quella della soglia? Cos’è una soglia? Una porta, con la sua soglia, divide una stanza dall’altra, divide lo spazio in due, dentro e fuori. Il Cristo, come porta, divide il tempo in due: prima di Cristo e dopo Cristo. “Io sono la soglia” significa: l’esperienza dell’Io è la percezione di due mondi diversi, di due evoluzioni diverse: un’evoluzione senza l’Io singolo e un’evoluzione con l’Io singolo. Cosa mi evidenzia che ho a che fare con due stanze diverse, che sto passando da una all’altra? La porta! Se non ci fosse la porta sarebbe una stanza sola!
Quindi il mistero della soglia è che l’Io-sono è la crisi, la grande svolta dell’umanità: fino a lì c’era stato un tipo di evoluzione condotta dall’elemento di gruppo come preparazione necessaria; da lì in poi c’è la svolta, cioè la possibilità sia di risalire, sia di discendere (Fig.4).
Prima della svolta non c’era la doppia possibilità della libertà, salire o scendere. Quindi la svolta dell’evoluzione è il creare la possibilità, la svolta sta nel nascere della libertà individuale: prima della svolta non c’era libertà individuale perché l’individuo era assorbito dal gruppo. La novità assoluta che ci fa parlare di due tronconi dell’evoluzione sta nel fatto che nella seconda metà c’è la possibilità della libertà individuale.
Questo ci fa dire che dopo 2.000 anni siamo ancora all’inizio di questo secondo tipo di evoluzione. Quindi il Cristo che dice: “Io sono venuto come crisi” sta dicendo: l’Io-sono, cioè l’esperienza dell’Io, è la crisi dell’evoluzione. L’esperienza dell’Io divide l’evoluzione in due: evoluzione senza Io come preparazione all’Io, ed evoluzione con l’Io, dove l’Io diventa decisivo. Le scelte dell’individuo decidono della sua evoluzione; perché l’individuo che va giù o che va su, nella sua libertà, non può più prendere scuse o rendere responsabile un gruppo per la sua evoluzione verso la salita o la discesa. Responsabile è lui, perché ne ha la capacità.
La capacità di decidere delle proprie sorti viene dalla capacità di pensare e di capire con la propria testa ciò che fa bene e ciò che fa male, ciò che fa evolvere e ciò che fa involvere, ecc. L’esperienza dell’Io è la svolta dell’evoluzione, la grande crisi dell’evoluzione, perché crisi significa: adesso devi scegliere o su o giù!
Il testo adesso ci dà la fenomenologia di questa crisi, di questa svolta, bellissima: “Io sono venuto nel cosmo affinché coloro che non ci vedono vedano e coloro che ci vedono diventino ciechi”. L’Io-sono è, nel cosmo, l’esperienza di crisi, di decisione radicale: crisi significa decisione radicale, orientamento radicale, in positivo o in negativo. Porta un cambiamento totale di registro, un’inversione totale: quelli che ci vedevano diventano ciechi, e quelli che erano ciechi ci vedono. Che vuol dire?
Coloro che fino al punto della svolta hanno vissuto della veggenza pre-egoica, atavica, devono smettere di vederci e devono diventare ciechi; quindi questo cieco nato li precede nell’evoluzione, perché lui è già diventato cieco, gli altri devono ancora diventarlo. Ma il presupposto per diventare ciechi è rendersi conto che lo si è, ammettere che lo si è, perché comincia a vedere lo spirituale soltanto colui che non lo vedeva già prima! Il modo antico di veggenza non veniva dall’Io, non era una conquista della libertà individuale: questo tipo di veggenza ora rende cieco l’essere umano perché, con la svolta, ha finito di condurlo.
Questo diventare ciechi, cioè questo terminare della veggenza antica, è il presupposto per poter acquistare un altro tipo di vista, quella della percezione sensibile, che a sua volta è il presupposto per diventare veggenti nel pensiero, individuale, libero.
Più tardi, dopo la resurrezione, vedremo che il Cristo dirà a Tommaso: “Beati coloro che credono anche senza aver veduto”: credono per forza di pensiero, in base alla percezione sensibile, senza aver veduto chiaroveggentemente la realtà dello spirito. In altre parole, beati sono coloro che vivono la sostanzialità reale dello spirito nel pensare, perché questo spirito è conquistato dalla libertà del singolo!
Adesso continua dicendo: “… sono venuto perché coloro che non vedono vedano” ecco il cieco nato “e coloro che vedono diventino ciechi” questi sono i farisei, i giudei, che pensano di vedere e quindi non sanno di essere ciechi. E come mostrano di essere ciechi? Hanno lì il Messia, il loro Messia, e lo vedono?, No!, più ciechi di così!
9,40 Dei Farisei sentirono queste cose, quelli che erano attorno a lui e gli dissero: «Forse anche noi siamo ciechi?».
Coloro che erano attorno a Lui. Quindi adesso c’è già una distinzione fra coloro che gli sono più vicini e coloro che gli sono più lontani: non tutti sentono. Queste del vangelo sono qualificazioni non soltanto geografiche, esteriori, ma anche proprio evolutive, psichiche.
E gli dissero: “Forse che anche noi siamo ciechi?”. Intendono dire: noi ci vediamo, mica siamo nati ciechi – infatti appartengono alla categoria di coloro che si ritengono vedenti. Ma la conseguenza logica di ciò che ha detto il Cristo è: se pensate di far parte di coloro che ci vedono siete destinati a diventare ciechi, perché la legge evolutiva è che, alla svolta, chi ci vede diventa cieco e chi è cieco riacquista la vista, un altro tipo di vista. Perciò quei farisei chiedono: noi a quale categoria apparteniamo? Appunto alla categoria di coloro che si ritengono vedenti.
Certo che il testo gioca sul fatto di vedere fisicamente e di vedere spiritualmente; fisicamente ci vedono, però spiritualmente (che è la cosa più importante) sono assolutamente ciechi, perché hanno lì il Messia, di cui parlano tutte le loro Scritture che venerano e leggono ogni sabato, e non lo vedono! Più ciechi di così!
9,41 Gesù disse loro: «Se foste ciechi non avreste peccato alcuno; invece siccome dite: Noi vediamo, il peccato vostro rimane».
Voi dite di essere vedenti e in questo sta il vostro peccato. Il peccato in che cosa consiste? Che definizione di peccato c’è qui? È il non cogliere la propria carenza, non averne consapevolezza - quello è il peccato. Se voi foste consapevoli di essere ciechi non vi mancherebbe la consapevolezza del vostro stato e quindi non ci sarebbe peccato: direste, concedereste, ammettereste di essere ciechi, quindi di essere bisognosi di acquistare la vista e sareste a posto. Invece pensate di avere già la vista e allora non la cercate e il non cercarla è il grande peccato, perché chi non cerca non trova.
Quindi il primo passo è di dire a se stessi: io sono il punto infimo dell’evoluzione, della lacuna dell’universo, come dice Dante, il punto infimo della caduta dell’umanità, sono costituzionalmente cieco.
C’è qui tra noi qualcuno che vede, che vede lo spirituale? Gli do subito il microfono! Faccio un piccolo aggancio: dall’umanità è saltato fuori, neanche un secolo fa, un vero vedente, Rudolf Steiner: l’hanno messo in croce (è una metafora) ed è stato scartato perché gli esseri umani non vogliono concedere, non vogliono accettare di essere ciechi. Il materialismo che cos’è, se non cecità assoluta? Vede lo spirituale così poco che addirittura ne nega l’esistenza. Ma il gran peccato non è di essere ciechi, è quello di ritenersi vedenti; perché se uno sa e ammette di essere cieco, cerca la vista!
Abbiamo così terminato questo nono capitolo, di nuovo un capitolo meraviglioso; stasera cominciamo col decimo. Abbiamo una mezz’oretta per sentire contributi, domande.
Intervento: Lei ha affermato che Abramo fu il primo ad avere un tipo particolare di cervello, caratteristica che fu trasmessa ereditariamente e dopo 2.000 anni possiamo dire di essere tutti padroni di quell’organo. Steiner dice proprio: fu un organo delicato… Allora mi viene la curiosità di sapere: in biologia occulta, cosa può essere questo organo?
Archiati: Il cervello!
Intervento: Ma prima non c’era il cervello?!
Archiati: C’era “un” cervello; quando noi diciamo “il” cervello indichiamo milioni e stramilioni di cesellature della massa grigia. La malattia detta “mucca pazza” che cos’è? È che nel cervello di quest’uomo che si è ammalato prima c’erano forme molto più cesellate, molto più incise, che con la malattia diventano più sfocate, più “pappa molla”; non consentono più il pensare speculare, il cervello non può più riflettere i pensieri, cioè le correnti eteriche in cui sono contenuti i pensieri. Il cervello si è un pochino, seppur minimamente, spappolato.
Intervento: Comunque la mucca pazza è una malattia, è un fenomeno traumatico dovuto a qualcosa di negativo, mentre in senso evolutivo se prima di Abramo questo cervello non c’era e in Abramo nasce per la prima volta, evidentemente è un fatto di natura: prima era in un modo e poi in un altro.
Archiati: No. I cervelli umani prima di Abramo erano tutti più spappolati; il nuovo in Abramo è che le cesellature del cervello diventano di un gradino più fini. Questo è il fenomeno fisiologico, importantissimo perché ci fa capire anche il fenomeno della mucca pazza, che è di retrocessione nell’evoluzione.
Intervento: Come facciamo a sapere questo?
Archiati: Perché prima della malattia si esprimevano pensieri ben pensati, poi no. Come fai a sapere se una persona dà i numeri?
Intervento: Questo ha a che fare con l’io?
Archiati: Lo spero bene! Ha a che fare con tutta la persona. Ma come ti accorgi tu che dai i numeri?
Intervento: Io da solo non posso rendermi conto se do i numeri, perciò dovrei dar fiducia a chi mi dice questo.
Archiati: Non sto dicendo di te, ma di un altro: come sai se dà i numeri? Questa è la domanda, dimmi la risposta.
Intervento: C’è una sconnessione.
Archiati: Allora lo sai, vedi che lo sai! Io sto dicendo che questa sconnessione non può avvenire senza che ci sia il corrispondente fisiologico, perché nell’essere umano, sempre, su tutta la linea, non si può avere un fenomeno nell’anima senza che ci sia un fenomeno parallelo nel corpo. Se nel corpo succede una malattia, questa non riguarda soltanto quella cellula lì e le altre no: l’essere umano è una realtà organica unitaria, ciò che avviene in una componente si traspone in tutto l’essere.
Il fenomeno Abramo è il sorgere di un cervello di gran lunga più cesellato che non i cervelli che c’erano prima, che avevano soltanto la coscienza immaginativa. Un cervello capace di riflettere specularmente le rappresentazioni deve essere fisiologicamente molto più cesellato, non può essere spappolato – basta un minimo di spappolamento per dare i numeri, è una cosa straordinaria. Queste cose dovrebbero indurre ogni scienziato minimamente intelligente a rendersi conto che nell’essere umano non c’è soltanto materia.
Intervento: Alla fine di questo capitolo si parla soltanto dei farisei, non più degli ebrei: come interpretarlo?
Archiati: Abbiamo visto un colloquio con i farisei, poi un colloquio con i giudei e alla fine non ci sono più i giudei ma i farisei e, tra l’altro, solo alcuni, quelli più vicini al Cristo. Ritorna quello che io dicevo: i giudei hanno in comune maggiormente la realtà corporea, i farisei in più hanno, diciamo, un amore specifico, scelto e speciale per la legge mosaica. Quindi il giudeo ha soltanto un presupposto corporeo, il corpo di Abramo, mentre il fariseo ha due presupposti: coltiva sia l’elemento abramitico che quello mosaico e quindi è fra quelli che sono maggiormente vicini a sfociare nell’Io. Ecco perché alla fine si parla dei farisei e non più dei giudei in generale, e neanche di tutti i farisei ma di coloro che gli sono vicini, cioè coloro che hanno sentito.
È per caso che sono vicini? No, il karma non fa le cose per caso; proprio perché sono pronti sono capaci di sentire, si espongono a questa voce che colgono e quindi a loro viene dato l’ammaestramento con cui finisce il capitolo. Un giudeo, in quanto giudeo, non è ancora in grado di fare questo tipo di riflessione, perché il giudeo non si è ancora fatto pensieri: se è cieco o se non è cieco… non capirebbe nulla (adesso ho detto le cose in modo più netto). Invece nei farisei il Cristo vede il presupposto per capire questo discorso. In altre parole, il fariseo è colui che si ritiene a posto e perciò bisogna dirgli che non a posto è soltanto l’essere umano che si ritiene a posto, perché è quello che non cammina più. Il giudeo, come giudeo normale, non è una persona che ci tiene assolutamente ad essere a posto. Il fariseo è colui che vuole essere a posto e si sente a posto: io ci vedo, non sono cieco.
Intervento: Che rapporto c’è tra l’organo, che è il cervello, e la mente, il pensiero, la coscienza? Per il materialista esiste solo il cervello, esiste l’organo, e il pensiero è una secrezione del cervello. Invece tu proponi una visione più ampia: la mente che rapporto ha con l’organo?
Archiati: Gli occhi secernono le lacrime, il cervello secerne pensieri. C’è qualcosa che non va?
Intervento: I pensieri sono immateriali, le lacrime sono materiali, si vedono; il pensiero è abbastanza intangibile, non ha forma (io almeno sono a questo livello, non vedo la forma del pensiero).
Archiati: Che significa immateriale? Il pensiero è una forma di energia, ma anche la materia produce energia dappertutto, i fisici ti parlano continuamente di energia.
Intervento: Che non ha peso, possiamo dire.
Archiati: Anche l’energia non ha peso.
Intervento: Stiamo parlando di lacrime e pensiero.
Archiati: Il pensiero è energia, non ha peso; ma il fisico ti parla di energia. Questo problemino non è da poco e non rendiamolo facile cercando scorciatoie. In Germania salta fuori a ogni conferenza.
Intervento: Mi chiedevo se poteva esserci un messaggio divino inserito nel cervello di Abramo.
Archiati: Il materialista ti obietta: ma di che stai parlando?!
Intervento: Il messaggio divino è prima elaborazione…
Archiati: Aria fritta!
Intervento: …che si matura; in un contesto più elevato, la legge pensiero, il ragionamento, è l’obbligo di un Dio che prima non c’era.
Archiati: No. Il problema è che un materialista, dopo che tu hai detto tutte queste belle cose, ti risponderebbe: ma stai dando i numeri?! Capito? ma proprio te lo dice, eh! Noi stiamo affrontando un problema, ci stiamo chiedendo: ma che fenomeno è questo materialista che ti dice: stai dando i numeri? Non state in silenzio, qui ci vogliono contributi.
Intervento: La causa del pensiero è l’anima.
Archiati: L’anima, cos’è l’anima?
Intervento: L’occhio secerne la lacrima, ma la causa della lacrima non è l’occhio di per sé ma è una sofferenza o una risata, una causa interna, la psiche dell’uomo, un’emozione.
Archiati: L’emozione è un secreto umorale come tutti gli altri. Cos’è un’emozione?
Intervento: L’energia è immateriale però si misura, ma l’energia del pensiero non l’ha misurata nessuno, quindi in senso materialistico c’è questa differenza.
Archiati: Sei tu che parli di energia di pensiero, il materialista ti dice che parli di nulla, di qualcosa che non esiste, che ti sei inventato tu.
Intervento: Un organo come il cervello può produrre pensieri spirituali?
Archiati: La categoria spirituale te la stai inventando tu.
Intervento: Ma il pensiero è spirituale.
Archiati: Quel materialista continua a dirti: inventi qualcosa che non esiste.
Intervento: Che però sperimenta ogni giorno anche lui.
Archiati: Così come sperimenta che gli fa male la bile: è un epifenomeno della biologia.
Intervento: Il materialista è consapevole di non sapere come pensa: lui sa che non sa come pensa.
Archiati: Lo dici tu che non lo sa! Lui continua a dirti che il soprannaturale te lo sei inventato tu: mica perché ti inventi qualcosa questa deve esistere. Il soprannaturale te lo sei inventato tu.
Intervento: Il materialista non riconosce il soprannaturale, ma sa anche che non sa come pensa.
Archiati: No, questo non te lo concederà mai; sono mica così stupidi i materialisti, anzi sono intelligenti. Perciò la cosa non è così semplice.
Intervento: Poniamo due pensieri: mettiamo che il primo pensiero sia positivo e il secondo negativo; poi facciamo scrivere a tutti cosa hanno provato, come si sono sentiti pensandoli. Questo fenomeno non è materiale, né si può dire che sia un fenomeno diverso nell’uno o nell’altro.
Archiati: Se non fosse materiale non dovrebbe essere determinato dal corpo materiale, va bene? Il materialista può ancora obiettare: supponiamo che vi ammazzo tutti quanti e qui ci sono tutti i cadaveri. Siccome il pensiero è cosa spirituale e non viene prodotto nella materia, allora qui ci dovrebbero essere, oltre ai cadaveri, tutti i pensieri di chi è stato ucciso, tali e quali i presenti: ma dove sono i pensieri? Li vediamo?
Allora il Cristo ci dice che lo scienziato materialista è colui che è cieco ma è convinto di vederci. E il Cristo ci sta dicendo: con il materialista non c’è nulla da fare, si potrà fare qualcosa soltanto quando si renderà conto che è cieco. In altre parole non è convincibile. E ha ragione lui! C’è un limite al discutere oltre il quale si entra nella prevaricazione della libertà dell’altro; e allora lì bisogna terminare. Quando io ero un po’ più giovane continuavo a “picchiare” e andavo oltre questo limite; e l’altro mi diceva: adesso hai rotto le scatole! Giustamente, perché non erano più botte sull’argomento in discussione, ma erano sul principio.
A quel punto lì, se si è antroposofi, si beve un tè insieme, se si è esseri umani un po’ più intelligenti, si beve una birra! Che cosa volete provare la realtà dello spirito, addirittura indipendente dalla materia, a una persona che ritiene questa affermazione la più bacata che esista?
Intervento: …col pericolo di essere abbattuti (come per le mucche pazze), dal primo veterinario di turno, tacciati di spondilosi. Però c’è l’entusiasmo di voler insistere.
Archiati: Certo, di convertire! Siamo tutti missionari e non ce ne accorgiamo e così prevarichiamo. Il veterinario ti sbatte fuori, l’abbiamo appena visto! Quando ti si sbatte fuori, cosa ti salva? Il godere di stare con le gambe fuori! – io non me la sono mai goduta nella mia vita fino a quando la chiesa cattolica non mi ha sbattuto fuori: finalmente!
È arrivato il punto in cui la discussione con i farisei è finita, basta! E a quel punto lì, a quella crisi lì, c’è il rispetto per il figlio dell’uomo: hai diritto alle tue idee non più e non meno di quanto io abbia diritto alle mie. Questa dualità è la comunanza umana! Beviamo una bella birra insieme? Un bicchier di vino?
Chi invece continua a insistere per convertire è la chiesa, col suo fattore di settarismo che vuole per forza incamerare l’altro. Ma questo è un fenomeno di gruppo: io ho bisogno di incamerare e ho bisogno che l’altro mi dia ragione, se no sono debole. E se sono debole cerco più potere.
Intervento: Non posso accettare di stare nel torto altrimenti perdo il potere che ho.
Archiati: No: se ho il dubbio di stare in torto mi sento deboluccio. È lo stesso che per i farisei. Il vangelo diventa immediatamente attuale.
Intervento: Non avevano più argomenti, per questo secondo me l’hanno sbattuto fuori.
Archiati: No: se non avevano più argomenti potevano lasciarlo lì a finir di parlare. Nello sbattere fuori c’è l’impulso volitivo; i farisei passano da un esercizio intellettuale di coscienza, di conoscenza, a un esercizio di impulsi volitivi. Sbattendolo fuori dichiarano che è una minaccia al loro potere, e il potere non ha nulla a che fare con la conoscenza: è un fattore di gestione volitiva delle cose del mondo. I farisei difendono il loro potere.
Intervento: Quando uno non ha più argomenti aggredisce.
Archiati: Ah! questo mi piace come fenomeno, che quando uno non ha più argomenti aggredisce. Che vuol dire?
Intervento: È una cosa che vediamo spesso.
Archiati: Che vuol dire: non ha più argomenti?
Intervento: Secondo me loro avevano capito benissimo quello che lui stava dicendo.
Archiati: No, rendi troppo facili le cose, vacci piano! I farisei, i capi religiosi di allora, si stanno confrontando col dilemma reale di questo qui che trasgredisce il sabato e, d’altra parte, guarisce il cieco nato. Concedi loro di star lottando con questo dilemma insolubile, non metterli subito in cattiva fede. Si dicono: il sabato è la legge più sacra che Jahvè ci ha dato, e Mosè dice che di sabato dobbiamo riposare, non dobbiamo far nulla. Questo trasgredisce pubblicamente il sabato, come può venire da Dio?!
Intervento: Di fronte a quello che aveva fatto Gesù, ridare la vista al cieco, la questione del sabato diventa irrilevante.
Archiati: Lo dici tu. Per i farisei di miracoli ne ha fatti anche il diavolo, e si deve onorare chi osserva la legge mosaica. Mettiti nei loro panni, non cercare di mettere loro nei tuoi.
Intervento: I farisei non accettano. Invece la chiesa cattolica accetta, perché pone l’essere umano davanti a se stesso, davanti alla propria coscienza, e attraverso la comunione, introducendo il corpo e il sangue di Cristo, entrano le forze necessarie per superare l’ostacolo, l’ostacolo della cecità del cieco.
Archiati: Commenti? Perché se parlo io…
Intervento: Riguardo a ciò che ha detto questo signore, che per la chiesa la comunione è un mezzo, io direi assolutamente di no. La consacrazione invece rimane comunque, al di là della chiesa.
Archiati: Cos’è la consacrazione?
Intervento: È la comunione.
Archiati: Io vengo dalla Germania… mi parli di consacrazione?
Intervento: La comunione, parliamo della comunione.
Archiati: Cos’è la comunione?
Intervento: È il sacramento della comunione.
Archiati: Spiegalo a uno per il quale la comunione è aria fritta.
Intervento: È la comunione con il corpo di Cristo a livello spirituale; ma anche a livello materiale, perché la comunione è fisica.
Archiati: Non ci capisco nulla! Sono il solo a non capirci nulla?
Intervento: Il Cristo parla anche di questo e ci insegna la comunione, o no!?
Archiati: Ma io ti sto chiedendo: spiegami cos’è la comunione, che non so cos’è.
Intervento: È un simbolo di rinnovamento interiore. Accettando Dio dentro di noi dovremmo responsabilizzarci di più con la nostra coscienza. Appunto ingeriamo il pane e il vino.
Archiati: Posso fare tutto questo senza andare a fare la comunione. E alcuni che non vanno a fare la comunione sono migliori di certi che la fanno.
Intervento: Non sono convinto. Io dico sempre che la rappresentazione è il corpo e il sangue; noi mangiamo un pezzo di pane e beviamo un goccio di vino, ma la realtà secondo la spiritualità dell’atto è il corpo e il sangue del Cristo.
Archiati: Quando mangi a tavola non hai nulla a che fare con il corpo di Cristo?
Intervento: La comunione è un rito, a tavola non faccio un rito, a tavola mi strafogo!
Archiati: Mi dispiace per te, perché se tu fai il rito soltanto mezz’ora alla settimana sei un poveraccio. Io lo faccio 24 ore su 24. Vorrei.
Intervento: Ma quello è rito.
Archiati: Spiegami cos’è un rito.
Intervento: L’altro è alimentarci, che è ben diverso dal rito, per chi intende il rito cristiano.
Archiati: Che differenza c’è?
Intervento: Che noi lì facciamo un rito, facciamo un atto sacrale, una cosa che ci predispone l’anima verso lo spirito. A tavola mangiamo ciò che ci serve per vivere materialmente; invece nella comunione ci rivolgiamo a Dio con tutta l’anima e tutto il nostro essere. Siamo lì di fronte alla nostra coscienza.
Archiati: Una religione avulsa dalla vita. A che ti serve “assimilare” il Cristo mezz’ora in chiesa se non lo fai tutti i momenti?
Intervento: Ma io lo faccio continuamente, con i pensieri. Ma quando vado in chiesa, lì sono proprio davanti a Dio.
Archiati: Ah, quando non sei in chiesa non sei davanti a Dio?
Intervento: Ci sono anche quando sono in casa, ma in casa non posso compiere un sacramento, perché non ho davanti a me Gesù che mi dà questa comunione.
Archiati: Ah, in chiesa hai davanti a te Gesù e in casa no?
Intervento: No.
Archiati: Venire a capo con un bravo cattolico non è più facile che venire a capo con lo scienziato che avevamo prima: mi pare che il compito non sia più facile! Guarda che tu, ora, hai fatto una cosa bellissima.
Intervento: Ma io… le mie azioni, la mia vita è così.
Archiati: Considera che un sacco di gente, onesta quanto te, ti dice sinceramente che stai dando i numeri. Ti sei accorto di questo?
Intervento: Beati loro …
Archiati: No. Li rispetti? Li rispetti o no?
Intervento: Sì, li rispetto.
Archiati: Allora rispetta anche i numeri!
Intervento: Probabilmente darò i numeri …
Archiati: E questo non ti crea problemi?
Intervento: No, perché i miei numeri sono quelli che mi sono stati sempre insegnati. E poi stiamo facendo questa conferenza sui vangeli, parlando di Cristo: e Lui dice che dobbiamo assimilarlo attraverso il rito della comunione.
Archiati: Dove dice questo?
Intervento: Nell’ultima cena.
Archiati: Dove? Nel vangelo di Giovanni non c’è neanche.
Intervento. Lui sta dicendo: vado a fare una bella mangiata e alimento il corpo, ma quando vado in chiesa, quella mezz’ora, alimento lo spirito. Io voglio chiedergli: perché c’è questa divisione fra spirito e corpo?
Intervento: Il rito che mi è concesso perché io possa avere il Cristo dentro di me è basato su simboli che sono il pane e il vino; questo è quanto faccio. Poi, se c’è da fare distinzione, ognuno dentro di sé farà le sue ricerche. Io ho compiuto un atto sacrale che se non è nel vangelo di Giovanni ci sarà in altri vangeli, perché essi pure spiegano la verità.
Intervento: Hai riferito il gesto del Cristo a una cena; io, quando pranzo o ceno, non posso pensare che è sempre cibo cristianizzato? Che cibo può nascere sul pianeta Terra senza la forza del Cristo? Allora qual è la differenza fra la comunione e il cibo quotidiano? Sono stata allevata anch’io come te, però ricordo che c’era una preghiera anche prima del pranzo e della cena.
Intervento: Quella è la preghiera del ringraziamento, perché ci è stato concesso il nostro alimento corporale.
Intervento: Anch’esso è un atteggiamento di sacralità…
Intervento: Mentre invece quando uno compie una comunione, il fatto diventa corrispondenza: infatti prima si confessa, cioè mette a nudo la sua coscienza perché possa poi trovare, attraverso il Cristo, una parte della sua anima purificata (attraverso l’acqua purificatrice della confessione).
Archiati: Allora riassumo: tra cieco nato e farisei, la conversazione è terminata col fatto che lui è stato sbattuto fuori. Questo gesto ci indica che nella conversazione tra esseri umani ci sono due stadi: il primo è quello della discussione, del discorso che va avanti e indietro; questo stadio ha un senso finché a vicenda ci si capisce e ci si può completare. Poi nella conversazione arriva un punto in cui diventa assurdo e bisogna smettere di voler controbattere, perché non ci sono più i presupposti per capirsi veramente. Allora bisogna interiormente fare una svolta e dire: adesso basta voler controbattere, adesso ascolto puramente ciò che mi viene incontro e le cose come sono e lui così com’è. Si tratta soltanto di accoglierlo; da quel punto mi proibisco di essere in accordo o in disaccordo, perché ogni ulteriore controbattere peggiora la situazione, crea l’esperienza di un rifiuto.
Ci sono due livelli di comunicazione: un livello intellettuale dove si cerca, nella misura del possibile, di fecondarsi a vicenda nei pensieri; e c’è un livello dell’amore, un livello morale, dove si tratta di accettare, di accogliere, di capire l’altro più che si può, senza sindacare, perché non si tratterebbe più di sindacare sui suoi pensieri, ma su di lui, e l’altro lo vivrebbe come un rifiuto della sua persona.
Intervento: Volevo dire solo una cosa sull’Eucaristia. C’è qualcosa dentro l’uomo, il bisogno di un momento che sia un simbolo. Nella storia dell’umanità il rito c’è in tutte le manifestazioni spirituali di tutte le religioni. Negli interventi di prima, tra il pubblico era lui solo a difendere, a spezzare una lancia a favore dell’Euca-ristia; però, in forme diverse, nell’essere umano c’è questo momento in cui concretizza in un gesto tutto un discorso più vasto, più grande. In un gesto, c’è qualcosa che va alla radice dell’uomo. Al di là dell’essere cristiano, cattolico, ecc. non c’è religione, non c’è manifestazione dello spirituale che non abbia una ritualità. E l’uomo la ricerca in tutto il mondo e in tutte le religioni.
Archiati: Tu hai fatto un passo indietro, sei tornato nella fase dialogica. Gli stai dicendo che questa rivalutazione per il rito è un elemento universale umano, perché lo fanno anche i buddisti.
Intervento: Un rito per me è un rito, se libera l’uomo nella sua coscienza e la eleva.
Archiati: Allora è un rito anche quello che stiamo facendo adesso.
Intervento: Certo.
Archiati: Ma prima dicevi che era diverso! Siamo tornati nella fase dialogica, vediamo se ci riesce di….
Intervento: No, non ci siamo tornati, non credo proprio: dico ancora una volta che per me il simbolo della comunione è ciò che io posso dare a Dio attraverso la mia coscienza, attraverso quell’atto. Perché Lui ci ha insegnato così, anche se Giovanni non lo dice.
Archiati: Vedi che siamo al di là del possibile!
Intervento: La seconda parte di quello che hai detto è giustissima, perché quando si arriva ad un punto di contrasto si perde la comunicazione.
Archiati: Non di contrasto, ma di orizzonti, i quali sono uno accanto all’altro.
Intervento: È giusto interrompere questo dibattito perché sembra un processo!
Archiati: Vi auguro buon appetito!
Martedì 26 agosto 2003, sera
vv. 10,1 - 10,10
10,1 «Amen, amen, dico a voi: colui che non entra attraverso la porta nell’ovile delle pecore, ma che sale dentro da un’altra parte, colui è un ladro o un brigante».
Questa frase è un po’ enigmatica e va compresa. Già ieri accennavo al fatto che questo scritto lo si può trasformare in una specie di lemniscata: c’è un lato, c’è un altro lato e la porta è il punto di incontro: la soglia.
La consapevolezza della soglia è il rendersi conto di due mondi distinti: quando entro dal mondo B nel mondo A, se ho una consapevolezza della soglia ho la percezione di lasciare il mondo B, di passare per la porta ed entrare in A, perché sono mondi diversi.
Un primo esempio di questi due mondi A e B è il mio mondo interiore e il mondo esterno. Fate voi questa distinzione tra il vostro mondo interiore e il mondo esterno? Sì! E chi vi ha insegnato questa differenza? L’esperienza.
Un bambino di tre anni percepisce questa soglia? Dice: adesso esco dalla mia interiorità e faccio attenzione a qualcosa fuori di me, adesso invece rientro nella mia interiorità e faccio attenzione ai miei sentimenti ecc...? No. L’esperienza della soglia è la percezione di due mondi diversi, con leggi diverse, con la capacità di seguire consapevolmente quando sono nell’uno e quando sono nell’altro.
Io so, da adulto, che quando sono nel mondo esterno si tratta di ascoltare l’altro, e quando sono in quello interno si tratta di esprimere me stesso: sono cose del tutto diverse, polari, come una lemniscata. La capacità di percepire la soglia, la porta, è dunque la capacità di distinguere le polarità dell’esistenza tra l’Io e il mondo. Il bambino piccolo non ha consapevolezza della soglia, non sa ancora della differenza tra interiorità ed esteriorità, tra io e mondo e perciò non è libero.
La libertà presuppone la consapevolezza di mondi diversi e la capacità di orientarsi a seconda delle leggi del mondo in cui si è, perché se non osservo le leggi di interazione col mondo in cui mi trovo, sarò io a pagarne le spese. Quando io sono nella mia interiorità e ho a che fare con i miei pensieri e sentimenti, se non so come gestire liberamente le interazioni con me stesso, sono un uomo non libero. Quindi il cogliere la soglia è uno dei presupposti fondamentali per la libertà, che è muoversi in mondi diversi percependo quando si passa dall’uno all’altro. La forza che fa cogliere la soglia è la forza dell’Io. Sono io che mi muovo nel mondo A, sono io che passo per la soglia, e adesso sono io che entro nel mondo B.
Un esempio: negli ultimi cinque minuti ho fatto di tutto per far capire all’altro ciò che io penso, ecc.; adesso decido: basta, adesso voglio ascoltare lui. Cosa significa che mi metto in ascolto di lui? Significa che passo la soglia, esco dal mio mondo e ho la percezione della soglia: lascio un mondo, ma lo lascio io però, sono io che lo lascio ed entro nel suo mondo, terminando di dire quello che sto dicendo.
La percezione del passare la soglia è uno degli esercizi più fondamentali della forza dell’Io, perché se non sono un Io non posso rendermene conto. L’Io è la forza di percepire mondi diversi, mondi polari, è la capacità di muoversi dall’uno all’altro, percependo il passaggio, però, il cambiamento di registro, il cambiamento di leggi di funzionamento. Allora il Cristo dice: la forza dell’Io è la forza che fa passare da un mondo all’altro.
Ho portato un esempio fondamentale di soglia: mondo interno e mondo esterno. Ne troviamo altri?
La nascita e la morte. Prima della nascita sono nel mondo spirituale ed ecco che l’Io-sono, il Cristo, le forze del Cristo, l’Essere dell’Io, mi accompagna, mi rende consapevole che lascio un mondo con leggi tutte proprie ed entro, attraverso la soglia della nascita, in un altro mondo, nel mondo fisico. Prepararsi alla morte, all’opposto, vivere liberamente la morte da Io, significa – come ha fatto Socrate per esempio, ma il Cristo in modo esemplare – decidere liberamente e consapevolmente, nell’Io superiore, di lasciare questo mondo, di passare per questa soglia potente, bellissima della morte ed entrare nell’altro mondo, che ha leggi del tutto diverse perché non siamo più incarnati.
Altro esempio: addormentarsi e svegliarsi. Avere coscienza della soglia è dirsi: stai attento, preparati, perché quando ti addormenti entri in un mondo diverso e non ti giova entrarci con lo stesso stato d’animo con cui vivi. Preparati perché entri in un altro mondo. La consapevolezza della soglia (quando ci si addormenta, quando ci si sveglia) ha fatto sorgere nell’umanità – e questo è di sicuro un dono dell’Io-sono, del Cristo – la possibilità di fare un esercizio di soglia: la meditazione. Prima di addormentarmi, con la meditazione mi metto in questo atteggiamento di soglia: adesso entro in un mondo spirituale, dove la materia non è una realtà e dove ci sono Esseri spirituali intrisi di amore… Quando mi sveglio non devo fare come se non ci fosse un passaggio di soglia: entro nel mondo fisico quando mi sveglio, e passo la soglia quindi, nella meditazione, cerco di recuperare, di portare a memoria il più possibile di ciò che ho vissuto nell’altro mondo. Attraverso la meditazione rispetto la sacralità del sonno, entro nel sonno con un gesto sacrale, e poi la sacralità del risveglio. Tutto ciò fa parte della coscienza della soglia.
Altro esempio: uno in treno viene in Italia dalla Germania (o viceversa). La frontiera è una soglia, non soltanto cambia la divisa dei facchini, ma significa: adesso sta’ attento, hai a che fare con esseri umani diversi. Già la lingua stessa è una soglia enorme, entri in un altro registro di linguaggio.
Se varchi la soglia con consapevolezza devi cambiare il tuo atteggiamento interiore, perché entri in un altro mondo; quante esperienze di soglia ci sono? A seconda del gradino evolutivo della coscienza di ognuno. Il concetto di soglia, nel suo significato più vasto, è quello di “differenza”: ogni differenza è una soglia, perché fino a che continua lo stesso registro non c’è alcuna soglia! Quando comincia qualcosa di diverso passi una soglia, lasci quello che c’era e cominci quel che è diverso. Il altre parole, la percezione della soglia è proprio un cammino evolutivo della coscienza senza fine, perché ogni minima variazione che esiste è una soglia!
Chi suona l’armonium, per esempio, deve cambiare registro proprio in senso reale: fin qui c’era ad esempio il registro fortissimo, poi eccone un altro, il pianissimo; chi suona percepisce che deve cambiare registro, ma se non percepisce la soglia e continua per cinque battute il fortissimo là dove invece ci dev’essere il pianissimo, poveri noi!
La forza del Cristo è quella che media, la forza del mezzo, la forza mediante, perché è la forza della consapevolezza della soglia.
Maschile e femminile, altro esempio; se noi ci ascoltassimo vicendevolmente con più attenzione, anche del cuore, faremmo tutt’altra esperienza quando parla un maschio e quando parla una donna, perché sono due mondi diversi. Sta a me percepire la soglia, il passaggio di registro. E perciò poco più avanti il Cristo dirà: “Io sono la porta.”
Molti teologi hanno difficoltà con l’immagine del Cristo che si paragona ad una porta: finché dice “sono il buon pastore” è facile, perché il pastore è pieno di amore per le pecorelle, le conduce, ecc., ma la porta che fa? Non si apre neanche da sola, la devi aprire tu…
Le due immagini fondamentali del Cristo sono al v.7 che dice “Io sono la porta” e al v.14 che dice “Io sono il buon pastore” (e queste sono, tra l’altro due espressioni dell’Io-sono). Cosa vi sembra più cristico: il Cristo che dice “Io sono il buon pastore” o quello che dice “Io sono la porta”? Lo stadio del pastore precede quello della porta, perché il pastore conduce delle pecorelle che ancora hanno bisogno del pastore; invece la capacità di cogliere la soglia è una capacità del tutto interiorizzata.
Il Cristo, dapprima fuori di me (e da lì deve cominciare) è il pastore che mi guida; però il punto di approdo di questa guida è che non vuol restare esterna, ma vuol venire interiorizzata ad un punto tale che io stesso, attraverso il Cristo in me, ho la percezione di quando sono dentro l’ovile e di quando esco e pascolo. Allora il Cristo diventa in me la forza di percepire la soglia. Ora ritorno nell’ovile, cioè sono nella mia interiorità, e ora varco la soglia dell’ovile ed esco verso il mondo.
È chiaro perciò che dove il Cristo dice “Io sono la porta” è uno stadio evolutivo più avanzato che non dove dice “Io sono il buon pastore”. Tant’è vero che il cristianesimo tradizionale è cominciato, per i primi 2.000 anni, con il cristianesimo petrino, con i pastori – proprio pastori sono chiamati i sacerdoti dei protestanti –; ma ora che siamo alla soglia della seconda venuta del Cristo, ci rendiamo conto che questi pastori diventano sempre meno conducenti, perché l’individuo aspira sempre più ad interiorizzare il Cristo.
Oggi non vivo più il Cristo come pastore che mi dice dal di fuori dove andare, dove sono i pascoli, dov’è l’erba da mangiare, ma lo interiorizzo a un punto tale che dal di dentro colgo le molte soglie che ci sono, i passaggi da un mondo all’altro. E perciò si capisce come la teologia tradizionale comprenda maggiormente l’immagine dove il Cristo dice “Io sono il pastore”, e faccia più fatica a comprendere “Io sono la porta”.
Nella scienza dello spirito di Rudolf Steiner il concetto di soglia è uno dei più fondamentali. Tra l’altro c’è un guardiano della soglia: il vangelo parla di un guardiano della soglia, lo vedremo al v.3 e ci chiederemo chi è. Ma procediamo seguendo il testo.
“Amen, amen, dico a voi”. Abbiamo sottolineato che quando il Cristo fa precedere un’affermazione dalle due parole ‘Am¾n, ¢m¾n (amèn, amèn), un verbo ebraico (amìn) che significa “costruire sulla roccia”, vuol dire che l’affermazione che segue è fondamentale, che fa parte dei cardini non scardinabili dell’evoluzione e perciò vale dall’inizio alla fine. Amen amen significa: sta’ attento che questa affermazione accompagna tutta l’evoluzione, quanto vien detto non è costruito sulla sabbia ma sulla roccia salda, che resta ferma finché c’è la Terra.
“Io dico a voi”, cioè l’Essere dell’Io singolo parla all’essere umano che è ancora nel gruppo: dicendo voi si rivolge al gruppo chiamandolo a fare da base su cui costruire tutto ciò che è individuale.
“Colui che non entra nell’ovile…”: per adesso ho tradotto l’ovile come interiorità dell’essere umano e l’uscire dall’ovile come l’entrare in relazione con il mondo esterno. Ad altri livelli l’ovile è la Terra e fuori dall’ovile ci sono gli altri pianeti: allora vuol dire che tutta l’evoluzione terrestre è l’ovile, e che i Cristo ha anche altre pecore – l’Essere solare conduce tutta l’evoluzione degli esseri marziani, venusiani, gioviani, ecc. La parola ovile ha tanti significati.
“… attraverso la porta…”: la porta è dunque l’elemento di libertà, è fatta per aprirsi e chiudersi al passaggio, non è come la finestra che bisogna, come dire, romperla se si vuole entrare da lì. La porta presuppone la possibilità di entrare, presuppone che il padrone di casa abbia la possibilità dal di dentro di aprire a chi vuole e di lasciar fuori chi non vuole; quindi la porta significa anche la libertà di lasciare entrare dentro di me chi voglio io, di entrare e uscire secondo la mia libertà , e di non fare entrare chi non voglio che entri, perché la porta è di casa mia.
“… è ladro o brigante”: coloro che entrano per il tetto o per la finestra senza chiedere il permesso, coloro che vogliono invadere l’essere umano senza rispettare la sua libertà, diciamo coloro che entrano senza bussare alla porta e senza essere invitati liberamente ad entrare, sono o ladri o briganti.
Questa dualità sarà ripetuta al v.8 quando dirà: “Tutti coloro che sono venuti prima di me sono o ladri o briganti”. Io già prima di leggere Steiner mi chiedevo il significato di questa frase, perché la madre di Gesù di Nazareth è venuta prima di lui, e così Davide, Mosè, Elia, Abramo sono venuti tutti prima di lui: dunque sono tutti ladri o briganti?! Come la mettiamo?
Prima che sorgesse la forza dell’Io che cerca l’equilibrio tra le polarità della vita, fino alla metà dell’evoluzione, fino alla svolta, non c’erano le forze dell’equilibrio, quindi era tutto o in chiave di una polarità, o in chiave dell’altra polarità: Quali sono le due esperienze polari fondamentali che prima di Cristo non potevano che essere unilaterali (perché mancava la loro mediazione)? Quella del ladro o quella del brigante.
Ladro e brigante sono due termini tecnici che già si usavano nella tradizione dei misteri: il ladro è l’egoista che ruba, ruba all’umanità tutte le forze di cui si vuole servire a proprio vantaggio e non ridà nulla. Nella scienza dello spirito Lucifero è il puro egoista che pensa soltanto alla sua evoluzione e succhia, succhia, succhia dall’umanità e non dà nulla di ritorno! È un ladro! Il brigante fa l’opposto, invece di portar via e scappare, il brigante picchia.
Le due forze che uccidono l’umano sono o l’egoismo di chi si rifiuta di ridare all’organismo dell’umanità tutti i talenti, le qualità che ha ricevuto dall’umanità, oppure l’esercizio del potere che picchia l’altro impedendogli di evolversi. I due modi di uccidere l’umano sono: portargli via quello di cui ha bisogno – il ladro –, oppure picchiarlo impedendogli di fare ciò di cui ha bisogno, manipolandolo, strumentalizzandolo, esercitando il potere, costringendolo a fare qualcosa – ecco il brigante Arimane.
Fare l’esperienza della soglia, della mediazione, dell’equilibrio fra i due estremi, è la capacità di non succhiare dall’umanità più di quello di cui ho bisogno per poi ridare ciò che ho ricevuto: è l’equilibrio fra il ricevere e il ridare. E l’equilibrio dalla parte dell’arimanico, nei termini della scienza dello spirito, è cogliere sempre meglio il punto in cui comincio a ledere la libertà altrui, un punto che arriva quando chiedo all’altro ciò a cui non ho diritto, quando voglio costringerlo a ciò a cui non ho diritto.
Come faccio a sapere quando ho il diritto di picchiare – per cui se l’altro non mi vuol dare quella cosa io lo voglio anche un po’ costringere – e quando non ho diritto? Vediamo il caso estremo: quando il Cristo viene catturato, picchiato, costretto, quando è afferrato dall’elemento del brigante, Pietro sfodera la spada e picchia. È legittimo questo picchiare? Più una persona è imperfetta nella sua evoluzione e più ha bisogno di picchiare, più è perfetta e meno ne ha bisogno, non esige più nulla da nessuno; e perciò il Cristo dice: “Rimetti la spada nel fodero perché se tu picchi verrai picchiato”. Vedi l’Iraq: gli americani hanno picchiato, e adesso se le pigliano!
La scienza dello spirito di Rudolf Steiner è, tra le altre cose, una fenomenologia squisitamente scientifica, minuta, portata a tutti i livelli dell’esistenza, del rubare e del picchiare. Lucifero vuol farsi bello senza ridar nulla; Arimane vuol costringere, sottomettere, soggiogare le persone. L’Io-sono, il Cristo, è la forza dell’equilibrio, la porta, la soglia. Passare e ripassare sempre per la soglia significa: quando esubero dal lato del brigante e sto picchiando troppo, mi ritiro indietro; quando faccio troppo vita monacale e coltivo soltanto per me senza ridare agli altri, anche qui devo ripassare per la soglia ed uscire in colloquio con gli esseri umani, in modo da ridare ciò che ho costruito dentro di me. La vita è un continuo entrare e uscire, un continuo passare e ripassare per la soglia; se no si sta a un solo estremo, da un lato o dall’altro.
Tutti coloro che sono vissuti prima della forza della soglia non potevano che essere unilaterali, o nel senso di ladro o nel senso di brigante. Per esempio, prima di Cristo quando gli esseri umani si incarnavano, entravano nell’ovile e dimenticavano tutto il resto del mondo; poi morivano, si spappolavano, si dissolvevano in tutto il cosmo e perdevano l’interiorità, la propria centralità. Quindi erano ladri in vita e briganti dopo la morte, unilaterali sempre perché mancava la forza di fare l’equilibrio.
La forza di fare l’equilibrio è, in fondo, la forza di vivere contemporaneamente tutti e due gli aspetti; di non perdere l’inte-riorità quando si è nel mondo e di non perdere l’amore per il mondo quando si è nella propria interiorità. In altre parole, di costruire la propria bellezza per amore del mondo e di amare il mondo per amore di sé. Ecco l’equilibrio, la forza della soglia.
10,2 «Colui che entra per la porta è il pastore delle pecore».
Il pastore la sera le riconduce dentro, la mattina le riconduce fuori. La pecora è un’immagine dell’essere umano che aveva ancora bisogno di conduzione dal di fuori.
10,3 «A costui il guardiano della soglia apre e le pecore odono la sua voce, chiama le pecore ad una ad una e le porta fuori».
“A costui, il guardiano della soglia apre”: il guardiano della soglia apre al pastore, non al brigante né al ladro, perché il pastore vuole bene alle pecorelle, vuole la loro evoluzione in positivo. Quindi, in questa serie di immagini, se il pastore è il Cristo il guardiano della soglia è il Padre dei cieli, Dio Padre. Come si traduce in italiano il guardiano della soglia?
Intervento: Guardiano, portinaio, portiere.
Archiati: La parola greca qurwrÕj (thyroròs) significa letteralmente “guardiano della porta”: ìroj (òros) è il guardiano, colui che guarda, che è sveglio, che guarda che non succeda nulla di male, e qÚra (tỳra) è la porta.
Il guardiano della soglia fa passare l’evoluzione del sistema solare al livello dello Zodiaco: chi è il guardiano di questa soglia? Il Padre. E il Figlio conduce tutte le pecorelle del sistema solare dall’evoluzione nel tempo all’eternità. Questo livello di soglia è un livello evolutivo, perché c’è una soglia tra il sistema planetario, che è l’evoluzione nel tempo, e la dimensione dello Zodiaco, che rappresenta l’eternità. Passare dal tempo all’eternità è un passaggio di soglia.
Quando sono in rapporto con un’altra persona, c’è la percezione della soglia quando io colgo la differenza tra ciò che è transeunte e passeggero nel nostro rapporto, e quello che c’è di eterno: è un passaggio di soglia.
Una coscienza sveglia coglie questa soglia fra il passeggero, che svanisce col tempo, e l’eterno; l’amicizia si muove tra ciò che è eterno e ciò che è passeggero. L’eterno si incarna e, incarnandolo, lo si umanizza sempre di più, lo si rende umanamente eterno sempre di più.
Il guardiano della soglia è il Padre dei Cieli che apre al pastore, il Figlio, che conduce le pecorelle, gli esseri umani. Dunque l’evoluzione degli esseri umani sta nell’entrare sempre di più nella spiritualità del pastore, così da diventare loro stessi interiormente pastori. Se io ho interiorizzato il pastore che fa entrare e uscire, ho dentro di me la percezione della soglia. E allora il Cristo diventa soglia. A costui, che è il pastore, il guardiano della soglia apre:
“… e le pecore odono la voce del pastore e il pastore le chiama singolarmente ad una ad una”: in altre parole, il segno fondamentale del buon pastore è la chiamata all’individualizzazione; il pastore non considera le pecorelle come un gruppo, come un gregge, ma le chiama per nome, quindi ognuna ha un nome individuale. È chiaro che l’immagine delle pecore è soltanto un’immagine per indicare il cammino evolutivo dell’umanità: il punto di partenza è l’anima di gruppo, ma la voce del Cristo, la voce del pastore chiama per nome, quindi è la chiamata a individualizzarsi sempre di più.
“Le chiama ad una ad una”: t¦ ‡dia (ta ìdia). Questo ta ìdia è anche nel Prologo (1,11) quando dice “venne tra i suoi”, nell’individuo singolo. La direzione evolutiva del Cristo è di far sorgere l’individualità unica, diversa, autonoma, in ogni essere umano. Le chiama singolarmente, individualmente per nome “e le porta fuori”, apre la porta del mondo interiore, dischiude l’egoismo e apre il cuore umano al mondo esterno. Un bambino piccolo non distingue tra il mondo interno e il mondo esterno perché non è capace ancora di percepire la soglia e quindi vive soltanto in sé, dentro di sé: vive soltanto stati d’animo suoi, non gli elementi oggettivi del cosmo.
Aprire la porta per uscire dall’ovile è il passaggio dall’amore di sé, dal godimento di sé del bambino, al diventare capace di oggettività; è entrare nel mondo oggettivo, nel mondo esterno a me dove devo lasciare da parte ciò che vivo e sento io e occuparmi del mondo verso il quale esco. “Apre la porta e le porta fuori”, le rende capaci di percepire il mondo oggettivo. E ora l’essere umano ha due mondi: il mondo soggettivo e il mondo oggettivo. Il bambino ha soltanto un mondo soggettivo. E cosa c’è tra il mondo soggettivo e il mondo oggettivo? La soglia, la porta! Il cambiamento di registro. Quando entro dentro sono nel mondo soggettivo, un mondo tutto diverso, quando esco fuori sono nel mondo oggettivo, un mondo tutto diverso.
Quando sono nel mondo soggettivo sto esprimendo me stesso agli altri, e desidero che gli altri mi ascoltino; quando invece passo la porta, esco fuori, significa che decido di ascoltare il mondo esterno e allora devo sospendere il mondo soggettivo e fare attenzione a ciò che mi viene incontro dall’altro. Un bambino piccolo non può portar fuori se stesso, perché non è ancora capace di cogliere un mondo oggettivo, esterno
Queste immagini dette dal Cristo, se vengono tradotte in passi evolutivi, soprattutto della coscienza, sono molto belle, e chi se ne rende conto sa che val la pena meditarci tutta una vita, perché scopre cose sempre nuove.
10,4 «Quando ha fatto uscire tutte le pecore, cammina davanti a loro e le pecorelle lo seguono perché conoscono la voce di lui».
“Quando ha fatto uscire fuori tutte le pecorelle”, le pecorelle singole: ™kb£lh (ekbàle) vuol dire “sbattute fuori”, è proprio un proiettarle fuori. C’è infatti una specie di resistenza naturale a lasciare la sfera dell’egoismo e a entrare in ciò che non è più autogoduria ma è sospensione del sé, è attenzione al mondo esterno. Quindi la forza propulsiva del Cristo è proprio l’aiuto a fare questo salto al di fuori, un salto qualitativo per diventare capaci di oggettività, capaci di mettersi fra parentesi. Il mondo interiore va lasciato e bisogna buttarsi fuori.
L’intento del Cristo è aiutare tutti gli esseri umani a diventare individuali, liberi, proprio nel fare l’esercizio dell’uscire da se stessi per amare il mondo intero. Finché si è in se stessi si è egoisti, e questo è il punto di partenza; uscendo da se stessi si diventa capaci di amore. Quando il pastore ha portato tutti gli esseri umani singoli ad essere capaci di uscire da se stessi, di buttarsi fuori da se stessi per diventare capaci di amore al mondo oggettivo, quando ha proiettato fuori tutte le pecorelle singole, va avanti a loro, cioè le conduce non spingendole (per uscire avevano bisogno della spinta) ma guidandole, andando avanti a loro. Le pecorelle, allora, cominciano ad avere la libertà di seguirlo o di non seguirlo, perché se lui fosse dietro le costringerebbe spingendole: stando lui avanti, comincia per loro la libertà. Tant’è vero che in base a questa libertà c’è la pecorella smarrita: che si smarrisca presuppone un pastore che vada avanti e lei che sia restata indietro.
Abbiamo in questo testo elementi bellissimi, sui passi evolutivi per l’individualizzazione dell’essere umano e sul suo diventare sempre più libero nel modo di gestire la propria condizione.
Quando le ha fatte uscire tutte singolarmente, va avanti a loro, cammina avanti a loro, e le sue pecorelle lo seguono perché conoscono la sua voce. Perché gli esseri umani seguono spontaneamente il Cristo ? Perché è ciò che cercano! È il cibo che cercano!
Le immagini usate dal Cristo erano immediatamente accessibili agli uditori, erano immagini che la gente capiva bene; oggi bisogna tradurle alle persone che, se sono cresciute in città, non sanno come vanno le cose in un gregge tra un pastore e le pecore.
Supponiamo che il pastore stia conducendo le sue pecorelle e a cento, duecento metri di distanza ci sia un altro pastore: c’è mai la possibilità che le pecorelle confondano le voci, che vadano dietro a quell’altro? No, perché conoscono, riconoscono la voce del loro pastore! In termini di evoluzione, ogni essere umano ha, conosce, riconosce la voce del Cristo, del Figlio; ogni uomo ha un organo di connaturalità, di sintonia col Cristo, sa ciò che gli fa bene e ciò che gli fa male, segue la voce di ciò che gli fa bene, perché lo sa, e invece non segue la voce di ciò che gli fa male.
Un esempio concreto: qualcuno vuol far soldi e approccia un sedicenne, una sedicenne, per vendergli la droga: come risponde l’animo dei ragazzi a questa voce? L’animo sa che non è una cosa buona, che è una tentazione, sa che se dice di sì soccombe ad una tentazione, perché la voce di ciò che fa bene all’essere umano viene riconosciuta. E se poi la compra sa di aver detto di sì per debolezza, non perché è convinto che la droga gli faccia bene; sa che fa male per vari motivi (forse ha degli amici che stanno passando gravissimi problemi perché non se ne tirano più fuori, ecc.).
L’essere umano fa il male non perché non sa distinguere il male dal bene, ma perché è debole; se non fosse capace di distinguere il bene dal male sarebbe perduto, proprio sarebbe del tutto perduto. Finché fa il male per debolezza, sapendo però cos’è bene e cos’è male, non è perduto, può lavorare e diventare più forte. Già il serpente, fin dall’inizio, lo promise all’uomo come forza conduttrice di tutta l’evoluzione: “I vostri occhi si apriranno e saprete distinguere il bene dal male”. È questo saper distinguere il bene dal male l’organo innato che ci fa riconoscere la voce del pastore. Il pastore vuole solo il bene delle pecore; poi vedremo invece le immagini del lupo, che le vuole sbranare e del mercenario, il salariato, che vuole solo i soldi.
10,5 «Un estraneo non lo seguiranno ma fuggiranno da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Un estraneo, uno straniero, il negativo del pastore. Le pecorelle conoscono, hanno dimestichezza e confidenza con la voce del pastore perché lui vive con loro, le ama, le cura, le fa entrare, le fa uscire, le conduce a pasture belle, ecc., e perciò l’esperienza che hanno del pastore è di gratitudine. Come il bambino con la mamma: fa l’esperienza che la mamma gli fa bene su tutta la linea. Se t’arriva un estraneo le pecore percepiscono subito che non gli fa bene, perché gli manca il pastore e ciò che il pastore gli dà. Questa esperienza fa dire: qui c’è qualcosa che non va. E non è un ragionamento teorico, è la sottrazione dei benefici che ci sono quando c’è il pastore.
“Uno straniero non lo seguiranno ma fuggiranno da lui perché non conoscono la voce di un estraneo”. Ciò che è estraneo alla natura umana l’uomo non lo vuole, vuole solo ciò che gli fa bene, non ciò che è un corpo estraneo; sarebbe come mettergli nell’organismo un pezzo di ferro (qualche volta si fa, se non c’è altra soluzione, però sarebbe meglio se non ci fosse). L’uomo non vuole ciò che è estraneo, che travisa la natura del suo essere. È innata nell’essere umano la voce che gli fa percepire e sapere cosa fa bene e cosa è estraneo, e perciò non ci vuole.
Qui finisce la parabola, la similitudine; questo è uno dei pochissimi passaggi nel vangelo di Giovanni dove certe cose più profonde, forse più difficili, vengono dette in immagini. I sinottici, invece, sono pieni di parabole.
10,6 Questa parabola disse a loro Gesù; ma costoro non capirono a chi si riferiva.
Il testo qui oscilla tra manoscritti che dicono: “non compresero di che cosa parlasse” e manoscritti che dicono: “non compresero di chi parlasse”. Certo che c’è anche la dimensione delle “cose”, perché la parabola si riferisce all’ovile, alle pasture, che sono cose e non persone. Però la dimensione del “chi” è molto più importante, perché a conti fatti la domanda principale è: chi sono il pastore, il guardiano della soglia, lo straniero, chi è il ladro e chi è il brigante? Quindi la versione che dice: “non compresero a chi si riferiva” è molto più centrale, molto più importante che non l’altra.
10,7 Disse allora di nuovo Gesù: «Amen amen, io vi dico che io sono la porta delle pecore».
“Di nuovo” significa cosa nuova, variazione. Siccome non capiscono, Gesù fa una variazione rispetto a prima per aiutarli, almeno incipientemente, a capire un pochino – l’umanità ha a disposizione millenni per capire queste cose sempre più profondamente. Allora Gesù fa un nuovo inizio, dice loro di nuovo: “Amen amen, Io vi dico che Io sono la porta delle pecore”: l’Io-sono, la forza dell’Io-sono è la soglia.
10,8 «Tutti coloro che sono venuti prima di me sono o ladri o briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati».
Adesso dovrebbe esser chiaro di chi sta parlando, perché i farisei, i giudei ai quali sta rivolgendosi, sono venuti prima di lui: il Cristo arriva sulla scena di questo mondo adesso, loro la gestione del potere l’hanno già stabilita prima. Se loro fossero aperti, capirebbero che Lui sta dicendo: c’è nell’evoluzione una prima metà, con una svolta al centro, e in questa prima metà ci siete anche voi perché il vostro fariseismo, la vostra religione si è stabilita allora. Fino alla svolta non c’è altra possibilità che vivere da briganti o da ladri, perché mancano i presupposti, le forze per fare l’equilibrio, manca la forza della porta, la forza che media fra i due estremi.
In altre parole, il Cristo sta dicendo: nel vostro giudaismo il Messia è stato promesso perché è necessaria una svolta nell’evoluzione, altrimenti non ci sarebbe bisogno del Messia. Quando poi il Messia viene non si è più nella preparazione, ma si è nel compimento dei tempi. Il Cristo gli interpreta la differenza fondamentale tra l’evoluzione prima del Messia e l’evoluzione col Messia. Essendo colui che comunica a loro le due leggi diverse, implicitamente dice che è Lui il Messia: perché chi, oltre il Messia, può dire quali sono le leggi evolutive che subentrano quando il Messia è presente? Quindi non capiscono perché sono proprio ciechi.
Il discorso del Cristo è molto chiaro: prima della svolta mancano le forze per creare l’equilibrio tra rubare, rubare, rubare (l’egoismo) e picchiare, picchiare, picchiare (il potere); il Messia porta la forza della porta, della mediazione e quindi tutto ciò che è prima del Messia non può essere che unilaterale. Ma non li rimprovera, dice loro che è una legge dell’evoluzione.
Steiner descrive così la polarità ladro-brigante esistente nel popolo ebraico: i sadducei erano i “briganti”, erano la casta sacerdotale venuta ad accordi e compromessi col potere romano. Dominavano e dissanguavano il popolo ebraico, l’opprimevano ed estorcevano tasse per poi pagarne una parte ai romani: picchiavano, picchiavano, picchiavano il popolo. I farisei erano invece i “ladri”, che si interessavano soltanto alla loro evoluzione interiore, a farsi belli, ad essere puri, a non avere nulla a che fare con il mondo. È proprio la fenomenologia nella quale entra il Cristo.
E il Cristo dice: la legge evolutiva è che finché non c’è la forza che media, che crea l’equilibrio, che si muove in tutt’e due i mondi, che entra ed esce, e quindi ha la capacità di dare importanza ad entrambi i mondi – infatti è importante il mio mondo interno, altrimenti non ho nulla da dare, ma è importante anche il mondo esterno, altrimenti non ho la base per la mia esistenza –, finché non sorge questa forza che è quella dell’Io libero, l’umanità non può che essere unilaterale. O dal lato di chi ruba o dal lato di chi picchia.
10,9 «Io sono la porta: se qualcuno entra attraverso di me sarà salvo ed entrerà ed uscirà e troverà pastura».
“Io sono la porta: se qualcuno entra…”: l’esperienza dell’Io, la forza mediana dell’Io, è la porta che fa liberamente entrare, muovere e uscire nei due mondi uniti nelle polarità della vita. L’Io sono, la forza dell’Io, il Cristo interiorizzato è la forza del passare la soglia e del muoversi da Io nel mondo della materia e nel mondo dello spirito. Ecco un’altra soglia fondamentale: entrare nel mondo dello spirito e restare un Io, ritornare nel mondo della materia e restare un Io. L’Io è la forza che ci fa essere un Io sia nel mondo dello spirito sia nel mondo della materia.
“Io sono la porta, colui che entra attraverso di me sarà salvo”, cioè conserva l’Io. Colui che entra con la forza dell’Io è un Io anche quando è dentro. Colui che entra senza la forza dell’Io quando è dentro non ha la forza dell’Io. Salvarsi significa preservare l’autocoscienza, sia nel mondo della materia che in quello dello spirito.
In altre parole: colui che entra o esce senza di me, senza la forza dell’Io, si perde, invece di salvarsi perde l’Io, non ha più la coscienza di sé. Come quando ci addormentiamo. Un gradino evolutivo successivo sarà quello di addormentarci, di passare per la porta che ci fa entrare nel mondo spirituale, salvando l’Io, cioè rimanendo coscienti.
“Entrerà e uscirà e troverà pastura”, troverà campi in cui, come Io, invece di perdersi si nutrirà, diventerà più forte in quanto spirito individuale.
10,10 «Il ladro non entra se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto affinché abbiano vita e l’abbiano in esuberanza».
Colui che è un ladro non entra nell’essere umano se non per rubare qualcosa; oppure, come un brigante, per uccidere e distruggere. Io invece sono venuto affinché abbiano vita e l’abbiano in esuberanza, in stragrande abbondanza, quindi non soltanto per sé ma anche per gli altri. L’esuberanza della vita significa che l’amore è la qualità di un essere che ha forze non soltanto bastanti per sé, ma in esubero; non si perde quando ama gli altri ma addirittura, avendo forze di amore in esubero, amando gli altri si rafforza ancora di più nel suo amore.
Amare sé e amare l’altro non sono più alternativi, non si escludono più a vicenda, ma si rafforzano a vicenda: più amo gli altri e più costruisco amore dentro di me, quindi amo me stesso, e più amo me stesso e più ho da dare agli altri. Più arricchisco il mondo esterno e più arricchisco me stesso; e più arricchisco me stesso e più ho da dare al mondo esterno. Le due polarità anziché escludersi si favoriscono a vicenda.
Ci sono domande, contributi?
Intervento: Dal v.10,8 “Tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri o briganti”, sei passato al versetto successivo senza commentare: “ma le pecore non li hanno ascoltati”. A me verrebbe da dire che le pecore, invece, li hanno ascoltati!
Archiati: Il v.8 dice: “Tutti coloro che sono venuti prima di me sono”, non erano ma sono, “ladri o briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati”: non li hanno uditi.
Intervento: Non se ne sono resi conto?
Archiati: Esatto! In altre parole il ladro e il brigante usano la pecora, l’essere umano ancora bambino. Invece il Cristo fa di tutto perché l’uomo cominci a rendersi conto, a distinguere la voce del pastore, quella del brigante e quella del ladro.
Nel suo Faust, Goethe non era ancora in grado di distinguere la voce del brigante dalla voce del ladro e ha fatto del suo Mefisto un misto fritto di ladro e brigante. Per cui tocca a noi vedere in quali scene il Mefisto è maggiormente ladro (quando è ladro non è brigante) e in quali scene è brigante (perché quando è brigante non è ladro).
Al Cristo sta a cuore la nostra capacità di discernimento, che significa forza dell’Io, forza del pensiero; per il Cristo non è importante ciò che fa per noi, ma ciò che ci rende capaci di fare. Qual è il criterio fondamentale per sapere se un essere per me è buono o è cattivo? Il criterio in fondo, è molto semplice. Il ladro e il brigante hanno in comune che, avendo dei passi evolutivi da recuperare, si servono dell’essere umano come strumento per la loro evoluzione. Vogliamo fargliene una colpa? No, perché anche gli esseri umani, giunti ad altri livelli, hanno bisogno di loro. Il Padreterno non si serve di loro? Certo, se ne serve come controforza necessaria. Il Padreterno ha detto che è importante, è necessario che ci siano esseri come i ladri e i briganti, che hanno perso colpi evolutivi, perché essi vorranno servirsi di altri esseri umani per la propria evoluzione e quindi serviranno a questi ultimi da controforza. Invece il Cristo non ha nulla da recuperare, non usa mai l’uomo come strumento della sua evoluzione, ma si mette a sua disposizione perché abbia la propria libera evoluzione.
Allora, torniamo alla domanda: come faccio io a sapere, nei rapporti umani, se la persona che ho di fronte è buona o cattiva, se mi vuol bene o no? La risposta è semplice, almeno come criterio mentale – anche se la spiegazione è più complessa –: se io vedo che nel suo rapporto con me vuol raggiungere qualcosa, allora è un poveretto che vuole servirsi di me per raggiungere i suoi scopi. Non è che sia un male in assoluto, ma se io non me ne accorgo e penso che quella persona faccia tutto solo per me e si faccia lei strumento per me, allora sono io il bacato che non ha capito niente!
C’è invece un altro tipo di rapporto, ad esempio quello della mamma col bambino: la mamma ha meno bisogno di usare il bambino piccolo per la propria evoluzione, ma ha delle forze in esubero per cui dice: a me interessa che tu cresca, che impari, che tu vada avanti. Allora mi dico: questa persona si mette maggiormente al servizio.
Il concetto puro del Cristo è: l’Essere che non ha bisogno di nulla dagli esseri umani. Tutto quello che fa nell’umanità lo fa per noi. La forza dell’Io sa distinguere il ladro, il brigante, il pastore. Il concetto è: il pastore fa tutto solo per il bene delle pecorelle perché non ha bisogno di nulla per sé; invece il ladro ha bisogno di rubare e il brigante di picchiare.
Noi non picchiamo mai e non rubiamo mai? A tantissimi livelli. Ma siamo felici se da noi salta fuori la forza cristica, la donazione gratuita, perché così va avanti l’evoluzione: più sorgono queste forze più ne ho in esubero e allora non ho bisogno di rubare all’altro o di picchiarlo, strumentalizzarlo. E sto bene abbastanza da poter dire: adesso mi interessa che vada avanti tu. Quella voce lì io la riconosco che mi fa bene, come capisco se quell’altro mi sta succhiando, ed è più quello che devo dare che non quello che ricevo.
Ognuno ha l’organo conoscitivo per riconoscere la voce del pastore che gli fa bene, ma quest’organo va coltivato. Per esempio la chiesa non si trasforma mai da pastore – che deve condurre dal di fuori l’essere umano ancora bambino – nel bravo pedagogo che sparisce, si rende superfluo perché l’insegnamento viene interiorizzato dall’essere umano ormai adulto, che si conduce sempre più dal di dentro. Se non coltivo questo organo che distingue la voce del buon pastore quando favorisce la mia evoluzione, non mi accorgo che questo pastore, se vuol tenermi sotto anche da adulto, diventa un brigante! Qual è il problema? Sono io che non so distinguere! Guidare come un buon pastore un bambino significa volergli bene, ma non posso voler bene a un adulto tenendolo sotto, volendolo guidare dal di fuori, costringendolo a comandamenti ecc. sotto minacce dell’inferno, quando ha 30-40 anni!
Tornano i conti?
Intervento: Noi siamo dei grandi ciechi nei confronti della chiesa, perché non sappiamo vedere l’uomo che in realtà vive in lei: è simile a noi con tutti i suoi problemi, le sue tematiche. Pretendiamo che il sacerdote sia un essere consacrato perché incarna la chiesa, ma non è così. Non c’è casta né partito dove gli uomini siano diversi da quelli della chiesa.
Archiati: Quel pastore lì (nella chiesa lo chiamiamo pastore) favorisce la tua evoluzione? Conduce le pecorelle ad una autonomia sempre maggiore? Come favorisce il loro cammino?
Intervento: Penso che il cammino dovremmo cercarlo da noi. I sacerdoti forse potrebbero essere il mezzo che ci porta al pastore; dico forse, perché ciò che noi cerchiamo in realtà lo possiamo trovare se davvero vogliamo cercare, vedere. Ma se non lo vogliamo…
Archiati: Nella parola del Cristo c’è il mezzo che porta al pastore: le pecore sono sempre col pastore.
Intervento: Però Lui dice agli apostoli: “Io sono il vostro Sole, voi siete la mia luce”, e questo è il significato essenziale. Cioè, noi dobbiamo cercare la purezza, ma non attraverso gli uomini; gli apostoli erano stati indicati da Lui e, nonostante questo, tre vengono meno al fatto…
Archiati: Non solo tre: sono scappati tutti.
Intervento: Appunto; allora non possiamo poi pretendere che la chiesa ci dia quell’insegnamento così puro e regale, se è fatta da uomini come noi!
Intervento: Scusate, vorrei chiedere una cosa: dal punto di vista evolutivo il Cristo da buon pastore diventa soglia e l’essere umano da pecorella diventa pastore di se stesso. Ma quando diventa pastore di se stesso ha anche lui delle pecorelle da portare?
Archiati: Bella domanda! Dai la risposta! Le nostre pecorelle sono tutti gli animali, le piante, le pietre di questo mondo, ed è ora che cominciamo a far da buon pastore a queste pecorelle! Nella parabola l’immagine è presa dal regno animale, perché l’uomo comincia con un anima animale, nel senso di anima di gruppo, e assurge sempre di più all’elemento umano. Però gli animali restano pecorelle: per noi la pecorella è una metafora, per la pecora reale non è una metafora, la pecora non diventerà mai un essere umano e noi siamo i pastori. Perciò queste parabole sono così ricche, perché i livelli di significato sono tanti, e la tua domanda è importantissima perché possiamo vedere che la parabola stessa dà tutti gli elementi per cogliere verso quali esseri del cosmo noi siamo veramente i pastori.
Guai a noi se facciamo i briganti o i ladri verso le pecorelle affidateci – e con l’ingegneria genetica siamo già a livelli veramente paurosi – perché la pagheremo noi. L’essere umano è il buon pastore delle pecorelle, degli animali, ma nel momento in cui diventa il ladro o il brigante la parabola dice: “fuggiranno via da lui”, cioè sottrarranno all’uomo le forze che prima gli mettevano a disposizione. L’uomo ha fatto il brigante perché ha immesso negli animali dei geni esterni, proprio estrinseci alla loro natura; cosa fa allora la pecorella che fugge? Invece di dargli forze nutrienti gliele sottrae, fugge da lui. Vedi come calza la parabola?
Intervento: E come si può diventare pastori delle pecorelle?
Archiati: Cosa fa il pastore? Le chiama una per una! In altre parole, deve conoscere l’essere specifico della pecora e degli altri animali e non inquinare le specie, deve saper distinguere le specie una dall’altra, chiamarle per nome, e non fare un misto fritto. Quindi questa immagine “le chiama una per una per nome” significa: sta’ attento, uomo, con le specie delle piante e soprattutto con quelle animali. O le chiami nella loro purezza, una per una, oppure, se cominci a mischiarle, sei il salariato, o il brigante, o il ladro, o il lupo. Non sei più il buon pastore. Basta che tu stia alle immagini che il testo ti dà.
Intervento: Questa immagine dell’uomo che dà il nome alle cose, è l’immagine di Adamo.
Archiati: La parabola ebraica di Adamo che dà il nome alle cose, conosce il nome delle cose, è la stessa. Conoscere le cose significa chiamarle per nome. Un tulipano non è un misto fritto, è tutto e solo tulipano, e il resto, tutte le altre piante, non hanno nulla a che fare con esso. Nel momento in cui io ci immetto elementi estranei e non lo chiamo più per nome, inquino il nome e la sua legge immanente che doveva contribuire all’evoluzione dell’uomo: allora quella specie non può continuare ad ascoltare la voce, perché non è più quella del buon pastore, e fugge.
Intervento: Prima tu hai fatto un discorso di arricchimento di forze interiori, nei rapporti interpersonali, che avviene anche se non c’è prima un riempirsi. Ma non si può dare se non si ha niente. Mi sembra che il discorso debba essere di reciprocità.
Archiati: Il prima e il dopo vale soltanto per l’infanzia, perché l’infanzia non è ancora capace di ridare subito ciò che riceve. Nella fase infantile il ricevere – la formazione, l’educazione, ecc. – viene prima; dopo la svolta, quando cioè si è adulti, l’arte sta proprio nel ricevere e dare contemporaneamente, non in alternanza.
Intervento: Ma io non posso dare se non qualcosa che ho ricevuto.
Archiati: No, non ricevo prima di dare. Se una mamma ha una famiglia di cinque bambini e adesso vuol fuggire per cinque ore per ridarsi un po’ di armonia e pace, per chi lo fa?
Intervento: Per i figli e per se stessa.
Archiati: Ecco, non è uno prima e uno dopo! Non è che lei prima deve ricevere, diventare qualcosa e poi può, o deve, dare qualcosa: tutto è contemporaneo. La soglia, l’equilibrio, è contemporaneo. E quelle cinque ore che la mamma passa da sola avranno un carattere del tutto diverso se lo fa sapendo di dovere ai suoi figli un minimo di armonia (e allora lo fa per amore dei figli e si concede di riposare, non è una fase senza l’altra ma sono tutt’e due insieme), oppure se lo fa fregandosene dei figli (e in tal caso sta in una sola fase e dimentica l’altra). Se io ho una coscienza che dice: me ne frego dei miei figli, adesso voglio fare qualcosa solo per me, allora nella mia coscienza non sono presenti i figli ma soltanto io, e perciò l’esperienza di quelle cinque ore non sarà di amore ma, unilateralmente, di egoismo. La compresenza delle polarità è un fatto di coscienza.
Mercoledì 27 agosto 2003, mattina
vv. 10,11 – 10,14
Ieri eravamo arrivati fino al v.10 del capitolo 10. Ci rendiamo conto sempre di più che questo vangelo di Giovanni è un testo massimamente aulico, 21 capitoli sostenuti al massimo, frase per frase, versetto per versetto. In una vita, se si è fortunati abbastanza, si ha la possibilità di rituffarcisi continuamente dentro e di meditarci sopra. Quello che noi facciamo in questi seminari è un po’ una maratona per sfoltire un pochino, per creare l’accesso, tradurre un po’ dal greco ecc., riservandoci di vedere chi resiste fino alla fine.
Vi ricorderete che avevo proposto due alternative: chiudere i seminari al risveglio di Lazzaro (che è proprio una cesura assoluta, è la metà del vangelo di Giovanni), oppure arrivare fino alla fine, se c’è un numero sufficiente di persone che garantiscono interesse e frequenza. Ci rendiamo conto che questo lavoro richiede tante cose, anche proprio per la concentrazione, faticose soprattutto in estate. Questa sera ne parliamo insieme, anche per decidere quando fare il prossimo incontro: a dicembre o nella seconda metà di febbraio.
Riprendo uno dei pensieri forse più importanti di ieri, le due immagini che il Cristo usa per farci comprendere chi Lui è, nell’evoluzione dell’umanità: l’immagine della porta, “Io sono la soglia” e l’immagine del buon pastore, “Io sono il buon pastore”.
Vi accennavo che la scienza dello spirito di Steiner dà molti contributi per comprendere il concetto di soglia come coscienza che coglie il passaggio da un mondo all’altro. Un essere umano ancora non cristificato, che ancora non sente in sé la forza dell’Io, non coglie la soglia, non si accorge quando passa da un mondo all’altro. Nei tempi in cui viviamo vediamo che le sorti dell’uma-nità e della Terra non vanno più avanti bene da sole, non c’è più un buon pastore al quale noi abbiamo solo da correre dietro.
Queste due immagini evolutivamente trapassano l’una nell’al-tra: nella fase infantile il Cristo pastore è un’istanza esteriore che ancora ci conduce; però questo pastore vuole trasformarsi in una soglia, in una percezione, in una consapevolezza della soglia. “Io sono la soglia” significa che c’è la consapevolezza di un Io conscio di sé; l’Io diventa conscio soltanto se sa distinguere sempre di più (ecco la porta) tra il mondo suo e il mondo esterno, tra mondi diversi. Uno dei significati più fondamentali della soglia è che tra percezione e concetto, tra percepire e pensare, c’è la soglia più importante per l’evoluzione dell’Io.
Tre volte il Cristo dice: “Io do la mia vita per le pecorelle” (vv.11, 15, 17). È un’affermazione che ritorna in un modo fondamentale. Infatti il mercenario, il salariato non si interessa delle pecore, cerca il suo vantaggio, lavora per pigliare soldi. Il lupo vuole agguantare le pecore e ucciderle, per fagocitarle, invece il pastore dà la sua vita per esse. Accennavo ieri alla differenza fra esseri favorevoli all’uomo ed esseri che sono controforza: tutt’e due sono necessari.
Gli esseri favorevoli all’uomo sono talmente evoluti – in prima linea il Cristo – che non hanno bisogno di usare l’uomo per la propria evoluzione e perciò si mettono al servizio dell’uomo. Questo è il significato del dare la propria vita: tutto ciò che il Cristo ha in sé come forze evolutive, come impulsi evolutivi, come proposte di pensiero che fanno camminare la coscienza, lo dona tutto agli esseri umani. Tutto ciò che il Cristo è lo porge come offerta evolutiva agli uomini.
Invece il ladro ha bisogno di rubare per sé, è il grande ritardatario dell’evoluzione, e ci vuole anche lui come controforza, perché soltanto se ci sono degli esseri che cercano di rubarci le forze migliori noi abbiamo la possibilità di difenderci, e difendendoci rafforziamo l’Io. Quindi questo tipo di controforza, che la scienza dello spirito chiama Lucifero, è l’egoista che pensa solo a sé e ruba, ruba, ruba tutto quello che può senza dare nulla. Il brigante, all’altro estremo, usa violenza, picchia, gestisce il potere per sottomettere. Ladro e brigante corrispondono ai due ladroni di destra e di sinistra, in mezzo ai quali c’è la soglia.
Ecco di nuovo la soglia, che qui significa cogliere la polarità tra ladro e brigante; la percezione della soglia sta nel rendermi conto di quando passo dalla fenomenologia del brigante che picchia a quella del ladro che ruba, quando passo da una fenomenologia a quella opposta: è proprio la percezione degli opposti, delle polarità, che fa la soglia.
Il ladro sono tutte le tentazioni del mondo interno, dell’egoismo, del volersi far belli, del non pensare agli altri; invece il brigante sono le botte che mi piglio quando sono fuori di me, è il potere, è quando vengo attanagliato dalle cose che mi tocca fare, sono le costrizioni a cui vengo sottomesso perché devo guadagnare soldi per campare, per sopravvivere ecc. ecc…
Se non colgo la soglia di polarità tra queste due controforze non sarò in grado di misurarmi in un modo con l’una e nel modo opposto con l’altra. Infatti vinco il ladro in me vincendo il mio egoismo e dicendomi: adesso basta col cercare tutto solo per te, da’ un poco anche agli altri. Invece vinco il brigante in modo opposto: basta farti dar botte, ti sei fatto sfruttare troppo, hai vissuto il mondo soltanto dal lato dei ladroni, dei briganti che vogliono tutto da te, adesso ritorna dentro di te, costruisci qualcosa, non hai più nulla da dover dare. L’Io-sono in quanto percezione della soglia, è la capacità di agire nelle polarità della vita, di volta in volta in modi opposti.
Un esempio: negli ultimi due mesi uno ha esagerato, si è comportato in modo unilaterale da ladro, e gli altri sono scappati via perché pensava solo a sé; adesso ritorna, cerca di immettere all’esterno un pochino di più. Un altro invece dice: gli ultimi due mesi mi sono perso nel mondo, ho preso un sacco di botte perché sono stato talmente in mano ai briganti che non sono stato abbastanza ladro; devo imparare un pochino da colui che tira, che succhia le forze dell’umanità per diventare un qualcosa. La vita, vi dicevo, si ripete proprio come un ritornello.
10,11 «Io sono il buon pastore. Il buon pastore pone la vita per le pecore».
“Io sono il pastore buono e bello”, Ð kalÒj (o kalòs) in greco significa insieme “bello” e “buono”. È una bella cosa ritornare alla spiritualità greca che non può cogliere qualcosa che sia buono senza che sia anche bello: ciò che è bello per l’essere umano è anche buono e ciò che è buono è anche bello.
“Offro la mia anima, la mia vita, per le pecore”. Lo ridirà al v.15: “Il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita, depongo la mia vita per le pecore”; e al v.17 culminerà dicendo: “È proprio per questo che il Padre mi ama, poiché io do, offro, metto a disposizione la mia vita per le pecorelle”.
In greco t…qhsin (tìthesin) significa “porre, deporre”; il Cristo pone a disposizione degli esseri umani la sua vita. Perché il verbo “porre” e non “offrire”? Prima di studiare La filosofia della libertà di Steiner non mi sarebbe mai venuto questo pensiero, ma dopo aver masticato almeno un pochino di lui, la risposta viene subito! Perché la vita del Logos, che il Cristo ha posto, deposto, per noi, è innanzitutto il mondo della percezione! Naturalmente la sua vita significa tante cose, ma in prima linea è il mondo della percezione, perché senza questa sua vita che è lì, “posta” davanti ai nostri occhi continuamente, non potremmo fare nient’altro di tutte le esperienze che facciamo.
È la sua vita, perché il Logos vive in tutte le cose, e le cose sono le percezioni – per percezioni intendo dire il mondo visibile, mica stiamo facendo spiritualismi. Il mondo visibile è la vita del Logos squadernata davanti a noi: io do, depongo la mia vita ai loro piedi, sotto il loro naso.
In teologia si discute sul significato di questo dare, porre la vita, perché se muore come fa a dare la vita? E allora che significa? Eccola la vita: tutto il visibile! Solo che questa vita Lui l’ha deposta ed è morta: il mondo della percezione è il Logos morto. Ma allora, ha posto la vita o la morte?
La vita morta del Logos che è nel mondo della percezione ha lo scopo di farci percepire la soglia: il mondo della percezione è un polo, l’altro polo sono i pensieri, i concetti. Se vogliamo fare di nuovo una lemniscata, da un lato c’è la vita deposta, che chiamo il mondo della percezione. Essendo tutte queste percezioni morte, l’esperienza del Cristo non è semplice, è invece duplice: il senso di tutte le percezioni, del Logos morto, è che io passo per la soglia, colgo questo trapasso dal mondo esteriore al mio mondo interno – io che penso – e nella mia interiorità ridò vita.
Il Cristo depone la sua vita, la porta a morte, per dare all’essere umano la gioia, la possibilità, la bellezza di ridar vita a tutte le cose, partendo dalla sua interiorità come pensatore, come creatore spirituale nel suo pensiero. Però si presuppone la consapevolezza della soglia tra due mondi attraverso la quale si entra e si esce. Lui ripete due o tre volte: “le pecorelle io le porto fuori” nella percezione, nei pascoli. Cosa sono i pascoli? Le percezioni! Se non ci nutriamo lì! Il nutrimento fisico del corpo è soltanto il presupposto per l’altro nutrimento.
Noi sentiamo maggiormente la vita, la nostra vita, la gioia, ci sentiamo nella pienezza, quando mangiamo fisicamente o quando viviamo durante la giornata? Il vivere è molto più vasto, molto più profondo, è tutto ciò che assimiliamo dal mondo: però devo capire che sono due mondi polarmente opposti, con una soglia. Il Cristo aiuta l’essere umano a capire che quando ha una percezione ha un frammento morto dell’universo, che la percezione è nulla, è metà della realtà che però non è neanche realtà, è realtà morta.
Invece la vita della realtà, la vita di tutte le cose sono io a darla: io porto le cose a vita pensandole col pensiero vivente, che trova l’essenza delle cose. Nel mondo visibile l’essenza delle cose è sparita, sparisce; il pensiero porta l’essenza delle cose a vita, alla loro vita eterna, perché il concetto è la realtà eterna di una cosa. I pensieri sono divini ed eterni, non sorgono e non spariscono. Questo avviene passando per la soglia, terminando di cercare la realtà nella percezione (perché lì non c’è) ed entrando, invece, nell’interiorità dello spirito umano dove, attraverso il pensare, risorge a vita tutto il cosmo.
Qualche teologo di stampo tradizionale, lo capisco bene, direbbe: ma sono cose strampalate! Invece chi ha un minimo di fondamenti di scienza dello spirito – cioè di una conoscenza oggettiva e solida della realtà spirituale – direbbe che il commento da me fatto ora è la cosa più scontata che ci sia. Infatti una persona aperta a queste prospettive un po’ più ampie capisce che il commento non dice che questo è l’unico significato della soglia, dei pascoli ecc., ma evidenzia che è senz’altro un discorso fondamentale. Altrimenti uno si chiede: ma allora dov’è questa vita che Lui ha posto, dove l’ha deposta, dov’è che io ricevo questa sua vita? E se non la ricevo nella percezione e nel pensare, dove la ricevo?!
Facendo questo tipo di riflessioni, uno proprio si sbriciola di gratitudine verso Steiner, perché dice: nessuno certo può avanzare un diritto a questo tipo di conoscenze, però è molto bello riceverle. Che ne so, magari dopo aver studiato La filosofia della libertà – che vi ho riassunto nel suo nocciolo, nei suoi elementi portanti – uno fa la scoperta di ritrovare quelle conoscenze nel vangelo di Giovanni. Ma le ritrovi nel vangelo in modo così fondamentale perché sono i fondamenti dell’esistenza. Non stiamo facendo cose da privilegiati o da elitari, no!, qui ci sono i fondamenti dell’esistenza.
Io mi sto un po’, come dire, scalmanando, perché queste sono cose relativamente nuove per i nostri incontri e io sono più abituato a dirle in tedesco; però spero che, nonostante i miei inciampamenti in italiano, la sostanza del discorso sia arrivata – o non ha passato la mia soglia per arrivare a voi?! –, perché è fondamentale.
È il tema fondamentale della soglia, dell’anima del Logos: il Cristo dà la sua anima, però è un’anima duplice: il mondo esterno e il mondo interno. Se io cerco il Cristo soltanto nel mondo esterno non lo trovo; se lo cerco soltanto nel mondo interno non lo trovo (perché qui ho astrazioni, manca il lato di percezione). Quindi l’anima intera del Logos, del Cristo, la posso trovare soltanto passando e ripassando sempre di nuovo la soglia: da dentro a fuori, da fuori a dentro. Se resto soltanto fuori ho il Cristo morto (Arimane), se resto soltanto dentro ho Lucifero l’egoista che vuole soltanto godersi i suoi sentimenti. Quindi l’esperienza del Cristo è quella dell’interazione, della reciproca fecondazione tra l’Io e il mondo; e dunque bisogna continuamente entrare e uscire, entrare e uscire.
Dispiace che questi testi nel cristianesimo tradizionale siano stati perduti, resi quasi cose sentimentali che valgono soltanto per nonnine e bambini; però anche questa è controforza e serve per essere superata. Invece il vangelo ha contenuti di una scientificità, universalità, e fondamentalità tali, che ogni persona veramente rispettosa di se stessa vorrebbe misurarsi con essi. Certo, essendo stato scritto in greco dal più grande iniziato cristico 2.000 anni fa, bisogna crearsi un pochino di accesso al testo, diciamo, e la scienza dello spirito di Steiner è proprio il primo strumentario (fra le altre cose, naturalmente) per accedere a questo tipo di testo.
Terminato questo sproloquio ritorniamo adesso ai particolari. Naturalmente ogni particolare acquista una luce diversa a seconda dello sguardo d’insieme. Lo sguardo d’insieme, la sintesi, costituisce una nuova polarità: se uno fa soltanto sintesi diventa talmente astratto che non la verifica nei particolari, ed ecco perciò che passa la soglia ed entra nell’analisi. Sintesi e analisi sono di nuovo due matrici del pensiero: la vita del Logos, la vita del pensare, del pensiero, è duplice, non semplice, è un passare sempre la soglia tra il gesto analitico e il gesto sintetico.
La scienza moderna nel suo insieme è molto unilaterale, perché conosce soltanto l’analisi: miliardi e stramiliardi di frammenti d’informazione. I computer poi hanno moltiplicato questo frammentare l’universo all’infinito – per posta elettronica t’arriva un testo di migliaia di bit –, e la frammentazione del cosmo è il parossismo dell’analisi senza più nessuna capacità sintetica del pensiero.
Anche la vita del pensare è duplice, perché l’analisi è dare maggior peso alla percezione e la sintesi è dare maggior peso al concetto. Sono due movimenti del pensiero. Per pensare bene, in modo fecondante, vivente, che dà vita, il pensiero si muove sempre e ha la percezione della soglia: adesso smetto di fare sintesi perché diventa astratto e manca la verificazione concreta e ritorno nell’analisi; adesso sto analizzando troppo e non tiro fuori il nesso, le fila… A che punto mi trovo? Per fare questi due movimenti del pensiero bisogna cogliere che c’è una polarità e quindi c’è sempre da passare la soglia.
Torniamo nei particolari del testo, riprendiamo dal v.10,11.
“Io sono il pastore Ð kalÒj” (o kalòs), quello bello e buono. Questa bella parola greca in un certo senso è proprio un invito a superare i moralismi gretti. Moralismo gretto è predicare il bene senza presentare, dimostrare che è anche bello: perché se è bello lo amo, ma se devo farlo soltanto perché è buono allora lo devo fare non per convincimento, non per amore, ma per costrizione, per dovere. E se mi costringo al bene, questo diventa un male, un veleno. Un bene fatto per costrizione è un male morale, perché la costrizione è il male morale.
La costrizione da che parte la mettiamo, dal ladro o dal brigante? Dal brigante! Tutte le chiese di questo mondo si devono chiedere fino a che punto sono state briganti, perché hanno dato molte botte. Addirittura c’è la botta che dice: se non fai questo vai all’inferno. Altro che brigante, qui c’è un super brigante, è un ricatto! Ogni forma di ricatto è brigantaggio, terrorismo. Però, intendiamoci, ho precisato che anche il terrorismo ha due polarità: da una parte ci sono i terroristi, ma dall’altra ci sono quelli che buttano giù le bombe.
“Il buon pastore, il pastore bello, pone la sua anima …” ognuno trovi la sua traduzione… è difficile tradurre... Io vi ho detto cosa significa: la traduzione più fedele in italiano è “te la mette a disposizione”, come un regalo. Fanne quello che vuoi. Cosa ho io a disposizione? Il mondo! Il Cristo è puro amore per gli esseri umani, Lui non ha nulla da recuperare per la sua evoluzione perché è l’unico che non ha mai perso colpi. Invece tutti i diavoli di questo mondo devono occuparsi della propria evoluzione perché devono recuperare; però, se non ci fossero loro non ci sarebbero le controforze e noi non potremmo esercitare la libertà.
Stamattina, meditando sul v.16, m’è venuta per la prima volta un’idea che mi ha reso felice. Il Cristo dice: “Io ho altre pecorelle che non sono di questo ovile, diventeranno un solo gregge con un solo pastore”. Io mi dicevo: in quel romanzetto famoso di cui ho parlato certe volte, che si chiama in italiano La scienza occulta di Rudolf Steiner – talmente appassionante che uno non si accorge neanche di leggere – c’è scritto: prima che sorgesse nel mondo questo ovile che è la Terra (sto allargando un pochino il concetto di ovile) ci sono stati altri tre ovili: l’ovile Saturno, l’ovile Sole e l’ovile Luna.
Il Cristo qui dice: non c’è soltanto l’ovile della Terra, non ci sono soltanto gli esseri umani, l’evoluzione umana, ci sono state altre pecorelle che hanno fatto altre evoluzioni, anch’esse hanno perso colpi, non sono ancora di questo ovile, però io amo anche loro. Per il Cristo non esistono esseri cattivi: i diavoli Lucifero, Arimane ecc. sono necessari all’evoluzione. Questi esseri hanno accettato il sacrificio di restare indietro, quindi hanno perso colpi e non sono ancora entrati nell’ovile che è la Terra 4 (come io la chiamo), sono rimasti indietro alla Terra 3, alla Terra 2, alla Terra 1. A loro il Cristo dice: voi siete rimasti indietro, ma potete occuparvi della vostra evoluzione mettendo i bastoni fra le ruote agli esseri umani, se no questi non esercitano la libertà.
L’amore del Cristo vede il bene anche là dove noi vediamo il male, perché considera ciò che noi chiamiamo il male una controforza, una controforza che va bene, che è necessaria all’evolu-zione e che quindi viene integrata in questo ovile terrestre, ne fa parte. In altre parole, in un senso più vasto, fanno parte di questo ovile che è l’evoluzione terrestre anche pecore che appartengono ad altri ovili (cioè esseri rimasti indietro), perché il loro compito è indispensabile.
Se gli esseri umani, facendo propria questa visione del pastore, dicessero: allora anche quegli altri, i tentatori, sono buoni, farebbero uno sbaglio! perché le controforze non sono né cattive, come le taccia un malinteso moralismo, né buone. Sono necessarie! Alla fine dell’evoluzione verranno integrate, ma soltanto alla fine, perché hanno il compito di offrire all’essere umano la tentazione.
Buono o cattivo è il mio modo di interagire col tentatore: se io colgo nel pensiero che è il tentatore e che ha la missione di pormi l’ostacolo – in modo che, vincendolo, io diventi più forte – allora l’ho colto nella sua funzione giusta, sia nel pensiero, sia nella volontà; se invece io soccombo, ritardo la mia evoluzione ma sono stato io a farlo, non il tentatore.
Occorre cogliere la soglia tra controforza e forza, tra due mondi polari in interazione; se a livello di pensiero non ho colto che questa è la controforza, a livello di volontà non realizzo il superarla, non pervengo all’esubero di forze che mi fa crescere e allora il male sorge in me come omissione di un bene. Io sono il buon pastore. Il pastore buono pone la sua vita – depone, mette a disposizione, offre, dona – la sua vita per le pecore.
10,12 «Il mercenario, che non è il pastore e al quale le pecore non appartengono, vede il lupo che si avvicina, abbandona le pecore e fugge e il lupo le carpisce e le disperde».
Il mercenario è il salariato, colui che lavora solo per la merce: misqÒj (misthòs), mercede, salario. Qui viene introdotta una nuova figura, una nuova metafora: non è più quella del brigante o del ladro, ma quella del mercenario. È di sicuro una variazione, anche perché prima aveva detto: “Tutti coloro che sono venuti prima di me erano o ladri o briganti”, non parlava di mercenari. Quindi il mercenario dev’essere una variazione o del ladro o del brigante. Il mercenario, il salariato, che tipo di spiritualità, di struttura mentale, animica ha? Ha più del ladro o del brigante?
Intervento: Del ladro.
Archiati: Del ladro! Infatti mica picchia, gli importa soltanto di rubare, di succhiare qualcosa per sé, gli importa soltanto il suo vantaggio, la sua propria evoluzione, i soldi, la paga; che poi le pecorelle siano sane e trovino pascoli buoni ecc., non gli importa. Delle cose dove dovrebbe darsi da fare un pochino di più, non gli importa. L’umanità moderna è piena di questi salariati, perché ha ridotto tutte le cose del mondo in un elemento astratto che è il soldo, il denaro, vanificandole nella loro realtà.
Il vangelo introduce questa nuova categoria del salariato, che deve avere una funzione perché altrimenti bastavano e avanzavano le due categorie del ladro e del brigante, che sono una polarità netta, pulita. Nelle varie descrizioni che Steiner fa della fenomenologia di Lucifero si trova proprio il ladro, e nei diversi aspetti della fenomenologia di Arimane, che picchia, attanaglia nei meccanismi ferrei del mondo materiale, c’è tutta la fenomenologia del brigante. Il fatto di introdurre il salariato penso stia a significare l’essere umano che vanifica la vita del Logos, del Cristo – che è il mondo delle cose concrete – ponendoci sopra un’astrazione. A seguito di questo nel mondo del lavoro, dove gli esseri umani dovrebbero fare cose insieme, per gli altri, il salariato non pone più in primo piano il motivo del lavoro, quello che si fa, ma il soldo, il denaro.
Questo io vedo in questa immagine poderosa e modernissima del salariato, dove il denaro diventa più importante di tutto. La spiegazione che il salariato dà è molto semplice, perché dice: col denaro compro tutte le cose, se non ho soldi non posso né mangiare né vestirmi né avere una stanza decente dove dormire, ecc.. Prenderei questa immagine del vangelo di Giovanni, il salariato, il mercenario, come indicatore del gradino evolutivo nel quale gli esseri umani vanificano tutto il mondo della percezione: perché lo riducono al soldo, proprio lo riferiscono a una pura astrazione, il soldo.
Da un po’ di tempo si dice “con i soldi si compra tutto, anche l’amore”, perché se ho i soldi, quando sarò anziano potrò pagare anche il doppio chi mi accudisce e pagherò l’amore. Se c’è gente che pensa di comprare con i soldi addirittura l’amore, è chiaro che questa figura del salariato si riferisce proprio all’uomo moderno. La polarità ladro-brigante era maggiormente illuminante per il IV periodo di cultura, quello greco-romano, mentre nel V periodo di cultura, che è il nostro, diventa sempre più attuale il salariato, l’uomo fissato soltanto sul denaro, che ha l’occhio, la mente, il cuore rivolti al denaro.
“Il salariato non è il pastore, le pecore non gli appartengono”, infatti gli sono state date da custodire ma lui non è il padrone; se una pecorella muore e lui può dimostrare che non è stata colpa sua, non gliene importa più di tanto. La struttura del salariato, qui nel vangelo di Giovanni, è quella dell’essere umano per il quale il denaro è diventato più importante dell’uomo. Vediamo qui descritto il mondo in cui viviamo perché, con un minimo di onestà, non mi direte che nel mondo del lavoro di oggi il fattore umano è più importante del denaro (salvo alcune eccezioni!).
“Vede venire il lupo”. Se il salariato è una variazione, nella nostra epoca, del ladro, il lupo è una variazione nella nostra epoca del brigante. Il lupo fagocita le pecore; cos’è che nel nostro mondo mangia l’essere umano al di sopra di tutto? La macchina: a tal punto la macchina mangia, fa sparire, ingoia l’uomo che ormai in tante ditte è più desiderata dell’essere umano perché fa molto lavoro e meglio, non ha problemi di sentimenti, problemi psicologici, per fortuna, fa le cose con perfezione e costa meno. Fagocitare significa far sparire; la macchina che fagocita l’uomo fa la disoccupazione.
Intervento: Anche la pubblicità è un aspetto del lupo.
Archiati: Vedete come è moderno questo testo, lo è veramente a un livello molto bello, ha molte conseguenze applicative.
Allora caratterizziamo il mercenario con le parole del vangelo:
1) in primo luogo viene detto che “non è il pastore”, quindi non vive le pecorelle come vita della sua vita, come sua proprietà intima dalla quale dipende la sua vita, perché la vita del mercenario dipende dal denaro che riceve e delle pecorelle non gli importa nulla;
2) seconda caratterizzazione: “le pecorelle non sono sue”, non gli appartengono in proprio. Le pecorelle sono in prima linea gli esseri umani: noi apparteniamo al pastore che è il Cristo, nel modo più assoluto che ci sia, perché ogni Io umano è un organo vivente nell’organismo spirituale che è il Cristo. Ogni Io umano è realissimamente un frammento reale del Cristo, se non apparteniamo a Lui non apparteniamo a nulla. Il mercenario invece è l’essere umano che non coglie il modo in cui tutti gli uomini si appartengono in proprio, non si accorge che ogni uomo è proprietà di ogni altro. Non ne ha coscienza.
Queste due caratterizzazioni del mercenario sono il riflesso, in negativo, di due caratterizzazioni del pastore. Il mercenario non è il pastore, il Cristo è il pastore. Le pecorelle non gli appartengono in proprio, non sono sua proprietà intimissima da cui dipende tutta la sua vita; per il buon pastore, invece, sono sue, gli appartengono, fanno parte di lui, non può vivere senza. Il Cristo senza di noi non è il Cristo, non esiste.
“Vede il lupo che sta venendo, sta avvicinandosi, lascia le pecore e scappa”, le pianta in asso e fugge “e il lupo le carpisce e le disperde”. Il lupo che fagocita e disperde è l’unilateralità del mondo materiale, il mondo della percezione, senza interazione con l’altro mondo, quello del pensiero. Quando l’essere umano si fa acchiappare unilateralmente dal lupo, è il mondo che lo ingoia, che lo rapisce; il mondo della materia è anche il mondo della dispersione, dell’analisi che non fa più sintesi, dello smembramento. Quindi il lupo che fagocita, cioè Arimane, è in prima linea il mondo materiale, però visto senza spirito: è il mondo della macchine che avanzano sostituendo l’uomo che crea solo problemi (le stazioni ferroviarie stanno sostituendo al bigliettaio i computer).
Che tipo psicologico è il lupo? Ho fame e tu, pecora, sei fatta apposta per essere mangiata da me! Il testo non dice “le mangia”, dice “le disperde”. L’umano non lo si può mangiare, lo si può solo omettere, quindi la dispersione è l’omissione dell’unità. Perdersi nel mondo della percezione significa omettere di rifare l’unità nel pensiero, perché il mondo della percezione deve essere frammentazione, altrimenti il pensare non avrebbe nulla da fare.
Il vangelo dice che il lupo ¡rp£zei (arpàzei) agguanta, carpisce le pecore, e che le skorp…zei (scorpìzei) disperde: questo verbo richiama proprio lo scorpione, che è la dispersione, la frammentazione, il non essere più gli uni per gli altri nel mondo materiale, dove si vive soltanto la materialità.
10,13 «perché è un mercenario e a lui non interessa nulla delle pecore».
È il mercenario che permette l’operare del lupo. Nella scienza dello spirito Steiner dice che l’operare di Arimane è possibile soltanto perché c’è stato l’operare di Lucifero; quindi prima c’è l’atteggiamento del ladro, dell’egoismo, del mercenario che non si interessa delle pecore, così poi il lupo può venire, agguantarle e disperderle. “Poiché è un mercenario e non gli importa delle pecore”. Dopo le prime due caratterizzazioni del mercenario date più sopra – la prima: lui non è il pastore; la seconda: le pecore non sono sue – adesso viene data la terza che riguarda la sua realtà interiore: “non gli importa delle pecore”.
10,14 «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me»
“Io sono il pastore, quello bello, buono, e conosco le mie pecorelle”, e adesso viene aggiunto “e loro conoscono me”. Chi è il pastore interiore nell’essere umano? È l’Io, è la forza che distingue il mondo esterno dove si va al pascolo, dal mondo interno che è l’ovile, dove si ritorna per passare la notte – la coscienza notturna e la coscienza diurna con la soglia dell’ovile, dove si esce nel mondo esterno e si rientra nel mondo interno.
Se il pastore è colui che conosce le leggi dell’evoluzione delle pecorelle, cosa significa che “le pecorelle conoscono lui”? L’essere umano è stato creato in modo tale che ha in sé l’aspirazione e tutta la potenzialità per diventare pastore, pastore di se stesso, di autocondursi, di autogestirsi sapendo: ecco, io adesso esco fuori dall’ovile, adesso io rientro dentro l’ovile. Essere uomini significa, da sempre, conoscere la voce del pastore che ognuno di noi è chiamato a diventare sempre di più: sapere quando si esce, quando si entra, dove sono i pascoli buoni e dove non ci sono, dove ci sono i pericoli e dove non ci sono pericoli, cosa si fa quando il lupo viene, cosa si fa per difendere le pecorelle perché ci appartengono, e cosa si fa quando c’è il mercenario.
Cosa significa “le pecorelle conoscono la mia voce”? L’essere umano sa, da sempre, il mistero del pastore, perché è stato creato come pastore potenziale: nella misura in cui diventa pastore di sé – e allora c’è la conduzione dal di dentro, perché non ha più bisogno di essere condotto dal di fuori; il Cristo che prima era pastore esterno si trasforma nell’organo della percezione della soglia interno “Io sono la porta” –, l’uomo diventa pastore anche delle sue pecorelle, cioè degli esseri della natura, gli animali, le piante e le pietre. Questi non sanno condursi da soli e l’uomo è chiamato veramente a diventare pastore, per condurli fuori quando c’è d’andare fuori, dentro quando c’è d’andare dentro, sapere dove sono i pascoli, quelli buoni, difenderli dai lupi. L’uomo moderno, l’umanità di oggi, come si comporta con le sue pecorelle, cioè con gli animali e le piante? Non da pastore buono, ma da mercenario, da lupo, da ladro e da brigante! Nella storia italiana Francesco di Assisi rappresenta una figura bellissima di pastore buono per tutti gli esseri della natura. Ma come lui quanti ce ne sono!?
La fecondità di questo testo risulta dal fatto che ben calza – in un modo non solo bello ma anche oggettivo, scientifico – sia per l’uomo pastore di sé, sia per l’uomo pastore degli esseri della natura. Nei confronti della natura l’essere umano oggi è chiamato, veramente, a diventare pastore, deve avere una coscienza della soglia e delle conseguenze negative del superare certe soglie, ad esempio quella dell’ingegneria genetica.
Un esempio di soglia: in agricoltura si fanno gli innesti, per esempio su un albero di pesco innesto un’altra varietà di pesco e si fanno gli incroci. Fin qui la soglia non è passata perché io non faccio costrizione alle forze della natura, sto a vedere cosa la natura fa. Quando invece intervengo sulle forze germinanti, sul germe, comincio ad agire da lupo, afferro e costringo le forze della natura: tutto però sta a percepire che lì viene varcata la soglia. È concesso all’essere umano di manipolare la natura, oppure non gli è concesso? E se la manipola e non è concesso? Conseguenze inimmaginabili ricadranno su di lui.
Decisivo è che gli uomini colgano o non colgano nella loro coscienza questa soglia, perché c’è una differenza enorme tra il dare alla natura la possibilità di fare lei qualcosa di nuovo, e il costringerla a mutare i geni degli esseri di natura: questo è un andare contro natura. Ogni manipolazione genetica è un andare contro natura.
Intervento: La manipolazione genetica ormai avviene in modo assoluto e anche irreversibile, i pollini delle piante mutate si sono diffusi, ormai la transgenica, anche chi non la vuole, ce l’ha sulle sue colture. Da tanto mi domando qual è il significato di questo permettere all’uomo di fare queste cose nella sua libertà: è arrivato al punto di poterlo fare, dunque ci sono state delle forze che glielo hanno permesso. Pagheremo le conseguenze chissà per quanto tempo perché non le conosciamo, non sono state sperimentate. Non sappiamo cosa sta succedendo, ma sta già succedendo.
Archiati: Affrontare la tua domanda frontalmente non è facile, tu stesso hai detto che è troppo grossa, quindi bisogna girarci un po’ attorno, non nel senso di evitarla, ma di coglierla sotto vari aspetti. Dotiamoci di strumenti conoscitivi: io non conosco nulla di meglio dello strumentario, delle immagini che ci dà il vangelo di Giovanni, e tra gli strumenti fondamentali c’è il contrapporre due opposti con un centro che li collega. Facciamo questo esercizio? Io procederò cauto perché non si può andare a spanne.
Non possiamo fare riferimento alla fenomenologia del ladro e del brigante, perché è troppo universale, poco applicabile allo specifico. Prendiamo invece la seconda simbologia, che secondo me è riferita molto più direttamente al nostro tempo: la triade del mercenario e del lupo con il pastore al centro. C’è un mercenario, col mistero del denaro, perché è per profitto che grosse industrie farmaceutiche costringono gli scienziati a determinate ricerche, ecc. Tra mercenario e lupo c’è l’uomo, pastore degli esseri della natura. Tra questi esseri c’è ad esempio il pomodoro, e allora l’uomo deve chiedersi: come faccio ad essere il buon pastore del pomodoro? E se divento mercenario nei confronti del pomodoro e lo sfrutto, cosa succede? E poi, facendo il mercenario, ho veramente un mio tornaconto? Questa è la domanda concreta che tu ponevi, se no rimane per aria.
Intervento: Dunque la causa è sempre una mancanza di consapevolezza.
Archiati: Certo. Ma prima devi ancora considerare il lupo. Tu ritorni frontalmente al problema posto dalla tua domanda, ma il tutto diventa troppo astratto, capisci? Invece questo giro di ermeneutica che stiamo facendo, diciamo di creazione di consapevolezza, non puoi farlo di acchito, ma devi passare attraverso immagini che aiutano a capire. L’uomo moderno diventa impaziente perché si rende conto che non ha gli strumenti, non è abituato a farseli, e vorrebbe subito il risultato.
Invece bisogna dirsi: un momento, vediamo un pochino, mi sembra che un testo come il vangelo di Giovanni parta proprio dal presupposto che certe domande così fondamentali non si possano affrontare astrattamente, direttamente, ma bisogna creare tutta un’ermeneutica, per lo meno una triade, una fenomenologia del mercenario, una fenomenologia del lupo, poi l’analisi di ciò che avviene al pastore stesso quando si comporta o da mercenario o da lupo anziché da buon pastore. Vedi che procedendo così gli strumenti di pensiero sono già diventati molto più ricchi, però diventa anche più complessa la cosa. Ma se l’abbiamo resa complessa abbiamo fatto un passo in avanti, perché il passo precedente era costituito da una domanda piena di paura.
Facciamo una pausa. Propongo che poi insieme cerchiamo di affrontare questo problema, usando però (altrimenti non ne veniamo fuori) non le sole filippiche contro l’ingegneria genetica, ma le immagini della triplice fenomenologia, molto più feconda, che il vangelo ci mette a disposizione.
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Se siete tutti d’accordo, facciamo ora questo esercizio importantissimo. Proposta metodologica: io riassumo, cioè metto a fuoco tutti gli strumenti che abbiamo in mano, poi tu gentilmente potresti riassumere di nuovo la tua domanda, ponendola in un modo molto centrale, così ci ritorna presente. Poi parliamo, colloquiamo con i pensatori che sono qui in sala (uno alla volta naturalmente). Teniamo presente che questa questione è forse la più attuale, con le conseguenze più vaste per l’evoluzione: il modo di interagire dell’essere umano, del fattore evolutivo umano, con la natura.
Prima chiave che abbiamo in mano: io ho proposto di dar fiducia agli strumenti che il vangelo di Giovanni ci dà, perché secondo me non ne esistono di migliori. Si può prendere anche La filosofia della libertà, però non tutti l’hanno letta, mentre il vangelo lo stiamo studiando insieme e secondo me va benissimo. L’essere umano nella prima parte dell’evoluzione è una pecorella, viene condotto dalla natura; è però chiamato a diventare sempre di più il pastore degli altri regni della natura, il pastore che decide consapevolmente delle sorti delle sue pecorelle. Siamo al punto in cui, sempre di più, l’uomo è capace di decidere delle sorti della natura, quindi siamo al livello in cui ha interiorizzato la soglia e il Cristo è diventato l’organo della soglia in noi – “Io sono la porta”.
Ora, rispetto a questa mansione di pastore ci devono essere due fuorvianze, due devianze, non una. Questa è la seconda chiave: le devianze fondamentali devono essere due, non una. Se pensi che ci sia soltanto un male da una parte, e il bene sia opposto al male, sbaglierai su tutta la linea, perché il bene non è mai opposto a qualcosa, il bene è sempre l’equilibrio tra due estremi e ogni estremo è un male. Un estremo è un male perché è privo dell’altro lato, e viceversa; quindi il bene è averli tutti e due, ma per averli tutti e due bisogna fare l’equilibrio, la sintesi.
Qui l’immagine della sintesi è l’essere umano come pastore degli esseri della natura. Le due devianze sono il salariato e il lupo, con le rispettive domande: quando e come l’uomo si comporta da salariato verso le sue pecore, che sono gli esseri della natura, e quando e come si comporta da lupo, e perché sono fondamentalmente opposti? Per esempio il lupo è un animale, il salariato è un uomo, perciò l’immagine stessa ci dice: sta’ attento, che se diventi lupo con gli esseri della natura, decadi tu stesso a livello animale.
Basta, io ho riassunto adesso gli strumenti che abbiamo a disposizione, va bene?
Intervento: Io avevo detto semplicemente che oggi l’uomo questo percorso di trasformazione genetica lo sta già facendo, è entrato in quello che è sempre stato un tabù, nel codice genetico. Cioè non ha più solo selezionato fra le piante quella con la struttura più grossa, ma è proprio entrato nella sua genetica. Questa cosa è ormai diffusa, basti pensare che in quasi tutta la Cina e in America le colture transgeniche sono un dato di fatto, cioè non si può più tornare indietro. Questa cosa è avvenuta perché l’uomo aveva la libertà di poterlo fare, ha usato questa libertà, ha usato delle conoscenze, ha fatto un percorso che ha portato fin qua…
Archiati: Sperimentando.
Intervento: Sì, sperimentando. Questa cosa in fondo è molto simile a quello che è stato per la bomba atomica, quando l’uomo ha scisso l’atomo, anche quello un tabù. Ma secondo me quest’ultima è più pericolosa perché quella poteva portare ad una distruzione, questa invece entra nel ciclo della vita trasformandola, perché questo seme transgenico sarà mangiato, i geni mutati artificialmente si diffonderanno a contaminare le piante vergini. Io la vivo così, secondo me la genetica è un tabù che non andava toccato e allora pagheremo le conseguenze. Però hanno agito delle forze di libertà se questo è avvenuto. E inoltre penso che le forze che agiscono su questo pianeta da milioni di anni siano comunque evolutive, per cui la loro direzione è sempre positiva e che ad esse si contrappongono ostacoli che danno la misura di queste forze. Però va accettato anche questo? È una domanda che non ha certamente risposta.
Archiati: Quello che tu hai chiamato tabù, il vangelo di Giovanni lo chiama la soglia: è stata passata una soglia senza aver consapevolezza che si andava verso tutto un mondo di conseguenze nuove. Quando la passi sei in un altro mondo, quindi è importantissimo averne consapevolezza.
Intervento: Per fare un processo di trasformazione bisogna sempre passare attraverso una soglia di caos; d’altra parte in un processo di trasformazione si deve pur cominciare da una trasformazione, anche cellulare, una coscienza cellulare nuova, e nulla può passare se non attraverso il caos. Steiner ha detto che nel mondo eterico ci sono quattro eteri, e c’è un etere che dovrebbe compiere proprio questo tipo di trasformazione a livello fisico: lui lo chiama etere chimico. Ne parla come di quell’etere che l’uomo riuscirà a far suo e opererà con questo etere come ultimo, perché è il più complesso, è quello che determinerà l’energia sulla materia. Quindi mi viene da pensare che è necessario anche per l’uomo passare attraverso a questo tipo di esperienza. D’altra parte l’umanità è ancora infante; così come tutti i bambini devono sperimentare passando anche attraverso dei rischi, facendosi anche molto, molto male, così anche l’umanità, pur facendo qualche cosa di sbagliato, ha una saggia madre che capisce quando il figlio sta facendo qualcosa che non deve fare, che le farà capire in modo saggio quello che non deve fare… Ma per l’uomo il passare attraverso un’esperienza nuova è più forte di lui!
Dal punto di vista oggettivo sono veramente orripilanti la clonazione, le mutazioni genetiche: è un cercare di inoltrarci al massimo nel mondo proprio delle percezioni, dove appunto ci sono queste scissioni della materia propriamente detta. D’altra parte l’uomo, se non giunge a questo tipo di scissione, di separazione, nel modo più totale, se non giunge a un grande movimento, a un grande caos, difficilmente comprenderà qual è la controforza che dovrà sviluppare per poter superare la soglia e così tornare all’unità.
Archiati: Se nel discutere procediamo con la “linea dritta” senza creare una fenomenologia polare, probabilmente non veniamo a capo del problema; io aspetto che saltino fuori il mercenario e il lupo.
Intervento: Vorrei trasferire il discorso nel settore che più da vicino mi riguarda, l’arte, perché non solo nella scienza è avvenuto questo tipo di scissione. Certi artisti si dedicano sempre di più a cercare di applicare il loro sapere e fare artistico a qualcosa che renda economicamente e che possa essere oggetto di un mercato: in questo senso sarebbero mercenari, un polo della polarità. Dall’altra parte c’è un’arte che si è trovata fuori luogo perché tende sempre più a rifugiarsi in un intellettualismo assolutamente luciferino e che, in realtà, diventa poi il lupo, nel senso che fagocita l’uomo artista togliendogli l’immaginazione, che invece dovrebbe essere il fenomeno centrale dell’operare artistico.
Quindi, come nella scienza c’è stata una scissione tra il mercato e il sapere, così anche nell’arte c’è questa scissione tra un operare artistico che, da una parte, fa il mercenario e quindi applica le sue categorie – per esempio musica rock, musica di intrattenimento, commerciale – ed è semplicemente alla ricerca di mercato; dall’altra parte, invece, vi sono gli artisti che si ritengono i puri, grandi artisti che si arroccano nell’intellettualismo e vengono fagocitati dal lupo, appunto dall’intellettualismo.
Secondo me l’unico modo per uscire da questa situazione (è la mia opinione, naturalmente) è di ridare coraggio e spazio ad un pensiero, in questo caso musicale, che sia il più possibile all’ope-ra, operante. Per esempio non fare prodotti confezionati, ma lavorare artisticamente in maniera da improvvisare, fare la musica, cantare insieme, suonare insieme, suscitare quanto più possibile le forze che possono trovare un punto di soglia, di equilibrio tra il lupo e il mercenario.
Intervento: Io vorrei ritornare all’ingegneria genetica. Già mentre parlavi prima pensavo al lupo appunto come alla macchina, alla tecnica. Io vedo l’ingegneria genetica un po’ come un barare: nel senso che all’uomo la natura non rende possibile innestare o incrociare un pesce dei mari del nord con un pomodoro, e allora l’ha fatto infrangendo le specie, infrangendo ogni regola.
Archiati: Le specie sono il nome – “chiama le pecorelle per nome” –, il nome sono le specie.
Intervento: La pecorella pesce e la pecorella pomodoro. L’uomo può barare grazie alla tecnica, grazie a quello che io vedo come un segno dei nostri tempi; è un modo, è il lupo che si mangia la pecorella pomodoro. Hanno incrociato queste specie perché ottenere un pomodoro che non marcisce, che si conserva di più, è più vendibile e più bello, quindi c’è l’aggancio con il salariato, con quello a cui interessa vendere il pomodoro che fa meno scarto. Cioè, vedo questa polarità tra il salariato, che ha interesse a che il pomodoro non marcisca neanche in casa (così non ne deve comprare un altro) e il lupo, che si sbrana la pecorella pesce e la pecorella pomodoro.
In questo segno dei nostri tempi, c’è il risultato di tutto il cammino anche conoscitivo, cognitivo dell’uomo, c’è anche il risultato di un cammino di omissioni, perché l’uomo ha tralasciato di diventare pastore, di responsabilizzarsi in quanto pastore che ha interesse che la pecorella pesce e la pecorella pomodoro rimangano. Inoltre c’è una lacuna di pensiero, perché c’è un modo meccanicistico di vedere il mondo, tutto è stato ridotto a mattoncini biologici che si possono ricostruire ecc., è un modo di vedere vuoto, senza spirito né anima. Quindi viviamo le conseguenze di un cammino di omissione, non solo morale ma cognitivo, che provoca questo segno dei tempi.
Intervento: Senza andare troppo lontano dal tema della polarità ladro-brigante, non sarà un caso se questo capitolo segue quello del cieco nato...
Archiati: Non è un caso!
Intervento: Allora applichiamolo anche nell’affrontare questa tematica. Nella realtà dell’uomo che non è ancora un pastore vivono le dimensioni (ancora) del ladro e del brigante, ma soprattutto c’è una cecità che gli impedisce, per il momento, di fare qualcosa di diverso da ciò che sta facendo. Da un lato c’è il brigante con la manipolazione violenta di tutti i regni della natura – e secondo me la manipolazione del genoma è solo l’ultima soglia di questo ciclo, ma ce ne sono di precedenti non meno importanti – e dall’altro il brigante è funzionale al ladro, perché sostanzialmente manipola la natura per rendere più ricco il bottino e appropriarsene.
Resta però, a mio avviso, un aspetto assolutamente positivo di queste due figure, in quanto esse sono il presupposto per divenire pastore. Inevitabilmente, se sono cieco e non conosco, cioè ignoro ancora le leggi di natura – più o meno volutamente, barando o no, adesso questo sarebbe moralismo, non lo so –, queste tuttavia sussistono; se le violento, prima o poi, come diceva il signore parlando di pericolosità, la natura diventerà nei nostri confronti ladra e brigante.
Un esempio rispetto a questo discorso della manipolazione del genoma: uno degli effetti più evidenti e più eclatanti è un aumento esponenziale delle intolleranze degli esseri umani, per esempio al pane o a tutti i farinacei, che sono stati sempre l’alimento fondamentale di tutta l’umanità (intolleranza è, diciamo, la parte meno grave dell’allergia). Paradossalmente oggi siamo colmi di pane, farina, grano transgenico, ma morenti di fame perché non solo non ci nutrirà ma ci danneggerà, ci farà morire. In conclusione penso che essere ladri e briganti oggi sia una necessità, per un uomo non ancora pastore ma tutto sommato ancora cieco.
Archiati: Per il figliol prodigo ancora nella fase di andata.
Intervento: Esatto. L’uomo vede solo i mattoncini o comunque gli aspetti più sensibili, di quelli si occupa, e quelli gli daranno tali batoste, lo renderanno così povero che forse, queste conseguenze, cominceranno a farlo muovere da un polo all’altro per divenire un po’ più veggente da un lato, e un po’ più pastore dei regni della natura dall’altro.
Archiati: Hai fatto tutta la tua disamina con le matrici del ladro e del brigante: le due immagini dell’uomo salariato e del lupo, aggiungono contributi conoscitivi? Casomai ci puoi pensare. Sono curioso di vedere se arrivi alla seconda serie di immagini.
Intervento: Sì, ci penserò.
Intervento: Nel corso delle passate conferenze hai accennato ai gravi pericoli che si corrono facendo la clonazione degli esseri umani e anche nell’usare sistemi contraccettivi. Vi sono delle ragioni molto precise. Ora mi domando quali siano le analoghe ragioni nel caso della trasmutazione genetica dei vegetali. Me lo chiedo perché altrimenti, se poniamo in termini solo generici il problema di questi tabù imposti dalla legge di natura, non sappiamo più dove si vada a finire con l’esercizio della libertà dell’uomo nel trasformare il mondo. Però, se io resto qui nel giardino dovrei aver paura anche di calpestare la singola formica...
Archiati: Come hanno sempre fatto i buddisti.
Intervento: L’hanno sempre fatto ma mi sembra un po’ un’esagerazione. Questo porsi il problema del dato della legge di natura è abbastanza simile a quello che fa la chiesa, che pone due pilastri: da una parte la rivelazione e dall’altra la legge della natura – tutto sommato è un modo molto materialistico perché stabilisce qualcosa che sta al di fuori di noi. Invece dovremmo cercare di allargare la nostra coscienza, capire ciò che è opportuno fare ai fini di un interesse di natura generale, universale. Bisogna entrare nel concreto per quanto riguarda questi problemi. Quando stavo al liceo il sacerdote che insegnava religione ci parlava appunto del problema delle leggi di natura e io gli chiesi: ma la natura non siamo noi? Lui fece un gran sospiro e non mi rispose. Adesso, dopo 30 anni, spero che tu mi possa rispondere.
Intervento: Tornando alle due devianze che hai indicato, suggerito, vedo nel mercenario, o salariato, l’uomo; nel lupo vedo la bestia.
Archiati: Difatti il mercenario è un uomo e il lupo è un animale… fin qui vai bene! Voglio vedere adesso come articoli…
Intervento: L’uomo nella sua vicenda può scegliere, tra un mondo e l’altro, può passare attraverso una soglia di sue decisioni rispondendo a se stesso e agli altri; il lupo no! Il lupo per natura deve sgozzare. Alcuni ricercatori sostengono che il lupo solitario lo fa perché è malato di un tipo di carie ai denti che gli dà fastidio, e sgozzare gli dà sollievo fisico – comunque sgozza senza nutrirsi. Dante metteva tre bestie all’inizio della Divina Commedia e nel lupo io vedo l’avidità, molla istintiva del potere finanziario. L’avidità di denaro riguarda il mercenario.
Il mercenario lo identifico in più persone, che hanno fatto un certo tipo di scelte: alla base c’è la persona che fa studi sul genoma – questa posizione la capisco bene perché è la mia di ricercatore – e quella persona può scegliere di fronte a sé tra il positivo andar avanti nel conoscere e nel sapere, e il vendere, gestire, brevettare quello che ha acquisito. Ma quello che acquisisco non è mio, fa parte di quello che mi dà Dio, mentre i brevetti al 99% sono collegati al mondo finanziario. Dietro a tutto ciò c’è qualche cosa che fa paura ed è l’avidità: una specie di lupo incontrollabile contro il quale viene veramente la voglia di combattere.
Lo scienziato, in questa filiera, all’inizio va a cercare la verità, perché se ha le idee chiare va a cercare la verità come grazia divina, lì può scegliere. Poi subentra quell’altro che gestisce il genoma e va oltre per ricavare profitti.
A sfondo di quello che ho detto fino adesso vorrei aggiungere un’esperienza dell’ente di ricerca in cui lavoro. Già nel 1927 si causavano mutazioni artificiali nelle specie vegetali (fiori, ortaggi, fruttiferi) applicando forti campi genetici alle cellule in riproduzione: così si dava una scombussolatina ai geni, poi gli organi mutati erano moltiplicati, allevati e si valutava. Se gli esisti della mutazione erano peggiorativi rispetto al genitore lo si buttava, se erano migliorativi veniva commercializzato il prodotto (ad esempio mediante innesti) o serviva per nuovi studi, incroci, ecc. I risultati positivi sono sempre stati bassi.
Ma quello che voglio dire è questo: la natura stessa dimostrava una sua capacità di difesa da queste forzature, di rigetto, perché molti esperimenti non davano risultato “utile”: infatti la mutazione artificiale poteva regredire anche dopo anni dalla mutazione, e l’assetto cromosomico tornava ad essere quello di prima – per esempio il ciliegio mutato a statura bassa con i raggi gamma, tornava alto. È anche noto che le piante spesso rifiutano, espellono gli innesti se sono innestate con gemme virosate, o gli incroci non riescono se non c’è affinità genetica tra le due parti, ecc. Trovo questo molto positivo e credo che la natura meriti molto rispetto ed è certamente forte, non mi aspetto necessariamente un forte contraccolpo negativo da parte sua.
Infine, circa quello che è stato detto prima: è vero che il morbo celiaco e le intolleranze sono in aumento, ma di lì a dire che sono conseguenti a qualche specifico maltrattamento umano della natura andrei prudente, ci sono tanti punti interrogativi. Condivido in pieno il discorso generale di una forzatura continua da parte dell’uomo, che alla fine dei conti fa danni, ma caso per caso userei un metodo di indagine approfondito.
Intervento: Io che non sono uno scienziato dico semplicemente questo: chi più del lupo desidera di avere un agnello da sgozzare? Il problema è nel salariato, è lui che deve distinguere, come nel caso dell’arte di prima: se noi compriamo un quadro non perché ci piace, ma perché vale la firma che porta, l’artista non produrrà mai arte, ma sempre denaro perché noi abbiamo denaro da spendere. Noi siamo i salariati: chi più del lupo potrebbe tutelare un gregge… perché se gli finisce il gregge lui muore.
Intervento: Ma il lupo se ne accorgerà solo quando il gregge è finito! Sono d’accordo col fatto che probabilmente siamo di fronte ad un’umanità ancora cieca. Se fossimo consapevoli che questo gregge finirà, passeremmo attraverso una soglia di decisione cosciente circa quello che stiamo facendo. Ma questa consapevolezza non l’abbiamo, per cui noi agiamo nel mondo da ciechi e, guardate, la cosa è ancora peggiore perché la maggior parte delle persone che agiscono così sono in buona fede: chi lavora nell’ingegneria genetica lo fa perché ha in mente di migliorare la natura, di guarire le malattie genetiche, ecc. Per cui, come sempre, c’è una parte di buono ma manca proprio la percezione della soglia, la capacità di vedere in grande e di capire qual è il limite del mio agire. Vale veramente la pena di guarire qualunque malattia? Alcuni si interrogano circa i trapianti di organi: la grande domanda è sui limiti da mettere alle possibilità umane. Ci vuole una coscienza grande per entrare in un ciclo grande di vita.
Però le persone in buona fede sono tante: quelle che ieri buttavano il cieco nato fuori dalla sinagoga non erano in mala fede, si trovavano davanti a qualcosa che non capivano assolutamente. Ma lavorare sul gene è agire sulla natura senza saperne le conseguenze perché non riesci ad avere ancora una visione così ampia e consapevole di quello che stai facendo. C’è una polarità fra un gruppo e un salariato. Anche se sei in buona fede, il fatto di non vedere che tutto passa attraverso il denaro è una cecità; perché ciò che fai viene usato per qualcosa che tu non volevi, magari, però viene usato. Certamente il percorso è un percorso di coscienza. Anche nella lettura del vangelo c’è la coscienza della grande polarità, del grande respiro del mondo.
Archiati: La prima cosa che viene detta sul pastore è che conosce le pecore – cammino di coscienza, no? – e le chiama, le conosce singolarmente e le chiama per nome. Per l’uomo, la chiamata a diventare pastore significa creare una conoscenza – non soltanto materiale ma anche spirituale – dell’identità delle specie, che “vanno chiamate per nome”. Il creatore, il primo pastore divino, o il Logos, ha creato le specie che ci sono e non sappiamo fino a che punto sia lasciata aperta all’essere umano una cocreazione, un partecipare creativo. Comunque questo partecipare creativo presuppone, per essere positivo, la conoscenza della prima creazione dell’esistente, in modo da stabilire i limiti tra il fattibile che è positivo per l’uomo e per la natura e ciò che invece diventa negativo.
È questione che presuppone la conoscenza. Il primo assunto è che “le conosce e le chiama per nome”: le conosce cioè nella loro identità singola, quindi nei limiti che la natura stessa ha definito: ad esempio il mulo è un ibrido tra un asino e una cavalla, però il mulo l’ha tirato fuori la natura prima che fosse l’uomo a far unire l’asino e la cavalla. Noi parliamo di “incrocio” perché vediamo nel mulo elementi comuni all’asino e al cavallo, però rispetto a questi il mulo è una specie nuova, creata dalla natura.
Intrvento: Però è sterile…
Archiati: Sì, ma l’ha fatto la natura.
Intervento: In natura c’è un’evoluzione continua. L’uomo vuole accelerarla, anticiparne il ritmo, precorrere i tempi, andar più veloce del giusto, e questo non va bene.
Archiati: È l’elemento di precipitazione e di anticipazione, Nella prima metà dell’evoluzione, la controforza deve essere soprattutto di natura ritardataria; invece nella seconda metà, nel tratto che va verso la fine (in Fig. 8, il tratto che segue alla freccia) la controforza deve essere di natura precipitatoria (non “anticipatoria”, perché anticipare può avere un significato troppo diverso; ma “precipitatoria”).
Intervento: Questa caduta ha a che fare con la caduta del peccato originale?
Archiati: Ci sono due forme di caduta.
Intervento: In un certo senso quella è superbia, no?
Archiati: Dire superbia è pericoloso perché è usare categorie moraleggianti.
Intervento: Allora è meglio dire: fare più di Dio, creare?
Archiati: No. È “precipitare” nel senso di precorrere i tempi: se tu precorri i tempi e vai più veloce del giusto ti danneggi. È come dare dei contenuti da capire a un bambino che ha 5 anni quando invece li può capire soltanto a 10: è prematuro farlo, quindi lo danneggia. Dove cogliamo noi il prematuro che poi ci danneggia? Nel fatto che non c’è ancora la coscienza di quello che facciamo. Quando un essere umano fa qualcosa senza sapere quello che fa, la cosa è prematura. Se fosse abbastanza maturo moralmente si proibirebbe di farlo, perché si direbbe: la legge evolutiva mi dice che è legittimo fare qualcosa soltanto quando so quello che faccio.
Intervento: Volevo tornare al discorso del cieco. Vedevo nel mercenario e nel lupo immagini date dopo la svolta, dopo la presa della vista, quindi il vangelo introduce forse un elemento di consapevolezza maggiore. Cioè, il ladro e il brigante sono un passetto indietro rispetto al mercenario e al lupo, e questo vuol dire che allora è cambiato qualcosa nella consapevolezza dell’uomo. Tutta questa mancanza di consapevolezza io non ce la vedo, oggi un uomo che è mercenario sa di esserlo, finge di non saperlo, però sotto sotto ha le forze conoscitive (anche se sono all’inizio) per capire chi è in fondo il mercenario. Così come si rende conto di chi è il lupo. Il problema di cui non si rende conto è che perde di vista la soglia, si unilateralizza sempre più perdendo il bene di andare di qua e di andare di là – che è anche fisiologico, giusto, io credo. Occorre consapevolezza.
Per ricollegarmi al discorso del mercenario, oggi il mercenario che agisce in me può essere anche quello che mi ruba percezione, perché se io non ho la consapevolezza, non ho la chiarezza e non guardo veramente, non posso crearmi il sostrato per pensare. Oggi che cosa si fa effettivamente? Non si guarda, ma si vede; non si è nel tempo, non si ha la pazienza di vedere quello che ci viene incontro, di vedere però con un occhio preciso, oggettivo, perché guardo quello che la percezione mi dà ma ho già pensato prima – spesso ci facciamo dei preconcetti su ciò che vediamo e quindi non guardiamo. Credo di aver guardato, ma poi mi rendo conto che ho saltato il primo semplice passaggio di guardare la realtà e quello che la realtà mi offre.
Intervento: Mio figlio si è laureato da poco in medicina, sta facendo il dottorato di ricerca in ambito genetico e sta studiando i cromosomi relativi alla pressione. Faceva un’osservazione interessantissima: diceva che l’atteggiamento con il quale lo scienziato “mercenario” si pone di fronte a queste tematiche è utilitaristico. Con questo fine studia l’oggetto in questione – e che sia un oggetto vivente umano, non importa – e perde di vista l’aspetto evolutivo. Infatti, in un certo quadro clinico, alcune alterazioni che ai nostri occhi sembrano relative alla sola pressione in realtà potrebbero risultare funzionali all’evoluzione dell’organismo se lo sguardo non fosse solo utilitaristico, se non mirasse a risolvere subito la questione “pressione” – perché tutti abbiamo il terrore della pressione alta –, se fosse concesso il tempo per approfondire gli studi dai quali magari alla fine risulterebbe che questo aumento di pressione è, appunto, funzionale.
Una delle cecità alla quale siamo oggi esposti è il non accorgerci che il pomodoro è pomodoro in quanto il Creatore ha pensato e ha conosciuto e ha amato il pomodoro; non ha pensato il pomodoro con un fine esterno al pomodoro stesso. Noi quando facciamo interventi di mutazioni genetiche sul pomodoro, lo facciamo in vista utilitaristica di qualcun altro che non è il pomodoro stesso; in questo modo uccidiamo il pomodoro, o perlomeno abbiamo un’idea malata o già mezza morta in questa pretesa di creazione. Io non trovo niente di strano che gli esseri umani provino a creare, ma per farlo occorre amare – come spiega un libro straordinario, Il mistero dell’amore di Pietro Archiati, compratelo se ancora non l’avete comprato! Per creare bisogna amare, e in fondo io non amo l’essere che penso di poter creare se lo voglio creare a vantaggio di qualcun altro; allora questo essere che nasce come un Frankenstein morirà, prima o poi, e avremo tutto il tempo evolutivo per vederne le conseguenze. Comunque è fondamentale, come diceva già Goethe più di 200 anni fa, accorgersi che gli esseri sono fini a se stessi in quanto hanno pienezza in se stessi (e non per o in qualcun altro).
Archiati: Stavo pensando che con tutte queste teste così illuminate non vi serve un relatore: torno in Germania.
Intervento: In coda a quanto detto segnalo una presunzione letta in un articolo del New York Time, di scienziati che si propongono assolutamente di superare addirittura la natura: la natura così com’è non va bene e noi la supereremo, faremo una natura migliore e più intelligente. Era un articolone interessante, l’ho letto sull’Internazionale. Una persona ha parlato prima di maggiore e minore consapevolezza, del passaggio da una fase precedente di buona fede ad un’altra più di malafede: anche lì non so come vedere la cosa, perché la malafede vien spesso nascosta e i problemi sono grossi. Per esempio per quanto riguarda il nucleare sappiamo benissimo che è stato contestato, che alla fine ci sono scorie radioattive che non sappiamo dove buttare, ecc; però manca l’energia e c’è chi ancora insiste che tutto sommato bisognerebbe farle, queste centrali. Allora questi sono in buona fede?
Intervento: Ho l’impressione che in questo discorso del brigante e del mercenario ci siamo da molto tempo, nel senso che la nostra scienza è sempre stata scienza parziale e che da questa problematica è difficile uscire. La scienza, la tecnica, per migliorare la condizione dell’uomo sta analizzando e facendo tentativi, ha usato vari modelli, biologici, biochimici, atomistici, e così facendo ha risolto molti problemi all’umanità, soprattutto riducendo la fatica. Mi preoccupa però l’andare a tentoni: la scienza ha dei poteri ma non riesce a capire effettivamente la realtà ultima delle cose e di conseguenza si fanno errori. L’uomo, che non è perfetto, non riesce a vedere l’insieme, si perde in questa problematica e deve sbagliare – cioè è brigante, mercenario. Io lo vedo più brigante perché entra di forza in certe problematiche pensando di conoscerle.
Intervento: “Le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”.
Archiati: L’argomentazione viene più dal lato emotivo, direi, comunque è molto pesante.
Intervento: Da una parte possiamo considerare la saggezza della natura, per cui se anche si distruggessero tutti i pomodori del mondo, basterebbe un seme che ritornerebbero ancora tutti. Quindi la conservazione, l’ovile: conservare la specie per una forza di rispetto è una cosa molto piccola, però la si può fare. Inoltre, conoscendo la legge dell’essere di ogni singola specie, si mantiene il contatto anche con lo spirituale di questa specie e si fa in modo che questa sua vita venga mantenuta, che non abbandoni la Terra, che sia sempre possibile farla tornare a vivere anche quando sembra che sia perduta, perché c’è la possibilità di una rigenerazione. Le leggi della materia sono superabili dalle leggi di Dio, e quindi se la coscienza manca, con questi semi il mondo rinasce anche di fronte a una distruzione.
Archiati: Ammiro il tuo ottimismo assoluto, ma sono sicuro che, qui, almeno gli scienziati avrebbero perplessità.
Intervento: Mi ero posto davanti a queste tre figure: il mercenario, le pecorelle e il lupo. Era come se mi trovassi di fronte a un disegno, un crittogramma, e mi chiedevo: cosa cavolo c’entro io con tutto questo? Poi, come nei quadri di Escher, sono entrato dentro nel quadro e mi sono trovato mercenario (perché evidentemente non potevo essere né lupo né pecorella) e mi sono posto un quesito: nella mia situazione da mercenario, che rispecchia esattamente la vita che sto vivendo, cosa posso fare? Io posso solo darmi da fare fino al limite della paga che prendo, non posso mica farmi scannare dai lupi per difendere le pecore!
Secondo quesito: cosa succede se ometto di portare la mia responsabilità cosciente oltre quel limite, che io ritengo invalicabile, dello stipendio? Succede che prima o dopo il lupo mi fa fuori le pecorelle (per lo meno me le disperde) e allora il mio ruolo, che è di guadagnare una paga custodendo le pecore, cade. Quindi, sto pensando, la cosa si annullava semplicemente da sola, perché era fatta a livello di ordinarietà entro il quale la giustificazione del mio fine viene a cadere da sola.
Archiati: Stai dicendo che gli scienziati che abbiamo oggi non arrivano neanche a quel punto di pensiero lì, che è così semplice?
Intervento: Sì. Però a questo punto cosa devo fare, essendo io oggi come il mercenario? Allora mi è venuta in mente una cosa, che magari non c’entra niente, uno di quei pensieri che ogni tanto passano per la testa e lo cogli come pensiero vincente. Mi sono ricordato che nel De bello gallico Giulio Cesare, il generale, ogni tanto dice: quando la prima linea era incerta nella battaglia, il generale si precipitava tra i suoi, prendeva spada e scudo e combatteva, e la prima linea si ringalluzziva tutta: “Il generale è con noi, il generale è con noi!”
Archiati: “Il buon pastore va avanti alle pecorelle”, tutte queste immagini ci sono nel testo, eh!
Intervento: Ma allora, mi sono detto, se io mi sento mercenario non è detto che debba sempre rimanere mercenario: io posso anche cambiare, combattere e difendere le pecore. Non so se dopo loro combatteranno con me contro il lupo, ma nel ragionamento che stiamo facendo un fatto è certo e io ne sono convinto: che le tre figure del quadretto sono legate da una relazione profondissima, e se io faccio il mio passaggio da mercenario a pastore, se il passaggio lo compio io, lo compiranno anche gli altri. Se io divento pastore le pecorelle non saranno più pecorelle e il lupo non sarà più lupo, entreremo tutti e tre in una nuova dimensione dove sarà tutto da reinventare con altri rapporti. Ma certo è un fatto: che io ho passato la soglia e nella nuova dimensione dovrò trovarne un’altra.
Archiati: Nella teologia si esalta il concetto di conversione, il mercenario che si converte in pastore.
Intervento: Vorrei tornare al solo testo: vedo che parla e racconta del mercenario e del lupo dal punto di vista del buon pastore; quindi vorrei ribadire la centralità della soglia in cui avviene questa trasformazione chimica – deve avvenire affinché le due polarità siano poli necessari.
Mi attengo al vangelo e l’immagine che mi viene data è quella del buon pastore sulla soglia dell’ovile, il buon pastore che si deve occupare delle pecore che sono nell’ovile. C’è inoltre il mercenario, anche lui è un pastore però è un pastore pagato, è come se si mettesse davanti alla figura del buon pastore, la adombrasse in un certo senso – tra l’altro in greco c’è la parola misqwtÒj (misthotòs) che assomiglia tanto a mistificazione, immediatamente mi è venuta questa immagine della mistificazione. Cioè lui, che non è il vero buon pastore, in un certo senso mistifica la situazione. Però è una figura centrale perché sulla soglia dell’ovile c’è lui.
Allora la prima domanda è: come pastore, buono oppure pagato, ti è lecito oltrepassare la soglia ed entrare nell’ovile per occuparti delle pecore? Cioè entrare nel campo della natura (adesso stiamo parlando del campo del transgenico)? La risposta è: sì, mi è lecito sia come buon pastore sia come mercenario, perché quello è il compito che io ho davanti, quindi mi è lecito entrare e occuparmene. Il problema è: come te ne occupi? Adesso prendiamo l’uomo in quanto tale, l’essere umano che non è più pecorella ma diventa pastore: quale tipo di pastore diventa? Il salariato oppure il buon pastore, cioè Cristo?
Tra l’altro, secondo me, non è giusta la polarità tra lupo e mercenario, perché il mercenario sta nel mezzo, è quello sulla soglia, quello che deve entrare nell’ovile come potrebbe fare il buon pastore: il lupo riassume in sé le due polarità perché è contemporaneamente ladro e brigante, cioè ruba le pecore perché se ne appropria e anche le disperde, le costringe, le arraffa.
Allora, diciamo che io, essere umano, come pastore sono proprio in bilico quando oltrepasso la soglia, e la discriminante è quella di vedere se mi sto comportando come mercenario, cioè come uno che in realtà non conosce le pecore, non ne conosce il nome, non gliene importa nulla, perché scappa quando vede entrare il lupo, lascia che si compia il disastro, è costretto a scappare. Ma soprattutto, oltre alla conoscenza gli manca l’amore, cioè l’interesse verso le pecore…
Archiati: Perché non sono sue!
Intervento: Perché non sono sue. Lui è pagato, non c’è lo spirito dell’amore, non c’è l’amore intessuto di conoscenza. Allora ti è stata data la facoltà di entrare nel regno della natura per diventare creatore – il fatto stesso che tu abbia una mente che ti permette di andare a penetrare nei più reconditi misteri significa che ti è lecito. Ma bisogna vedere come lo fai, se diventi mercenario o buon pastore, se usi o meno la conoscenza permeata d’amore, sostanziata di amore, di interesse. Il buon pastore conosce le sue pecore una per una perché le ama, ha questo interesse, questo amore; questa è la discriminante se no, secondo me, si entra in un campo molto arido. La conoscenza senza amore è pericolosissima, ti costringe poi a scappare.
Archiati: Trasportiamo nell’umano. Il mercenario che dice “non sono mie” è lo scienziato, l’uomo moderno, colui che si illude che la natura non gli appartenga. Così pensando, pensa un pensiero sbagliato: io non appartengo alla natura e la natura non mi appartiene, le rovine che eventualmente creo nella natura sono della natura. Invece buon pastore è chi ha capito che la natura e l’uomo si appartengono a vicenda, che uomo e natura, pastore e pecore, non sono due esseri diversi ma hanno un destino comune. Se è un destino rovinoso è rovinoso per entrambi. Quindi è un processo di coscienza.
È stato usato il termine “pericoloso”, ma pericoloso è categoria moraleggiante, traduciamolo in termini di scienza oggettiva, quindi pulita. Il pensiero fondamentale, giusto, che corrisponde alla realtà, è che non ci sono due destini diversi per la natura e per l’uomo, ma c’è un destino unico. Il vangelo te lo dice con l’immagine che il pastore è colui che sa, che vive nel suo animo – chiamalo amore, conoscenza e amore – che le pecore appartengono al suo essere, cioè ne fanno parte, quindi non ci può essere un destino delle pecore che non sia il suo. Il mercenario vive nella coscienza illusoria che le pecore non gli appartengano, come se ci potesse essere un destino della natura che non è anche il suo.
Intervento: È quello che uno percepisce come pericolo: qualcuno di noi percepisce questa unità di strada comune all’uomo e alla natura, altri invece vedono la natura come un campo di predazione.
Archiati: Il concetto, la categoria “pericoloso” è riferibile a chi ti comanda di fare qualcosa dicendo che se fai l’opposto fai male, senza fondarlo conoscitivamente: ti ricatta con un “è pericoloso”. Dimmi invece perché è pericoloso così capisco da me! Quindi il concetto di pericoloso precede, in un certo senso, la conoscenza perché quando io raggiungo la conoscenza oggettiva del fenomeno posso decidere tra le scelte possibili. Qui ce ne sono due: o tu hai una matrice di pensiero che ritiene che i destini della natura e i destini dell’uomo siano scissi o scindibili, e allora c’è un modo di pensare; oppure l’alternativa è che tu abbia la coscienza che il destino è unico.
Intervento: E com’è che l’uomo arriva ad avere la coscienza di non essere distinto dalla natura?
Archiati: Coltivando la coscienza.
Intervento: Appunto, la motivazione del fatto che c’era, c’è e ci sarà come essere.
Archiati: Se omette di coltivare questa coscienza e se è vero che non ci sono due destini diversi, allora subentra il tuo discorso che la natura dimostrerà all’uomo che non ha destino separato; cioè, se non l’ha capito per forza di conoscenza e di amore per la natura, lo capirà in base alle sofferenze che ne deriveranno. Però prima o poi deve saltar fuori se è giusto l’uno assunto o l’altro assunto, perché non possono essere giusti tutt’e due.
Intervento: Se non ricordo male, nella Bibbia è dato all’uomo il potere di agire sulla terra e sulle piante, mentre non gli è dato di agire sul regno animale; quindi l’uomo ha questa possibilità di intervenire, poi sta sempre a lui di vedere quanto, fino a che limite e come agire. Questa possibilità c’è ed è giusto che ci sia, in chiave di libertà, perché l’uomo, il guardiano, quando oltrepassa questa soglia deve misurarsi col rischio di andare a cadere nell’abis-so. Sta sempre a lui decidere di tornare indietro oppure fare l’esperienza con un’espansione di coscienza, si spera in chiave positiva.
Archiati: La Genesi dice: Dio concesse all’uomo, visto che ha voluto per forza carpire questo frutto, di cogliere dall’albero della conoscenza, gli sottrasse però di intervenire nell’albero della vita. Però il testo non dice che gli precluse l’accesso ai misteri della vita per tutta l’eternità, non lo dice! Noi stiamo constatando che finora – ed io continuo a dire per tutta la prima metà dell’evo-luzione – l’essere umano nella sua conoscenza non aveva accesso ai misteri della vita; però ora comincia ad avere questo accesso, soprattutto comincia ad essere capace, con la sua tecnologia, di intervenire sui destini della vita. Questo è un dato di fatto.
Quindi è chiaro che quella affermazione della Genesi riguardava la prima parte dell’evoluzione, il tempo in cui l’essere umano non aveva ancora la possibilità di intervenire da buon pastore sul vitale; oggi, se vuole, perché è libero, ha la possibilità di intervenire sulla vita con la coscienza e con l’amore di un buon pastore, ma ha anche la possibilità di farlo da mercenario.
Noi ora ci troviamo a una grande soglia, che per migliaia e migliaia di anni non è stata valicata e che ora stiamo passando: l’essere umano sta diventando capace di decidere dei destini della vita, della piante e degli animali (il minerale non è vivente: l’essere umano ha potuto fargli sempre quello che voleva). Kant diceva: è precluso all’essere umano di capire i misteri della vita, lì non ci può far nulla, e lo metteva giù come un dogma; ma oggi è contraddetto dai risultati della tecnica, e a questo punto l’essere umano è libero di essere mercenario oppure buon pastore.
Adesso riassumo il discorso, ma prendetelo come spunto. Le prospettive sono due: o andiamo verso la rovina o ci rendiamo conto che se roviniamo la natura roviniamo anche noi, e che la cosa più urgente da fare è di coltivare una scienza che conosca non soltanto la parte materiale del mondo ma anche la realtà spirituale. Quindi la cosa più urgente è la cosiddetta scienza dello spirito, nel senso però di scienza totale.
Qualcuno mi ha chiesto: coloro che coltivano questa scienza dello spirito, che si rendono conto che è urgente diventare buoni pastori, in piena libertà, non sarà che siano pochissimi e che incidano troppo poco su tutta la massa che va nell’altra direzione? A quel punto bisogna capire una delle leggi evolutive fondamentali: il bene morale e intellettuale non è mai questione di quantità, ma di qualità. Il male invece sta nella carenza di qualità e, come sostituto, si butta sulla quantità; questo fa sì che è previsto che la dimensione quantitativa del mondo verrà distrutta, perché quantitativamente saranno molti di più gli essere umani che faranno da mercenari, e quindi distruggendo le pecorelle distruggeranno se stessi. Però per l’evoluzione del cosmo basterebbe quell’Uno che 2.000 anni fa da solo ha portato nella Terra la perfezione dell’umano, perché in Lui la Terra e l’umanità siano salvati. Perché Lui è il buon pastore e lo è sempre. Questa per me è l’essenza del cristianesimo.
Questo non vuol dire: allora va tutto bene, lasciamo che la massa vada avanti così! No, c’è urgenza di far emergere, in più persone possibili, la coscienza dell’urgenza di coltivare una scienza dello spirito. Però non lo puoi imporre, perché l’essere umano può farlo soltanto liberamente. Come risvolto psicologico, animico di questa affermazione, viene spontanea una domanda: stando a come sono gli esseri umani, non andrà a finire che quantitativamente il negativo sarà maggiore? La risposta è molto semplice: sì, perché per fare andare le cose negativamente non c’è bisogno di alcuno sforzo, basta lasciarsi andare; invece per creare il positivo bisogna usare la libertà, cioè bisogna fare qualcosa che la natura non fa da sola. E a questo punto t’arriva subito colui che dice: ma questo è un discorso elitario. Beh, ma allora il discorso che faceva il Cristo era più elitario ancora!
Concludiamo. Queste cose vanno pensate fino in fondo, senza il patema d’animo del devi, devi, devi, altrimenti vai all’inferno, ma con la consapevolezza propria del pastore del cosmo in cui viviamo: io posso diventare buon pastore, quindi godermi di essere io il buon pastore, godere il benessere delle pecorelle ecc., soltanto se coltivo la coscienza, se conosco le pecore, se so chiamarle per nome. Lo farò perché mi dà gioia, perché dà pienezza a me e alle pecore; se lo faccio per il ricatto del “è pericoloso” andremo tutti a male. Invece lo faccio per gioia, per esuberanza del cuore!
Mercoledì 27 agosto 2003, pomeriggio
vv. 10,15 – 10,30
Alle riflessioni che hanno sollecitato la bella ora di scambio che abbiamo fatto questa mattina, c’è da aggiungere qualcosa circa il rapporto che l’Essere centrale e complessivo del sistema solare, il Cristo, il Messia, l’Io dell’umanità, lo Spirito della Terra, ha assunto con la Terra, soprattutto a partire da 2000 anni fa.
Questo rapporto importante viene manifestato nel capitolo 9, dove il Cristo intride con la sua saliva la terra, cioè il minerale, l’elemento di disgregamento morto della Terra. Ci si potrebbe chiedere: perché per guarire il cieco ha fatto tutto questo, quando aveva ben la forza di guarirlo in modo più semplice? Steiner, nella VII conferenza del ciclo Il vangelo di Giovanni (Amburgo, O.O. 103) descrive proprio questo mistero. Misteri così grandi non si capiscono certo subito, e i due o tre passi che ne parlano vanno sempre riletti. Steiner parla del cieco nato e dice che non a caso il Cristo intride la terra con la sua saliva perché geologicamente la Terra già da qualche millennio aveva passato il suo apice di vitalità. Il fenomeno è analogo a ciò che biologicamente, fisiologicamente, avviene nell’individuo umano che quando nasce è all’inizio di un ciclo di ascesa delle forze vitali, poi prosegue, raggiunge il culmine e giunge all’inversione di marcia. Infatti anche la nostra vita è un arco: c’è un’andata e un ritorno, c’è un’inversione di marcia.
Uno dei significati del mistero della soglia è che dove ci sono delle polarità – coscienza e vita – ci sono sempre inversioni di marcia, quindi bisogna fare attenzione a quando un ciclo finisce e ne comincia un altro. L’incontro tra un ciclo che finisce e un altro che comincia è la soglia. Nella scienza moderna, nelle scienze naturali materialistiche, una delle cecità è che manca vistosamente la consapevolezza di evoluzioni cicliche, quindi di evoluzioni che invertono continuamente il senso di marcia.
Parlare di progresso all’infinito – una linea che va sempre avanti – è in contraddizione con tutte le leggi evolutive: ogni pianta ad esempio nasce, cresce e poi si secca e muore e rinasce un’altra pianta. Il pensiero che ci debba essere il progresso economico, che il prodotto sociale debba sempre crescere, è un’assoluta paranoia perché va contro tutte le leggi di ciò che non è puramente minerale, di ciò che non è puramente quantitativo. Ciò che è puramente quantitativo si può immaginare di aumentarlo all’infinito; ma non esiste un aumento all’infinito senza limiti a nessun livello, nemmeno a livello del minerale-morto. L’unica cosa che si può aumentare all’infinito sono i numeri, perché sono astratti e non si riferiscono a nessuna realtà.
Il mistero del mercenario è anche il mistero del perdere il senso della soglia, dei cicli che si invertono e ricominciano da capo. Noi abbiamo convertito tutte le cose nel numero, perché il soldo è un numero, i soldi sono fatti di numeri: la differenza tra 5.000 euro e 10.000 euro, che differenza è? di numero! Quindi traducendo la realtà nel soldo, si entra nell’astratto del numero e sorge l’illusione assoluta di una realtà quantitativa fatta di soldi, di numeri, che non ha limiti! Così, per esempio, nella mente di tante persone è sorta l’idea che i soldi alla borsa possano essere moltiplicati all’infinito; poi, quando l’andamento inverte il senso e comincia ad andare giù, allora tutti a dire “come mai? come mai? Prima erano tutti scienziati che conoscevano benissimo le leggi, poi, quando si inverte il processo, non è previsto!
Anche sulle leggi evolutive del cosmo le cose diventano molto complesse perché non avendo le percezioni si va a lume: oggi i geologi ci dicono che Marte non è mai stato così vicino alla Terra e che l’ultima volta che lo è stato era circa 60.000 anni fa (chi l’ha visto 60.000 anni fa? È un puro calcolo astratto) e che fino al 2.280 ci sarà ancora vicinanza, anche se non come quella di oggi. In altre parole, il materialismo consiste nell’astrarre tutto, ridurre tutto a numeri, e poi coi numeri fare quello che si vuole perché oramai ci si è allontanati dalla realtà.
Steiner, invece, quando parla della realtà geologica della Terra, sta ad epoche più realistiche perché ce le presenta in base alla sua percezione, questa è la differenza! Che poi lui abbia percepito o no, su quello si può discutere, però Steiner parla di ere geologiche non in base a calcoli astratti ma in base alla percezione e dice: se uno scienziato suddividesse le ere in base a delle percezioni lo si potrebbe prendere sul serio, ma non possono esserci percezioni di ciò che è successo 10.000 anni fa. Allora, o ammettiamo che c’è chi ha la capacità di percepire anche nel soprasensibile, nello spirituale, e così può integrare una scienza puramente materiale con il correlato spirituale, oppure abbiamo una scienza solo materiale che specula in astrazioni perché gli mancano le percezioni.
Per risalire al passato la scienza procede così: calcola i fattori, i coefficienti di cambiamento rilevabili nei tempi attuali e supponendo che i cambiamenti siano minimi, in un secolo variano molto poco, fa l’ipotesi – tutto sta a vedere se l’ipotesi è giusta! – che il coefficiente di variazione resti costante (così tutto è più comodo) e poi valuta: stando a questo ritmo di variazione, lo stato di questa pianta – o di questo cuore, o di questo corpo – 15.000 anni fa, 20.000.000 di anni fa era questo. Basta che io faccia l’ipotesi – che però non posso provare – che i fattori di costanza restino uguali.
Steiner dice, a proposito dell’evoluzione terrestre, che 15.000 anni fa al centro dell’epoca che lui chiama l’epoca atlantica, o atlantidea, la Terra aveva raggiunto la metà della sua evoluzione geologica. Fino ad allora – come nella vita nostra, fino a circa 35 anni, fino a metà della vita – c’era stata una crescita di forze vitali; poi venne un’inversione di marcia verso la decrescita, una soglia, che va da un mondo di crescita a un mondo inverso di decrescita, di morte. Adesso siamo oltre la metà dell’epoca postatlantica. Il Cristo, lo spirito della Terra, che è lo stesso spirito del Sole, era in interazione già da diversi millenni con una Terra in via di invecchiamento, una Terra morente. Nel corpo geologico, quindi minerale, vegetale, animale, ma anche umano della Terra, le forze vitali si ritiravano sempre più – è la legge evolutiva di ogni morte fisica – e c’era allora lo sprigionarsi di una realtà spirituale: questa è l’affermazione fondamentale. Il Cristo, in questo gesto di unire la saliva alla terra, ha unito il suo spirito di Logos, la sua parola, la parola che esprime pensieri di saggezza e di amore, con una Terra che da millenni era in fase di morte, di disgregazione.
Tutta l’ingegneria genetica, cieca, in fondo non fa che accelerare questo processo di degrado; il quale però deve avvenire, perché ogni corpo che nasce e cresce è destinato a morire e perché il senso della fase di declino è di far sprigionare lo spirito. La vita che muore ha il senso di far sprigionare la coscienza.
Vita e coscienza. C’è un assunto, un’affermazione, un assioma fondamentale della scienza dello spirito – che considera non solo i destini della materia ma i destini comuni reciproci, della materia e dello spirito – secondo il quale uno dei sensi principali della soglia è che c’è un’alternanza, una polarità, tra tutto ciò che è di coscienza e tutto ciò che è vitale, tra coscienza e vita. Può sorgere coscienza unicamente uccidendo forze vitali e si possono ricostruire, o far risorgere forze vitali soltanto ritirando, obnubilando, attutendo il fattore coscienza, perché sono polarmente opposte.
Il Cristo, l’Essere del Sole, lo Spirito della Terra, rientra nella Terra e riluce sul sostrato di una Terra morente: ecco il senso della sua saliva che si unisce alla terra. Questa guarigione, questo segno del Cristo, sarebbe stato impossibile, sarebbe stato una contraddizione se fosse avvenuto prima della metà geologica della Terra; così come è impossibile che una persona di 15 o 20 anni, età in cui il ciclo di vita è ancora in esuberanza di forze vitali, abbia un massimo di esplicazione dei processi di coscienza. I processi di coscienza possono avvenire soltanto consumando la materia; l’immagine che è sempre stata usata è quella della cera: la luce si sprigiona soltanto consumando cera, la cera sarebbe il sostrato materiale a tutti i livelli.
Un’altra integrazione a ciò che si diceva stamattina è l’affermazione fondamentale del cristianesimo – e anche dell’umanesimo – che l’Essere che è tutto amore per l’umanità, lo Spirito dell’umanità, della Terra, sapeva che con l’emergere della coscienza nella seconda fase geologica della Terra gli esseri umani avrebbero potuto sempre di più partecipare alle sorti della Terra (e se no come esercitano la loro libertà?) e sapeva anche che la libertà dà la possibilità di distruggere la Terra, anziché farne la cera preziosa per far rilucere le conquiste dello spirito. Cosa ha fatto, allora, da pastore della Terra? Ne ha fatto il suo corpo.
Ha detto: da un lato bisogna permettere agli esseri umani anche di rovinare il corpo della Terra, altrimenti non sarebbero liberi; dall’altro, però, non gli deve essere data la possibilità di decidere sui destini globali di tutta la Terra, perché altrimenti non potrebbero più continuare ad evolversi sulla Terra e sarebbe la fine della libertà. Allora l’inabitare del Cristo nel corpo della Terra è come una specie di nuova lemniscata: da un lato salvaguarda la libertà degli esseri umani (che possono danneggiare profondamente la Terra); dall’altro garantisce che la Terra, nella sua corporeità totale, non possa venir sottratta o distrutta o polverizzata nell’insieme prematuramente, perché se avvenisse prematuramente sarebbe finita l’evoluzione e gli esseri umani non potrebbero continuare ad esercitare la loro libertà.
Quindi l’uomo può decidere soltanto parzialmente dei destini della Terra, perché la Terra non è il corpo dell’uomo, ma è il corpo del Cristo; e soltanto chi ama la Terra come la ama Cristo ha la forza di decidere dei suoi destini ultimi. È per amore alla libertà dell’uomo che gli è stato concesso – e deve essergli concesso – di far soffrire la Terra. Soprattutto gli animali, che sono capaci di sofferenza; le piante non sono capaci di sofferenza.
Quando noi interveniamo geneticamente nel mondo delle piante, possono nascere grosse domande circa ciò che avverrà al nostro corpo se mangiamo questi nuovi cibi, ma non ci carichiamo karmicamente della sofferenza delle piante perché esse non sono capaci di sofferenza. Ma se questo giocare con i geni, con le forze germinanti della vita, causasse negli animali sofferenza – e di sicuro succede – il karma dell’umanità si farebbe tragico; perché tutta la sofferenza che l’egoismo umano infligge agli animali è karma dell’uomo (l’animale non è capace di karma) e l’uomo dovrà karmicamente pareggiare tutta la sofferenza che ha inferto agli animali.
Ma se si volesse impedire la possibilità di tutto questo, bisognerebbe abolire la libertà umana. La consapevolezza di queste cose, per quanto incipiente, per quanto modesta, non è in grado di darcela la teologia, pur con tutta la buona volontà, né l’insieme delle basi di conoscenza tradizionali; questo sapere è sorto storicamente solo con Rudolf Steiner; e non c’è alcun impulso conoscitivo che si possa minimamente paragonare con ciò che io vi presentavo, e continuo a presentarvi, come la sua scienza della spirito. È questa una scienza che coinvolge, fa sorgere nuovi livelli di riflessione sui destini della Terra e dell’uomo. Non è una scienza di ciò che è solo materiale, ma è una scienza sintetica, olistica, una scienza globale, totale della realtà del mondo.
Detto questo, in un modo abbastanza balbettante – però credo che mi perdonerete il balbettio trattandosi di cotali cose – torniamo al v.10,14 “io sono il pastore buono”. Pastore: fa pensare alla Terra come pecorella di tutte le pecorelle e al pastore Cristo che la conduce nel cosmo – adesso l’ha portata vicino a Marte. L’ovile dove tutti vengono riuniti è la Terra. Mi è sempre piaciuto pensare che uno dei significati dell’ovile è la Terra e che il Cristo veramente la conduce.
Nel volume sull’Astronomia (O.O. 323) Steiner dice: è sbagliato pensare che la Terra giri intorno al Sole – che noia girare sempre intorno al Sole! – questa è un’illusione ottica. Il movimento assoluto, oggettivo della Terra – e questo fa vedere che il pastore va avanti e il suo ovile lo segue – è che il Sole si muove nell’universo con un movimento elegante di lemniscata e la Terra, in assoluto, lo segue. Il disegno (Fig. 10) ci mostra ciò che vedrebbe chi guardasse il movimento da lontano, poniamo dallo Zodiaco, tenendo presente che riduciamo una prospettiva tridimensionale ad una prospettiva bidimensionale: il Sole procede passando dalla posizione A alla posizione B, e la Terra lo segue passando da A1 a B1.
Il movimento va non soltanto verso destra e sinistra, sopra e sotto, ma anche verso dietro e avanti, è molto più complesso di quello semplificato in questa lemniscata a due dimensioni. La lemniscata è un movimento perfetto perché passa la soglia ogni volta, e ogni volta chiude un ciclo e ne apre un altro. La Terra va dietro al Sole, questo è il movimento astronomico reale della Terra – il pastore va avanti e la sua grande pecora gli va dietro. Noi abbiamo un’illusione ottica o, per dire meglio, la percezione non basta, bisogna interpretarla con il pensiero. La Terra va sempre là dove era il Sole, si trova, sempre più tardi del Sole, dove prima era il Sole.
Intervento: E gli altri pianeti?
Archiati: Avviene la stessa cosa, è più complicato di quanto sembra, comunque ogni corpo planetario fa fondamentalmente un movimento lemniscatico. Salta fuori una complessità tale che non è possibile ridurla in numeri; in altre parole, bisogna superare la dimensione matematica, andare a livello immaginativo, ispirativo, ecc. – come diceva Steiner – perché le cose diventano troppo complesse per poter venire espresse nella matematica. Infatti la caratteristica fondamentale della matematica è la precisione, mentre la legge fondamentale del cosmo non è la precisione ma è l’estro dell’amore! Quindi le sorprese sono molto più importanti che non la precisione; perché per essere preciso devi ripetere sempre la stessa cosa (e questo sarebbe morire). Io ho studiato parecchie volte il volume sull’astronomia di Steiner, presuppone un po’ di matematica ma è una meraviglia! È tradotto in italiano? immagino che non sarà facile tradurlo…
Intervento: Non è tradotto[5].
Archiati: Beh, traducetelo voi! “Io sono il pastore, conosco le mie pecore”: sono le sue pecore, create da lui, sorte dalla fantasia morale del suo amore per gli esseri umani, destinate esse stesse a diventare pastori. L’evoluzione dell’uomo avviene così: nella prima metà comincia da pecorella, poi imparando si innamora di come il pastore la ama e dice: se ci sono esseri che hanno bisogno di me, voglio provare anch’io a fare il pastore ed essere buono così come lui è con gli esseri umani. Anch’io voglio essere così buono, per esempio con gli animali. L’evoluzione umana passa attraverso la soglia dell’interiorizzazione del pastore, che è la percezione della soglia, è saper condurre i movimenti con la legge della soglia, cioè sapere quando invertire la marcia per passare da un mondo all’altro, rispettare leggi diverse. Essere pastore della nascita e della morte, delle varie vite significa sapere quando si deve nascere e sapere quando si deve morire – sempre di nuovo questo movimento lemniscatico –, sapere che quando sono nel mondo fisico devo avere una compagine interiore diversa (questa cosa Steiner la descrive tantissime volte).
Perché noi non siamo iniziati, perché non siamo capaci di vedere lo spirituale? Perché non ci siamo ancora sufficientemente confrontati col guardiano della soglia. Questo è lì apposta, e dice: “Guarda, sta’ attento, che se passi questa soglia trovi leggi evolutive del mondo spirituale del tutto diverse!”. Quindi, o hai lavorato su te stesso per la purificazione (chiamatela come volete) e sei diventato capace di vedere le cose, di funzionare, di porti in un modo del tutto diverso verso lo spirituale sapendo che nello spirituale tutto è diverso, oppure ci entri dentro e ti addormenti perché non capisci nulla. Che vuol dire addormentarsi? Significa non essere ancora capaci di passare la soglia dal mondo fisico al mondo spirituale, per cui addormentarsi significa entrare nel mondo spirituale senza recepire nella mia coscienza, nel mio cuore, il modo di essere nei mondi spirituali, le leggi spirituali: non vedo nulla, non percepisco nulla e mi addormento. La soglia è un fatto di coscienza, è la capacità della coscienza di cambiare completamente registro, di passare veramente una soglia; se no la coscienza va via e mi addormento.
Dicevamo questa mattina quanto è importante, per essere pastore, il conoscere le pecorelle. Il fattore uomo non può gestire gli animali, le piante senza conoscerle: la prima legge per accudire in modo giusto un essere è di conoscerlo. L’amore presuppone la conoscenza. Una mamma ama il suo bambino in un modo giusto, fa le cose giuste anche senza aver studiato: è la conoscenza “del cuore” se volete, è conoscenza intuitiva. Tant’è vero che si dice: la mamma sa ciò che fa bene al bambino, e il sapere è una conoscenza. Il Cristo parlando fa continuo richiamo al fatto che il buon pastore conosce le pecorelle; e noi questa mattina abbiamo insistito sul fatto che ci preoccupano giustamente gli esseri umani quando fanno cose grosse senza conoscere la natura dell’animale o della pianta su cui fanno gli esperimenti.
10,15 «come il Padre conosce me, così io conosco il Padre e offro la mia vita per le pecore».
Il Padre. Ne mostro adesso un aspetto, senza dire che questo è il significato del Padre: è uno dei significati. Abbiamo sempre detto che il Padre rappresenta tutto ciò che è eterno, in un certo senso. È la sostanza. “Sostanza” deriva dal latino sub-stare = stare sotto (sul modello di un verbo greco): è l’essenza, la realtà, è il livello dell’essere non dell’esistenza. Le parole “sostanza” ed “esistenza” sono fondamentali.
“Esistenza” deriva dal latino ex-stare = stare fuori, cioè star fuori dalla vera realtà, stare nella materia: l’esistenza è il livello del vivere terreno. Ogni esistenza materiale è un venir sbattuti fuori da ciò che è puramente spirituale. Quindi l’esistenza nel tempo è l’estraniamento da ciò che è eterno per riconquistarselo a partire dalla libertà.
Il senso del Figlio è che gestisce l’esistenza di tutto ciò che è stato catapultato fuori dall’eternità, quindi gestisce tutto ciò che si sviluppa, che si evolve nel tempo. Il Figlio che è nel tempo conosce il Padre, il Padre conosce il Figlio. In altre parole, da sempre si sono detti qual è il senso dell’eternità, qual è il senso del tempo: il tempo è la conquista dell’eterno a partire dalla libertà. Questa è la conoscenza che il Figlio ha del Padre.
Il senso dell’esistenza, dell’evoluzione nel mondo materiale, di ciò che nasce e perisce, che ex-siste, che è sbattuto fuori dall’eternità, è vivere in un mondo perituro; e il senso del vivere nel perituro è di riconquistare ciò che è eterno – nello spirito, nella mente, nel cuore, a partire dalla libertà. Riconquistare l’eterno nella libertà non si fa in un attimo, si fa brano a brano; quindi l’esistenza del Figlio, il donare all’umanità il tempo, ha il senso di dare agli esseri umani la possibilità di riconquistarsi nel loro spirito, brano a brano, ciò che è eterno. E dove sono i brani dell’eterno? Nelle percezioni! Mi conquisto un brano di eternità nella percezione quando distinguo tra ciò che è perituro nella percezione – che è la percezione stessa – e il concetto, che è il brano di eternità che io mi conquisto vivendo nel tempo.
Il Padre conosce il Figlio perché il mondo dell’eternità ha dischiuso il tempo come spazio del cammino della libertà umana; e il Figlio – che è l’umanità, che è il figlio dell’uomo, che è ognuno di noi – riconosce il Padre con riconoscenza, perché capisce il senso del tempo, che è l’eternità. Il senso di ciò che è passeggero è di essere portatore di ciò che è eterno. Così il senso di una percezione è il concetto: la rosa che vedo, in quanto percezione è transeunte, oggi c’è e domani non c’è, ma il concetto di rosa, il pensiero divino di rosa, è eterno. Nel momento in cui faccio mio il concetto di rosa, lo rendo parte del mio spirito, io acquisisco, nel tempo e da ciò che è caduco nel tempo, un frammento di eternità. E se continuo a farlo, faccio risorgere nell’eternità dello spirito il tutto di ciò che vive nel tempo: ma proprio il tutto. L’evoluzione ci è data per trasformare tutte le percezioni in concetti. È una cosa molto bella, veramente molto bella che più bella non c’è, vi assicuro.
Qualcuno mi ha fatto notare: perché traduci “offro la mia vita” quando in greco c’è yuc¾n (psychèn) cioè la psiche, l’anima? Che differenza c’è tra il Cristo che dà la vita e il Cristo che dà l’anima? La parola anima a quei tempi indicava anche il vitale perché l’anima resta nel corpo finché il corpo è vivente, e quando il corpo muore l’anima esce fuori. Quindi prendete questa “anima” come indicante tutt’e due, sia la vita che l’anima. Proviamo a tradurre adesso solo come “anima”: il Cristo dà agli esseri umani un’anima in modo che possano trasformare tutto ciò che è anima in spirito, perché l’umanità è in cammino dall’essere anima all’essere spirito. Cos’è l’umanità se non l’anima del Cristo? Nella misura in cui l’umanità, che parte come anima, si riempie dello spirito del Cristo, diventa sempre di più lo spirito del Cristo perché questo entra dentro l’anima umana.
In partenza l’uomo è anima: anche un bambino è anima, già l’animale è anima, (la lingua latina lo chiama animal, cioè essere dell’anima). Il punto di partenza dell’umano è la passività dell’anima che gli è data dal Cristo come potenzialità a trasformarsi sempre di più in spirito: anima significa passività, spirito significa attività.
La filosofia della libertà spiega: il fenomeno fondamentale dell’anima è la rappresentazione, perché quella sorge da sola in base alla percezione, è l’eco animica, passiva. Invece l’elemento spirituale, che l’essere umano può far sorgere soltanto attivamente in base alla percezione, è il concetto. Molti scambiano la rappresentazione col concetto, perché non sanno cosa significa costruire concetti attivamente, spiritualmente; pensano che l’anima che il buon pastore gli dà fa sorgere da sola delle rappresentazioni, e basta. Invece c’è una differenza enorme tra le rappresentazioni, che appunto sorgono da sole, e i concetti, che invece si possono creare soltanto attivamente, soltanto individualmente e creativamente. La rappresentazione sta al concetto come l’anima sta allo spirito.
Dunque il buon pastore ci dà la sua anima come potenzialità umana a diventare sempre più spirito. Finché gli esseri umani hanno l’anima che gli dà il buon pastore sono pecorelle, e Lui è il pastore esterno che conduce; nella misura in cui trasformano l’anima sempre più in spirito, interiorizzando il Cristo, divengono loro stessi pastori, gestori responsabili e attivi dei destini della Terra. E l’elemento conduttore, interiorizzato, del Cristo è la percezione della soglia, dei cicli evolutivi, del quando, come, dove e perché bisogna invertire le marce, ecc.
10,16 «Ho altre pecorelle che non sono di questo ovile, anche quelle devo condurre; udiranno la mia voce, e diventeranno un solo gregge, un solo pastore».
Avevamo già anticipato un po’ questo versetto. Cos’è l’ovile? Nel cristianesimo tradizionale è la chiesa (glielo concediamo) ma è un ovile di animucce, non è ancora un ovile di spiriti – però c’è anche quel significato lì, fa parte dell’evoluzione. Oggi vediamo che invece di entrare sempre più pecorelle in questo ovile ne scappano via sempre di più, e allora bisogna che ci facciamo altri concetti dell’ovile! Io vi ho proposto la Terra; se poi non vi basta prendete tutto il sistema solare, ma penso che ci basti la Terra con tutto quel che c’è. Presa la Terra come ovile bisogna spiegare che cosa non appartiene a questo ovile: sono gli altri pianeti (così i conti tornano). La scienza dello spirito ti dà il coraggio necessario per renderti conto che questi testi, questi vangeli, sono pieni della dimensione cosmica del Cristo e del cristianesimo senza la quale non li spieghi e i conti non tornano, perché la prospettiva si fa troppo piccola.
Consideriamo onestamente la prospettiva iniziale, l’interpretazione che dice: l’ovile è la chiesa, e cerchiamo di farla concordare con il fatto che tutte le pecore che non fanno parte di questo ovile dovranno essere ricondotte lì. La chiesa cattolica s’immagina veramente che il senso dell’evoluzione è che non soltanto tutti i protestanti ritorneranno nell’ovile cattolico, non soltanto quelli che continuano a scapparle via, ma anche tutti i buddisti, i musulmani, gli induisti ecc… Questa interpretazione è assurda, perché non è realistica! Io sono convinto che questo tipo di riflessione sul vangelo, che vuol essere onesta, veramente fatta con un minimo di coraggio e di onestà intellettuale, ci porta alla dimensione cosmica dell’evento del Cristo.
In questo seminario abbiamo già visto la dimensione cosmica nel capitolo 9: il Cristo che unisce le forze della sua saliva alle forze della Terra fa un gesto cosmico, un’affermazione cosmica, perché la Terra è un pianeta! E Lui non può intendere soltanto un pezzettino di Palestina, intende la Terra intera, le forze della Terra. Ora, la Terra è un pianeta del sistema solare. Un cristianesimo che ha perso di vista la dimensione cosmica va superato; e il senso di questo perdere di vista la dimensione cosmica è quello di dare all’individuo la possibilità di riconquistarsela, per libertà, uscendo dal livello di gruppo, di chiesa.
Altrimenti questi testi non hanno senso: sarebbe veramente tragico se il Cristo avesse portato all’umanità delle faccende che valevano soltanto per la Palestina di 2.000 anni fa. No, queste cose riguardano i destini dell’umanità intera, dall’inizio alla fine dell’evoluzione. Chi considera l’intera evoluzione, dalla prima espressione planetaria della Terra a questa attuale, che è la quarta, si pone la domanda: come andrà avanti? questa è l’ultima o non è l’ultima espressione planetaria della Terra? e siamo subito, ma per forza!, nella dimensione cosmica e non soltanto in quella ristretta e tra l’altro moraleggiante (perché, non conoscendo bene né il perché né il percome delle cose si ricattano gli esseri umani dicendo cosa devono fare senza spiegargli i motivi).
Il v.16 chiudeva dicendo che alla fine ci sarà un solo ovile con un solo pastore. Naturalmente anche il buon Lucifero e il buon Arimane fanno parte dell’ovile dell’Essere dell’Amore, perché è stato dato loro il compito di mettere i bastoni fra le ruote, di porre l’ostacolo: gli esseri umani devono al Mefisto la loro evoluzione. Se uno vede sul palcoscenico il Faust dall’inizio alla fine, Mefisto gli diventa molto più simpatico del Faust stesso e, alla fine – sia artisticamente, sia psicologicamente – sarebbe insostenibile vedere il Mefisto ritornare all’inferno: ha fatto una così bella sudata! se non c’era lui, il diavolo, come faceva Faust a fare tutta l’evoluzione?! L’animo umano, che è stato creato come pecorella di questo pastore che ama tutti (anche il Mefisto), troverebbe inaccettabile, insopportabile che Mefisto venisse punito. Alla fine l’animo cristiano vede Mefisto salire in cielo insieme a Faust, con la Margheritina che li attende tutt’e due. Tutte le pecore ritornano all’ovile dell’Essere dell’Amore.
Intervento: E il “figlio della perdizione”[6] chi è?
Archiati: È un’invenzione di menti bacate.
Intervento: Ma non è scritto nel vangelo?
Archiati: No, è un’interpretazione. Ma come concili il figlio della perdizione con questo pastore che ti dice “tutti torneranno all’ovile”. Tutti!
Nei versetti che seguono, 17 e 18, c’è una specie di riassunto, di sintesi di tutta questa disamina, come abbiamo visto complessa, profonda: il vangelo di Giovanni, scritto dall’unico essere umano iniziato dal Cristo, non può non essere in ogni versetto profondo e complesso. È una sintesi che culmina nella scissione, nello scisma: il v.19 comincia proprio con la parola scisma. Fa parte dell’essenza del fenomeno Cristo il suscitare una spaccatura degli spiriti: o di qua, o di là, la soglia. O vivi in chiave del dopo Cristo, o vivi in chiave del pre-Cristo, ma non puoi essere in tutt’e due.
10,17 «Per questo il Padre mi ama: perché io pongo la mia vita, per poterla riprendere».
Questo “pongo, do la mia vita” l’abbiamo sentito già tre volte – poi arrivano naturalmente i teologi che dicono: ripete tre volte la stessa cosa! –, ma qui aggiunge un’altra cosa: “do la mia vita per poterla riprendere”. Al che arrivano i benpensanti e dicono: ma se la dà con l’intenzione di riprendersela, se la tenga, no? Sarebbe come dire: se uno nasce con l’intenzione di morire, perché prima o poi muore, che nasce a fare? se ne resti nell’altro mondo!
Questo tipo di ragionamento lineare, che non capisce il senso dell’inversione di marcia, è proprio un pensare materialistico: conosce soltanto la direzione materiale e non comprende che lo spirituale inverte ciò che è materiale. Ciò che è materiale lo costruisci per poterlo poi consumare! In altre parole: qual è il senso di riempire un bicchiere di aranciata se poi lo devi vuotare? perché lo riempi? La scienza moderna, in tantissimi suoi corifei, è talmente poco intelligente che fa di questi ragionamenti: siccome tu lo vuoterai è assurdo riempirlo. No, lo potrò vuotare soltanto se prima l’avrò riempito. Posso consumare forze vitali nella seconda parte della vita soltanto se nella prima le ho costruite.
Però il materialista, che non sa nulla delle forze animiche spirituali che possono sprigionarsi nel consumare la materia, vede il consumarsi della materia come assurdo. È un problema suo, però! Il suo problema è un enorme peccato di omissione. Perché la legge della materia è che, dopo essere sorta, si consuma; ma la libertà umana sta nel fatto che tu puoi fare, di questo consumarsi, lo strumento per creazioni dello spirito così come puoi omettere queste creazioni – e così ti arrivano quelli che non creano nulla e perciò dicono che questo consumarsi della materia è assurdo. Non è assurdo che la materia si consumi, è assurdo farla consumare omettendo le creazioni dello spirito!
Quindi il grande quesito dell’intervento umano con la manipolazione genetica della natura, non è tanto il mistero di portarla a distruzione – perché tanto prima o poi la materia deve morire – ma il grande mistero è: caro uomo non farlo senza che si sprigionino da questo disgregamento della materia le creazioni dello spirito! Altrimenti tutte queste pecorelle verranno deluse da te, si sono messe a disposizione del loro pastore, si sono offerte per il cammino spirituale umano, per ricevere dall’uomo il suo spirito e tu, uomo, non glielo dai? La tragedia dell’umanità di oggi non è il disfacimento della materia – quello è legge fondamentale dell’e-voluzione –, la tragedia del mondo d’oggi è l’omissione dello spirito.
“Io pongo la mia vita per riprenderla”: ecco il ciclo che si inverte. Ognuno di noi individualmente deve sapere quando si tratta per lui di ricostruire forze vitali – altrimenti non ha nulla da consumare – e quando invece si tratta di consumarle; se uno vuol soltanto consumare materia, dopo uno o due mesi va all’altro mondo, e allora cosa ha raggiunto? E se uno vuole soltanto il vitale sarà una bella pianta, ma non un essere umano. Vedete che si tratta proprio di cicli che si invertono.
Il vitale e il fattore di coscienza sono polarmente opposti. Alle domande: quante forze vitali devo io costruire? quante ne ho da consumare? ognuno deve dare le risposte valide per sé, individuali. Nessuno può dire ad un altro: tu ti stai consumando troppo, oppure: tu stai diventando troppo ciccione. Lo può e lo deve sapere ognuno per sé. Ognuno, se è onesto con sé, sa quando diventa unilaterale, quando diventa parziale perché il corpo, quando lo consumo troppo, avvisa: adesso fatti qualche bella dormita o qualche bella mangiata, se no i bei pensieri non salteranno mica fuori. Uno scheletro non ha mai avuto buoni pensieri!
Di volta in volta faccio soltanto alcune riflessioni – come vedete è un testo così profondo! – ma si potrebbero dire tante altre cose. A me interessa stuzzicarvi l’appetito, farvi venire voglia di vivere con questo testo.
10,18 «Nessuno me la porta via, ma la depongo da me stesso, ho la potestà di deporla e la potestà di riprenderla. Questa legge evolutiva ho ricevuto dal Padre mio».
“Nessuno me la porta via, la vita, nessuno me la carpisce”: non se la lascia prendere, la dona liberamente e la riprende liberamente. Si riferisce alla yuc¾n (psychèn) del versetto 10,17, “vita” e “anima” insieme. Riferito all’uomo, il non lasciarsi carpire l’anima ma porla liberamente, significa non considerare come una costrizione o un’imposizione la morte quotidiana e la morte finale, ma volerla! La morte è il porre l’anima, il dare l’anima, l’esalare l’anima. Esalare l’anima: l’uomo nella seconda parte della vita diventa sempre più vecchio e poi con la morte, nella morte quotidiana e finale, esala l’anima. La libertà offre due possibilità: o dare l’anima liberamente – quindi godo, voglio che il corpo vada in declino e poi muoia perché voglio entrare nel mondo spirituale – oppure devo subire che mi venga carpita contro la mia volontà. Quindi la morte o si subisce o si sceglie liberamente. Il Cristo dice: Io sono la forza, la forza dell’Io è la forza di non subire mai controvoglia il dare la vita, ma di darla liberamente.
Siamo sinceri, le donne, ma anche i maschietti di 40, 45 anni, che non accettano la prospettiva di averne 50 - 60 tra poco e che investono tutte le loro energie per dare l’impressione di avere 10, 15 anni in meno, sono esseri umani che non danno liberamente la propria anima. Quindi non sono liberi; perché la natura non accetterà di fare un’eccezione e di farli diventare sempre più giovani col passare degli anni. Le leggi di natura o diventano il mio volere libero, o le subisco. Bisogna scegliere: se le subisco sono non libero, se ne faccio la mia libera volontà e faccio miei i suoi cicli, le leggi sagge che la reggono, sono libero. Ma non ho la libertà di far sparire la natura.
Nessuno prende, porta via la mia anima da me, ma io do la mia anima, la pongo da me stesso, liberamente, di buon grado, volentieri, con gioia, con amore. Perché il porla è il presupposto di altre conquiste. Il declino del corpo ha il senso, ancora migliore, di resurrezioni che si esperiscono nello spirito. “Ho la potestà di porla e la potestà di riprenderla”. L’Io sono, l’Io eterno di ogni essere umano, il Cristo in ogni essere umano, ha la potestà di porre la sua anima liberamente quando è contento di morire e di riprenderla liberamente quando rinasce. È quello che facciamo, però dobbiamo imparare a farlo sempre più liberamente; altrimenti quando moriamo l’anima ci viene tirata via e quando nasciamo l’anima ci viene data. Invece è più bello darla e riprenderla liberamente con un “adesso mi rituffo nella Terra!”. Quindi il pastore interiorizzato è la conduzione dal di dentro e questi versetti sono la legge del non subire nulla: la libertà non subisce nulla, non subisce né il dare l’anima, né il riprenderla, ma fa tutto liberamente.
“Questo è il comandamento che ho ricevuto dal Padre mio”. Comandamento è una pessima traduzione perché non si tratta del comandare: il Cristo ha appena detto che fa tutto liberamente! Cosa avete nelle vostre traduzioni?
Intervento: Missione, comando, ordine.
Archiati: Vi ricordate di sicuro, ne abbiamo parlato una volta per bene: ™ntol» (entolè), la parola greca è magica, di una bellezza straordinaria, composta da ™n (en) “dentro, in” e tol» (tolè) che è una variazione di t˜loj (tèlos) che significa “fine, scopo”. ‘Entol» significa non un giudizio morale, ma un giudizio conoscitivo che mi dice in cosa consiste la finalità, dov’è che il tutto va a finire armonicamente. ‘Entol» significa legge evolutiva.
La parola greca che Aristotele usa per l’Io, lo spirito umano individualizzato, quindi il buon pastore interiorizzato, è ™ntelšceia (entelècheia), in italiano entelechèia o entelechìa, che significa: che ha (dal verbo œcw, ècho, avere) dentro di sé (™n) il suo fine (t˜loj). Che cos’è che ha dentro di sé il proprio fine? La potenzialità: ogni potenzialità ha dentro di sé ciò verso cui tende. Ora, qual è la potenzialità intrinseca all’essere umano che sfocia per natura nello spirito? È l’anima: l’anima è potenzialità verso lo spirito.
L’esperienza della passività interiore è proprio l’esperienza della voglia di diventare sempre più attivi; se io non percepissi ciò che è animico come passività, non avrei né il concetto di passività, né il concetto di attività. Infatti, da dove traiamo noi il concetto di passività e di attività? Tutti capiamo la differenza, dunque significa che ognuno di noi in qualche modo sa, per esperienza propria, la differenza tra quando è passivo e quando è attivo. E so per mia propria esperienza che quando sono attivo è molto più bello, perché non subisco ma creo. E allora mi dico: il senso di ogni passività è di essere trasformata in attività, il senso di tutto ciò che è animico è di essere trasformato in qualcosa di spirituale.
Allora ™ntol» (entolè) significa legge evolutiva: “Questa è la legge evolutiva che il Padre ha impresso all’evoluzione del mondo”. E qual è la legge, il dinamismo evolutivo che il Padre dall’eternità ha impresso all’evoluzione del tempo? Che il tempo serva a conquistare l’eterno liberamente, a trasformare tutto ciò che è animico in spirito. Questo è il dinamismo evolutivo immanente, impresso dal Padre nel mondo del Figlio.
Vi rendete conto che in questa parola ™ntol» (entolè) c’è il dinamismo evolutivo verso il fine, verso il compimento? Non vi pare che ci sia qui la continua dimensione cosmica del vangelo? Questa è la legge di evoluzione cosmica impressa dal Padre zodiacale al sistema planetario che si svolge nel tempo: di riconquistare la dimensione eterna a partire dalla libertà umana. Ma se io leggo “questo è il comandamento, il comando del Padre”, va via tutto il senso, tutta la dimensione cosmica che è insita in questa parola!
Vorrei vedere se riusciamo ad arrivare fino al v.30, perché dopo afferrano delle pietre per lapidare il Cristo Gesù (così come fecero alla fine del capitolo 8). Di volta in volta facciamo alcune riflessioni, utili magari a creare l’accesso al testo greco. Come abbiamo fatto poco fa con la parola tradotta “comandamento”, riportandola invece a un significato che lascia molto più liberi, nel senso che è un giudizio conoscitivo e non un’ingiunzione morale.
Per i giudei di allora – che rappresentano l’umano che è in ciascuno di noi ogni volta che vive il punto infimo della caduta – diventa particolarmente difficile la cosa quando il Cristo li mette a confronto col Padre, quando si presenta come il Figlio di questo Padre, in intima comunione con questo Padre, perché lo Jahvè che loro conoscono non è questo Padre, tant’è vero che aveva già detto loro: “Voi, questo Padre, non lo conoscete neanche”. Questo tipo di messaggio è un po’ il limite del comunicabile ai giudei, e perciò lì finisce la comunicazione e comunicano con le pietre.
In questo risvolto del buon pastore – che poi condurrà tutte le pecore all’ovile, anche quelle che non ne fanno parte, che ha ricevuto questa legge evolutiva della figliolanza divina, cioè l’aspi-razione a riconquistare il divino a partire dalla libertà –, il Cristo ha appena espresso la legge evolutiva del tempo, che porta in sé immanentemente il dinamismo di ritornare, di sfociare in ciò che è spiritualmente eterno. Queste parole creano la grande scissione degli spiriti, perché sono le parole della soglia, che fan decidere a un essere umano se vivere senza Cristo o con Cristo: se accoglie queste parole, le capisce, le fa sue, sente una connaturalità, allora fa parte di coloro che si pongono nella seconda metà dell’evolu-zione; se invece le rifiuta perché non le capisce, perché ha paura o perché ha qualcosa da difendere (un potere ecc.), si mette dall’altra parte. Perciò il v.19 comincia dicendo:
10,19 Uno scisma avvenne di nuovo tra i Giudei a causa di queste parole.
Avvenne uno scisma, una spaccatura. Quindi il Cristo è una soglia, divide l’umanità in due: prima e dopo la soglia sono fasi dove non c’è necessariamente da prendere posizione, da decidere. Il concetto di soglia è che nell’evoluzione ci sono anche dei momenti in cui bisogna decidere. “De-cidere” significa “tagliare”, tagliare in due – decido, la cesura. Nell’evoluzione bisogna sapere quando si tratta di mettere in primo piano la continuità, perché non c’è cesura, e quando bisogna avere il coraggio della de-cisione, o di qua o di là. Non sempre si tratta di una decisione di soglia, ma neanche sempre e solo si tratta di continuità. L’Io-sono è l’organo, la forza conoscitiva che ci fa cogliere quando si tratta di riconciliare, quando si tratta di continuità, di transizioni graduali e quando invece si tratta di salti qualitativi: l’evoluzione è fatta dell’uno e dell’altro. Nella rosa il passaggio dai sepali verdi ai petali colorati è un salto qualitativo, non c’è continuità. E il concetto di soglia è il concetto di salto qualitativo: lì bisogna decidere.
“Avvenne la scissione degli spiriti”: ecco, forse questa è la traduzione migliore. Il Cristo crea una scissione degli spiriti, li scinde in due: o per Lui o contro di Lui, non si può restare neutri. Questo scisma divide i giudei: v.20 “i molti…” e v.21 “alcuni altri…”. Quindi già questo scisma ci dice che non sono due schiere uguali, ma quantitativamente vengono già distinte dal fatto che nella prima schiera (v.20) ci sono “i molti” – molti sono i chiamati –, e nell’altra schiera (v.21) ci sono i pochi – pochi sono gli eletti.
I molti sono coloro che omettono il fattore di libertà. Cosa bisogna fare per omettere il fattore di libertà? Basta non far nulla! Perciò coloro che non omettono il fattore di libertà sono sempre pochi, perché per non ometterlo bisogna fare qualcosa. Vedete come è scientifico il testo, sotto tutti gli aspetti, in ogni parola, è pulitissimo! Basterebbe renderlo in italiano fedele; naturalmente anche nel testo greco compaiono pasticci enormi, ci sono 4.000-5.000 manoscritti! Però, soprattutto con l’aiuto strumentale della scienza dello spirito, uno si raccapezza.
10,20 Molti di loro dicevano: «Ha un demonio ed è pazzo; perché lo ascoltate?»
È matto, dà i numeri, è proprio fuori di sé, parla in lui un demonio, non è un essere umano, un umano non può dire tali cose. Nel mondo moderno questa affermazione, culturalmente, in modo vistoso, è stata fatta su Rudolf Steiner dalla gente della teologia, della chiesa, della tradizione, della religione tradizionale; la risposta del mondo accademico, e anche politico è: “È matto, dà i numeri!” tale e quale al Cristo.
Che significa “è matto”? Significa: “quello che sta dicendo esula da ogni campo conoscitivo che noi conosciamo”. Invece di dire: “non capisco” dicono: “è matto”. Che tipo di psicologia c’è in chi risponde così? Se dico “è matto”, significa che mi concentro sulla paura che mi suscita ciò che l’altro dice. Ma non è la paura di non capirlo, perché ciò che non capisco mi incuriosisce: vorrei capirlo e ho il tempo per capirlo. Invece qui ho paura di perdere ciò che vorrei difendere, e allora lo escludo dicendo che è matto, è indemoniato.
I giudei hanno avuto sentore che se cominciano a prenderlo sul serio hanno parecchio da perdere: devono ricominciare daccapo una religione stabilita, tutta una socialità che gestiva la preparazione al Messia; sono posti di fronte ad affermazioni del Cristo che pongono in questione, proprio in assoluto, la gestione dell’attesa del Messia, implicando che gestire la preparazione è finita perché il Messia è qui.
Il Cristo ha il diritto di dire che la gestione della preparazione è finita soltanto se veramente dimostra di essere presente. Ora, immaginiamo tutta una società che per secoli, attraverso i profeti, attraverso la Torà, la legge mosaica, si è tutta incentrata con onestà (mica erano disonesti) nella preparazione all’avvento del Messia. Adesso t’arriva uno che dice: Sono io! La paura è che c’è tutto da perdere; perché non si può continuare la stessa religione che era fatta per l’attesa, per rendere possibile la sua venuta, se l’atteso è arrivato. Perciò dicono: smettetela di ascoltarlo! È chiaro che c’è un interesse di potere: vogliono portar via gli ascoltatori in modo che il tizio che sta dicendo queste cose non prenda piede, non prevalga.
10,21 Altri dicevano: «Questo tipo di parole non sono di un indemoniato. Che forse un demonio può aprire gli occhi dei ciechi?».
Nell’umanità ogni volta che avviene una scissione – in partiti, in fazioni – non è mai perché non si è d’accordo a livello conoscitivo. Questo, infatti, non è mai un problema: prima di tutto perché gli aspetti del reale da conoscere sono infiniti, e il fatto che un altro colga un aspetto diverso dal mio non mi contraddice, è soltanto un altro aspetto; poi ci può essere il problema che non lo capisco, ma questo non è una minaccia: può darsi che se mi do un po’ di tempo domani o dopodomani lo capirò. In questo senso, il mio motivo di rifiutare uno Steiner, per esempio, non può essere dovuto al fatto che espone pensieri o opinioni diverse dalle mie, che mi sembra di non capire.
Ciò che scinde gli esseri umani non è mai il fattore conoscitivo, ma è sempre il fattore volitivo, che è diverso. E gli spiriti si scindono in due quando ognuno vede l’operare dell’altro come minaccia, come “lupo” al proprio operare. Se la medicina di Steiner prende piede nell’umanità noi, medici tradizionali, dobbiamo chiudere baracca e burattini e questa non è questione di conoscenza ma di esistenza. Se il Cristo non è matto, ma dice cose ben pensate, il problema non è che non siamo d’accordo conoscitivamente, ma è che noi farisei, giudei ecc., che abbiamo una religione di preparazione, dobbiamo chiudere baracca e burattini! Quello è il problema! E va benissimo, però un conto è non farsene un’idea, un altro conto è capire che è così, aver coscienza che è così. Quindi quando gli esseri umani cozzano gli uni contro gli altri non si tratta mai del fattore conoscitivo. A scindere gli esseri umani sono sempre interessi esistenziali, volitivi, operativi. Rendersi conto di questo è molto importante.
Avere idee diverse è la cosa più bella che ci sia: stamattina tutti coloro che hanno parlato portavano un loro mondo, e non si stava a vedere se si contraddicevano, c’era posto per tutti. Però quando passiamo al fare qualcosa uno può precludere l’altro, lì si entra nell’elemento del potere, nell’elemento volitivo del fare le cose. La persona più tollerante è quella che non ha nulla da perdere; il pastore buono dell’umanità è talmente tollerante che ha lasciato posto anche al fare abissale degli uomini, perché non ha nulla da difendere, quindi non ha nulla da perdere. Nel momento in cui io ho qualcosa da difendere, ho qualcosa da perdere, non posso permettere tutto agli altri. Diventare tolleranti significa assicurarsi di non aver nulla da perdere.
Nel v.21 ci sono due cose: una presa di posizione di una parte di questi giudei rispetto all’elemento conoscitivo – le cose che Lui dice, quindi i contenuti conoscitivi, non possono essere di un indemoniato – e poi la seconda parte che si riferisce alle sue opere – aprire gli occhi al cieco non può essere da demonio, ma può provenire solo da Dio.
10,22 Era in corso la festa della Ridedicazione del tempio. Era inverno.
Pensate alla lotta continua del popolo giudaico per mantenersi puro, per non inquinarsi di spiritualità pagana, perché aveva una missione tutta speciale: eppure, aveva continue ricadute di assimilazione. Le due grandi correnti nel giudaismo erano: la corrente di purezza, che non voleva aprire ai pagani e l’altra che ripeteva: se partecipiamo tutti all’umano universale, dobbiamo prendere da loro ciò che c’è di buono. C’era allora nel giudaismo prima di Cristo sempre e di nuovo questa lotta tra coloro che percepivano il giudaismo come un fenomeno di assoluta incompatibilità con ogni altro fenomeno umano, e coloro che invece erano disposti a prendere elementi anche da altri.
Nel 165 a.C. Giuda Maccabeo, dopo che c’era stato un gran putiferio di dissacrazione del tempio attraverso i pagani che avevano portato altre divinità, fece piazza pulita di ogni elemento estrinseco, venne tutto sbattuto fuori e riconsacrato con una festa di otto giorni, fatta sulla falsariga della festa dei Tabernacoli che era in autunno. Questa festa della dedicazione del tempio (hanukkàh), ancora oggi è la festa classica del solstizio invernale, è la festa invernale dei giudei.
In altre parole, siamo in inverno. Riguardo al ciclo naturale del sole, questo testo è intriso della dimensione cosmica. In quei tempi, indipendentemente dagli elementi culturali legati alla Ridedicazione del tempio, gli ebrei – come i pagani – vivevano i cicli della natura in modo molto più intimo che non l’uomo d’oggi (che non sa neanche quando la luna è piena o vuota, non sa neanche che Marte questa mattina è stato vicinissimo alla Terra). Gli esseri umani vivevano talmente in comunione con la natura che il vangelo deve precisare: queste parole del Cristo, questa diatriba, è avvenuta in inverno. In estate il Cristo dice tutt’altre cose, perché gli esseri umani e le forze della natura, sono in tutt’altro modo: in estate c’è un’autoesperienza estatica, certe cose si possono capire soltanto d’inverno. In inverno la terra-ovile ritira nel suo corpo tutte le forze eteriche, le forze astrali, tutte le pecorelle e così anche l’essere umano, pecorella di tutte le pecorelle, ha una maggior capacità di interiorità.
Inverno significa punto massimo di oscurità, ma anche inizio della vittoria della luce sulle tenebre: il solstizio invernale è una soglia, una delle due soglie più importanti dell’anno – il solstizio estivo è l’altra – perché il sole inverte la marcia. Invece i due equinozi non sono soglie, sono punti di passaggio. Quindi siamo nella soglia invernale. Era inverno.
10,23 Gesù camminava nel tempio, sotto il portico di Salomone.
Il primo significato del tempio è sempre il corpo umano: essere nel tempio significa che l’uomo è del tutto incarnato; d’estate non potrebbe essere nel tempio, perché è in una posizione estatica e quindi è più fuori dal suo corpo che dentro. Allora il Cristo insegna nel tempio perché gli uomini nel solstizio invernale sono massimamente in grado di essere dentro di sé.
Sotto il portico di Salomone: Salomone e Natan sono le due linee genealogiche che risalgono a Davide. Steiner le riprende in un modo che spiega molte cose: la linea natanica è il lato della spiritualità, il lato sacerdotale, cultico, il lato maggiormente spirituale del popolo ebraico; la linea salomonica – Salomone è il grande re – è il lato della politica, dell’assetto sociale. Quindi se fossimo sotto il portico di Natan, il Cristo parlerebbe di cose religiose, se siamo sotto il portico di Salomone ovviamente parlerà di cose sociali e politiche.
Il mistero di questa duplicità è di nuovo una polarità, di nuovo una lemniscata e sta nel fatto che, avendo Davide aperto nel seno del popolo ebraico due vie, la linea natanica e la linea salomonica, c’erano nelle rappresentazioni del Messia che doveva venire due matrici fondamentali, due diversi modi di concepirlo. C’era chi lo concepiva come re sovrano, che avrebbe dominato socialmente, culturalmente tutta la Terra, tutti i popoli, e c’era chi lo concepiva come sacerdote sacrificale (discendente dalla linea natanica, appunto), quindi non uno che domina ma uno che si sacrifica per gli esseri umani. Detto in un modo semplificato: il Messia come fattore di potere e come fattore di amore.
Precisare che Gesù era sotto il portico di Salomone significa che non per caso si trovava lì. A quei tempi coloro che erano in questo luogo, stando anche ai simboli che vi erano esposti, si sentivano intrisi, imbevuti della spiritualità salomonica. Il fatto che il vangelo specifichi che queste cose le disse sotto il portico di Salomone deve perciò avere un significato non soltanto geografico, esterno, puramente di erudizione, ma un significato soprattutto spirituale. Quindi qui c’è un confrontarsi con la spiritualità salomonica, un fare i conti con la spiritualità del potere di questo mondo, il potere del re, del governo politico delle faccende di questo mondo.
10,24 I Giudei lo circondarono e gli dissero: «Fino a quando terrai in sospeso la nostra anima? Se tu sei il Cristo dillo a noi apertamente».
Cristo significa Messia: qui è chiaro che il concetto di Messia dei giudei era connesso con la spiritualità salomonica (altrimenti avrebbero aspettato che lui andasse nel portico di Natan e lo avrebbero circondato là, faccio per dire). Ora, il Cristo, onestamente e da bravi cristiani quali potremmo essere, quale matrice del Messia ha realizzato? Quella del re potente di questo mondo o quella dell’agnello pieno di amore che offre se stesso?
L’ha appena detto, che è venuto a offrire, a porre, a dare la sua vita, quindi è chiaro che l’interpretazione natanica del Messia, quale Essere dell’amore e non del potere, è quella giusta. Questi giudei vengono con una spiritualità salomonica perché vorrebbero che il loro giudaismo diventasse il fattore politico dominante di tutta l’umanità. E Lui, che è il Messia, ma non quello che pensano loro, come fa a farglielo capire, a spiegarlo? Non è roba da poco!
“Se tu sei il Cristo, il Grande Unto, diccelo”. Lui in effetti è il Messia, l’Unto, il Grande Unto Solare, l’Unto del Padre cosmico delle forze zodiacali, l’Essere del Sole. Ricordiamo che venivano unti con l’olio sacerdoti, re e profeti, e questo stava a dire: tu sei re, sei profeta e sei sacerdote nella misura in cui sparisci come personalità privata e sei la pura espressione degli impulsi dell’Essere del Sole, sei il tramite attraverso cui agisce il Grande Unto Solare – quelle dell’olio sono massimamente forze solari.
Siccome i re, i sacerdoti e i profeti venivano unti con l’olio, che è pura forza solare cristallizzata, chi è l’Unto di tutti loro? Il Sole, l’Essere del Sole. Quindi nell’ebraismo hanno chiamato l’Essere del sistema solare il Grande Unto, il Messia; i greci hanno soltanto tradotto dall’ebraico, letteralmente, “Messia” in “Cristo” (che in greco vuol dire “unto”).
“Se tu sei il Cristo, il Grande Unto Solare, diccelo!”. Dunque un mezzo sospetto che questi possa essere addirittura il Messia gli era venuto (altrimenti non avrebbero detto “se tu sei il Cristo”); però vogliono che sia Lui a dirlo in modo da poterlo accusare. In altre parole, sono arrivati al punto di pensare: qui, o facciamo fuori lui o veniamo fatti fuori noi.
Se tu sei il Cristo diccelo essotericamente, palesemente, non in modo cifrato ma in un modo de-cifrato, chiaro e tondo. Pretendono una cosa assurda, che si ripeterà negli interrogatori dopo la cattura, quando l’autorità politica chiederà: “Sei tu il re dei Giudei?” e l’autorità religiosa: “Sei tu il Cristo?”. Di fronte a questa domanda quale può essere la risposta del Cristo? Solo il rifiuto di sostituirsi allo sforzo conoscitivo dell’altro: chi io sono lo devi conquistare tu, perché se te lo dico io tu devi credere a me, non è una conquista del tuo pensiero, non pensi in modo indipendente, non è una convinzione che ti sei fatto da solo, e quindi non ti serve a nulla che io te lo dica.
L’unica risposta che il Cristo interrogato può dare è “Lo devi dire tu!”. Vedremo poi (mi pare di averlo già accennato) che quando gli verrà chiesto: “Sei tu il Cristo, il Messia, il Re?” in alcune traduzioni la risposta è: “Tu l’hai detto”. Assurdo! Ma è perché in greco (guarda caso!) il congiuntivo e l’indicativo scritti cambiano soltanto di un pochino, ma si pronunciano nello stesso modo: su ›ipej (su èipes) è l’indicativo e significa “tu lo dici”, invece su ›iphj (su èipes) è congiuntivo (cambia soltanto una vocale ma si pronuncia nello stesso modo) e significa “che sia tu a dirlo, che tu lo dica”. Quindi i manoscritti cambiano e le traduzioni sono diverse. Però non è “tu l’hai detto, tu lo dici”; il Cristo dice “tocca a te dirlo”, deve essere una conquista del tuo cammino conoscitivo dire se io sono il Messia, deve essere una conquista del tuo pensiero, solo così ti servirà a qualcosa. In altre parole, il Cristo non è venuto a risparmiarci il cammino del pensiero, è venuto a rendercelo possibile; sostituirsi al nostro pensiero sarebbe la cosa più disamorevole che si possa immaginare.
10,25 Gesù rispose loro: «Vi ho parlato e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste testimoniano di me».
Glielo ha già detto che è il Cristo, indirettamente parlando del Padre – io faccio quello che dice il Padre mio, ecc. –, ma non ha mai detto: Io sono il Messia. La traduzione letterale dal greco non è “vi ho già parlato”, neanche “ve l’ho detto”, ma “ho parlato a voi, dissi a voi”; traducendo “ve l’ho detto” è come se avesse già detto esplicitamente “Io sono il Cristo”, cosa che invece non ha mai detto – vedete i pasticci delle traduzioni! Quindi è: “Ho parlato, ho detto quello che c’è da dire e non credete”. Non avete ancora la capacità di capire ciò che ho detto perché non ne avete l’apertura, in quanto vi fa paura quello che c’è da capire: avendo paura di perdere il potere che avete, non aprite la porta alla conoscenza. In altre parole il Cristo dice: non ho nascosto nulla, quello che c’è da dire l’ho detto e se non ho detto “Io sono il Cristo” è perché non va detto, perché sostituirebbe il cammino di conoscenza.
“Le opere che io compio…”: visto che non riescono o non vogliono capire ciò che Lui ha detto, aggiunge: guardate che non c’è soltanto il livello di comunicazione conoscitiva, ma ci sono anche le opere che ho compiuto. Nelle vostre scritture non c’è scritto soltanto ciò che il Messia dirà, ma anche ciò che compirà: se avete difficoltà con le mie parole, guardate le opere! Le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste testimoniano di me!
In altre parole, la natura di un’individualità – i giudei hanno chiesto circa la natura: chi sei? – non si coglie chiacchierando, ma guardando all’operare di questo essere: io conosco la natura di un essere se conosco ciò che questo essere compie, opera e, come dire, cambia nell’umanità. Cos’è un essere oltre il suo operare? Nulla! così come lo stomaco oltre a ciò che fa nell’organismo è nulla; quando io so tutto ciò che lo stomaco fa nell’organismo – le opere dello stomaco – so tutto dello stomaco. Il resto sono astrazioni.
I giudei si chiedono: chi è questo essere? Ma guardate quello che fa! e capirete chi è Lui nell’umanità, nel cosmo, chi è Lui per le piante, per gli animali ecc. In altre parole, ogni definizione è un’astrazione, e un’astrazione non dice nulla! Una definizione fatta già ai tempi di Aristotele diceva che “l’uomo è un animale con due gambe e senza penne”. T’arriva un discepolo con un pollo spennacchiato (due gambe e senza penne) e dice: è un uomo! a dimostrare che le definizioni sono astratte, non servono a nulla.
Il Cristo dice: se volete capire la natura di un essere guardate a ciò che questo essere compie, allora avrete la sua natura. Nessun essere può venir capito nell’isolamento: posso capire cos’è il rene senza l’organismo? Posso capire il Messia senza sapere cosa fa nell’organismo dell’umanità? In altre parole, il Messia è un modo di operare nell’umanità, non una definizione astratta. Allora Lui dice: scendiamo giù da questo livello di disquisizione parolistico astratto, veniamo ai fatti, veniamo all’operare e lì vediamo la realtà concreta che sono le mie opere.
Sulle sue opere dice: le opere che io compio, che io faccio poeticamente, creativamente, nel nome del Padre mio, esse danno testimonianza, esse dicono chi io sono. Una persona che fosse un fanfarone, un chiacchierone, che dicesse mari e monti ma non facesse nulla di quello che dice, non sarebbe attendibile: non ci si può attenere alle parole, bisogna guardare i fatti. Le opere testimoniano ciò che un essere compie, ciò che è; le parole non ci dicono dell’essere, sono astratte, possono depistare.
Operare sequitur est cioè nessun essere può operare diversamente da ciò che è; quindi le opere sono la testimonianza assoluta e fedele, perché ogni essere deve operare a seconda di com’è. Avete mai visto voi una pioggia che ci renda asciutti? L’acqua ci bagna perché opera secondo il suo essere: bagnata lei, bagna anche me. Serve di più dare una definizione metafisica dell’acqua? Se dico “l’acqua è quella cosa che bagna” ho una realtà molto più verace e testimoniante che non la definizione: l’acqua è una composizione di idrogeno e ossigeno, perché qui non ho l’acqua ma ho l’idrogeno e l’ossigeno. Ho l’acqua quando mi bagno, allora è acqua.
Questi testi, così belli, sono migliori – vi garantisco – di tutti i testi moderni di psicologia di questo mondo. Basterebbe questo criterio fondamentale: i pasticci, i problemi sorgono quando si comincia a teorizzare, e si risolvono quando siamo capaci di ritornare dalle teorie, dalle astrazioni, alle opere. Cosa sono le opere? Le percezioni! E siccome le opere sono percepibili da tutti, Lui dice “quelle testimoniano di me”.
10,26 «Ma voi non credete perché non siete dalle mie pecore.»
Lo rifiutano, quindi il problema non è che non lo capiscono, ma è che rifiutano di diventare pecorelle di questo pastore. Soltanto se divento sua pecorella capisco che Lui è il pastore, ma se non divento sua pecorella per me non è il pastore. Come potrebbero teoricamente decidere chi è? Per loro non è il pastore, perché non sono le sue pecorelle. In altre parole, i destini dell’uomo non si decidono teoricamente, ma si decidono con il cammino di vita. Se io rifiuto in partenza un testo come il vangelo di Giovanni, non posso lamentarmi che non mi dà nulla; posso vedere se mi dà o se non mi dà qualcosa solo diventando una sua pecorella, lasciandomi condurre. Il Cristo dice: è inutile che disquisiamo teoricamente se mi state o no rifiutando. Dite che volete rifiutarmi e basta!
La frase “non siete mie pecorelle” è una frase forte, può darsi che vorremo riprenderla perché ha una diversa chiave di lettura: l’essere veterotestamentario, cioè l’essere prima della svolta, non può essere contemporaneamente l’essere dopo la svolta. L’uomo che vive prima di Cristo, non può essere contemporaneamente una pecorella del Cristo che vive dopo e con il Cristo: si escludono a vicenda. Questi giudei personificano gli esseri prima del Cristo, e Lui sta dicendo: non si può essere contemporaneamente pecorelle prima del Cristo e pecorelle con Cristo, dopo Cristo.
10,27 «Le mie pecorelle ascoltano la mia voce, e io le conosco, e mi seguono,»
10,28 «e io do loro la vita eterna e non periranno di eone in eone e nessuno le rapirà dalla mia mano».
Non periranno neanche nell’eone successivo alla morte, resteranno immortali.
10,29 «Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti, e nessuno può portar via dalla mano del Padre.»
10,30 «Io e il Padre siamo uno».
Visto che qui ci sono due affermazioni, una dopo l’altra, che sembrano contraddirsi, ecco una provocazione al pensare. Come si concilia l’affermazione “Io e il Padre siamo una cosa sola” con le affermazioni: “il Padre è più grande di tutti” e “il Padre è più grande di me” che compaiono in altre parti del testo?
“Io e il Padre siamo una cosa sola” non è da intendersi numericamente o quantitativamente: è come la comunione, in senso analogico, della mamma col bambino piccolo. L’amore fa di due o tre persone una cosa sola: non che diventino numericamente una cosa sola, ma c’è un’unione di spiriti, un’unione di anime, pur restando due esseri. Non è una contraddizione che due esseri possano continuare ad essere due esseri, ma vivano e siano attraverso l’amore un’unità d’intenti, una consonanza. Unità e diversità non si escludono a vicenda, a livelli diversi possono essere compresenti. Allora Padre e Figlio sono di uno Spirito comune.
Però il Padre è me…zwn (mèizon), comparativo di mšgaj (mègas) che significa “potente”, da cui i “magi”, la “magia”: “il Padre è più potente di me”. E così dev’essere, perché il sostrato di natura – che è il mondo del Padre – attraverso il determinismo mostra l’onnipotenza del Padre. La natura deve essere potente e così il Padre è più potente del Figlio. E il Figlio è più amante del Padre.
Siccome il senso della potenza del Padre è l’amore del Figlio, e siccome l’amore del Figlio non è possibile senza la base della potenza del Padre, Padre e Figlio sono concordi, sono una cosa sola, uno Spirito solo: il dato di natura come potenzialità alla libertà e la libertà come compimento dell’aspirazione di tutta la natura. Il dato di natura è il Padre, più potente; l’uomo è il Figlio, libertà e amore; però sono d’accordo, il Padre e il Figlio sono Uno. Natura e libertà, natura e uomo sono una cosa sola, perché l’uomo non può essere senza la natura.
Intervento: Vorrei tornare alle parole “voi non siete mie pecorelle”: la venuta del Cristo è però un fatto universale…
Archiati: Attento, devo correggerti, altrimenti ne esce una riflessione sbagliata: c’è una differenza enorme tra il dire “voi non siete le mie pecorelle” che significa non potrete mai divenirlo, e il dire “voi non appartenete alle mie pecorelle” che significa voi non appartenete ancora alle mie pecorelle, però potrete diventarlo.
Intervento: Però dice “voi non siete mie pecorelle”.
Archiati: La traduzione “voi non siete mie pecore” bara. Il v.26 letteralmente dice: “non siete dalle mie pecorelle”. Fermiamoci un momentino, per dire cosa avviene quando si fa una traduzione. Non è che si possa far colpa al traduttore, ma si deve capire, cogliere le differenze – non è da poco neanche per un teologo – perché qui bisogna avere in mente tutte le leggi evolutive, le leggi fondamentali dell’evoluzione. Qui sono due traduzioni: “voi non siete mie pecorelle” vuol dire non lo siete per natura, quindi non potete mai diventarlo; invece: “voi non siete dalle mie pecorelle” vuol dire che non siete tra quelle, che non fate parte di quelle, che non ci siete ancora dentro. Se il traduttore mi butta via questo ek (ek) che vuol dire “dalle, da”, non si accorge nemmeno di aver fatto fare un salto mortale al significato, contraddicendo l’amore del Cristo. “Non fate parte” è una constatazione di uno stadio evolutivo, non è una definizione dell’essere.
Intervento: C’è una traduzione che dice: “non siete delle mie pecore”.
Archiati: È già meglio che dire “non siete mie pecore”. Il significato è: in questo vostro stadio evolutivo precristico non siete delle mie pecorelle, perché le mie pecorelle sono gli uomini dopo Cristo, col Cristo. Ma immaginiamo se gli esseri umani venissero esclusi dalla partecipazione del Cristo!
Intervento: Tutti sono chiamati col tempo, o ci sono esseri che sono esclusi da questa cristianizzazione? Perché c’è anche la frase “sono venuto per molti e non per tutti”.
Archiati: Non prenderla personalmente. Se dopo duemila anni di cristianesimo, ponessimo questa domanda, e qualcuno desse una risposta negativa, significa che il cristianesimo è fatto di nulla! La tua domanda dice: ci possono essere degli uomini che in quanto esseri umani sono stati creati senza potenzialità di diventare pecorelle del Cristo? Assurdo! Non sarebbero esseri umani! Ma perché fai la domanda se sai la risposta?
Intervento: Perché c’è ancora quell’altra domanda in sospeso, quella in cui chiedevo l’esatta traduzione circa “il figlio della perdizione”. Chi non va al Padre? Chi è questo “figlio della perdizione”?
Archiati: Figlio della perdizione è colui che si perde. Ma si perde lui, nessuno lo fa perdere; se non ci fosse la possibilità di perdersi non ci sarebbe libertà.
Intervento: Quindi per rispetto della libertà.
Archiati: Non il “rispetto”! La libertà è la legge evolutiva di tutte le leggi!
Intervento: Voglio dire: il Padre non farà niente per recuperare qualcuno che non vuole andare verso lui, proprio per rispetto della sua libertà e quindi questo diventa figlio della perdizione perché decide così lui stesso?
Archiati: C’è qualcuno che vuol dare la risposta? Sono tutte categorie moraleggianti: “rispettare… recuperare…”. Diverso è dire che la legge fondamentale dell’evoluzione, per diventare essere umano, è la libertà. Se c’è un Padreterno che non sopporta la libertà e alla fine fa finire tutto bene, la libertà è una farsa. Il Padre del figliol prodigo – il figlio che se ne andò per conto suo – cosa fa, gli corre dietro? No, l’aspetta, lascia aperta l’eventualità che ritorni – e la deve lasciare aperta –; diversamente non lo lasciava partire, non gli dava la libertà di andarsene.
Però il figlio della perdizione può saltar fuori a metà dell’evoluzione, quando appena si comincia a esercitare la libertà? No, può essere soltanto il risultato cumulativo finale. Se uno queste cose le pensa con un minimo di cervello, si rende conto che diventare figlio della perdizione su tutta la linea, omettere il tutto dell’umano, ridursi a bestia come dice l’Apocalisse, è impossibile in una vita sola! Ma siamo stupidi che non capiamo queste cose!?
Intervento: Intendevo anch’io alla fine dei tempi!
Archiati: Adesso io non dicevo a te, dicevo del cattolicesimo che ferocemente, virulentemente, si ribella se solo viene posta la domanda sulle ripetute vite! Hanno un’Apocalisse che gli dice che l’esito finale dell’evoluzione è: o ricadi a livello della bestia (proprio “bestia”, dice), dell’animale, oppure assurgi a livello angelico. Ora, la caratteristica fondamentale dell’animale è di essere un essere animato senza potenzialità di libertà; il che vuol dire che, per l’essere umano, tornare a livello animale significa disfare, distruggere tutta la potenzialità di libertà. Quando è ritornato a livello animale non è più capace – capace! – neanche di un frammento di libertà. È mai possibile disfare la totalità della potenzialità di libertà in una vita sola? No, no, no! ma anche la persona più semplice dovrebbe capire queste cose! Abbiamo una teologia retriva che in certi aspetti è molto peggio dell’opposizione che questi giudei fanno al Cristo, perché oggi siamo 2.000 anni dopo quell’evento. E si moraleggia “devi, devi, devi ubbidire alla chiesa altrimenti vai all’inferno!” sarebbe ora che le persone si svegliassero – son tutte instupidite?
Intervento: Perché questo?
Archiati: Per il potere! Perché se la gente va via ancor di più, la chiesa alla domenica è vuota.
Intervento: Se c’è un “figlio della perdizione” dovrebbe esserci anche un “padre” della perdizione… (confusione in sala). È una battuta! Invece, a proposito dei dubbi e delle incomprensioni degli ebrei, mi viene in mente che nel ciclo di conferenze di Steiner su Il vangelo di Giovanni in relazione agli altri tre (O.O. 112) si parla, in termini semplici, di Spiriti buoni che aiutano l’umanità perché sia sempre unita, e di Spiriti luciferici, cattivi, che invece si adoperano perché l’umanità si separi. La separazione è detta una cosa negativa, l’unione è detta una cosa positiva. Allora dico, gli ebrei che sono a conoscenza di queste cose occulte, tanto più sono a favore dell’unità e cercano di essere uniti – tant’è vero che la consanguineità del sangue è una conseguenza di questo modo pensare.
Archiati: La cosa è molto semplice. Va affrontata evolutivamente, perché altrimenti non includi i cicli, le inversioni di marcia e la soglia, che è il mistero delle inversioni. Quando un bambino ha 8 anni qual è la cosa buona, l’unità alla famiglia o un bambino che disobbedisce dalla mattina alla sera? C’è un periodo, un ciclo evolutivo, in cui l’unità è la forza portante; se però restasse sempre e solo l’unità, non sorgerebbe l’individualità. Quindi, se l’armonia della famiglia, che c’è coi bambini quando hanno 7 anni, restasse tale e quale fino ai 15-16 anni, sarebbe un disastro, perché i figli non acquisirebbero la libertà individuale.
La soglia più grande dell’evoluzione, la grande svolta portata dal Cristo – quella è la soglia più grande di tutte – sta a dire che, prima di Cristo, c’era ciò che tu hai chiamato il luciferico, che già tendeva a far sorgere i primi inizi di individualizzazione ed era progressivo. Se non fossero sorti i primi inizi (la scissione in due sessi per esempio, è stata portata da Lucifero, ma ci voleva!) l’umanità sarebbe stata una pappa molla tutta uguale. Comincia così il ciclo della dispersione causata dall’egoismo, e l’andamento si inverte; ma poi questa acquisizione dell’autonomia individuale è positiva fino ad un certo punto, quando va oltre una certa soglia diventa negativa. Finché l’individualizzazione, l’affrancamento di ognuno, il contributo individuale, è a favore della comunione, costituisce un fattore positivo dell’evoluzione, è buono; quando diventa unilaterale, quando la libertà individuale comincia ad essere contro la comunione, non è più un fattore buono. Una stessa cosa può essere in un certo senso buona e in un altro senso negativa. Nella fase attuale cos’è che manca, l’individualizzazione o la comunione?
Interventi: La comunione.
Archiati: Manca la fase che il Cristo intende dicendo: “Io e il Padre mio siamo uno”, cioè ciò che manca è che non sono mai insieme. Quando vogliamo far comunione si predica di lasciar da parte l’individualità e quando vogliamo l’individualità mandiamo a ramengo la comunione: quindi il Padre e il Figlio non vanno mai insieme. Allora il passo in avanti è di mettere insieme la comunione con l’individualizzazione, in altre parole di individualizzarci in modo tale che più diventiamo individuali e più diventa ricca la comunità, e la comunità diventa sempre più ricca quanto più ama lo spicco individuale assoluto di ognuno.
Il problema non è che abbiamo o troppa comunione o troppa individualizzazione, ma è che abbiamo una senza l’altra, una contro l’altra. La legge evolutiva è “Io e il Padre siamo uno”: un tipo di amore alla libertà del singolo che è contemporaneamente amore alla ricchezza della comunità, e un tipo di comunità che non decurta, non tira indietro la libertà del singolo, ma la favorisce. Una comunanza che schiaccia la libertà individuale è totalitarismo, povertà comune; e una libertà individuale che vive di sfruttamento della comunità, si dissangua lei stessa.
Intervento: Quello che volevo un po’ sottolineare è che i giudei, che erano più a conoscenza di queste forze occulte degli spiriti luciferici che dividono, avevano più difficoltà a comprendere il Cristo, perché sapevano che i demoni si adoperano per la separazione. Infatti quando gli dicono “tu hai un demonio” può darsi che si riferissero a questa cosa (che è capita più facilmente da un fariseo che non da uno qualsiasi). Per il resto sono perfettamente d’accordo con quanto hai detto.
Archiati: A questa sera.
Mercoledì 27 agosto 2003, sera
vv. 10,31 – 10,39
C’è una soglia nel Cristo che dice “Io sono la porta”. La forza dell’Io è la forza della percezione della soglia. L’Io-sono è la capacità di percepire la soglia, di vedere, di guardare in faccia il guardiano della soglia e rendersi conto, sapere quando si passa da un mondo all’altro, quando si tratta di cambiare registro: bisogna agire in un certo modo quando si è con se stessi nel mondo interiore, e poi cambiare, veramente cogliere che c’è una soglia quando io passo a interagire con gli altri.
Il nodo al quale siamo arrivati è che ormai tutto è stato detto, tutto è stato fatto e i giudei gli chiedono: “Sei o non sei il Cristo?”. Più fondamentale, più globale, la domanda non può essere: vuol dire che è stato detto e compiuto abbastanza per farli arrivare a sospettare. Il che, naturalmente, è molto.
Poi abbiamo visto che il Cristo li sposta dalla dimensione astratta e gli dice: è inutile che stiamo qui a disquisire astrattamente. Infatti l’elemento conoscitivo, l’andare avanti nella conoscenza richiede che si mettano sempre insieme percezione e concetto: se loro vogliono farsi il concetto di chi è il Cristo senza riferirsi alle percezioni fanno delle astrazioni. E le percezioni che hanno in mano per cogliere conoscitivamente l’identità del Cristo sono le sue opere.
Dice: lasciate perdere tutte le discussioni, lasciate perdere anche quello che io vi potrei dire – e ne ha dette di cose! – : guardate le mie opere! Le opere sono percezioni. I giudei hanno avuto la percezione, hanno visto, si sono accertati che a Gerusalemme Lui ha guarito il cieco nato, ha guarito il paralitico. Avuta la percezione, il giudeo, come ognuno di noi, si chiede: ma questo impulso viene dal Cristo o no? È buono o no? Il criterio per distinguere è di vedere l’effetto che quella certa cosa fa all’essere umano: mi fa bene? È bene! Mi fa male? È male! Il criterio è la natura umana.
Voi direte: però non è facile interpretare la natura umana! Non c’è bisogno che sia facile, l’importante è che la natura umana ce l’ho a disposizione e la vita mi è data per sceverare sempre meglio ciò che mi fa bene e ciò che mi fa male, in base all’esperienza. Il Cristo dice: io ho fatto delle cose, ora tocca a voi: guardate, chiedetevi, e ne avete ben la capacità, se le cose che ho fatto favoriscono l’umano, fanno bene all’essere umano, o se invece lo ledono, lo rendono peggiore. Non ci sono altri criteri; se non sei capace di usare il criterio della natura umana che porti in te e se non diventi sempre più capace di usarlo – la vita è fatta apposta –, se scarti questo criterio, caro essere umano, ti resta nulla, solo teoria! Il lato liberante, ma anche inchiodante, dell’argomentazione del Cristo, è che porta l’essere umano al fondamento di percezione che ha in mano, che è la sua stessa natura umana: buono, moralmente buono è tutto ciò che fa bene all’essere umano, cattivo è tutto ciò che fa male all’essere umano. Che altro criterio ci può essere per il bene e per il male?!
In altre parole, Lui dice ai giudei: perché volete costringere me a prendere posizione dichiaratoria su chi io sono? E allora quello che io ho fatto a cosa vi serve? Fatevi la vostra idea, se quello che ho fatto favorisce gli esseri umani e li porta avanti, o se li porta indietro. Salta fuori naturalmente che a loro non interessa sapere se è il Cristo o no: gli interessa scartarlo perché sono arrivati al punto di rendersi conto che è una minaccia assoluta al loro potere. Ma il Cristo parlando delle proprie opere intende dire: se si tratta della vostra paura di perdere il potere affrontatela, ma non cercate di farmi dire che io sono il Cristo in modo poi da avere la scusa migliore per farmi fuori.
Vediamolo nel contesto, rileggiamo dal 10,19: “Sorse uno scisma, i giudei si spaccarono in due fazioni a causa delle sue parole. 10,20 Molti di loro dissero: “Ha un diavolo, è un pazzo, vaneggia; perché continuare ad ascoltarlo?” (quindi l’interesse è di portar via la gente, cosicché smetta di ascoltarlo). 10,21: Altri dicevano: Queste parole non sono da uno indemoniato, neanche le sue opere” (bella questa duplice risposta di coloro che lo vedono buono anziché cattivo). Che forse un demonio è capace di aprire gli occhi di un cieco? 10,22 Era in corso la festa della Dedicazione del tempio a Gerusalemme, era inverno”.
Era il solstizio d’inverno: a quei tempi gli esseri umani erano molto più in sintonia con la natura che non oggi. Certe esperienze, certe cose si potevano dire soltanto d’estate, quando gli spiriti umani erano per un bel pezzo escarnati, e lo erano proprio perché vivevano con la natura. Quando il Pastore della Terra ritira le sue pecorelle, gli esseri elementari sono dentro l’ovile, è inverno, e anche l’anima umana diventa meno estatica, diventa più riflessiva, la spiritualità degli uomini ritorna dentro il tempio, quindi è incarnata al massimo. Allora vediamo quale tipo di passi spirituali vengono compiuti al solstizio d’inverno, punto a quei tempi di capacità di concentrazione massima, punto massimo di incarnazione nel corso dell’anno.
In altre parole, se c’è un tempo dell’anno nel quale il Cristo può riferirsi, può appellarsi all’Io consapevole pienamente incarnato, quel tempo è l’inverno. Quindi già il fatto che il vangelo ci dica che era d’inverno, il solstizio invernale, ci dà subito la chiave per capire che tipo di spiritualità c’è: devono essere i pensieri più accessibili all’Io incarnato, perché se aspetti tre o sei mesi le persone avranno molta meno possibilità di capire.
In quel punto infimo il Sole comincia a ritrionfare: fino ad allora era andato sempre più giù, le tenebre si facevano sempre più forti, le notti sempre più lunghe; però adesso il corso si inverte: ecco la soglia. Teniamo ben presente questo importantissimo contesto cosmico-psicologico dell’anno, della stagione (il testo dice soltanto cose importanti per capire quello che avviene).
10,22 “Era inverno, 10,23 e Gesù camminava nel portico di Salomone”.
La spiritualità di Salomone è polare alla spiritualità di Natan: c’è l’attesa del Messia in quanto re, dominatore, figura sociale, politica, che mette in piedi un assetto di potere di questo mondo. In nessuno scritto si dice che a Gerusalemme ci fosse anche un portico di Natan: non esisteva un portico di Natan; vuol dire che delle due interpretazioni possibili del Messia – una quella del Messia re trionfatore, l’altra del Messia sacrificale, sacerdote che si immola per l’umanità – quella salomonica era ben vista soprattutto dai capi religiosi e politici del giudaismo, mentre l’altra praticamente non c’era. Il Cristo si presenta in quell’altra chiave e li spiazza, non hanno alcuna possibilità di riconoscerlo, perché si aspettano un Messia trionfatore.
Il contesto – d’inverno, nel portico di Salomone – significa che bisogna argomentare in base a ciò che vale per la gestione della socialità sulla Terra. Vedete quanto è importante il contesto, quanti elementi il testo ci dà per capire bene certe parole; le stesse parole, in altro contesto, avrebbero altri significati.
10,24 “I giudei lo circondarono (non i farisei, i giudei con il loro tipo di spiritualità, con lo spirito di Salomone aleggiante, col Sole al solstizio invernale al punto massimo di inabitazione del corpo e quindi di capacità egoica di pensare le cose) e gli dicevano: Fino a quando terrai in sospeso la nostra anima? se tu sei il Cristo diccelo apertamente. 10,25 Rispose loro Gesù: Vi ho parlato, ma voi non credete” (questo “credere” significa “acquistare fiducia”: la mia parola non è servita a darvi fiducia, quindi è inutile che aggiunga altre parole. Ecco la seconda dimensione) Le opere che Io faccio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza circa me”.
Dovete imparare a leggere le opere, cioè a mettere in interazione il vostro pensiero con le percezioni. Le opere del Cristo sono percezioni, per chi le ha viste, e si tratta di interpretarle col pensiero. Però i pensieri e i concetti che una persona si fa su una percezione sono affari suoi! Ognuno deve gestire in proprio l’attività che passa da una percezione – che può essere in un certo senso comune, ad esempio la guarigione del cieco nato avvenuta sotto gli occhi di molti – al concetto. Certo, la percezione è sempre inesauribile nei suoi aspetti: ognuno coglie, di un dato percettorio, aspetti particolari; poi li deve interpretare col proprio pensiero, tocca a lui farsi i concetti propri. Qui loro si chiedono: del suo operare che abbiamo visto, percepito, che concetto ci facciamo? Ho il concetto che il suo operare fa bene all’essere umano, o che gli fa male? Se gli fa bene viene da Dio, se gli fa male viene dal diavolo. Però devo farmi io il concetto, devo interpretare io le sue azioni, perché se lui mi viene a dare la sua interpretazione io posso sempre dirgli: non ti credo! La convinzione di un altro non può mai diventare mia per percezione esterna.
In altre parole, le convinzioni possono essere formate soltanto dal di dentro, dal pensiero proprio. Nessun convincimento può venire recepito tramite un altro, perché è un convincimento per lui, non per me; la convinzione di un altro per me è una percezione: mi espone una sua convinzione, e mentre lo fa io ho una percezione acustica. In base ai pensieri che poi mi faccio, in base al mio processo di pensiero, quella convinzione può o no diventare anche la mia convinzione.
Ora vado veloce in modo che se ci sono degli elementi che volete approfondire nella discussione potrete farlo. 10,26 “Ma voi non credete perché non siete delle mie pecore. (Abbiamo precisato che dice “delle, dalle mie pecore” e non dice “non siete mie pecore”, che sarebbe un’affermazione metafisica sull’essere). 10,27 Le mie pecore odono, ascoltano, si sentono in sintonia con la mia voce, io le conosco ed esse mi seguono. 10,28 E io do loro la vita che non tramonta, che non perisce… (la vita del corpo perisce, invece la vita dell’anima, e soprattutto quella dello spirito, non perisce, è eterna. La lingua greca non ha la parola “eterno”, che è puramente negativa perché è la negazione del tempo; la parola greca corrispondente è a„ènioj (aiònios), che significa “la vita che dura un eone”: un eone è un periodo di tempo. Non si tratta soltanto dell’eone che va dalla nascita alla morte, ma anche dell’altro eone che va dalla morte alla nuova nascita) …e non ci sarà qualcuno che le rapirà dalle mie mani. 10,29 Il Padre mio, che mi ha dato le pecorelle, è maggiore, più potente di tutti, e nessuno può rapire le pecorelle dalle mani del Padre. 10,30 Io e il Padre siamo uno”.
Qui eravamo arrivati.
10,31 Afferrarono di nuovo delle pietre, i Giudei, per lapidarlo.
Pietre per pietrificarlo, lapidarlo, per scagliargliele addosso e mandarlo all’altro mondo. Portata a livello del quotidiano, che tipo di reazione è quella di voler eliminare una persona? Quando qualcosa non mi garba la elimino.
Intervento: Il lupo, il brigante.
Archiati: Il brigante. Ma che tipo di reazione è?
Intervento: Di paura.
Archiati: L’altro mi minaccia, la minaccia è tanto forte che io ho paura di non saperla gestire. Qui non si reagisce aggredendo, si elimina!, perché le pietre ammazzano (se fossero bastoni, magari uno resta in vita, però è stato picchiato e non lo rifà più). Le pietre significano l’impulso ad eliminare l’altro!
Intervento: C’è scritto che portarono “di nuovo” le pietre…
Archiati: Perché ci hanno già provato alla fine del capitolo 8. Abbiamo discusso di come Gesù ha fatto per sparire; e adesso sparisce di nuovo. Sollevarono delle pietre per lapidarlo. Questo sollevare è una bella immagine, e mi permetto un’interpretazione metaforica (questo testo consente tutti i livelli di interpretazione). Sollevare le pietre significa pervertire il mondo in cui viviamo, fare le cose all’opposto, perché le pietre sono pesanti, sono fatte per restare giù a terra, per fare da sostrato; loro vogliono mettere ciò che fa da sostrato sulla testa di Lui. In altre parole, invertono il mondo: l’elemento di natura, l’elemento morto, minerale, l’elemento che dovrebbe permettere il cammino, l’evoluzione umana, (perché l’essere umano ci deve camminare sopra), viene sollevato, scagliato contro la testa per uccidere l’evoluzione umana. È una bella immagine di perversione dell’umano. La pietra, che è fatta per essere amica mia, perché io ci possa camminare sopra, viene innalzata, sbattuta in testa e mi uccide.
In altre parole, la natura, il dato di natura, o lo si usa come servitore della libertà oppure diventa padrone e ti uccide. O la libertà si avvale del dato di natura per gli scopi della libertà, oppure l’essere umano viene ingolfato, ucciso, fagocitato dalle forze di natura. O è lui che padroneggia la natura, o è la natura che uccide la libertà, uccide l’umano.
Bella questa immagine! Si evidenzia man mano che uno medita sul testo. Queste interpretazioni, metafore, non è che saltano fuori subito tutte; è il testo che consente anche questi aspetti, perché è così ricco! Perciò non è detto che questa sia l’unica immagine ricavabile da questo versetto.
10,32 Gesù rispose loro: «Molte opere belle vi ho mostrato, provenienti dal Padre; per quale di queste mi lapidate?».
“Molte, tante opere belle”. In greco “bello” significa anche “buono” – abbiamo visto “il pastore bello” che viene tradotto “il buon pastore”. Possiamo tradurre “opere buone”. Questo è il punto in cui, vi dicevo, il Cristo dice basta con le disquisizioni che non servono a nulla e porta il discorso alle percezioni, alla realtà, per smettere di fare teoria. Allora dice: Vi ho mostrato – ecco la percezione – tante opere buone. Per quanto mi riguarda dovrebbe essere chiaro che provengono dal Padre mio, perché Lui mi ha mandato a compierle e senza di Lui non le avrei potute fare. Ora tocca a voi prendere posizione.
Compito del Cristo è darci la percezione e il suo corpo, che è proprio il corpo della Terra, è la totalità delle percezioni offerta come potenzialità evolutiva del pensare umano. “A causa di quale di queste opere mi lapidate?”, per qualcosa che ho detto o per qualcosa che ho fatto? Non per qualcosa che ho detto, perché ciò che si dice si può interpretare in mille modi, quindi è per ciò che ho fatto; ma di ciò che ho fatto, quale opera mia merita che mi lapidiate?
Qui faccio una piccola parentesi esegetica. I giudei, prima, quando parlavano col popolino, trovavano come scusa che il Cristo andava contro Jahvè non tanto per le opere che faceva quanto perché le faceva di sabato. Adesso sarebbe giusto il punto di dire: le tue opere andavano bene, il problema è che hai trasgredito il sabato. Invece nulla di questo. Il sabato è sparito! Adesso il problema è che Lui si fa figlio di Dio. Cosa significa questo? Che una disquisizione verbale non serve a nulla. Se ci fosse stata una ragione per dire che le sue opere erano maligne, l’avrebbero detta prima, come avevano detto che era maligna perché compiva di sabato ciò che era proibito fare di sabato. Adesso il sabato non c’entra, adesso c’è il fatto che tu sei un uomo e ti fai figlio di Dio.
10,33 Gli risposero i Giudei: «A causa di un’opera buona non ti lapidiamo, ma a causa di una bestemmia, perché tu che sei uomo ti fai Dio».
Dopo duemila anni di cristianesimo e dopo qualche bicchiere di scienza dello spirito di Steiner, uno potrebbe dire: Guai se l’essere umano non fosse intento a farsi sempre più divino! Se l’essere umano non fosse in questo processo di diventare sempre più divino e quindi di prendere sempre più corresponsabilità nella gestione dei destini della Terra e dell’umanità, ci sarebbe un peccato di omissione su tutta la linea! Quindi se i giudei capissero l’umano, gli direbbero semmai: Tu sei cattivo se ometti di diventare figlio di Dio! Invece gli dicono: Tu sei bestemmiatore perché essendo uomo ti fai Dio, sei nel processo di farti Dio.
Ma se la loro Genesi dice che la divinità ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, vorrà ben dire che l’uomo è figlio di Dio, no?! Avrà qualcosa in comune con la divinità, se è stato creato dalla divinità! Questa riflessione eretica oggi si può fare, però dopo duemila anni di cristianesimo e un paio di bicchieri di scienza dello spirito di Steiner, per lo meno La filosofia della libertà.
Non meno dei giudei di allora qui siamo confrontati noi, il cristianesimo tradizionale, tutti noi; questo è proprio il punto fondamentale di controversia che imperversa nell’umanità di oggi. Da un lato il cristianesimo tradizionale, che è più veterotestamentario che non cristiano, che non sopporta che gli esseri umani si arroghino di diventare sempre più divini – bestemmia! superbia! – e quindi è rimasto al punto dei giudei; dall’altro lato c’è questa scienza dello spirito che dice: è ora di prendere sul serio lo spirito del Cristo, c’è una chiamata responsabile a fare questo trapasso, da creatura diventare sempre più cocreatore.
Poi arrivano i signorini che dicono: Ma se l’essere umano diventa sempre più cocreatore, sempre più responsabile addirittura del suo karma, la grazia divina non ha più nulla da fare! Come se il concorrere alla libertà umana significasse che la divinità non ha più nulla da fare! Ma è da menti bacate, scusate! Per quanto gli esseri umani comincino ad essere liberi, non saranno ancora in grado di mantenere in esistenza il mondo: è la grazia divina, sono gli Esseri divini che devono mantenere in esistenza il mondo (e ce n’è da fare!). Tra l’altro io ho sempre detto: quando l’essere umano è nell’età della pubertà – che si ripete in ogni vita: ogni vita è una ripetizione di tutta l’evoluzione –, quando è nei primi passi della libertà deve fare più sbagli possibile, perché deve ancora imparare.
L’umanità oggi non è avanti in fatto di libertà, sta ai primi passi, è chiaro. La libertà è un pasticcio tale che viene proibita ancora in molti posti; quelli che hanno il coraggio di affrontare la libertà sono ai primi passi, lo vediamo dagli sbagli che si fanno. Quando i ragazzi nell’età della pubertà sono ai primi passi della libertà – fanno le prime sperimentazioni, e bisogna passarci – i genitori hanno molto più da fare, devono imparare un sacco di cose, perché una libertà incipiente è molto più egoistica che non costruttiva, ti combina più guai di prima.
Questi teologi, se avessero un minimo di buon senso dovrebbero dire: la grazia divina, la conduzione divina, ha molto più da fare quando gli esseri umani cominciano a prendere in mano la loro libertà, perché combinano un sacco di pasticci. È un’assurdità assoluta dire che la libertà umana è una negazione della grazia divina. Mi faccio capire, o non si capisce?! Questa cosa ritorna continuamente, non soltanto in Italia ma anche in Germania: sembra che appena tu accenni alla responsabilità della libertà – la libertà è una responsabilità, è prender in proprio la responsabilità delle proprie azioni – Dio non abbia più nulla da fare, lo mandiamo in pensione, disoccupato. La grazia divina ha molto più da fare ai nostri tempi che non 1.000 anni fa, ma gli inizi della libertà non vanno messi sotto sospetto, vanno amorevolmente accompagnati, perché nessuno entra nella seconda fase della libertà, quella positiva, fondata sull’amore, senza aver passato la prima la fase affrancatoria. Nessun figliol prodigo è in grado di ritornare dal padre se prima non è andato via. La prima fase della libertà è andare via, è negativa, è la fase affrancatoria (liberarsi da, da, da…), ma se non hai raggiunto un minimo di autonomia non puoi costruire una libertà positiva (libertà per).
Noi viviamo in una società e anche in una gestione religiosa che non hanno ancora capito che il rischio della libertà è proprio il cardine dell’amore divino per l’uomo: amare l’uomo significa dar fiducia alla sua libertà e non averne paura. Abbiamo un mondo pieno di paure della libertà, ma non è possibile tornare al regime del bambino piccolo, a cui si dice tutto quello che deve fare e lui obbedisce. Gli uomini non tornano più indietro. Veniamo sulla Terra per diventare sempre più divini, creatori, responsabili delle nostre azioni!
In altre parole, la struttura mentale dei giudei di allora, che è l’uomo vecchio in ciascuno di noi, è mettere sotto sospetto la libertà, presentare la divinizzazione dell’umano come una cosa cattiva. La loro struttura mentale dice: il divino e l’umano si escludono a vicenda, o sei uomo, e allora non hai nulla di divino, o sei divino, e allora non sei uomo. Da quello che conosco della chiesa cattolica credo che il pensare sia rimasto tale e quale: invece di vedere una soluzione di continuità, invece di capire che il dinamismo evolutivo dell’uomo sta proprio nella capacità di diventare sempre più responsabile, creatore, libero, più partecipante al reggere i destini della Terra e dell’umanità – che è il cardine della forza che il Cristo è venuto a portare – viene presentato come un male.
Intervento: C’è una porta tra divino e umano? Una soglia?
Archiati: Sì, la soglia è la paura di vincere la paura: quando sei nella paura sei al di qua della soglia, quando vinci la paura sei di là. Oltre la paura c’è una soluzione di continuità. Cos’è l’umano? È la potenzialità del divino: l’uomo è stato creato a immagine del divino. Se dalla definizione di uomo – ma le definizioni lasciano il tempo che trovano – togli il divino ti resta aria fritta, perché l’uomo è spirito e lo spirito è divino; allora ti resta di insistere sul corpo, identifichi l’uomo col corpo, e quando il corpo muore, muore tutto l’uomo. Quindi la chiesa, che ha tolto il divino all’umano, ha aperto la porta alla scienza materialistica che vede nell’uomo solo un pezzo di materia; ma così dell’uomo non rimane nulla. Quando il corpo si decompone, se ti identifichi col corpo non resta nulla. Se preferisci questo tipo di antropologia, prenditela; a me non basta.
10,34 Rispose loro Gesù: «Non è scritto nella vostra Scrittura che Io dissi: siete Dei?»
Qui il Cristo risponde a quella bella frase forte: “Tu sei un uomo e ti stai facendo Dio”. Prima di affrontare la risposta che il Cristo dà, chiediamoci: se uno dicesse a te, te, te e me “tu sei un bestemmiatore perché sei un uomo e ti arroghi di avere aspirazione divina”, cosa gli risponderemmo?
Intervento: Che lui si mette al posto di Dio perché giudica.
Archiati: Vediamo cosa risponde il Cristo. La domanda è fondamentale, perciò la risposta va pensata bene. Lui che fa? Si cava d’impiccio citando la loro Scrittura dove è Jahvè che parla. Bella trovata! Se non si facesse forte della loro Scrittura, con loro non avrebbe nessuna chance, e per fortuna la Scrittura gli dà le parole e non bara, perché la Scrittura sa che l’essere umano ha la stoffa del divino. Dice: “Non è scritto nella vostra Scrittura: “Io dissi: Qeo… ™ste (theòi estè), siete Dei”? (nel testo ebraico “Elohim”).
In Germania commentavo il vangelo di Giovanni e, arrivato a questo punto, un partecipante mi portò una Bibbia cattolica dove in una nota c’era una spiegazione: “Qui il Cristo cita la Scrittura a sproposito”. Commenti teologici della Bibbia che mettono in nota: “Qui il Cristo cita la Scrittura a sproposito”!!! Io dicevo, aspetta che vado a prendere gli occhiali per essere sicuro di veder giusto… avevo visto giusto! Spiegava quella nota: il Cristo cita il salmo 18,6 – secondo altre catalogazioni è l’82,6 i salmi sono stati pasticciati con i numeri – che si riferisce soltanto ai Giudici e non a tutti gli uomini. Supponiamo pure che nel salmo ci sia una dicitura dove Jahvè dice: “Io ho detto: siete Dei” ma si riferisce solo ai Giudici del popolo e non ad ogni essere umano, supponiamo che sia così. Se fosse così, cosa ne pensate voi di un Cristo che la cita a sproposito? Che ve ne fate di questo Cristo?
La teologia cattolica, e quella protestante, arrivano al punto di sostenere queste cose! Perché l’alternativa sarebbe di dire che se il Cristo cita questa frase dell’Antico Testamento come valida per tutti gli uomini, deve esser valida per tutti gli uomini! Chi ha ispirato l’Antico Testamento se non il Cristo? Chi ha ispirato Mosè se non il Cristo, dal momento che Jahvè è la luce riflessa del Cristo? Quindi è comprensibile che i giudei, allora, non avessero alcun presupposto per capire, per accettare, perché si trovavano veramente in una situazione difficile (e poi, se avessero accettato il Cristo non l’avrebbero messo a morte e non avremmo avuto la redenzione dell’umanità). Però una chiesa cattolica, che dopo 2.000 anni ti presenta un Cristo che addirittura cita la Scrittura sbagliando, è un abisso veramente brutto dell’umanità.
Qui ci troviamo di fronte all’affermazione fondamentale per cui il Cristo è stato ucciso: perché praticamente si è presentato come figlio di Dio, aggiungendo che non c’è nulla di strano che Lui si presenti come tale, perché ogni figlio dell’uomo è chiamato sempre più a diventare figlio di Dio.
Se si perde la prospettiva evolutiva si pone la domanda sbagliata: ma l’uomo è figlio di Dio o no? è divino o no? Come è sbagliata la domanda: l’uomo è libero o no? Perché se dici “l’uomo è libero” allora è libero per natura, perciò non è libero; se dici “non è libero”, non è libero per natura, perciò non è libero. Quindi l’unica cosa che salva, sia per quanto riguarda la libertà, sia per quanto riguarda la figliolanza divina, è di dire che l’uomo è in evoluzione. Il senso dell’evoluzione è che se l’uomo si evolve nel senso del bene, è sempre più imbevuto, intriso di forze divine e quindi diventa sempre più un essere divino anche lui, assurge alla categoria successiva che è quella angelica. Gli Angeli sono esseri molto più divini degli uomini (è tutta una questione evolutiva in gradazione). Se invece l’uomo evolve in senso negativo diventa sempre meno divino. Tutte e due le possibilità ci sono.
Se togliamo la prospettiva evolutiva graduale allora abbiamo l’affermazione del serpente nel paradiso che senza dire ad Eva e Adamo che divenire divini è il senso di tutta la fatica dell’evoluzione dice loro: voi sarete come Dei, basta che mangiate la mela. Il serpente mica gli ha detto sarete sempre più come dèi se sudate bene, se ci mettete tutto l’impegno attraverso i millenni di evoluzione. Il serpente sottace l’evoluzione. Se il serpente non avesse sottaciuto che il divenire divino è il risultato di una lunga evoluzione, la mela sarebbe stata un pochino meno appetitosa! Quindi per far di tutto perché Eva cogliesse la mela, ha sottaciuto la cosa più importante: che si diventa sempre più divini nel corso di una lunga evoluzione, facendo uso positivo della libertà, non automaticamente e soprattutto non in un attimo.
Non voglio essere assoluto nelle mie affermazioni, ma nell’in-sieme abbiamo una teologia a tutt’oggi statica, che non ha ancora recepito la chiave metodologica dell’evoluzione: che ogni affermazione, ogni realtà va vista nell’evoluzione. Dire: “voi siete Dei” all’inizio dell’evoluzione è una menzogna. Dire: “voi siete Dei” alla fine dell’evoluzione, a coloro che veramente sono diventati divini, è una verità: tutto è in evoluzione. Chi non aveva interesse a considerare l’evoluzione? Il conservatore, colui che non vuole il nuovo: ma l’evoluzione è proprio fatta di cose sempre nuove. Però, se non ci fosse l’elemento conservatore che fa da resistenza, il nuovo non avrebbe la controforza necessaria. Quindi le cose vanno bene, l’importante è interpretarle giustamente: importante è la coscienza, cioè capire bene le cose.
Volevo aggiungere: io ho fatto tanti anni di teologia e questa frase del vangelo di Giovanni – “Voi siete Dei “ – non è stata mai citata, mai! Le si faceva un giro enorme intorno, e non l’ho mai sentita commentare in nessuna predica, mai! T’arriva uno Steiner e scrive La filosofia della libertà che è tutto un commento a questa frase come prospettiva evolutiva! E cosa dice la teologia di Steiner? Che è matto, e questa è la controprova che c’è lo stesso spirito di 2.000 anni fa, lo stesso spirito.
Adesso il Cristo gli spiega, gli fa l’esegesi della Scrittura.
10,35 «Se ha chiamato Dei coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio, e la Scrittura non può essere vanificata,
10,36 colui che il Padre ha santificato e mandato nel mondo voi dite che bestemmia, perché dice: io sono il figlio di Dio?»
Il Cristo ha pensato di farcela, allora, a convincerli? No, lo sapeva che il compito loro era di metterlo a morte; perciò questi sono i punti del testo in cui abbiamo ragione di dire: queste parole le disse più per noi, per le generazioni a venire, che non per gli esseri umani di allora. Quelli non erano in grado, né avrebbero avuto la possibilità di capirle; e poi guai se le avessero accettate: non ci sarebbe stata la Sua morte, né la redenzione. Quindi questi sono punti dove ci rendiamo conto che questo vangelo è stato scritto per noi: noi non eravamo allora in condizioni di capire, perché il compito dell’umanità decaduta era di dare la morte al Cristo; però, man mano che si va avanti, devono sorgere nell’umanità sempre più le condizioni per capire queste parole.
Il senso di queste parole è che ogni essere umano porta in sé il dinamismo di una divinizzazione senza confini, perché l’amore divino per l’essere umano è infinito. Per quale motivo la divinità dovrebbe proibire all’essere umano di raggiungere il meglio di ciò che ha? Sarebbe come una mamma che dice al bambino: ti do tutto meno ciò che ho di meglio. E il meglio di ciò che la divinità ha è di essere creatrice. Dio è creatore: avendo creato l’essere umano a sua immagine, in primo luogo lo chiama a diventare creatore; se poi l’uomo non crea non è creatore, ma in libertà. Così amare la libertà significa dare all’essere umano la potenzialità della libertà, rendergliela possibile; la mamma rende il bambino adulto? No, lo rende capace di diventare adulto. È interessante, bello, diventare adulto. Non è che ti danno l’essere adulto senza esserlo diventato! Se la divinità ci desse l’essere divini senza esserlo diventati, non ci sarebbe gusto; invece ci dà la capacità di diventarlo: questo è il senso dell’evoluzione.
Il cristianesimo tradizionale è stato per lo più una continuazione del Vecchio Testamento; un vero inizio dello spirito cristiano è previsto, in quanto a condizioni di coscienza, soltanto a partire dalla seconda venuta, e per tale si intende la venuta del Cristo nella coscienza umana. Nei primi 2.000 anni il Cristo doveva lavorare nelle profondità dell’anima per rendere l’uomo, a livello di coscienza, di pensiero, capace di capire i misteri della libertà. Questo cristianesimo, dove il Cristo ha reso gli animi umani capaci di libertà, capaci di filosofia della libertà, è stato chiamato a buona ragione cristianesimo della fede, cristianesimo del cuore: cioè un cristianesimo in cui il lavorio del Cristo era in primo piano. Però adesso il Cristo comincia a dire: il compito mio l’ho fatto, ti ho messo a disposizione tutti gli strumenti, le forze, perché tu adesso diventi adulto: adesso devi cominciare tu a far qualcosa. Adesso che comincia il bello t’arriva il cristianesimo vetero e dice: no, no, bisogna restare tutti bambini, tutte pecorelle, guai diventare pastori!
10,37 «Se io non compio le opere del Padre mio, non credetemi».
Qual è l’opera del Padre, l’opera di tutte le opere? La natura umana! Compiere le opere del Padre significa portare a compimento la natura umana. La natura umana è fatta di potenzialità e di compimento: il Padre ha posto la potenzialità, il Figlio la porta a compimento. In altre parole, il Figlio è fatto apposta per darci il coraggio della libertà, se no non andiamo avanti.
Il Cristo sta dicendo: se l’opera del Padre e l’opera del Figlio si contraddicono, allora io faccio qualcosa che è contro la natura umana; se invece le mie opere sono la continuazione delle opere del Padre, allora io porto sempre più a compimento, a perfezione, la natura umana. La natura umana cos’è? La chiamata alla libertà! Guardiamola in ogni bambino immerso nel dinamismo evolutivo, che cerca di diventare sempre più capace di pensare con la propria testa e di agire con gli impulsi del proprio cuore: e l’individua-lismo etico significa essere responsabili delle proprie azioni. Restare bambini è contro natura, è dare uno schiaffo al Padreterno e alla natura umana che Lui ha creato; che poi faccia comodo restare bambini lo capisco, ma il Padreterno non ha creato l’uomo perché faccia il comodino.
10,38 «Se invece compio le opere del Padre, e se voi non credete a me, credete alle opere, affinché conosciate e riconosciate che in me è il Padre e io sono nel Padre”.
Cioè: riconoscete che la libertà non è in contraddizione con la natura e la natura umana non è in contraddizione con la libertà. La chiamata alla libertà è dentro al Padre, fa parte della natura, e il Figlio quindi ne fa parte integrante; e il Padre è nel Figlio, cioè il Padre viene a compimento soltanto se c’è il Figlio. La natura trova il compimento dentro la libertà e la libertà trova la sua possibilità di espansione dentro la natura; se non ci fosse la natura la libertà sarebbe campata per aria. In altre parole, natura e libertà non sono pensabili l’una senza l’altra. Io traduco nel linguaggio dell’umanità di oggi (se volete, fate altre traduzioni...) “Padre” e “Figlio” con “natura” e “libertà”, sperando di cogliere elementi fondamentali : ma si possono cogliere anche altri aspetti.
Se invece si mette la libertà come contraddizione alla natura e la natura come preclusione alla libertà, allora si nega questa affermazione del Cristo che dice: il Padre è nel Figlio e il Figlio è nel Padre, non c’è l’uno senza l’altro. Non c’è pienezza della natura umana senza libertà e non c’è libertà senza portare a compimento la natura. Il Padre è in me ed io nel Padre.
10,39 Cercavano di nuovo di agguantarlo, ma gli scappò di mano.
Letteralmente: uscì dalla mano di loro. Il testo presuppone ovviamente che il Cristo inabiti in Gesù di Nazareth. Ci sono possibilità di inabitazione e di escarnazione, cioè di lasciare il corpo, che oggi noi non conosciamo più, ma che a quei tempi c’erano, in chiave di eccezione. Nei momenti in cui il Cristo si sta manifestando attraverso il Gesù di Nazareth (sta parlando, ecc.), in Gesù c’è una specie di aura, una specie di illuminarsi; quando il Cristo si ritira (per sottrarsi alle loro mani) questa aura che è il Cristo (il Cristo è un essere spirituale) si ritira dalla connessione col corpo di Gesù e questo diventa il corpo di un essere qualsiasi. I giudei, a quel punto, non sanno più quale era tra i tanti; la dicitura tecnica è: si rende occulto.
Questo ci fa capire perché chi ha catturato il Cristo ha avuto bisogno che Giuda gli indicasse chi era il Cristo. Di solito se si cerca qualcuno che si è deciso di mettere a morte, si è anche in grado di riconoscerlo. Tutt’ al più Giuda poteva specificare dove fosse. Invece i vangeli non dicono che Giuda doveva indicare il dove, ma che suo compito era di dire chi era, perché le autorità non erano in grado di sapere chi tra quei 12 o 13 fosse il Cristo!
Vi ripeto: la teologia tradizionale, con tutta la buona volontà naturalmente, non ha proprio gli strumenti per spiegare questi particolari del vangelo. Invece la scienza dello spirito di Steiner ti spiega, ti fa capire il perché e il come, e allora il testo comincia a parlare.
Ci voleva uno dei dodici, Giuda, che sapeva della connessione tra Gesù di Nazareth e il Cristo. Tra l’altro il Cristo, in via di eccezione, poteva manifestarsi anche attraverso gli altri dodici: non era facile riconoscere il portatore principale del Cristo: Giuda è dei dodici e dice: “È Colui a cui darò un bacio”.
Ci sono interventi?
Intervento: Al v.28 si parla del Cristo che dà alle sue pecore una vita che dura un eone: qui, “vita” in greco è zw¾n (zoèn), a differenza dei vv.11,15,17 in cui “vita” era yuc»n (psichèn) ed era la vita donata dal Cristo. Che differenza c’è?
Archiati: Ho collegato il “porre” t…qhmi (tìthemi) con la percezione, perché la percezione è qualcosa che viene deposta davanti a me, proposta a me; invece la vita eterna viene data, donata – non posta, donata. Per riassumere cose che si potrebbero dire in un modo anche più complesso, la vita transeunte della rosa è la percezione della rosa, invece la vita eterna della rosa è nel concetto: il concetto me lo dà il Logos immanente in me, perché lo creo, è un suo dono.
Se uno resta nella prospettiva della teologia tradizionale non ha il coraggio, proprio non trova il coraggio di assurgere a questo livello di interpretazione, perché non lo conosce. Invece se uno ha bevuto quei famosi tre bicchieri di scienza dello spirito, è portato ad un livello che è il livello dei vangeli, e allora si rende conto, scopre queste cose.
Intervento: A proposito del Cristo che è scomparso, sfuggito dalle loro mani, potrebbe esserci questa ipotesi: che il corpo fisico – che ricopriva o che mascherava l’entità spirituale – poteva essere da questa entità come smaterializzato, cioè il corpo svaniva proprio, perché altrimenti sarebbe rimasta l’immagine fisica di Gesù.
Archiati: Devi spiegarmi cosa intendi per “smaterializzarsi”; fai conto di avere a che fare con uno che non ci capisce nulla. Cosa intendi?
Intervento: Per esempio l’acqua cambia stato fisico: può diventare ghiaccio, se invece bolle diventa vapore, il vapore può diventare così sottile da scomparire alla nostra percezione, però l’acqua rimane.
Archiati: Nel tuo esempio hai a che fare con stati della materia, ma il Cristo non è una materia. Cos’è il Cristo?
Intervento: È l’entità, la potenza infinita che aveva un’immagine fisica, corporea – in quel momento era una persona che parlava ai giudei – una forma, una rappresentazione fisica, un corpo, quello di Gesù. Nel momento in cui vanno per prenderlo e lui scompare, non potrebbe scomparire anche l’aspetto fisico? Proprio perché la potenza…
Archiati: Ma se l’hanno circondato, come fa a sparire come corpo fisico del Gesù? Il testo ti dice continuamente: “Gesù rispose…”
Intervento: La domanda, per come l’ho capita io, è: questa entità cristica, nella sua potenza, non poteva disintegrare il corpo fisico di Gesù di Nazareth?
Archiati: Non sia mai! Sarebbe stata magia nera, che contraddice assolutamente l’operare del Cristo! Annienta la libertà! Il Cristo si attiene a tutte le leggi di natura perché se manda per aria le leggi di natura fondamentali che ci sono, non può dire che si è incarnato. Mi spiego?
Intervento: Magia nera sarebbe andare contro le leggi di natura?
Archiati: Ma mi pare! Per te disintegrare un corpo fisico fa parte delle leggi di natura?
Intervento: Se lo fa sparire per toglierlo dalla furia dei giudei, per poterlo salvare…
Archiati: No, tu stai parlando di disintegrazione di materia. C’è qualcun altro che vuole intervenire o non ho capito bene io? Il corpo fisico di Gesù non è scomparso: prima era illuminato dal Cristo, poi il Cristo termina di illuminarlo e resta un volto come un altro.
Intervento: Vuol dire che agli occhi fisici delle persone appariva in un modo quando era illuminato dal Cristo e in un altro quando non era più illuminato.
Archiati: Per capirlo ripensiamo, seriamente!, ad un’esperienza che diversi di noi devono aver fatto – perché fa parte dell’umano e se a una persona è successo una volta in vita sua se lo ricorda – di ascoltare qualcuno che parlava in modo talmente ispirato che il suo volto cambiava. Io, da piccolo, guardavo i predicatori: quando erano sul pulpito avevano un’altra faccia rispetto a quando erano giù (se non notiamo certe cose non percepiamo l’umano, non lo guardiamo). In questo fenomeno c’è una pur piccola analogia col fenomeno, unico e complesso, del Cristo nel Gesù di Nazareth.
La teologia normale non ha gli strumenti per spiegare il fenomeno. È come quando troviamo scritto: “Gesù camminava sulle acque” che, tra l’altro, è un titoletto, non è parte integrante del testo. Se così fosse sarebbe magia nera! Se non si attiene neanche alla legge di gravità non può pretendere di essersi incarnato, di essere diventato uomo!
Intervento: Tornando al discorso che gli sfugge di mano, che sparisce: non era un fatto fisico, era un fatto spirituale, era un discorso di pensiero, di coscienza.
Archiati: Non spirituale, perché quelli non videro più nulla. Di coscienza sì. Ma ciò non significa che la carne di Gesù sparì fisicamente, il testo non dice questo.
Intervento: Con la coscienza riuscirono anche a vedere…
Archiati: Però è successo qualcosa anche oggettivamente, non soltanto nella coscienza, tant’è vero che la frase non si riferisce alla loro coscienza ma dice “Lui uscì dalle loro mani”, volevano mettergli addosso le mani.
Intervento: Gliele avevano già messe addosso, evidentemente, se gli è uscito di mano.
Archiati: No, cercavano di acchiapparlo, quindi c’è l’incontro di questa mano che pensa di acchiapparlo e gli sfugge.
Intervento: Non potevano acchiapparlo perché se non stavano sul livello spirituale non avrebbero mai potuto acchiapparlo.
Archiati: Ma tu mi devi spiegare concretamente cosa è successo, concretamente!
Intervento: Se è un fatto che avviene sul piano della coscienza, queste persone non potevano acchiapparlo, perché non stavano sullo stesso piano. È sparito perché loro non stavano sullo stesso piano.
Archiati: La mia domanda è: stavano tentando di acchiapparlo fisicamente, o soltanto metafisicamente?
Intervento: Metafisicamente, per me.
Archiati: Svanisce tutta la dimensione incarnatoria! Ma se lo volevano ammazzare!? Se tu togli che lo volessero acchiappare fisicamente, rendi vana tutta la dimensione storica oggettiva. Gesù era percepibile soltanto in quanto portatore del Cristo: il Cristo si ritira da Gesù e Gesù, in quanto portatore del Cristo, diventa impercepibile, e non lo acchiappano. Dicono “dov’è?”.
Intervento: I giudei alzano le pietre per lapidarlo, però l’azione non avviene; c’è il colloquio e il testo dice che poi lo vogliono arrestare, acchiappare, quindi non più lapidare.
Intervento: Due cose. A proposito di questo passo in cui “si rese impercepibile”: inteso come aura che si ritira, si può anche intendere, come ipotesi, che la persona di Gesù di Nazareth resta simile agli altri, indistinguibile dagli apostoli, forse anche perché a quell’epoca gli uomini non erano molto individualizzati. Così, quando l’aura si ritira, rimane un uomo comune che non viene riconosciuto. Poi un’altra cosa, a proposito del capitolo del buon pastore: i giudei, che erano stati educati alla legge mosaica, come potevano capire queste leggi cosmiche dell’evoluzione, che anche noi stentiamo a capire, come potevano loro capire questi discorsi!?
Archiati: Non potevano. Il Cristo non pretende che capiscano, li aiuta a conseguire una conoscenza di sé; per questi giudei, che siamo tutti noi, la conoscenza di sé è capire cos’è la caduta. Ma la caduta è una caduta anche di coscienza, allora il Cristo li aiuta a capire che l’uomo, nello stato di caduta, non capisce nulla della resurrezione, della riascesa, della redenzione. Se loro fossero già in grado di capire, non ci sarebbe bisogno del Redentore.
Il Cristo non sta facendo dei rimproveri, ma dice: voi siete in una posizione di evoluzione di coscienza tale da non poter capire quello che vi dico, perché non siete ancora diventate mie pecorelle. Se fossero già sue pecorelle non ci sarebbe bisogno che Lui venga a redimerle. Il Cristo non rimprovera, dà elementi conoscitivi, giudizi conoscitivi, mai giudizi morali: il Cristo non dice mai “dovreste”, ma “non capite, perché…”, “non potete capire, perché…”. Quando dice: è chiaro che mi dovete ammazzare perché siete troppo attaccati al potere, non fa un rimprovero, ma constata una realtà. Siccome si è moraleggiato su tutto, noi interpretiamo tante frasi del Cristo come se Lui stesse rimproverando, ma sbagliamo. I giudei poveretti fanno del loro meglio per tener sacro il sabato, con tutta la loro buona volontà; e un pinco pallino qualsiasi gli butta il sabato per aria! Voi come avreste reagito? Io non meglio di sicuro!
Intervento: Perché viene proposta la lapidazione e non la nostra esecuzione oppure la crocifissione? Che significato può avere la lapidazione?
Archiati: La crocifissione era dei Romani, la lapidazione è elemento specifico della legge mosaica: c’è nei popoli semitici, c’è anche nell’islamismo, per esempio. Di fronte all’adultera loro si rifanno alla legge mosaica che dice: quando una donna è colta in atto di adulterio venga lapidata (per lo meno loro l’interpretavano così). Ho scritto un libro dove davo tutt’altra interpretazione e cioè: una donna giudea che commette adulterio va contro le leggi della purezza del sangue perché ogni matrimonio e ogni generazione nel popolo ebraico deve servire a rendere possibile la nascita del Messia – cosa che per noi è difficile da capire, però per loro era comprensibile. Quindi la fedeltà in un matrimonio era tutta in vista della purezza del sangue da mettere a disposizione del Messia.
Poi noi, nella prospettiva moderna, ci chiediamo: ma per un adulterio non ci vogliono due persone, un uomo e una donna? Ma questa è una prospettiva nostra, e invece bisogna mettersi nei panni di allora: è la donna che dà vita al figlio non il padre, è il sangue della madre che è importante. Il giudeo è giudeo grazie al sangue della madre, quello lo fa giudeo. Una donna che commette adulterio si riduce al fatto di natura, al puro istinto, muore in quanto essere umano, si lascia ingolfare dal minerale, si lascia uccidere dalle pietre. Gli ebrei, invece, hanno interpretato così: chi compie adulterio sia ucciso con le pietre! Fisicamente e esteriormente. Va’ a vedere se Mosè ha veramente ricevuto da Jahvè, dall’Io Sono, sul Sinai, l’ingiunzione di uccidere fisicamente, con pietre fisiche, una donna colta in adulterio; ho i miei dubbi, però non sono cose semplici.
Su certe cose avrei letto volentieri interpretazioni di Steiner, ma lui non ha parlato proprio di tutto; ho letto tutta l’Opera Omnia diverse volte, però ci sono cose nell’Antico Testamento di difficile interpretazione. Comunque mi crea problemi pensare che nella legge mosaica fosse prescritto che una donna che commetteva adulterio dovesse venir lapidata fisicamente.
Intervento: In merito all’accusa che fanno al Cristo, non mi sembra che si sia macchiato di un peccato tale da meritare quella condanna.
Archiati: Ha bestemmiato! Per chi bestemmia la legge di Mosè prescrive la lapidazione: è sempre la legge di Mosè! Loro gli hanno detto: noi non ti accusiamo di opere cattive, ti accusiamo di bestemmia contro Dio.
Intervento: Non esisteva altro tipo di pena, presso gli ebrei? C’era solo la lapidazione?
Archiati: La lapidazione era per le cose gravi. Che altre pene ci fossero, non so, neanche le conosco tutte; andrebbe studiato il Levitico, il Deuteronomio, ecc. La legge mosaica è complessa, non è costituita dai soli 10 Comandamenti.
Intervento: Giuda nel Getsemani bacia il Cristo o bacia Gesù?
Archiati: Ma il Cristo non si può baciare!
Intervento: Perché se il Cristo era identificato dall’aura, anche gli altri lo dovevano riconoscere…
Archiati: No, non tutti percepiscono l’aura, questo è il punto. Supponi che il Cristo sia presente in questa sala – spero bene che lo sia! – chi di noi lo percepisce? L’assunto fondamentale di Steiner è questo: i fenomeni già sono molto complessi per la scienza naturale che considera solo ciò che è percepibile con i sensi, immaginiamo quanto sono complessi quando si considera l’imma-teriale, cioè tutto ciò che è eterico, astrale e spirituale! Per cui di fronte a questo testo, sinceramente, siamo solo agli inizi, ai primi balbettii, io per primo, perché si tratta di fenomeni molto complessi. Tu come spieghi quello che è successo, che i giudei cercano di acchiapparlo e Lui esce dalla loro mano?
Intervento: Non lo so, ho sentito tante versioni che ormai mi è difficile comprendere quella giusta…
Archiati: Quella che più convince te!
Intervento: Per me è che il Cristo possa “smaterializzare” il proprio corpo, rendendolo invisibile e che possa farlo in una maniera semplice. Il corpo fisico è un insieme di cellule che vibra ad una certa gamma di lunghezze d’onda e il Cristo può innalzare le vibrazioni delle proprie cellule a un livello per cui gli occhi umani non lo vedono…
Archiati: Io ho avuto una formazione troppo razionalistica per accettare una cosa del genere, però rispetto le tue idee. Quando hai tu visto un corpo fisico smaterializzarsi?
Intervento: Io no, ma questo non vuol dire che il fenomeno non esista.
Archiati: Però non fa parte della tua esperienza. Di fatto non è avvenuto così.
Intervento: Questi fatti non ci sono chiari anche perché noi pensiamo con una mentalità prettamente materialistica, non è detto che allora le cose non fossero percepite anche in maniera diversa. A questo proposito volevo ricordare che sono stati fatti degli esperimenti, sia in America che nell’ex Unione Sovietica, dove delle persone, dopo un training particolare, riuscivano a fare (mi pare) il vuoto mentale, a non pensare veramente, ed è stato provato che le persone che erano accanto non li vedevano, non li percepivano, non si rendevano conto che c’erano. La persona c’era ma non veniva registrata mentalmente: era come se non fosse stata in contatto, registrata dal cervello degli astanti.
Archiati: Ci tengo a precisare un’altra cosa: io non ho detto che non è possibile smaterializzare un corpo, sono convinto che sia possibile. Ho argomentato che lo escludo nel caso del Cristo, perché immanentemente lesivo della libertà: sarebbe una contraddizione con il suo Spirito.
Intervento: E io sono d’accordo, infatti è il Cristo che sfugge dalle loro mani, è come se loro non lo percepissero più, non viene percepito; che è una cosa diversa dal dire che si è smaterializzato.
Archiati: Io ho tradotto “si è reso impercepibile”. Nel termine italiano “percezione”, dal latino percipere, c’è il capio (afferro), anche nel termine “concetto” c’è il con-capio. R. Steiner spiega la differenza: nella percezione fisica io percepisco fisicamente, col corpo fisico, con gli occhi fisici – la vista che ha ridato al cieco nato –; il concetto, invece, è proprio un tentacolo eterico, reale, che viene emesso fuori, spinto fuori. Questo tentacolo, questa corrente eterica, palpeggia (capio) tasta, afferra l’oggetto da conoscere e tastandolo etericamente trova il con-capio, il concetto. Allora il Cristo “si rese inacchiappabile”, non soltanto a livello fisico ma anche a livello eterico (al livello del con-capio).
Però Steiner spiega cose che gli altri non dicono, perché per lui l’eterico è una realtà, gli altri non sanno neanche che esiste. Di queste realtà – che sono realtà! – l’uomo d’oggi non ha la minima idea, qui è il problema! Siamo confrontati veramente con il nostro materialismo! Tu dicevi che il corpo fisico di Cristo si è smaterializzato; so bene che questo fenomeno fisico è possibile (5.000 anni fa era forse comune) ma io dico: non sia mai che il Cristo faccia una cosa del genere, si contraddirebbe totalmente rispetto al suo Spirito. Perché se ammetto una cosa del genere non ho capito niente del suo Spirito. Ma scusate, se viene qui una persona che è capace di smaterializzare un corpo, voi credete di restare del tutto liberi di fronte a questa persona?
Intervento: Tu prima hai detto che i giudei alzano delle pietre per pietrificarlo: pensavo proprio a questa immagine del pietrificare come a voler “fissare” il Cristo. I giudei vogliono prendere delle pietre per tirarlo giù, per pietrificarlo, per averlo sempre disponibile, per renderlo morto. Infatti dopo il testo dice che vogliono acchiapparlo però non riescono… se fosse pietrificato potrebbero acchiapparlo, ed è questo che Lui non fa fare a loro.
Archiati: Buona notte!
Giovedì 28 agosto 2003, mattina
vv. 10,40 – 11,4
Ci stiamo avvicinando alla fine del capitolo 10, che chiude la prima metà del vangelo di Giovanni; poi ci sarà una specie di soglia, che in un certo senso sta a sé: è il capitolo 11, “Il risveglio di Lazzaro”. Dopo questa soglia ci sono altri dieci capitoli, quelli raccontatici dal risvegliato Lazzaro. Rudolf Steiner, specialmente per il vangelo di Giovanni, ha sempre dato molta importanza alla struttura, ha insistito sulla struttura; e visto che siamo arrivati proprio al punto di cesura, abbiamo la migliore occasione per svolgere alcuni pensieri fondamentali in merito.
Nel vangelo di Giovanni ci sono due testimonianze fondamentali: quella di Giovanni il Battista e quella di Giovanni il Lazzaro. “Giovanni”, a quei tempi, non era un nome proprio come lo è oggi, ma era una carica, come dire, una qualifica: Giovanni significava “iniziato”, di un certo tipo, però iniziato. Giovanni Battista è l’iniziato battezzatore e Giovanni Lazzaro è l’iniziato Lazzaro. Alla fine di questi primi 10 capitoli il Cristo ritorna là dove Giovanni Battista aveva cominciato a battezzare. Leggiamo i tre versetti che chiudono il capitolo 10, così abbiamo il contesto, prima di passare al capitolo 11.
10,40 Ritornò quindi al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui si fermò.
10,41 Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha fatto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero».
10,42 E in quel luogo molti credettero in lui.
Questi tre versetti sono come la conclusione di un vangelo, di una testimonianza e stanno a dire: tutto ciò che è stato detto o vissuto dall’inizio fino alla fine del capitolo 10, prima cioè del risveglio di Lazzaro, è una testimonianza di Giovanni il Battista, perché Lazzaro non è stato ancora risvegliato. Nel capitolo 11 Lazzaro viene risvegliato e da allora in poi, dal capitolo 12 alla fine, le cose vengono narrate secondo il livello di coscienza di Giovanni Lazzaro.
Detto in parole più poverelle: la prima metà del vangelo di Giovanni ha un carattere maggiormente essoterico, per tutti; la seconda parte invece va molto più a fondo, riveste un carattere maggiormente esoterico, anche perché tratta della passione, della morte e della resurrezione del Cristo. Il risveglio di Lazzaro avviene poco prima della Pasqua, è detto al capitolo 12; la seconda metà del vangelo di Giovanni comincia una settimana prima della morte del Cristo. Quindi tutta la seconda metà abbraccia una sola settimana di tempo, ed è chiaro che in questi capitoli non si racconta più l’ammaestramento del Cristo, ma si entra invece nei misteri reali del compiere i sette gradini della passione, del compiere proprio questa via di iniziazione.
La passione, la morte e la resurrezione del Cristo sono l’archetipo dell’evoluzione umana: morte e resurrezione, caduta e risalita, caduta e redenzione. I primi 10 capitoli si concentrano sul coltivare la coscienza e i secondi 10 capitoli sono i misteri dell’amore, sono il riversare forze d’amore; prima (cap. 1-10) il Cristo spiega cosa è venuto a fare, poi (cap. 12-21) lo fa. C’è una polarità molto bella, che vedremo man mano che andremo avanti.
Oggi, tra l’altro, dobbiamo decidere se c’è, in voi che seguite questi seminari, la volontà ferrea di andare fino in fondo al vangelo di Giovanni, o se c’è la volontà di fermarsi a questa cesura, alla soglia che abbiamo raggiunto ora. Perché, come vi stavo accennando, la seconda parte è ancora più impegnativa: non tanto intellettualmente quanto moralmente, nel senso che non la si può spiegare in via di erudizione, ma presuppone la decisione del singolo di camminare per questa strada. Soprattutto in Italia, la chiesa cattolica in particolare ha creato nella cultura una profonda, lamentevole disaffezione nei confronti del fenomeno cristiano. Perciò ci tengo ad essere cauto nel presupporre che gli animi di chi mi ascolta riescano ad acquisire un rapporto morale col Cristo, e non soltanto un rapporto di pura erudizione. Imparare tante cose sul vangelo di Giovanni per dire “adesso so tante cose in più”, non serve a nulla; il vangelo è fatto per trasformarsi in vita.
Ho tenuto sempre a sottolineare che il vangelo, particolarmente quello di Giovanni, non ha nulla a che fare con sentimentalismi e bacchettonerie; si tratta del puro e semplice fenomeno umano, nella sua complessità, però, nella sua universalità. Il vangelo non è soltanto per persone pie, religiose, cattoliche: no, è lo svolgimento del fenomeno umano in quanto tale, e soltanto capito così ha senso, perché ci rendiamo conto della comunanza umana che ci abbraccia tutti, al di là di religioni costituite, al di là di spiritualità di popolo, ecc.
Un piccolo esempio per mostrare che il vangelo, già nella prima parte, non tratta tanto di teorie quanto di vita. Prendiamo il punto fondamentale della controversia di ieri, dove la discussione tra i giudei e il Cristo finisce e i giudei decidono di farlo fuori perché non si tratta più solo di una teoria, ma di una minaccia esistenziale: l’affermazione “Voi siete Dei”. Questa affermazione non ha a che fare con un intento di erudizione (imparare qualcosa o saperla lunga sul vangelo di Giovanni) ma col significato che ha per la nostra vita. Significa che l’essere umano cerca la pienezza, cerca di star bene, cerca la felicità, però prima o poi si deve chiedere in che cosa consiste ciò che cerca, cosa cerca veramente. Poi deve chiedersi cosa deve fare, come si deve comportare per arrivare a vivere bene (perché finché sta a lamentarsi: oh, quant’è brutta la vita, ma quanti problemi, ecc… non risolve il problema). Quindi la domanda è sempre: come si risolvono i problemi della vita, come si fa a vivere sprizzando di gioia?
La risposta del vangelo di Giovanni è la più universale, la più pulita, perché è la più fondamentale che ci sia, va all’osso delle cose, lascia via tutte le variazioni che ci possono essere di cultura in cultura, di religione in religione, di popolo in popolo, va all’umano, a ciò che tutti abbiamo in comune. Questo è l’importante.
Il vangelo dice che ovunque nell’umanità, non importa in quale popolo, in quale religione, l’umano è fatto di una triplice dimensione: la dimensione del corporeo, dell’animico e dello spirituale. Queste sono le tre realtà fondamentali dell’essere umano sulle quali bisogna intendersi: sarai felice soltanto se le capirai nella loro diversità e se cercherai di trovare la pienezza di ognuna delle tre, del corporeo, dell’animico e dello spirituale (se vuoi, trova altre parole per definirle, ma di queste tre realtà si tratta).
Hanno leggi evolutive diverse, specifiche: il corporeo è la natura – io l’ho chiamato il dato di natura – nella quale ci sono determinismi, non c’è libertà; l’anima è tutto ciò che tu vivi dentro di te – sentimenti, emozioni, paure, gioie, dolori, speranze, delusioni… –; lo spirito è la dimensione oggettiva del cosmo, però non più materiale, ma spirituale. La percezione è il fenomeno fondamentale del corporeo; il concetto, il pensiero, è il fenomeno fondamentale di ciò che è spirituale; tra percezione (basata sui sensi corporei) e concetto ci sono: in chiave conoscitiva, la rappresentazione, che è l’eco animica della percezione, mentre in chiave maggiormente emotiva, ci sono i sentimenti, le emozioni – quella è l’anima.
Come si fa ad essere armonici e felici nel corpo, nell’anima e nello spirito? Con la salute del corpo, la salute dell’anima, la salute dello spirito. Il vangelo dice: se sei fatto di tutte e tre queste dimensioni devi trovare la pienezza in tutte e tre. I primi sbagli possono essere quelli di partire in quarta sul corporeo (che c’è e deve rispettare le sue leggi) dimenticando l’anima e lo spirito, come fa il materialista; oppure c’è chi parte in quarta con lo spirito (lasciamo stare se poi è o non è spirito) tralasciando l’anima e il corporeo. Abbiamo qui una specie di polarità tra la legge fondamentale del corporeo, che è il determinismo, e la legge fondamentale dello spirito, che è la libertà. L’anima è fatta apposta per ricreare sempre l’equilibrio, è la soglia: la salute dell’anima sta nell’equilibrio, ricreato sempre di nuovo, tra ciò che è corporeo e ciò che è spirituale.
Ciò che è corporeo è strumento per lo spirituale, questa è un’altra caratteristica fondamentale: se io ne faccio il fine della mia esistenza, i conti non tornano perché per fare del corporeo il fine, per dedicare tutte le mie energie alla salute fisica, a star bene, ad apparire più giovane, se dedico tutte le mie forze al corporeo invece di diventare strumento per il cammino dello spirito, asservo lo spirito, pongo tutte le energie intellettuali al servizio del corpo. Cosa c’è di male? Usare tutte le energie spirituali per fare cosmetici sempre migliori, per avere una salute corporea sempre migliore, funzionerebbe se Colui che ha creato la natura umana l’avesse creata tale che l’uomo sta bene ed è felice quando considera il corpo come fine ultimo! Se fosse così andrebbe tutto bene!
Se invece Colui che ha creato la natura umana – e di certo non l’abbiamo creata noi, noi ce la ritroviamo – ha deciso che l’essere umano è felice (perché la sua natura è fatta così) soltanto se si serve di tutto ciò che è corporeo come strumento preziosissimo, insindacabile e imprescindibile per il suo spirito, allora l’uomo si sente felice quando usa tutto ciò che è corporeo come strumento per il cammino dello spirito. Solo allora si sente felice, come il violinista che non può suonare senza lo strumento del violino: però il suo scopo non è guardare lo strumento e farlo sempre più bello, ma lo scopo è usarlo per sprigionare melodie. Chi ha creato la natura umana ha deciso che fosse così. Se non vi va andateglielo a dire, o provate a creare una natura umana opposta, diversa. Provateci!
Questo è un discorso diverso da quello moraleggiante che dice devi, devi, devi! No! Il discorso conoscitivo ti dice: vuoi o non vuoi conoscere oggettivamente la natura umana? Bene, allora guardiamola questa natura umana e cerchiamo di conoscerla nella sua oggettività. Salta fuori che è nella natura di ciò che è corporeo di essere strumento per lo spirito? Allora non dici all’essere umano devi, devi, devi, ma gli dici: vuoi essere felice? La tua natura funziona solo così! Vuoi che la lavatrice non si rompa? Queste sono le regole d’uso! Il vangelo di Giovanni sono le regole d’uso della natura umana.
Il Cristo è colui che ha usato la natura umana perfettamente, secondo le sue leggi: questo è il concetto del Cristo. Se Cristo è l’uomo archetipo, allora mi interessa, perché io pure sono uomo, ma se non è l’uomo archetipo non mi interessa! Mi interessa però come proposizione conoscitiva, di coscienza, di approfondimento scientifico oggettivo: la conoscenza oggettiva è infatti conoscenza scientifica. La scienza naturale ha instaurato una conoscenza oggettiva di tutto ciò che c’è al mondo, fuorché dell’uomo: una scienza oggettiva dell’essere umano non c’è nell’umanità di oggi. L’unica, nata un secolo fa, è la scienza dello spirito di Rudolf Steiner.
La scienza moderna conosce la natura, è una scienza naturale, ma dell’uomo mi fa conoscere soltanto il corporeo, e se io dell’uomo conosco soltanto la materia, le leggi di funzionamento della materia, non conosco nulla dell’uomo! Sarebbe come dire che un musicista conosce della musica soltanto il tipo di legno del violino, il tipo di corde ecc.: che cosa conosce della musica? Nulla! Così, la scienza moderna non conosce nulla dell’uomo in quanto mistero di anima e di spirito e fa come se lo strumento corporeo fosse il tutto. Neanche si accorge che tutte le energie mentali, tutte le energie anche animiche, sono al servizio del corpo per farlo sempre più bello.
Invece se il corporeo è fatto per essere strumento dello spirito – e queste sono per me affermazioni scientifiche, non sono ingiunzioni morali –, se il corporeo nella sua natura vuole essere strumento del cammino dell’anima e dello spirito, non può essere sano, fisicamente sano, se non è strumento dell’anima e dello spirito. Si ammalerà sempre. L’origine vera, più profonda di tutte le malattie fisiche è che noi snaturiamo, proprio operiamo contro la natura del corpo, che è di mettersi al servizio del cammino dell’anima e dello spirito. Oppure dimostratemi che non è così. Io, però, faccio un discorso scientifico, di conoscenza oggettiva, perché o è così o non è così! A me non interessa dire a una persona “devi fare così”.
Vuoi continuare a prenderti una malattia dopo l’altra? Continua a trattare il corpo come se fosse scopo. Se il corpo non è lo scopo ma deve essere strumento, lo portiamo ad ammalarsi quando non facciamo sfociare le forze corporee in questo cammino dell’anima e dello spirito. Un medico che in fondo non sa nulla dell’anima e dello spirito, ignora su tutta la linea da dove vengono le malattie del suo paziente perché rimane a livello del corpo e non va a fondo del problema. È come se mettesse una pezza di qua, sapendo che poi salterà fuori un buco di là. Questa è la medicina di oggi, detto in modo riassuntivo: è un mettere una pezza di qua sapendo che poi ci vorrà un’altra pezza di là (e così i medici continueranno a ricevere i soldi, altrimenti non avrebbero più nulla da fare).
A me premeva dirvi, senza fare ingiunzioni morali: non trattate il vangelo come puro fatto di erudizione. È contro la sua natura oggettiva scientifica farne una pura disquisizione intellettuale e non farne invece uno strumento di vita: il vangelo non può dare beatitudine a nessuno se non diventa vita, perché è vita, ha senso soltanto se è vita.
Nei capitoli 8, 9 e 10 del vangelo di Giovanni ci sono, in gradazione bellissima, tre gradini fondamentali, considerati ne La filosofia della libertà di Steiner (è una bella cosa conoscere quest’opera!). La struttura di questi tre capitoli è tale e quale la struttura dell’ottavo capitolo de La filosofia della libertà, che è centrale proprio perché, trattando dell’idea della libertà, fa una specie di sintesi, di quadro sintetico sull’argomento. Presuppongo che abbiate presente tutto ciò che è stato studiato e non vi sia scappato nulla (!).
Nel capitolo 8 del vangelo di Giovanni, il punto centrale (8,33) è l’affermazione dei giudei: “noi siamo il seme di Abramo” (termine più scientifico, più preciso che non “i figli di Abramo”); nel capitolo 9 (9,28), al centro della diatriba, al centro della disputa conoscitiva c’è l’affermazione dei giudei: “noi siamo discepoli di Mosè”.
“Noi siamo il seme di Abramo”, quindi abbiamo nel sangue la corporeità di Abramo e una migliore non c’è! Tu, invece, vieni dalla Galilea dove c’è tutto un misto fritto di sangue, il sangue giudaico lì non è più puro. “Noi siamo discepoli di Mosè” significa che la nostra identità è la Legge.
“Noi siamo il seme di Abramo”: si identificano con la realtà corporea di Abramo. In tutti i tipi di nazionalismo, di razzismo ecc. c’è l’identificazione col corpo: la razza ariana è migliore di quella semitica nelle idee? No, nei geni! La filosofia della libertà pone qui l’accento sulla percezione, perché ciò che si percepisce è sempre qualcosa di corporeo, l’elemento corporeo è la percezione.
“Noi siamo discepoli di Mosè”: si identificano con la Legge. La Legge si trova non nel corpo, non nei geni, ma neppure può trovarsi nello spirito, perché lo spirito è di natura individuale mentre una legge è comune. Il fenomeno legge è il fenomeno archetipico dell’animico, quindi i giudei qui si identificano con un fattore di anima. Spero che concordiate sul fatto che queste cose non le sto tirando per i capelli, non le sto inventando, perciò se non vi convincono fatevi sentire!
Al capitolo 10 il Cristo – che già aveva detto “Prima che Abramo fosse c’era l’Io-sono”, (8,58) – pronuncia la frase per la quale poi i giudei prenderanno le pietre per ucciderlo: “Voi siete Dei”. Questo è il livello dello spirito individuale.
L’ottavo capitolo de La filosofia della libertà interpreta così: a livello corporeo c’è chi cerca direttive per il proprio operare nell’esempio di qualcun altro. L’esempio è una percezione, è una realtà corporea. Al secondo livello c’è chi cerca le leggi morali, generalizzabili, i Comandamenti. Un comandamento non può valere per una sola persona ma deve valere almeno per un gruppo di persone (non dico per tutta l’umanità, ma almeno per il popolo ebraico). Il comandamento è una realtà a cui ci si deve sottomettere.
Ora guardiamo questi tre livelli – corpo, anima e spirito – dal punto di vista della libertà, della libertà più ancora che della felicità, perché felicità è una categoria troppo complessa, troppo aleatoria, non ci si accorda quasi mai su che cosa sia la felicità. Invece sulla libertà c’è una concordanza abbastanza sostanziale nell’umanità, perché ognuno fa esperienze di costrizioni e come contrasto fa anche esperienze (per quanto modeste, ma le fa) di che cosa significhi non essere più costretto e poter agire liberamente. La libertà è una categoria fondamentale dell’umano, per la pienezza, per la felicità, per la bontà morale dell’umano. Più sei libero e meglio è.
Perché è meglio fare qualcosa da liberi anziché da costretti?
Intervento: Ci si sente meglio.
Archiati: Ci si sente meglio?
Intervento: Perché la costrizione è imposta dall’esterno.
Archiati: Ma perché è peggio?
Intervento: Perché dipendo da qualcun altro.
Archiati: Ma la chiesa ti dice: basta che la fai tua e non è più costrizione.
Intervento: Se la faccio mia sono libero.
Archiati: A questo punto ci rendiamo conto che il disquisire teorico non serve più. Ognuno testimonia “mi sta meglio agire liberamente” ma non lo può dimostrare teoricamente: la natura umana non è una teoria. Quindi la moralità arriva al punto in cui deve lasciare le teorie e riferirsi all’esperienza, basarsi sull’esperienza della natura umana. Quando io faccio l’esperienza che sto bene, onestamente sto bene e so che non sto barando, allora sto bene ed è bene; quando faccio l’esperienza che nella mia natura sto male, può venire un papa o chissà chi altro a dirmi che sto bene, ma io sto male! Di fatto gli esseri umani, per autotestimonianza (se non sono snaturati del tutto) stanno meglio nella libertà che non nella costrizione. Se su questo punto uno dice: non mi convince, l’unica risposta valida è rispondergli: problemi tuoi! Forse non vuole farsi convincere per altri motivi.
Intervento: Questo avviene quando una persona è libera al 100%.
Archiati: No, la vita non si vive tutta in un attimo, la vita si vive esperienza per esperienza.
Intervento: Nessuno è perfetto.
Archiati: Sono categorie astratte… Faccio un esempio: io sono un quindicenne, anzi un diciassettenne, e sto parlando con tutti e due i miei genitori. Certo non vivo tutto il rapporto di anni in un attimo, ma sto vivendo la discussione di adesso, perché stanotte sono tornato alle 2 e loro hanno una rabbia che non finisce più e stiamo parlando di questo. Io posso fare due tipi di esperienze: quella dei genitori che mi lasciano libero e dicono: “Adesso tu hai 17 anni e entri nella fase dove devi veramente cominciare a fare le tue scelte”, e io dico ah mi sento libero, perché l’essere umano sano dice: sto bene nella libertà; la seconda possibilità è che i genitori vogliono costringermi e allora mi ribello. Perché? Perché non sto bene! E cos’è che non mi fa star bene? La mancanza di libertà! Ma non è che sto vivendo il tutto del rapporto, vivo questa mezz’ora, vivo il fatto che i genitori mi vogliono castigare perché sono tornato alle 2 di notte. Questo sto vivendo, non ciò che ho vissuto con loro due anni fa. La dimensione del tempo per l’essere umano significa che noi non viviamo nell’eternità, ma viviamo le cose di volta in volta. E di volta in volta, momento per momento, esperienza per esperienza, nella misura in cui faccio esperienza di essere libero, sono felice, sono contento, e nella misura in cui faccio l’esperienza (ora, in questo momento!) di non essere libero, sto male.
Intervento: Eppure l’uomo ha sempre cercato il limite, i confini della sua libertà in tutti i modi, in tutti i tempi.
Archiati: Sì, ha cercato di portarla al limite, e i risvolti animici sono complessi… però voi adesso mi avete interrotto mentre io ho appena cominciato... Io ho fatto passare il corporeo, l’animico e lo spirituale uno dopo l’altro: adesso si tratta di vedere come si articolano tra loro – quella è l’arte! Se dico che nel corporeo ci sono i determinismi di natura e lì non siamo liberi, significa allora che il corporeo lo buttiamo via? Allora diventiamo aria fritta! Se dico che nell’animico siamo in un gruppo, e che se c’è una legge dobbiamo sottometterci, vuol dire che allora è da buttare via?
No, dobbiamo guardare al modo in cui vive l’articolazione armonica di queste tre dimensioni dell’umano. Abbiamo visto che la legge del corporeo è che funziona e dà gioia nella misura in cui permette la libertà dello spirito. Però la libertà dello spirito non si può avere senza lo strumento del corporeo: sarebbe come avere la bella musica senza lo strumento musicale. E poi, è possibile vivere la libertà dello spirito senza la sfera delle leggi, delle norme? No! no! Però un conto è assoggettare l’Io, non permetterne l’emergenza e ridursi alle sole leggi da osservare, altro conto è osservare le leggi considerandole un fondamento, un sostrato, l’infrastruttura necessaria per poi aggiungervi ciò che è unico in ognuno.
In altre parole, l’armonia dell’essere umano presuppone tutto ciò che è corporeo. Se ti riduci al solo corporeo sarai del tutto infelice perché vivrai soltanto determinismi, ma senza determinismi non puoi far funzionare il tuo spirito, ci devono essere! Quindi rispetto al corpo hai soltanto due possibilità: o di farlo diventare tuo signore, e allora lo spirito viene ucciso, o di farlo diventare tuo servitore. Ma comunque senza corpo non puoi vivere.
Lo stesso è per l’anima, cioè per l’osservanza dei Comandamenti, degli accordi che si prendono e che sono leggi necessarie per tutti. Ho sempre portato l’esempio delle regole del traffico, che vanno osservate altrimenti non ci possiamo spostare: però non ci mettiamo in macchina per osservare le regole del traffico! Le osserviamo come presupposto per andare dove vogliamo andare.
Quindi il grosso quesito morale sul corporeo e sull’animico è di vedere se sono fine a sé stessi, o se vengono vissuti come strumenti indispensabili per aggiungere una sfera tutta individuale – una sfera che però si può aggiungere, esplicare, soltanto sulla base del corporeo e dell’animico.
Cosa intendono dire, allora, i giudei quando affermano “Noi siamo il seme di Abramo”? Si identificano con il dato di natura (come i nazisti si identificano nell’essere ariani). Che tipo di essere umano è quello che si identifica col sangue, con la natura? In Germania mi arrabbio ogni volta che mi dicono che sono Italiano perché io sono io, è il mio corpo ad essere nato in Italia. Uno dei caratteri fondamentali del materialismo è quello di cadere nella tentazione di identificare l’essere umano con il suo corpo.
Altri, più progrediti, si rendono conto che oltre al corporeo c’è anche la legge morale, il fatto morale, e allora credono che l’apice dell’umano sia la sottomissione alla legge e arrivano a sostenere con veemenza che senza l’osservanza della legge va tutto a catafascio. Siccome poi diventa ancora più complesso aggiungerci lo spirito, si fermano lì e fanno come se la vita avesse solo lo scopo di osservare le leggi: essere buoni e far tutto in regola.
Questa è la seconda grande tentazione: ridurre l’uomo a corpo e anima. Tutta la tradizione, anche cristiana finora, distingue solo tra anima e corpo: lo spirito è andato a ramengo. Inoltre la scienza naturale ha talmente insistito che l’unica realtà è il corpo, che adesso tutti si sono ridotti a chiedersi: e l’anima cos’è? T’arriva uno Steiner che addirittura dice: sia il corpo, sia l’anima sono soltanto strumenti per lo spirito!
L’inglese, lingua del corporeo, del mondo visibile, non ha neanche una parola per indicare lo spirito: se dici spirit pensano o all’alcool o ai diavoli (spirits)! Ma non c’è il concetto di spirito, che invece il tedesco ha: Geist.
Intervento: Come glielo spieghi agli Inglesi? Mind?
Archiati: Devi usare un sacco di giri, mind è la mente, non è lo spirito umano, non è lo spirito individualizzato, quindi devi ricostruire tutto, devi partire da capo. Guarda per esempio cos’è successo per il libro La filosofia della libertà di Steiner. In tedesco libertà è Freiheit (tra l’altro anche la traduzione italiana La filosofia della libertà, è una raffazzonatura: libertà ha tutt’altro significato in italiano che non Freiheit) e il titolo fu tradotto in inglese, ancora ai tempi di Steiner, con Philosophy of freedom. Steiner s’arrabbiò da morire e disse che in inglese, per andare un po’ vicini al significato, si doveva tradurre The philosophy of spiritual activity, la filosofia dello spirito che diventa attivo, perché il concetto di freedom nel mondo anglosassone è quello dell’impren-ditore che può fare ciò che vuole senza essere costretto da nulla. È la libertà di operazione nel mondo fisico, non è il concetto di Freiheit del mondo medioeuropeo che intende il diventare individualmente creativi nello spirito (come fa un Goethe che ti crea un Faust, o un Hegel che crea tutti quei suoi pensieri ecc.).
A questo si riferisce il Cristo quando dice “Voi siete Dei”: siete spiriti individualizzati, creatori, capaci di creare sempre di più sulla base dei determinismi del corporeo, sulla base delle leggi di convivenza necessarie e comuni, dell’animico. Perciò sia il corporeo (che è antilibero perché è deterministico) sia l’animico, che non è libero perché è sottomissione alle leggi comuni, non possono rendere felice l’uomo, perché l’uomo cerca la libertà.
Libertà significa creatività individuale. Ad esempio libertà significa che se in una scuola io sono un maestro, o una maestra, tra i tanti maestri che ci sono, la mia libertà sta nel mio modo unico, creatore, di essere maestro, un modo tutto diverso da ogni altro. Ma questo non impedisce nulla a nessuno, non intralcia nessuno, perché se io osservo gli orari stabiliti, ciò che è stato concordato ecc. (che è il livello delle leggi comuni, che ci vogliono) potrò benissimo avere un modo unico e creativo di essere maestro, di interagire con i miei alunni. C’è posto per tutti nel mondo, però soltanto se rispettiamo le leggi del corporeo e le leggi dell’animico.
Di fronte a queste persone, che poi siamo tutti noi, che vedono soltanto la corporeità (razzisti, nazionalisti: noi siamo figli di Abramo, noi sì, gli altri no), oppure a quelle che vedono solo la legge mosaica (noi siamo discepoli di Mosè), di fronte a queste persone che argomentano con due botte del genere che t’inchio-dano – perché il corporeo t’inchioda alle necessità, ai determinismi di natura, e la legge t’inchioda e ti determina perché altrimenti la polizia ti acchiappa e ti mette in prigione, ecc. – di fronte a loro ti arriva un pinco pallino, il Cristo, che dice: la parte interessante della vita, il fatto morale, comincia soltanto quando sulla base del corporeo e dell’animico diventi creatore, diventi un essere divino! In questa gente, che conosce soltanto le leggi del corpo e la Legge dell’osservanza, nasce la paura. Ma è una paura sbagliata.
Ci sono anche antroposofi che fraintendono questa triplicità, che parlano come se la libertà fosse disdegnare, o non considerare affatto, sia le leggi del corporeo sia le leggi comuni! Questi antroposofi danno ragione a coloro che mettono sotto sospetto la libertà individuale! Deve essere chiaro che la libertà individuale si può costruire soltanto sulla base del rispetto delle leggi corporee, perché se io non rispetto le leggi del corpo lo faccio ammalare, hai voglia poi a fare un cammino spirituale!
Quindi il terzo livello, lo spirituale, presuppone gli altri due: il discorso del Cristo è che gli altri due livelli non bastano, perché sono strumenti e non potranno mai da soli rendere l’essere umano felice. Il terzo livello non te lo dà né il corpo né l’anima, né il gruppo, lo devi costruire tu perché è individuale, unico in ognuno. È il diventare creatore.
Essere creatori è più nel modo con cui si fanno le cose, che non nelle cose che si fanno; finché uno non gusta un modo tutto suo di fare le stesse cose che fanno gli altri, non sarà felice; e in un’uma-nità diventata poverella, fissata sul materiale, è sorto un concetto di felicità che non ha nulla a che fare con lo spirito, come se la felicità fosse l’originalità stessa, per esempio nel fare altre cose che fanno gli altri. Oltre a mangiare, leggere un libro, andare in vacanza ecc. c’è un limite alle cose che puoi inventarti di fare in modo unico. L’unicità che manifesta il carattere spirituale unico dell’individualità di una persona è nel modo di fare le cose.
Pigliate ad esempio il linguaggio. Se uno partisse in quarta e dicesse: Voglio essere originale, non combinando le parole in modo vecchio ma inventandole io, non lo capirebbe nessuno! È chiaro che il linguaggio è un fattore animico, una specie di regola generale: se tu vuoi parlare italiano e farti capire, non puoi inventare una lingua nuova. Ma nel modo di maneggiare la lingua ci sono sfumature infinite, lì manifesti la tua creatività individuale. E c’è posto per tutti: tanti scrittori hanno trattato una stessa lingua (tra l’altro le 21 lettere dell’alfabeto son sempre le stesse) in modi infinitamente diversi. Una definizione latina dell’amore diceva: Amare significa dire mille volte io ti amo senza ripetersi mai. Quindi l’originalità non è nel “che cosa”, è nel “come”. Alcune persone spendono giornate intere perché devono trovare una valigia diversa da tutte quelle degli altri, perché soltanto così si realizzano come individui diversi, per non parlare di camicie, ecc.!
Questa... sberla amorevole del Cristo “Voi siete Dei”, ha conseguenze infinite: è una affermazione fondamentale sulla natura umana, è una affermazione antropologicamente fondamentale sul-la chiave della felicità. Non cercare la felicità soltanto nell’osser-vanza della legge, ma neanche nella prevaricazione contro la legge; perché sia l’osservanza della legge, sia la prevaricazione sono l’animico, manca lo spirituale. Quindi non sarai mai felice se prevarichi, perché prevaricando non crei lo spirito, vai soltanto contro la legge! Facendo qualcosa contro l’animico non è che stai facendo qualcosa per lo spirito. Lo sapete che ci sono state correnti velenose contro La filosofia della libertà perché l’hanno interpretata come libertinismo, come anarchismo puro?
Allora. Portiamo a compimento questa prima metà del vangelo di Giovanni. Poi mi farete sapere se fermarci qui al risveglio di Lazzaro, o se andare sino alla fine. Rileggiamo:
10,40 Ritornò di nuovo al di là del Giordano verso il luogo dove era Giovanni all’inizio, battezzante, e rimase colà.
10,41 Molti vennero presso di lui e dicevano che Giovanni non aveva fatto nessun segno, però tutte le cose che Giovanni aveva detto circa costui erano vere.
10,42 E molti credettero in lui colà.
Si parla qui della testimonianza di Giovanni il Battista la quale, in un certo senso, chiude tutta la prima parte del vangelo. Abbiamo detto che il vangelo di Giovanni è come formato da due piccoli vangeli. Steiner dice che in tutta la prima parte il Cristo compie cose che possono essere comprese anche al livello di coscienza di Giovanni il Battista, il precursore; invece la seconda parte non potrebbe essere compresa e venire testimoniata da Giovanni il Battista. Perciò qui si chiude la testimonianza di Giovanni il Battista, perché poi è richiesta una comprensione più profonda del mistero del Cristo. Questa comprensione più profonda viene inaugurata dal risveglio di Giovanni Lazzaro.
Vedremo che questo risveglio è tecnicamente un processo vero e proprio di iniziazione. Giovanni Lazzaro è l’unico essere umano che il Cristo inizia, conducendolo per tre giorni e mezzo nei mondi spirituali, poi al quarto giorno lo richiama fuori dal sepolcro – Marta dice: è già al quarto giorno e puzza! Ma lo dice lei che puzza… Lazzaro è in realtà in uno stato tra morte e sonno, uno stato di eccezione: il Cristo, in quei tre giorni di iniziazione, ha accompagnato spiritualmente Lazzaro. Questo Lazzaro che ritorna da oltre la morte, questo unico essere umano iniziato dal Cristo, è in grado di dire nella seconda parte del vangelo le cose più profonde che si possono immaginare sui misteri della passione, della morte e della resurrezione del Cristo, che cominceranno subito dopo il suo risveglio.
Allora, ritornò al di là del Giordano. Disegniamo i luoghi.
Betania, dove Lazzaro viene iniziato dal Cristo, è vicino a Gerusalemme. C’è anche un’altra Betania al di là del Giordano, che i reperti archeologici mettono molto vicino al fiume Giordano. A noi interessa adesso considerare il Giordano come una grande soglia nei tre anni della vita del Cristo, ma una soglia anche perché il Giordano è una crepa nel corpo della Terra. In ebraico Giordano (Iarat) significa “discendere”, “scendere giù”: non c’è solo lo scendere del fiume da Nord a Sud, ma si scende andando da Gerusalemme a Gerico, per esempio, proprio si scende giù da un’altura di 600 metri sul livello del mare fino al Mar Morto, che è 400 metri sotto il livello del mare. Il Mar Morto è nella geografia delle terre abitate dall’uomo il punto più basso della Terra. Allora la soglia del Giordano, “la discesa”, diventa come una runa, una specie di segnacolo del cammino dell’umanità.
Giovanni il Battista battezzava ad est del Giordano: da questo lato del fiume arrivavano gli uomini che andavano verso la Terra Promessa. Varcavano il Giordano ed entravano nella Terra Promessa (che sta ad ovest). Quindi la Betania dove battezzava Giovanni è l’ultimo punto della discesa dell’umanità nella caduta; poi c’è la svolta, l’evento del Cristo; poi Giovanni Lazzaro viene iniziato nella Betania che è a ovest, e questo è l’inizio della risalita. Allora Giovanni il Battista è la fine di questa discesa e Giovanni Lazzaro è l’inizio della riascesa.
Steiner descrive, dal punto di vista della scienza dello spirito, in che modo le due individualità – Giovanni il Battista, che è già morto, e Giovanni Lazzaro – costituiscono una sola individualità che abbraccia tutti e 7 gli elementi dell’essere umano, o tutti e 9, se volete: tre realtà corporee (corpo fisico, corpo eterico e corpo astrale); tre realtà animiche (anima senziente, anima razionale e anima cosciente); e tre realtà spirituali (sé spirituale, spirito vitale e uomo spirito). Quest’uomo completo viene sinteticamente creato attraverso l’unificazione spirituale tra l’uomo Giovanni Battista, in quanto bisognoso di redenzione, e l’uomo Giovanni Lazzaro, in quanto inizio del risveglio e del ritorno verso l’umano.
Betania: ce ne sono due, una al di qua (ovest) una al di là (est) del Giordano. Si è molto discusso sul significato del nome, comunque uno dei significati fondamentali in ebraico è “la casa della povertà”: povertà della caduta e povertà dell’inizio della riascesa di chi si rende conto di essere caduto. La realtà della caduta e la coscienza della caduta. Però la coscienza della caduta è al di qua della soglia perché è il presupposto per la riascesa. Perciò abbiamo in Giovanni il Battista la realtà dell’anelito umano, del desiderio umano di redenzione, e in Giovanni Lazzaro la coscienza di tutto ciò che bisogna fare per risalire.
Il Cristo passa tre anni attorno alla testimonianza di Giovanni il Battista e passa tre giorni – passione, morte e resurrezione – attorno alla testimonianza di Giovanni Lazzaro.
Trascorsi i tre anni ritorna là dove era Giovanni il Battista per compiere questo ciclo, e perciò si parla della testimonianza di Giovanni il Battista. Pochi giorni dopo – il vangelo non dice quanti – viene al di qua del Giordano, risveglia Lazzaro in tre giorni e mezzo e poi compie i suoi tre giorni e mezzo di iniziazione dell’umanità intera, con la sua passione, con la sua morte e con la sua resurrezione.
Questo per dire quali elementi di struttura, poderosi, ci sono nel vangelo di Giovanni. Adesso forse queste parole vi risulteranno un pochino più eloquenti. Rileggiamole. 10,40 “Tornò di nuovo al di là del Giordano verso il luogo dove era Giovanni fin dall’inizio, che battezzava, e rimase colà”. Era a ovest e adesso ritorna ad est per sigillare il fatto che tutto quello che è successo sinora è successo sulla base del battesimo di Giovanni. Giovanni ha battezzato per rendere accessibile il Cristo agli uomini, almeno a quelli che sono aperti; il battesimo di Giovanni è servito a far capire, a creare l’accesso a tutto quello che il Cristo ha compiuto finora. Adesso il Cristo ritorna lì, per suggellare la testimonianza di Giovanni, e infatti il versetto successivo parla della testimonianza di Giovanni.
10,41 “E molti vennero presso di lui” – sono coloro che hanno vissuto le vicende dei tre anni e quindi parlano, tirano le somme della testimonianza di Giovanni, il quale diceva: Lui è. Giovanni non ha fatto nulla, ma ha puntato il dito sul Cristo, ha indicato il Cristo – “e dicevano: Giovanni non ha fatto alcun segno” – infatti egli diceva solo: il Cristo non sono io, ma Lui. E ora capiamo perché Giovanni non ha fatto alcun segno: li ha fatti il Cristo, ne ha fatti 7 – “però tutte le cose che Giovanni disse su di Lui (cioè la sua testimonianza sul Cristo) erano veraci”.
Si è avverato tutto quello che Giovanni ha detto nei primi 10 capitoli; nella vita del Cristo, nei tre anni, c’è l’avverarsi di ciò che Giovanni il Battista aveva detto. Possiamo dire che tutta la prima metà del vangelo di Giovanni abbraccia tre anni e la seconda metà i tre giorni: tre anni dell’umanità e tre giorni del Cristo.
10,42 “E molti credettero in lui, colà”. Ripassando il Giordano, Lui ritorna nel luogo dov’era Giovanni, dov’era la spiritualità della testimonianza; c’erano ancora gli spiriti della natura, questa spiritualità della testimonianza, perché Giovanni colà battezzava. La testimonianza è stata vissuta per tre anni e ora il Cristo ritorna là: e gli uomini che lo incontrano lì sono di nuovo in questa atmosfera spirituale di Giovanni col ricordo, con l’anamnesi, di ciò che hanno vissuto per tre anni. Così molti credettero in Lui, ritornando in questa spiritualità della testimonianza del Battista si convincono: Costui è veramente il Messia atteso dalle Scritture giudaiche.
Qui è finito il capitolo 10. A questo punto, cominciando l’11, proseguiamo nella lettura del testo come se fosse solo finito un capitolo e semplicemente ne cominciasse un altro. Però, guardando ai contenuti qui, tra il 10 e l’11, c’è un Rubicone assoluto.
11,1 C’era uno malato, Lazzaro di Betania, dal villaggio di Maria e di Marta sua sorella.
Questo capitolo ha un inizio assoluto, non c’è alcuna transizione. Potrebbe interessare sapere – per i risvolti che ha sull’interpre-tazione dell’essere umano, che è quello che ci interessa – che su questo capitolo ci sono grossi quesiti, anche teologici. Il risveglio di Lazzaro ha uno spicco assoluto nel vangelo di Giovanni, costituisce proprio la soglia tra la prima e la seconda metà del vangelo, come trapasso, come presupposto per entrare, per capire e anche per compiere i misteri della seconda parte.
Negli altri vangeli non si parla affatto del risveglio di Lazzaro, primo grosso quesito del cristianesimo tradizionale. L’altra domanda, ancora più importante, è: se è vero che questo Lazzaro ha ricevuto un trattamento assolutamente particolare dal Cristo, come mai questa figura sparisce nel nulla? Infatti né fa parte dei 12 apostoli, né si sa che abbia avuto qualche compito dopo la morte del Cristo (che avviene una settimana dopo). Pietro diventa capo, Paolo… ecc., ma non risulta che Lazzaro risvegliato abbia poi fatto nulla per l’umanità.
Proviamo a rifletterci, e vorrei farlo in modo che ci possa arrivare ognuno.
L’impulso dato dal Cristo all’evoluzione umana è stato talmente grosso che non poteva essere recepito subito, bisognava cominciare in piccolo. Allora cominciamo a distinguere anche nei destini del cristianesimo, nell’operare del Cristo nell’umanità, un primo inizio, dove Lui deve fare più di quello che gli esseri umani sono in grado di fare, perché innanzitutto bisogna che negli uomini si costruisca un po’ alla volta la coscienza per capirlo. In secondo luogo, Lui stesso deve darsi il tempo che è necessario per trasformare gli animi. Quindi il cristianesimo, il lavoro del Cristo, se è un impulso che accompagna tutta la seconda metà dell’evo-luzione, deve avere anch’esso un inizio, non può far tutto in una volta.
Se c’è un inizio e poi un incrementarsi, possiamo distinguere almeno due fasi fondamentali e cioè: prima la fase subconscia di ciò che avviene nell’essere umano grazie all’operare del Cristo, e dopo il sopravvenire della coscienza umana. Così come noi, nella biografia di una persona, possiamo distinguere almeno due fasi (veramente ne potremmo distinguere 50, se volessimo, ma due sono fondamentali): la fase in cui non è ancora condotta dalla coscienza individuale e quella in cui sorge la coscienza individuale, che è tutt’altra fase. Il cristianesimo deve avere una fase iniziale che non è ancora condotta dalla presa di coscienza dell’individuo, perché quella deve sorgere un po’ alla volta.
Dovremmo postulare l’esistenza di vangeli accennanti a questi due diversi livelli dell’operare del Cristo: ciò che il Cristo compie nel subconscio degli esseri umani, la cosiddetta fede, e ciò che poi, in un secondo momento, il Cristo rende accessibile alla coscienza umana. Incominciamo così a capire che bisogna distinguere due tipi di cristianesimo: uno che precede la presa di coscienza del singolo – lo chiamiamo “petrino” – e l’altro dove l’e-lemento determinante è la coscienza del singolo, che vuole capire il fenomeno cristiano – lo chiamiamo “giovanneo”.
Per verificare quanto presupposto, adesso vado a sbirciare la fenomenologia di questo risveglio di Lazzaro. Se la capisco, mi dice che qui si tratta di un fenomeno che non può essere recepito in un cristianesimo essoterico, che vale per tutti, ma presuppone una coscienza individuale desta. Se è così, è un fenomeno che deve aspettare: prima ci deve essere un cristianesimo d’infanzia. L’infanzia dobbiamo passarla tutti, a tutti i livelli, e perciò un cristianesimo d’infanzia non è un cristianesimo brutto, è solo bambino, ma nessuno diventa adulto se prima non passa la fase infantile. La cosa moralmente grave, moralmente sbagliata, è quella di restare bambino!
Allora, nella natura del fenomeno cristico ci devono essere due livelli fondamentali: un livello essoterico, accessibile a tutti anche senza presupposti di coscienza, anche ai bambini, ricco di parabole per esempio, ed ecco perciò tre vangeli in cui le parabole hanno un carattere fondamentale; e poi il livello del vangelo di Giovanni, il vangelo di Lazzaro, che è maggiormente esoterico.
Ma siccome il Cristo è puro amore per tutti gli esseri umani, a tutti i livelli della loro evoluzione – cioè li ama non soltanto quando, attraverso una scienza dello spirito, diventano fior di illuminati (!), ma li ama anche quando sono bambini nella loro coscienza –, allora perfino il vangelo di Giovanni è diviso in due: i primi 10 capitoli sono molto più accessibili alla coscienza di tutti, poi c’è questa soglia dell’iniziazione di Lazzaro (capitolo 11) come ad annunciare che negli altri 10 capitoli verranno esposti misteri e compiute cose di carattere maggiormente esoterico, nel senso che richiedono un’evoluzione di coscienza un pochino più adulta che non l’adesione del cuore. D’ora in poi o le cose le capirai con la coscienza pensante, oppure le cose non ti diranno nulla.
Vi ho fatto un ragionamento puramente umano, che però, se non è sbagliato, ci aiuta a capire la struttura del vangelo di Giovanni: la prima parte è essoterica, è per tutti e può valere anche per l’infanzia, poi c’è questa iniziazione, questo sollevare, approfondire il livello di coscienza – perché l’iniziazione è un salto di coscienza – che ti sta a dire: finora hai avuto la testimonianza di Giovanni il Battista che è per tutti, ora ti viene esposta la testimonianza di Giovanni Lazzaro, che ha carattere esoterico.
Un’ultima domanda: ciò che è esoterico è elitario, esclude persone? No, l’esoterico è come fare studi al liceo o al ginnasio: se vuoi fare trigonometria, devi avere presupposti conoscitivi di base matematici. Può sempre esserci uno che non ha studiato la matematica di base e che dice: voi siete razzisti e discriminanti perché non mi fate entrare nell’aula. Entra, ma non ci capirai nulla! Il concetto non è “ti è proibito entrare”, il concetto è “non ci capirai nulla”! È elitario il discorso che dice: per capire certe cose più profonde bisogna prima aver capito quelle più semplici? No, perché la porta è aperta a tutti.
Il discorso è onesto perché non ripete la grande menzogna che oggi dilaga nell’umanità: che tutti, se volessero, potrebbero capire tutto senza presupposti di cammino conoscitivo. Questa menzogna getta gli esseri umani sempre più nell’infelicità, perché il cammino di conoscenza è un cammino iniziatico, di lavoro sulla propria coscienza. Così come io non capirò mai la trigonometria se prima non ho studiato, imparato gli elementi fondamentali, così non capirei certe leggi di astronomia, certi cicli di pianeti: Copernico ha fatto una semplificazione enorme, ma se uno volesse andare nelle leggi evolutive, nelle leggi di orbitazione dei pianeti, le troverebbe così complesse che, senza studio preliminare, non capirebbe nulla. Lo stesso è per le scienze naturali.
Steiner parlando di “scienza dello spirito” intende dire che anche nella realtà spirituale non si può andare a naso: o si ha una conoscenza oggettiva, scientifica, che si costruisce grado per grado, oppure l’essere umano non può essere felice. Una delle esperienze più profonde di felicità è la conoscenza, ma la conoscenza ha dei presupposti, ha delle condizioni.
L’altra esperienza fondamentale della felicità è l’amore, però amore senza conoscenza non è amore, e conoscenza senza amore non è vera conoscenza. Quindi queste due dimensioni della felicità, conoscenza e amore, si condizionano a vicenda ed hanno leggi ben specifiche. C’è gente che vorrebbe capire tutto senza imparare nulla. Non puoi capire, soprattutto la seconda parte del vangelo di Giovanni, se non hai imparato prima un sacco di cose.
Affrontando il capitolo 11, il risveglio di Lazzaro, c’è forse bisogno di avvertirci a vicenda che questo capitolo è infinito nei suoi risvolti. La teologia tradizionale si trova qui di fronte a difficoltà insormontabili perché si è formata secondo la saggezza delle leggi evolutive dei primi 2.000 anni di cristianesimo, cioè nella fase essoterica più accessibile a tutti. L’essenza del cristianesimo passato non è stata ciò che gli esseri umani hanno fatto come cammino di coscienza, come cammino proprio, ma è stata l’operare dell’amore del Cristo nella profondità degli animi. Quindi ora capiamo che le cose non potevano che andare così: la dimensione esoterica, la dimensione più profonda – più profonda, senza dire migliore o peggiore – che presuppone altri strumenti di coscienza, nei primi 2.000 anni, nella prima fase del cristianesimo, doveva essere messa in sottofondo, in una corrente sotterranea, sotto terra. Pensate ai rosicruciani, a tutta la tradizione del Parsifal, a tutto ciò che riguarda la dimensione esoterica del cristianesimo.
Vedremo nell’ultimo capitolo – che non è stato scritto da Lazzaro – quali erano le diverse missioni di Pietro e di Lazzaro; lì il Cristo dice: Pietro, tu devi seguirmi subito e accompagnare l’umanità nella fase petrina, in cui dovrà diventare ancora più materialistica, ancora più inserita nel mondo della pietra, del minerale morto, dove la coscienza perde ogni consapevolezza dello spirito. Questo è il tuo compito. L’altro discepolo, Giovanni, deve attendere che io ritorni.
Adesso l’umanità attraversa un’enorme soglia, dopo la quale o il cristianesimo riacquisterà questo filone sotterraneo dell’esote-rico, che viene fatto risalire al suolo e reso accessibile a tutti, oppure il cristianesimo stesso rischierà di morire. Il cristianesimo tradizionale andava bene per una coscienza di stampo infantile (non prendete queste parole come un insulto); ma adesso, in base soprattutto alla scienza moderna, sempre più spiriti umani vogliono una conoscenza scientifica anche riguardo al fenomeno religioso, e una conoscenza scientifica del religioso significa esoterismo. Esoterismo significa conoscenza scientifica del religioso. Allora testi come il vangelo di Giovanni, soprattutto l’iniziazione di Lazzaro e quel che segue, che sono i cardini del cristianesimo esoterico, diventano sempre più importanti.
La teologia tradizionale, con tutta la sua buona volontà, siccome ha gestito il cristianesimo della fede, non può essere la stessa matrice di coscienza che è in grado di gestire un cristianesimo esoterico: per questo ci vuole un salto di coscienza, un salto anche di qualità negli strumenti di pensiero. Steiner, con i fondamenti della scienza dello spirito, rappresenta una “pietra scartata”; quando il nuovo che si porta è molto grande, l’umanità ha bisogno di molto tempo per recepirlo, e perciò all’inizio le grandi pietre vengono scartate. Però questo è proprio il segno che la scienza dello spirito fa parte del mistero del Cristo, della “grande pietra scartata”, perché le forze che fanno scartare la pietra sono quelle, pur necessarie, dell’ostacolo, che vanno superate; però si possono superare soltanto nel corso del tempo e in modo individuale. Ognuno deve superare dentro di sé l’ostacolo.
Commentando il risveglio di Lazzaro non si può capire quello che viene descritto se non si hanno i fondamenti esoterici comuni anche all’iniziazione egiziana e a quella del Medio Oriente. Per esempio, il Cristo prima dice: “Lazzaro dorme” (e allora, se dorme, perché le due sue sorelle fanno tutte queste storie?). Poi il Cristo dice “Lazzaro è morto” (ma allora dorme o è morto, chi mente?). Già questi soli, minimi accenni fanno capire che un teologo tradizionale si trova di fronte a difficoltà veramente insormontabili se vuol essere onesto con se stesso. A meno che non voglia sostenere che prima ha detto che dorme perché non ha capito che Lazzaro era malato e perciò solo dopo ha detto che è morto – una spiegazione per nulla convincente!
Se invece leggiamo in Steiner la descrizione reale di come avveniva l’iniziazione, nei particolari, veniamo a sapere che prima di tutto c’era una preparazione che durava anni di purificazione interiore, perché non si veniva iniziati senza presupposti, non soltanto intellettuali ma anche morali. E quelli morali erano molto più importanti degli intellettuali. Il discepolo, l’iniziando, giunto al punto di poter essere veramente iniziato, al culmine della scuola iniziatica, veniva posto per tre giorni su un catafalco a “dormire”. Scientificamente, il fenomeno specifico è che, quando noi dormiamo, escono, si separano dal corpo fisico lo spirito e l’anima – Steiner direbbe che fuoriescono l’io e il corpo astrale e lì nel letto rimangono il corpo fisico e il corpo eterico, cioè tutte le forze vitali. Il corpo eterico, quello delle forze vitali, è una realtà, la prima realtà soprasensibile che una scienza materialistica ignora, ma ciò non vuol dire che non ci sia.
L’iniziazione consisteva nel fare uscire parzialmente anche il corpo eterico: parzialmente, perché se ne esce più di tanto si muore davvero, e se invece non esce c’è un sonno normale. Far uscire una parte del corpo eterico, in modo che quella parte di forze vitali non fosse più occupata a tener in vita il corpo fisico, serviva a che tutte le esperienze che durante il sonno ognuno di noi fa incoscientemente nel mondo spirituale, si riflettessero su questa parte del corpo eterico liberata dal corpo fisico. Poi, al “risveglio”, tornando l’anima e lo spirito dentro il corpo, rimaneva la coscienza, il discepolo si ricordava di quello che aveva vissuto nel mondo spirituale. Quindi l’iniziazione consisteva in una morte parziale.
Lo ierofante, cioè il maestro che iniziava, l’iniziatore, seguiva lo spirito e l’anima dell’iniziando nei mondi spirituali e doveva sapere esattamente quando richiamare l’anima perché se aspettava oltre un certo segno l’iniziando moriva. Questa era veramente un’arte iniziatica. Il Cristo va fisicamente a Betania, al sepolcro di Lazzaro, al quarto giorno, ma durante i tre giorni e mezzo ha accompagnato Lazzaro nel mondo spirituale in tutte le esperienze che stava facendo; e poi dice “vieni fuori!”, esci dal mondo spirituale, prendi il tuo corpo in tutto e per tutto perché hai una missione particolarissima da compiere, quella di raccontare all’uma-nità ciò che hai vissuto nel mondo spirituale. Tu sei l’unico richiamato dall’Essere solare a ritornare nell’umanità dall’oltre morte, per scrivere il vangelo di Giovanni. Il senso di richiamare Lazzaro a riacchiappare il corpo, a ritornare sulla Terra, è di scrivere un testo dove lui racconti i misteri della morte e della resurrezione del Figlio dell’Uomo, del Cristo che è in ogni uomo.
Nella seconda parte del vangelo Lazzaro descrive, proprio in chiave esoterica, in modo assoluto, i misteri della morte e della resurrezione. La seconda parte abbraccia 3 giorni: tutti i discorsi dell’ultima cena sono capitoli interi ma si svolgono in una serata sola, il giovedì santo; il venerdì c’è la morte; la domenica c’è la resurrezione.
Lazzaro inaugura la descrizione della grande iniziazione del Cristo e dell’umanità, il mistero della morte dell’umanità nella caduta e il mistero della riascesa millenaria, quindi della redenzione dell’umanità, il Cristo che inizia la Terra e inizia tutta l’umanità, e la inaugura testimoniando della sua stessa iniziazione. E lo fa in un modo così gentile che nessuno s’è accorto che era lui, tant’è vero che tutta la teologia parla di un vangelo Giovanni che non ha nulla a che fare con Lazzaro. Questo sta a dimostrare che le realtà esoteriche attendevano di venir afferrate in un secondo momento e che prima non c’erano i presupposti per capirle.
La teologia attuale ignora lo scrittore del vangelo di Giovanni, e parla semplicemente di questo Lazzaro risvegliato dal Cristo che poi sparisce! E uno si chiede: ma che l’ha risvegliato a fare? Chi glielo ha fatto fare?
Un altro particolare esoterico, utile da capire. In tutte le scuole iniziatiche c’era un’espressione tecnica per dire che il discepolo era progredito ad un punto tale da poter venire iniziato: si diceva “il maestro ama questo discepolo”, perché non c’è amore più grande che poterlo iniziare. “Lo ama” significa che questo discepolo si è talmente intriso delle forze di amore, di ricerca del mondo spirituale, che è pronto per entrare nel mondo spirituale addirittura con la sua coscienza. Nel vangelo di Giovanni c’è scritto “il discepolo che Gesù amava” e la teologia fa fatica, naturalmente, a capire. Ma come, il Cristo aveva delle preferenze? E perché “il discepolo che Gesù amava” viene detto soltanto per Lazzaro? Nel v.11,5 vedremo anche che Gesù Cristo amava Lazzaro e le sue due sorelle.
Faccio una piccola introduzione, così poi ci orienteremo meglio. Tenete presente che di fronte a questo capitolo, nonostante tutta la scienza dello spirito di Steiner, siamo ai primi balbettii: quindi partite dal presupposto che io cerco di fare qualche commento, non sono esaustivo. Ognuno ci metta con la sua meditazione quello che è capace di metterci.
Le due sorelle di Lazzaro: naturalmente sono due donne – perché la dimensione storica non va mai vanificata – però non sono due donne qualsiasi, ma sono la personificazione archetipica delle due forze fondamentali dell’anima: l’io inferiore e l’Io superiore.
L’Io superiore a livello fisico è pura maya, perché è puro spirito, e quindi se compare fisicamente io vedo un’illusione. La versione greco-latina della parola sanscrita maya è “Maria”, quindi Maria significa maya. Questa sorella non è un pezzo di carne: ciò che di lei tu vedi alla percezione sensibile è illusorio perché è una pura incarnazione: in lei sono in forma pura le forze dell’Io superiore.
Marta (pensate alla parola morte) impersona tutti gli elementi di caducità, che sono ugualmente necessari perché il corporeo è necessario se vogliamo essere spiriti incarnati. Marta è l’io inferiore, però inferiore non significa peggiore: il corpo è l’elemento inferiore nel senso che fa da base, che sta sotto, ma non è peggiore – siamo talmente abituati a moraleggiare che pensiamo sempre in categorie di meglio e di peggio! Bisogna ripulire questi concetti e portarli dal livello morale a quello conoscitivo.
Maria, l’Io superiore, sono tutte le forze che l’essere umano rivolge verso lo spirito; Marta è tutto ciò che l’essere umano rivolge verso il corpo, verso l’elemento di morte, altrettanto necessario. Quindi Marta e Maria sono le due dimensioni fondamentali dell’uomo: Marta è il vivere nell’anima tutto ciò che è corporeo, Maria è l’animico puro e Lazzaro è lo spirito.
Questa semplificazione triadica è importante per avere un orientamento; perché poi il testo la rende molto più complessa. Quindi abbiamo una trinità, dove lo spirito è uno solo, Lazzaro, mentre le altre due figure sono femminili, nel senso che nelle altre due non c’è la libertà. Tutto ciò che è femminile (però non riguarda le donne eh!, perché le donne può darsi che siano molto più attive degli uomini; non è un discorso di donne o di uomini, è un discorso di maschile e femminile nell’essere umano). Abbiamo due elementi femminili, quindi di passività, che sono corpo e anima, Marta e Maria, e un elemento maschile, che è l’elemento di attività nell’essere umano (uomo o donna che sia) e che rappresenta lo spirito. Queste due sorelle rappresentano le due forze primigenie dell’umano: il mondo corporeo Marta, e il mondo animico Maria. Queste forze sono incarnate in due sorelle in carne e ossa.
La scuola iniziatica portava il discepolo, l’amato, a rendersi sempre più conto che il mondo spirituale è una realtà e che per entrarci bisogna purificarsi dagli istinti e dall’attaccamento alla non libertà del mondo fisico. Così ci si avvicinava all’atto culminante dell’iniziazione. Come si manifestava lo stato corporeo di chi si metteva in questo stato? Il vangelo ci dice che la gente circostante non capiva nulla di quello che stava avvenendo: parlava di malattia, l’avevano addirittura sepolto, lo ritenevano morto! Siamo al secondo giorno quando le sorelle mandano messaggi al Cristo dicendo “Vieni, sta morendo”. Allora è morto o non è morto, Lazzaro? Sì e no! È malato? Sì e no!
Intervento: E la puzza?
Archiati: La puzza è nel cervello di Marta. Lei dice “puzza”, ma ancora non è stato aperto il sepolcro. Sta a dire soltanto che lei è convinta che è morto. Le traduzioni sono corrette: il testo non dice “puzza”, ma “Marta dice che puzza perché è di 4 giorni” (10,39).
Intervento: È l’immaginazione di Marta.
Archiati: È ciò che dice lei! Il testo dice “Marta dice che puzza”! Stavo spiegando: uno che doveva passare questa iniziazione (o chiamatela come volete), uno che comunque deve fare questo processo di star lì in uno stato catalettico per tre giorni e mezzo, ovviamente dà al mondo circostante l’impressione di essere malato, e in un certo senso lo è, perché non funziona in un modo normale. Ai circostanti manca la percezione di tutto ciò che avviene nel mondo spirituale e nel mondo animico.
Lazzaro di Betania. Lazzaro (El azàr), in ebraico significa “Dio aiuta”. Quando ero studente ero innamorato delle scritture, degli schemi, del sistema (adesso lo sono meno): vi segnalo, se volete rilevarla, una bellissima polarità tra il nome di Giovanni il Battista e il nome Lazzaro. Giovanni e Lazzaro: Giovanni, in ebraico (Ieo anàn) significa “Dio (Jeo, Geova) ha donato”; invece Lazzaro significa “Dio ha aiutato”. Che differenza c’è fra donare e aiutare? Donare presuppone che l’uomo non è ancora capace di far nulla e gli deve essere tutto dato, è la grazia che fa tutto; quando invece comincia il concorrere della libertà umana, Dio aiuta l’essere umano a fare quello che deve fare.
Quindi Giovanni il Battista riassume tutta la prima parte dell’evoluzione: la grazia divina dona, fa tutto lei, c’è il dono di Dio; varcata la grande soglia dell’evoluzione, la grazia termina di fare tutto e comincia ad aiutare l’essere umano. Uno che ti aiuta a far qualcosa significa che fa tutto lui? No! Ti aiuta in quello che fai tu! E questo è espresso in Lazzaro. “Ieo anàn” e “El azar: se andate oggi in Palestina, vedrete che a Betania hanno cambiato il nome in Elazarìa, “il villaggio di Lazzaro”.
Coloro di voi che masticano Steiner possono trovare di questi due nomi una bellissima polarità: “Dio dona” finché si è bambini, ed è la grazia che fa tutto lei; “Dio aiuta” quando si diventa adulti. Giovanni, Cristo, Lazzaro. I nomi a quei tempi! Nel nome c’era tutto, e quando uno cambiava natura cambiava anche nome: Lazzaro è Lazzaro prima dell’iniziazione, dopo l’iniziazione diventa Giovanni Lazzaro, perché si unisce con tutta la spiritualità. Ciò vuol dire che la grazia non termina ma continua, e che adesso sopravviene il concorrere della libertà umana.
“Dal villaggio di Maria e di Marta sua sorella.” Perché non dice: il villaggio di Maria e di Marta sorelle di Lazzaro? Infatti Marta viene caratterizzata come sorella di Maria e Maria come colei che lavò i piedi al Signore. Marta, che è il corporeo, trova il suo significato rispetto all’animico, e l’animico trova il suo significato rispetto allo spirito: gli lava i piedi, come dire che spiana la via al cammino dello spirito. Il testo è cesellato in modo interessantissimo.
11,2 Maria era colei che aveva lavato e che aveva asciugato al Signore i piedi con i suoi capelli; il fratello di lei Lazzaro era malato.
Uno dei quesiti di questo testo è che la scena di Maria che lava e asciuga i piedi del Cristo Gesù viene dopo, viene descritta al capitolo 12; però qui dice “colei che ha asciugato”, come se fosse già successo. Noi, in questa fase di materialismo, crediamo che sono reali soltanto le cose che si fanno fisicamente, per cui una cosa o è già avvenuta o deve ancora avvenire, come se i tempi si escludessero. Maria è colei che sempre, sempre, sempre, lava i piedi: questa sua funzione animico-spirituale è espressa fisicamente solo una volta o due (negli altri vangeli l’ha già fatto una volta, nel vangelo di Giovanni lo fa un’altra volta fisicamente) ma sono soltanto espressioni a livello fisico di ciò che lei è nella sua operatività animico-spirituale. Quindi le forze mariane (di Maria) in ogni essere umano, sono le forze che lavano i piedi e li asciugano all’elemento cristico, fanno strada, aprono la strada all’elemento cristico.
11,3 Le sorelle mandarono dei messaggeri verso Gesù, dicendo: «Signore guarda, colui che tu ami è ammalato».
“Signore bada, sta’ attento, è ammalato, ma malato grave!”. Le due sorelle, essendo elementi dell’anima non capiscono, hanno paura che Lazzaro muoia; se loro capissero ciò che sta avvenendo non sarebbero l’anima, sarebbero lo spirito. Il testo non dice che è stato Lazzaro a mandare a chiamare il Cristo, ma le sorelle perché si preoccupano. Lo spirito si occupa, l’anima si preoccupa.
11,4 Gesù, sentendo ciò, disse: «Questa malattia non è in vista della morte, ma per la gloria di Dio, affinché il figlio di Dio venga glorificato attraverso di essa.»
Questa malattia non è verso la morte, non è una malattia scelta dallo spirito umano perché vuol morire: la morte avviene quando l’Io superiore vuol morire, perché tocca a lui decidere in che modo vuol morire. Ci sono spiriti umani che vogliono morire senza malattia, altri – e chi glielo può proibire? – che vogliono morire nel superare o stando dentro una malattia. Tocca allo spirito superiore sapere che tipo di morte gli va bene. Dunque il Cristo dice: non porta alla morte, non è in vista della morte, non morrà. L’iniziazione non è una malattia, sembra una malattia ma è uno stato catalettico, che è proprio una sfera mediana tra il sonno e la morte.
Ma è per la gloria di Dio, affinché si sprigioni, si manifesti l’esuberanza di luce e di calore del divino. Il termine greco dÒxa (dòxa) viene tradotto con “gloria”, lo abbiamo detto altre volte. Onestamente, quando in italiano sentite “gloria di Dio”, pensate a qualcosa di concreto? Secondo me è aria fritta: gloria, che vuol dire? Nulla! Lazzaro è entrato in questo stato catalettico per far sprigionare dal suo Io la luce e il calore dello spirito, perché sta entrando nella realtà dello spirito in modo tale da poterla imprimere di riflesso su una parte del suo corpo eterico, così che quando ritornerà avrà coscienza di tutto ciò che ha vissuto e visto e potrà raccontarlo agli esseri umani. Questa è la gloria: il rilucere nella coscienza di ciò che è spirituale. Noi lo spirituale ce l’abbiamo, ci accompagna, ci avvolge, ma non ne abbiamo coscienza; il portarlo a coscienza è una nuova aura di luce che si aggiunge. Lazzaro è in questo stato (che agli altri sembra di malattia, ma è catalettico) per far rilucere di luce divina la sua coscienza umana.
Questa è la dòxa! Pensare che un uomo stia morendo, sia malato per dar gloria a Dio, è una bambinata! Dio non ha bisogno della malattia che dia gloria; come se la salute non gli desse molta più gloria! Quindi, da tutti i lati si vede che nel cristianesimo tradizionale (che andava bene 1.000 anni fa, perché gli animi erano più bambini come coscienza che non oggi) questa mamma chiesa era necessaria; ma adesso siamo 2.000 anni dopo il Cristo, questa mamma diventa sempre più nonna e i bambini diventano più anziani e cominciano a dire: quel che mi dice la chiesa non mi convince, non mi dice nulla. È così, no?! C’è chi dice ancora: sta male per dar gloria a Dio. Va bene, è libero di dirlo, però hanno il diritto di obiettare anche quelli che dicono: non mi convince. Ognuno ha il diritto di seguire il proprio spirito. Qui penso di essere con persone che dicono: è “ammalato” perché quando ritorna possa rilucere nel suo essere, nel suo Io, nel suo pensare, la coscienza del divino, di ciò che vive nel mondo spirituale.
Allora: Gesù, sentendo, dice che questa malattia non è verso la morte ma per, a favore di, in vista del rilucere di luce e di calore del divino; questa malattia è affinché il figlio di Dio venga glorificato, affinché il figlio di Dio Lazzaro acquisisca un’aura di luce attraverso di lei.
Tempo fa, in Germania, per 5 anni, quattro volte all’anno, facemmo tutto il vangelo di Giovanni. Per l’occasione andai a studiare le versioni della Itala: la Itala raccoglie le prime traduzioni latine del vangelo con manoscritti del II secolo che sono più antichi che non i primi frammenti di quello greco (III, IV secolo). La Itala non è il testo latino detto “di Girolamo” o “Vulgata”, che è del IV, V secolo, (revisione sul testo greco). Studiando le varie versioni della Itala – perché anche lì ci sono diversi manoscritti – ne ho trovate alcune che letteralmente traducono questo versetto 11,4 così: affinché venga glorificato il figlio di Dio “in lui”, in ipso – e non “attraverso di essa”, tramite essa.
Il giorno in cui ho fatto questa scoperta ero così contento! Andavo cercando questo manoscritto, e mi dicevo: ci deve essere! perché per il cieco nato il Cristo (9,3) dice che questa cecità non è sorta a causa del peccato suo o dei suoi genitori, ma perché riluca, perché renda luce l’essere divino in lui, che è in lui, cioè perché riluca l’Io superiore (e non una divinità esterna che si fa bella guarendo un cieco nato!). Io dicevo: se questa dicitura del vangelo di Giovanni c’è per il cieco nato, a maggior ragione ci deve essere per Lazzaro, e sono stato felicissimo di averla trovata: c’è almeno qualche manoscritto che non dice “attraverso di lei”, attraverso la malattia, ma “in lui”, cioè che riceva gloria, riluca di luce divina, riceva un’aura di luce l’essere divino, il Dio che è in lui, non un Figlio di Dio che è fuori, un Cristo che è fuori.
Questo capitolo viene subito dopo il capitolo in cui il Cristo ha detto: “Voi siete Dei”. Io parto dal presupposto che il testo originale del vangelo di Giovanni diceva: far rilucere di gloria, di splendore il Dio in lui, cioè l’Io superiore di Lazzaro, l’Io eterno di Lazzaro. E che abbastanza presto il cristianesimo essoterico ha buttato sotto terra questo filone esoterico, cambiando l’elemento più importante, anche perché dopo pochi decenni s’era già perso il senso di queste parole. Lazzaro, come iniziato, naturalmente sapeva bene quello che scriveva, ma coloro che lo capivano erano pochissimi, soltanto gli iniziati. Poi nel II, III, soprattutto nel IV secolo s’è persa ogni possibilità di capire.
Per poter interpretare correttamente il testo originale è necessaria una scienza dello spirito. Si tratta di scegliere fra l’immanenza del divino nell’uomo e l’estrinsecità del divino. Ma, ripeto, qui siamo subito dopo il capitolo che culmina nell’affermazione del Cristo “Voi siete Dei”: se l’ha detta, adesso che addirittura si tratta di iniziare Lazzaro, non può postulare una divinità che ab extra, da fuori, si fa bella guarendo Lazzaro perché allora l’affermazione “Voi siete Dei” sparirebbe nel nulla. Capite bene quanto per me fosse importante trovare almeno alcuni manoscritti che dicessero “il Dio in lui”!
C’è spazio per le vostre domande.
Intervento: Il latino dice in ipso?
Archiati: Sì, in lui stesso; è proprio in ipso e non in illo.
Intervento: Riguardo a questa sorella Maria è stato detto che, in fondo, ha il significato di precedere, di aprire la strada allo spirito. Nei vangeli c’è anche la figura di un’altra Maria, quella che sicuramente apre le porte di un’esistenza terrena anche al Cristo. Chiedo un pensiero su questa figura, in quest’ottica di maya-Maria.
Archiati: Nel vangelo di Giovanni la mamma di Gesù non viene mai chiamata Maria ma “la madre di Gesù”, questo è importantissimo. Compare, come una specie di portale, all’inizio e alla fine del vangelo: a Cana di Galilea (capitolo 2) e sotto la croce (capitolo 19): come un portale, e in mezzo c’è tutto il vangelo. La madre di Gesù era a Cana e sotto la croce c’erano la madre di Gesù e due Marie. Steiner insiste: due Marie di cui una è sorella della madre di Gesù. Se così è, la madre di Gesù non può chiamarsi Maria, perché neanche allora due sorelle avevano lo stesso nome, per non confonderle. Per il vangelo di Giovanni la madre di Gesù non porta il nome di Maria, anche perché può avere soltanto un nome esoterico. Se proprio le si vuol dare un nome è Sofia, la purezza della sapienza divina (Maria invece è la maya).
Fermo stando il fatto che la madre di Gesù non si chiama Maria nel vangelo di Giovanni, vediamo – è questo che a te interessava – quali sono queste tre figure femminili che sono sotto la croce. Sotto la croce ci sono tre donne e c’è il Lazzaro. Però qui non ho la possibilità di mostrarvi tutte queste cose, sarebbe troppo complicato, sono cose che vi butto lì, poi sta a voi vederle.
Lazzaro rappresenta sempre l’Io, le tre donne, le tre figure femminili, devono essere le tre forze fondamentali dell’anima. Maria Maddalena era quella da cui erano stati cacciati sette demoni, quindi rappresenta tutta la fenomenologia di tutte le forze dell’anima senziente; Maria, moglie di Cleopa (Cleofa) e sorella della madre di Gesù, rappresenta tutte le forze dell’anima razionale; la madre di Gesù è l’anima cosciente. Non a caso sotto la croce del Cristo ci sono queste figure. Il vangelo di Giovanni mette questa triade femminile e un elemento maschile, quindi è chiaro che si tratta dell’Io e delle tre forze dell’anima. Dove trovi che le forze dell’anima si riducono fondamentalmente a tre? Soltanto nella scienza dello spirito, perché se non conosci ciò che è soprasensibile, quindi anche l’animico, con un minimo di scientificità, non sai di queste tre forme fondamentali delle forze dell’anima: l’anima senziente, l’anima razionale e l’anima cosciente.
Anima senziente, anima razionale e anima cosciente: dapprima sono tre parole, però se uno si macina decine o addirittura centinaia di conferenze di Steiner, questi termini tecnici si riempiono di contenuti. È come se uno non avesse mai saputo nulla del fegato, e un medico gli dice: qui dentro c’è il fegato. Ma quello non ha la minima idea del fegato, questa parola gli rappresenta nulla. Allora impara un po’ di anatomia, studia come è fatto il fegato, dove sta, che fa ecc., e così, quando sente la parola fegato, non gli resta una parola astratta ma concreta!
Quando tu senti per la prima volta anima senziente, anima razionale e anima cosciente, dici: ma che bacati ‘sti antroposofi! E certo, per te sono soltanto parole, ma se macini un po’ di conferenze di Steiner, come quell’altro ha studiato il tomo di anatomia, allora comincerai a vedere che queste tre denominazioni si riferiscono a realtà complesse per le quali ogni conoscenza scientifica ha bisogno di termini tecnici.
Sotto la croce ci sono l’Io e le tre forze dell’anima. Però soltanto nel vangelo di Giovanni, che è così tecnico scientifico spirituale; gli altri vangeli non lo sono, perché non sono stati scritti da Lazzaro che è stato iniziato dal Cristo. I conti tornano.
Intervento: Hai detto che, affinché lo spirito (Lazzaro) si risvegli, ci deve essere prima, da parte delle forze dell’anima (Maria e Marta) una preoccupazione, un’inquietudine, un’agitazione; ed è quello che accade effettivamente in ciascuno di noi quando c’è un senso di malessere, di inquietudine, di qualcosa che non va. È la premessa del risveglio dell’Io, delle forze spirituali.
Archiati: Tant’è vero che delle tre forze dell’anima manca, prima dell’iniziazione, l’anima cosciente! E perciò si preoccupa!
Intervento: Certo.
Archiati: Se l’anima cosciente ci fosse già in tutto e per tutto, l’iniziazione non servirebbe. Dopo l’iniziazione, sotto la croce sono presenti tutte e tre. Finché uno non ha in mano un minimo di complessità di scienza dello spirito, queste cose restano astratte: perciò io sono un po’ guardingo nel buttarle lì, perché anima senziente, anima razionale e anima cosciente sono per diverse persone soltanto parole astruse. Però si accetta che il medico dica: se tu studi anatomia, la parola fegato, che adesso ti sembra esoterica, esotica, ti diventerà concreta perché ti renderai cosciente della realtà del fegato. Un libro di anatomia, per chi non ne sa nulla, è molto esotico, è esoterismo puro!
Quindi Steiner può essere tacciato di esoticismo soltanto da chi non conosce nulla di Steiner. La scienza moderna, materialistica, dei fenomeni dell’anima sa nulla! Pure invenzioni, astrazioni, illazioni! Illazioni in base a quello che si può rilevare esteriormente, sperimentalmente; ma va’ a verificare se queste illazioni sono giuste! Quante illazioni saltano fuori nella scienza moderna! Una teoria dopo l’altra, che tra loro si contraddicono. Per esempio fino a ieri questa mummia aveva 30.000 anni, adesso come niente passano a 300.000, dopo t’arriva un altro scienziato: no, 3 milioni! Come se fosse niente. Uno scienziato dice: la luce di questa stella ha impiegato 300 milioni di anni per arrivare a te, poi arriva un altro e dice: no, soltanto 100 milioni di anni luce…
Siamo proprio nella stratosfera dell’astrazione, non c’è più nessuna base di percezione, di realtà, ognuno può speculare quello che vuole. Ciò che vale è che io la stella la vedo. O la vedo o non la vedo, cosa mi cambia se sono 300 o 100 milioni di anni luce?! L’importante, l’inizio della scienza dello spirito, è rendersi conto – e quello lo può fare ognuno – della differenza tra quando io costruisco concetti in base ad una percezione che c’è, e quando comincio a speculare senza il dato di percezione, e allora è permesso tutto. Chi non sa distinguere questi due livelli non capisce nulla neanche di Steiner, perché l’assunto fondamentale di Steiner dice: guarda, ti descrivo soltanto ciò che percepisco, non faccio teorie.
Occorre imparare a distinguere tra l’attenersi al dato di percezione e lo speculare. Nessuno scienziato ha mai percepito un atomo, perché l’atomo è per definizione non percepibile: e allora questi scienziati parlano di una loro invenzione. Tutto è inventabile, nell’inventabile non ci sono limiti, basta essere inventivi; ma questo non vuol dire che l’invenzione corrisponderà alla realtà oggettiva. La scienza moderna è almeno per il 99% pura invenzione. Il medico appura che c’è una polmonite, adesso comincia l’invenzione e dice: ah, sei stato al freddo, hai preso un raffreddore e il raffreddore è stato la causa della polmonite. Ma questa è un’invenzione! Il medico ha percepito che il raffreddore è la causa? No. Il rapporto di causa ed effetto tra la polmonite e il raffreddore lo inventa lui. E se fosse l’opposto? Se fosse la polmonite la causa del raffreddore? Vi dimostro che è la polmonite la causa del raffreddore e non l’opposto. Voi pensate che sia il raffreddore a causare la polmonite? No! È la polmonite a causare il raffreddore! Pensate che sto dando i numeri? No, ve lo spiego subito.
C’è un Io superiore – se voi pensate che non esista sono problemi vostri, io so che esiste – il quale sa le cose e dice: adesso sono a un punto tale del mio cammino da essere capace di superare una polmonite, e siccome poi incontrerò certe persone, avrò un certo compito da svolgere, avrò bisogno di forze che posso acquisire soltanto lottando contro una polmonite. Non sia mai che mi si proibisca di avere una polmonite per lottarci contro, perché la malattia genererà in me tutte le forze di cui avrò bisogno per quel compito, e sono forze così specifiche che sorgono soltanto lottando contro una polmonite. Allora, il fatto di volere la polmonite (e ciò che la polmonite è) è la causa del fatto che mi piglio un raffreddore, il quale è lo strumento per raggiungere il fine della polmonite! Lo scienziato dice: se tu non avessi preso il raffreddore non avresti avuto la polmonite! Questa affermazione è sbagliata, perché se io voglio la polmonite e mi si proibisce di prenderla attraverso il raffreddore, perché mi si proibisce di andare al freddo ecc., io troverò un altro modo per pigliarmela, perché la voglio. Quindi il raffreddore non è assolutamente la causa della polmonite, ma è la polmonite che causa lo strumento del raffreddore.
In altre parole è la scienza normale che dà i numeri, non la scienza dello spirito. La scienza normale ha messo un dogma, che è dogma cieco: la materia può causare qualcosa. Il che è un’assurdità. Se un Aristotele o un Tommaso d’Aquino sentissero una cosa del genere, direbbero: ma voi…!?!? come può la materia causare qualcosa!? Causare qualcosa significa pensare ad uno scopo da raggiungere. Sarebbe come dire: una pietra può causare qualcosa perché cade e spacca qualcosa. Ma non è la pietra a causare qualcosa, lei non decide da sola di cadere, lei non si muove, e perciò devo andare a vedere cosa l’ha fatta cadere! La scienza moderna è un abisso di ignoranza, ma davvero, perciò ha paura della scienza dello spirito.
Intervento: Chiedo una piccolissima chiarificazione: facendo il distinguo fra Marta e Maria, tu hai detto che Maria è l’Io superiore, poi invece abbiamo parlato di forze dell’anima. Mi puoi chiarire?
Archiati: Dunque. Questa è una domanda da antroposofo, da semi-antroposofo. Risolvi questo problemino leggendo la Teosofia di Steiner – è un libretto, però fondamentale – dove lui ti fa vedere che questo settenario: il corpo fisico, il corpo eterico, il corpo astrale, l’io, il Sé spirituale, lo Spirito vitale e l’Uomo spirito, in men che non si dica si trasforma in un novenario. E questa è la tua domanda: ma allora sono sette o sono nove? È il punto in cui lo spirito umano viene provocato a capire che deve superare la dimensione quantitativa, numerica ed entrare nella dimensione qualitativa. Nella dimensione qualitativa le cose non sono così semplici: la mamma e il bambino appena nato sono uno o sono due? Similmente l’anima cosciente e l’Io superiore sono uno o due? Per certi aspetti sono uno, se fai le cose un po’ più semplici, ma se invece complessifichi le cose e sotto sotto distingui (più la conoscenza diventa scientifica e più deve sotto distinguere), più sono due diversi. Prima dell’iniziazione anima cosciente e Io superiore sono ancora una cosa sola, dopo l’iniziazione sono maggiormente distinte, ed è il passaggio che Steiner ti fa nella Teosofia da sette a nove.
Queste domande sono legittime, perché uno legge conferenze intere dove Steiner descrive che l’Io comincia a rilucere nell’anima razionale, però viene pienamente alla luce nell’anima cosciente, e allora si chiede: l’anima cosciente è l’Io? Sì e no, perché la pienezza dell’Io è il Sé spirituale, quindi ci sono misteri di trapassi, di comunanza però anche di distinzione, tra l’anima razionale, dove comincia l’affacciarsi dell’Io, l’anima cosciente, dove si amplia sempre di più la coscienza dell’Io e la vera e propria coscienza dell’Io spirituale, quindi del Sé spirituale. Sono tutti gradini di evoluzione spirituale che hanno sia il carattere di soglia e di diversità di cammino, sia un carattere di continuità; come in una scala i gradini sono nettamente distinti uno dall’altro, il secondo non è il terzo, non mi puoi dire che sono la stessa cosa; però per la persona che sale sono distinti?
Intervento: Penso che la metodologia giusta stia nel tenere a base del pensare, sempre, il divenire.
Archiati: Esatto! Il divenire ha alla base la scala, nella scala i gradini sono distinti; però chi li sale, li sale in termini di continuità, perché altrimenti non passa da un gradino all’altro. In chi comincia a fare questa ginnastica sorge una gioia veramente grande perché con un testo così non va più a spanne, ma trova risposte e conoscenza. È talmente bello avere questi strumenti!
Giovedì 28 agosto 2003, pomeriggio
vv. 11,5 – 11,19
Siamo al v.11,4 dove il Cristo praticamente dice che non soltanto la malattia di Lazzaro ha scopi positivi per la sua evoluzione, ma anche che questa affermazione vale per ogni malattia. “Questa malattia non è per farlo morire ma è per farlo vivere”. Ogni malattia ha sempre lo scopo di far evolvere ulteriormente l’essere umano. L’altra possibilità, data dalla libertà (altrimenti l’essere umano non sarebbe libero) è l’omettere di avvalersi della lotta contro la malattia per crescere: l’uomo può omettere di lottare nel modo giusto, di rifiutarla, di non trattarla nel modo giusto. È un fattore della libertà umana, deve essere possibile all’essere umano non fare di una malattia ciò che ne potrebbe fare in senso positivo.
Lo scopo del sorgere di una malattia (pensateci bene!) non può essere che l’evoluzione positiva dell’uomo. Se tutto il cosmo, tutto il mondo in cui viviamo è stato creato a servizio dell’uomo, a maggior ragione lo è una malattia individuale. Può mai un Io superiore – che poi, detto fra cristiani, è un frammento della saggezza dell’amore del Cristo – scegliere per sé una malattia a scopo negativo, per diminuirsi, per essere meno degli altri? È assurdo! Chi di noi vuole il negativo per sé? Però deve essere aperto alla libertà di omettere lo sforzo che c’è da fare per vincere la malattia.
Però ci sono malattie dove uno lotta, lotta, lotta e poi muore. Ebbene, anche queste malattie sono per la vita! Supponiamo che una persona riceva una malattia, non ometta nulla, tiri fuori tutte le sue forze per lottare e ciò nonostante muoia. Siccome la malattia è per la sua vita, una delle possibilità è che le forze che ha generato lottando contro questa malattia siano talmente forti che questa persona adesso sceglie di cambiare corpo, perché il corpo che ha ora non le basta, non è più quello giusto per esplicare nell’umanità le nuove forze. Le forze che ho acquistato lottando contro la malattia sono state per il mio progresso, per la mia vita, sono cresciuto, sono diventato migliore: adesso ho forze che non avevo, talmente nuove che il corpo di prima non è più lo strumento giusto, e allora lo cambio! Dal punto di vista dell’Io superiore non è assolutamente un problema, mentre è la nostra prospettiva illusoria a farci dire “il poveretto è morto”, come se fosse sparito e così tutto fosse finito.
Una malattia è una prova, una controforza e il senso di ogni ostacolo è sempre quello di rafforzare la forza buona. Altrimenti che ci sta a fare la controforza? Che io soccomba alla controforza è il non senso della controforza; certo che io posso realizzare questo non senso, perché sono libero, però il senso della controforza è di rafforzarmi. Nulla può avvenire, nulla può capitare all’essere umano che non possa essere vissuto e quindi realizzato come occasione di crescita. Più forte è la controforza, più ho occasione di rafforzarmi.
È possibile che l’essere umano riceva controforze oggettivamente superiori alle sue forze? No, è un’impossibilità, è un’assurdità, nel senso che la cosa non lo riguarderebbe. Se c’è una cosa da fare che esula dalle mie forze, non riguarda me, la deve fare qualcun altro; se riguarda me vuol dire che ho le forze per farci fronte. In altre parole, nessuno ha mai da fare ciò di cui non è capace, perché se non ne è capace non è cosa che incombe a lui.
Ci sono però persone che si mettono in testa di voler fare ciò che non sanno fare: impareranno allora che non lo sanno fare. Ma il problema non è che non lo sanno fare, è che si mettono in testa di volerlo fare pur non sapendolo fare. La smettano di voler fare ciò che non sanno fare! Normalmente il voler fare ciò che non si sa fare, è un pretesto per non fare ciò che si sa fare: ogni essere umano ha un’infinità di cose che sa fare ed è perciò già occupato abbastanza. Allora trova la scusa per omettere quelle che saprebbe fare. A nessuno viene chiesto di fare ciò che non sa fare, se non lo sa fare, e nessuno ha il diritto di chiederglielo. In altre parole, abbiamo da fare tanta pulizia, sia mentale che animica, che, una volta fatta, ci darebbe una bella salute e ci farebbe vedere la vita positivamente.
Questa affermazione del Cristo è proprio l’assioma della positività: questa malattia non è per la morte, per la mortificazione dell’uomo, per farlo diminuire nel suo essere, ma perché, lottando contro le controforze, emerga sempre di più la forza positiva – sia nel pensare, sia nel sentire, sia nel volere, nell’operare – che è potenzialmente presente in lui, perché ogni forza si deve esercitare nell’interazione con qualche tipo di controforza. L’Io si afferma nell’interazione con il non-Io; l’alterità è una specie di controforza. Se l’altro fosse lo stesso di me, in tutto e per tutto, non ci sarebbe il dialogo, la misurazione di forze, quindi un rafforzarsi a vicenda, come nei dialoghi di Platone in un modo bellissimo. Quindi l’alterità dell’altro gioca in un modo sano e bellissimo da controforza. La controforza mi aiuta a rafforzare la mia forza di pensiero.
Questa malattia non è per la morte – nessuna malattia è per la morte – ma per l’irraggiare esuberante del divino, affinché emerga sempre di più la figliolanza, ciò che è il Figlio di Dio dentro l’uomo, ciò che è creativo, inventivo, ciò che è libertà, ciò che dentro di lui è amante, tutto ciò che è divino dentro l’uomo.
11,5 Infatti Gesù amava Marta e la sua sorella e Lazzaro.
Questa spiegazione è interessante. Sta dicendo: questa malattia è l’inizio dell’iniziazione, questa malattia è l’inizio dei tre giorni fatidici, catalettici di Lazzaro, tre giorni in cui, parzialmente, il suo corpo eterico, il suo corpo vitale, le sue forze vitali vengono estratte dal corpo fisico (parzialmente però, perché altrimenti muore davvero) e c’è la possibilità di far rispecchiare, in queste forze eteriche, tutte le esperienze che sta facendo nel mondo astrale. E quale spiegazione dà per dire che questa malattia non sfocerà nella morte ma sfocerà nell’iniziazione? Perché questo discepolo è il discepolo che Cristo ama, cioè è pronto per l’iniziazione.
Vedete che il linguaggio è cifrato, è scientifico, tecnico. C’è l’affermazione “Gesù amava” – non dice “prediligeva”, o “amava di più”, ma “amava” – e se non la prendiamo in senso tecnico ma in senso normale, onestamente dovremmo dire che allora non amava gli altri (altrimenti il testo porterebbe “amava anche Lazzaro”). Vedete che alla lettura essoterica, fatta con le conoscenze normali, senza quelle della scienza dello spirito, il testo non quadra.
Se si fosse onesti la teologia, con la coscienza di oggi, con la coscienza della scientificità moderna, qui arriverebbe al punto di dover dire: qui ci mancano le chiavi di lettura. Sarebbe bello se la teologia avesse la forza morale – forza morale più che intellettuale – di arrivare fino a questo punto, perché si accorgerebbe che i tentativi di arrampicarsi sui muri per spiegare queste cose, senza i retroscena scientifici di un linguaggio scientifico spirituale, non convincono le persone. Le persone che non ponevano certe domande (come mia mamma per esempio, che credeva a tutto, aveva forze del cuore che ne avanzavano!) queste persone diminuiscono sempre di più, mentre aumentano sempre più quelle che vogliono affrontare anche questi testi con un’esigenza scientifica. Il cristianesimo tradizionale si troverà sempre più ad affrontare questa soglia: sono tempi di una grande svolta, di rinnovamento, nei quali ci si chiede: dove sono le chiavi di lettura?
“Gesù amava Marta e la sua sorella e Lazzaro”. Quindi Marta viene nominata per nome. Marta è l’amore che l’uomo deve avere per tutta la realtà corporea della percezione, perché senza questa base l’essere umano non è incarnato e l’evoluzione umana, l’evoluzione del pensiero e l’evoluzione dell’amore, sono possibili soltanto nel mondo della percezione, nel mondo corporeo. Quando si muore si fa il bilancio, intellettuale se vogliamo, di quanto si è camminato in termini di pensiero e di amore; però nello stato disincarnato, oltre la morte, l’uomo non può fare neanche un passo in avanti col suo pensiero e con le sue forze d’amore. Può fare il bilancio di ciò che è divenuto mentre era in vita, ma non un centimetro di più, perché per esercitare il pensare umano e per esercitare le forze d’amore, bisogna essere incarnati, bisogna ritornare giù nel mondo fisico.
Il cristianesimo tradizionale è ancora lontano dal cogliere il peso morale – che è assoluto – del mondo fisico: abbiamo una scienza che vede solo quello e una religione che lo disdegna. È evidente nella cultura ufficiale questa schizofrenia, veramente paranoica: la scienza considera reale e prende sul serio soltanto il mondo fisico (come se ci fosse solo quello) mentre la religione lo disdegna: purtroppo siamo in questa valle di lacrime, più presto andiamo via meglio è perché andiamo in paradiso. In altre parole: basta, caro Padreterno, io con te non avrò più nulla a che fare!
Questa incapacità di cogliere il peso morale della terra in quanto mondo percepibile, è di stampo buddistico ed è comprensibilissima nel buddismo perché quei tempi precedevano l’incarnazione del Verbo, il Verbo non si era ancora reso accessibile unicamente nella carne. Però dopo il Cristo il disdegno, o diciamo più modestamente il poco apprezzamento del mondo visibile, è un’enorme anacronismo, e soprattutto, è anticristiano!
Il cardine del cristianesimo è l’amore del Logos per la carne. “Il Logos divenne carne”: mica s’è avvicinato, mica è entrato, ma “divenne”, Ð lÒgoj sarx ™gšneto (o lògos sarx eghèneto, 1,14), si è intriso di tutte le forze della Terra e rimane, perché la Terra è tuttora e sarà sempre, fino alla fine dell’evoluzione, il Suo corpo e non c’è evoluzione logica, non c’è evoluzione del pensiero, non c’è cristificazione dell’essere umano se non nella sua corporeità, nello stato incarnato. Lì sì che si ha a che fare con gli altri, che si vive l’amicizia, che ci sono i problemi, che c’è il lottare, il cammino, che c’è tutto il problema della percezione, ecc. L’uomo fuori dal mondo non può fare un solo passo avanti, né nel pensiero né nelle forze dell’amore: deve tornare sulla Terra.
Già questi pensieri dovrebbero indurre il cristianesimo tradizionale ad avere per lo meno un’apertura tale da accogliere con gioia che si ponga la domanda: ma è proprio vero che si vive una volta sola? Invece questa domanda è proibita! Quelli che mi conoscono sanno che in base a questa domanda io ho dovuto scappar via: non c’era possibilità di collaborare, per lo meno dare contributi diversi. No, non c’è posto per questo pensiero, non c’è posto per te, non c’è posto per questa domanda fondamentale.
11,6 Come udirono che è ammalato, allora rimasero in quel luogo due giorni,
Quindi il Cristo arriverà a Betania il quarto giorno. Betania, dicevamo, in ebraico significa “casa della povertà”: è la Betania di Giovanni il Battista, casa della povertà di un’umanità diventata povera fino all’infimo della sua caduta; c’è poi la Betania di Lazzaro, dell’umanità che parte da questa povertà – la casa del corpo è la casa della sua povertà, del suo esser nato cieco per quanto riguarda la realtà del mondo spirituale – per iniziare la risalita. Quindi Betania, in tutti e due i casi (di Giovanni il Battista e di Giovanni Lazzaro) ha il significato di casa della povertà umana dove il Cristo viene a benedire i poveri. Beati i poveri, perché i poveri che diventano consapevoli della loro povertà cercano i tesori dello spirito; chi invece non si rende conto di essere povero, chi pensa di vederci e invece è cieco, è veramente cieco, non cerca la luce perché non sa di non averla.
Forse ricorderete che il Cristo si fermò due giorni anche con i Samaritani. La Samaritana, dopo il colloquio al pozzo, era tornata in paese e diceva: venite voi stessi a vedere, è straordinario, mi ha detto tutto quello che ho fatto! E allora i Samaritani andarono da Lui, lo pregarono di restare ed egli restò due giorni (4,40). A Betania rimane di nuovo due giorni, perché deve compiersi il ciclo di 3 giorni e mezzo, deve risvegliare Lazzaro al quarto giorno.
Perché aspetta a Betania, perché lascia passare tutti e tre i giorni e mezzo e arriva da Lazzaro soltanto quando deve chiamarlo fuori dal sepolcro? Se volete c’è una spiegazione molto umana: l’evento del Logos abbraccia tutti i livelli, è il fenomeno archetipico dell’umano, quindi comprende tutto. Vi tiro fuori il risvolto psicologico (non è il solo, ma di sicuro c’era anche quello): se fosse andato due giorni prima sarebbe stato lì due giorni e non avrebbe comunque potuto tirar fuori Lazzaro prima, perché dovevano passare gli altri due giorni. In quei due giorni, qualsiasi cosa avesse fatto là nel frattempo, avrebbe dato pretesto per dire: qui ha camuffato qualcosa, ha agito di notte mentre noi non c’eravamo, ha barato, ecc. Perciò arriva soltanto al quarto giorno. Il vangelo comprende anche queste cose molto umane: infatti il Cristo si è incarnato nel senso che proprio ha colto la condizione umana in tutte le sue sfaccettature. Tant’è vero che, dopo la sua morte, risorge e il suo corpo è veramente sparito: subito salta fuori che hanno rubato il corpo. In quell’evento, però, Lui non potrà aspettare altri due giorni per evitare che possano accusarlo di barare.
Fino ad oggi ci sono teologi che speculano sul fatto che il corpo di Cristo sia stato rubato, non vogliono ammettere che possa esserci stata la spiritualizzazione del suo corpo – cosa che qualcuno di noi (se ben ricordo ieri sera) voleva vendere come qualcosa di quotidiano che può avvenire come nulla fosse, con mia profonda costernazione! Nel caso della resurrezione (che è unico, se no dove sarebbe l’unicità della resurrezione?) questo corpo è stato disintegrato, però in modo molto complesso. Non mi va di pensare che abbiano agito forze di fachiri, forze magiche (di magia tra l’altro nera) che al tempo del Cristo sono ormai del tutto retrograde rispetto al cammino evolutivo.
Il modo in cui il Cristo ha trattato il suo corpo, spiritualizzandolo del tutto, è un’anticipazione di ciò che ogni essere umano, nella misura in cui si intride delle forze del Cristo, sarà capace di fare. Noi impiegheremo tutta la seconda parte dell’evoluzione per spiritualizzare la materia, per vivere questa resurrezione della carne. Però avverrà. Perciò è del tutto anacronistico che un essere umano (non lo Spirito del Sole, ma un essere umano!) disintegri un corpo fisico: non mi convince proprio.
11,7 Dopo ciò dice ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giu-dea.»
Il Cristo era andato di là del Giordano, cioè non era né in Giudea né in Galilea. Giudea significa luogo dove l’elemento giudaico – sia corporeo-abramitico sia di anima, di sottomissione alla Legge mosaica – è puro; invece in Galilea c’è già una mistura di sangue, e anche al di là del Giordano già manca l’elemento puramente giudaico. Perché deve essere l’elemento giudaico puro a dar la morte al Cristo? Perché il popolo che ha tutti i presupposti di corporeità e di animicità per preparare la venuta del Messia è l’unico popolo che ha un concetto del Messia: quindi soltanto lì si può incarnare. Però riconoscerlo nel pensiero, accoglierlo nelle forze del cuore e nella volontà non deve essere automatico da parte dei giudei, altrimenti non sarebbe consono all’evento del Messia che viene a portare la capacità di pensiero (Io-sono, cioè il Logos) e la capacità di amore.
È immanente al fenomeno giudaico che da un lato soltanto nel suo contesto possa sorgere il Messia, perché i giudei hanno la corporeità giusta, la Legge, i profeti ecc. che indicano il Messia; però, da un altro lato, la natura umana è fatta così che quantitativamente la maggior parte omette per inerzia, di conoscerlo e di riconoscerlo. Ma è vero anche che soltanto nel mondo giudaico c’era qualcuno capace di conoscerlo e di riconoscerlo.
Per vivere la morte e la resurrezione del Messia, Cristo deve andare in Giudea: nessun altro luogo, nessun altro popolo, nessun’altra corporeità o animicità sarebbe stata in grado di far sorgere sia la controforza che lo uccide – perché la preparazione al Messia non vuol far posto al suo compimento –, sia quei pochi che saranno i suoi apostoli – soprattutto, in questo caso, Lazzaro – che lo riconoscono ed hanno la libertà interiore sufficiente per accoglierlo nella loro vita.
Il Cristo va proprio con intenzione: adesso è venuta l’ora della morte del Messia, perché il Messia, il fenomeno del Messia è l’archetipo dell’umano: è morte e resurrezione. La legge dell’evo-luzione nel tempo – l’eternità è sempre uguale – stabilisce che nel tempo ci sono cambiamenti, c’è un’evoluzione, ma il nuovo può avvenire soltanto se qualcosa di vecchio cessa. Il cessare animicamente è un’esperienza di morte (ero attaccato a qualcosa e adesso mi viene portata via) e il sorgere del nuovo è un’esperienza di resurrezione, di nuovo inizio.
La struttura fondamentale del tempo è morire e risorgere, sempre. Volendo, anziché le categorie “morire” e “risorgere” ognuno può usarne altre, ma l’importante è cogliere la legge evolutiva nel tempo: se le cose fossero sempre tutte uguali nulla finirebbe e nulla comincerebbe, non saremmo nel tempo, non ci sarebbe evoluzione; saremmo nell’eternità e allora non ci sarebbe esercizio di libertà. Sono libero perché l’evoluzione mi dà la possibilità di far terminar qualcosa (perché è diventato anacronistico o non più favorevole) e di cominciare qualcosa di nuovo, ma io non sono costretto a farlo, posso ometterlo è perciò son libero.
In altre parole, l’amore divino mi dà gli strumenti, la potenzialità, la capacità interiore per evolvermi nel tempo, e per farlo devo sempre morire a qualcosa per nascere al nuovo. Morire alla mia infanzia significa smetterla di fare il bambino, ma non sono costretto, in tanti casi molti continuano a restare bambini anche se è anacronistico. Per la mia evoluzione sarebbe meglio smettere di fare il bambino, affrontare una piccola morte o una grossa morte, e cominciare a far l’adulto. La resurrezione è la responsabilità in proprio di ciò che penso e di ciò che faccio.
Perché faccio questo discorso? Perché adesso c’è un’afferma-zione del Cristo che dà grosso filo da torcere a tutti gli interpreti, i quali si chiedono: ma che c’entra questa affermazione, adesso? Il Cristo ha appena detto: andiamo nella Giudea di nuovo.
11,8 Dicono a Lui i discepoli: «Maestro, i Giudei poc’anzi volevano lapidarti e tu ritorni là di nuovo?»
Rabbì, vuoi andar là dove ti ammazzano con le pietre in testa, ma rabbì, stai dando i numeri? Non sei scappato via apposta perché volevano ammazzarti?
No, non era scappato, era andato via perché l’ora giusta non era ancora venuta. Una delle dimensioni fondamentali del vangelo è l’ora giusta. Nell’eternità non c’è l’ora, perché c’è tutto il tempo presente, tutto il tempo è compresente nell’eternità. Vivere nel tempo significa vivere un’ora dopo l’altra. Ciò significa che non tutto è recuperabile in assoluto; perché se tutto fosse sempre recuperabile, non ci sarebbe evoluzione, sarebbe una ruota che gira sempre uguale (come i cicli di natura) mentre evoluzione significa che è possibile perdere dei colpi senza poterli recuperare. Allora sì che c’è evoluzione. E se è possibile perdere delle occasioni senza poterle recuperare, significa che l’elemento fondamentale dell’evoluzione nel tempo è di essere svegli, cioè il saper distinguere quando è troppo presto, quando è troppo tardi e quando è l’ora giusta.
Una cosa fatta troppo presto crea pasticci, mancano le condizioni giuste; ad esempio certe notizie date ad un bambino che non è ancora capace di farne l’uso corretto possono danneggiarlo molto (pensate alle cose che i piccoli vedono alla televisione!). Bisogna stare attenti ai tempi giusti! Quando si fa una cosa troppo tardi, invece, si può perdere il treno: se il treno partiva alle cinque, io penso di prenderlo alle 5,15 (perché in Italia i treni sono sempre in ritardo), poi non mi serve a nulla dire: ma sono arrivato soltanto due minuti dopo! Troppo tardi! Esiste il troppo tardi nell’evoluzione? Eh sì! se non esistesse non avremmo evoluzione nel tempo, saremmo nell’eternità dove tutto si può far sempre.
Ora che è giunta l’ora in cui il Cristo deve morire, deve andare in Giudea: se andava prima era troppo presto, se ora aspetta diventa troppo tardi. Una delle leggi fondamentali della saggezza dell’evoluzione nel tempo è di cogliere il tempo giusto per le cose. Questo è proprio uno dei compiti fondamentali del pensiero, è un’arte (e non da poco!) che siamo chiamati ad esercitare per secoli e per millenni, che va esercitata sempre meglio, a tutti i livelli della vita.
I pasticci che noi creiamo non sono peccati di commissione, sono peccati di dormienza. Noi dormiamo e aspettiamo troppo a lungo, poi ci accorgiamo che è troppo tardi; e aver dormito è un’omissione di pensiero. Si può imputare ad una persona una sua omissione di pensiero, renderla responsabile? Pensate se noi facessimo sempre valere la scusa: non lo sapevo! Poveri noi!
No, no, bisogna rendere responsabile l’individuo! La giustizia mica ti dice: visto che non sapevi che non è permesso uccidere un altro, vai pure. No, ci sono delle cose che si devono sapere! Quindi il Padreterno non può permettersi, per la nostra rovina, di accettare la scusa: l’ho saputo troppo tardi! Dovevi saperlo prima, dovevi svegliarti prima, invece hai dormito.
Forse sei un tipo che dormiva perché per decenni hai trascurato di coltivare il tuo pensiero. Ma la responsabilità morale di coltivare la propria capacità pensante è una delle responsabilità più fondamentali della vita, da quella dipende tutto e nessun essere umano può trovare scuse: il peccato di omissione più fondamentale è quello di omettere di coltivare la propria coscienza.
Nel giudizio universale (che è quello più fondamentale) i caproni sono mandati di là, non diciamo all’inferno ma insomma nel fuoco eterno, e perché? Perché hanno dormito! Il Cristo gli dirà: Avevo fame e non mi avete dato da mangiare, avevo sete e non mi avete dato da bere… E quelli: ma non è stato perché ci mancavano le forze di amore, se noi l’avessimo saputo… quando è successo?! Quando non l’avete fatto ad uno dei più piccoli non l’avete fatto a me. Il peccato di omissione è nel non aver dato da mangiare né da bere all’Io: Io avevo fame, cioè l’Io, in ogni essere umano, aveva fame di pensieri, aveva sete di intuizioni morali.
È stata un’omissione conoscitiva o morale? Un’omissione di coscienza: non si sono resi conto. Guardate che il testo non dice: vi siete resi conto che io avevo fame, ma per egoismo non mi avete dato da mangiare. Questo è un moraleggiare. Il testo non moralizza, ma dice: non vi siete accorti! avete omesso di coltivare il vostro pensiero, la vostra coscienza, perché se lo aveste fatto vi sareste accorti!
Quindi il testo evangelico non ricatta l’essere umano sul lato della volontà, delle azioni, senza approcciare l’elemento fondamentale da cui le azioni sgorgano, che è quello intellettuale, della coscienza, ma dice: guarda che le tue azioni dipendono dalla tua coscienza. I peccati di omissione più gravi sono quelli che si fanno nel non coltivare la coscienza; se non coltivi la tua coscienza non vedi quello che c’è da fare e ometti di amare il più piccolo non perché sei egoista, ma perché dormi.
È tremenda la sberla, perché la chiesa predicando, continua a infierire contro l’egoismo! Ma a che serve infierire contro l’egoismo se le menti sono talmente obnubilate che non vedono quello che veramente va fatto? Quindi o coltiviamo la coscienza, e allora l’umanità va avanti, oppure omettiamo di coltivare la coscienza e continuiamo a predicare di vincere l’egoismo, senza convincere nessuno. Giustamente! Perché l’essere umano lo si raggiunge soltanto appellandosi alla sua coscienza; altrimenti continuiamo a trattarlo da bambino, al quale non si possono spiegare le cose ma gli si deve dire cosa deve fare, perché è nella fase infantile. Ben venga il tempo in cui esce fuori l’essere umano che vuole capire ciò che va fatto.
Tutto questo per affrontare il versetto 9 che, vi dicevo, dà molto filo da torcere, giustamente, perché affronta l’ora giusta (concetto per cui le cose vanno fatte al momento giusto, né prematuramente né troppo tardi), e la affronta in chiave conoscitiva e non morale.
11,9 Gesù rispose: «Non ci sono 12 ore del giorno? Se uno cammina nel giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo;
11,10 se invece uno cammina nella notte, inciampa, perché la luce non è in lui.»
Che c’entrano queste riflessioni con la domanda che i discepoli gli hanno fatto? Facciamo un passo indietro e rendiamoci conto che Colui che parla è l’Essere del Sole. Se la teologia tradizionale non si decide a prendere veramente sul serio la dimensione cosmica che Gesù Cristo non è soltanto il bravo cittadino Gesù di Nazareth, ma che abbiamo a che fare con un’Entità di portata immensa, non verrà mai a capo di questi testi.
L’Essere del Sole dice: io sono il tempo, sono la scansione del tempo, sono quel Sole che vi mette a disposizione il tempo. Nella scansione del tempo in 12 ore di giorno e 12 ore di notte, non c’è nulla di arbitrario. In altre parole, nell’evoluzione non puoi agire arbitrariamente: quando viene l’ora di camminare devi camminare, quando è l’ora di riposare devi riposare. L’uomo non si può mettere contro la natura, contro i suoi cicli. Così come voi uomini siete abituati ad osservare i cicli della natura, così Io, Essere del Sole, sono venuto per espormi alla tenebra quando viene la notte.
Se il Cristo non andasse a Gerusalemme, sarebbe come se il Sole si rifiutasse di esporsi alla tenebra della notte: succederebbe un finimondo, perché da sempre il Sole sorge alla mattina dicendo “adesso faccio io”, già ben sapendo che quando tramonterà andrà volontariamente a scontrarsi con le tenebre, nella notte. Se la forza non si esponesse alla controforza, se non ci fosse un’intera-zione fra forza e controforza, non ci sarebbe evoluzione; ora è venuta l’ora in cui l’Essere del Sole deve entrare in interazione con la totalità delle controforze e quindi deve morire, così come muore ogni giorno il Sole.
Questa morte però non è definitiva, ma in vista di un nuovo risorgere: così in tutta l’evoluzione, la prima metà della caduta è stata per portare l’Essere del Sole a morte, adesso termina questa morte, e la seconda metà, a partire da tre giorni dopo la morte, servirà a far risorgere il Sole. In altre parole, il Cristo dice: l’essere umano è inserito in cicli evolutivi che sono la base di natura della sua evoluzione e non li può cambiare, può soltanto omettere di far le cose al tempo giusto (perché deve essere libero di farlo). Se le fa o troppo presto o troppo tardi, ne pagherà le spese; perché le condizioni non sono più quelle giuste. Fare la cosa giusta al tempo giusto significa fare una cosa nell’ora in cui le condizioni evolutive sono quelle ottimali, cioè consentono di trarne il massimo per l’evoluzione successiva; se fatte troppo presto o troppo tardi si avrà molto di meno (se tutto va bene). Quindi se faccio la cosa giusta al momento giusto ho il massimo di vantaggio di positività per la mia evoluzione e perciò val la pena, perché ognuno lo desidera. Se questo non succede è per inerzia di forze di volontà, ma molto di più perché si dorme e non ci si accorge che facendola prima o dopo sarà peggio.
Il Cristo è la luce del Sole che accompagna il cammino umano durante il giorno, e il Sole stesso, quando si oscura di notte, espone l’essere umano alle controforze. Ci devono essere consapevolmente entrambi i momenti: camminare senza pericolo di inciampo, e poi sapere quando bisogna riposare perché altrimenti se voglio camminare quando non ho le forze del Sole, quando non ci vedo, inciampo e mi faccio male.
Che cosa poi significhi, in tutti i vari aspetti, camminare di giorno (intrisi di luce del Sole, uno vede dove va e non inciampa), e cosa significhi riposare di notte, o cosa significhi voler camminare di notte (inciampare, cadere e farsi male) ognuno può, naturalmente, sempre più riccamente scoprire nella propria meditazione, perché queste immagini hanno risvolti esistenziali infiniti.
11,11 Tali cose disse, e dopo di ciò dice loro: «Lazzaro il nostro amico riposa, ma vado a risvegliarlo».
Lazzaro non fa parte dei dodici. I dodici sono curiosi, naturalmente, perché le due sorelle avevano mandato a dire allarmate: vieni, vieni, siamo al secondo giorno…, perché il Cristo dice delle cose sibilline… Adesso sono ancora più incuriositi: ma che sta facendo questo Lazzaro? Lui dice “giace”, il nostro amico Lazzaro riposa, giace, ma Io vado affinché Io lo risvegli, lo tiri via dal sonno… La cosa diventa allora ancor più interessante: da quando in qua c’è bisogno che vada addirittura il Cristo a svegliarlo!? Gli esseri umani si sono sempre svegliati senza di Lui, qui occorrono due giorni di strada, magari a piedi… Così i dodici discepoli gli fanno notare:
11,12 I discepoli gli dicono: «Signore, se riposa guarirà».
Cioè, se sta dormendo sarà salvo, va tutto bene, è sano e salvo! Perché nel testo c’è tutto questo andare indietro e avanti di domande e risposte? Per far capire che se i dodici sapessero esattamente cosa sta succedendo a Lazzaro, prima di tutto non farebbero domande, poi sarebbero evoluti tanto quanto Lazzaro, pronti anche loro per venire iniziati. Tutto il testo sta a dimostrare che i dodici sono meno avanti di Lazzaro nella loro evoluzione e non capiscono cosa sta succedendo a Lazzaro.
Se non lo capiscono come fa il Cristo a farglielo capire? Non può farlo intellettualmente, perché capire implica evolversi ulteriormente, arrivare al punto da essere “amati” dal Maestro. E questo fa capire a noi che il Cristo, come sostituto del fatto che loro sono più indietro nell’evoluzione e quindi non possono capire, gli fa fare passi avanti nel loro stesso cammino, giocando: dicendogli prima l’enigma dell’evoluzione nel tempo (le 12 ore del giorno e le 12 ore della notte) poi un altro enigma che gioca sul: giace - è morto. Questa pedagogia fa vedere come il Cristo conduce i dodici, passo per passo, affinché possano comprendere le cose sempre meglio.
Non potendo spiegargli d’acchito lo stato catalettico dei tre giorni (non sono in grado di capirlo) li avvicina usando due categorie tra loro polari, in mezzo alle quali c’è lo stato catalettico. Una è il dormire, però nel dormire il corpo eterico resta tutto nel corpo fisico, l’altra è il morire, ma nel morire il corpo eterico esce tutto fuori. Usandole tutte e due e facendogli capire che sono tutte e due insieme, perché le dice tutte e due, aiuta gli apostoli a fare dei passi avanti nella loro conoscenza, e capire che si tratta di una cosa intermedia tra il dormire e il morire. Una pedagogia molto bella, perché dire soltanto “è nello stato catalettico dell’iniziato” non sarebbe comprensibile (se fossero già così evoluti da capire potrebbero venir iniziati anche loro).
1,13 Gesù parlava della morte di lui, quelli invece pensavano che parlasse del riposo del sonno.
Gesù parlava della morte iniziatica, non di un sonno ordinario, e quelli invece pensavano al giacere del sonno notturno. Il testo spiega che non hanno capito di quale stato di giacenza Lui parla. Siccome hanno pensato soltanto al dormire normale, non sono ancora arrivati a qualcosa di mezzo tra dormire e morire, e allora il Cristo gli dà l’altra polarità, quella del morire; se sono intelligenti capiranno che è uno stato intermedio tra dormire e morire. Quando si dorme tutto il corpo eterico resta nel corpo, quando si muore il corpo eterico esce tutto quanto, allora Lazzaro deve essere in uno stadio intermedio dove parzialmente il corpo eterico è uscito.
Se uno studia i fondamenti che Steiner dà, arriva subito a vedere che il Cristo non aveva altra possibilità pedagogica per condurre gli apostoli sempre più vicino a questo mistero: loro non hanno esperienza in proprio di questo stato catalettico, perciò gli dà i due estremi e così gli indica che è una cosa di mezzo.
11,14 Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto»
Non dice “è morto del tutto”, ma “è morto”, è morto parzialmente. Se loro conoscono soltanto le due categorie del dormire e del morire, usandole tutt’e due Lui cerca di aiutarli a capire che c’è un trapasso intermedio. Tante cose noi crediamo siano alternative, invece ci sono cose intermedie che non conosciamo.
Ma perché il Cristo non dice le cose più chiaramente: che non è né morto né sta dormendo? Il problema non è ciò che il Cristo potrebbe dire, il problema è cosa loro sono in grado di capire. A che serve che il Cristo dica le cose ancor più chiare se quelli lì ci capiscono ancora di meno? Ovviamente possiamo presupporre che il Cristo ha agito in modo perfetto per rendere il più possibile le cose accessibili ai dodici, per aiutarli a fare dei passi in avanti e avvicinarli a questo mistero. Inoltre, adesso, lo accompagneranno a Betania, testimonieranno, avranno le percezioni della pietra che viene tolta, del Lazzaro che viene chiamato fuori, che esce fuori bendato, ecc., si faranno i loro concetti; non è che il Cristo gli dice: voi non c’entrate nulla, voi restate qua, vado io da solo. Vanno insieme.
11,15 «e io gioisco per voi affinché crediate, che io non ero colà. Ma andiamo presso di lui».
La mia gioia sta nel fatto che io non sia stato presente (infatti aspetta qui due giorni), perché voi dovrete dare atto del fatto che io non ero colà (infatti arriva con i dodici al quarto giorno). E allora quando vedrete il risultato di ciò che è successo nei tre giorni e mezzo e che renderà possibile che Lazzaro venga fuori, dovrete ammettere che è stato tutto operato a distanza fisica, dovrete ammettere che tutto è successo nel mondo spirituale.
Se invece il Cristo fosse stato là, ai poveri dodici apostoli sarebbe venuto il patema d’animo, per le varie domande che si sarebbero potute porre: per esempio, che cosa ha combinato di notte, quando lui dormiva? Oppure: ha tolto la pietra, ha portato via il cadavere di Lazzaro e adesso… Oppure: Lazzaro non è morto ma è andato in un paesino vicino tutto bello sano, al suo posto hanno messo una fattispecie di Lazzaro dentro la tomba, adesso arriva Lui, lo tirano fuori e lo sostituiscono con Lazzaro tornato dal villaggio vicino, e fanno tutta questa montatura per far finta che Lazzaro fosse nel sepolcro... Per questo il Cristo dice: Io sono felice perché voi dovrete dare atto del fatto che non ero presente, gioisco per voi affinché vi rafforziate nella vostra consapevolezza, facciate un passo avanti nella fiducia nel Cristo come fenomeno dell’umano, per ciò che io ho operato a Betania senza essere presente fisicamente.
Come si rafforza, come acquista fiducia l’essere umano nel Cristo in quanto Essere spirituale? Acquista fiducia se il Cristo smette di far le cose materialmente; gli apostoli arrivano e devono dirsi che è avvenuto qualcosa nel mondo spirituale. Questo gli dà fiducia nel mondo spirituale. “Gioisco per voi perché ciò è avvenuto affinché vi rafforziate nella fiducia, crediate, per il fatto che io non ero presente”.
Sono belle queste frasi, sono molto importanti, sono aspetti fondamentali dell’evoluzione dell’uomo in quanto spirito amante e pensante, non soltanto in quanto un pezzo di materia. Sono passati due giorni dalla missiva che hanno mandato le sorelle per dirgli che Lazzaro sta morendo, altri due giorni aspetta e arrivano al quarto giorno.
11,16 Allora Tommaso detto il Didimo disse ai condiscepoli: «Andiamo anche noi, affinché moriamo con lui».
Tommaso il Didimo, Tommaso “il gemello”, quindi, diciamo, il duplice, il doppio, il polare. L’essere umano è duplice, ha una duplicità gemellare nell’Io superiore e nell’io inferiore. Tommaso il Didimo rappresenta l’essere umano in quanto duplice, rappresenta l’interazione continua tra l’Io superiore e l’io inferiore.
Questo è un altro versetto misterioso, non facile da comprendere. “Andiamo anche noi affinché moriamo con lui” non lo dice al Cristo, ma ai suoi condiscepoli. Qui la grande discussione è se “con lui” significa col Cristo o con Lazzaro. Se chiedete a me vi dico volentieri tutt’e due, l’uno non esclude l’altro. Lazzaro è in questo processo di morte e di resurrezione ora, e il Cristo sta per morire e per risorgere, quindi: andiamo anche noi per tuffarci nel mistero della morte e della resurrezione sia di Lazzaro, sia del Cristo.
Chi è questo Tommaso? Come salta fuori? Non è stato detto che vanno per morire... Coloro di voi che leggono Rudolf Steiner ricorderanno che tra i testi più belli e più fondamentali ci sono i Drammi misterici. L’ultima volta che li ho studiati tutti e quattro era la 57a volta: più li studio e meno ci capisco! Ho l’impressione che uno dei fenomeni fondamentali di questi Drammi misterici sia la figura centrale di Giovanni Tommaso e che Steiner abbia preso il mistero di Lazzaro e Tommaso, che insieme rappresentano la duplicità dell’essere umano: l’Io superiore e l’io inferiore. Naturalmente ci sono altre polarità – tra Lazzaro e Giuda, tra Giuda e Pietro, e tante altre –, però qui abbiamo la polarità tra Lazzaro che sta per risorgere e Tommaso che dice: andiamo a morire anche noi con lui.
I Drammi misterici di Steiner sono la fenomenologia più complessa che si possa immaginare del Giovanni Lazzaro e del Tommaso: Tommaso rappresenta l’io inferiore e Giovanni l’Io superiore. L’io inferiore ha il desiderio inconscio di morire per far risorgere l’Io superiore. Tommaso, che nei dodici segni dello Zodiaco rappresenta i Gemelli – la spaccatura in due – si sente sempre come una metà e cerca l’altra metà. Ora Tommaso il Didimo si sta accostando al mistero di Lazzaro, sente che lui è il gemello che cerca il suo gemello, Tommaso è il gemello che aspira a morire, inconsciamente, per far risorgere il gemello migliore.
Uno dei significati fondamentali attribuito ai gemelli è quello dell’Io superiore e dell’io inferiore: si corrispondono, perciò sono gemelli. Tanto muore l’io inferiore, tanto risorge l’Io superiore; tanto l’io inferiore, l’egoismo, si rifiuta, omette di morire, di tanto non può risorgere l’Io superiore. Ecco la corrispondenza gemellare. Disse Tommaso detto il Didimo, il duplice, Tommaso il polare, ai suoi condiscepoli (non lo dice al Cristo ma ai suoi condiscepoli): andiamo anche noi, affinché moriamo con lui.
11,17 Venuto dunque Gesù trovò lui che era già da quattro giorni nella tomba.
Il Cristo arriva al quarto giorno: qui sono passati 3 giorni e mezzo, quindi è il quarto giorno. Tutto ciò che è fattore di evoluzione nel tempo si svolge per settenari; si possono anche usare altri tipi di divisione (ad esempio in 5) ma dividendo in 7 passi ci si orienta meglio: nel quarto passo c’è la svolta centrale.
Il punto 3,5 (tre e mezzo) è la soglia perché fino a metà del passo 4 si scende giù e dalla metà del 4 si va su; il 3 si rispecchia nel 5, il 2 nel 6 e l’1 nel 7 (i primi saranno gli ultimi!). La struttura settenaria è di gran lunga la migliore per rappresentare l’evoluzione nel tempo, perché l’evoluzione non è contemporanea (se lo fosse saremmo nell’eternità) ma è consecutiva: si comincia con la cosa 1, perché se non c’è l’1 non può esserci poi l’altro; se non succede nulla di nuovo non c’è evoluzione nel tempo (siamo nell’eternità), perciò quando 1 finisce (perché siamo nell’evoluzione del tempo: morte e resurrezione) arriva il nuovo e lo chiamiamo 2.
Se 2 fosse lo stesso di 1 non sarebbe 2, non ci sarebbe qualcosa di nuovo, quindi il 2 è diverso dall’1; ora, se 2 è diverso da 1 e ci sono soltanto 1 e 2, c’è solo una polarità tra 1 e 2. Bastano 1 e 2 per aver l’evoluzione? No, perché il pensiero mi dice che se ci sono 1 e 2 allora c’è anche il 3: la sintesi di 1 + 2. Hegel ci fa tutta una filosofia, ben pensata, ma già l’avevano detto gli scolastici, tomisti aristotelici: omne trinum est perfectum, e poi la storia della giurisprudenza, ecc. Tesi, antitesi e sintesi.
Una volta fatta la sintesi tra 1 e 2, che è 3, ci può essere qualcosa di nuovo? No: nel 3 c’è tutto – Dio non è una quaternità, ma una trinità. L’unico modo per non arrestare l’evoluzione ma per farla andare avanti, è di darle una svolta (4) e poi ricominciare con 1, 2 e 3 ma ad un altro livello! Magari i tre li fai salire di gradino (5, 6, 7), così è una ripetizione, però sotto un altro registro.
Allora, siamo al mistero del quarto giorno: il mistero del 4 è il mistero della soglia, della svolta. Il capitolo 10 è stato tutto una preparazione (“Io sono la porta, Io sono la soglia”) per capire che l’iniziazione, la grande svolta della storia, deve avvenire nel quarto giorno.
“Giorno” significa unità evolutiva: unità evolutiva sono i giorni, gli anni, fino alle più grandi unità evolutive (ne abbiamo parlato) che sono: Terra 1, Terra 2, Terra 3, Terra 4, Terra 5, Terra 6, Terra 7. Steiner chiama Terra 1 Saturno, dove era stata posta la base del minerale. Se restiamo al minerale però non c’è evoluzione, ci vuole qualcosa di nuovo: ecco allora Terra 2, Sole, l’incarnazione planetaria solare della Terra, dove c’è il minerale morto, più l’eterico vitale vivente, minerali e piante. L’evoluzione procede in Terra 3, Luna: c’è l’animale, che è una sintesi di minerale e di vita. Come procede l’evoluzione, dopo il 3? Ci vuole una soglia, una svolta evolutiva, e la svolta è un cambiamento di registro: le prime 3 unità evolutive consecutive (minerale, vegetale, animale) hanno in comune la legge deterministica di natura: se voglio una terna nuova in che cosa consiste la soglia che cambia registro? Devo introdurre la libertà!
Quindi il fattore umano Terra 4, Terra propriamente detta, il quarto giorno cosmico, è il cambiamento di registro assoluto dell’evoluzione, perché intervenendo il fattore umano il dato di natura viene trasformato, transustanziato, tutto trasformato in libertà. Allora, 5 sarà la trasformazione di 3, l’umanizzazione di 3; poi 6 l’umanizzazione di 2 e 7 l’umanizzazione di 1.
Il quarto giorno cosmico è la svolta dell’evoluzione. Cos’è allora l’evoluzione? È l’iniziazione dell’uomo e della natura: l’iniziazione della natura è la sua umanizzazione, e l’iniziazione dell’uomo è la sua divinizzazione. Semplice!
Quindi al quarto giorno ci deve essere la svolta tra la morte e la resurrezione. Cambiamo unità evolutiva e, per esempio, prendiamo i 7 periodi di cultura più vicini (sono unità di tempo più piccole): il periodo paleo-indiano, il paleo-persiano, il periodo egizio-caldaico; la svolta, cioè il Cristo che si è incarnato nel periodo greco-romano; adesso noi siamo nel 5° periodo, dove si tratta di trasformare, di cristificare, di umanizzare il 3°; nel 6° periodo ci sarà da cristificare, umanizzare il 2°, e nel settimo periodo ci sarà da umanizzare il 1°.
C’è ora il risveglio di Lazzaro, la sua iniziazione. Poi c’è la grande iniziazione del Cristo, la sua morte e resurrezione che sono il compimento evolutivo come fatto storico; il Cristo, nel suo karma, con la sua morte e resurrezione, rende fatto storico il fenomeno primordiale di tutta l’evoluzione. L’evoluzione è iniziazione: è morte (la caduta) e resurrezione (la redenzione).
Con queste chiavi di lettura si possono capire le cose a vari livelli. La scienza dello spirito è fatta apposta per darci chiavi così malleabili, così universali, che tutti i vari aspetti non si contraddicono più tra di loro. Una volta messe le cose secondo il giusto orientamento, ben specifico, non ci manca nulla, perché c’è dentro tutto, c’è posto per tutti gli aspetti.
I tre giorni catalettici sono un’analisi, una ripetizione in piccolo dei tre giorni percorsi prima della soglia. Vivendo nei tre giorni tutto il passato dell’evoluzione umana, interiorizzandolo, l’iniziato era capace di compiere la svolta, di entrare nei mondi spirituali e cominciare la risalita. Quindi la svolta arriva sempre al numero 4, e se uno mi parla di svolta al 3°, al 2° giorno, gli dico: non sai di cosa stai parlando. Svolta vuol dire soltanto: sono al 4°giorno. Il Cristo deve risorgere al 4°giorno. Se si vuol essere precisi sono 3 giorni e mezzo, perché il quarto periodo, o Terra 4, si divide in due: la prima metà dell’evoluzione terrestre è maggiormente retrospettiva e la seconda è maggiormente prospettiva.
Allora sì che abbiamo a che fare con una struttura di evoluzione del tempo. Per essere più scientifici dovremmo sempre dire 3 unità di tempo e mezzo, perché il 4, che è la svolta, è diviso in due: la prima metà è una ripetizione, a livello diverso, di tutto ciò che è già stato precorso, e la seconda metà è un’anticipazione, a livello più alto, di tutto ciò che verrà fatto nelle unità 5, 6 e 7. Tutto chiaro o è difficile la cosa?
Il testo dice “Lo trovò avente già 4 giorni”, cioè era al terzo giorno e mezzo, era al quarto giorno nel sepolcro. I tre giorni e mezzo del passato sono quelli della morte, della caduta, del sepolcro, i tre giorni e mezzo del futuro sono quelli della resurrezione nel sepolcro. Il senso della seconda metà dell’evoluzione è il ritorno del figliol prodigo al Padre, è la riascesa, libera però. Se il senso della seconda metà dell’evoluzione è la riascesa libera, la divinizzazione libera dell’essere umano, cosa deve avvenire nella prima metà? La caduta. Altrimenti come si fa a riascendere senza essere caduti, senza il morire, senza la tomba? Se la seconda parte dell’evoluzione è un immane risorgere, la prima metà deve essere un morire.
11,18 Betania è vicino a Gerusalemme con una distanza qualitativa di 15 stadi
Nelle traduzioni avete: “circa 15 stadi”, però in greco c’è æj (os) che significa “come, al modo che”, quindi indica qualità e non quantità. Perciò: “della qualità di 15 stadi”.
Intervento: Qui è tradotto “circa 2 miglia”.
Archiati: Sparisce addirittura il numero 15 che c’è in greco! Ma che traduzione, coscienziosa neanche un minimo! Se il testo greco ha il numero 15, quello è importante, sono 15 unità di qualcosa, e non si può trasformare il 15 in 2! Se uno legge 2 non ha alcuna possibilità di capire ciò che vuol dire il testo!
Intervento: Quindi “del tipo di 15”.
Archiati: 15 stadi, stadio è una misura spaziale del camminare. Faccio una proposta – e mi riservo io stesso di scoprire, in anni successivi, se mi saranno concessi, o in vite successive, altre cose. Adesso vi paleso quello che mi pare di aver scoperto finora.
Il 4, oltre ad essere il quarto di 7, è la metà di un intero percorso evolutivo (vedi ancora Fig.12): tre e mezzo tre e mezzo. La metà arriva al quarto giorno, cioè tre giorni e mezzo è la metà di sette. Ora, lasciamo via il 7 e riteniamo la metà. Passiamo dal mistero del Sole, che è il Cristo, a quel riflesso del Sole, della luce solare, che sono in noi le nostre rappresentazioni; le rappresentazioni non contengono forze dinamiche, sono morte e perciò ci lasciano liberi. Le rappresentazioni sono la luce riflessa di ciò che vediamo. Io vedo un’ortica, se la tocco sento che mi pizzica; invece quando mi giro ne ho la rappresentazione riflessa e l’immagine riflessa dell’ortica non mi pizzica. Quindi il significato evolutivo del pensare riflesso è la libertà. Doveva sorgere un cervello che riflette le percezioni con immagini morte, in modo che l’essere umano di fronte alle sue riflessioni, di fronte alle sue immagini riflesse, fosse del tutto libero – perché l’ortica immaginata non mi pizzica, invece l’ortica reale sì. Dove abbiamo noi, cosmicamente, il rapporto tra luce reale che ti acceca se la guardi direttamente e che ti brucia se ci vai troppo vicino, e la luce riflessa? Nella Luna! L’evoluzione lunare è basata sul ritmo di 30 giorni, il mese. E la metà di 30 è 15!
Intervento: Non è sul ritmo di 28?
Archiati: Sì, se consideriamo soltanto la Luna in rapporto alla Terra; ma se consideriamo il rapporto più complesso tra Luna, Terra e Sole, il numero oscilla tra 28 e 31, che sono i giorni dei singoli mesi. I mesi sono stati creati in base al ciclo lunare, tant’è vero che in tutte le lingue è la stessa parola che indica Luna e mese: moon, month ecc.
Quindi, secondo me, uno degli aspetti di questo 15 è proprio la metà del ciclo lunare, ciclo lunare in quanto mistero di riflessione che ti lascia libero dalla luce solare. La luce solare è una realtà non riflessa ma operante; la luce lunare è la luce del Sole, però riflessa. La libertà umana è possibile soltanto perché è stato concesso al cervello umano di riflettere con immagini morte, che non combinano nulla, la luce della percezione. Quindi per l’Essere del Sole, il Cristo e Lazzaro, il punto di riferimento è il 4° giorno, mentre per l’essere lunare dell’uomo, per la coscienza, per il cammino della coscienza, sono i 15 stadi, che sono la metà del ciclo lunare. Tre e mezzo è metà del ciclo solare, dell’evoluzione dal punto di vista del Sole; 15 è metà dell’evoluzione vista dal punto di vista del mistero lunare della riflessione, della luce riflessa del Sole.
Tra l’altro, c’è il mistero di Jahvè. Sia il giudaismo, sia l’islamismo sono religioni lunari perché fondate proprio sulla coscienza umana che è “di riflesso”; non sono religioni solari. Il cristianesimo invece passa dal festeggiare il sabato a festeggiare la domenica (Sontag, il giorno del Sole, dies Dominicus, domenica, il giorno del Signore) proprio perché c’è un passaggio dalla coscienza morta, riflessa, lunare, alla coscienza che diventa sempre più attiva, sempre più creatrice e produttiva in connessione diretta con l’Essere del Sole.
11,19 Molti dei Giudei erano venuti presso Marta e Maria per compiangere riguardo al loro fratello.
Infatti da un punto di vista geografico Betania è vicino a Gerusalemme, e da diverse cose del testo risulta che Lazzaro era una persona abbastanza conosciuta tra i giudei, una specie di autorità, tant’è vero che più tardi, quando ci sarà l’interrogatorio del Cristo, sarà Giovanni Lazzaro a dire alla guardiana della soglia “questo Pietro io lo conosco, lascialo entrare” (18,16). È ovvio allora che questo Giovanni Lazzaro era noto alla guardiana della soglia, al sommo sacerdote e agli altri.
Molti vengono a Betania per piangere al sepolcro di Lazzaro: infatti le due sorelle, ritenendolo morto, lo hanno già sepolto. Il vangelo ci sta dicendo che il risveglio di Lazzaro non è stato compiuto in privato, tra i soli apostoli che poi avrebbero potuto inventare il fatto, ma in piena ufficialità, in pubblico, perché c’erano addirittura autorità che venivano da Gerusalemme. È perciò un fatto di carattere storico, ufficiale, di percepibilità offerta a tutti gli uomini; a maggior ragione, una settimana dopo, quando il Cristo compirà la sua morte e resurrezione, l’evento sarà il rendere l’iniziazione un fatto storico percepibile a tutti.
L’iniziazione, cioè l’introduzione nell’esperienza diretta del divino, prima di Cristo avveniva nei reconditi recessi delle scuole misteriche, per pochi privilegiati e non per tutti. La venuta del Cristo sulla Terra consiste nel fatto che Egli mette a disposizione di tutti gli esseri umani le forze di iniziazione, con la sua morte e resurrezione ne fa un fatto storico offerto alla percezione di tutti, compiuto sotto gli occhi di tutti. Il Cristo dice col suo morire e risorgere: d’ora in poi la soglia dell’evoluzione consiste nel fatto che l’iniziazione è offerta alla libertà di ognuno.
Il Cristo fa con Lazzaro un primo anticipo di questa pubblicizzazione dell’iniziazione. Perciò il motivo per cui i sommi sacerdoti decideranno definitivamente di ucciderlo è che ha tradito i misteri, ha tradito l’iniziazione! Legge assoluta dell’iniziazione era che doveva restare segreta, perché sarebbe stata veleno per le persone che non avessero la preparazione necessaria; in tutta la tradizione misterica chi tradiva i misteri, chi li esponeva e li metteva a disposizione di chi non era preparato, danneggiava l’altro e sé stesso. Il Cristo, compiendo l’iniziazione di Lazzaro in pubblico, per i sacerdoti ha tradito i grandi misteri e quindi è degno di morte.
Tutti questi elementi dicono molto chiaramente che si tratta di un’iniziazione vera e propria, compiuta in un modo tutto nuovo dall’Essere dell’Amore: il suo amore consiste nel fatto che conferisce a tutti gli esseri umani le forze, la potenzialità, la capacità di vivere l’iniziazione nel mondo spirituale, cosa prima accessibile solo a pochi privilegiati.
Domande?
Intervento: Una domanda sull’iniziazione da parte dello ierofante. Gesù arriva al terzo giorno e mezzo per risvegliare Lazzaro a questa vita, al mondo della materia. Mi domando chi fu ad introdurre Lazzaro, ad accompagnarlo all’inizio, nell’entrata nel mondo dell’al di là: Gesù seppur non materialmente presente, o chi altri?
Archiati: Proprio a questo Lui si riferisce dicendo “gioisco per voi perché dovete dar atto del fatto che non ero presente”!
Intervento: Nel momento in cui Lazzaro è entrato nel primo giorno? Non c’era bisogno dello ierofante anche per cominciare questo processo di catalessi?
Archiati: Si, ma lo ierofante è il Cristo, non Gesù. E il Cristo dov’è?
Intervento: Dovunque!
Archiati: E Lui dice: sono contento per voi perché dovete dar atto che il pezzo di materia di Gesù di Nazareth non era là, in modo che non vi venga fatto di attribuire questo evento, che avviene nel mondo spirituale, al pezzo di materia. Siete quasi costretti a dire: qui è successo un putiferio nel mondo spirituale, proprio perché il corpo di Gesù era lontano eppure nulla ha proibito al Cristo di comunicare a livelli intensissimi con Lazzaro per tutti e tre i giorni. Se il corpo di Gesù fosse a Betania, il Cristo dovrebbe occuparsi di ciò che il corpo di Gesù fa a Betania. Invece, essendo il corpo di Gesù al di là del Giordano, il Cristo può concentrarsi in tutto e per tutto su ciò che il Cristo sta facendo: ma non lo fa a Betania, Lazzaro non è a Betania, solo il suo corpo sta a Betania! Vedete il vostro materialismo?! Quindi ai dodici tocca ammettere, se veramente sono onesti: qui l’essenza del fenomeno è ciò che è avvenuto nel mondo spirituale.
Intervento: Attenendomi al testo ho due domande. La prima è: tu hai parlato di un linguaggio tecnico molto preciso dove “amare” significa che il discepolo è pronto all’iniziazione (“il maestro ama il discepolo”). Il testo dice anche che Lui “amava Marta e sua sorella e Lazzaro”: visto che tu, facendo il paragone con i discepoli, hai detto che non è che Lui non li amasse, erano loro non pronti come Lazzaro, allora mi chiedevo: e Marta e Maria a che livello erano?
Archiati: Altre volte il testo dice “Gesù amava Lazzaro”. Adesso in questo amore vengono introdotte anche le sorelle, e ciò significa molto semplicemente (ma ovviamente) che Marta e Maria, oltre ad essere due donne, sono considerate come dimensioni di Lazzaro. Quindi l’evento che avviene a Lazzaro avviene anche alla loro anima, perché due donne non avrebbero mai potuto vivere o coltivare le loro forze animiche senza il fratello, e viceversa; fisicamente è una triade, a livello dell’anima e dello spirito è un’unità. Il testo ti dice: non fissarti sul quantitativo fisico perché, amando Lazzaro, il Cristo deve amare anche le forze componenti la sua anima, che si personificano nelle sue sorelle.
Il problema è che noi oggi siamo abituati a livelli di autonomia dell’individuo (e quindi anche di fratelli e sorelle) molto più forti. Qui dobbiamo andare indietro di 2.000 anni: queste due sorelle non sono individualizzate nella loro anima, ma rappresentano l’una l’anima senziente, l’altra l’anima razionale in stretta comunione col fratello, nel quale prevalgono le forze dell’Io. Pur essendo tre pezzi di materia, diciamo così – tra l’altro, a quei tempi la materia veniva vissuta come una cosa marginale, la realtà era quella che c’è nel mondo animico e nel mondo spirituale –, una Marta che dicesse che me ne frega di mio fratello sarebbe impensabile. Oggi l’autonomia tra fratello e sorella è tale che un fenomeno come quello di allora (tra Lazzaro e le sue sorelle) non sarebbe più possibile, e se lo fosse non ci sarebbe stata evoluzione, le cose sarebbero ancora ferme a 2.000 anni fa.
Gli storici, e in generale la scienza attuale, fanno molto spesso anacronismi di questo genere, perché non hanno una consapevolezza sufficiente di quanto nella scienza sia importante usare il metodo evoluzionistico. Bisogna sempre chiedersi: a quale epoca ci stiamo riferendo? cercando poi di rapportarsi ai fattori di base di allora. E se chiedi: come faccio a sapere quali erano i fattori base di allora? li impari, da Rudolf Steiner per esempio. Se nessun altro te li dà, abbi l’umiltà di dire: Steiner me li dà.
Intervento: Ora mi è tutto più chiaro. La seconda domanda è sul versetto 9, quando il Cristo dice che uno di notte inciampa: non dice “perché è buio”, ma “perché non c’è la luce in lui”. Quindi potenzialmente potrebbe camminare anche di notte?
Archiati: Il testo non dice così, il problema è quello che tu hai aggiunto. Sta a quello che il testo dice: cosa dice il testo?
Intervento: Dice: “perché la luce non è in lui”.
Archiati: Il che significa che di giorno puoi camminare perché la luce è in te. In altre parole: quando pensi di vedere la luce, non è che tu vedi la luce, ma è la luce che opera in te. Quando il Sole tramonta la luce termina di operare in te, allora devi riposare e non camminare. Nel Timeo di Platone leggi che il vedere consiste in una luce – che è poi la luce del Sole – che noi facciamo fuoriuscire dagli occhi e mandiamo verso le cose che guardiamo; quindi è la luce operante in noi che ci fa vedere. Il vedere è l’operare dell’Essere del Sole in noi: se non ci fosse l’Essere del Sole non ci sarebbe né luce, né vista, né percezione.
Intervento: Ancora a proposito dell’iniziazione dello ierofante. Nel caso di Lazzaro non doveva esser presente lo ierofante, perché altrimenti sarebbe stata un’iniziazione di tipo antico; se lo ierofante è il Cristo, non ci deve essere più uno ierofante. Cioè l’iniziazione del giorno d’oggi, l’iniziazione cristica, prevede che ciascuno di noi possa farla senza avere dietro un sacerdote o uno ierofante, o qualcuno al quale tu ti affidi: è un’iniziazione che chiunque di noi può fare, perché lo ierofante è il Cristo. Per quello il Cristo non avrebbe potuto esserci in quel momento. È giusto questo?
Interventi: Sì… no, no… sì…
Archiati: Le risposte non sono mai sì o no, le risposte giuste sono sempre sì e no. Io ho una formazione tomistico-aristotelica, mi hanno sempre insegnato: quando dai una risposta non dire mai sì o no, ma sempre “distinguo”.
Tu sei partita un po’ in quarta con aut aut, o è così o è l’oppo-sto. Leggendo le conferenze di Steiner sui vangeli, in particolare sul vangelo di Giovanni, una delle cose strabilianti è che lui, parlando per interi quarti d’ora, soprattutto del 1° segno (Cana di Galilea) e del 7° segno (il risveglio di Lazzaro), spiega che se i sette segni fossero il tutto non ci sarebbe bisogno della morte e resurrezione del Cristo: avremmo già tutto. Allora, ovviamente, la morte e resurrezione del Cristo aggiungono qualcosa ma, sottolinea Steiner, per tutto il settenario vale anche il fatto di transizione. Ecco la soglia!
Sia per Cana di Galilea, sia per l’iniziazione di Lazzaro, se il Cristo non usasse nulla degli elementi antichi dell’iniziazione, nessuno capirebbe quello che sta facendo. Il vecchio non viene abolito di punto in bianco, altrimenti si toglierebbe la base per il nuovo; però non resta soltanto il vecchio perché allora non ci sarebbe nulla di nuovo. “Io sono la soglia” significa che la forza della soglia è sempre la forza dove il vecchio e il nuovo si amano a vicenda, nel senso che ci sono tutt’e due. Si amano a vicenda, ecco la soglia; si incontrano nel senso che il vecchio si fa base per il nuovo e questa è la transizione, la soglia.
Il mistero del risveglio di Lazzaro, come quello di Cana di Galilea, si capiscono soltanto in chiave di transizione, dove il Cristo deve rendersi accessibile alla coscienza umana e perciò deve fare un aggancio a quello che già c’è (se no non lo capisce nessuno) però mettendoci anche del nuovo (se no non serve a nulla). Questa è l’arte della soglia: non è l’abolizione di tutti e due i mondi, ma è il metterli insieme, continuità e innovamento allo stesso tempo. Il risultato ultimo della evoluzione si avrà quando tutto il vecchio sarà stato trasformato in nuovo. Questa assolutezza, che è il presupposto per nuovi mondi e per nuove creazioni, questa soglia per nuove creazioni, è anticipata nell’iniziazione del Cristo – non nel risveglio di Lazzaro. Però l’iniziazione del Cristo, dove lo ierofante è il Padre comune di tutti noi, non è una cosa che può avvenire nel mezzo dell’evoluzione, perché è la meta finale dell’evolu-zione di tutti noi.
Allora noi tutti siamo in cammino verso un tipo di iniziazione dove lo ierofante comune è il Padre dei cieli, però siamo in cammino. Nel mezzo dell’evoluzione il Cristo tratta tutti noi da Lazzaro, compiendo un’opera nel mezzo dell’evoluzione. E il mezzo sta nel riassumere tutto il passato e nell’anticipare tutto l’avve-nire: deve avere il carattere di passaggio-Pasqua. Nel risveglio di Lazzaro quali elementi sono antichi? Lo stato catalettico, per esempio. E quali elementi sono nuovi? Tantissimi. Steiner però ti dà la chiave di lettura: vai fuori strada se lo vuoi o tutto nuovo o tutto vecchio. Il fenomeno sta proprio nel trapasso, nella transizione. Poi, naturalmente, diventa interessantissimo leggere pagine e pagine del testo di Steiner, molto bello, su Cana di Galilea, quali elementi erano accessibili perché conosciuti e quali elementi sono nuovi: diventa una scienza, una scienza dello spirito.
Intervento: Abbiamo parlato della segretezza dell’iniziazione precristiana, però tu hai parlato anche del battesimo esercitato da Giovanni nel Giordano: mi sembra che anche lì ci sia un processo di comunicazione, di immersione nello spirituale. Come si mettono in relazione?
Archiati: L’iniziazione che avveniva nelle scuole iniziatiche non ha nulla a che fare con il fatto che Giovanni il Battista ricevette questa ispirazione – unica perché non era in uso – di battezzare adulti. Lo fa lui, questa ispirazione gli viene data perché c’erano diverse persone che, immerse nell’acqua, di fronte al pericolo di morire, avevano una parziale fuoriuscita del corpo eterico dal corpo fisico e avevano (non tutti, però) una specie di visione del passato, quindi una consapevolezza della caduta dell’umanità. Ma questo non è lo stesso fenomeno dei tre giorni e mezzo, che richiedeva anni pregressi di preparazione, non è un’iniziazione vera e propria con lo ierofante, ecc.
Il battesimo del Battista è una transizione: ha degli elementi vecchi perché c’è una fuoriuscita parziale del corpo eterico, ma anche elementi nuovi, perché non c’è una scuola misterica, non c’è tutta una preparazione, non ci sono i tre giorni e mezzo ma solo qualche secondo. Anche di fronte a questo fenomeno: o tu conosci i fattori evolutivi (allora sai quali elementi qui sono comuni al passato e quali sono nuovi), oppure non hai la chiave di lettura. Però nelle scuole misteriche non si facevano le cose come faceva il Battista, e soprattutto non c’era l’immersione nell’acqua, bensì lo stato catalettico.
Tra l’altro, se queste cose vi interessano vanno lette in Steiner. L’iniziazione prima di Cristo era duplice: in tutta la fascia dei popoli del Sud, soprattutto in Egitto e in tutto il Medio Oriente, c’era un tipo di iniziazione mistica, un entrare nei misteri dell’anima. Nei popoli della sfera Nord – Celti, Druidi ecc. – c’era un’iniziazione estatica. In altre parole, al Sud l’iniziazione iniziava ai misteri del microcosmo e al Nord iniziava ai misteri del macrocosmo: sono i due modi fondamentali (sto riassumendo cose molto complesse). Una delle cose più importanti dell’iniziazione del Cristo, della sua morte e resurrezione, è che congiunge tutti e due i modi. Al Sud (come è per Lazzaro) si metteva l’iniziando in un sepolcro, o in un catafalco (nei riti dell’America Latina e dell’America Centrale si usava il catafalco), quindi in uno stato dormiente e l’iniziando entrava nei mondi spirituali, ma i mondi spirituali erano i mondi dell’anima umana.
Al Nord l’iniziando veniva legato a una colonna, in posizione eretta – è la colonna cosmica, Odino viene iniziato a una colonna – ed entrava nel macrocosmo. Nell’iniziazione nordica lo ierofante aveva bisogno di 12 aiutanti, perché l’iniziando fuoriusciva nel macrocosmo, doveva mettersi in comunione con i 12 impulsi fondamentali e c’era pericolo che si disperdesse, quindi bisognava dodecuplicare l’Io. Come il Sole che visita tutti i 12 segni dello Zodiaco, bisognava dodecuplicare la forza dell’Io in modo da mantenere la forza desta. Invece, scendendo nel microcosmo, non si faceva l’esperienza di tutte queste forze macrocosmiche: si faceva l’esperienza dell’egoismo umano.
Nel risveglio di Lazzaro, che è messo nel sepolcro, esteriormente c’è maggiormente un aggancio all’iniziazione del Sud; il Cristo in croce esteriormente è più un aggancio all’iniziazione dei paesi del Nord, del macrocosmo. Anche sotto questo punto di vista il Cristo è la sintesi delle vie iniziatiche ai misteri del microcosmo-uomo e delle vie iniziatiche ai misteri del macrocosmo nei 7 gradini della passione: la flagellazione alla colonna è proprio una runa, un’immagine cosmica poderosa dell’iniziazione del Nord. La croce è una specie di incontro tra le vie del Sud e le vie del Nord: dopo la croce viene messo nel sepolcro e al terzo giorno, al quarto giorno risorge.
Quindi i gradini della passione, della morte e resurrezione del Cristo sono la sintesi di tutte le vie iniziatiche dell’umanità, che erano duplici: quelle del Sud, dove l’essere umano entrava nei misteri della caduta del microcosmo, del diventare egoisti, e quelli del Nord che iniziavano l’essere umano a ricongiungersi con la dodecuplicità delle forze del macrocosmo. Queste due vie vengono messe insieme nell’iniziazione del Cristo. Gli iniziati di allora e di adesso, che leggono nei vangeli come è avvenuta la passione, la morte e la resurrezione del Cristo, dicono subito: qui ci sono elementi di iniziazione sia dei paesi del Sud, che iniziava ai misteri del microcosmo-uomo, sia dei paesi del Nord che iniziava ai misteri del macrocosmo, del mondo fuori dell’uomo.
Intervento: Però anche nei processi iniziatici del Sud l’iniziando prendeva contatto con i mondi spirituali, o solo si inabissava in se stesso?
Archiati: Solo?! E ti pare poco? Il microcosmo è un riflesso del macrocosmo: è diverso, non è lo stesso. Osiris, per esempio – se tu leggi il Libro dei morti vedrai che il morto diventa un Osiris lui stesso – rappresenta tutto il mondo dell’anima umana, non ha nulla a che fare con i 12 segni dello Zodiaco, non ha un nesso neanche con i pianeti.
Intervento: Un’altra domanda. Al v.11,13 l’evangelista scrive: “Gesù parlava della morte di lui, invece essi pensavano si riferisse al sonno”. Tu però hai detto che Gesù, per i discepoli che non potevano capire lo stato catalettico, usa il concetto del sonno e il concetto della morte. Però qui l’evangelista dice “parlava della morte”.
Archiati: Certo. L’iniziazione era l’anticipazione della morte, e questo lo sa soltanto Lazzaro che scrive questo testo. Rispetto al sonno normale l’iniziazione è un processo di morte e resurrezione, e infatti il Cristo parlava della morte. Ma sei tu che pensi alla morte fisica. L’iniziazione è l’esperienza del morire, pura e semplice! La morte è entrare, con la coscienza, nel mondo spirituale: questa è la morte. Il deperire del corpo non c’entra nulla con la morte, cosa avviene al corpo sono affari suoi. Il Cristo parlava della morte reale, realissima, che si vive nell’iniziazione, perché essere iniziati significa aver anticipato la morte da vivi. Che questo non comporti la morte totale del corpo fisico è un fatto marginale: si continua soltanto a vivere nel corpo fisico, ma per l’anima e per lo spirito l’iniziazione è una morte a tutti i livelli, perché entri nei mondi spirituali. Per questo, da sempre, si presentava l’iniziazione come un morire prima della morte. Morire realmente, diciamo noi, significa sparire dal mondo fisico ed entrare nel mondo spirituale. Giustamente Lazzaro nel suo vangelo dice che questa iniziazione è la morte, perché c’è passato. A te i problemi saltano fuori perché ci aggiungi la morte del corpo. L’iniziazione è morire a tutti i livelli: muori al mondo fisico e risorgi al mondo spirituale. Che poi il corpo sia morto o no sono fattori del tutto marginali.
Intervento: Viene da aggiungerci la morte del corpo perché il problema che hanno posto gli apostoli è la morte fisica.
Archiati: Ma il corpo non muore! Sono tutti concetti illusori, che magari avevano anche gli apostoli da cui nasce la difficoltà del Cristo. Ma parlare della morte del corpo è parlare di aria fritta. Il corpo non può morire: la morte è un’esperienza dell’anima e dello spirito umani.
Intervento: Chiamiamola disgregazione.
Archiati: Allora non è morte.
Intervento: Ma gli apostoli a quello facevano riferimento.
Archiati: Ma l’Evangelista ti dice: lui parlava della morte, non ti dice che parlava della disgregazione del corpo. Vedi che i conti tornano.
Intervento: Lei ha detto che i giudei poi condannano il Cristo perché aveva svelato i misteri, rendendoli pubblici. Il risveglio di Lazzaro è qualcosa di pubblico?
Archiati: Sì. Il Cristo ha tradito i misteri! perciò è condannato. E decideranno di uccidere anche Lazzaro.
Intervento: Questo vuol dire che c’era gente che riusciva a capire cosa stava succedendo. Come facevano ad essersi accorti?
Archiati: Tra i sacerdoti spero bene ci fosse chi capiva! Il testo ti dice che erano presenti anche loro: andavano a piangere, sono presenti. Il popolino non sa quello che sta avvenendo, ma loro vedono e capiscono: questa è un’iniziazione con i fiocchi! Tradita! Esposta agli occhi di tutti!
Intervento: Ritorniamo al rapporto fra io inferiore e Io superiore. Hai detto che il morire dell’io inferiore coincide col morire dell’egoismo e con il sorgere dell’Io superiore. Cosa succede fisiologicamente nell’organismo quando facciamo l’esperienza della morte dell’io inferiore?
Archiati: Naturalmente si può parlare in termini fisiologici solo avendo buone basi di fisiologia, anatomia ecc; noialtri siamo abbastanza profani, ma un medico potrebbe capire i dati del testo in modo molto più vasto. Ciò che avviene nel corpo a livello fisiologico, attraverso l’amore e attraverso l’egoismo il testo evangelico te lo dà con due fenomeni primordiali (così li definisce Goethe).
Un fenomeno è l’eterizzazione del sangue (come la chiama Steiner), quale fenomeno fisiologico correlato all’amore. Le forze d’amore eterizzano il sangue, cioè fanno trapassare materia fisica in forze vitali da conferire alla Terra; il sangue fisico diventa forza eterica. Questo fatto fisiologico dell’amore viene espresso soprattutto nel vangelo di Giovanni; è l’unico che dice: “Tutto il sangue uscì fuori”. Steiner ripete: se degli esseri da Marte o da Giove avessero guardato per dei millenni la Terra con la sua aura, l’avrebbero vista più o meno uguale per millenni fino a quelle ore in cui l’Essere dell’Amore muore in croce. Poi, mentre le gocce, le stille di sangue cadevano sulla Terra, trasformando quello che è l’elemento fisiologico più sublime di tutta la materia, il sangue, in forze vitali eteriche di amore, avrebbero visto la Terra illuminarsi di un’aura nuova.
Polarmente al Cristo in croce, vediamo il fenomeno fisiologico dell’egoismo un po’ più lontano, sull’altro albero, quello a cui Giuda si è impiccato (come racconto nel mio testo su Giuda[7]): il fenomeno è che Giuda, strangolandosi, non permette neanche a una goccia di eterizzarsi, perché il sangue si eterizza soltanto quando è versato. Era proibito, anche nel Nuovo Testamento, mangiare sangue raggrumato, sangue di un animale strangolato; perciò, quando si immolavano gli animali, il sangue veniva libato, per dire alla divinità: diamo atto del fatto che queste forze di amore appartengono a te, te le ridiamo. L’Iliade e l’Odissea sarebbero inconcepibili senza queste libazioni di sangue degli animali.
Allora: fisiologicamente l’amore crea forze di etere, eterizzando il sangue; l’egoismo, soffocando il sangue dentro il corpo, si proibisce di immettere forze di calore, di amore, forze eteriche che vitalizzano la Terra e l’umanità, e le rinchiude tutte nel corpo.
Il vangelo ti pone anche questi misteri fisiologici in immagini, e tu vedi questi due alberi come i due alberi del paradiso: l’albero della vita e l’albero della morte. L’albero della vita, dove il Cristo muore dando tutto il suo amore, crea questa aura di forze di amore perché il suo sangue viene eterizzato.
Questi sono eventi, processi fisiologici di cui la medicina o la scienza di oggi non hanno la minima idea, perché quando la materia sparisce si parla di energia, ma si usa il concetto di energia per tutti i fenomeni che esistono. Invece Steiner dice: qui è un’energia ben particolare dove il sangue, grazie alle forze dell’amore, viene versato e si eterizza. Allora io mi dico che qui c’è un modo, anche di affrontare i processi fisiologici, molto più scientifico, molto più specifico, rispetto a quello che, quando non c’è più nulla da percepire, parla indistintamente di energia, energia, energia. Giuda si impicca: il suo sangue si raggruma, c’è il rifiuto di far fluire l’amore nella Terra. Sono immagini che il vangelo ci dà, ma hanno il loro risvolto fisiologico chiaro.
L’evento Cristo ha tutti gli aspetti: di fisica pura, di fisiologia, di biologia, di geologia. C’è tutto e non manca nulla. Se fosse carente andremmo a cercare qualcosa di meglio. Quindi la medicina, la fisiologia, avranno tutto da imparare dal vangelo, quando saremo al livello di poterlo vedere a tutti i livelli.
Giovedì 28 agosto 2003, sera
vv. 11,20 – 11,31
Dunque, avevamo letto: 11,17 “Gesù, venendo, trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro”. Se tutto ciò che è fattore di evoluzione nel tempo va capito usando il 7, fino a 3 e mezzo c’è l’andata, poi c’è la soglia, un’inversione di marcia, poi c’è la seconda metà del 4, poi ci sono il 5, 6 e 7. Ora, a 3 e mezzo, Lazzaro è nel sepolcro, il che significa che l’andata è sempre un livello di coscienza dormiente, un livello di coscienza inferiore – sepolcro – rispetto alla seconda metà; perché se la seconda metà fosse più sepolta della prima, l’evoluzione invece di andare avanti andrebbe indietro. Ogni seconda metà è un risveglio rispetto alla prima e quindi la prima metà, paragonata alla seconda, è tomba, è una specie di morte, per permettere alla seconda metà di passare di grado e diventare un’esperienza di resurrezione.
11,18 “Betania era vicina a Gerusalemme” con una vicinanza non soltanto spaziale, ma anche temporale, di vicinanza evolutiva, del tipo del numero 15, “con la cifra evolutiva del 15”: il 15 è la metà dei giorni del ciclo lunare, se si considera il rapporto della Luna non soltanto nei confronti della Terra, che è di 28 giorni, ma anche del Sole («30 giorni ha novembre, con april giugno e settembre, di 28 ce n’è uno, tutti gli altri ne han 31»). Considerando tutti e tre gli astri – Sole, Luna e Terra – il ciclo medio della Luna è di 30 giorni, e da sempre si parla del 30 (anche nella spina dorsale le vertebre sono 30, o 31 contando anche l’osso coccigeo). Di queste cose abbiamo parlato soprattutto a proposito dell’Odissea[8]. Poi ci siamo detti che il 15 è l’elemento più importante, in quanto numero quantitativo ma molto di più in quanto numero qualitativo; quindi le traduzione che traspongono il puro quantitativo di spazio geografico e dicono 2 miglia anziché 15 stadi, buttando via il 15, fanno fuori la cosa più importante che è il 15 qualitativo. 11,19 “Molti dei giudei sono venuti, venivano da Marta e da Maria per piangere con loro circa il fratello”.
11,20 Marta come sentì che Gesù viene, gli andò incontro; Maria invece sedeva in casa.
Marta sono le forze dell’anima che escono fuori dall’interiorità e vanno verso il mondo, le forze di interazione con il mondo esterno; Maria sono le forze di interiorità, e resta in casa. La casa, il tempio e ogni ricettacolo fisico hanno sempre come primo significato il corpo: restare in casa, essere nel tempio, significa sempre essere concentrati nell’interiorità. Questo primo inizio di distinzione fra ciò che fa Marta e ciò che fa Maria ci caratterizza subito la natura diversa, in un certo senso polare, del tipo di anima di Marta e del tipo di anima di Maria. Infatti ci si può chiedere: perché non vanno insieme, come mai l’una va incontro al Cristo e l’altra resta in casa? Sono due forze dell’anima diverse, in un certo senso polari: una va verso l’esterno, l’altra resta nell’interiorità.
11,21 Disse Marta allora a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui non sarebbe morto mio fratello!»
Marta continua ad esprimere che tipo di anima è, prima di tutto con il convincimento che il fratello sia morto. Questo significa che, poveretta, con tutta la buona volontà non ha capito nulla di ciò che sta avvenendo. Se lo sapesse non sarebbe rappresentante di una forza animica, ma dello spirito, e allora sarebbe un Lazzaro; ma essendo una forza dell’anima, non comprende più di tanto i misteri dello spirito. Però il Cristo è venuto per trasformare tutto ciò che è animico in elemento spirituale e quindi aiuta Marta, le dà i primi elementi per capire e le dice: no, tuo fratello non è morto perché l’Io-sono, l’Essere del Sole, è la vita, porta la vita, quindi dove opera il Cristo non avviene la morte ma la vita.
Marta manifesta il suo materialismo dicendo “se tu fossi stato qui”, intendendo fisicamente, perché lei non sa che il Cristo è stato lì tutto il tempo, spiritualmente. Tutte le espressioni di Marta ci fanno capire che è il tipo di anima inserita nella realtà visibile e percepibile del mondo e coglie anche lo spirituale ma soltanto attraverso la porta di ciò che è percepibile ai sensi, di ciò che ha un correlato diretto col mondo fisico, con il mondo della percezione.
Consideriamo più da vicino quello che Marta sta dicendo: “Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. Lei parte sparata, convinta, dice una cosa enorme: se tu fossi stato qui, io ne sono convinta, mio fratello non sarebbe morto. Come arriva Marta a fare questa affermazione? Deve in qualche modo aver fatto l’esperienza, accompagnando il fratello che moriva, che Lazzaro è morto di struggimento verso il Cristo. Lei ha pensato che era perché il Cristo non c’era, però di certo ha percepito, ha vissuto che è morto in base al suo rapporto col Cristo, è morto di crepacuore, è morto di desiderio di vederlo, in un modo tale che se il Cristo fosse stato lì lui non sarebbe morto. Quindi è morto perché Cristo non c’era. Bello! bello perché allora l’anima comincia a capire che senza il Cristo non si vive, si muore. Come arriva Marta a fare questa affermazione: “Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”.Come ha visto la morte di questo fratello, per arrivare a dire che è morto perché il Cristo non c’era? Deve aver avvertito di sicuro il vero rapporto, il più intimo e più vitale che si possa immaginare, tra suo fratello e il Cristo. Soltanto le manca la percezione del lato spirituale di ciò che è avvenuto, degli eventi immani che sono intercorsi in quei giorni.
11,22 «Però io so tutt’ora che qualsiasi cosa tu chieda a Dio, il Dio te la darà».
Per Dio intende il Padre. Quindi Marta ha una concezione molto alta del Cristo. Teniamo presente che in quanto donna, cioè non identificabile con Lazzaro, tutti i suoi concetti sul Cristo se li è fatti soprattutto in base a quello che il fratello le diceva. Ora, che esperienza ha fatto Lazzaro del Cristo? Era il discepolo più evoluto di tutti che il Cristo, presente o non presente fisicamente, questo non importa, ha accompagnato per tutto il cammino iniziatico; e se il Cristo lo ama, vuol dire che il rapporto spirituale tra Lazzaro e il Cristo è il più intimo che si possa immaginare. Dobbiamo inoltre presupporre che tutti e tre gli anni di rapporto col Cristo siano serviti per completare il cammino iniziatico che l’ha portato alla conclusione dei tre giorni in cui avviene l’atto finale dell’iniziazione vera e propria. Quindi Lazzaro è la persona che conosce il Cristo meglio di tutti, già da tempo.
Questa conoscenza intima che Lazzaro ha del Cristo, l’ha comunicata in qualche modo alle due sorelle, a seconda della capacità loro di recepirla. Quindi tutte le affermazioni di Marta, i suoi convincimenti, provengono di sicuro da ciò che Lazzaro ha riferito circa il Cristo; e Lazzaro le deve aver detto anche: quello è Colui che, qualsiasi cosa chieda al Padre, il Padre gliela dà. Questo concetto è il concetto del Messia: soltanto il Messia è così vicino a Dio da ottenere tutto ciò che chiede, perché chiede soltanto le cose giuste.
11,23 Gesù le dice: «Tuo fratello risorgerà».
Tuo fratello non è morto per restare morto, ma è passato attraverso la morte come porta che apre ad una resurrezione: il senso della morte è la resurrezione. Il Cristo introduce il concetto di resurrezione, del risorgere.
11,24 Dice a lui Marta: «So che risorgerà alla resurrezione nell’ultimo giorno».
Nel giudaismo, di allora come di oggi, c’è il concetto della resurrezione che avverrà all’ultimo giorno, quando la storia finirà: il Messia verrà quando sarà finita l’evoluzione, perché non si può andare oltre, o meglio, del Messia. Per il giudaismo la venuta del Messia e la fine dei tempi sono una cosa sola. Quindi per Marta è scontato che il Messia verrà alla fine dei tempi, verrà per far risorgere tutti gli esseri umani nell’eone nuovo, quindi nell’ultimo giorno.
Che tipo di fraintendimento c’è in questo concetto di Marta dell’ultimo giorno, della fine dei tempi? “La fine dei tempi” è una categoria usata anche nei vangeli: ma va posta alla fine dell’evoluzione o alla metà? Questo concetto è stato, come dire, sfasato, perché da una realtà qualitativa è stato trasformato in senso quantitativo. Invece il concetto ebraico e il concetto greco non dicono “la fine dei tempi” ma “i tempi sono compiuti”, e la compiutezza del tempo non è la sua fine. “Il tempo è compiuto”, “l’ora è venuta”, significa che il tempo durante il quale si è aspettata una cosa si è compiuto.
Quindi il concetto biblico è il concetto di pienezza dei tempi e non di fine: il tempo è pieno non quando l’evoluzione è finita, ma quando non manca più nessuna condizione per l’evoluzione della libertà, quando ci sono tutte le potenzialità, tutto ciò che è necessario come strumento per l’esercizio della libertà. I tempi saranno compiuti, quelli in cui comincia la libertà umana, quando gli uomini non potranno più lamentarsi che manca ancora qualcosa.
Non avendo capito che la completezza dei tempi viene col Cristo a metà dell’evoluzione, la si è spostata alla fine; di conseguenza anche il concetto della venuta del Messia, nel giudaismo di allora e di oggi, e anche in tanta teologia, è spostato alla fine dei tempi. Però la fine è una categoria quantitativa. E allora Marta dice: “Sì, lo so che alla fine tutti risorgeranno: alla fine dei tempi, quando verrà il Messia”. Invece il Messia ce l’ha lì davanti!
Il Messia ce l’ha davanti nel momento in cui il tempo di preparazione è compiuto, questo è il concetto: il tempo di preparazione è compiuto, c’è la pienezza di tutto ciò che andava preparato. È come in pedagogia per l’educazione del bambino: l’educazione prima o poi finisce, ma quando finisce non è finita l’evoluzione di lui, si è bensì compiuta la preparazione all’autonomia. Poi tocca al ragazzo, o alla ragazza, che ora hanno in mano tutti gli strumenti per cominciare a gestirsi da soli. Questo è il concetto di completezza.
Nel decorso del tempo la completezza avviene a metà, dove finisce la gestione dal di fuori e comincia la gestione dal di dentro. Fraintendendo profondamente sia il concetto della venuta del Messia sia il concetto della completezza dei tempi, spostando cioè tutto alla fine, si è vanificato l’enorme peso morale della svolta che avviene a metà. E allora Marta dice sì, sì lo so che alla fine dei tempi, quando il Messia verrà, ci sarà la resurrezione, si risorgerà a una nuova dimensione. Ne ha un concetto molto astratto: l’ultimo giorno, alla fine, molto lontano da ora. Questa resurrezione sta avvenendo adesso, in questi tre giorni e mezzo con Lazzaro suo fratello, lei invece la catapulta molto lontano, alla fine, all’ultimo giorno.
Cosa fa il Cristo per aiutarla? La confronta con i misteri della svolta dell’evoluzione nel centro dell’evoluzione: lei non ha la minima idea di ciò che sta avvenendo, ma nella sua fantasia, nelle sue rappresentazioni, comunque se lo immagina. Solo che catapultando la resurrezione alla fine dei tempi, per lei, ora come ora, non c’è nulla.
11,25 Disse a lei Gesù: «Io sono la resurrezione e la vita. Colui che crede in me anche se muore vivrà»
“Io sono la resurrezione e la vita”. Proprio Marta, neanche Maria, Marta è ricettrice di una delle 7 parole più belle del vangelo di Giovanni (le 7 volte in cui il Cristo dice di sé “Io sono”: Io sono la porta, Io sono il pastore ecc.). “Io sono la resurrezione e la vita” viene detto a Marta.
Prima cosa: a un livello più modesto lei ha appena detto “alla fine dei tempi” e Lui invece dice “Io sono la resurrezione e la vita” qui, perché Lui è qui. Per lo meno il Cristo l’aiuta, e quanto lei capisca non importa. Siccome ha fiducia in Lui, comunque lei capisce questo: vieni via dalla fine dei tempi, è una cosa che non ha nulla a che fare con me, che ora sto parlando a te, qui e ora. Io sono la resurrezione e la vita! Marta deve aver pensato: allora la resurrezione è qualcosa che non c’è soltanto alla fine dei tempi, se Lui mi dice: Io sono la resurrezione e la vita. Marta è riportata al qui e ora, al presente.
A parte quello che Marta ci capisce, cosa possiamo capire noi, soprattutto godendo, pieni di gratitudine, dei primi inizi di una scienza dello spirito? Che l’esperienza dell’Io-sono è l’esperienza cristica, che nessun essere umano può fare l’esperienza di essere un Io creatore senza cristificarsi. Quindi l’Io è la presenza di Cristo in ogni essere umano. Nella misura in cui ogni essere umano dice a se stesso “Io sono”, non con un gesto di arroganza ma con amore e responsabilità, sentendosi come un Io-sono individuale, creatore, responsabile in proprio del corso dell’umanità e dei suoi destini, nella stessa misura fa l’esperienza della presenza del Cristo in sé, dell’Io-sono. E si fa l’esperienza che questo tipo di creatività dello spirito, di creatività e moralità dell’Io, non può morire quando il corpo perisce perché è una realtà spirituale che vive in eterno.
Io-sono: l’esperienza dell’Io cristico, l’esperienza di essere un Io individuale spirituale, uno spirito eterno, è nell’essere umano la forza di risorgere nella morte e di vivere oltre la morte. “Io sono la resurrezione e la vita”: quando il tuo corpo muore tu risorgi e vivi; quindi cristificarsi significa per gli uomini diventare sempre più un Io individuale, cosciente, autocosciente, creatore. Allora l’uomo non soltanto obbedisce o si sottomette alle leggi, ma oltre a osservare le leggi crea anche qualcosa di proprio, assume le responsabilità dei suoi atti, è un Io che prende su di sé volentieri le conseguenze e si mette ad amare più che può tutti gli esseri umani e tutte le creature. A questo tipo di essere spirituale individualizzato, il fatto che il corpo muoia non fa nulla: l’esperienza del Cristo in me è l’esperienza di essere immortale.
“Io sono la vita”: dov’è la vita? L’Io passa per la soglia della morte, risorge e vive nel mondo spirituale come essere spirituale, in compagnia di tanti altri esseri spirituali. Per fare questa esperienza di resurrezione e di vita anche giornalmente, in ogni morte, occorre il presupposto dell’esperienza dell’Io-sono. Finché un essere umano si identifica con un “noi”, per esempio, quando muore il suo corpo non resta nulla di individualizzato e quindi non può dire di risorgere; soltanto lo spirito individualizzato è eterno, non l’animico comune. L’animico muore con il corpo perché l’animico dipende dal corpo, invece ciò che è spirituale non dipende dal corpo.
Questa è una delle differenze più fondamentali tra anima e spirito: tutto ciò che è animico dipende molto più dal corpo, tutto ciò che è spirituale ne diventa sempre più indipendente. Una rappresentazione dipende dal corpo perché è un fattore animico; un concetto non dipende dal corpo perché è un fattore spirituale, è una piccola creazione spirituale.
“Io sono la resurrezione e la vita. Colui che crede in me anche se muore vivrà”: è una variazione della prima frase. Colui che crede in me significa: colui che acquista fiducia senza farsi intimorire da anime di gruppo (di chiesa, di stato, ecc.) colui che dà fiducia all’Io, colui che coglie il peso morale di essere un Io creatore e responsabile, colui che dà fiducia all’Io in ogni essere umano, colui che favorisce il Cristo, l’Io-sono in ogni essere umano, costui, anche se il corpo muore, vivrà, perché morire è una faccenda del corpo ma non dello spirito. Questo credere, questo aver fiducia, questo rapportarsi nella fiducia, è però riferito all’Io, all’Io-sono.
Il cristianesimo tradizionale, che era un cristianesimo di primo inizio, riferisce questo Io al Cristo, giustamente; però questa prima interpretazione è quella di un Cristo che è fuori dell’uomo, e l’esperienza di un Io che sia esterno è una contraddizione. Se il Cristo si chiama Io-sono, l’esperienza del Cristo non può essere che un’interiorizzazione della sua forza. Così ha ragione Paolo quando dice: non io, ma il Cristo in me. Non fuori di me.
Il cristianesimo dei primi 2.000 anni ha poi continuato una gestione religiosa dell’uomo dal di fuori, perché non c’erano ancora i presupposti per questo salto qualitativo: il Padreterno è fuori, Cristo è fuori e lo veneri, la Madonna è fuori, la chiesa è fuori… Il concetto di una conduzione a partire dall’Io finora non c’è stata. La prima matrice di interpretazione del cristianesimo in cui l’Io del Cristo diventa una categoria puramente immanente all’essere umano è la scienza dello spirito di Rudolf Steiner, in modo particolare ne La filosofia della libertà. Questo è il testo fondamentale per capire il vangelo di Giovanni: i due testi parlano lo stesso linguaggio.
Lo dico in un altro modo: il Cristo dice “Io sono la resurrezione e la vita”; ora, se questo Io-sono è fuori di me, la resurrezione e la vita è in Lui ma non in me, e allora a che mi serve? O questo Io diventa il mio Io, e allora vivo in me la resurrezione e la vita, o Lui è la resurrezione e la vita ma io no, e allora non mi serve.
La categoria dell’Io – gli idealisti tedeschi lo dicevano – è una categoria assolutamente immanente perché è l’essenza dell’uma-no; messa in termini di Dio è assurdo, è una contraddizione. “Io sono la resurrezione e la vita” è stato di nuovo interpretato come una sottomissione al Cristo, come una dipendenza dal Cristo; ma già nell’Antico Testamento, nell’evoluzione prima di Cristo, la divinità conduceva l’umano dal di fuori, e allora Cristo non avrebbe portato nulla di nuovo. Nuova è l’interiorizzazione del divino, il divino diventa l’Io del mio io; Cristo diventa la sostanza del mio io, Cristo in me. Se Cristo resta fuori di me vuol dire che è venuto a perpetuare l’alienazione del destino umano.
Se si ha il coraggio di pensare sino in fondo le cose, ci si rende conto dell’assurdità di sostenere che il Cristo è fuori di noi, ci si rende conto che il cristianesimo tradizionale ha veramente bisogno di un salto qualitativo se vuol continuare a vivere. Steiner insiste sul fatto che il vangelo di Giovanni è l’unico nel quale il nome esoterico di Cristo è duplice:
1) il primo nome del Cristo è Logos, LÒgoj, la totalità dei pensieri, la totalità del senso, la totalità della ragione, la totalità della sapienza del cosmo. Logos è la prima parte de La filosofia della libertà, è il monismo dei pensieri;
2) l’altro nome del Cristo è Io Sono, ‘Egè e„mi (egò eimì): in italiano, per capirci psicologicamente, andrebbe completato dicendo: io sono un Io. Logos significa che, in fatto di pensiero, tendiamo a un monismo, cioè ad essere concordi sul contenuto per tutti oggettivo del cosmo, mentre il mistero dell’Io-sono è il mistero dell’individualismo etico: in fatto di operatività, di morale, ognuno deve dare un contributo suo specifico, unico, altrimenti ci sarebbe un appiattimento, un’uniformazione degli esseri umani. Cristo dentro di me compie, in quanto io sono un Io, tutt’altre cose di quelle che compie nell’umanità, e proprio questa multiformità e molteplicità fa la bellezza e la ricchezza dell’umanità. Il Cristo in me, il Cristo in te, di volta in volta ha doni sempre nuovi e diversi da dare all’umanità, così come la forza vitale dell’orga-nismo ha nel rene, o nel polmone, o nel cuore, di volta in volta un contributo specifico, individuale. Ed è proprio questo che fa un organismo, altrimenti non sarebbe un organismo ma una cosa uniforme.
11,26 «e ognuno che vive e che crede in me non morrà nell’eone successivo. Credi ciò?»
Ognuno che vive e crede nell’Io-sono, ognuno che fa l’esperienza della vita e della fiducia che si è chiamati a dare all’Io, all’io sono un Io, all’Io unico, al Cristo diverso in ogni persona, ciascun vivente e credente in me non morirà nella vita dopo la morte, ma continuerà a vivere, anzi rivivrà proprio nel morire del corpo fisico.
Terminata questa catechizzazione di Marta, che è veramente un concentrato poderoso perché si riferisce al cuore del mistero umano, le chiede: “Credi ciò?”. Il credere (l’abbiamo detto tante volte) non ha il significato di credere in senso intellettuale, altrimenti sarebbe una domanda banale, proprio banale. Il senso della domanda del Cristo – pisteÚeij toàto (pistèueis tùto), credi ciò? – è: queste parole ti infondono fiducia? Cioè: Marta, guardati dentro, ascolta l’eco interiore di queste parole. Hai l’impressione che suscitino in te fiducia? Devi guardarti dentro! Non credere soltanto perché l’ho detto io, non credere all’altro semplicemente perché l’altro lo dice, perché allora resti dipendente; credi soltanto a ciò che ti convince, nel senso che ti dà fiducia. La fiducia ti sorge in base all’eco, nel tuo essere, delle parole che io ho detto. Perciò guardati dentro: come ti risuona questo fatto, senti una certa fiducia? Ecco, questa forse sarebbe la traduzione migliore: “Queste parole ti infondono fiducia?”.
Ponendo questa domanda il Cristo la porta via dal Cristo quale istanza esterna, e la riconduce a se stessa: se queste parole ti infondono fiducia, allora la fiducia fa parte di te; se non ti infondono fiducia è inutile che ci credi, perché restano una cosa esterna a te. Questa domanda del Cristo non è una domanda retorica, ma è di una pedagogia finissima, profondissima. Lei, che è tutta proiettata verso l’esterno, dà fiducia semplicemente alle parole di Lui e il Cristo le dice: guardati dentro, che eco suscitano queste parole in te? Ti infondono fiducia? Hai un sentimento di fiducia che però sia tuo? Credi ciò? Se sì, allora ti appartiene, è valido, la tua è una vera fiducia perché è tua, non perché te lo dice un altro. Se sarai dipendente non sarai autonoma; l’inizio della autonomia è di guardarsi dentro e di dar fiducia a ciò che è dentro.
Supponiamo che Marta dica: “Sì, sento fiducia!”. È troppo poco? No, non è troppo poco, perché il cuore è infallibile, è il cuore l’inizio della fiducia! L’inizio della fiducia è quando certe parole mi toccano il cuore, perché vuol dire che sono giuste per me, e più fiducia non esiste! Vuol dire che mi fanno bene, e lì non si scappa! Quindi la fiducia non sorge in base a un convincimento intellettuale, ma è la percezione del cuore che dice: questa cosa mi fa bene, è giusta per me. Non ci può essere un’esperienza più convincente di questa.
È poi compito della mente aggiungere consapevolezza, portare a un livello conscio, alla dimensione conoscitiva questa fiducia del cuore. Però in quanto fiducia non viene aumentata dalla mente: la fiducia del cuore non è aumentabile perché è infallibile! Il cuore dell’uomo è creato in modo tale che sa ciò che gli fa bene e sa ciò che gli fa male; è l’organo infallibile di una mamma col bambino piccolo, che sa non perché ha studiato libri ma per la forza del cuore.
Se questa fosse una domanda intellettuale sarebbe assurda perché il Cristo si sta rivolgendo a Marta che non è una persona di testa, ma solo di cuore! Queste parole ti suscitano fiducia? Vediamo la risposta.
11,27 Dice a lui: «Sì Signore, io ho fiducia che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che viene nel mondo».
Sì, o Signore, io ho fiducia, ho sentito fiducia, continuo a sentire
fiducia che tu sei il Cristo! Accipicchia, lei ha veduto subito il Cristo, il Messia! È l’infallibilità del cuore: dritta al bersaglio, centro! Risponde dando categorie che esulano di gran lunga da ciò che era accessibile a tutta la batteria dei capi religiosi di allora: “Tu sei il Messia, il Figlio di Dio che viene nel cosmo”.
Mi fa pensare, in un certo senso, alla fede di mia mamma, e di sicuro anche molti di voi penseranno ai propri genitori o ai propri nonni, che provavano una fede simile, che era una certezza, ma più che certezza era fiducia assoluta del cuore. “Ma come, voialtri non avete nulla, neanche polenta abbastanza, come avete fatto a mettere al mondo 10 figli?”. In diversi dicevano questo a mia madre e lei rispondeva: “Cristo è il Signore di tutto, e tu pensi che il Cristo non è capace di occuparsi di 10 figli!?” e li metteva a tacere. Lei sapeva! Se il Cristo si occupa di tutta l’umanità, sarà ben capace di far campare 10 figli! È la certezza assoluta del cuore, è un’arte, esperienza della vita! E difatti aveva ragione: siamo campati tutti!
Nel testo adesso ognuno può trovare tesori sempre nuovi. Le cose che si possono dire sono tante, il nostro è un balbettio, si limita alle cose più importanti.
11,28 Dopo aver detto ciò se ne andò e chiamò Maria sua sorella, dicendole di nascosto: «Il Maestro è qui e ti chiama».
Parla in modo da non essere udita dagli altri. Ma sta dicendo a Maria una bugia? Il Cristo mica ha detto “vammi a chiamare Maria”, dunque se l’è inventato lei? No, questa è un’intuizione del suo cuore; Marta è colei che poco fa ha azzeccato così bene, ha colto nel segno che Lui è il Cristo, il Figlio di Dio che viene nel mondo; e ora non sta dicendo a Maria che Lui ha espresso con la sua voce fisica il desiderio di vederla, ma dice: ti chiama, ti chiama sovrasensibilmente.
Intervento: Perché “di nascosto”?
Archiati: Per non far sentire ai farisei e ai giudei che erano presenti. In greco c’è “dicendo di nascosto”, “dicendo piano”. Da un punto di vista semplice, diciamo superficiale, teniamo presente che loro stanno cercando il Cristo per lapidarlo, per metterlo a morte.
Intervento: Ma Marta ha appena detto “tu sei il Cristo”!
Archiati: L’ha detto a Lui quand’era laggiù con Lui. No, sta attenta, se i giudei sentono che il Cristo è qui lo mandano a morte! Lei vuol tenere nascosto il Gesù di Nazareth, il Cristo non ha bisogno di essere nascosto.
11,29 Quella come sentì si alzò veloce e andò verso di lui.
Maria si alzò veloce e andò al Cristo. L’inserimento nel mondo corporeo porta l’elemento animico verso il Cristo; senza il mondo corporeo, che è base e intermediario, Maria stessa non andrebbe al Cristo. Quindi è Marta che fa da tramite e porta Maria al Cristo. È tutto il mondo reale, l’interazione con il mondo, a portare la nostra anima-Maria al Cristo, all’esperienza sempre più piena dell’Io. E quando Maria viene condotta da Marta, quando l’essere umano dà fiducia al mondo fisico (che è quello che gli dà tutti gli impulsi per la sua evoluzione), l’evoluzione avviene veloce! Infatti Maria andò velocemente, perché ci va con Marta. Se non ci fosse il tramite di Marta, Maria resterebbe nella casa; questa mediazione è proprio un gesto di grande rivalutazione (se ce ne fosse bisogno) del mondo fisico, del mondo corporeo.
11,30 Gesù non era ancora entrato nel villaggio, era ancora nel luogo dove l’aveva incontrato Marta.
In altre parole, Marta è andata incontro al Cristo e nell’incontro le sono stati rivelati i misteri dell’Io-sono, la resurrezione e la vita; il Cristo è fermo lì. Cioè il Cristo va incontrato: Maria incontra il Cristo là dove l’ha incontrato Marta, non più avanti né più indietro, nell’evoluzione. L’anima incontra il Cristo là dove il corporeo si rivolge allo spirito: il corporeo si fa strumento per l’evoluzione dello spirito e trascina anche l’anima verso lo spirito.
11,31 I Giudei che erano con lei nella casa e che piangevano con lei, vedendo che Maria velocemente si alzava e usciva, la seguirono pensando che andasse al sepolcro per piangere là.
I giudei che erano presenti si alzano per andare al sepolcro a piangere anche loro con lei. Marta sta conducendo Maria verso le forze totali di risurrezione e di vita, i giudei credono di accompagnare Maria verso le forze di morte al sepolcro! Là dove c’è l’Essere della vita, l’uomo cieco che vede soltanto la realtà del mondo materiale vede soltanto un mondo di morte! La scienza moderna è proprio l’esecuzione di questo gesto: l’umanità, anziché andare incontro al Cristo che ritorna risorto, che è proprio “Io sono la resurrezione e la vita”, è andata a finire al cimitero, alla tomba!
L’umanità moderna, negli ultimi 400-500 anni, ha trovato soltanto la tomba del morto, ciò che è morto, conosce soltanto la materia: lo spirito è come se fosse nessuna realtà. È come se l’umanità andasse al sepolcro, alle pietre morte del sepolcro per piangere Lazzaro morto, ignorando e non vedendo la presenza del Cristo che è la resurrezione e la vita. Questi giudei che vanno a piangere al sepolcro sono l’umanità moderna, e invece Marta sta conducendo l’anima umana alla sorgente della resurrezione e della vita.
Sono immagini molto belle, vanno applicate alla vita dell’umanità, anche alla situazione attuale. In questa polarità: il sepolcro sono le pietre morte, le pietre fuori, il sepolcro è la morte dell’anima che perciò piange; la gioia è la vita dell’anima, e l’anima gioisce quando si apre allo spirito. Quando l’anima si chiude nella materia vede soltanto pietre e piange. Quindi il sepolcro è la morte del mondo esterno e le lacrime sono la morte dell’anima.
Noi abbiamo oggi un’umanità che ha ridotto il mondo a un sepolcro, vede soltanto il sepolcro, il morto, e soffre, piange perché anche l’essere umano è morto, Lazzaro è morto. Sepolcro e lacrime: mondo corporeo morto e anima triste, perché non ha più lo spirito, non trova lo spirito. Il vangelo, quando le cose diventano profonde, preferisce usare immagini anziché concetti; e proprio perché sono immagini diventano inesauribili, ci si può vivere meditandoci sopra, senza farci una teoria. Qui bisogna cogliere queste polarità: la tomba, il mondo esterno, il pianto.
Intervento: Pietro scusa, non mi quadra molto Marta-corporeo e Maria-animico. Allora ho pensato quest’altra cosa: Marta-anima senziente, Maria-anima razionale e Lazzaro-anima cosciente. L’anima senziente si rivolge all’anima razionale. Il Cristo si rivolge prima all’anima senziente (Marta), che è quella con le forze del cuore, e la può spostare in alto, verso l’anima razionale (Maria). L’anima razionale da sola non può capire, quindi le lacrime sono dovute anche al fatto della limitatezza del capire. Lazzaro è l’anima cosciente. È un’interpretazione così, però Marta come corporeo non mi entra, non riesco a capire.
Intervento: Vorrei aggiungere che Marta va incontro al Signore e lo avvicina, quindi rappresentando il corporeo dovrebbe utilizzare le percezioni fisiche, mentre tu dicevi che sono forze del cuore, quindi forze dell’amore.
Archiati: È l’amore naturale; quando dico corporeo intendo dire ciò che la natura dà, senza un cammino specifico interiore dell’anima.
Metto insieme tutte e due gli interventi: nel testo ognuno deve trovare ciò che gli serve. Però stando al testo! Già è difficile tradurre, poi il testo dà delle categorie di base, che possono essere concetti o immagini. Io-sono è un concetto o è un’immagine? Resurrezione è un concetto o è un’immagine? Io sono la vita è un concetto o è un’immagine? Ci sono anche delle cose che sono chiaramente immagini, ad esempio la tomba: non è un concetto ma è una percezione.
Si tratta di non fermarsi al puro fatto storico (c’erano due sorelle, una è andata al sepolcro, una è rimasta in casa, poi la prima ha chiamato l’altra ecc.), al livello storico che c’è, sì, però non ci basta! A noi serve cogliere in questo racconto ciò che è di validità universale umana per tutti i tempi! Perché se non avesse anche una validità universale, il vangelo di Giovanni non avrebbe raccontato l’archetipo dell’umano: il senso del vangelo di Giovanni è proprio di raccontare questo. Nel trapasso tra ciò che è storico e ciò che è universalmente umano c’è come un salto mortale: da qualcosa di ben preciso che viene descritto – lo storico – si passa a un’immensità di cose! L’umano è infinito!
Ognuno deve, non solo ha il diritto ma deve, trovare ciò che serve a lui: l’importante è che non contraddica il testo, che convinca se stesso (e magari anche gli altri) e basta! Se uno mi porta un’interpretazione, una dimensione delle lacrime che con le lacrime non ha nulla a che fare – le lacrime sono l’espressione di un’esperienza interiore dell’anima – allora gli dico: guarda che quello che stai dicendo sulle lacrime forse non c’entra nulla.
Se tu mi porti la categoria “anima senziente” a proposito di Marta, l’unica mia preoccupazione è chiedermi: quanti antroposofi collaudati ci sono qui in sala? Tutti i presenti hanno una minima idea dell’anima senziente, sanno che c’è per lo meno tantissimo in comune tra Marta e l’anima senziente (e questo va benissimo!)? Però tu dici anche “Marta è l’anima senziente e non l’anima razionale”, e allora cominci a vivisezionare cose che invece sono molto più sfumate, molto più complesse. A dieci anni l’essere umano è ancora un bambino o è già un adulto? Vuoi spaccare in due ciò che non può essere spaccato in due.
Avere in mano solo uno schemino non ti porta a nulla: lo scopo dello schema è di aiutarti, di darti un parametro di riferimento per mietere una ricchezza di cose che veramente ti portino avanti. Nella misura in cui veramente arricchisce te, convincerai anche gli altri. Però, se ti fermi soltanto alla nomenclatura (anima senziente, anima razionale) uno che non ha masticato 10, 20, 50 volumi di Steiner dice: ma di che sta parlando quella brava persona?!
C’è qualcuno qui che francamente vuol dirci: io non ho capito cosa siano l’anima senziente, l’anima razionale e l’anima cosciente”? (Silenzio) Allora hai ragione tu, sono tutti antroposofi qua in sala! Oppure può darsi che ci sia qualche timido, qua in sala!
A parte questo, io sto ad ascoltare ciò che mi dici oltre la terminologia, perché la terminologia da sola dice ben poco: Steiner almeno mille volte ha detto che l’antroposofo che sa soltanto la terminologia sarebbe meglio che non la sapesse, perché conosce parole vuote che andrebbero riempite di significato di volta in volta. Allora, io chiedo a te adesso – voglio metterti un po’ in difficoltà – cosa sono le lacrime? Bada che si tratta di giudei… andarono al sepolcro a piangere…Che ti vuol dire il testo con questa comunicazione: “a piangere”? Che di fronte alla morte conoscono soltanto il pianto, cioè conoscono soltanto il lato negativo della morte!
Intervento: Te la sei cavata! C’è anche un significato ….
Archiati: Ma sono infiniti i significati! L’importante è che ne tiri fuori uno che corrisponda alle lacrime, che faccia parte del piangere: poi ci potremo così dire che ci siamo un po’ più arricchiti. Tu hai detto: la categoria del corporeo per Marta non mi aiuta, non mi serve. Giustamente non hai detto: è sbagliata, ma “a me non serve” (e ne hai tutto il diritto! prendi le cose che ti servono!). Se tu invece parti in quarta dicendo che la categoria del corporeo è sbagliata, allora la cosa diventa difficile, perché di sicuro c’entra anche il corporeo: il corporeo c’entra ovunque si tratti di esseri umani!
Allora di che arte stiamo parlando? Stiamo dicendo sempre di nuovo che il Logos è un’arte di ricchezza, di un’infinità di sfumature. È l’opposto della povertà. Poveri sono gli schemini, la terminologia, ecco, questa è la differenza. Il Logos è la totalità dei pensieri degli Esseri creatori, come fai ad esaurirlo? Sbizzarriscitici!
Intervento: Maria va da Gesù e l’incontra là dove già Marta l’aveva incontrato…
Archiati: Perché Lui è rimasto là.
Intervento: Sì. Tu hai detto, se ho ben capito: il punto in cui il corporeo incontra l’anima è il punto d’incontro anche con lo spirito. Ho capito bene?
Archiati: No. Il punto in cui il corporeo incontra lo spirito è lo stesso punto in cui anche l’anima è condotta allo spirito. Cioè l’anima non può essere condotta all’esperienza dello spirito fuorché tramite la mediazione del corporeo; non in altri luoghi, o indipendentemente da ciò che il corporeo media, altrimenti è uno spirito disincarnato, non è uno spirito umano.
Intervento: Non si può prescindere dall’incarnazione.
Archiati: Non si può prescindere dall’incarnazione. E dopo la morte non ci si evolve ulteriormente perché manca l’elemento di incarnazione, manca l’elemento corporeo. Però nell’altro intervento un’altra persona ha appena detto che questa categoria del corporeo le crea più problemi di quanti ne risolva.
Intervento: Avevo sempre pensato che l’anima, proprio come essenza, fosse più vicina allo spirito che non il corpo, quindi mi sembrava più plausibile che ad avvicinarsi allo spirito fosse l’anima e non il corpo, anche se chiaramente l’anima riceve sempre la mediazione da parte del corpo. Insomma mi sembrava l’inverso.
Archiati: La tua riflessione è molto importante, perché da un lato è vera, giusta e da un altro è sbagliata. E cioè: l’anima umana raggiunge, trova lo spirito, soltanto nella percezione, mai fuori o senza la percezione; però è l’anima che trova lo spirito e in questo hai ragione. Ma non lo trova senza un riferimento di percezione. Siccome il corporeo è il mondo oggettivo (questo sta a dire il corporeo), nel momento in cui l’anima lascia il mondo oggettivo ha una pura goduria soggettiva interiore, dove gode se stessa ma non incontra lo spirito, incontra soltanto l’animico. Per incontrare lo spirito deve andare allo spirito incarnato, perché l’anima umana diventa nel corso dell’evoluzione capace di cogliere direttamente lo spirito puro.
Il concetto di evoluzione umana è quello di cogliere lo spirito, il Logos che si è fatto carne. Proprio questo è il punto: è un assunto fondamentale che il cristianesimo tradizionale non ha sinora veramente capito. Uno dei cardini della scienza dello spirito di Steiner è che ogni ricerca dello spirito, oltre ciò che adesso abbiamo chiamato corporeo (usate altre parole se volete), è pura astrazione, puro contenuto animico senza nulla di oggettivo spirituale: pura illusione! Prendiamo l’amore, che è una delle forze primigenie dell’anima, l’amore allo spirito: tu stai dicendo (se ben ti capisco) che può ben avvenire tra l’anima e lo spirito senza il corporeo. No, è un’illusione. Il Cristo ti dice: tu puoi amare lo spirito soltanto amando il tuo prossimo incarnato, altrimenti ti illudi di amarlo.
Intervento: Tra anima e corpo, qual è che percepisce prima lo spirito?
Archiati: Non c’è un prima né un dopo!
Intervento: Ho la sensazione che si tratti di livelli di intensità: l’anima, proprio per essere meno pesante della materia, dovrebbe essere più vicina allo spirito.
Archiati: No, l’anima senza lo spirito incarnato è molto più pesante perché è soltanto egoismo! L’anima che non cerca lo spirito nel mondo è pesantissima perché è puro autogodimento, quindi moralmente è pesantissima. Invece il mondo visibile è leggerissimo perché è intriso di luce dello spirito! Ma se un essere umano vuol cercare lo spirito oltre il mondo della percezione non trova nulla, proprio nulla!
Intervento: Illusione, quanto meno!
Archiati: Sì, ma illusione è un fattore animico, un’illusione è goduria animica, è autogodimento. Ti ripeto: questo è uno dei cardini, ma proprio uno dei cardini della scienza dello spirito di Steiner – oltre al fatto che per me è uno dei cardini dell’evento del Cristo, uno dei cardini del vangelo di Giovanni. Ritorniamo a monte: l’affermazione “il Logos si è fatto carne”, è un’afferma-zione parziale o totale?
Intervento: È totale.
Archiati: E allora trovi il Logos soltanto nella carne! Non ti dice: “Il Logos si è avvicinato alla carne” ma “è diventato carne”! O lo trovi dentro la carne o non ce l’hai! Il cristianesimo tradizionale è quindi più buddismo che cristianesimo, ha fatto misticismi che portano via il Logos, ci portano lontani dal Logos perché hanno disdegnato, in maniera abbastanza elevata, la carne del Logos.
Intervento: E tutta la mistica medioevale?
Archiati: La mistica medioevale era la ricerca del Cristo nell’uomo, del “Cristo in me”. Però Cristo in me significa Cristo incarnato nell’essere umano, che è uno spirito incarnato. L’uomo è uno spirito incarnato, mica si può cambiare questa cosa! Cristo fuori di me potrebbe essere un Cristo fuori dal mondo visibile, dal mondo della percezione, ma… “Cristo in me”! (Archiati indica sé) … vedete qualcosa, voi, o no? Spero di sì, eh! Quindi non dimenticate che quando dice “in me” significa dentro l’essere umano, e l’essere umano non è disincarnato, è spirito incarnato. Cristo in me significa spirito incarnato.
Intervento: E Paolo quando dice: “Non io ma il Cristo in me”?
Archiati: Sì: “non io” come pura goduria animica soggettiva, ma “il Cristo in me” che porta in me l’oggettività del cosmo, del mondo. Non l’io egoistico che disdegna il mondo, ma il Cristo in me che è l’essenza del mondo. Il Logos che cos’è? È l’Essenza delle cose. Delle cose, però!
Intervento: Dopo tanto tempo che seguo questa ricerca, ho l’impressione che se mia nonna fosse qui in questo momento farebbe molta fatica, pur essendo persona intuitiva e di cuore!
Archiati: Perciò è morta prima!
Intervento: Sì. Allora la domanda è: tutti gli individui, in qualche modo, per questa necessità evolutiva, sono tenuti a conoscere, non solo a sentire, la verità del Cristo? Perché sentire la verità del Cristo con il cuore credo che sia limitante e forse non formatore, rispetto alla completezza a cui deve arrivare l’individuo. È un percorso necessario quello di mettere insieme i 3 centri, i 9, i 12 centri dell’uomo, oppure… Mi va di intuire che sarà così, perché arrivare alla perfezione senz’altro significherà sviluppare tutte le qualità e le doti, i doni e i talenti di cui l’individuo è stato potenzialmente dotato.
Archiati: Quando le cose si ingarbugliano e diventano difficili, io dico sempre: c’è un espediente metodologico importante, ed è quello di lasciar da parte le teorie e di tornare alla percezione concreta dell’evoluzione che abbiamo sotto gli occhi, che comincia dall’embrione e va fino all’adulto, perché lì si ripete tutta l’evoluzione. Un bambino di 3 anni è pura anima, si gode tutto lui, non è ancora capace di oggettività ecc. ecc. Tu dici che quello stadio è il migliore che ci sia, o che c’è di meglio, che gli auguri di conquistare altri stadi? Dammi una risposta onesta a questa domanda. Perché non gli auguri di restare a quel livello?
Intervento: Perché si perde un bel po’.
Archiati: Cosa si perde? Si perde la comunanza umana perché è tutto chiuso in se stesso. Quando un essere umano, anche da adulto, è pura anima – pura anima significa che si gode tutto lui – tu non gli dici: fai male, ma gli dici: che peccato! non ti apri a nulla di oggettivo! È meglio aprirsi all’oggettivo perché ognuno di noi desidera che l’altro lo incontri per quello che è, e non che resti dentro di sé. In altre parole, l’amore è la capacità di oggettività, altrimenti amo solo me stesso.
Però l’oggettività si trova nel corporeo, nella percezione: la percezione è oggettiva, è uguale per tutti; finché abbiamo dei riferimenti di percezione abbiamo un mondo comune e oggettivo di riferimento. Qui abbiamo un testo, cos’è un testo? Percezione! Tutti abbiamo lo stesso testo. Togliete il mondo della percezione, cosa ci resta? L’isolamento soltanto, ognuno con la sua animuccia… e che ne so io dell’animuccia di un altro?
Sorge la comunione quando ci riferiamo insieme a qualcosa di oggettivo, e quello è il Logos, quello è amore. Siccome l’isola-mento costa di meno – e certi credono di godere di più – allora abbiamo tanti esseri che si godono la propria animuccia, ma sono scontenti perché fanno troppo poco l’esperienza che l’altro esca da sé e si occupi della loro oggettività. Se io faccio esperienza che sono per l’altro qualcosa di oggettivo e ricambio, allora sì che è amore! Però costa di più, bisogna fare un cammino di conoscenza.
Intervento: C’è un’altra frase del vangelo, che non ricordo perfettamente, ma il cui senso è: “toglierò ai sapienti e darò agli ignoranti”. Cosa significa?
Archiati: I sapienti erano quelli che avevano, diciamo, una sapienza del cuore, animica, data per grazia ricevuta. Invece sei ignorante quando incominci daccapo una conoscenza che ti devi conquistare interagendo con ciò che è oggettivo, te la devi conquistare con la libertà.
Intervento: In altre parole il cuore inganna!
Archiati: Può ingannare.
Intervento: Senza la conoscenza può ingannare.
Archiati: Esatto. Il cuore è la spada a doppio taglio dell’evolu-zione, lo posso usare per impoverirmi o per arricchirmi. È come dire che l’amore è duplice: se c’è soltanto amore di sé, mi impoverisce perché mi chiude; ma ci può essere sempre di più amore per l’altro. Ma l’amore per l’altro può esserci se non lo conosco nella sua oggettività?
Intervento: Io vorrei chiarire un dubbio riguardo all’anima: l’anima fa parte della creazione spirituale del Padre…
Archiati: Scusa se ti interrompo: cosa intendi per anima?
Intervento: L’anima dell’uomo.
Archiati: Sì, cos’è?
Intervento: L’uomo è fatto di corpo, di vita, di anima e di spirito. Intendo l’animico.
Archiati: Dai, vai avanti, ti ho fregato già in partenza, non era giusto!
Intervento: L’anima fa parte della creazione del Padre quindi è eterna; come mai hai detto che è peritura?
Archiati: Quello che tu chiami anima, difatti, è lo spirito dell’uo-mo: il quale, pure creato da Dio, è eterno. Il concetto di anima, se vogliamo forgiarlo un pochino più scientificamente, è ciò che sorge dentro di me, è il vissuto interiore in base all’interazione del mio corpo col mondo. Quando il mio corpo sparisce e non c’è più l’interazione del corpo col mondo, vengono a mancare tutti questi echi animici dentro di me; quindi questa sfera dell’anima scompare quando scompare il corpo. In altre parole, di ciò che tu chiami anima è perituro tutto ciò che viene causato dal corpo. Quando il corpo cessa di causare ciò che nell’anima viene dal corpo, questo animico cessa di essere.
Cosa resta allora dell’anima? Resta dell’anima ciò che è causato dallo spirito, per esempio la gioia della conoscenza. La gioia è animica, non è spirituale: se la conoscenza dipendesse in tutto e per tutto dal corpo, la gioia della conoscenza terminerebbe con la morte. Ma è possibile continuare la conoscenza nel mondo spirituale anche senza il corpo, dunque è possibile continuare ad avere gioia animica della conoscenza perché è una gioia causata dallo spirito e non dal corpo. Le cose oggi si complicano perché abbiamo a che fare in genere con esseri umani che vivono nell’anima quasi unicamente cose causate dal corpo; la maggior parte degli umani non sa neanche di cosa parli se accenni all’avere nell’io e nell’anima echi di qualcosa che è puramente spirituale. Allora, se nell’anima c’è quasi soltanto l’eco di ciò che il corpo provoca, cosa resta di quest’anima quando il corpo non c’è più? Quasi nulla (non dico nulla del tutto, ma quasi!).
Intervento: Sì, ma l’origine di questo sentire non è corporeo. Io sento qualcosa… le sensazioni, per esempio!
Archiati: Io ho sensazioni quando studio la scienza dello spirito e immagino di avere queste sensazioni anche dopo la morte. Dammi un esempio concreto.
Intervento: Le sensazioni di quello che vedo. Il dolore fisico.
Archiati: Quello che vedo dipende dal corpo in tutto e per tutto. Quando il corpo non c’è più, non c’è più dolore.
Intervento: E il dolore dei sentimenti?
Archiati: È il dolore animico. Per esempio muore un amico, ma dopo, nel mondo spirituale, questa sorgente del dolore non c’è più perché la morte è un fatto corporeo. Questo è il materialismo: se portiamo via l’origine corporea di tutto ciò che l’anima vive, resta quasi nulla!
Intervento: Siamo malmessi!
Archiati: Godiamo, che c’è abbastanza da fare! Però, sarebbe una bella cosa farlo!
Intervento: Che cosa fa vibrare lo spirito, come sento lo spirito?
Archiati: Lo spirito non si sente.
Intervento: Allora non esiste!
Archiati: No: l’anima si sente, lo spirito si pensa.
Intervento: Ma, quando sei morto, non hai più il cervello…
Archiati: Va’ piano. Hai il diritto di dire: io senza cervello non so pensare. Però parla per te.
Intervento: Tu sei andato a cercare un elemento sensorio per quanto riguarda l’anima, per quanto riguarda lo spirito che cosa cerchi?
Archiati: No. Se tu dici: io so per certezza che non è possibile pensare se non in dipendenza dal corpo, io dico: come fai a saperlo con certezza? Al massimo lo puoi sapere per te. Però, se fosse vero che l’essenza dello spirito è il pensiero e che l’essere umano non può pensare se non in dipendenza dal corpo, allora ciò che chiamiamo spirito umano non sarebbe immortale, perché immortale significa non dipendente dal corpo che muore. Allora ritorniamo a monte. Supponiamo che uno ti chieda: che cosa nell’uo-mo non è dipendente dal corpo?
Intervento: Ho capito, posso dire: lo spirito.
Archiati: Ma cos’è lo spirito, di che cosa parli?
Intervento: Chiaramente qualcosa di immateriale.
Archiati: Ma c’è o non c’è?
Intervento: C’è, per chi ci crede c’è.
Archiati: Questa realtà indipendente dal corpo, di cosa è fatta, che cosa è? Mi hai detto solo una parola.
Intervento: È qualcosa che rimane quando il corpo muore. Però qui siamo al punto di dimostrare effettivamente qual è la prova dello spirito. Per quanto riguarda l’anima, tu dici che se non c’è il corpo queste emozioni, queste sensazioni non restano. Per quanto riguarda il corpo io provo il gusto, l’olfatto, l’odorato, posso sentire, ho gli organi; se non ho più il corpo queste sensazioni non le posso più provare, e qui è facile dimostrarlo. Ma per l’anima io sono portato a pensare che forse un seme rimane quando muori; non ci può essere anche qualche cosa che raccoglie tutte queste sensazioni? C’è semplicemente la sensazione al momento oppure c’è qualcosa che alla fine racchiude tutto questo mondo del sentire, delle sensazioni ecc.?
Archiati: Tutto sta a vedere come noi concretamente descriviamo l’esperienza dello spirito, perché dapprima spirito è un termine astratto, lo devo riempire di contenuto; e poi come noi descriviamo concretamente l’esperienza di ciò che chiamiamo anima, e come descriviamo concretamente l’esperienza corporea.
Mi viene un esempio concreto: io sto leggendo una conferenza di Steiner e i pensieri che penso sono dipendenti dal corpo, perché dipendono dalla percezione delle lettere, dei caratteri, delle parole ecc. che ho davanti a me. Tutt’altra cosa è se io chiudo il libro, non ho più la percezione corporea, penso pensieri miei: questi pensieri sono molto meno dipendenti dalla percezione corporea che non quelli che avevo mentre leggevo. Questa è la differenza e il discorso diventa concreto.
Se io sono capace, prima di morire, di pensare pensieri che non sono dipendenti (dipendenti, però! l’origine può essere la percezione) ma li creo senza dipendenza da ciò che è corporeo e da ciò che è animico, posso continuare a pensarli anche nel mondo dello spirito. Bisogna sempre ritornare a porsi le domande, però dando risposte sempre più concrete. Cos’è lo spirito? Cosa intendo io per spirito? Cos’è l’anima, cosa intendo io per anima? Cos’è il corpo, cosa intendo io per corpo? Non bastano le etichette, le definizioni (il corpo è…, lo spirito è…); ogni volta bisogna ritornare a descrivere, però concretamente, come io faccio l’esperienza di ciò che chiamo spirito, di ciò che chiamo anima, confrontando queste esperienze con quelle altrui. Per esempio, il dolore: cos’è il dolore? Dov’è l’origine? Cosa causa il dolore? Se uno invece di farmi un complimento mi fa un insulto e io sono amareggiato – l’ama-rezza è una forma di dolore – qual è la provenienza?
Intervento: È acustica.
Archiati: Acustica è la percezione di quello che lui mi ha detto. Una volta morto non ci sarà più una bocca umana che mi amareggerà dicendomi tu sei un imbecille, e questo dolore non ce l’avrò più!
Auguro a tutti una buona notte e i problemi non risolti li risolveremo domani.
Venerdì 29 agosto 2003, mattina
vv. 11,32 - 11,43
Vedremo ora la bellissima scena, piena di particolari, del Cristo che risveglia Lazzaro. La partecipazione delle due sorelle è una cosa molto bella perché fa vedere come le forze dell’anima siano determinanti per il tipo di esperienza che anche Lazzaro sta facendo.
Come prospettiva generale, poniamo che un cristiano tradizionale si chieda: cos’è il risveglio di Lazzaro? Supponiamo che si svegli una mattina un pochino più intenzionato a fare i conti col suo cristianesimo e si dica: ma cos’è successo nel risveglio di Lazzaro? Sta morendo o è già morto? E se tanto, prima o poi, deve di nuovo morire, a che è servito richiamarlo dalla morte? È addirittura sepolto, Marta dice “già puzza”, la gente pensa che sia morto per malattia: a che serve resuscitarlo? È così fortunato che ha già passato ‘sta brutta soglia della morte, e il Cristo lo fa tornare indietro per poi fargliela ripassare un’altra volta? Che senso ha?
Queste domande sono più che legittime, ma in chiave di cristianesimo tradizionale non è facile farsi un’idea. Nel nostro contesto diciamo, molto semplicemente, che il risveglio di Lazzaro non è il revocare la morte, perché non era morto effettivamente; revocare la morte sarebbe assurdo perché la morte c’è e deve restarci. Il risveglio di Lazzaro, il settimo segno, è la cristificazione totale dell’essere umano, così come i primi sei segni erano aspetti della cristificazione dell’uomo, della sua divinizzazione, soprattutto i due compiuti a Gerusalemme di sabato: la guarigione del paralitico e del cieco nato.
La guarigione del paralitico è all’inizio del capitolo 5, e riguarda la sfera degli arti, della volontà, dell’operare: il Cristo intride delle sue forze di saggezza e di amore tutta la metà inferiore dell’essere umano. Poi, nel capitolo 9, intride nel cieco nato la metà superiore, dove c’è il cammino di conoscenza, il cammino del pensiero dalla percezione (attraverso la vista) al concetto. Il paralitico è l’evoluzione della volontà, il cieco nato è l’evoluzione del pensiero.
Lazzaro quando esce, esce fuori con una duplice caratteristica: gli arti hanno le bende, la testa ha il sudario – così come, nel capitolo 20, Pietro e Giovanni (Giovanni Lazzaro) troveranno nella tomba vuota le bende che avevano avvolto il resto del corpo e, a parte, il sudario, che aveva avvolto la testa. Questa duplicità sta proprio ad indicare la dualità dell’essere umano che è una polarità tra il volere (l’agire, gli arti) e il pensare (la testa).
Naturalmente l’uomo può essere considerato anche in chiave di trinità (testa, tronco, arti) però, in tante conferenze, Steiner mette insieme il tronco e gli arti perché hanno molti aspetti comuni. Ora, nel caso di Lazzaro, c’è una cristificazione totale dell’essere umano: sia delle vie del pensiero, della coscienza, della conoscenza, sia delle vie della volontà, dell’agire, di ciò che si compie nel mondo. Quindi abbiamo le due evoluzioni fondamentali dell’uo-mo: l’evoluzione intellettuale come fondamento e presupposto dell’evoluzione morale. Qui, la parola “intellettuale” non è in senso di astrazione ma proprio di cammino della mente. Se la mente non fa il suo cammino, le opere non possono venire intrise dei pensieri giusti.
L’essenza di un’opera, di un’azione, è il pensiero. Non ciò che si fa, non la percezione. Vi ho sempre portato l’esempio di una persona che uccide un’altra persona: si tratta di due amici carissimi, uno sta pulendo il fucile senza sapere che è carico, parte la cartuccia, uccide il suo amico. Quello non è un omicidio: il concetto di omicidio è che ci deve essere il pensiero che vuole uccidere, l’essenza di un omicidio è il pensiero e se manca l’inten-zione di uccidere, sarà una tragedia ma non un omicidio.
Questo è per dire che il pensare umano è fondamentalissimo perché decide in tutto e per tutto anche delle sorti del volere, dell’agire. L’agire di un bambino piccolo, che fa delle cose così come gli animali combinano qualcosa, non è morale, non è né buono né cattivo perché mancano i pensieri, manca la capacità di dare un contributo morale alla sua azione. In tempo di materialismo si tende a sottovalutare lo spessore morale del pensiero, perché non ci si rende conto che è il pensiero che decide tutto.
Eravamo arrivati ieri sera al versetto 31. I giudei che erano con Maria nella casa e piangevano con lei, vedendola alzarsi frettolosamente e uscire, la seguono pensando – ecco il pensiero! – che va al sepolcro per piangere.
11,32 Maria, come venne al luogo dov’era Gesù, vedendolo si prostrò ai suoi piedi, dicendo «Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto»
Cadde ai piedi di lui. Maria fece ciò che Marta non fece. Una delle differenze tra ciò che viene detto di Maria e di Marta è che Marta pose la sua domanda stando eretta invece Maria si prostra ai piedi. Maria è quella che lava i piedi, e quindi si pone, come dire, a servizio del cammino dell’Io-sono. I piedi sono l’organo del camminare, da qui questa venerazione verso i piedi: nel capitolo 12, poco dopo il risveglio di Lazzaro, sarà lei che laverà i piedi del Cristo e li asciugherà con i suoi capelli.
“Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”, gli dice la stessa cosa che gli ha detto Marta. Questa affermazione è vera, ma lei non sa che il Cristo è sempre stato lì spiritualmente, non materialmente: mancava solo il Gesù di Nazareth ma il Cristo era presentissimo perché doveva accompagnare nel modo più intimo tutto il cammino d’iniziazione di Lazzaro nei mondi spirituali per tutti i tre giorni e mezzo. Le due sorelle non hanno ancora la capacità di cogliere spiritualmente la presenza del Cristo e sanno soltanto che il Gesù di Nazareth è stato lontano.
Però, da come Lazzaro deve avere parlato loro del suo rapporto col Cristo, hanno il convincimento che dove è presente il Cristo non si muore, altrimenti non potrebbero arrivare a dire: “se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. In qualche modo devono aver recepito, dal loro fratello Lazzaro, che dove c’è il Cristo non c’è morte, ma vita; però devono ancora superare il materialismo che considera reale praticamente solo ciò che è fisico e non è ancora capace di cogliere la realtà assoluta di ciò che è spirituale. Adesso il Cristo agisce visibilmente, udibilmente tramite il Gesù di Nazareth, questa è la differenza. Durante i tre giorni e mezzo il Cristo agiva in tutto e per tutto, però non attraverso il corpo visibile di Gesù di Nazareth; adesso arriva il Gesù, e certo la connessione fra il Cristo e il Gesù è molto complessa, a seconda che si sia di giorno, di notte ecc. Soprattutto alla fine dei tre anni, il Cristo ha una capacità molto più grande di interazione intermittente, se vogliamo, col corpo di Gesù.
11,33 Gesù, come vide lei piangente e piangenti i Giudei che erano venuti con lei, fremette nello spirito, e si scosse.
Si scosse nello spirito. Cosa trovate nelle traduzioni?
Intervento: “Si commosse profondamente”.
Intervento: “Fremette interiormente”.
Archiati: In greco c’è ™nebrim»sato (enebrimésato) che deriva da en brim£omai (en brimàomai). Questa sequenza di lettere, brmm, euritmicamente cosa ci dicono? Soprattutto nel sanscrito e nell’ebraico, per risalire alla radice delle parole bisogna prendere le consonanti lasciando da parte le vocali, e attraverso le consonanti vedere che tipo di esperienza oggettiva viene fatta in base al pronunciare queste consonanti. Ora, la sequenza b r m, brrrmm, richiama il “premere”, il “fremere”. È un concentrare al massimo tutte le forze verso il centro. Vi richiama qualcosa questo b r m? L’antichissima cultura indiana quando parlava dello Spirito diffuso in tutto il cosmo, lo chiamava Atmàn; questo Spirito, quando è compresso (c m p r, brrmm) dentro l’essere umano, diventa Bràhman. Il Bràhman è lo spirito cosmico diventato microcosmico e quindi deve essere compresso (brrrmmm), e poi esce fuori.
All’inizio del capitolo 14 nel discorso dell’Ultima cena, il Cristo dice: “Il vostro cuore non si scuota e non si…” andate a vedere che tipo di traduzione vi dà. C’è una polarità.
Intervento: “Non sia turbato il vostro cuore; abbiate fede in Dio e abbiate fede in me”.
Intervento: “Non si turbi il vostro cuore”.
Archiati: C’è soltanto una delle due parole? Avete soltanto il “non si turbi”? Chi ha la traduzione interlineare? Ci vuole anche l’altra parola. Non c’è?! Ma è possibile!? Siccome alcuni mano-scritti hanno tolto la seconda cosa, allora anche le traduzioni, che hanno ancora più difficoltà a capire questa polarità, l’hanno tolta. Invece la dicitura e la polarità sono queste:
Il Cristo dice “il vostro cuore”: il cuore è la forza del mezzo, che fa da mediazione fra la testa e gli arti. Il vostro cuore, che è la soglia, deve rifare sempre l’equilibrio tra due estremi: l’estremo della tarac» (tarachè), turbamento, e l’estremo della deil…a (deilìa), diluizione, spappolamento. Fisiologicamente: tarachè è quando il cuore batte troppo veloce, e deilìa è quando va troppo lentamente.
Intervento: Dal verbo tar£ssw (taràsso)…
Archiati: No, tar£ssw è il sussultare del cuore, è un altro verbo. Qui è il batticuore, cioè batte troppo forte, si agita, è troppo veloce. La polarità fisiologica è ben chiara, tra quando il cuore batte troppo veloce e quando batte troppo lentamente. Batte trop-po veloce quando c’è la brama che vuole, vuole… è il brigante; se batte troppo lentamente è il ladro. Il cuore, l’amore, è la forza dell’equilibrio tra i due estremi. “Il vostro cuore non si turbi, non si agiti e non si diluisca troppo”: da un lato l’agitazione e dall’altro lato la mancanza d’interesse, l’indifferenza. Agitazione, indifferenza.
Intervento: Atarassico?
Archiati: L’atarassia, l’imperturbabilità. Atarassia è un termine puramente negativo, perciò si usava prima di Cristo. Il Cristo non dice: siate atarassici – perché non basta. Lui dice: bisogna creare sempre di nuovo l’equilibrio tra il troppo (la brama che vuole agguantare il mondo) e il troppo poco (la mancanza d’interesse). La seconda polarità nelle traduzioni non c’è neanche, è addirittura sparita!
Intervento: Qui però, all’inizio del capitolo 14, non c’è neanche nel testo greco.
Archiati: Perché fin dai primi secoli non hanno più capito che si trattava di una polarità, e da molti manoscritti l’hanno tolta per evitare che il Cristo ripetesse troppe volte la stessa cosa: “non vi turbate, non ve la prendete”, pensando che non è suo solito ripetersi.
Intervento: Invece com’è il testo?
Archiati: È difficile tradurlo in italiano perché non abbiamo termini chiari di polarità. “Il vostro cuore non batta troppo veloce né troppo lento”. Se il Cristo dicesse: “Fate in modo che il vostro cuore non batta troppo veloce” intenderebbe dire che c’è soltanto questo pericolo, ma allora non verrebbe rispettata la legge della polarità, dei due estremi, che ci sono sempre. E infatti i problemi del cuore sono due: quando batte troppo forte, cioè quando si è infatuati e si vuol per forza avere qualcosa, e quando batte troppo lento, l’indifferenza. Se non ci fossero due estremi da evitare, l’amore sarebbe non un fattore di libertà, di libero movimento, ma di natura. Perché se io ho la libertà di spostarmi indietro da questo estremo, significa che deve esserci un altro estremo; e perciò che tra i due esiste, e devo trovare, l’equilibrio. Altrimenti non posso esercitare la libertà. La libertà si esercita soltanto ricostituendo sempre di nuovo, in modi sempre diversi, l’equilibrio tra le due polarità.
Torniamo a questo en brim£omai (en brimàomai). Quando un essere umano deve fare qualcosa che richiede tutte le sue forze, fisiologicamente, psicologicamente, spiritualmente, cosa deve fare? Tutto quello che del suo corpo astrale, della sua anima, del suo corpo vitale, delle sue forze vitali è diffuso (magari perché sta ascoltando qualcuno, o ha un desiderio di qualcosa, ecc.) deve ritirarlo in barca in modo da concentrare tutte le forze. Il Cristo sta per compiere l’opera più grande che abbia mai compiuto, quella di iniziare un essere umano in tutto e per tutto. Lui stesso come ierofante deve richiamare Lazzaro – e guai se non gli rie-sce! –, deve dare a Lazzaro la forza di riafferrare il corpo fisico. Perciò Lui stesso deve comprimere, centralizzare, concentrare tutte le sue forze.
Riguardo al “piangere”, adesso il testo ci dà anche il risvolto fisiologico delle lacrime, perché il vangelo si svolge a tutti i livelli: non è solo spiritualismi, ma dà anche elementi di astrono-mia, di fisiologia, di chimica, di fisica… basta vederli. Ogni secrezione proviene dal concentrare le forze, perché concentrando le forze non c’è posto nel corpo per l’elemento umorale, che viene spremuto fuori. Il piangere per dolore è l’esperienza dell’anima che si sente minacciata dal mondo circostante, raccoglie tutte le sue forze per difendersi di fronte al mondo circostante; quindi chi sta piangendo, chi è pieno di dolore è tutto concentrato in sé, il mondo non esiste per lui in quel momento e spreme fuori le lacrime. Questo è l’elemento psicologico. Invece, quando una persona ride, accade l’opposto.
C’è una bellissima conferenza di Steiner, che vi raccomando di leggere e di godere, sul piangere e sul ridere: è una cosa straordinaria! Uno si dice: tutta ‘sta prosopopea di scienza non sa nulla neanche delle cose fondamentali! Chi ride si sente superiore, al di sopra della situazione e allora non ha bisogno di concentrare le sue forze per difendersi ma, come dire, spappola il corpo astrale, diffonde la sua anima e in quel momento lì, mentre ride, sarebbe impossibile spremer fuori le lacrime, perché è proprio l’opposto: l’anima tocca appena il suo corpo fisico, è più diffusa, sta ridendo sugli altri, quindi è in connessione con gli altri. Invece uno che piange è tutto concentrato in sé. Perciò ogni tipo di secrezione non si spiega soltanto fisicamente: è chiaro che pian-gere – per gioia, per dolore – è un fenomeno animico, no?
Intervento: Gli animali non piangono.
Archiati: Non piangono perché non possono avere dolore, non si possono sentire minacciati dalla morte esterna, perché c’è un istinto di natura che funziona come deve funzionare. Però molti dicono: gli animali non piangono ma il mio cagnolino piange.
Intervento: Si lamenta.
Archiati: Lo fai piangere te! Sono fenomeni di passaggio e andrebbero studiati.
Torniamo al lacrimare del Cristo… Insisto su questo concen-trare assoluto di tutte le forze, per compiere questa opera che è di cristificazione totale dell’essere umano, perché è bene che noi ci facciamo un’idea di quello che è avvenuto in quei tre giorni e mezzo e di quello che sta avvenendo ora per richiamare Lazzaro. Insisto, perché senza queste prospettive di scienza dello spirito – che considera sia il lato animico soprasensibile, sia il correlato fisiologico – la spiegazione che normalmente si dà è che il Cristo si mette a piangere. Il v.11,35 viene tradotto “Gesù pianse” ma non è “pianse”, no, no. Il greco letteralmente dice: ™d£krusen (e-dàcrysen), “versò lacrime” perché d£kru (dàcry) è “lacrima”. “Versò lacrime” non “pianse”.
Intervento: Addirittura qui dice: “scoppiò in pianto”.
Intervento: Sì! Si mise le mani nei capelli!
Archiati: Il greco parla dell’elemento fisiologico, non dell’ele-mento animico. Se non ho dimenticato il mio italiano (ormai, girando tutto il mondo…) io direi che c’è una differenza fra il dire “versò lacrime”, che è un puro fatto esterno, fisiologico, e “pianse”, che invece si riferisce all’anima. Non ho perso tutti i barlumi del linguaggio italiano, vero?
Intervento: Però, quando tagli le cipolle si dice che piangi.
Archiati: No, versi lacrime. Si dice che ti fanno piangere, però se uno te lo fa presente dici: sì, è vero, sarebbe più esatto dire che la cipolla mi fa versare lacrime.
Intervento: Fa lacrimare.
Archiati: Fa lacrimare, non fa piangere.
Intervento: Anche il freddo dell’inverno può far lacrimare, ma non piangere.
Archiati: Quindi, il linguaggio ha queste distinzioni. Perché insisto sul fatto che non ha pianto ma ha versato lacrime? Perché quando la teologia dice: ma guarda quanta compassione il Cristo ha di loro che piangono! Piange anche Lui! È roba da dare una sberla! Lui sa benissimo che fra cinque minuti lo tirerà fuori dalla tomba e si mette a piangere?! Le persone minimamente intelli-genti ci arrivano! Quando eravamo studenti, se ci permettevamo di dire queste cose ci davano uno schiaffo; poi quando davamo l’esame, se si ricordavano che avevi detto certe cose, ti boccia-vano. Però ogni benpensante dice: ma che teatro sta facendo? È venuto per richiamarlo fuori – e dopo due versetti lo vediamo – e si mette a piangere?!
Intervento: Comunque, perché lacrima? Il lacrimare è un’espres-sione fisica e le persone non hanno la capacità di sapere perché versa le lacrime, se per emozione, se per…
Archiati: Io non sto parlando di persone astratte, sto parlando di noi, se capiamo noi il senso di questo versare le lacrime. Mi sono spiegato o no su come saltano fuori le lacrime? Comprimi, proprio concentri tutte le forze del corpo fisico e il corpo fisico è costretto a spremere fuori dei secreti.
Intervento: Sì, ma sono manifestazioni che l’umano legge dal suo metro di misura, dal suo registro e allora… – potevo esserci anch’io lì, no? – e allora se vedo una persona che lacrima, non penso che lacrimi ma che pianga. Non so come dire, è una manifestazione fisica comunque.
Archiati: No, no, tu non sai com’eri 2.000 anni fa, questo è il punto: vacci piano a dire che sei sicura che eri allora come sei adesso. Se il Suo lacrimare avesse suscitato questo problema psicologico tra gli astanti, il testo te lo direbbe: invece non ne parla. Per noi, siccome parliamo non di lacrimare ma di piangere, sorge questo problema. Ogni studente di teologia, di esegesi minimamente sveglio dice: ma che si mette a piangere?! Perché ha dolore se lo sta tirando fuori dalla tomba? Sente dolore?!
Noi parliamo della nostra problematica. Il testo non ti dice che piange, ti dice che versò lacrime. Tu ti poni la domanda: ma avranno capito tutti il senso di questo?
Intervento: No, ma deve avere un significato, qualsiasi gesto o parola del Cristo, no? Mi sembra che …
Intervento: I sacerdoti può darsi che abbiano capito che piangeva per quella ragione lì, e invece le persone normali no. Anche allora poteva essere successo così.
Archiati: Anche se non avessero capito, a te non interessa; ma tu mi sembra non abbia capito come saltano fuori le lacrime.
Intervento: Quello l’ho capito: è un’espressione…
Archiati: È un’espressione di nulla!
Intervento: È una manifestazione, voglio dire, fisica che comunque si vede.
Archiati: No, quando tu un’arancia la spremi, perché esce fuori il succo? Perché la spremi! Il corpo viene spremuto, questo ti dice il testo, e saltano fuori le lacrime: basta. Non ho capito cosa vuoi.
Intervento: Non c’è la connessione lacrima-sofferenza?
Interventi: (vari) No!!
Intervento: Ma non lì, parlo dell’umano.
Archiati: Stiamo parlando di questo: se ci metti la sofferenza è una contraddizione, perché in realtà c’è la gioia in quanto sta per richiamarlo.
Intervento: Certo, certo comprendo che è una contraddizione. Ma tengo ferma la manifestazione fisica.
Intervento: La manifestazione fisica non ti dice tutto ciò che c’è dietro.
Intervento: Il Cristo si commuoveva del dolore degli altri, non del suo, perché non ce l’aveva.
Archiati: Quello può farlo anche senza versare lacrime… Ci può essere anche quello: Lui sa che loro sono pieni di dolore, ma sa anche che fra due minuti il dolore si trasformerà in gioia e dunque si mette a piangere con loro?! In alternativa c’è una ragione fisiologica.
Intervento: Scusa, letteralmente, quel verbo lì, en brim£omai (en brimàomai), che vuol dire?
Archiati: Comprimere, fremere. Quando uno freme, quando il corpo freme, cos’è che causa il fremito?
Intervento: Una compressione.
Archiati: Una compressione di forze che non escono, capito? Come la pompa a pressione: se la pressione è troppa la pompa comincia a vibrare.
Intervento: Ma in questa traduzione che abbiamo noi dice: “fremette nello spirito”…
Intervento: Sì, però è in relazione con quello che succede negli altri, perché è scritto: “ma quando la vide piangere e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si commosse”.
Archiati: È consecutivo, ma non è causa ed effetto. Non ti dice: siccome piangevano, Lui fa questo. Non lo dice.
Intervento: Si può esaminare il significato del verbo greco ™d£krusen (edàcrysen) che c’è scritto qua, no? E soprattutto: c’è in greco un altro verbo diverso da questo?
Archiati: Ce ne sono tanti per la sofferenza.
Intervento: Per l’uscita delle lacrime?
Archiati: No. Forse l’ho detto velocemente e non ve ne siete accorti, ma l’avevo detto: d£kru (dàcry) è la “lacrima”, dakrÚw (dacrýo) è il verbo “versare lacrime”, ™d£krusen (edàcrysen) è “versò lacrime”.
Intervento: Lei diceva invece, giustamente, che “piangere” è kla…w (clàio), quindi è un altro verbo ed è importante che venga usato questo e non l’altro verbo.
Archiati: Oh, meno male, è quello che sto dicendo. Tra l’altro, appena prima, riferendosi agli altri, il testo usa kla…w anziché dakrÚw: “Come il Cristo vide lei piangente e i giudei che erano venuti con lei piangenti”.
Intervento: Appunto, esatto, e per questo bisogna attenersi al testo; se no ci sarebbe stato kla…w di nuovo anche per il Cristo e invece c’è dakrÚw.
Archiati: È perciò che vi faccio la differenza tra il dato fisiologico del versare lacrime e l’esperienza animica del piangere, è da mezz’ora che mi sto scalmanando! Su queste cose il testo non può andare a spanne, è un testo troppo scientifico, il vangelo di Giovanni, capito? Sarebbe una catastrofe se dicesse che piange anche Lui. Lo ripeto, se facciamo piangere il Cristo, come fanno certe traduzioni, ne facciamo un ipocrita! È questo che sto dicendo; perché non ha motivo di piangere: lo sta richiamando in vita; se si mette a piangere è un ipocrita!
Intervento: È giusto, perché anche in latino traduce plorantes per i giudei e per Gesù invece dice lacrimatus est, che è tutta un’altra cosa.
Archiati: È tutta un’altra cosa: plorantes ha a che fare con l’anima e lacrimatus est col corpo, è il correlato fisiologico.
Intervento: Si potrebbe dire che versò lacrime intendendo senza coinvolgimento emotivo?
Archiati: Puoi mettere nel testo i tuoi problemi, ma per chi capisce “versò lacrime” è un fatto corporeo e basta. Lacrimò. Basta che non lo fai piangere, che non mi faccia i piagnistei. Il piagnisteo col Gesù Cristo non mi calza. Circa la tua osservazione sul greco: non c’è soltanto kla…w ma ci sono anche altri verbi che si riferiscono al piangere dell’anima. Qui è usato per il Cristo un verbo che è puramente fisiologico.
Intervento: Però, i verbi sono due: c’è en brimàomai e c’è taràsso.
Archiati: Sì, sono due, scusa. Sono tutti e due dalla parte della compressione e sono: en brim£omai (en brimàomai) comprimere, fremere, che è il lato animico: concentrò tutte le forze del corpo astrale; e et£raxen (etàraxen), da tar£ssw (taràsso) che è il correlato fisico del cuore veloce, agitato. Quindi, dal punto di vista dell’anima del Cristo c’è un concentrare tutte le forze dell’anima; più precisamente, il corpo astrale e il corpo eterico si concentrano al massimo. Il comprimere tutte le forze nel corpo fisico ha due effetti sul corpo: che il cuore batte al massimo e che escono le lacrime.
Intervento: Hai detto “si commosse”; poi si “turbò” invece?
Archiati: Non c’è.
Intervento: Si può tradurre “palpitò” invece che “si turbò”?
Archiati: Si turbò è animico, non è del corpo; questo tar£ssw (taràsso) riguarda la tachicardia. L’importante è distinguere tra ciò che avviene a livello dell’anima e del corpo eterico e ciò che avviene – come conseguenza naturale – nel corpo fisico; a me interessa che voi non mettiate nel testo una tristezza del Cristo, che sarebbe un’ipocrisia. Invece Lui deve concentrare tutte le sue forze astrali ed eteriche, e questo concentrare crea un… (mi vengono un sacco di parole in tedesco) …un sussultare più forte del cuore fisico e un fuoriuscire di lacrime.
11,34 e disse: «Dove lo avete posto?» Dicono a lui: «Signore, vieni e vedi».
Chiediamoci perché chiede:“Dove lo avete posto?” Non si riferisce a Lazzaro, perché Lazzaro è stato nel mondo spirituale durante i tre giorni e mezzo e il Cristo l’ha accompagnato in tutti i reami del mondo animico e del mondo spirituale, proprio per iniziarlo, in modo che tornasse sulla Terra a porre i fondamenti di una conoscenza del mondo spirituale, attraverso il suo vangelo. Quindi, il Cristo chiede: dove avete posto il corpo fisico?
11,35 Gesù versò lacrime.
11,36 I Giudei dissero: «Guarda come lo amava».
Adesso abbiamo un accenno di interpretazione di come i giudei – non le sorelle, non altri, ma i giudei – interpretano o capiscono le lacrime di Gesù: come segno di amore. Non hanno capito di cosa si tratta. Perché se sapessero di cosa si tratta, sarebbero loro pronti per la stessa iniziazione, conoscerebbero i misteri dell’iniziazione e avrebbero tutto il diritto ad essere iniziati anche loro. Quindi è chiaro che gli unici due che sanno cosa sta avvenendo sono Lazzaro e il Cristo. I giudei vedono uscire le lacrime, non hanno la minima idea che le forze di tutto il sistema solare – il Cristo non è mica soltanto un omino come noi – e di tutti i pianeti, vengono concentrate nel corpo di Gesù per diventare lo strumento del Cristo, che deve dire certe parole sulla Terra, e devono sentirle anche i circostanti.
I giudei non vedono nulla, non percepiscono nulla di tutto questo che avviene nel mondo spirituale, vedono le lacrime, e siccome le lacrime normalmente sono segno di una tristezza, dicono: “Guarda quanto lo amava!”. Dicendo così loro intendono il livello di amicizia umana, non si rendono conto di usare la dicitura esoterica appropriata per definire il rapporto tra il maestro e il discepolo che sta per venire iniziato. Questo è interessante: senza saperlo dicono: “Guarda quanto lo amava”. Eh sì, proprio perché è il discepolo amato, Cristo lo sta iniziando. Però i giudei non possono percepire ciò che avviene nel mondo spirituale, interpretano le lacrime come un piangere o un compatire le sorelle, perché le sorelle pensano che sia morto.
Un’altra reazione dei circostanti:
11,37 Alcuni di loro dissero: «Non poteva costui che ha aperto gli occhi del cieco, far sì che costui non morisse?»
Che tipo di riflessione è? Dice: ma se è stato capace di aprire gli occhi al cieco, dovrebbe essere stato capace di far sì che costui non morisse. Se il Cristo fosse venuto per impedire la morte, poveri noi! perché il senso della vita è di morire. Casomai, supponiamo, gli ritarda la morte di due anni: ma anche in questo caso o è il momento giusto di morire, e allora uno deve morire, oppure qualcuno che dal di fuori viene a spostare il momento giusto della morte è la cosa più sbagliata che si possa immaginare. In altre parole, nei giudei, nei circostanti, c’è questo pensiero: che se ci fosse la possibilità di raggirare addirittura la morte, sarebbe una gran bella cosa.
Come sta facendo sempre di più l’ingegneria genetica, oppure questa serie di Harry Potter; l’umanità, in fondo, si è messa in testa che forse c’è la possibilità di diventare immortali, ma non nell’anima: nel corpo. Se io riesco a clonare il mio corpo esco da uno ed entro subito nell’altro e vivo, invece di ottant’anni, centosessanta.
Questi pensieri vengono pensati da sempre più esseri umani, che non si rendono neanche conto che è impossibile all’uomo, col suo cervellino, di porre altre leggi di natura a base del cosmo in cui viviamo.
“Non poteva far sì che non morisse”? Il senso del Cristo sarebbe di mantenerci nella vita corporea per tutta l’eternità? Poveri noi! Ogni essere umano, prima o poi, deve morire ed ognuno vuol morire al momento giusto; se ha deciso di vivere trent’anni, vuol morire a trent’anni, se ha deciso di morire a ottant’anni, vuol morire a ottant’anni, né un giorno prima né un giorno dopo.
Che tipo di struttura mentale c’è in queste persone che dicono: “Ma se ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che costui non morisse?”. Aprire gli occhi al cieco significa concorrere alla nascita: la nascita ci dà anche la vista; ora, questo è nato senza la vista e, riacquistandola, gli viene integrato il fenomeno nascita, il fenomeno “nascita” viene confermato. Invece, impedendo che uno muoia, non è che viene integrato e quindi confermato il fenomeno “morte”, ma lo si vorrebbe abolire. Questa è la differenza. Integrando ciò che manca alla nascita, il Cristo conferma la nascita; se qui integra ciò che manca alla morte, conferma la morte, e allora resta nella creazione del Padre. Ma il pensiero di revocare, abolire la morte, è aberrante. Questo voglio dire ed è questo il pensiero che queste persone esprimono dicendo: “Perché Lui non ha fatto sì che costui non muoia?”. Come se il Cristo potesse amarci facendo sì che noi non moriamo! Immaginate tutti i ventenni di fronte alla prospettiva che tutti gli ottantenni non muoiano mai! Per fortuna si muore!
Sia coloro che dicono: “guarda quanto lo amava”, sia coloro che dicono: “non poteva costui che ha aperto gli occhi del cieco far sì che costui non morisse?”, sia l’una che l’altra categoria non hanno capito nulla, cioè non sanno cosa sta avvenendo.
Prima avevo lasciato da parte il verbo tar£ssw (taràsso) perché sapevo che poi sarebbe ritornato il verbo en brim£omai (en brimaomai) senza il tar£ssw.
11,38 Gesù dunque di nuovo fremendo in sé, viene verso la tomba: era una spelonca e una pietra era stata posta su di essa.
Di nuovo compresse, concentrò tutto il suo essere. Il linguaggio italiano, quando diventerà spiritualmente più scientifico, dovrà creare parole tecniche nuove che non ci sono. Quindi tutte le traduzioni di questo en brim£omai (en brimàomai) non sono giuste perché manca in italiano il termine tecnico preciso, quindi bisogna aiutarsi con diverse parole.
Gesù, concentrando in se stesso tutte le sue forze, va verso la tomba: era una spelonca, una grotta, un vano sotterraneo. Molto bello, questo: Lazzaro è stato sepolto nel grembo della Terra, non sopra la terra. Addirittura, oggi, ci sono questi loculi per aria, con una scusa logistica che non ha nessun rapporto col corpo fisico… Un morto sarebbe più contento di avere nel grembo della terra il suo corpo fisico, perché le forme del suo corpo fisico sono importantissime per la terra. Quindi Lazzaro è stato deposto nel seno della Terra e sopra ci hanno messo una pietra.
Questa sepoltura è un’immagine bellissima della caduta dello spirito umano, che non soltanto si è inserito nella Terra, in tutte le forze terrestri, ma ci ha messo una pietra sopra nel senso che è diventato morto. Non soltanto si è inserito nelle forze terrestri, vi si è congiunto ed ha sempre di più conosciuto le leggi della Terra – e allora basterebbe il Lazzaro inserito nella Terra senza pietra minerale sopra – ma in questo scendere verso la terra è anche morto a tutto ciò che è spirituale. Questa duplice immagine, della spelonca dove Lazzaro è deposto e della pietra sopra, è un’immagine bellissima e moderna dello spirito umano che non soltanto penetra i misteri della Terra, ma è anche morto, si è impietrito per tutto ciò che riguarda lo spirito.
Ed è lì che interviene l’Essere dell’Amore, il Cristo, a redimere l’uomo; e perciò la prima cosa da fare è togliere la pietra, cioè rendersi conto che si è morti spiritualmente. “Togliete la pietra”, rendetevi conto che c’è la pietra, che bisogna toglierla, perché se io copro la Terra, che è intrisa di spirito, con una pietra morta, vedo nella Terra solo il morto. Però la pietra ce l’ho messa io; la Terra, di per sé, sarebbe il luogo di rivelazioni dello spirito, perché non c’è nulla di materiale che non sia intriso di spirito. “Viene verso il sepolcro, era una grotta”, spelonca o grotta significa non sopra la Terra ma nella Terra, “e una pietra era stata posta sopra”.
11,39 Gesù dice: «Sollevate la pietra». Dice a lui la sorella del morto, Marta: «Signore, già puzza, infatti è al quarto giorno».
“Sollevate la pietra”. È la cappa di piombo del materialismo, che nella Terra non vede più lo spirito ma soltanto la materia: la prima cosa da fare è toglierla. E questa cappa è anche la rabbia o la sicumera o l’esuberanza o la pseudo evidenza del materialismo della scienza moderna con cui viene subito schiacciato chiunque si presenti a parlare di spirito. Quindi la cappa di piombo che incombe sull’umanità diventata materialista, va tolta: togliete la pietra.
E adesso arriva la nostra Marta, la sorella del morto che dice “Signore, già puzza perché è al quarto giorno!”, non sia mai che togliamo la pietra, poveri noi! Ma al terzo giorno e mezzo, cioè al quarto giorno, o la pietra si toglie oppure non avviene la svolta evolutiva. Quindi è il momento giusto per toglierla.
11,40 Gesù dice a lei: «Non ti ho detto che se hai fiducia vedrai la gloria di Dio?»
Il Cristo la richiama a ciò che le aveva detto prima; però il problema non è tanto ciò che il Cristo le aveva detto, quanto cosa lei aveva capito, e ovviamente aveva capito ben poco. Lei, riferendosi all’unica categoria che ha a disposizione, pensa che la risurrezione, la vita che poi non si revoca più, sia riferita all’ultimo giorno; di quello che, tramite il Cristo, è possibile che avvenga ora, ora e sempre, lei non ha la più pallida idea. Comunque il Cristo l’aiuta e le ricorda le parole che le aveva detto: “Non ti ho detto che se tu acquisti fiducia vedrai la gloria di Dio?”. La gloria di Dio, le forze di vita, di amore e di saggezza che Lazzaro riporta sulla Terra, sono lì. Tutto sta nella capacità di vedere. E qual è la condizione per vedere questa gloria di Dio che accompagna Lazzaro come un’aura potente che lui riporta nella Terra? Il presupposto per vedere è la fede: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai?”.
Steiner, l’ho già detto, nel “vedere” distingue: il gradino immaginativo dove si percepisce lo spirituale, il gradino ispirativo dove si formano concetti nello spirituale, e il gradino intuitivo dove la sintesi tra percezione e concetto dà la conoscenza degli Esseri. Questo è il vedere nella sua totalità: cogliere la realtà degli Esseri nel mondo spirituale.
Conditio sine qua non per vedere è il credere, l’aver fede, (pisteÚw, pistèuo). Cos’è la fede? Di sicuro non è soltanto un esercizio intellettuale: ci credi o non ci credi. È proprio questo un segno dell’impoverimento del cristianesimo – che doveva succedere in modo da dare all’individuo la possibilità di ritrovare le ricchezze individualmente –: il concetto di fede (p…stij, pìstis) è stato ridotto ad un credere a qualcosa anche se non si capisce nulla. Invece il concetto di fede nei vangeli è stato spiegato da Steiner in una conferenza (O.O. 175 Contributi alla conoscenza del mistero del Golgota), nella quale sottolinea che il concetto di fede nel vangelo di Giovanni ha sempre a che fare con gli impulsi volitivi, più ancora che con l’evoluzione intellettuale.
In italiano si dice “fede” e “credere”, che come sostantivo e come verbo sono diventati un pochino… sottili, nel senso che riguardano quasi solo il cammino intellettuale; c’è però un’altra parola che ha quasi la stessa radice di fede, ma non è soltanto intellettuale, ha più la forza del cuore, ed è “fiducia”. Traducen-dola in italiano con “fiducia”, questa p…stij (pìstis) greca diventa un pochino più reale. Quindi il Cristo sta dicendo: per vedere la gloria di Dio devi coltivare in te le forze della fiducia. Ci sono tante persone che non vedono nulla perché credono di credere, ma non sanno cosa significa in greco pìstis. Ora vi chiedo: che vuol dire acquistare fiducia nell’umano, nella pienezza dell’umano, acquistare fiducia nel Cristo?
Intervento: Affidarsi?
Archiati: No, resta esterno. Se uno veramente, onestamente ci riflette, arriva alla conclusione che l’espressione somma di questa fiducia è l’amore. Qualcosa che io amo, lo amo perché gli do fiducia: l’amore comprende tutto. Se soltanto credo al Cristo, mi svuoto e mi affido a Lui, questo non va, è per bambini; ho fiducia in Lui, invece, significa che comincio a sentirne anche gli effetti, perché le ragioni della fiducia devono fondarsi in qualcosa che io esperisco. Allora “credo in lui”, “ho fiducia in lui”e “lo amo” come tensione evolutiva del mio stesso essere, sono tre gradini della stessa realtà d’amore, che diventa sempre più totale e sempre più profonda.
Intervento: È anche un concentrato di forze, ancora, la fede?
Archiati: Sì, ma dimmi cos’è la fede. Finché usi parole… Allora: di che sta parlando il Cristo? Cosa sta dicendo a Marta? Cosa deve fare Marta?
Intervento: Scusa puoi ripete questo schema? Credo, ho fiducia…
Archiati: Un conto è dire “credo”: e se poi mente, io non gli credo più? Quindi questo credere è molto sottile. Invece “ho fiducia in lui” significa: non posso aver fiducia se non ho fatto, in qualche modo, in me stesso l’esperienza che mi fa bene. Il bambino non crede nella mamma, ha fiducia nella mamma: è ben diverso. E se questo “ho fiducia in Lui” lo rendo ancora più profondo, ancora più vasto, ancora più assoluto, dico: “Lo amo”, cioè tutto il mio essere è proteso verso questa realtà, e questa realtà è il dinamismo evolutivo intrinseco del mio stesso essere. Ciò che un essere umano ama fa parte del dinamismo intrinseco evolutivo del suo essere, sennò non può amare. In altre parole, il Cristo dice a Marta: l’essere umano capisce soltanto ciò che ama, se non lo ama non capisce. Non ti ho prima detto che, se ami, tu vedrai?
Questo è il senso della frase del Cristo. Ora questa “fiducia”, che è poi amore verso il Cristo, spremuta del tutto e tradotta con “credere”, e nel significato che diamo noi a “credere”, non rende l’idea. Perché credenti in Cristo ce ne sono stati tanti, ma dove sono coloro che hanno “visto”?
11,41 Alzarono la pietra. Gesù alzò gli occhi verso l’alto e disse: «O Padre, ti rendo grazie poiché mi hai ascoltato».
Alzano la pietra e Gesù alza gli occhi: bellissimo questo duplice alzare. Il presupposto per far posto al Cristo è togliere la pietra, questa cappa di piombo posta sul corpo della Terra, costituita dall’essere umano che vede con i suoi occhi soltanto la materia e non vede più lo spirito, e vive in un corpo morto della Terra. Togliendo questa cappa di piombo gli occhi del Cristo s’innalzano e vedono lo spirito. Il Cristo vede uno spirito fuori dalla Terra? No, s’innalza allo spirito che compenetra tutta la Terra, lo spirito del Padre: lo spirito del Padre non è fuori della Terra ma la compenetra tutta.
Gesù alzò gli occhi verso l’alto, verso l’alto spirituale, non materialmente verso l’alto, e disse: “Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato”. Il Padre ha esaudito il Figlio perché il Figlio fa la volontà del Padre, e la volontà del Padre è la redenzione, è invertire la direzione dell’evoluzione. La cristificazione totale di Lazzaro è la volontà del Padre e il Figlio è venuto a compierla. “Ti ringrazio che mi hai esaudito”. Qual è la preghiera, il desiderio che il Cristo esprime al Padre? Il Cristo desidera una cosa sola: amare gli uomini. O Padre, concedimi di amare gli uomini. E mi hai esaudito a un punto tale che adesso mi dai la possibilità di amarne totalmente uno, come pegno di tutti gli altri che si lasceranno amare da me.
11,42 «Io so che da sempre tu mi ascolti, ma per la folla qui circostante l’ho detto, affinché credano che tu mi hai mandato».
Le parole che il Cristo ha detto al Padre sono state dette ad alta voce non per sollecitare il Padre a riceverle – tra il Padre ed il Figlio non c’è bisogno che vengano dette –, ma perché i circostanti sentano che rapporto c’è tra il Padre, la Divinità suprema, il Padre dei cieli, e questo Gesù di Nazareth, portatore del Cristo. “Per quanto riguarda il nostro rapporto, queste cose te le dico sempre spiritualmente, sovrasensibilmente, però è importante che i circostanti le odano con gli orecchi fisici, perché se non le odono con gli orecchi fisici non sentono nulla. Le dico a voce alta affinché acquistino fiducia in base a quello che adesso vedranno e amino l’opera che sto compiendo”. Ameranno l’opera che il Cristo sta compiendo se diranno: sarebbe bello essere come Lazzaro!, perché entreranno sempre di più nel voler ricevere l’amore del Cristo.
Facciamo una pausa.
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È una bella cosa che questo evento di Lazzaro susciti tante reazioni vivaci perché, magari, lo sforzo di creare alcuni fondamenti di accesso al vangelo servirà poi ad ognuno per occuparsi di questo testo a varie riprese, scoprendo ogni volta ognuno cose nuove.
Eravamo arrivati al momento in cui tolgono la pietra. Questo togliere la pietra – rifuggo un pochino dagli schemi di interpre-tazione più grossolani – è quello che facciamo sempre quando abbiamo la percezione di qualcosa e non ci fermiamo ad essa. Il mondo della percezione è la pietra, perché è morto: ora, togliere la pietra significa non fermarsi alla percezione ma andare oltre per vedere quello che c’è sotto. E sotto la pietra c’è Lazzaro, c’è il concetto, la realtà spirituale del mondo visibile. Quando io mi fermo alla percezione, mi fermo alla pietra morta perché è la percezione stessa che mi fa mettere una pietra. Togliere la pietra significa trasformare ogni percezione in una scintilla di spirito attraverso i concetti.
Allora, la pietra è la caduta e tutti gli elementi di percezione, prima o poi, periscono; invece quando io tolgo la pietra del mondo e vedo il Lazzaro vivente che esce fuori – cioè un fram-mento di umanità, un frammento di resurrezione dell’umano, sia a livello del pensiero sia a livello dell’amore – ho in mano ciò che è eterno, non perituro. Togliete ciò che è morto, la pietra, e verrà fuori ciò che è vivo: il Lazzaro vivente esce fuori come archetipo dell’umano.
L’Essere del Sole si mette a colloquio, udibile, percepibile agli esseri umani, col Padre dei cieli. Il Padre dei cieli viene per noi rappresentato dalla fissità eterna delle stelle e quindi dello Zodiaco; la parola Padre sta ad indicare tutto ciò che è eterno, e io dico sempre che il Padre rappresenta il mondo della natura. Cos’è che è eterno del mondo della natura? Non il dato di percezione ma il concetto delle cose. Quindi l’eternità del Padre è sia nello spirituale puro, sia nello spirituale che è nella materia: tutto ciò che è eterno e non perisce si riferisce al Padre.
Il Figlio è la dimensione dell’eterno che entra nel tempo, nell’evoluzione del tempo, nel sistema planetario, dove le posizioni dei pianeti sono sempre diverse, dove le fasi evolutive sono sempre diverse, dove la vita e le esperienze sono tutt’altre a vent’anni, a trent’anni, a quarant’anni, a dieci anni.
Allora, il Padre è lo spirito eterno, il Figlio è lo spirito paterno che s’intride di ciò che sorge e perisce, in modo da permettere il tempo. Qual è il senso del tempo, il significato dell’evoluzione nel tempo? La liberà umana. Gli esseri umani non possono venire creati liberi o non liberi, l’uomo non può essere libero o non libero: se fosse libero per natura, non sarebbe libero liberamente, e se fosse non libero per natura, non potrebbe essere libero. L’uomo può essere libero soltanto se è libero di diventare sempre più libero. E per poter diventare sempre più libero bisogna che ci sia un’evoluzione nel tempo. Questo è il mistero del tempo: la possibilità lasciata agli uomini di diventare sempre più liberi, o di diventare sempre meno liberi. Tutt’e due le direzioni devono restare aperte.
Allora, il Padre è ciò che è eterno e che non comprende la libertà umana, il Figlio è il mondo dell’evoluzione nel tempo, di ciò che nasce e perisce, perché il senso dell’evoluzione nel tempo è la libertà umana. Adesso il Figlio si rivolge al Padre dicendo: ti ringrazio che mi hai permesso di avere l’evoluzione nel tempo, di concedere agli esseri umani il tempo, perché soltanto col tempo possono diventare liberi. Hai rinunciato ad un frammento di perfezione eterna, tu, Padre dei cieli, e hai aperto un varco attraverso il sistema solare che è sempre in movimento e lì, dove c’è il fattore umano, hai rinunciato alla tua onnipotenza per immettere, in questa tua impotenza voluta, il tuo amore. E il tuo amore per la libertà umana è il Figlio tuo.
Il Cristo è l’amore del Padre per la libertà umana.
L’onnipotenza divina rinuncia volutamente ad essere onnipotente dentro l’uomo e si trasforma in amore per l’uomo. Il Figlio, il Cristo, è colui che si rifiuta di essere onnipotente perché vuole amare l’uomo e non gestirlo. Amare significa sempre rendere possibile la libertà dell’amato, si può amare soltanto amando la libertà dell’altro. Il Cristo è puro amore per l’umanità perché è puro amore per la libertà degli esseri umani; fa tutto ciò che può, mette a disposizione tutti gli strumenti perché l’umanità la persegua. La libertà non si può dare – se me la danno non è una mia conquista libera – però richiede strumenti, condizioni di par-tenza. Il Cristo è colui che mette a disposizione tutti gli strumenti necessari per l’evoluzione della libertà. Ecco il senso di questo dialogo, di questa intesa tra il Padre e il Figlio.
Nel Padre è l’onnipotenza della natura, ciò che è eternamente fisso; nel Figlio è il varco, il grande rischio divino che è l’evo-luzione della libertà umana. Il Figlio è il mistero dell’evoluzione della libertà umana. E s’intendono bene, perché il senso dell’onni-potenza divina è creare, il senso delle leggi di natura non è di opporsi alla libertà umana: se la natura si opponesse alla libertà umana sarebbe una “snatura” per l’essere umano. La natura è buona per l’uomo se diventa la base della libertà.
Il Figlio dice al Padre: ti ringrazio perché hai fatto della tua onnipotenza non il precludere la libertà umana, ma il renderla possibile. E la rendi possibile nel Figlio che si proibisce di agire in modo onnipotente, che muore in croce per manifestare la sua impotenza – rifiuto di potenza –, per manifestare quanto appare stupido agli occhi dei sapienti di questo mondo e per dire chiaramente che dove c’è la rinuncia alla potenza e all’onni-scienza resta solo l’amore.
Il Cristo si proibisce di essere onnisciente, nel senso che non sa già in partenza quello che noi faremo: se fosse onnisciente in questo modo non saremmo liberi perché saprebbe già cosa faremo. Questo è un grosso mistero, col quale Agostino ha lottato per tutta una vita senza riuscire a risolverlo più di tanto (Agostino è Giuda redivivo). Se il Cristo non rinunciasse al potere che vuole gestire l’altro, noi non saremmo liberi; e l’amore è anche la scelta libera di rinunciare ad ogni onniscienza, cioè a sapere meglio dell’altro cosa va bene per lui.
Rivediamo letteralmente le parole che il Cristo dice al Padre. 11,41: Alzarono la pietra, Gesù alzò gli occhi in alto e disse: “Padre…” – riempiamo la parola Padre proprio di tutto il mondo della natura, tutto il mondo di ciò che è eterno, lo spirito puro, ma anche lo spirito che anima, che intride tutto ciò che è materiale, le leggi di natura – “Padre ti ringrazio”, eÙcaristî (eucaristò), ti rendo l’eucaristia. La parola eucaristia significa “rendimento di grazie”: queste parole sono l’eucaristia del Cristo nei confronti del Padre.
“Ti ringrazio per la sovrabbondanza dell’amore che mi concedi di squadernare nel mondo degli uomini, perché mi hai ascoltato”. Quale causa perora il Cristo presso il Padre, per dirgli poi: “mi hai ascoltato”? La petizione, la richiesta che il Figlio rivolge al Padre è: “ma sì, dai fiducia alla libertà degli uomini, rischia, su, che è bello!” perché l’amore per la libertà degli uomini non è l’impulso primigenio del Padre, ma è il Figlio che glielo chiede. “Dai, lasciami amare gli esseri umani anziché governarli, lasciami dargli fiducia! E grazie per avermi permesso di dar fiducia alla libertà umana, perché se tu non l’avessi voluto non avrei potuto farlo. Se tu non avessi mandato tuo Figlio, non avrei potuto operare nell’umanità. Tu mi hai mandato non per prolungare tale e quale la tua azione – perché il Padre non ha bisogno di mandare il Figlio – ma perché nel Figlio si compie qualcosa di nuovo rispetto al Padre. E grazie perché oltre al tuo impulso di Padre divino, hai voluto che sorgesse l’impulso del Figlio tuo, che non è l’onnipotenza ma è l’amore. Grazie per aver concesso che sorges-se, accanto alla tua onnipotenza, la tua impotenza nell’amore”.
Rileggiamo: 11,42: “Io sapevo che tu sempre mi ascolti…”: da sempre il Figlio si sente mandato dal Padre, amato dal Padre, il Padre non impedisce ciò che il Figlio sta facendo, anzi, dove il Figlio opera, tutta la natura concorre come strumento al suo operare. Quindi, questo concorrere della natura a favorire l’emergenza del fattore umano, il Figlio lo esperisce come un continuo venire ascoltato, esaudito dal Padre, nel desiderio di far emergere il fattore umano. “Io so da sempre, ho fatto l’esperienza che tu mi ascolti sempre, io so che la natura, il mondo paterno, è da sempre a servizio del cammino umano però lo dico ad alta voce, in modo percepibile, affinché lo sentano anche loro, gli esseri umani”.
“Io sapevo, io so da sempre che tu mi esaudisci sempre…”: nell’ascoltare c’è anche l’esaudire, ex audire, che significa: io ascolto il desiderio che c’è nell’altro, lo ascolto in un modo tale che lo tiro fuori da lui e diventa un impulso mio. Ex-audio: il suo desiderio che esprime nelle parole lo faccio talmente mio che lo trapianto da lui a me. Questo è l’esaudire: ex-audio, odo fuori. L’amore è tale verso colui che sta parlando che ciò che mi esprime come desiderio lo ascolto a un punto tale che diventa impulso del mio essere. Ex-audio, esaudisco. Di quali parole è fatto il linguaggio! Belle, bellissime! Udire, esaudire.
Se non ci fosse questa scienza dello spirito di Rudolf Steiner (che ci dice: stai attento che quando uno ode succede un finimondo a livello dell’eterico, poi, quando uno esaudisce, succede un finimondo a livello dell’astrale, ecc), queste parole non ci direbbero nulla. Invece, avendo in mano uno strumento interpretativo non ci fermiamo alla terminologia, affrontiamo le parole misteriose e capiamo. Così con ex-audio, che significa esaudire, ci diciamo: ah, è un tipo di udire che tira fuori, è un trapianto, accoglie talmente ciò che l’altro dice che lo fa diventar parte di sé – se no uno come si spiega una tale formazione di parola?
Quindi, il Figlio è… l’esaudizione” della volontà del Padre. Il Figlio è un ego talmente perfetto, ascolta così bene il Padre, che esaudisce ciò che vuole il Padre e proprio per questo il Padre esaudisce il desiderio filiale, perché è il desiderio comune. Il desiderio è il cammino umano. Il Padre pone le condizioni di base – il dato di natura – e il Figlio vuole l’amore che fa posto alla libertà; le due volontà insieme fanno una volontà sola. La natura viene esaudita nella libertà umana e la libertà umana è l’“esaudi-zione” dell’anelito della natura. Se non ci fosse la libertà umana, la natura non si sentirebbe esaudita, resterebbe un’aspirazione non esaudita; e se ci fosse solo la natura, l’essere umano non si sentirebbe esaudito perché cerca la libertà. Quindi la natura viene esaudita nella libertà umana e la libertà umana viene esaudita nella natura, che è il fondamento necessario per la libertà. È un reciproco esaudirsi perché la volontà è comune.
“Ma per la folla circostante l’ho detto, affinché credano che tu mi hai mandato”, affinché acquistino fiducia, affinché sentano la connaturalità tra il loro essere umani che aspirano alla libertà e questa figliolanza del Figlio che è il “mandato” in tutti gli esseri umani.
11,43 E detto ciò, ad alta voce gridò : «Lazzaro, vieni fuori!».
Gridò a voce grande: fwnÍ meg£lh (fonè megàle). Ricorderete che nel capitolo 7 – la festa delle Capanne – abbiamo insistito sul fatto che il Gesù di Nazareth è rimasto al Nord, nella Galilea, non è andato in Giudea, e che il Cristo si è manifestato nel tempio in modo occulto perché il portatore fisico del Cristo (Gesù) non era presente – tutti fenomeni, questi, con i quali la teologia tradizio-nale ha difficoltà a capire bene. Anche questo gridare ad alta voce non è da intendersi in modo fisico, ma è un parlare esoterico.
Ci sono due livelli di linguaggio: uno è quando il Cristo si rivolge agli uomini e parla con loro, l’altro quando esprime parole che rivolge non solo agli uomini ma al Padre dei cieli, a tutte le Gerarchie celesti, a tutti gli esseri della natura. Quest’ultimo è un parlare “alto”, non è una comunicazione puramente umana, è un parlare nel mondo spirituale, è una comunicazione a tutti i livelli dell’essere: il Logos parla da Logos e non soltanto come essere umano.
Non conoscendo questi due livelli diversi di comunicazione, e materializzando il tutto, le traduzioni dicono: gridò. Invece nel testo greco ci sono diciture tecniche che stanno ad indicare che quando il Cristo parla con Marta parla come parlano gli esseri umani; quando invece parla con il Padre, con le Gerarchie celesti, con gli Esseri di Marte, di Saturno, di Giove eccetera, usa un altro modo di parlare. “Parlò a voce alta”. È una voce più alta, una comunicazione che travalica il mondo della Terra, quindi “alta” non nel senso del volume fisico, ma “alta” nel senso che abbraccia tutti gli Esseri del sistema planetario. È quindi una voce “grande”, non “piccola”, si fa sentire nel mondo spirituale, nel mondo animico, nel mondo corporeo.
“Lazzaro, vieni fuori!”. Si rivolge a tutti gli esseri elementari della natura perché, non sapendo cosa sta succedendo, pensano magari di dover contribuire alla morte di Lazzaro; gli gnomi, le ondine, le silfidi, le salamandre si scuotono alla voce del Cristo: “Attenti! Lazzaro deve ritornare, non bisogna farlo morire!” Si rivolge agli Angeli, gli Arcangeli, ai Principati: “Lasciate Lazzaro, deve tornare!” a Potestà, Virtù, Dominazioni: “Non portatelo via, Lazzaro deve tornare!”.
“Lazzaro, vieni fuori” ha due significati. Una povera teologia materializzata l’ha preso sempre e soltanto dalla parte del venir fuori dal sepolcro: Lazzaro, vieni fuori dal sepolcro! Ma una volta che hanno tolto la pietra, se lui è vivo e non è morto, che senso ha dirgli di venire fuori? Tra l’altro avrà anche fame… Il testo dice: sta’ attento, non sono parole normali che dicono di venire fuori dal sepolcro, quindi usa tutte le precauzioni per non dare un’interpretazione banale a queste tre parole: Lazzaro, vieni fuori. Infatti è tutt’altra cosa se comprendiamo che il Cristo sta dicendo a Lazzaro che se aspettasse ancora qualche ora, il suo corpo eterico uscirebbe talmente dal corpo fisico che non potrebbe più rientrare e morirebbe veramente.
La grande tentazione della morte – che ci deve essere – è fare l’esperienza di quanto è più bello essere nei mondi liberi dello spirito, a tal punto che nessuno ritorna volentieri in questa prigionia dello spazio e del tempo. Nei mondi spirituali si è dappertutto e si è in tutto il tempo, qui invece siamo soltanto in un luogo e in un momento. Allora il Cristo dice: Lazzaro, anche se ti piacerebbe tantissimo restare lì a continuare a spaziare negli spazi infiniti del mondo dello spirito, torna indietro, perché lo scopo di tutta questa bella lezione che hai ricevuto non è di godertela soltanto tu ma di farne dono a tutti gli esseri umani. Torna indietro, riafferra il tuo corpo perché il senso di questa iniziazione è che tu possa descrivere, attraverso il vangelo di Giovanni, la tua esperienza. E, soprattutto, hai ricevuto questa bella iniziazione pochi giorni prima che il Figlio del Padre dei cieli venga iniziato Lui stesso nella sua morte e nella sua resurrezione, proprio perché sarà tuo compito – e solo tuo – descrivere nel modo più profondo la morte, la resurrezione, l’iniziazione dell’archetipo dell’umano. Torna! Vieni fuori dal mondo spirituale, riafferra il tuo corpo!
Cristo non dice a Lazzaro: Vieni fuori dalla tomba. Vedete che banalizzazioni fa la teologia tradizionale? Perché non ha la minima idea della tentazione grande che c’è di non voler ritornare; avete letto, forse, delle esperienze di morte di persone che descrivono di vedere il corpo dall’alto… mica hanno voglia di ritornare, la tentazione dice: per carità, lasciatemi andare!
Intervento: Posso chiedere perché qui dice deàro (déuro) e non œrcou (èrcu)? In latino è sempre tradotto veni (sia prima, sia ora). Io non ricordo qual è la differenza, ma c’è una differenza.
Archiati: Questo deàro (déuro) è un avverbio, non è un verbo; deàro œxw (dèuro èxo) è una delle frasi più criptiche che esistano, è la frase che diceva lo ierofante e il Cristo la ripete. Lo ierofante chiamava l’iniziato per nome e poi diceva queste due parole, perciò il Cristo pronuncia queste parole unite al nome Lazzaro, e coloro che sanno dicono “Sta tradendo i misteri, sta tradendo l’iniziazione”. Non è un’ingiunzione, non è un comandamento che dica a Lazzaro “fa’ questo!”.
In greco c’è l’avverbio œsw (èso) che significa “dentro, all’interno”, da cui viene “esoterico”, solo per gli interni, solo per gli addetti ai lavori; e poi c’è œxw (èxo) che significa “fuori”, da cui “essoterico” o “exoterico”, che significa “pubblico, per tutti”. Anche prima dell’insegnamento del Cristo c’era una dimensione essoterica per tutti (le parabole) e una dimensione esoterica, riservata a chi aveva certi presupposti. I dodici, che hanno certi presupposti, hanno una comunione più intima con il Cristo e quindi possono comprendere le parabole ad un livello più profon-do; a loro il Cristo dà spiegazioni esoteriche, cioè trasforma le immagini (le immagini sono rappresentazioni) della parabola, in concetti. L’esoterismo è trasformare in pensiero ciò che exoteri-camente è racconto per immagini, rappresentazione. La rappre-sentazione è per i bambini, il concetto è per chi sa pensare; quindi è chiaro che il concetto presuppone un cammino evolutivo.
Partiamo da questa parola œxw (èxo): “Lazzaro, ora è il momento di ridiventare essoterico; il tempo, i tre giorni e mezzo in cui ti era concesso di essere puramente esoterico nella realtà pura dello spirito, è finito. Lazzaro, ora devi ridiventare essote-rico, ritorna nel mondo della percezione.” Ma non è un comanda-mento, è come dire: è giunta l’ora di ridiventare essoterico.
Intervento: Sì, questo è chiaro, ma io parto da un punto di vista linguistico e chiedo cosa vuol dire deàro (dèuro).
Archiati: Vuol dire “qui”, se proprio vuoi; deàro è una delle parole più difficili perché è un concentrato di tutte queste conoscenze che sono andate perse. Se tu chiedi anche al grecista più ferrato cosa significa, non te lo sa dire. Perché non è un avverbio vero e proprio, né un verbo altrimenti per “vieni fuori” dovrebbe dire œrcou (èrcu).
Intervento: È quello che voglio dire io: avrebbe dovuto dire œrcou (èrcu).
Archiati: Allora accontentati del fatto che ti sto dicendo…tu picchi eh?… che è una delle parole più misteriose che ci siano, santa pace! La capirai sempre meglio man mano che masticherai per decenni e per secoli la scienza dello spirito. Voglio dirti che non a tutte le domande si può dare una rispostina, così tu sei soddisfatta. Qui ci sono certe domande dove l’unica risposta è dire: datti una calmata. Questo ti sto dicendo.
Intervento: L’ho capito, ma qui dal punto di vista linguistico…
Archiati: “L’ho capito, ma io la calmata non me la do!”
Intervento: Io vorrei sapere perché tutti i traduttori traducono deàro œxw (dèuro èxo) con “vieni fuori!”
Archiati: Perché non sanno altro! Tu arrivi con una veemenza e dici: “Io voglio capire, voglio sapere tutto in un attimo!” Datti una calmata, ti sto dicendo. Tu mica te la dai, eh? Ti trovi davanti ad una delle formule iniziatiche più misteriose che ci siano…
Intervento: È la risposta che volevo, che è una formula iniziatica.
Archiati: E allora deàro œxw cosa significa? Lo sai adesso?
Intervento: No, però me l’hai detto tu che linguisticamente è un avverbio e significa “qui”.
Archiati: Sì e no. È maggiormente un avverbio che un verbo, non è così semplice la cosa, perché se fosse chiaramente un avverbio, i linguisti se la caverebbero meglio. È molto misteriosa la cosa; è una delle frasi più misteriose che ci siano perché è il motto dell’iniziazione. “Lazzaro, deàro œxw!”. Quando avrai masticato per altri dieci anni la scienza dello spirito, ne capirai un pochino di più, dopo vent’anni, lo capirai un pochino di più, dopo trent’anni ancora un po’ di più e poi nella vita successiva… Se fossimo già in grado di capire tutto, saremmo Lazzaro! Vedi che bisogna darsi una calmata?
Allora, abbiamo iniziato la discussione; c’era qualcuno che voleva parlare, Paola forse.
Intervento: (Paola) Volevo dire che anche ai nostri tempi si ripete l’iniziazione di Lazzaro. Per le persone che hanno esperien-ze di post-mortem non è un’iniziazione?
Archiati: In un certo senso sì.
Intervento: L’essenza cristica può chiedere di ritornare nel cor-po? Sente una voce che dice: devi ritornare?
Archiati: Cristico è l’amore al corpo come strumento impre-scindibile per l’evoluzione dell’uomo. Dov’è che l’amore al corpo viene messo in forse? Lascia stare adesso l’esperienza di queste persone che, o mentre stavano annegando o mentre erano sotto un’operazione, descrivono di essersene stati come fuori dal corpo, a guardare. Prendiamo un fenomeno più accessibile, che è anche molto diffuso: la droga. Cosa combina la droga? In qualche modo ti fa uscire un po’ dal corpo, per cui quando tu sei sotto l’effetto della droga vedi cose bellissime, sei nel mondo dello spirito, però non sei perfettamente padrone del tuo corpo.
Intervento: È chiamato paradiso artificiale!
Archiati: Qualsiasi cosa sia, la targhettina che ci metti sopra non è importante adesso. Però, noi che sappiamo che cosa vuol dire non perdere la coscienza, e quindi restare attaccati al corpo, quando vediamo una persona drogata che fa un “viaggio”, cosa gli auguriamo? Se noi fossimo veri cristiani sentiremmo la voce del Cristo che dice (lo dice sempre): “Esci fuori da questo mondo non umano”. Ogni volta che c’è la tentazione di uscire dall’umano il Cristo dice: “Ritorna, ritorna! Hai diritto di uscire soltanto quando è prevista la tua morte”.
Intervento: Quando sarai pronto.
Archiati: Quando sarai pronto, e allora morirai. Finché non è prevista la tua morte, è previsto che tu ami il corpo, altrimenti non ti puoi evolvere senza il corpo. Questo è il sentire di una persona sana. Mettetevi di fronte ad uno che è sotto l’effetto della droga, che effetto vi fa?
Intervento: Di uno che è disperso.
Archiati: Fa l’effetto di volergli dire: “Torna, torna, torna”.
Intervento: Torna in te.
Archiati: Proprio questo: “Lazzaro torna”, è un sentire sano. Una persona che avesse il sentire che dice: “Lazzaro, va bene così”, comincia a perdersi perché il suo sentire si è corrotto. Il sentire sano dice: non c’è possibilità di comunicare con te, perché sei in un altro mondo, torna!
Intervento: Si può scegliere quando dobbiamo morire?
Archiati: L’Io superiore lo sa, e quando dobbiamo morire, usciamo e basta.
Intervento: Perché uno desidera morire?
Archiati: Perché gli esseri umani diventano sempre più pigri e vogliono evadere il compito quotidiano di fare quello che c’è da fare.
Intervento: Mi riferivo sempre a quelli che fanno l’esperienza di post-mortem.
Archiati: Quella è un’altra cosa, perciò ti ho detto di non prendere quell’esempio: lì ci sono fattori che possono essere karmici… (che ne so, ha avuto un incidente, ecc.), bisogna vedere il caso singolo e quali fattori vi giocano un ruolo. Invece il caso della droga è più comprensibile perché è più generalizzabile: è semplicemente un disdegnare il corpo e perciò voglio uscire.
Intervento: Siccome soffrono nel corpo vogliono uscire.
Archiati: Più che un soffrire del corpo è che non gli va la fatica di fare quel che c’è da fare nel corpo. E vuole evadere dalla responsabilità di quello che c’è da fare: l’amore quotidiano da dedicare agli altri. Chi prende la droga, in fondo, senza saperlo, dice: a me non importa di amare gli altri, godo andandomene per conto mio. Vuole godere di quelle immagini.
Intervento: Vorrei fare un’altra domanda: il riso è un’espansione dell’anima individuale, ma quest’anima comunica?
Archiati: A chi è capace di percepire la comunicazione. Quando uno ride e tu vedi o lo senti ridere, ti comunica qualcosa?
Intervento: Quando uno ride con gioia, si sente, si percepisce.
Archiati: E allora?
Intervento: Volevo tornare al v.36. Non so se ho ben capito quello che tu hai detto, però avevo notato questo: il v.35 dice: “Gesù lacrimò”; poi viene il v.36 in cui i giudei dicono: “Guarda come lo amava”. Tu hai detto: loro stessi usano la frase propria dei misteri pur senza saperlo. Però il greco, almeno nel testo che ho io, per “amare” usa il verbo filšw (filèo); quindi secondo me conferma la loro posizione di non comprensione rispetto alla percezione del suo lacrimare, nel senso che intendono il fenomeno del lacrimare del Cristo in verità come un piangere, tipo quello delle sorelle. Nel dire: “guarda come gli voleva bene” c’è un confermare da parte dei giudei la non comprensione assoluta di quello che sta avvenendo. Altrimenti avrebbero usato il verbo ¢gap£w (agapào), che al v.5 indica l’amore di Cristo.
Poi ho un altro quesito che è un po’ il prosieguo di quello proposto il primo o il secondo giorno: il rapporto vita-morte. Io non so se tu l’hai già trattato, però è già stato evidente dal decimo capitolo che vengono utilizzati in greco termini diversi per i diversi livelli di vita (bioj bìos, zo» zoè, e altri) e abbiamo già visto che in greco un conto è usare una frase e un conto è usarne un’altra. Ieri si è parlato a lungo della morte: tu hai detto a più riprese, a vari livelli, che il corpo non muore e poi che il corpo muore, che l’anima non muore e poi che l’anima muore. C’è inoltre un’affermazione di Steiner (in un volume di cui non ricordo il numero) che l’esperienza della morte è squisitamente umana: cioè, il mondo vegetale, pur essendo dotato di una vita vegetale, e il mondo animale, pur essendo dotato anche di vita animale, in verità muoiono ma non sperimentano la morte così come noi umani la sperimentiamo. Allora, personalmente, io ho l’idea che sperimento il mio morire, che ho paura del mio morire e che perdo la coscienza di me con il morire; e mi sembra che il risveglio di Lazzaro sia un mostrare come sia possibile arrivare al morire del corpo fisico, eterico, animico per altra via. Allora ti chiedo se è possibile, se vuoi, se c’è tempo, di riordinare questi livelli di vita e anche di morte.
Archiati: Faccio un riassunto, altrimenti ci vorrebbero un paio di giorni per abbracciare tutta questa questione. Il fenomeno morte: il minerale è morto, non c’è vita, quindi lì la morte non può esserci. Però muoiono le piante – in senso traslato, se usiamo il morire in senso vasto –, muoiono gli animali, muore l’uomo. Qual è la differenza? A noi adesso interessano le differenze specifiche.
La pianta muore: significa che l’eterico della pianta si ritira dal minerale che è nella pianta. Finché l’eterico vigeva e viveva nel minerale, il minerale veniva organizzato; ritirandosi le forze vitali dal minerale c’è una dispersione atomistica, una disgregazione (è la parola più giusta). La pianta muore significa che venendo a mancare l’opera vitalizzante dell’eterico, il minerale mostra la sua legge evolutiva pura che è quella del morto: la disgregazione. Se invece ritorna l’eterico dentro al minerale, la pianta rinasce. Questo è il fenomeno della morte della pianta.
Con l’animale le cose sono più complesse perché c’è materia minerale (il corpo fisico) intrisa di forze vitali (il corpo eterico dell’animale) però inabitata da un’anima, che ha delle sensazioni, delle emozioni, della sofferenza. È difficile per noi conoscere l’anima puramente animale perché la nostra è un’anima spirituale. Vediamo prima cosa avviene quando l’animale dorme (dorme sempre di nuovo, come fa l’uomo): quando il cane dorme esce il suo corpo astrale, non esce il suo corpo eterico e quindi, rimanen-do il corpo eterico dentro la materia minerale, questa rimane organizzata, vivente, vitale. Quando l’animale muore esce non soltanto il corpo astrale, l’anima, ma escono anche le forze vitali, eteriche e quindi la materia si disgrega. L’eterico si espande nell’etere cosmico. L’anima dell’animale è un frammento dell’a-nima di gruppo: si ricongiunge all’anima di gruppo. Il fenomeno individuale non c’è e quindi l’animale non può sapere individual-mente che sta attraversando la morte.
Arriviamo all’uomo: la complessità è maggiore perché nell’uomo c’è il corpo fisico (come per il minerale), unito al corpo eterico (come è nella pianta), unito al corpo astrale o anima (come nell’animale) ma in aggiunta c’è anche l’io, cioè l’autocoscienza, lo spirito. Che significa che l’uomo muore? Muore non significa che si addormenta – ecco perché il Cristo giocava tra “dorme” e “muore”. Quando ci addormentiamo escono (non del tutto, però, perché la cosa è complessa) l’anima e la sfera autocosciente, cioè lo spirito, l’io. Quindi esce la connessione dello spirito col cervello fisico, che è quella che mi fa dire “io sono” (mentre dormo non dico “io sono”), ed esce l’anima (quindi tutte le passioni, la rabbia che avevo prima di addormentarmi, ecc.). Il corpo eterico rimane dentro il corpo fisico e quindi il corpo fisico non si disgrega. La morte sta nel fatto che esce anche il corpo eterico: perciò si dice che il sonno è il fratello minore della morte, perché nel sonno escono due parti costitutive dell’uomo, nella morte ne escono tre. È chiaro che se gli antichi avevano questo tipo di frasi “il sonno è il fratello minore della morte” c’erano delle conoscenze, che provenivano dagli iniziati, su cosa fosse la morte.
Muore l’essere umano: fuoriescono dal corpo fisico non soltan-to lo spirito e l’anima ma anche il corpo eterico. Come accade per l’elemento minerale (il corpo fisico) della pianta e dell’animale, anche l’elemento minerale dell’uomo, se gli tiri via le forze eteriche, si disgrega. Quindi, a livello del corpo fisico, la cosid-detta morte è un processo di disgregazione perché non ci sono più dentro le forze vitali che lo organizzano: il corpo fisico – la materia minerale – si disgrega.
Cosa avviene al corpo eterico? Steiner lo descrive: dopo la morte, il corpo eterico ci mette tre giorni e mezzo prima di lasciare definitivamente il corpo fisico. Nel corpo eterico c’è il “quadro” mnemonico, panoramico, di tutto ciò che uno ha fatto nella vita. Siccome il corpo eterico, prima della morte, viveva costretto dentro il corpo fisico, una volta libero, questo “quadro” diventa talmente dilatato che dopo circa tre giorni e mezzo non vedi più nulla e quindi si espande nell’etericità del cosmo.
Cosa avviene nell’anima? L’anima dell’uomo non è un’anima animale che ritorna nell’anima di gruppo; le esperienze dell’anima umana sono state recepite nell’Io e quindi resta una connessione tra lo spirito umano, l’Io di questo uomo, e la sua anima. Adesso è un’anima che non ha più la possibilità di appagare le sue brame (che si possono appagare soltanto col corpo) e perciò deve bruciarle tutte perché il corpo non c’è più. Abbiamo tutta una descrizione delle sorti dell’anima umana dopo la morte.
La sorte dello spirito, dell’Io, diventa ancora più complessa. Allora uno dice: fammi un po’ leggere le descrizioni di Steiner (che poi sono tante) su ciò che avviene tra la morte e una nuova nascita, perché è complessa la cosa.
A quel punto, quando ci rendiamo conto della complessità dei fenomeni, ci rendiamo anche conto che usare la parola “morte” senza specificarla significa fare una confusione che non finisce più. Perché se io uso la parola “morte” nello stesso senso per una pianta che muore, per un animale che muore e per un essere umano che muore, significa che non distinguo cose importan-tissime che vanno distinte.
Non so se questo può aiutare.
Sull’altra domanda che tu ponevi: non è vero che quando l’evangelista dice che Gesù amava Lazzaro usa soltanto il verbo ¢gap£w (agapào). Basta che tu torni all’inizio del capitolo, v.3.
Intervento: Io intendo il v.36 dove lo dicono i giudei.
Archiati: Sì, ma anche dove lo dice Lazzaro c’è il verbo filšw (filèo).
Intervento: Ma al v.5 c’è scritto ºg£pa (egàpa).
Archiati: Sì, ma al v.3 c’è: “Signore, colui che tu ami”, file‹j (filèis).
Intervento: Ma sono le sorelle che lo dicono.
Archiati: Sì, perché le sorelle sono a livello animico. È a seconda dei livelli di percezione. L’amore animico può esserci senza l’amore spirituale, ma l’amore spirituale non può esserci senza l’amore animico. Allora lo risolvi il problema: chi è a livello spirituale sa che il livello spirituale comprende anche l’animico. I giudei invece non sono a livello spirituale e usano l’altro verbo.
Siccome il filšw viene usato legittimamente anche per l’ini-ziazione, i giudei, senza saperlo, usano la frase consacrata. Bisogna diventare ancora più specifici: in ebraico o in sanscrito non c’era ancora questa distinzione tra ¢gap£w (agapào) e filšw (filèo), quindi la frase consacrata doveva essere una dicitura che li comprendeva tutti e due. Poi, come dire, l’umanità va avanti e la stessa dicitura, se tu conosci il significato esoterico, ha anche il significato essoterico; se tu non conosci il significato esoterico ti resta solo il significato essoterico, cioè che gli voleva bene.
Ma non è che puoi dire che siccome il Cristo amava spiritualmente, ¢gap£w, allora non gli voleva bene animica-mente, filšw. Ci mancherebbe altro! Il Cristo gode bene di poterlo iniziare e questo godimento è l’elemento dell’anima. Infatti il Cristo dice al Padre “ti ringrazio”, è l’anima del Logos che parla qui, non soltanto un Logos senza anima. Però a chi non conosce la dimensione spirituale esoterica (Lui è lo ierofante che sta iniziando Lazzaro), resta la parte essoterica: Lazzaro ridiventa essoterico, ritorna a livello di questa povera gente qua che dell’esoterismo non sa nulla, per condurla per mano un po’ alla volta. Beh, di fronte a queste lacrime che escono, cosa deve dire ‘sta gente? Dice: guarda come gli voleva bene, è triste perché è morto. Loro mica lo sanno che lo sta tirando fuori. Dicendo questo dimostrano di non capire, di non sapere cosa sta avvenendo. È questo che l’evangelista ti vuol dire: che loro non hanno i presupposti per comprendere, per sentire ciò che sta avvenendo. Naturalmente, io prenderei un mezzo colpo se di-cessero: “guarda quanto lo amava” usando ¢gap£w; direi: un momento, qua i conti non tornano!
Intervento: Forse non è poi così sbagliato dire che il Cristo provi compassione. È un po’ come un “uscire” e immedesimarsi nell’al-tro.
Archiati: Certo, però Steiner ti dice: se ci fosse stata la compassione per la tristezza degli altri, e soltanto quella, non sarebbero motivate le lacrime perché glielo sta ridando, Lazzaro. Questo è il punto. Il piangere animico avrebbe senso soltanto se veramente l’avessero perso. Quindi dev’essere qualcosa d’altro che spreme fuori le lacrime, non la tristezza, e neanche la compassione. Perché se avesse compassione per la loro tristezza vorrebbe dire: “avete ragione di essere tristi perché è morto”, invece lo sta richiamando.
Intervento: C’è anche una reazione di comprensione parziale.
Archiati: No, tu ti stai chiedendo cosa sente il Cristo in sé, quando versa le lacrime, e hai messo l’accento sulla compassione. E io ti dico: vacci piano, perché se metti l’accento sulla compas-sione del Cristo, intendi che deve sentire tristezza con loro perché è morto e allora deve essere veramente morto. Mi spiego o non mi spiego?
Intervento: Non so perché sia tanto difficile ‘sta cosa.
Intervento: Incomprensibile.
Archiati: Io avevo capito che lei volesse sapere che cosa fa uscire le lacrime dagli occhi del Cristo.
Intervento: Il fatto che l’interpretazione tradizionale spieghi le lacrime del Cristo come una sofferenza…
Archiati: Sua, del Cristo?
Intervento: Sì. Che sia una compressione parziale di tutto il processo esoterico che c’è dietro? Perché il fatto della compas-sione è come un uscire, come l’anima esce dal corpo…
Archiati: No, sta proprio facendo l’opposto perché si sta compri-mendo al massimo.
Intervento: Sì, perché fa parte del processo. Diciamo che… non so come spiegarlo.
Intervento: Ma perché bisogna farlo piangere per forza ‘sto Cristo?
Archiati: (rivolto al precedente intervento) Ma perché vuoi salvare un’interpretazione tradizionale che è sbagliata? È sbagliata non per cattiveria ma perché mancano le conoscenze fondamentali che qui giocano un ruolo. Perché vuoi salvare un errore?
Intervento: Se uno legge il vangelo ad un bambino, il bambino prova gioia nel vedere che Lazzaro resuscita, è una gioia che, anche a livello dell’individuo cresciuto, è sempre una gioia, non per la resurrezione fisica ma…
Archiati: No, no, non ci siamo. Il testo non permette di barare ad alcun livello. Adesso tu hai fatto un po’ di pasticci: o stai parlando dello stato d’animo dei circostanti o stai parlando dello stato d’animo del Cristo. Avevo capito che stavi parlando dello stato d’animo del Cristo.
Intervento: Sì.
Archiati: Ci metti la compassione che il Cristo sente tristezza anche Lui, insieme gli altri? Casomai sarà amareggiato per la cecità degli altri. Lo sta richiamando in vita: come fa il Cristo ad essere triste?
Intervento: Se vogliamo veramente credere che il Cristo sia incarnato in un corpo umano, io non posso prescindere dal lato dell’anima e quindi una compartecipazione dell’anima alla caduta dell’essere umano può essere un qualcosa di possibile.
Archiati: Ti concedo che il Cristo possa essere triste per la cecità degli uomini, ma non perché è morto Lazzaro.
Intervento: Va benissimo tutto questo; però non mi toglie nulla il pensare che il Cristo partecipa anche a livello emozionale.
Archiati: Ho fatto un accenno in questa direzione nel mio libro su Giuda, e mò mi sto pentendo perché vedo che…
Intervento: Posso fare una considerazione che mi è venuta? Il Gesù inizia Lazzaro, gli dà poi un compito che è quello di scrivere il vangelo, mentre non inizia Pietro a cui dà il compito di guidare la chiesa per i successivi duemila anni. Due compiti immensa-mente diversi, ma con questa differenza di comportamento del Cristo.
Archiati: La missione di Pietro è una missione essoterica, non ha bisogno di iniziazione; tant’è vero che la chiesa petrina ne ha fatto un potere di questo mondo. Quando il Cristo dice a Pietro: tu mi seguirai, intende dire: tu guiderai, accompagnerai l’umanità nella prima fase petrina (i primi 2.160 anni dopo Cristo), in cui l’umanità scenderà al massimo nell’elemento morto, il materia-lismo. C’è bisogno di un’iniziazione? No, perché l’iniziazione è proprio la coscienza dello spirito. Quindi Pietro accompagna l’umanità nell’unico periodo di evoluzione senza iniziazione; il cristianesimo petrino è stato l’unico periodo in cui l’umanità è vissuta senza conoscenza iniziatica. Adesso, o l’umanità riconquista i misteri dell’iniziazione o si perde.
“Lui, Giovanni, deve aspettare finché io ritorno”: fa parte di questa “seconda venuta” la riconquista dei misteri dell’inizia-zione, che nel cristianesimo petrino sembra persa. Perciò Pietro non ha bisogno d’iniziazione, sennò sarebbe Lazzaro.
Intervento: Questo inizio della riconquista del mistero dell’ini-ziazione, storicamente si può mettere in qualche punto?
Archiati: Steiner! Ma come, ci è successo un terremoto e tu non ti sei neanche accorto? Steiner ha scatenato un terremoto che non finisce più! Uno che abbia letto anche solo uno o due volumi di Steiner capisce che è un terremoto.
Intervento: Mi chiedevo, in sintonia con quello che si diceva poco fa, se il Cristo, che ha provato pienamente anche tutte le parti emozionali umane, non avrebbe potuto provare un’enorme compassione per lo stato dell’umanità in quel momento.
Archiati: Certo, per la cecità umana: è quello che ho già detto. Che sia triste, tristissimo per questa cecità degli uomini che non vedono nulla di questo Lazzaro spirituale che sta riafferrando il corpo, glielo puoi concedere tutto, ma non concedergli di essere triste per il fatto che Lazzaro è morto, perché non è morto.
Intervento: Mi pare un po’ forzato il tuo voler escludere la sua partecipazione umana all’umanità in cui……
Archiati: Se Lui non fosse in grado di dimostrare che Lazzaro non è morto, certo che potrebbe sentire compassione per la sua morte! Ma non c’è la morte. Tu vuoi rendere triste il Cristo per una cosa che non esiste?
Intervento: Volevo solo dire una cosa sulla compassione, e poi ti faccio una domanda. La mia idea è che la compassione del Cristo sarebbe quella di dire alle sorelle: “Non piangete”, come in realtà ha detto a Marta…
Archiati: Certo, e l’ha detto anche a Maria.
Intervento: Esatto. Questo sarebbe il patire con loro: il dire loro di non piangere, non di mettersi a piangere con loro!
Archiati: Non dice loro: “non piangete”, ma: “tuo fratello risorgerà”.
Intervento: Ecco la mia domanda: parlando della pietra che chiude il sepolcro, Cristo non dice di toglierla, ma di sollevarla. E di nuovo, anche dopo, c’è il verbo sollevare.
Archiati: È lo stesso verbo dell’Agnello di Dio che porta, che prende su di sé i peccati del mondo. La pietra cos’è? Il peccato: si rende tutto morto e non si vive più la vita dello spirito. È lo stesso verbo. “Prendete, non lasciatela lì senza recepirla nella coscienza umana. Recepite questa pietra nella coscienza umana”. È lo stesso verbo: “Porta, solleva, prende su di sé i peccati del mondo” corrisponde a “Prendete su di voi questa pietra”. È lo stesso verbo. Quindi “pietra” non significa soltanto la pietra materiale, significa tutto l’elemento di morte.
Continua con la tua domanda.
Interessante: Mi sembrava interessante dire che si trattava di “sollevare” o non soltanto di “scartare”, e chiedere conferma.
Archiati: È lo stesso verbo che usa il Giovanni Battista quando dice: “Ecco l’Agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo”. Noi lo traduciamo “che prende su di sé” ma è “porta, solleva, che solleva il peccato del mondo”. In tedesco c’è una bellissima parola, aufheben, che significa “sollevar su”; Hegel ci fa tutto un ricamo perché ha tre significati: posporre (rimandare al futuro con tutta la prospettiva del futuro), terminare qualcosa (quindi c’è una parte che finisce), e sollevare (portare ad un livello più alto). Portando ciò che è passato ad un livello più alto, il passato finisce o non finisce? Sì e no: finisce a un livello più basso ma è la stessa cosa ad un livello più alto, e questo livello più alto non si raggiunge in un attimo, ma è una prospettiva del futuro. In tedesco hanno proprio la traduzione più perfetta di questo a‡rw (àiro) con aufheben che significa: portare a termine, riservare per il futuro e sollevare ad un livello più alto.
Intervento: Quindi è una soglia.
Archiati: Una soglia, certo. Ma è una soglia dove tutto il passato, tutto il futuro e il presente s’incontrano, sono compresenti. È giusto Michael?
Michael: Ja.
Intervento: Riguardo a Lazzaro mi chiedo come mai, durante lo stato catalettico, a livello fisiologico non ci si accorgeva che non era completamente morto, ma che metà del corpo eterico ancora era presente. Come fa il corpo fisico a mantenersi vitale con solo metà del corpo eterico?
Archiati: Duemila anni dopo, con tutta la prosopopea della scienza moderna, siamo allo stesso punto. Quando l’encefalo-gramma è piatto, è morto o non è morto?
Intervento: La scienza dice che dopo un certo numero di ore non c’è più niente da fare.
Archiati: No, gli esseri umani si accaniscono perché alcuni dicono così altri dicono cosà. Gli uni dicono che è morto e gli altri dicono che non è morto: è la stessa cosa.
Intervento: Il cuore continua a battere, in qualche modo nei tre giorni e mezzo?
Archiati: Hai bisogno di sapere questi particolari?
Intervento: Era una curiosità.
Archiati: A che ti serve?
Intervento: A capire come mai non si erano accorti che non era morto veramente.
Archiati: Vedi, noi siamo abituati a fare astrazioni, ma diventare capaci di iniziazione non è soltanto un destino dello spirito, ma anche della corporeità, della costituzione fisica, della fisiologia che devono diventare altre. Quindi hai a che fare con un cervello che è diverso, con un cuore che è diverso, con un organismo che è diverso perché dev’essere capace di sostenere, per tre giorni e mezzo, una fuoriuscita parziale del corpo eterico. Non puoi usare la fisiologia normale per capire un caso d’eccezione (che, tra l’altro, era possibile duemila anni fa, in via d’eccezione, e oggi non lo è più). Vedi che è puramente astratta la cosa?
La scienza dello spirito di Steiner ti aiuta a non fare astrazioni ma a guardare le cose concretamente. Vuol dire che tu non puoi avere un discepolo che il maestro ama soltanto perché la sua anima è bella o il suo spirito è bello; no, lo ama anche perché la sua fisiologia è arrivata al punto da poter sostenere l’iniziazione e quindi è una fisiologia diversa. Allora il fenomeno diventa totale, diventa concreto. Era un cuore fisico capace di iniziazione. Come è fatto un cuore fisico capace di iniziazione? Vattelo a vedere!
Intervento: I fachiri ci riescono.
Archiati: I fachiri, pensate a tutto il fenomeno del fachirismo.
Intervento: Io volevo farti una domanda. Se il Cristo aveva accompagnato Lazzaro in questi mondi spirituali e chiaramente lo stesso Cristo conosceva tutto (per esempio, la vita dell’adultera), perché chiede “Dove l’avete posto”? Doveva sapere dove stava Lazzaro, no?
Archiati: Lui chiede: dove avete messo il pezzo di materia?
Intervento: Appunto, non lo sapeva già?
Archiati: T’ho fatto un predicozzo stamattina: se l’amore non rinuncia all’onniscienza e all’onnipotenza non può amare. Se si presenta come uno che è onnisciente, gli esseri umani gli dicono: stattene a casa tua. Lui si proibisce di sapere anche se potrebbe, teoricamente, sapere dove l’hanno messo.
Intervento: Potrebbe anche andare direttamente sul posto dove l’hanno messo.
Archiati: Non lo sa! Non c’era Lui fisicamente a Betania.
Intervento: Non c’era fisicamente ma poteva avere anche la cognizione, come per l’adultera, di tutto quello che era successo nella vita, tutti i fatti accaduti.
Archiati: Con l’adultera erano cose spirituali, mica le dice: sei stata lì, sei stata là. Il Cristo non dice nulla, nemmeno alla samaritana, che sia un fattore di percezione sensibile. La percezione sensibile la lascia alla libertà dell’uomo. Le dice eventi dell’anima ed eventi dello spirito: quelli sì, li conosce. Difatti la samaritana non dice: m’ha visto fisicamente dov’ero. No, non dice questo. Altrimenti lederebbe la nostra libertà in continuazione. Ma, pensiamolo concretamente, t’arriva ‘sto pinco pallino e ti dice: io ero in Betania ma so dove l’avete messo. Tu come reagiresti?
Intervento: Invadente.
Archiati: Certo, invadente! Non rispetti la libertà facendo in questo modo. Se lui fisicamente non c’era, non sa dove l’hanno messo fisicamente. Sennò come può pretendere di essere diven-tato uomo se percepisce tutto e dappertutto?
Intervento: Quindi nel caso della samaritana Lui percepì solamente…
Archiati: Non “solamente”, sant’Iddio! Mi sembra già abbastanza, no? I suoi occhi fisici percepiscono soltanto ciò che guarda fisicamente, sennò non è diventato uomo. Dove l’abbiano messo fisicamente, non l’ha guardato, non l’ha visto, non l’ha percepito, perché non c’era fisicamente. Questo Cristo miraco-listico, magico, che sa far tutto eccetera, è un rimbambolamento che la chiesa ha fatto agli esseri umani per dire: “Guarda, tu non vali nulla, fa tutto Lui”. Risultato? Gli esseri umani non hanno fatto niente!
Intervento: La cronaca dell’akasha non è un film…
Archiati: Non è un film, scusa, che uno deve andare a pagare il biglietto e andarlo a vedere fisicamente. Non si paga il biglietto per andare a vedere la cronaca dell’akasha.
Il mangiare non è una faccenda soltanto animica e spirituale, è una faccenda di denti fisici perciò vi auguro buon appetito e ci rivediamo dopo mangiato.
Venerdì 29 agosto 2003, pomeriggio
vv. 11,44 – 11,57
Avverto un certo disagio, che sento molto meno in Germania, perché il rapporto con il religioso lì è diverso, di gran lunga meno problematico che in Italia. In Italia, culturalmente, a causa della brava chiesa cattolica, è sorto un rifiuto, una tale disaffezione, dico io, nei confronti del religioso, che tante persone – sono milioni – avendo un rapporto problematico con la chiesa, rifiutano non solo il cattolicesimo (e sarebbe una bella cosa) ma anche il cristianesimo e tutto il fatto religioso. Questa è una prima constatazione.
Niente di male, fa parte dell’evoluzione umana, perché non credo che una persona come mia sorella, che è suora, sia più avanti nell’evoluzione che non chi si è staccato dalla chiesa cattolica. Io ne sono ben felice: ho sempre vissuto bene anche senza la chiesa cattolica. D’altro canto, queste stesse persone, anche se non se ne accorgono, vivono – ed è normale – una forte, semiconscia e se volete in gran parte inconscia nostalgia verso il religioso, perché questo fa parte della natura umana. Se chi ha fabbricato la natura umana l’avesse fatta senza bisogno del religioso, andremmo benissimo, ma siccome chi l’ha fabbricata, a quanto mi risulta, l’ha fatta con un anelito metafisico, che voglia o no, verso il religioso, questo c’è… ed è questa la natura umana.
Allora non ci si rende conto che si viene ad un seminario di questo tipo e da un lato non si vuole nulla di religioso – per carità, non diventare sentimentale… – e io infatti vengo qui come scienziato dello spirito, e allora è come se fossimo soltanto ad una università di elementi conoscitivi. Solo che poi si arriva a questo punto, dove il Cristo chiama Lazzaro dal mondo spirituale e gli dice: “Ritorna nel mondo fisico!”, ed è difficile anche per chi parla farne una pura questione di conoscenza; c’è anche la reazione del cuore. Allora mi sono detto: la cosa più importante è di portare a coscienza anche questo, cioè è importante che capiate che io mi trovo in questa situazione un po’ difficile. Da un lato il mio compito è creare degli accessi conoscitivi, mentre la gestione del sentimento, del cuore, è lasciata ad ognuno; altrimenti non facciamo scienza dello spirito. Questo non significa che per me le cose siano aride, capito?
In altre parole, una volta dette le cose fondamentali – su deàro œxw (dèuro èxo), ecc. – non è che possiamo fare tutto. No: è una propedeutica conoscitiva. La cosa più importante avviene quando si è soli. Infatti per l’umanità di oggi è così difficile vivere il religioso insieme, soprattutto in Italia, perché tanti scappano via protestando – quello mi vuole gestire il religioso! La cosa più importante avviene dopo, nella propria cameretta, quando ognuno, valendosi delle basi conoscitive che gli sono state date come accesso alla realtà oggettiva, ne vive poi l’eco. E lì, vivere quest’eco non è mai troppo! Però se qui ci accostiamo a queste cose senza che poi il singolo, per lo meno in camera privata, si dia la possibilità di suscitarne l’eco, di coglierne la portata esistenziale, allora il tutto resta una disquisizione solo teorica e fa torto al testo. Mi sono spiegato o non mi sono spiegato?
Intervento: Scusa, e invece in Germania?
Archiati: In Germania c’è meno disaffezione rispetto al religioso. Le persone sanno che lo cercano. Le persone che vengono da me sono più o meno metà cattolici e metà protestanti, forse un pochino più i protestanti, i quali, come cammino di coscienza, sono in effetti un passo più avanti (nell’insieme, pur essendoci eccezioni), perché si sono emancipati da sé. Il protestantesimo è una protesta enorme partita da Martin Lutero nei confronti di Roma, quindi c’è un tantino più di apertura nei confronti della scienza dello spirito. In Baviera, ad esempio, è impossibile parlare di scienza dello spirito: sono cattolici, proprio cattolici cattolici.
I tedeschi, se la chiesa protestante o quella cattolica non gli basta più, se ne rendono conto e cercano il religioso; ma non hanno bisogno, come fa l’italiano, di dire peste e corna della chiesa. Dicono: non mi basta più. In Italia c’è proprio tanto astio contro la chiesa, ed è quello il motivo che ha portato gli antroposofi a darmi calci nel sedere finché sono andato via dall’Italia: ma era astio contro la chiesa. Naturalmente adesso sto esagerando un pochino, non è che gli italiani siano così e i tedeschi siano cosà, però ci sono sfumature diverse: cercando il religioso, i tedeschi hanno meno problema a viverlo anche insieme.
A me è successo diverse volte di parlare in un fine settimana, io lo faccio apposta perché lo so! Quando si arriva alla domenica è diverso dal venerdì e dal sabato, perché nel culto cristiano il vissuto religioso si fa alla domenica, si è abituati alla domenica. Allora cosa faccio, io? È un trucco ma funziona: siccome so che gli animi desiderano, in questo ritmo domenicale, di fare un’espe-rienza non soltanto conoscitiva ma anche religiosa – che è di tutt’altra natura – dico le stesse cose, soltanto un po’ più solennemente. È solo il tono che cambia (però non posso farlo per quattro giorni di seguito: sarebbe insopportabile). Alla fine poi si mangia veloci veloci, come fanno i tedeschi, ci si saluta e la cosa più bella per me, se mi permettete di palesarvela, è che diverse persone mi dicono: io stamattina ho vissuto il culto. Io ho fatto una conferenza, solo che i contenuti sono tali, portano, esprimono qualcosa della realtà spirituale che, se è genuina, parla da sola. Mica c’è bisogno di “spremute” di sentimenti, basta un minimo di più del modo del cuore, basta andare meno velocemente nei pensieri, fermarsi un pochino di più in sé... E molte persone, soprattutto protestanti, dicono: ho vissuto il culto molto meglio di come l’ho trovato nella chiesa protestante. E li capisco perché lo vivo così anch’io.
Quindi, volevo dirvi, abbiate misericordia e compassione per il povero relatore che si trova, come ad esempio qui con Lazzaro, a parlare di cose che non sono soltanto intellettuali. Però, se ci accordiamo in questo modo va tutto bene: che qui si creano gli accessi, i presupposti conoscitivi e poi si lascia qualcosina a ognuno. In Italia diventa difficile gestire contemporaneamente l’aspetto religioso, perché l’italiano è abituato a vederci subito un pastore e a sentirsi una pecorella. Perciò perdonatemi la mia aridità ma io non so fare di meglio. Credo che ci siamo capiti, o no?
Interventi: Sì, Sì, Sì…
Archiati: Allora, eravamo arrivati a questo: “Lazzaro vieni fuori”, a questo mantram culminante dell’iniziazione. È la frase usata da tutti gli ierofanti, che richiamavano l’iniziando dopo tre giorni e mezzo, ma acquista, in bocca al Cristo, il significato di un elemento di svolta. Fino al Cristo queste parole avevano un senso maggiormente buddistico, gli esseri umani non erano ancora in grado di amare veramente il mondo della Terra, perché non ne avevano ancora le forze. La venuta del Cristo, l’incarnazione del Verbo nella Terra, dà a questa frase iniziatica: “Vieni fuori dal mondo spirituale, ri-afferra il tuo corpo”, il senso dell’incarna-zione del Verbo, del Verbo che si fa carne, perché i tre grandi giorni e mezzo che seguiranno saranno tre giorni e mezzo di amore alla Terra.
Tutto ciò che avverrà come evoluzione umana avverrà soltanto grazie all’amore alla Terra, e quando esci dalla Terra ti dai una pausa, un riposino e poi si ricomincia, al seguito del Cristo che si è incarnato. Quindi, l’incarnazione del Verbo è l’affermazione del cristianesimo, l’affermazione dell’umanesimo che dice: l’evoluzione umana si compie soltanto tuffati dentro al mondo della materia perché lì ci sono tutte le condizioni per l’esercizio della libertà. Fuori dal mondo della materia si tirano le somme della vita passata, si pianifica la successiva, ma passi reali di conoscenza, di percezione e concetto, del pensare, i passi reali dell’amore, l’ascolto dell’altro che mi parla sulla Terra e io l’ascolto, la dedizione, le opere dell’amore eccetera, si compiono soltanto sulla Terra.
In queste tre parole c’è il peso morale assoluto della Terra come corpo di Cristo, come corpo di trasformazione grazie al cammino di pensiero umano, grazie al cammino dell’amore dell’uomo. L’evoluzione umana sa trasformare in pensieri il corpo del Logos, che è la Terra (e quindi lo si può fare soltanto sulla Terra), e sa trasformare in atti di amore tutte le creature della Terra. Trasformare tutta la Terra in pensiero, in luce del Logos e in amore dell’Io-sono. Io sono un Io perché mi sento capace di dedicarmi con amore, con responsabilità, agli altri.
11,44 Uscì il morto, legati i piedi e le mani con bende e il suo volto circondato da sudario. Gesù dice a loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare».
Uscì il morto. Il vangelo non si mette a fare disquisizioni: sì, però non è morto…, il vangelo non ha nessun problema a recepire la prospettiva pura e semplice degli esseri umani secondo la cognizione di coscienza che avevano. Per loro era morto, punto e basta. Per la coscienza dei giudei che sono lì, e per la coscienza di Marta e Maria, è morto. Perché il cavilloso di oggi, magari l’antroposofo, dice: ma è sbagliato, non è morto?
In greco teqnhkèj (tethnekòs) significa “morto”. “Moruto”, in romanesco. Però moruto significa “morto ammazzato”; “morto” è già una parola greca, invece moruto è morto al piuccheperfetto, è diverso. Gli italiani non hanno la parola “moruto”, e io l’ho sentita a Roma, al Gianicolo, quando facevano il teatrino delle marionette: ci andavo spesso ed era una cosa… lì ho imparato un po’ di romanesco, e dicevano: “È morto?!”, “No! È moruto!” perché moruto era più morto che non morto!
Quindi “uscì il morto”. Se uno cavilla dice: se sta camminando non è morto – però era morto perché aveva varcato una soglia. Cioè, il risveglio di Lazzaro, l’iniziazione, è veramente un anticipare la morte prima di morire. Manca solo lo sfacelo del corpo fisico, ma quello non fa parte della morte, è una faccenda del corpo fisico, perché l’essenza della morte è entrare con la coscienza nel mondo spirituale. Lazzaro è entrato in tutto e per tutto, per tre giorni e mezzo, con la sua coscienza, nel mondo spirituale e quindi è morto. Questo è il senso positivo della morte: risorgere al mondo spirituale (ecco il perché della trafila che abbiamo fatto stamattina sui vari tipi di morte e su cosa avviene alla morte). In quanto spirito Lazzaro era “morto” perché era entrato nel mondo spirituale e aveva lasciato come coscienza il mondo fisico, si era tuffato nella realtà spirituale che intride il mondo fisico.
Uscì il morto dal sepolcro, dedemšnoj (dedemènos) avvolto, legati i piedi e le mani con bende. Il bendare i piedi e le gambe e le braccia, le mani, tutti gli arti, quindi gli elementi della volontà, è praticamente il modo di accompagnare e trattare il cadavere, da sempre in tutte le religioni. Pensate alle piramidi egiziane, che addirittura imitano i rapporti geometrici-matematici del cammino che fa il morto nei mondi spirituali! Le dimensioni delle piramidi, i rapporti di queste dimensioni, sono proprio la copia esatta delle dimensioni che ci sono tra il ciclo lunare, quello di Marte, quello di Giove, quello di Venere, eccetera. Quindi, da sempre, ciò che si faceva nel corpo fisico della mummia era per accompagnare in un modo giusto l’anima e lo spirito di chi entrava nel mondo spirituale.
Qui c’è un bendare duplice, non semplice, non triplice ma duplice: in Lazzaro è bendata con bende, strisce, fasce, tutta la parte del tronco e degli arti, ma si usa un copricapo a parte, per la testa. Questo sta a significare che l’essere umano ha due dimensioni fondamentali: una dimensione di coscienza, il pensare, tutto il cammino della conoscenza – che sono le forze che s’incentrano nella testa – e il volere. Il sentimento, se volete, fa da tramite tra le due parti ma, di fatto, il sentimento non crea una terza realtà. Anche Steiner ha tante conferenze sull’uomo strutturate sul due: il mondo della testa e il mondo del tronco e degli arti presi insieme.
Così hanno bendato il Lazzaro e questo, vi dicevo, ritroveremo alla fine del vangelo perché faranno esattamente lo stesso al cadavere di Gesù. Poi vedremo anche che attraverso il terremoto – un processo tellurico, fisiologico-umano non da poco – il corpo è stato reso talmente friabile che si è polverizzato, però le bende sono rimaste nel sepolcro e vengono descritte, nel vangelo di Giovanni, minuziosamente. C’è un tipo di avvolgimento per il tronco e gli arti, un altro tipo sta a parte, il sudario, per la testa.
Questo sta a indicare la duplice dimensione dell’essere umano, e che le cose vanno fatte polarmente: in chiave di conoscenza e in chiave di volizione. Quando si tratta di conoscenza, si tratta di oggettività e bisogna intendersi; quando si tratta di agire, ognuno ha un compito diverso, specifico da fare. E perciò questa polarità: non si possono trattare allo stesso modo la testa e gli arti. La testa vuole l’oggettività valida per tutti e gli arti vogliono dare lo spazio a ciascuno per le azioni che ognuno deve compiere.
Steiner nella prima parte de La filosofia della libertà chiama la conoscenza, la testa, “monismo di pensieri”, e gli arti, il fare, il compiere le azioni, “individualismo etico”. È molto bello trovare in questi testi la consapevolezza di questa polarità.
Uscì il morto legati i piedi e le mani, i due arti principali, con bende e il suo volto, quindi la testa, era circondato da un sudario. “Guadagnerai il pane col sudore della tua fronte”: nella parabola di Luca, colui che aveva ricevuto i talenti e che non li aveva fatti fruttare, li aveva messi nel sudario. In Matteo, invece, li aveva messi nella terra: sfruttava la società con la proprietà immobiliare. Il sudario sarebbe il fazzoletto per asciugare, per detergere il sudore. Se ci mette dentro la moneta, non lo usa per detergere il sudore, il che vuol dire che non c’è sudore da detergere, quindi non suda per gli altri, non fa nulla, omette il cammino di conoscenza. Qui il sudore della fronte è un’immagine bellissima per indicare il cammino di conoscenza: la fronte non è fatta per rompere mattoni, è fatta per pensare. Una umanità che non ha ancora capito bene le cose, ha riferito il sudore della fronte all’operare fisico; certo che quando si zappa si suda, però l’immagine del sudore della fronte quando Jahvè dice: “Adesso entrerete nel mondo della Terra e guadagnerete il pane col sudore della fronte” intende dire il cammino della conoscenza. La fronte si riferisce alla conoscenza.
Allora, Lazzaro se ne esce fuori, braccia e mani, gambe e piedi legati in un modo; e la testa, la fronte, il volto con un altro tipo di panni. Gesù dice loro: “Slegatelo, scioglietelo e lasciatelo andare”, permettetegli di camminare oltre, fate in modo che le gambe, i piedi, gli arti siano strumenti per il suo cammino, che adesso comincia, nella seconda metà dell’evoluzione. A me viene da pensare (però vedete se vi serve): perché non dice “e toglietegli anche il sudario”? Perché una volta che ha libere le mani e i piedi, se lo può togliere da sé. Il cammino del pensiero non lo può fare un altro per me; nel cammino delle azioni siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri, ma nel pensiero ognuno è molto più indipendente e il pensare è proprio l’azione specifica di ognuno, ognuno deve pensare in proprio. Invece, quando si tratta di agire dobbiamo aiutarci a vicenda.
Allora, la legge della vita economica è la fratellanza, l’aiuto reciproco, e quindi gli altri gli devono liberare i piedi – altrove, il Cristo lava i piedi! Cioè, senza che gli altri facciano tantissimo per me, io non posso a mia volta operare nel mondo; invece, non si aiuta un altro a pensare, deve farlo da sé. Il Cristo sottolinea soltanto l’importanza del metterlo in grado di camminare, non dice “rendetelo in grado di vedere e di pensare”, quello che c’è da fare con la fronte, col sudore, non viene detto, lo deve fare lui (la cuffia di chi dorme, sta a lui togliersela via).
Questi testi sono precisi fino nei particolari. Se il testo dicesse: “toglietegli il copricapo” io direi di no, perché fa fare agli altri una cosa che invece tocca fare a lui. Ognuno è responsabile di ciò che fa con la propria testa, nessun altro è responsabile di ciò che avviene nella mia testa; ma di ciò che avviene nei miei arti, di ciò che posso mangiare, bere eccetera, sono responsabili anche tutti gli altri, ho bisogno degli altri. Se per la testa avessi bisogno degli altri, ci sarebbe qualcosa che non va. Che poi ci si esponga a vicenda ai pensieri reciproci, questo non è un dipendere dagli altri, ma un arricchirsi a vicenda. Quindi, nella vita economica siamo in tutto e per tutto dipendenti dagli altri, a tutt’altri livelli che non nel pensiero. Una persona che nel suo pensiero è dipendente dagli altri deve camminare ancora, deve superare questo stadio e arrivare al punto da essere autonoma nel pensare.
11,45 Molti dei Giudei che erano venuti presso Maria, vedendo ciò che lui aveva compiuto acquistarono fiducia.
Molti dei giudei che erano venuti presso Maria…. Non dice “presso Marta”, il che ci fa pensare che da un punto di vista della gerarchia sociale e della notorietà – Lazzaro era una persona pubblica, conosciuta, lo vedremo al pretorio di Anna e di Caifa – dopo Lazzaro viene subito Maria. Erano venuti per Maria e dopo, in coda, viene Marta. Era una specie di gerarchia, perciò qui non dice: “erano venuti a trovare Maria e Marta” ma dice: “erano venuti a trovare Maria”.
Vedendo ciò che Lui aveva compiuto, percependo ciò che il Cristo testimoniava, acquistarono fiducia, credettero. Gli venne la reazione non soltanto della mente ma anche del cuore; li possiamo immaginare: “No, no, no qui c’è qualcosa di…, questo qui era morto, l’abbiamo sepolto! Come mai esce fuori, adesso? È bendato…. si tolgono le bende… sta bene!!”
Molte persone che erano aperte, che cercavano la verità, che non avevano seggioline da perdere, credettero in lui. Altri fecero l’opposto. Il fenomeno Cristo è sempre un fenomeno di spacca-tura, di scissione degli spiriti, cioè è un fenomeno di soglia dove bisogna scegliere: non si può restare neutri di fronte alla svolta dell’evoluzione. Neutro può restare Edipo finché arriva al bivio (finché non ci arriva non deve scegliere), ma quando arriva al bivio e non si vuol fermare non può restare neutro, deve scegliere: o di qua o di là.
Quindi, questi misteri dell’evoluzione erano già anticipati. Finché c’è l’andata dell’evoluzione che si prepara, si pongono tutti i presupposti della libertà, e allora non devi scegliere perché la libertà non c’è ancora, ma viene preparata, viene resa possibile. Quando poi comincia l’esercizio della libertà, come fai ad esercitare la libertà senza scegliere? Devi scegliere! E allora fa parte della fenomenologia del Cristo che ogni volta che dice qualcosa o che fa qualcosa le persone scelgono: chi di qua chi di là, neutri non si può restare.
Le persone che pensano di restare neutre nei confronti del tema religioso ingannano se stesse e fanno male a se stesse: non si può restare neutri nei confronti del religioso, nei confronti del Cristo. Se penso di essere neutro è perché l’ho rifiutato, perché o si va “per” o si va “contro”. Magari non mi piace ammetterlo o non mi accorgo che l’ho rifiutato, ma, di fronte al fenomeno Cristo, non ci si può esimere dal prendere posizione perché è come voler essere neutri di fronte alla libertà.
Comunque consoliamoci, perché il v.45 comincia con “Molti”: perché la natura umana è fatta così, tende, va verso di Lui. Quelli che gli danno contro sono alcuni, e non gli danno contro per impulso proprio, ma per non libertà esterna, perché hanno degli interessi da difendere. Invece quelli che sono in contatto con la natura umana, i molti, credettero in Lui.
11,46 Alcuni di loro, invece, andarono dai Farisei e dissero a loro ciò che aveva fatto Gesù.
Mica necessariamente in cattiva fede. Tra queste persone che vanno a riferire ai farisei, di sicuro ci sono persone incerte, che non si fidano del loro organo interpretativo, e allora dicono: andiamo dalle nostre autorità religiose, facciamoci aiutare da loro, che ci aiutino a capire che fenomeno è. Sono ingenui perché suppongono che i farisei siano persone aperte alla verità: magari fosse così!
No, no, no, invece, le cose vanno bene così come sono, l’evoluzione è una corsa ad ostacoli! Senza ostacoli tutto diventa meno interessante, la cosa più brutta che esista è la noia e come antidoto alla noia il Padreterno ha creato la corsa ad ostacoli: una bella pensata! Quando una persona (in Italia forse capita un po’ di meno) è nella noia, non ci si può far nulla: non si gode neanche più la corsa ad ostacoli. Quindi va bene che alcuni di loro andarono via, presso i farisei, e dissero loro ciò che aveva fatto Gesù.
11,47 Allora, i capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che facciamo, poiché quest’uomo compie i grandi segni?»
Si riunirono, nella casa di riunione, due categorie: i capi dei sacerdoti (¢rciere‹j, archierèis) e i farisei. Tra loro c’è una polarità. I capi dei sacerdoti erano l’autorità sociale esterna, quelli che dovevano fare i conti con i Romani, quelli che dovevano gestire il potere: giustamente, il potere va anche gestito. I farisei erano invece i religiosi di allora, paragonabili ai diocesani; i religiosi dovrebbero occuparsi di meno delle faccende di questo mondo e maggiormente dello spirito, però ora si trovano di fronte a questo terremoto che addirittura ti pubblicizza l’iniziazione, tirando fuori un Lazzaro che tutti conoscevano ed erano andati a vedere (Lazzaro era una delle persone più note). Si riuniscono insieme anche se tra di loro c’era una polarità, c’era anche animosità, e dicono: cosa facciamo? Per coloro che studiano la scienza dello spirito, i farisei (“i puri” rispetto alla legge, puri rispetto alla tradizione) sono maggiormente l’elemento luciferico; i sommi sacerdoti sono intrisi, giocoforza, di un impulso di potere di natura arimanica.
Riunirono il sinedrio – da sun (syn), insieme, e Ÿdra (èdra), seggio. Cioè si siedono insieme: è la seduta, il consesso. La prima cosa che dicono è: che facciamo? Mica si chiedono: ma cosa sta succedendo? che fenomeno è? mica si fermano ad un minimo gesto conoscitivo, no, si chiedono: che facciamo? tutto il popolo gli corre dietro e noi che facciamo? L’elemento di conoscenza viene scavalcato e subito entra l’elemento di potere: cosa va fatto qui? In altre parole, presuppongono che non ci sia nulla da conoscere, che non ci sia da orientarsi secondo una conoscenza oggettiva. C’è un interesse di potere da difendere: cosa facciamo per difendere la nostra posizione? Viene dato per scontato che va difesa la posizione. Siamo di fronte ad una minaccia: cosa facciamo?
Poiché quest’uomo fa i grandi segni. Voi troverete nei vostri vangeli “fa molti segni”, però questa traduzione porta fuori pista perché il testo non ha niente a che fare con l’elemento di quantità. Il greco pollÒj (pollòs) non significa soltanto un elemento di quantità ma anche di qualità: “Costui fa i segni grandi”. Per i segni piccoli, cioè tradire, palesare gli elementi di preparazione all’iniziazione, c’era una pena minima. Ma quando uno tradiva, rendeva pubblici i grandi misteri, cioè ciò che appartiene ai tre giorni e mezzo, c’era la pena di morte. Quindi: “Costui ha compiuto pubblicamente i grandi segni”, ha compiuto pubblicamente l’iniziazione.
Nella traduzione trovate “molti segni”, no?
Interventi: conferme varie sul “molti”.
Archiati: È tradotto “molti”, ma in realtà quanti ne ha fatti? Vedete che i conti non tornano? A Gerusalemme ha fatto soltanto il segno del paralitico, del cieco nato e basta; adesso non è a Gerusalemme, quindi “molti”, nel senso di quantitativamente “molti”, è sbagliato, non c’entra. Invece rende pubblici i segni più misteriosi che ci siano, quelli che non sono mai stati palesati. Questi sono i “grandi segni”.
Forse vi ricorderete che ci sono conferenze di Steiner sulla differenza tra i piccoli misteri e i grandi misteri, i piccoli di Eleusi e i grandi di Delfi. C’è una differenza tra piccoli misteri e grandi misteri. Quest’uomo fa pubblicamente le cose più profonde e più grandi che finora sono state tenute nascoste perché il popolo non è pronto. Costui costituisce un problema, un pericolo per il sinedrio. Ovviamente sono convinti che se lo lasciano continuare perdono tutto il popolo, che gli sta correndo dietro.
11,48 «Se lo lasciamo così, tutti crederanno in lui; e verranno i Romani e prenderanno noi e il tempio e il popolo».
Lo dicono direttamente, letteralmente: se lo lasciamo così, se gli diamo corda libera, tutti crederanno in Lui. Questo è il problema.
In fondo – permettetemi questo piccolo accenno, che non è polemico ma è per capire – cos’è successo col fenomeno Steiner? Una cosa analoga. Le chiese costituite sono costrette a dirsi: se lasciamo che un Rudolf Steiner, cioè questa scienza dello spirito, prenda piede, ci scappano via tutti quanti. È giusto, è vero, e allora facciamo di tutto perché non prenda piede.
Se sempre più persone venissero a sapere che cosa ha da offrire uno Steiner, se avessero la minima idea di quali tesori di coscienza ha da offrire, lascerebbero la chiesa cattolica perché non ha nulla da offrire in paragone. Ve lo dice uno che conosce tutte e due le botteghine, ma le conosce proprio profondamente; e sa molto bene cosa c’è in un botteghino e cosa c’è nell’altro. Quindi è molto comprensibile, è un fattore umano, molto umano: per la chiesa cattolica non si tratta soltanto di disquisizioni teoriche, ma della propria esistenza. Se la gente corre dietro a Rudolf Steiner la perdiamo. Non tutti hanno la capacità di ricominciare da capo, esistenzialmente, e vedersi sul lastrico non è facile.
Questo è il problema dei sommi sacerdoti e dei farisei: se lo lasciamo così tutti crederanno in Lui, succederà un putiferio, anarchia, anarchia pura perché questo è un anarchico, la legge di Mosè non gli vale nulla…
“Verranno i Romani…” è la scusa che trovano perché devono trovarne una per farlo fuori “…e faranno piazza pulita di noi e di tutto il popolo”, ¢roàsin (arùsin) elimineranno, spazzeranno via, porteranno via. Ci soggiogheranno con una mano ferrea, ancora più ferrea di quella che c’è adesso; infatti allora dovevano pagare i tributi a Roma però avevano una certa libertà di culto, di religione. Essi dicevano: se lasciamo libero questo sobillatore, i Romani saranno costretti ad intervenire, ci stringeranno in una morsa di ferro ancora più terribile e saremo schiavi più che mai.
Diciamo che hanno ragione, almeno fino ad un certo punto, nel senso che il Cristo di sicuro non è venuto per rendere le cose più facili agli esseri umani. Almeno fin lì hanno ragione, hanno ragione quando dicono: se lasciamo corda libera a questo qui, le cose diventeranno difficili. Tutto sta a vedere se uno sa godere le cose difficili un po’ di più che non quelle facili; la cosa più facile che loro vogliono difendere è l’ordine e la cosa un po’ più difficile è il disordine. Ma il disordine è un moraleggiare di chi vuole soltanto l’ordine perché per chi gode il disordine, il disordine può essere un ordine superiore, dove c’è più pluralità. Chi non ha il coraggio, chi ha paura della libertà individuale, bolla l’ordine superiore, che sorge nella libertà, come disordine; ma è un problema suo.
Dicono: se lo lasciamo fare costui insisterà, spingerà talmente sulla libertà individuale che ci sarà il caos. Per loro l’ordine superiore dell’amore è caos, perché ne hanno paura. E se ne hanno paura, hanno paura, e hanno ragione: perché dal punto di vista di chi vuole l’ordine della legge, la libertà individuale portata dal Cristo è caos. Però gestire il disordine del caos è molto più interessante che non l’ordine del cimitero.
Chi è interessato a difendere lo status quo vuole l’ordine. In Italia c’è ancora qualcuno che rimpiange i tempi del duce. Il duce era ordine. Come se l’ordine fosse il valore morale superiore: darsi una regolata, darsi un’ordinata.
Intervento: È comodo.
Archiati: “È comodo”, dici?, mah!
Intervento: Che parola hai usato per …gestire il caos…un avverbio…
Archiati: Non imparo a memoria le frasi che dico! C’è il “coso”, il registratore, apposta, scusa. Mi mettete qua un mucchio di microfoni, che devo stare attento a tutto quello che dico, le mie frasi devono essere ordinate sennò…
Volevo dire, questa povera gente, gente semplice, cioè persone anziane (giudei, nonni, nonne, ecc.) che con tutto il loro cuore vanno il sabato alla sinagoga, dicono: ma ‘sto pinco pallino di Nazareth non potrebbe fare le cose con un pochino più… è simpatico, questo Gesù di Nazareth, però crea troppo disordine e i nostri capi ci dicono di picchiarlo, di metterlo a morte… Poi, la domenica prima della morte, son tutti lì a dire: crucifige, crucifige! Come è arrivato il popolo a dire: crocifiggilo?
C’è un enorme cammino da fare, non soltanto per amare la libertà individuale ma per farne un ordine superiore; e quindi, alla soglia della caduta c’è la più grande paura di fronte alla libertà! E perciò c’è la necessità della redenzione dell’umanità. Se lo lasciamo così tutti crederanno in Lui e verranno i Romani che prenderanno, occuperanno sia il luogo santo, il tempio, sia il popolo. È cosa non da poco. Prenderanno il tempio significa: non avremo più libertà di religione, c’imporranno, addirittura nel tempio di Gerusalemme, le cose che possiamo fare e quelle che non possiamo fare. E il popolo sarà considerato come un popolo di schiavi, dovrà fare quello che i Romani diranno e dovrà mandare a Roma quello che i Romani vorranno.
11,49 Uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote di quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla»
Il sommo sacerdote cambiava ogni anno e il sommo sacerdote di quell’anno era Caifa. L’argomentazione di Caifa è famosissima perché è proprio l’antinomia, è agli antipodi del modo di ragionare del Cristo. L’assioma del cristianesimo è che l’individuo vale più che non un popolo perché un popolo non vale niente, è soltanto anima, di spirito non ha nulla. Ciò che è di gruppo vale soltanto in quanto strumento per lo spirito. Quando c’è uno spirito – ne basta anche uno – vale più di tutta una farragine quantitativa dell’animico.
Uno dei motti del nazismo, che forse ricorderete, è: tu, individuo, sei nulla e il tuo popolo è tutto. La samaritana aveva detto al Cristo: ma che ti credi tu, uno solo, rispetto a noi, tutto un popolo? Sei forse tu più importante, sei maggiore? E il Cristo aveva risposto: certo, l’individuo vale più di tutta la massa, perché la massa non vale niente. La massa non vale niente perché è annientamento dell’individuo, quindi vale meno di niente; la massa è un valore morale negativo, l’individuo è un valore morale positivo. Allora, l’assioma fondamentale del cristianesimo è che quest’Uno – Gesù Cristo – vale infinitamente di più che non tutta la massa di noialtri.
Caifa dice: Ma voi siete matti! Volete mettere a repentaglio tutto il popolo per uno solo? Ma siete matti? Conviene mettere a morte uno e salvare tutto il popolo. Cos’è più intelligente?
Intervento: Ma anche gli altri lo volevano far fuori!
Intervento: Non vediamo la contrapposizione.
Archiati: La contrapposizione è tra “è più intelligente sacrificare un popolo per salvare un singolo” e “è più intelligente sacrificare il singolo e salvare il popolo”.
Intervento: No, anche gli altri a cui Caifa dice: siete matti, anche loro volevano uccidere.
Archiati: Non dice “siete matti”, dice “riflettete bene”. Io vi ho spiegato l’antinomia prima di entrare parola per parola – voi romani siete così impazienti!
Intervento: Ma guarda, è scritto qua, dice: “Voi non capite nulla”, mica l’hai detto tu.
Archiati: Ci arriviamo, ci arriviamo, non sono ancora entrato nel merito parola per parola. Se ti ho detto che Caifa esprime un assioma, uno dei tanti assiomi, significa che mi riservo di arrivare al parola per parola.
Allora, letteralmente è: uno di loro, Caifa, che era (essente) sommo sacerdote di quell’anno, disse loro: “Voi non sapete nulla”, non capite nulla. Perché? Perché non sapevano cosa fare. Loro hanno detto: “Cosa facciamo?” e Caifa intende dire: se per voi è sensata la domanda “cosa facciamo?” non avete capito nulla, altrimenti avreste dato subito la risposta. Quindi, per lui, per il fatto stesso che pongano la domanda “cosa facciamo?” sono imbecilli. Semplice! In altre parole, Caifa dice: la domanda non si pone neanche, voi non capite, non conoscete nulla.
11,50 «non vi rendete conto che è vantaggioso per voi che un singolo uomo muoia per il popolo anziché tutto il popolo perisca».
Non vi rendete conto, oÙde log…zesqe (udè loghìzesthe), non capite la logica. Le forze del Logos (oÙde log…zesqe, non pen-sate) vengono usate per uccidere il Logos. La parola italiana “logica” viene proprio dal greco. Non pensate, non vi rendete conto, non capite la logica giusta, non avete mai imparato la logica.
Il verbo log…zesqe (loghìzesthe) indica le forze del Logos, del pensiero. Sono le stesse forze del pensiero con le quali l’essere umano coglie la verità o fa un errore, sono le stesse forze con le quali ama oppure è egoista, sono le stesse forze: ecco il bivio. Il bivio significa che l’uomo ha la forza sia di andare di qua sia di andare di là, ma è la stessa forza della libertà. Libertà del pensiero: puoi pensare la verità e puoi pensare l’errore. Libertà nel fare: puoi agire con amore o puoi agire con egoismo. Ma è la stessa forza, è la forza di essere liberi nel pensiero ed essere liberi nell’agire.
Caifa dice: ma non avete capito che il pensiero va usato intelligentemente? Il senso del pensiero è quello di fare il proprio tornaconto. Tanto è vero che quando uno non fa il proprio tornaconto si dice: ma che stupido! OÙde log…zesqe (udè loghìzesthe): non pensate, non vi rendete conto che conviene, che c’è un vantaggio per voi se un uomo muore al posto della rovina di tutto il popolo. Il discorso di Caifa è logico.
Gli americani stanno mandando in rovina tutto il popolo dell’Iraq, per salvare Saddam Hussein: non l’hanno ancora acchiappato! È una battuta, però è sempre lo stesso mistero del rapporto fra il gruppo e l’individuo. Se si dà maggior valore all’individuo, tutto ciò che è di gruppo non sparisce, ma diventa strumento, non è più il fine; se si dà maggior valore al gruppo, l’individuo è strumento per il vantaggio del gruppo. Allora, o il vantaggio del gruppo è il valore supremo e il contributo dell’individuo è uno strumento per arrivarci, oppure il valore morale supremo è l’individuo e tutto ciò che è di gruppo è sub serviens, è messo a disposizione dell’individuo.
Bisogna scegliere: non si può considerare valore supremo contemporaneamente l’individuo e il gruppo, bisogna scegliere. E questa scelta la fa ognuno, anche se non sa di farla. O ha più valore per me il singolo (ogni singolo) e tutto ciò che è di gruppo (ogni istituzione, cooperativa, associazione, quello che volete) è a servizio dell’individuo, oppure devo fare il contrario: l’individuo è a servizio del gruppo. Caifa dice: ma non avete capito che ciò che è quantitativamente più grosso ha più valore? L’argomento di Caifa è un argomento quantitativo. Invece l’argomento fonda-mentale del Cristo è qualitativo. Il singolo è quantitativamente irrilevante, è una quantité négligeable di fronte alla massa, ma qualitativamente è di valore infinitamente superiore, perché esprime la libertà. E nella massa non c’è la libertà, ci sono i fondamenti della libertà.
Trovatemi un testo che esprima, che articoli il fenomeno umano in un modo così pulito e fondamentale, così moderno. Qualcuno ne ha?! Tutto questo cristianesimo per imbambolati, che ci fa una salsa che non finisce più di questi testi! È ora che tiriamo via la polvere da un testo così bello! Guardate com’è moderno, picchia proprio sui valori fondamentali, non si perde in particolari; è proprio un’articolazione inesorabile del fenomeno umano nei suoi cardini fondamentali e quindi di perenne attualità.
Ma poi lo si vede: che sia Caifa o che sia Bush non importa nulla. Bush cosa sta facendo? Muore un americano al giorno? È uno solo, però in questo modo salviamo il popolo americano! È lo stesso ragionamento, è lo stesso ragionamento.
L’altro tipo di ragionamento, quello cristiano nello spirito del Cristo, direbbe: neanche uno deve essere sacrificato, perché il singolo è il valore supremo, non il popolo. E tutto il popolo americano, in quanto popolo, vale nulla a confronto di uno spirito umano libero. Perché un gruppo è soltanto propedeutico, è preparazione, mi dà la base per ciò che conta moralmente: il singolo nella sua libertà, nella sua responsabilità umana. Un’uma-nità materialistica fa un ragionamento puramente quantitativo: cosa è un morto al giorno a confronto di 270 milioni di americani? Si sacrificano per il popolo ed è giusto così, è logico così. “Non avete logica!”, dice Caifa, e Bush spaccia la sua logica – questo è interessante – come cristianesimo, perché lui prima di fare la guerra ha pregato il Cristo. E allora il Cristo gli ha detto: no, no, sacrifica l’individuo, l’importante è salvare il popolo. Un Cristo diventato Caifa! Esagero?
Interventi: (vari, dal pubblico) No, no, no…
Archiati: Al massimo c’è qualcuno che mi dice: non far politica, la politica non c’entra col vangelo di Giovanni; il vangelo di Giovanni è bello se è al di là del mondo – al di là! –, se non ha nulla a che fare con la vita quotidiana, allora è bello.
11,51 Ciò non disse da sé, ma essendo il sommo sacerdote di quell’anno profetizzò che Gesù stava per morire per il popolo,
L’essere umano non può dire queste cose, non può pronunciare un assioma del genere, se è veramente un essere umano; lo può dire solamente se è posseduto da demoni antiumani che hanno interesse ad uccidere l’uomo nell’uomo.
“Ciò non disse da sé, ma essendo il sommo sacerdote di quell’anno profetizzò che Gesù stava per morire per tutto il popolo”. Siccome la massa fagocita l’individuo, cosa può fare l’individuo per invertire questo assioma? L’individuo che viene fagocitato esteriormente, materialmente, può quest’individuo che viene messo a morte dalla massa – il Cristo – invertire questo assioma? Sì, se muore liberamente, se si dà liberamente, se dà la sua vita liberamente; questo gli è sempre permesso. Se subisce il fatto di venir ucciso, allora è successo invano, se invece dà liberamente la sua vita, vanifica il potere della massa, perché muore per salvare il popolo, e il popolo sono tutti gli uomini.
Il popolo vuole annullare l’individuo, ma l’individuo che si dona liberamente salva tutta l’umanità. L’umanità vorrebbe annullare l’individuo ma se l’individuo ha la forza di entrare nella morte, voluta per lui dal gruppo, liberamente e volutamente, apre la prospettiva evolutiva per tutta l’umanità, per tutti gli individui che vogliono liberamente la morte nella donazione di sé.
Caifa, essendo il sacerdote di quell’anno, profetizzò a sua insaputa, come i giudei che dicevano “Guarda come lo amava” e senza saperlo pronunciavano proprio l’espressione tecnica dello ierofante che porta a compimento l’iniziazione – quello che stava accadendo. È segno che Gesù stava per morire, per dare la sua vita per il popolo. In questo popolo c’è tutta l’umanità, natural-mente. Però lo fa liberamente, non perché subisce l’annullamento di sé da parte della massa.
11,52 e non per il popolo soltanto, ma per ricondurre all’unità anche i figli di Dio dispersi.
Il popolo a quei tempi significava il popolo ebraico: non soltanto per il popolo ebraico, ma per riunire, per ricondurre all’unità tutti i figli di Dio dispersi nell’umanità. La dispersione dell’umanità è l’egoismo, l’atomizzazione, ognuno pensa a sé. È una fase neces-saria nella crescita dell’amore, se vogliamo, perché la libertà negativa precede sempre la libertà positiva: prima bisogna acquisire una certa indipendenza, e quindi separarsi, liberarsi da, da, da… Questa libertà di affrancamento, questa libertà di liberazione, precede l’essere liberi per gli altri.
Il Cristo, la soglia, la grande svolta viene al punto infimo dello stato di caduta dell’umanità, dove gli esseri umani, sono dispersi: ognuno per sé, non c’è più alcuna coesione e se c’è è coesione di potere, non di amore. Il Cristo, il singolo che offre la sua vita per la comunità, è l’inaugurazione, l’inizio di un ricondurre all’unità. È come un organismo che sia stato ucciso e tutti i pezzi disgregati: adesso il movimento opposto è di riorganizzare, di riorganare tutti gli esseri umani in modo da farne un organismo vero e proprio, dove ognuno si vive e si sente come organo vivente che riceve tutto dagli altri e che dà tutto agli altri.
Il Cristo trova gli esseri umani dispersi, dieskorpismšna (diescorpisména): c’è nella parola lo scorpione che dà la morte, c’è la disgregazione di ciò che è morto. E siccome il Cristo, come singolo, dà la sua vita liberamente, volutamente per gli altri, inaugura il movimento opposto che riunifica, riorganizza gli esseri umani nel corpo mistico di Cristo. Ne fa un corpo solo e un’anima sola e siamo tutti per strada in questo grande travaglio. La scelta della libertà è sempre di essere o per gli altri o contro gli altri, a tutti i livelli.
“Non soltanto per il popolo ebraico ma per riunificare i figli di Dio dispersi”: ricondurli all’uno, e„j ›n (èis en), farne uno. Come un organismo che è uno, però non uniforme: un uno multiforme, ma un uno. Un organismo è una multiformità, una varietà di membra e di funzioni, però è uno. Così è stata concepita l’uma-nità: ogni Io umano è stato pensato dalla fantasia morale divina come un membro di un organismo unico vivente. Quindi la conoscenza di sé è conoscere chi io sono nell’organismo vivente dell’umanità e svolgere sempre meglio la funzione per ciò che sono. Per fortuna abbiamo a disposizione alcuni millenni…
11,53 Da quel giorno vollero ucciderlo.
Da quell’ora, da quel momento, vissero in sé la volontà, invalse la volontà, prevalse l’impulso volitivo di ucciderlo, di metterlo a morte. Da allora fino ad oggi, fino a domani, fino alla fine, sempre, ci sono queste due volontà, le due volontà della libertà: o uccidere l’umano o farlo vivere.
Facciamo una pausa.
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“Da quel giorno vollero ucciderlo”. Nella prima metà dell’evoluzione non può sorgere la volontà di uccidere l’umano perché non c’è ancora la libertà. A partire dal quel giorno, gli esseri umani furono capaci della volontà di uccisione dell’umano. In altre parole, il bivio della libertà si apre e allora gli esseri umani cominciano ad essere capaci di costruire l’umano e di uccidere l’umano. Questa decisione, questa volontà, prima non ci poteva essere e perciò il testo dice: “A partire da quel giorno ci fu negli esseri umani la volontà di uccidere”.
Ogni frase può essere tradotta in un’affermazione sulle leggi evolutive di tutta l’umanità: quindi la frase dice che prima di quel giorno la volontà di uccidere il Figlio dell’uomo non c’era, nell’umanità, e se non c’era vuol dire che non ce n’erano i presupposti. E se a partire da quel giorno gli esseri umani divennero capaci di volere la morte dell’umano, significa che a partire da quel giorno divennero capaci anche di volere la vita dell’umano. Le due cose si richiamano a vicenda perché non si può volere una cosa senza poter volere anche l’opposto.
Il Cristo non subisce la volontà dell’uomo, non subisce l’esercizio della libertà perché è Lui che la rende possibile. Essendo Colui che rende possibile la libertà umana, non si fa ricattare dalla libertà umana. Lui stesso ha immesso nell’umanità le forze di volontà per ucciderlo, perché è Lui che decide di rendere possibile la libertà e non può renderla possibile senza rendere possibile anche la volontà di uccidere l’umano, la libertà. Però è il Cristo che decide quando il bivio deve venire, e perciò non subisce. E non essendo ancora l’ora giusta di eseguire questa volontà è Lui che decide quando sarà possibile eseguirla.
11,54 Gesù non camminava più apertamente tra i Giudei, ma andò via da là in un posto prossimo al deserto, verso la città chiamata Efraim, e rimase colà con i suoi discepoli.
Era sorta l’irrevocabile volontà di ucciderlo. Essendo nelle leggi cosmiche scritto quando, nel ciclo dell’anno, nell’insieme dell’evoluzione, deve venir data la possibilità agli esseri umani di eseguire questa volontà – che è la volontà più fondamentale che ci sia: uccidere l’umano o costruire l’umano – si sottrae alle loro mani, va in un posto deserto per ritornare a Gerusalemme quando sarà l’ora.
11,55 Era vicina la Pasqua dei Giudei, e molti salivano a Gerusalemme dalle zone circostanti prima della Pasqua per purificarsi.
Siamo in primavera e molti andavano a Gerusalemme per fare pulizia interiore in modo da celebrare degnamente la Pasqua.
11,56 Cercavano Gesù e dicevano gli uni agli altri, stando nel tempio: «Che ve ne pare? Che, forse, non viene alla festa?»
Cercavano Gesù. Lui poco prima aveva compiuto questo gesto spettacolare (chiamiamolo così) agli occhi anche dei giudei, dei farisei, delle autorità che erano andate a Betania ad esprimere le loro condoglianze a Marta e Maria, le due sorelle. Gesù di Nazareth aveva compiuto questo gesto vistoso di risvegliare Lazzaro, e loro avevano ravvisato il tradimento dei grandi misteri, avevano deciso di ucciderlo. Poi Lui era sparito. Allora, le persone che vanno a Gerusalemme pochi giorni dopo, per la Pasqua, dicono: “Dov’è, dov’è?” Naturalmente non possono concepire che una persona così di spicco come il Cristo rifiuti di celebrare la Pasqua a Gerusalemme. Infatti poi verrà e lo metteranno a morte. Ora lo cercano.
“Cercavano Gesù e dicevano gli uni agli altri, stanti nel tempio” stanti, cioè in piedi nel tempio “Che ve ne pare?”, cosa ne pensate? che tipo di concetti vi siete fatti in base alle percezioni avute finora? cosa si svolge nella vostra testa? Si chiedono a vicenda: tu che ne pensi? È interessante questo, la chiamata proprio a svegliare il pensiero individuale e quindi un consultarsi a vicenda: tu cosa ne pensi, che significato vedi in tutto quello che è successo, quello che Lui ha fatto, la decisione dei nostri capi di ucciderlo… che ne pensi? Che tipo di posizione prendi col tuo cervello, col tuo pensiero?
“Che forse non viene alla festa?” In altre parole, nel popolo c’è chi pensa che il Cristo, Gesù di Nazareth, abbia paura di venire ucciso – perché hanno deciso di ucciderlo – e in base a questa paura non si fa vedere. Quelli che dicono così è chiaro che non hanno capito ancora nulla del fenomeno, però lo chiedono: “Che, forse non viene alla festa?”
11,57 I capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chi sapesse dove si trovava lo indicasse, per poterlo catturare.
Se qualcuno sa dov’è, lo segnali, lo indichi, affinché lo possiamo catturare. Ma come!? Uno così in vista, che ha compiuto il risveglio di Lazzaro alla vista di tutti, con autorità che venivano da Gerusalemme vicino a Betania, sparisce alla vista? Non sanno neanche dov’è? Hanno bisogno di qualcuno che gli indichi dov’è? E non è certo un Saddam Hussein, che chissà quanti nascondigli ha.
Anche questo elemento fa pensare, e allora ci si sente grati a Rudolf Steiner per i contributi che ci fan capire, di nuovo, perché c’era bisogno del traditore che dicesse non tanto dov’era Cristo ma chi era. Identificare il Cristo, sapere dov’era e chi era, era una cosa difficile proprio perché la connessione, l’interazione tra il Cristo e Gesù, era complessa. Il rapporto di questo Essere macrocosmico spirituale, Entità che racchiude in sé tutte le forze del sistema solare, con il suo organo di espressione sulla Terra, che è Gesù di Nazareth, attraverso il quale dice parole udibili, percepibili, compie gesti e atti visibili agli esseri umani, il tipo di interazione tra il Cristo e Gesù di Nazareth è una delle cose più complesse che si possano immaginare. Rudolf Steiner nella sua scienza dello spirito dà i primi fondamenti per almeno orientarsi.
Quindi, avevano dato ordine che chi sapesse dove si trovava lo indicasse, per poterlo catturare.
Bene, chi prende in mano il microfono?
Intervento: Volevo solo chiedere una cosa su Lazzaro che, in fondo, anche i giudei hanno riconosciuto come molto vicino a Gesù. Lazzaro non ha nessuna conseguenza da questa decisione che il sinedrio prende? Tu hai già anticipato che poi sarà addirittura nella casa di Caifa…
Archiati: Che sarà…? non ho capito.
Intervento: Era questa la domanda: sapere che fine ha fatto Lazzaro in questo frangente. In fondo lui era molto vicino, è stato compartecipe del segno che fa decidere ai farisei, ai sacerdoti…
Archiati. Il testo ti dirà, poco più avanti, che hanno deciso di uccidere anche Lazzaro.
Intervento: Lazzaro non lo uccidono più, però.
Archiati: Non è stato ucciso, però dice che avevano deciso, volevano uccidere anche lui.
Intervento: Allora porto pazienza e aspetto.
Archiati: Il v.12,10 dice “avevano la volontà di uccidere anche Lazzaro”. Uccidere soltanto il Cristo non sarebbe bastato perché era chiaro che il testimone Lazzaro… Naturalmente, con questo tu intendi dire che le cose non vanno secondo la volontà degli uomini ma secondo la volontà di Dio o secondo la conduzione spirituale dell’umanità. Nella conduzione spirituale dell’umanità era previsto, non perché lo vuole Caifa ma perché era previsto nelle leggi dell’evoluzione, che il Cristo venisse messo a morte e Lazzaro no. Quindi Lazzaro non viene messo a morte. Lo possono volere finché vogliono, ma se non è previsto nei piani divini non avverrà.
In altre parole, non avviene ciò che decide, ciò che vuole l’io inferiore, ma avviene ciò che vuole il karma. Qui abbiamo a che fare col karma dell’umanità, e il karma è un tipo di volontà molto più vasta, molto più saggia e anche molto più capace di condurre le cose nella direzione giusta. Chi decide che il Figlio venga ucciso? Il Padre, in ultima istanza. Chi può avere una volontà evolutiva più forte di quella del Padre!? E se in questa volontà del Padre non è prevista la morte di Lazzaro, non lo uccidono; possono volerlo finché vogliono, ma non lo fanno.
Quindi, uccidono il Cristo non perché lo vogliono loro ma perché lo vuole il Padre e perché lo vuole il Cristo. La volontà dell’io inferiore degli uomini è sempre lo strumento, non è mai la causa. Perché se questa volontà dell’io inferiore non è prevista in una volontà superiore, l’io inferiore può volere finché vuole, ma la cosa non avviene; e se è prevista, avviene non perché lo vuole l’io inferiore ma perché lo vuole anche una volontà superiore, che si avvale della volontà dell’io inferiore per farla avvenire.
Intervento: Puoi darmi un’immagine di come era l’uscita di Lazzaro dalla tomba?
Archiati: C’è tutta la tradizione di icone russe orientali sulla resurrezione di Lazzaro, di come viene fuori dalla tomba.
Intervento: Con le gambe legate da quello che è stato detto prima.
Archiati: Naturalmente, nella raffigurazione artistica delle icone, una grande domanda è stata subito: le gambe erano fasciate singolarmente o tutte e due insieme? Tu cosa pensi?
Intervento: Non conosco le abitudini del tempo.
Intervento: Proprio su questo tema, il v.11,44 dice: “Uscì il morto” così, secco. Poi dice: “con i piedi e le mani fasciate, mentre la sua faccia era avvolta dal sudario”. Secondo me è difficile considerare questo “uscire” dal punto di vista, diciamo, storico, fisico; mentre trovo più bella, più giusta, più vera la lettura sovrasensibile che tu hai dato, in cui è lo spirito che ha sperimentato lo stato di morte inteso come ingresso nel mondo spirituale, il quale spirito esce dal mondo spirituale avendo ancora la corporeità legata, in uno stato cioè di catalessi, di incapacità a muoversi nel mondo. Infatti lo sciolgono solo dopo e infine lasciano che lui cammini in prima persona.
Archiati: Che cammini materialmente.
Intervento: Esatto. Io avevo scritto questa domanda su Lazzaro e oggi l’ho cancellata perché la lettura che hai dato tu mi sembra che sciolga questo problema. Altrimenti, come fa? Prima esce, ma tutto legato, e poi lo sciolgono: sarebbe un controsenso intrinseco alla successione degli eventi descritti.
Archiati: Allora, se posso tradurre in un altro modo (correggimi però), lei sta dicendo, giustamente, che il vangelo non si concentra su eventi di tipo fisico, sul lato della percezione materiale, ma si concentra sempre su ciò che avviene spiritual-mente, perché quella è la realtà. Che Lazzaro, in quanto corpo fisico, esca fuori dalla tomba fisica, per il vangelo di Giovanni è un elemento del tutto marginale rispetto al suo lasciare, come spirito umano, il mondo spirituale, cioè lasciare lo spirito puro, lo spirito non incarnato per ridiventare uno spirito incarnato. Lazzaro ora ha perso la dimestichezza di come si muove uno spirito incarnato, e ritornando nelle catene costituite dal corpo fisico è impacciato, adesso deve riorientarsi nel mondo fisico.
Questo tipo di letture, per gli esseri umani materialistici, sono misticismi e c’è chi dice: stai facendo dei misticismi sul testo! Invece, chi parte dalla realtà assoluta di ciò che è spirituale dice: in questo testo, ciò che avviene nel mondo fisico, che è percepibile con i sensi fisici, non è che sparisca ma è in sordina. In primo piano c’è sempre ciò che avviene nel mondo spirituale; in primo piano vengono descritte esperienze dello spirito e dell’anima di Lazzaro, in secondo piano cosa avviene alle sue gambe e alle sue mani. Però, se il lettore non sa neanche che esiste lo spirito e che esiste l’anima, legge subito che i piedi fisici sono legati e si chiede se la benda era così o cosà. Il vangelo non dice che erano i piedi fisici, quando parla di mani non dice mani fisiche; siamo noi che subito pensiamo a mani di materia, noi conosciamo solo quelle, ma è un nostro problema.
C’è anche una diversa capacità di esprimere la spiritualità da parte della lingua greca e della lingua latina: c’è un grosso Rubicone evolutivo fra il greco e il latino. Voglio dire: la lingua greca, e Steiner lo dice in diverse conferenze, quando dice “la testa” o quando dice “la mano” non intende mai soltanto la realtà materiale (lo pensiamo noi, forse, nei nostri tempi). La prima lingua che si è concentrata sull’elemento di percezione sensibile è il latino e perciò il latino è per eccellenza la lingua morta (questi sono i destini dell’umanità). Ma non possiamo capire questo testo se consideriamo morta la lingua greca e non rifacciamo sempre lo sforzo di vedere, in ogni parola, una realtà spirituale, una realtà animica, una realtà eterica e una realtà fisica.
E allora, una mano è un organo intriso di pensieri perché c’è l’intento di fare qualcosa: quando io prendo in mano questo gesso, qual è la realtà della mano? Fa parte della mia mano il fatto che i miei pensieri si trasformino nell’impulso volitivo di prendere il gesso: io non sono un sonnambulo in questo momento, quindi “mano” significa un fascio di pensieri, una realtà di pensiero. C’è allora un elemento spirituale – reale però, non sto inventando le cose! –; poi c’è una realtà animica, anch’essa compresa nella mano che non è soltanto materia, c’è un elemento animico perché forse faccio il gesto con rabbia, con impazienza, e quindi “mano” significa anche correnti animiche; poi si presuppone che ci sia una realtà eterica, altrimenti sarebbe la mano di un cadavere che non può muoversi e prendere il gesso; e poi c’è la materia fisica.
Noi, oggi, quando diciamo “uscì fuori con le mani e con i piedi”, pensiamo soltanto alla materia e pensiamo che il testo sia stato scritto così. No, no! Il testo è stato scritto con consapevolezza e con un linguaggio che corrisponde, che ha sempre tutti e quattro i livelli di realtà. Quindi, quali pensieri ci sono in queste mani e in queste gambe? Quali sentimenti animici? Quali correnti eteriche in questa materia? Quando il testo dice “le mani legate”, intende una quadruplice realtà.
Torniamo alla tua domanda, le icone. Siccome era una spiritualità che ancora aveva l’ultimo barlume di ciò che è spirituale – soprattutto le icone russe o orientali che hanno una tradizione dello spirito – fanno di tutto per non materializzare la cosa nel raffigurare questo Lazzaro. Ho visto delle icone dove tutti e due i piedi sono bendati insieme, eppure sta uscendo, così uno si dice: ma come fa a camminare fisicamente se i due piedi sono bendati insieme? Il pittore ti mette una provocazione, una contraddizione a livello fisico per ricordarti che non si tratta soltanto dei piedi fisici.
Intervento: Non ho alcun dubbio sull’interpretazione a livello spirituale di quest’avvenimento, però, la gente, lì, cosa vede? I giudei che vanno a riferire, come spettatori cosa hanno visto?
Archiati: Hanno visto ognuno una cosa diversa. Steiner ha raccontato diverse volte che in un’università di giurisprudenza hanno fatto un esperimento, poi ripetuto, con quelli che dovevano diventare giudici. Il giudice è colui che deve avere un minimo di giudizio per sapere che peso dare a una testimonianza, e il peso di una testimonianza è legato al vedere: questo testimone è capace di cogliere le cose oggettivamente? Ad esempio, se era sul luogo di un attentato ma non è capace di cogliere i fatti oggettivamente, mi racconta cose soggettive, non è attendibile. Allora, hanno fatto un esperimento: senza dire nulla agli studenti, hanno inscenato un’uccisione nell’aula universitaria stessa, l’hanno studiata in tutti i minimi particolari così da essere sicuri che tutto avvenisse esattamente come era stato preparato, in una ben precisa successione di eventi. L’esame consisteva in questo: tutti e trenta gli studenti dovevano restare in aula e scrivere cosa avevano visto. Ebbene, nessuno scrisse la stessa cosa e su trenta soltanto due o tre si avvicinarono un pochino all’oggettività di quello che era successo; la maggior parte aveva proprio totalmente sbagliato, non aveva visto oggettivamente le cose! L’attentato, ripeto, era stato organizzato in modo da sapere esattamente quali movimenti fare, quali percezioni trasmettere, in successione prestabilita.
Questo per dirvi quanto l’essere umano sia ancora soggettivo nel suo modo di percepire. Quindi, alla domanda: cosa hanno percepito coloro che erano presenti al risveglio di Lazzaro?, chi può dare una risposta? L’evento che c’era da percepire è inesauribile, ha sfaccettature infinite e ognuno tira fuori quello che gli è accessibile. Se noi facessimo un esperimento analogo e poi ci chiedessimo: cosa hai visto? saremmo strabiliati da quali e quante descrizioni avremmo, del tutto diverse.
Intervento: Notavo che già al capitolo decimo si parlava di mani; al v.10,28 “Nessuno le strapperà dalla mia mano”, poi v.10,29 “Ciò che mi ha dato il Padre mio è più grande di tutte le cose e nessuno lo può strappare dalla mano del Padre”; poi ancora al v.10,39 “Cercavano allora di prenderlo e Lui sfuggì dalle loro mani”; e poi ci sono le mani di Lazzaro, e i piedi che vengono liberati. Quindi mi sembrava che anche questo passaggio ci fosse: dalle mani del Padre e del Figlio, che sicuramente non hanno una connotazione materiale in questo contesto, si arriva all’iniziato Lazzaro che ha le mani libere e i piedi anche per operare fisica-mente.
Archiati: L’iniziazione che il Cristo compie sull’uomo Lazzaro (che è ogni essere umano), cioè la cristificazione dell’uomo, consiste nell’avere mani libere e piedi liberi per poter andare secondo l’orientamento della libertà e per poter compiere le opere che la libertà decide.
Intervento: E quando l’uomo vuole afferrare con le mani non gli riesce, se vuole carpire.
Archiati: Perché le mani sono fatte per donare, non per acchiap-pare, non per carpire.
Intervento: Le mani hanno un linguaggio essenziale. Anche in riferimento a ciò che è sacro. Sempre i santi fanno un bagno animico…
Archiati: E cioè?
Intervento: Come se loro donassero attraverso le mani…
Archiati: Lui è un restauratore…
Intervento: …anche le mani chiedono, chiedono e danno. E, diciamo, c’è un senso nel mostrare il palmo delle mani come forma di purezza. Infatti, se voi notate, hanno sempre il calice molto, molto alzato pur di esprimere meglio il palmo della mano; è più esterno possibile al corpo. Inoltre, se posso dirvi, ognuno di voi può sperimentare che nel contatto tra due mani si può sentire un calore che va oltre il materiale, c’è un senso che arriva proprio nell’interno del corpo. Adesso se volete vi faccio vedere, è semplicissimo. (Fa una dimostrazione col suo vicino di sedia su questo scambio di calore). Io non sono un pranoterapeuta ma… tutti noi abbiamo questi segni della mano, che sono segni molto importanti per quanto riguarda… adesso sono un po’ nervoso forse… però voi potete provare: questo è un dono che si fa tra moglie e marito.
Archiati: (rivolto a chi è stato coinvolto nell’esperimento) Tu che sei lì vicino: che effetto ti fa?
Intervento: Sento un grande cuore in lui, una grande forza di cuore.
Intervento: Potete provare, vi posso assicurare che non c’è nessun potere ultraterreno, è ciò che noi esprimiamo attraverso il palmo delle mani. Però c’è bisogno d’amore perché è qui (indica il palmo della mano) che passa. Sto dicendo una cosa vera, potete provare. Si prova un piacere che non è un piacere fisico, va oltre.
Archiati: T’è andata bene perché sei in Italia. In Germania, ti avrebbero già fatto fuori.
Intervento: Io ho un dubbio e vorrei una precisazione da te riguardo a un problema della libertà. La libertà dell’io inferiore è quella di mettersi in sintonia con la libertà dell’Io superiore del Figlio e del Padre? Cioè, praticamente, di accettare quella che è la loro volontà? Perché tu dicevi che se Lazzaro di per se stesso avesse offerto la sua vita in quel momento, nessuno avrebbe potuto ucciderlo perché non era la volontà del Padre, e la volontà del Figlio è quella di aderire alla volontà del Padre. Allora, per quello che ci riguarda individualmente, il margine di libertà che abbiamo è quello di entrare in armonia con la volontà del Padre e dell’Io superiore; oppure l’io individuale ha un margine di libertà ancora maggiore? Cioè… io non sono esperta di religione però mi sembra addirittura che alcune correnti religiose – ad esempio Calvino – giungevano a dire che l’uomo si sarebbe salvato solo se la grazia divina l’avesse permesso.
Intervento: Calvino si rifà ad Agostino, che mette tutto dalla parte della predestinazione; però Agostino, sottolineando in un modo unilaterale la predestinazione, praticamente non salva la libertà. Stai ponendo una domandina sulla libertà: cos’è la libertà. La libertà è la capacità di farti bene o di farti male, puoi fare tutte e due le cose.
Intervento: Ma se tutto è già deciso da un Io superiore, la strada è già pianificata.
Archiati: No, no, è l’opposto di questo. Se tu postuli che tutto è già deciso dall’Io superiore…
Intervento: No, non io! Tu prima hai detto: se l’Io superiore ha deciso che non è il momento, questa cosa non succede, l’io inferiore non riesce ad attuarla, nonostante la voglia, perché l’Io superiore ha già pianificato.
Archiati: Però il “provarci” è un’azione che ha conseguenze, quindi la cosa diventa complessa. Esempio: il bambino è piccolo, e i genitori sanno che, per quanto riguarda certe cose – piccole – c’è una libertà. Possono dire: se noi lo vogliamo lo farà, se noi non lo vogliamo, non lo farà. Però il bambino ci prova a fare quello che vuole e il provarci sono azioni, con conseguenze; e questo complica la libertà. La saggezza dell’Io superiore, o la saggezza della volontà divina, non è di proibire al nostro libero arbitrio di sperimentare (altrimenti non vorrebbero la nostra libertà) ma soltanto di impedire di farci male ad un punto tale da distruggere la possibilità di libertà. Se vogliono mantenerci liberi devono impedire che ci togliamo del tutto la libertà. Ci sono delle persone che si tolgono la vita – e allora sta a vedere se di vita ce n’è una sola. Vedi che le domande diventano più complesse?
Allora, facciamo un passo indietro e vediamo le cose con parametri molto più fondamentali; poi, stabiliti questi parametri, potremo porre le domande più minute.
Il bambino di cinque anni viene lasciato libero dai genitori sì o no?
Interventi: No… sì e no… un margine…
Archiati: Sì e no. Vedi? Non puoi dire “no” su tutta la linea, in assoluto. È complessa la cosa. Forse qualcuno ricorderà che ci sono tre livelli di libertà fondamentali, e la libertà umana è il livello mediano.
Tipo di libertà |
Livello |
Tipo di scelta |
super-libertà |
angelico |
tra bene e meglio tra bene e bene |
libertà |
umano |
tra bene e male |
sotto-libertà |
diabolico |
tra male e male tra male e peggio |
Segno tre livelli: uno qua sopra, uno qua sotto e qui, nel livello medio, metto la libertà umana, quella che noi chiamiamo libertà. È la libertà di scegliere tra bene e male: questa è la libertà specificamente umana (altrimenti non è libertà).
È la forma suprema di libertà? No, è una libertà imperfetta perché in questo tipo di libertà posso liberamente scegliere anche il male, e scegliere il male significa scegliere di perdere la libertà – questo è il male. Una cosa è male per l’essere umano soltanto nella misura in cui lo rende meno libero. Quando io decido di bere una bottiglia intera di whisky, il male consiste nel fatto che mi privo della libertà. Questo è male, moralmente. Finché io resto nella libertà, resto nel bene morale.
Quindi, l’uomo, avendo la libertà di scegliere il male ha la libertà di perdere la libertà sempre di nuovo: non su tutta la linea ma di volta in volta perderla, diventare meno libero. Abbandonarsi all’istinto è male perché perdo la libertà: l’istinto mi acchiappa, l’istinto esclude la libertà, perciò è male. Quindi, la libertà è il criterio della moralità. Non esistono altri criteri. Bene morale: una cosa è buona moralmente per l’uomo perché lo rende più libero. Male morale: una cosa è moralmente cattiva perché lo rende meno libero. Altri criteri puliti non ce ne sono, sono tutti criteri moraleggianti, non si orientano all’umano.
C’è un tipo di libertà superiore alla libertà umana, ma chiamiamola con un’altra parola, perché “libertà” è la possibilità di scelta tra il bene e il male: chiamiamola “super-libertà”. Di questa super-libertà noi non abbiamo esperienza. Possiamo crearne soltanto il concetto, a partire dalla nostra esperienza di libertà, dicendo: è diversa, non ne abbiamo l’esperienza ed è la libertà di scelta tra bene e bene e tra bene e meglio. Una libertà che è capace di scegliere soltanto tra bene e bene, è una libertà così perfetta che non va più persa perché non può scegliere il male, non è più capace di perdersi. Nella misura in cui un essere umano, nel suo esercizio di libertà – in cui può scegliere tra il bene e il male – sceglie sempre di nuovo il bene, sempre di nuovo il bene, sempre di nuovo il bene, accede un po’ alla volta al livello successivo (quello angelico), e diventerà sempre meno capace, per fortuna sua, di perdere la libertà.
Invece un essere umano che di anno in anno, di vita in vita, sceglie sempre di più di perdere la libertà, e questo è il male, diventerà sempre meno capace di confermarla. Allora, c’è una sfera inferiore della libertà, chiamiamola “sotto-libertà” (sono tutte parole che non abbiamo, concetti che andrebbero formati) ed è la libertà di scelta tra male e male, tra male e peggio. Il maligno, Mefistofele, ha ricevuto l’incarico che tutte le sue ispirazioni devono essere o un male o un altro male: guai se dà un’ispirazione che sia un bene! Allora sarebbe un diavolo che non serve a nulla, un povero diavolo.
Come il concetto di libertà quale scelta tra bene e bene, tra bene e meglio è il concetto di evoluzione angelica, così avere soltanto la possibilità di scelta fra un male e un altro male, tra male e peggio è il livello diabolico. In riferimento all’essere umano, però. Per l’umano ci sono due estremi: dove l’umano si divinizza o dove l’umano ricade a livello della bestia. Perché fare un’azione non libera, un’altra non libera, scegliere tra male e male, significa scegliere tra una non libertà e un’altra non libertà. Allora, la libertà di scelta tra male e male è la libertà di scelta dove libertà non c’è più, ed è il livello animale.
Posto questo fondamento conoscitivo, torniamo alla domanda: cos’è la libertà? La libertà è la capacità che hai di aumentare la tua libertà di volta in volta o di farla diminuire. Questa è la libertà. Quando aumenti la tua libertà, quando ti rendi più capace di libertà, questo è il bene morale, altri non ne esistono; e quando ti rendi meno capace di libertà, questo è il male morale, altri non ce ne sono. Perché diventare meno capace di libertà significa uccidere l’umano, e diventare più capace di libertà significa favorire, far vivere l’umano.
Intervento: Perciò, in pratica, la mia libertà di scelta ha una conseguenza anche sul mio Io superiore? Cioè, il mio agire nella libertà di bene trasformerà anche la mia evoluzione che poteva essere già…
Archiati: Stai attento: il mio Io superiore è questo signorino qui, che può scegliere soltanto tra bene e bene. Più io compio il bene e più mi identifico col mio Io superiore, ma lui non mi costringe a farlo, altrimenti non sarei libero. E più io compio il male e più io m’identifico con l’io inferiore, divento l’io inferiore, unicamente io inferiore, perché uccido in me l’Io superiore.
Intervento: Nel vangelo abbiamo appena incontrato la figura di Tommaso il Didimo e lo ritroveremo più avanti dopo la resurrezione. Mi puoi aiutare a conoscere meglio questo apostolo?
Archiati: Tommaso il Didimo – Didimo significa “spaccato in due” – è l’essere spaccato in due, sono le due anime nell’uomo che è sempre nella scelta tra il bene e il male, nella scelta tra l’Io superiore e l’io inferiore. La saggezza della libertà sta nel capire che mi conviene mettermi d’accordo con l’Io superiore, perché se non lo faccio divento meno libero; però non sono costretto a farlo, lo posso fare solo liberamente. Quindi Didimo significa “spaccato in due”: le due anime nell’uomo. Tommaso è l’uomo che deve scegliere se andare con Giovanni Lazzaro o con Giuda: o con Giovanni Lazzaro, che è l’Io superiore o con Giuda, che è l’io inferiore. Questo oscillare è la libertà.
Intervento: Allora, se io persisto a scegliere il male, mi precludo qualsiasi esperienza del bene…
Archiati: Scegliere il male significa che ti rendi sempre meno libero. Fai sempre la connessione tra male e libertà, altrimenti non sai cos’è “male”. La chiesa cattolica, ad esempio, vuole abbindolarti su un sacco di cose che sono male, ma non ti spiega perché sono male. Non ti spiega che un male è male perché ti rende meno libero e non perché lo dice lei. Quindi, bisogna fondare moralmente che male è male unicamente perché mi rende meno libero. Se non riesco a dimostrare che mi rende meno libero, non ho dimostrato che è male, chiaro? Ci siamo? Sennò saltano fuori di quelle confusioni che non si finisce più.
Intervento: Allora, come faccio io ad uccidere il mio Io superiore se è sempre stato detto che l’Io superiore è eterno?
Archiati: L’Io superiore è un frammento del Cristo. Se io nella mia evoluzione non m’identifico con l’Io superiore, esco dall’umano. Il mio Io superiore è un Io in potenziale, altrimenti l’evoluzione terrestre non servirebbe a nulla. È soltanto l’evoluzione dell’io inferiore che s’identifica sempre più con l’Io superiore, che fa passare l’Io superiore da una potenzialità a una realtà. L’uomo deve diventare ciò che è da sempre, però lo deve diventare. E può non diventarlo.
Intervento: È, si può dire, un progetto che si può realizzare oppure no.
Archiati: Se ti è venuta la categoria “progetto”…
Intervento: Sì, mi va bene. E poi, un’altra cosa: gli Angeli c’invidiano la nostra libertà. Loro scelgono sempre tra bene e bene.
Archiati: Noi siamo uomini non siamo Angeli, e possiamo parlare di Angeli soltanto per metafore. Ora io, invece di usare una metafora, uso una battuta: però prendi la battuta come metafora. Gli Angeli, quando vedono che noi abbiamo la scelta tra il bene e il male, dicono: oh, che noia per noi dover sempre scegliere tra il bene e il bene! È più interessante poter scegliere tra il bene e il male! Ma soltanto se la svolgi psicologicamente arrivi a spiegarti: loro invidiano la categoria umana perché non hanno esperienza di cosa significhi scegliere tra il bene e il male.
Se uno mastica i volumi dell’Opera Omnia 110[9] e 136[10], le cose si complicano, perché da sempre si parla di Angeli “caduti”. Se non sono capaci di male, come fanno ad essere “caduti”? In un certo senso, questa dimensione del bene e del male vale (ma le cose si complicano) anche per Angeli, Arcangeli e Principati. Solo fin lì, però. C’è una linea fatidica dove non si è più capaci di male, non si è più capaci di perdere la libertà: sta tra i Principati e le Potestà. E perciò abbiamo: Angeli e contro-Angeli, Arcangeli e contro-Arcangeli, Principati e contro-Principati. Il contro-Angelo è Lucifero (il luciferino); il contro-Arcangelico è Arimane (l’arimanico) e il contro-Principato sono gli Asura.
Ho fatto un po’ di sfoggio di scienza dello spirito... Quindi, le cose sono complesse. Torniamo alla domanda di prima: un bambino di 7-8 anni è libero o non è libero? È complessa la cosa; ma il mondo è complesso! A maggior ragione l’importanza di avere degli orientamenti. Vi convincono questi orientamenti, queste categorie di fondo?
Interventi: Sì... Sì… Sì…
Intervento: Una domanda sul passo in cui Caifa dice che è conveniente, per l’unità del popolo, che perisca il singolo. È un’affermazione di logica o risponde anche, così mi pareva, ad una realtà spirituale?
Archiati: È la logica dell’io inferiore: se devo scegliere tra perdere la mia pelle o farla perdere all’altro, faccio perdere la pelle all’altro, no?
Intervento: Volevo dire che lo sviluppo di un popolo, di una comunità, da una parte viene dagli atti singoli e dalla libertà individuale (per cui ognuno riesce a mettere in atto il bene e a non sacrificare quello che nella propria libertà riesce ad attuare); però dall’altra è anche vero che una comunità, se non è a servizio del singolo, se non riesce ad attuare anche le istanze del singolo, non è una comunità libera. Come in una famiglia: quando si è uno per tutti, cioè il singolo è a servizio della famiglia, e tutti sono a servizio dell’uno. Ci dovrebbe essere un equilibrio.
Archiati: Qual è l’immagine perfetta del “tutti per uno e uno per tutti”? L’organismo. Perciò le Scritture, quando queste disquisi-zioni un po’ teoriche diventano astratte, ti mettono l’immagine dell’organismo: “Io sono la vite e voi siete i tralci”[11] o “il corpo di Cristo”. Ci sono le varie membra però il corpo è uno solo.
Quello che tu hai detto va benissimo, come teoria è impeccabile, ma a livello più concreto si tratta di vedere, proprio concretamente, se per te in questo momento è più importante salvare la faccia della comunità o istituzione (una scuola, un ospedale ecc.) o se, più della faccia dell’istituzione, t’importa ogni individuo. Perché in fondo quando ci si siede e si fanno teorie, le teorie sono sempre belle, ma la realtà e diversa. Quando io parlo con un cardinale e gli chiedo: “Eminenza, è più importante la chiesa o il Cristo?”, risponderà: “Ma il Cristo, no!?”. Teoria! Perché in pratica, a livello concreto, devi andare a vedere se nel modo di operare l’importanza del Cristo va a farsi benedire perché sempre di nuovo, sempre, è più importante la chiesa. Quindi bisogna distinguere il livello di idealità, dove è più facile accordarsi, da ciò che si compie concretamente.
Intervento: Questa dinamica viene dalla vita concreta: bisogna essere svegli e scegliere.
Archiati: Certo. Perché tutti possono dire che è più importante l’individuo, in teoria, e invece poi nel concreto… Essere svegli significa guardare anche alla natura e alle conseguenze di ogni azione, cosa comporta e cosa produce. Questo tipo di disamina capillare vede le sorti della libertà o della non libertà, dell’apprezzamento dell’individuo oppure dell’asservimento dell’individuo al potere dell’istituzione. Per esempio, in una ditta ti possono dire: normalmente dovresti assolutamente avere questa libertà, perché l’individuo è sacro, però viviamo in tempi un po’ difficili, adesso stiamo facendo un’eccezione perché dobbiamo come ditta raggiungere questo obbiettivo. Poi ci sarà ancora più libertà. Poi, invece, salta fuori che l’eccezione diventa regola e allora tu sei sempre a servizio di una ditta che deve fiorire maggiormente perché poi quando fiorirà del tutto saremo tutti liberi. Però non arriva mai il fiorire del tutto e quindi sei sempre a servizio della ditta.
È questo occhio concreto che fa il passaggio di coscienza. L’anima razionale è l’anima che ragiona, fa teorie. L’anima cosciente è l’anima che si concentra sulla percezione singola, questa è la differenza, però ci vuole un’attenzione e anche una coscienza maggiorate rispetto alla teoria. Sulle teorie si va sempre d’accordo: chi ti può smontare quando dici “tutti per uno e uno per tutti”? È così papale, siamo tutti d’accordo. L’eroismo dell’ “uno per tutti”, e il “tutti per uno” perché l’umanità gli ha permesso, l’ha reso capace di essere un eroe.
A livello di teoria si lascia la realtà concreta, che è complessa, questo è il problema. Si lascia la realtà concreta e si va a un livello di astrazione che non ha più nulla a che fare con questa realtà. Lì è facile essere d’accordo, poi si esce dalla porta e ci si azzuffa perché c’è la realtà concreta. Siamo tutti uguali, siamo tutti d’accordo, no? Però poi andiamo a mangiare e io voglio la bistecca migliore: è finita l’uguaglianza!, se me la piglia l’altro mi arrabbio e allora l’uguaglianza dov’è?
Io capisco la scienza dello spirito di Steiner come l’arte del concreto. Questa è per me la scienza dello spirito di Steiner perché di teorie ce ne sono tante.
Intervento: Volevo esprimere una preoccupazione che esula un po’ da questa discussione però è al tempo stesso un elemento di concretezza, spero. Io ho molto apprezzato il lavoro che è stato fatto di redazione degli Atti di questo incontro del vangelo di Giovanni. Mi pare di capire che non sia assicurato questo lavoro per l’incontro precedente e per questo attuale. Adesso, senza disquisire sulle ragioni, mi permetto di sollevare questa questione, in maniera che noi, prima di andarcene domani, riusciamo ad esprimere una competenza in questo senso. Io qui dico la mia opinione ed è semplicemente la mia opinione…
Archiati: Oh, lui mica ci ha chiesto se noi vogliamo parlare di questa questione organizzativa, eh?
Intervento: Io volevo solo esprimere la mia opinione.
Archiati: Volevo dirti che ti faccio andare avanti per libera scelta mia. Vai pure avanti. Chiedi agli altri se sono d’accordo.
Interventi: (il pubblico accenna un applauso di approvazione).
Intervento: Io volevo dire che questo gruppo mi sembra molto cresciuto in quanto gruppo, rispetto alle prime volte. Vedo dialoghi e interventi molto più disciplinati…
Archiati: Insomma, l’anima di massa è migliorata, ecco.
Intervento: Sì, e adesso cominciamo a fare il passo successivo, cioè ad esprimere anche un atto volitivo. Secondo me, è necessario agire su due livelli. Il primo livello è: vedere se qualcuno si propone per fare il lavoro concreto di sbobinatura o di redazione di queste cose; il secondo livello è: vedere fra di noi di fare perlomeno una sottoscrizione per sostenere tutti i costi che ci sono di stampa, di tiratura, di materiale, eccetera. Siccome queste sono cose concrete, ma da non affrontare in questo momento perché la cena incombe, volevo trovare il modo, se Pietro Archiati è d’accordo e tutti noi siamo d’accordo, di discuterne entro domani a mezzogiorno. Perché noi siamo tutti qui come fruitori di un bellissimo discorso e c’è una partecipazione, notevole anche, qui all’incontro; però, come si è detto questa mattina, questi Atti, la trascrizione e redazione di questi incontri, sono poi utilissimi nella mia cameretta quando mi metto davanti certi percorsi; quindi hanno un risvolto operativo direi importante. Io vorrei che questa cosa non andasse persa. Ripeto, io esprimo sinceramente la mia opinione e non credo…
Archiati: È più che un’opinione
Intervento: Però se è un’opinione non solo mia sarebbe bene che venisse fuori da una discussione una concreta proposta operativa.
Archiati: Quanti dei presenti desiderano avere in mano, oltre ai miei sproloqui, un testo redatto?
Interventi: Quasi tutti alzano la mano.
Archiati: È la stragrande maggioranza, poco più di 50 persone. Altro elemento di percezione importante: del terzo fascicolo che è appena uscito, quanti ne avete venduti? Perché è quello il termometro, è inutile far belle teorie se poi la realtà… Perché se si fa questo lavoro – e Stefania Carosi può dire quanto lavoro c’è da fare! – e poi comprano i fascicoli soltanto 50 persone, non va fatto.
Intervento: Una cinquantina.
Intervento: A noi che siamo qui, cinquanta. Ma poi non si vendono solo qua.
Archiati: Queste 50 o 100 persone non hanno che da accordarsi e chiedersi: quanto vogliamo pagare o apprezzare il lavoro di chi fa un minimo di redazione (quando uno parla non finisce tante frasi, ecc.; poi c’è bisogno di un minimo di rifinitura, insomma è un lavoraccio)? E allora mettiamoci d’accordo con chi fa il lavoro – e meglio di Stefania non credo che ci sia qualcuno.
L’altra domanda che si pone, per me e anche per voi, è che io riterrei molto grave se ci fossero delle persone, addirittura decine, che con la scusa che tanto poi ci sarà lo scritto, non partecipano a questi seminari. Questo sarebbe molto grave, non soltanto perché qui ci sarebbe uno che piglierebbe meno soldi – non è tanto quello o, se volete, anche quello – ma anche perché significherebbe che noi verremmo a favorire un frammento di morte, creando un tipo di coscienza che non coglie più la differenza abissale tra la comunicazione orale e il leggere qualcosa di morto. Quindi pensiamoci bene.
Intervento: (Carosi) Infatti, proprio per questo motivo siamo in ritardo volutamente nella pubblicazione dei fascicoli, altrimenti si poteva benissimo averli già tutti.
Intervento: Però si può leggere anche all’opposto: non scrivendo gli Atti si preclude, a uno che non può venire, la possibilità di averli. Ogni medaglia ha sempre un’altra faccia.
Archiati: Sì, ma lì c’è un altro discorso, che forse a te non piace. Piaccia o no, l’altro discorso è che se uno non è presente vuol dire che questo evento non è previsto per lui. Perché occorre dare il giusto peso all’altro elemento, per far sì che i due piatti siano veramente uguali: ci sono persone che non vengono perché dicono: tanto lo leggo. E questo è molto grave, è veramente molto grave.
Intervento: Per evitare questo si potrebbero vendere gli Atti soltanto a quelli che vengono qua.
Interventi. Brusio di stupore e disapprovazione.
Archiati: All’inizio io ho fatto un tentativo in questa direzione, e questo vi dimostra che le cose le ho pensate un pochino prima di voi, perché è una vita che ci lavoro, e avevo detto: vendiamolo a metà prezzo a coloro che vengono, in modo da incoraggiarli a venire. Poi, le persone che sono venute ne hanno approfittato e l’hanno comprato a metà prezzo per altre cinquanta persone. E allora Fausto (l’editore) è stato costretto a venderli tutti a metà prezzo, e così con i primi due fascicoli non ha coperto quasi neanche le spese sostenute. Ci sono stati, rispetto ai primi due Atti, elementi che secondo me sono di disonestà da parte di qualcuno: il voler approfittare comprando più volumi possibili a metà prezzo. No, eh, non è lo spirito giusto perché allora si rende impossibile il tutto.
Vi ripeto, per me è un grosso problema di coscienza: sapere o espormi al fatto che ci siano persone che potrebbero venire e non vengono. Se possono venire e non vengono, la cosa non gli appartiene, e non esiste che si prendano in mano una cosa morta, il corpus mortum.
Intervento: Facciamo una sottoscrizione tra i presenti… è un sussidio per lavorarci su…
Archiati: Ti metti d’accordo però con chi fa la redazione.
Intervento: Si potrebbe fare così: si fa il lavoro lo stesso, ma si vende solo poi, quando il corso è finito tutto.
Archiati: Ho pensato anche questo…
Intervento: Io so che a Treviso (ho ricevuto un’e-mail da una mia amica architetto) c’è un gruppo che sta studiando le dispense del nostro primo incontro a San Galgano: e questa non è una cosa negativa, secondo me.
Archiati: Se vuoi, ti posso dimostrare che è una cosa negativissima. Se non ci fossero testi di Rudolf Steiner, capirei l’utilità di un testo di commento sul vangelo di Giovanni. Ma, essendoci centinaia di testi di Rudolf Steiner, non è cosa positiva che si studi una persona vivente e se ne faccia un guru e la si esponga a tutte le critiche che ci sono.
Intervento: Loro sono entusiasti di quello che stanno…
Archiati: No! Studino Steiner! Non è cosa positiva studiare Archiati. Se non ci fosse Steiner allora si potrebbe dire: non c’è nulla di meglio. Ma c’è di meglio!
Intervento: Senti, approfitto di questo microfono che ho in mano per chiederti se dopo mi puoi spiegare l’etimologia di quella parola stranissima che dite ogni tanto: ierofante.
Archiati: No, scusa, adesso resta all’argomento, lascia perdere lo ierofante. Voglio sentire altri pensieri, altri pareri su questa questione importante, lascialo perdere lo ierofante, scusa.
Intervento: Io volevo chiedere alla signora che ne ha parlato: intendi Treviso città o Treviso provincia? Perché noi ci troviamo a studiare, però studiamo soltanto questo testo: mi è venuto il dubbio che tu parlassi di noi che siamo della provincia.
Intervento: Treviso città.
Archiati: Se c’è un piccolo gruppo di studio nel 2003-2004, studino Steiner e non Archiati. Scusate, ma dobbiamo capire queste cose: Archiati è un pinco pallino qualsiasi vivente, lasciatelo scamiciarsi quando parla ma non studiatelo, perché abbiamo uno Steiner nell’umanità! E non mi convince che mi vengano a dire: ma Steiner non lo capiamo. Se siete in sette, qualcosa lo metterete insieme, non siete mica sette imbecilli.
Intervento: Pietro, penso che studino il vangelo con l’aiuto di Archiati.
Archiati: Ma no! Lo studino con l’aiuto di Steiner, è questo che ti sto dicendo. Una persona, nel karma dell’umanità, ha un tutt’altro peso quando è morta. Noi non capiamo nulla delle leggi fondamentali dell’evoluzione dell’umanità.
Intervento: Non ci provocare.
Archiati: Come, non ci provocare? Quando io sarò morto potrete fare dei miei testi quello che vorrete, ma finché io sono vivo le conseguenze su di me sono tutt’altre, perché sono vivo. C’è gente che quando viene a sapere che qualcuno studia Pietro Archiati, mi odia ferocemente; e ne ha tutto il diritto, scusa, perché non esiste studiare Archiati quando c’è Steiner. Ma scusate, c’è qui qualcuno che ha un’idea di Rudolf Steiner? C’è o non c’è? E sono centinaia di testi, santa pace! Dalle conferenze di Amburgo sul vangelo di Giovanni, alle altre conferenze: i miei balbettii sono un nulla a confronto, ma veramente un nulla.
Intervento: La prima volta ho tentato di scrivere degli appunti su quello che tu dicevi e devo dire che mi distraevo perché tra l’ascoltare e lo scrivere… io, poi, non ne sapevo niente di questi argomenti e quindi capivo molto poco. Il fatto di avere le dispense mi ha molto tranquillizzata, non scrivo più niente, mi sono più concentrata e riesco a capire tutto, almeno quello che posso.
Archiati: Per chi partecipa, le dispense sono una bella cosa. Steiner diceva che lo scritto deve servire per richiamare alla memoria ciò che prima si è scambiato oralmente. Quindi, le dispense, gli Atti, chiamateli come volete, per chi partecipa vanno benissimo. Il problema morale è di chi non viene, con la scusa che tanto poi ha il corpus mortum, e quindi chiaramente le dispense non sono per lui. Questo vorrei evitare. Invece chi ci viene utilizzi le dispense, perché così qui può concentrarsi di più ad ascoltare e non ha bisogno di pigliare appunti. Allora sono dispense che gli ricordano ciò che abbiamo vissuto qui insieme: è tutta un’altra cosa, scusate! È tutta un’altra cosa.
Buon appetito.
Venerdì 29 agosto 2003, sera
vv. 12,1 - 12,11
Cominciamo col capitolo 12. In effetti andrebbe fatto partire dal v.55 del capitolo 11 perché nella logica del discorso la cesura è tra i versetti 11,54 e 11,55. I capitoli sono stati suddivisi non sempre in modo proprio.
Leggiamo di nuovo i versetti 55, 56 e 57 del capitolo 11:
11,55: Era vicina la Pasqua dei giudei e molti salivano a Gerusalemme dalle regioni, dalla campagna, prima della Pasqua per purificarsi.
11,56: Cercavano Gesù e dicevano gli uni agli altri stanti nel tempio: «Cosa vi sembra? Che forse non viene alla festa?».
11,57: Infatti i sommi sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che se qualcuno sapeva dove si trovava lo segnalasse affinché potessero arrestarlo (agguantarlo, prenderlo).
Adesso inizia il capitolo12.
12,1 Gesù sei giorni prima della Pasqua venne a Betania, dove era Lazzaro, che Gesù aveva risvegliato dai morti.
La Pasqua va a finire al sabato e la sua morte è il venerdì: quindi sei giorni prima della Pasqua. Possiamo dire che mancano pochissimi giorni alla morte del Cristo: sono gli ultimissimi giorni.
12,2 Gli fecero un pasto colà, e Marta serviva, e Lazzaro era uno dei commensali.
Marta viene presentata come colei che pensa alle cose materiali: serviva il necessario da mangiare. Non credo che il vangelo intenda dire che Marta faceva una cosa più o meno importante, però questa mansione di Marta è indispensabile. Se lasciamo la sfera di una persona singola ma guardiamo alle forze che sono necessarie in ogni persona, la funzione di Marta esprime l’amore alle cose concrete, l’amore a ciò che ho fatto del corporeo, come base indispensabile per l’evoluzione dell’anima e per l’evoluzione dello spirito. Sia Maria, sia Lazzaro, sia anche il Cristo sono certo grati a Marta per il suo prodigarsi, per il prendere su di sé questa mansione. Se ciò che fa Marta non fosse Marta a farlo, lo dovrebbe fare qualcun altro.
12,3 Maria allora presa una libbra di olio profumato di vero nardo costoso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli; e la casa si riempì dell’aroma del nardo.
Nardo schietto, verace, col quale lavò, spalmò i piedi di Gesù e li asciugò coi suoi capelli e tutta la casa si riempì dell’aroma dell’unguento. Marta fa tutto ciò che è necessario per la vita sulla Terra: in questo caso il mangiare. Maria, lavando i piedi con quest’unguento prezioso li prepara per la sepoltura (verrà detto dopo). Quindi, Marta pensa alla preziosità del corpo in quanto strumento per vivere sulla Terra; ma il senso della vita, in un certo senso, è la morte, il prepararci alla morte per entrare nel mondo spirituale.
Marta e Maria insieme rappresentano l’equilibrio dell’amore che l’essere umano ha per la vita (Marta) e, non meno, per la morte, per l’entrata nel mondo spirituale (Maria). Essere sempre gioiosamente pronti a morire quando l’ora viene.
I due elementi che si incontrano nel caso di Maria sono: la testa, e i piedi. Nella testa soprattutto i capelli: l’elemento femminile ha una chioma, i capelli molto più folti perché sono –tutt’oggi – come correnti astrali cristallizzate. Nell’essere umano in media, l’elemento femminile, la donna, ha più forze astrali dell’elemento maschile, e tende ad avere capelli più copiosi. Questo ci fa capire perché San Paolo dice: “Nell’assemblea cristiana non sia l’elemento femminile a prevalere”, in quanto espressione di questa astralità non ancora compenetrata dall’Io. L’elemento femminile della testa, che si esprime soprattutto nell’astralità dei capelli, si congiunge con l’elemento piedi del Cristo. C’è una polarità importantissima: i piedi sono fatti per camminare e la testa è fatta per pensare.
L’amore di Maria è, diciamo, l’anima umana che gioisce del fatto che il Cristo sta per dare la sua vita. E lei, con questo gesto, dimostra che la morte del Cristo sarà il presupposto perché Lui possa camminare spiritualmente su tutte le vie che gli esseri umani percorrono. Lui, scomparendo fisicamente, si rende onni-presente sulla Terra e così i suoi piedi spirituali accompagneranno ogni cammino umano. Questa unzione di Betania è un’unzione per la morte fisica, che ama la decisione del Cristo di entrare nella morte fisica, perché questa è il presupposto per la resurrezione del Cristo che accompagna spiritualmente, ma realissimamente, ogni cammino umano.
Ogni cammino umano fatto in compagnia del Cristo, che ogni essere umano può fare se cerca l’umano, se ama l’umano, sarà un cammino fatto con piedi unti perché rendono l’essere umano, che ama il Cristo e cerca il Cristo, sacerdote, re e profeta. Unto come sacerdote, nel senso che capirà sempre meglio i mondi spirituali; unto come re, nel senso che l’essere umano attraverso il suo cammino farà passi evolutivi che lo renderanno sempre di più capace di arte sociale, di arte politica; unto come profeta, nel senso che, vivendo il presente e capendo sempre di più il senso del passato e del presente, l’uomo capirà sempre meglio il fine dell’evoluzione, e la potrà anticipare, profetizzare, come mèta globale.
Ecco il rapporto dell’uomo col mondo spirituale in quanto sacerdote (primo tipo di unzione), il rapporto col mondo sociale in quanto re (secondo tipo di unzione) e il rapporto col futuro, cioè con il dinamismo evolutivo verso cui ogni essere umano si rivolge con i suoi passi evolutivi, in quanto profeta (terzo tipo di unzione).
Il fatto che sia l’elemento astrale (i capelli), quindi l’elemento animico (Maria) ad unirsi ai piedi del Cristo, ai passi dell’Io, dell’Io-sono, significa che d’ora in poi la svolta dell’evoluzione consiste nella capacità dell’anima umana di amare lo spirito. Le forze astrali, che si esprimono proprio primariamente nei capelli, rendono regali, sacerdotali, profetici i passi dell’Io sono, nella misura in cui ogni essere umano che cammina interiorizza il Cristo, lo cerca in quanto fenomeno primigenio dell’umano e cerca di compiere i suoi passi con lo stesso spirito del Cristo.
Naturalmente Marta è un po’ come un retroscena, in quanto si può pensare che ha svolto il suo compito di servire quello che c’era da mangiare per far da premessa, una volta mangiato, a questo secondo momento in cui subentra Maria che lava i piedi. Però, se non ci fosse la base del cibarsi e quindi, diciamo, della vita ordinaria, questa bellissima scena che avviene con Maria non sarebbe possibile. Quindi, possiamo pensare che sia il Cristo sia Maria, compiono questo gesto che è profetico, regale e sacerdotale, con grande gratitudine verso Marta che lo ha reso possibile.
La casa, che è l’immagine primigenia del corpo, si riempie di questo aroma, profumo gradito. Gli esseri umani archetipici, i santi, morivano “in odore di santità”, e invece il diavolo “puzza”. Il buono e il cattivo, il bene e il male morale a livello dell’olfatto. Cosa vuol dire sentire un profumo gradevole, cosa vuol dire sentire una puzza? Che esperienza è? Il profumo gradevole mi fa espandere, lo sento come favorevole alla mia evoluzione. La puzza è recepita come una minaccia a tutto l’organismo. Perciò c’è questo riferimento alla casa di prima: tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento.
Come dicevo già prima, i vangeli sono passibili di infinite digressioni: il lavare, l’asciugare sono le due metà dell’evolu-zione. La prima metà deve essere umorale, nel senso che il vitale deve crescere sempre di più; la seconda metà dell’evoluzione è un asciugamento, un rinsecchirsi. Così come in primavera, fino all’estate, c’è un prevalere dell’elemento acqueo, poi dopo l’estate vengono l’autunno con l’inverno e c’è un asciugamento. Le forze vitali si ritirano per far posto a una resurrezione dello spirito.
12,4 Dice Giuda l’Iscariota, uno dei suoi discepoli, colui che l’avrebbe tradito:
Senza le forze del tradimento, senza le controforze, neanche il Cristo potrebbe esprimere le forze del bene. Perciò il Cristo doveva accogliere, nella cerchia dei dodici, anche le forze del tradimento: senza la controforza nessuna forza può rafforzarsi, e le forze del tradimento ci vogliono.
Il tradimento dell’umano sta nell’usare lo spirito a servizio della materia, anziché usare la materia a servizio dello spirito. Vedremo che Maria ha consumato, secondo Giuda, un bene economico di trecento denari, un valore enorme, l’ha sperperato, l’ha sprecato per lo spirito, per ungere questo corpo per la morte. Il testo fa capire che Maria, con questo gesto di unzione compie un’estrema unzione vera e propria. Maria ha una premonizione del fatto che il Cristo sta per dare la sua vita, e gli dà l’estrema unzione: questa è la cosa bella di Betania.
Per accompagnare il Cristo nella sua morte niente è troppo, nulla è spreco, perché ciò che è materiale, anche l’unguento più prezioso, se viene consumato per il cammino dello spirito, per questi passi dei piedi che coprono il cammino dello spirito, raggiunge il suo scopo. Quando invece lo spirito, l’intelligenza, vengono usati a servizio del denaro, a servizio delle cose materiali, allora si agisce contro l’umano. Queste sono le due scelte: o tutto ciò che è materiale va a servizio del cammino dello spirito – cammino dei piedi, cammino del Cristo che è in me, in te, in tutti noi – oppure le forze dello spirito, dell’intelligenza, vanno a servizio della materia, del potere terreno, del possesso di denaro o di cose materiali.
Si potrebbe dire che qui abbiamo una bellissima polarità, tra Maria, l’anima che ama lo spirito, e Giuda, l’attaccamento alle cose materiali che uccide, tradisce lo spirito (magari senza capire ciò che fa). Però l’attaccamento alle cose materiali, in questo caso al denaro, ti fa uccidere lo spirito, ti porta a tradirlo pensando di compiere una cosa buona, di trarne un vantaggio. Se consideriamo Maria e Giuda come due dimensioni che ci devono essere in ogni uomo, ognuno di noi deve dirsi: c’è in me una dimensione di Maria, che volentieri lava i piedi, li unge e poi li asciuga con i capelli mettendo tutto l’animico, tutta l’astralità a servizio del cammino dell’evoluzione dello spirito; ma c’è, in ognuno, non meno la tendenza a ricattare i passi dello spirito, a non dargli questo unguento che li rende profumati, buoni, perché vanno bene all’essere umano, c’è la tendenza a voler vendere ciò che potrebbe essere speso o prodigato per lo spirito, per avere dei denari.
12,5 «Perché questo nardo non è stato venduto per trecento denari e il ricavato dato ai poveri?»
Giuda dice: invece di sprecarlo lo si poteva vendere per dare il denaro ai poveri. Queste parole anche nel vangelo di Marco vengono dette in un modo chiaro. Nel vangelo di Lazzaro-Giovanni, che è appena stato risvegliato dal Cristo, viene spiegata un pochino la fenomenologia di Giuda, che è una specie di polarità col fenomeno Lazzaro.
Indipendentemente dal fatto se avessero potuto o no vendere questo unguento e avessero potuto ricavare trecento denari, e indipendentemente dal fatto se poi Giuda l’avrebbe dato ai poveri o no, quindi prescindendo dalle sue intenzioni, la sua osserva-zione non è giusta? Non sarebbe stato meglio in effetti, anziché sprecare quest’olio prezioso, venderlo per dare il ricavato ai poveri?
Tutto dipende da quanto è importante per l’essere umano l’assetto di questo mondo. Per “poveri” Giuda intende poveri materialmente, perché se usa i soldi per dare da mangiare ai poveri, intende mantenere in piedi l’assetto materiale di questo mondo. Cioè: tutto dipende da quanto è importante per l’individuo il mondo materiale, di cui fan parte anche i poveri, e quanto invece è importante per il singolo il mondo materiale in quanto strumento per qualcosa di ancora molto più importante, che è il cammino dell’evoluzione dello spirito.
Se per una persona non è importante il cammino dello spirito, o addirittura – come per certi scienziati – lo spirito non è una realtà, allora rimane soltanto la realtà fisica e non c’è che da dare ragione a Giuda: è uno spreco inutile. Perciò Giovanni Lazzaro, l’autore, dà un altro elemento d’informazione e dice:
12,6 Ciò disse non perché gli stavano a cuore i poveri ma perché era ladro e portando la borsa del denaro portava via ciò che ci mettevano dentro.
Era una comitiva itinerante, quella di Gesù con gli apostoli, una piccola comunità – lo sappiamo dai vangeli – che andava di posto in posto e la gente offriva qualcosa, perché potessero comprarsi da mangiare ecc. E il vangelo dice che ciò che veniva buttato dentro la sacchetta, Giuda se lo portava via, lo toglieva.
Può darsi che qualcuno di voi voglia riprendere alcuni elementi di questa fenomenologia di Giuda; che è molto importante, è proprio una descrizione essenziale della situazione dell’umanità. Giuda, come individuo, è uno dei dodici, ha anticipato ciò che l’umanità, in grande, è diventata oggi: l’umanità di oggi è omicida del Cristo, nel senso che ha dimenticato il Cristo o l’ha messo da parte, ed è suicida in quanto essendo materialista uccide lo spirito in sé, uccide la parte migliore di sé. Noi oggi abbiamo, in tutto e per tutto, come mai in un’epoca storica è successo, una fenomenologia prevalentemente di Giuda.
Abbiamo due tipi di forze, direbbe la scienza dello spirito: quelle luciferiche e quelle arimaniche. Il Cristo in mezzo. I due elementi che danno morte al Cristo, le due controforze, sono Lucifero e Arimane: da un lato la potenza di questo mondo, quindi l’assillo del potere (Arimane) e dall’altro l’egoismo interiore (Lucifero).
Queste due controforze, che poi si esprimono sul Calvario con la croce del Cristo in mezzo e i due ladroni a destra e a sinistra, sono l’espressione del ladro e del brigante. Nel vangelo di Giovanni la fenomenologia del ladro attorno alla passione e alla morte di Cristo – e qui entriamo già nella seconda parte del vangelo di Giovanni, come vedremo – è la fenomenologia di Pietro, perché Pietro vive nella passione e nella morte del Cristo un obnubilamento di coscienza, un oscuramento di coscienza. L’altro polo, quello opposto, è Giuda che tradisce, quindi è il brigante che picchia. Pietro si chiude in sé, non capisce più nulla: è la figura del ladro che prende solo per sé, che si chiude dentro di sé e non contribuisce a nulla. Quindi i due fenomeni, il rinnega-mento di Pietro ed il tradimento di Giuda, sono polari.
Pietro come rinnegherà? Gli viene chiesto: ma tu non sei discepolo di questo che stanno condannando a morte? E lui: no, non lo conosco, no, non lo sono. Dicendo “non lo sono” inverte il nome del Cristo, che è “Io sono”, ™gè e„m… (egò eimì). Pietro dice “non sono”, oÙk e„m… (uk eimì). “Sono” e “non sono”. “Io sono un Io” e “no, non sono un Io”. Steiner insiste, cosa molto impor-tante, che in quel momento, quando dice: no, non lo conosco, non sono suo discepolo, Pietro non mente, non dice una menzogna. La sua coscienza è talmente oscurata che non ha coscienza del rapporto che ha avuto col Cristo.
Quindi abbiamo in Pietro un oscuramento di coscienza e in Giuda il tradimento. Il tradimento è l’elemento aggressivo che poi porta alla morte del Cristo. Queste sono le due polarità. Pietro non mente, ma la sua coscienza è oscurata, non sa più nulla di come sia vissuto per tre anni con questo Gesù di Nazareth; poi, dopo la resurrezione, un po’ alla volta ritorna in Pietro la memoria di quello che è successo.
Giovanni Lazzaro, che scrive questo testo unico tra tutti e quattro i vangeli, può scriverlo in un modo così chiaro, proprio perché lui, in un certo senso, si pone al centro di questa polarità: descrive la polarità luciferico-arimanica, la polarità tra ladro e brigante in Pietro e in Giuda. E le descrive come due polarità necessarie per l’evento del Golgota, l’evento della morte del Cristo.
Chiediamoci cosa significa Giuda, che tipo è, visto che rappresenta l’assillo dell’uomo d’oggi per il denaro, perché senza soldi non si campa. Giuda è un uomo moderno ante litteram – come ho cercato di esprimere in un mio testo su Giuda[12]. Allora, prima di tutto non gli interessano i poveri, in secondo luogo è l’economo della compagnia e ruba i soldi che gli altri mettono dentro alla sacchetta. Come arriva un essere umano a questo punto dell’evoluzione? Che è successo? Come si arriva ad essere così egoisti, così ciechi o così sfruttatori?
Intervento: È un’omissione.
Archiati: Un essere umano può attaccarsi in un modo così assoluto, così virulento al soldo, alle cose materiali, soltanto se arriva a un punto dell’evoluzione in cui ha perso di vista lo spirito e quindi non è più in grado di godere, di gioire di ciò che è spirituale.
È possibile salvare il Giuda, salvarlo dicendo: non lo condanniamo, perché in fondo siamo tutti Giuda in questa compagine di materialismo dilagante nella quale viviamo. Noi – privilegiati, se volete – parliamo di spirito, però poi sta a vedere se facciamo l’esperienza reale di questo spirito. Il Cristo amava Lazzaro (in senso esoterico, in quanto era l’unico essere umano in grado di venire iniziato da Lui), ma se il Cristo, a un livello più umano, ha una preferenza, un debole, ce l’ha per Giuda. Perché il Cristo non è venuto a salvare quelli che stanno bene, è venuto a salvare i peccatori, l’uomo che sta male, è venuto a redimere l’uomo caduto, e più caduto di Giuda non si può. Quindi è chiaro che il Cristo, nei confronti di Giuda, si sente massimamente redentore perché Giuda è l’uomo massimamente bisognoso di redenzione.
Allora, il passo successivo è quello di vincere i nostri atavici moralismi di un cristianesimo malinteso e di dire che nessun essere umano può risalire, può sperimentare la redenzione, può essere amato fino in fondo dal Cristo se non passa per la cruna dell’ago della posizione di Giuda. Quindi, passare per l’esperienza di Giuda è necessario nell’evoluzione perché soltanto colui che è andato fino in fondo è in grado di ripercorrere, con libertà propria, tutti i passi che riconducono in alto. La redenzione presuppone la caduta e non ci può essere redenzione se non c’è la caduta. L’unica cosa che può mancare è il rendersi conto di quanto uno è caduto.
Quindi, anche per quanto riguarda Giuda, va benissimo, tant’è vero che il Cristo gli dirà: quello che devi fare, fallo presto. Cioè: adesso devi passare per questo abisso, ma non ti trattenere troppo a lungo in quello sprofondo; passalo e poi comincia a risalire. Naturalmente intende dire: avrai tutta la seconda metà dell’evolu-zione a disposizione per risalire. Però nessuno può risalire, individualmente e liberamente, se prima non è sceso fino in fondo.
Il punto infimo della caduta è la coscienza di Giuda che tradisce il Figlio dell’uomo per avidità di denaro: il denaro diventa più importante per l’uomo, che non l’uomo, e questo lo vediamo, oggi, a livello culturale e dappertutto. Il tradimento di allora ha riguardato una individualità, se vogliamo dire così, ma oggi è una realtà che riguarda tutta l’umanità; perciò è importante approfondire la fenomenologia di Giuda, perché l’umanità di oggi, col rilievo, con lo spicco che dà al denaro, asservendo l’essere umano al denaro, è nella posizione di Giuda che tradisce e manda a morte l’umano in ogni uomo, e rende disumana l’umanità.
Prendiamo per esempio i recenti eventi internazionali, che riguardano un po’ tutta l’umanità: la nazione più potente, USA, che bombarda un’altra nazione, l’Iraq. Credo che tutti quanti noi ci diciamo che non si può sostenere che il denaro non c’entri nulla. Certo che c’entra! I fattori sono tanti e senz’altro complessi, ma il denaro c’entra eccome perché se non ci fosse alcun interesse di denaro le cose, penso, andrebbero diversamente. Quindi il mistero di Giuda riguarda in un modo intensissimo, diretto, l’umanità di oggi.
Terminata questa caratterizzazione di Giuda, Cristo si rivolge a Giuda stesso.
12,7 Disse Gesù a Giuda: «Lasciala fare, affinché lo conservi per il giorno della mia sepoltura;»
Non impedire, non intervenire a proibire ciò che lei sta facendo, lasciala fare: quindi il Cristo adesso deve intervenire a favore della legittimità, della bontà di quello che Maria sta facendo. “Affinché lo conservi…” qui indica che in questo gesto di Maria c’è la premonizione dell’anima, che tutto ciò che è corporeo è perituro. E Maria unge con l’estrema unzione, benedice la morte; perché se il corporeo non morisse, se cieli e terra non passassero, non potrebbe risorgere lo spirito. Lo spirito risorge soltanto quando c’è almeno un frammento di morte di qualcosa che è vivo.
Soltanto chi, nel morire, nel consumarsi dello strumento fisico, vive il risorgere di ciò che è di anima e di ciò che è di spirito, ha il diritto di benedire – di dire bene – la morte, la morte di ciò che è materiale. Se invece ciò che è materiale – il corpo, per esempio – perisce, viene consumato senza sprigionare energia dello spirito, allora è stato vano, è stato uno spreco, un’omissione. Il sacrificio, l’offerta di sé, di ciò che è corporeo, la sua morte, non ha portato a resurrezione.
Il male non è mai il consumarsi, il morire di ciò che è fisico: no, anzi, quella è proprio la cosa che si dovrebbe benedire perché normalmente, in senso umano, il consumarsi di ciò che è corporeo dovrebbe essere il correlato fisico del risorgere, del rilucere dello spirito. Come in una candela, dove il consumarsi della cera è il rilucere della fiamma. La fiamma riluce soltanto consumando la cera. Se ci fosse un consumare la cera senza la fiamma, non avrebbe senso consumare la cera; quindi non si può dire, senza riferimento alla fiamma, se consumare la cera sia una cosa buona o no. È buona o cattiva per l’umano in riferimento alla fiamma che c’è o che si omette. Giuda non vede la risurrezione del Cristo, che da Essere spirituale penetra nel cuore e nelle menti di tutti gli esseri umani, non vede che questa resurrezione spirituale è basata sul consumarsi e morire di questo corpo, e così vede solo uno spreco.
In altre parole, benedice il morire, benedice il consumarsi fisico soltanto colui che trasforma il fisico in uno sprigionarsi dello spirito. Se questo non avviene, se si omette lo sprigionarsi dello spirito, tocca vedere ogni tipo di consumazione fisica come spreco, come negativo, proprio perché non produce nulla di positivo. Quindi il criterio del bene e del male relativo a ciò che è corporeo, non è nel corporeo; però è difficile spiegarlo a un Giuda che non conosce la realtà dello spirito.
A questo punto c’è una domanda che si può porre dopo duemila anni, avendo comprensione del fatto che nell’anno mille forse l’umanità non era ancora in grado di porsela. La domanda che abbiamo il diritto di porre è: se duemila anni fa lo stadio evolutivo della coscienza di Giuda, con tutta la sua buona volontà, non era in grado di cogliere la resurrezione dello spirito del Cristo proprio grazie al morire del suo corpo, e quindi deve ricevere questa estrema unzione che si compie soltanto “sprecando”, consumando, facendo morire ciò che è materiale, se Giuda è in questo stadio evolutivo di coscienza, vogliamo o non vogliamo dargli tempo a sufficienza per camminare oltre nella sua coscienza?
Il Cristo come si pone di fronte a questo stadio di coscienza di Giuda? Potrà mai pensare: caro Giuda, fra poco verrà anche per te la morte e poi andrai all’inferno? No. Giuda, proprio perché tu sei l’uomo al punto infimo della caduta della coscienza, dell’oscura-mento, dell’accecamento che non conosce più lo spirito, proprio per questo ti è messa a disposizione tutta la seconda metà dell’evoluzione che è dedicata alla riascesa. E l’inizio di questo cammino di riascesa è dire a Giuda: Giuda, lasciala! Perché lei sta facendo delle cose che tu non capisci, sta dando l’estrema unzione all’Essere dell’Amore che muore fisicamente per risorgere spiritualmente e animicamente negli uomini. Tu adesso queste cose non le vedi, non le capisci, però, lasciala, lasciala. Se tu sei capace di cominciare il cammino di risalita, lasciandola fai il primo passo. Così facendo già superi questo stato di coscienza talmente cieca che vorrebbe intervenire e ti fa dire: non lo devi fare, Maria, vendiamo l’unguento per ricavare trecento denari da dare ai poveri.
I trecento denari. Trecento sono 30x10. Trenta sono le monetine che Giuda riceve come paga del tradimento. Trenta denari, le trenta monetine della luna, del ciclo lunare. Il mistero di Giuda ha molto a che fare con questi trenta e trecento denari. I trenta denari sono le forze dell’essere umano che tradiscono il Cristo, sono le forze della coscienza riflessa, della coscienza astratta, del pensare astratto che ha soltanto immagini morte. Quando io vedo qualcosa e poi ne ho la rappresentazione, non ho qualcosa di vivente che si muove in me, che mi combina qualcosa: no, ho un’ immagine speculare, come la Luna riflette la luce del Sole ma non emette luce, riflette soltanto. Come l’immagine dello specchio che mi dà tutto e nulla: quando io mi specchio, nello specchio c’è tutto di me però nulla di vita, non si muove nulla se non mi muovo io. Questa coscienza speculare che tradisce, mette a morte tutto ciò che è vivente, è il presupposto della libertà: perché se noi avessimo una coscienza che non riflette specularmente, ma che produce (diciamo così) energie vitali nella conoscenza, non saremmo liberi. Lo siamo soltanto se le immagini che sorgono nella coscienza non combinano nulla, sono morte.
Quindi i trenta denari con cui l’essere umano, ogni essere umano, tradisce e mette a morte l’Essere vivente dell’amore e della saggezza, è la coscienza speculare, riflessa, che mi dà immagini morte. E per indicare questa coscienza si usavano a quei tempi, sempre, dei riferimenti cosmici, riferimenti astronomici. La coscienza di immagini morte, che ci lasciano liberi perché sono puramente riflesse, sta al pensare vivente come la luce riflessa della Luna, che non ci acceca quando la guardiamo, sta alla luce vivente del Sole che ti scalda, che ti fa qualcosa, che ti illumina. A tradire la vita, a mettere a morte il Logos, è la coscienza lunare riflessa che fa sorgere immagini di morte. Ma che ci rende liberi.
Moltiplicando per dieci questi trenta denari, questo ciclo lunare, si ha trecento. Il ciclo lunare moltiplicato per dieci è il tempo embrionale, il ciclo embrionale che precede la nascita sulla Terra. Quindi la coscienza di Giuda è come un ciclo embrionale che precede la nascita nel mondo della libertà. Dieci volte trenta, dieci volte il ciclo lunare. Non state poi ad arzigogolare se sono 28, o se sono 29, perché va considerato il rapporto Terra, Luna, Sole, e allora si oscilla tra 28 e 31, e la media è 30: moltiplicata per 10, è proprio il ciclo embrionale. Un ciclo sacro di incubazione, per poi nascere a questo mondo della Terra, dove la coscienza data all’uomo per natura non è un pensare vivente ma è un pensare morto, affinché l’uomo stesso possa avere la possibilità di renderlo sempre più vivente, inserendo forze creatrici di pensiero dentro al suo processo di pensiero.
Questi trecento denari, Giuda li vorrebbe dare ai poveri: dalla sua prospettiva è giusto che questi trecento denari siano dati ai poveri. Tant’è vero che adesso tutta l’umanità ha ricevuto questi trecento denari: i trenta della coscienza lunare, di luce riflessa, morta, che non produce luce ma la riflette soltanto. La riflessione, le rappresentazioni riflettenti, sono il tipo di coscienza che è stato dato a tutti i poveri dopo un ciclo di incubazione. In questo senso siamo tutti poveri, perché questo tipo di coscienza di Giuda – che tradisce, che deve tradire e mettere a morte il Figlio dell’uomo per poterlo far risorgere individualmente – questi trecento denari sono stati dati a tutti i poveri, ad ogni essere umano. Quindi, ogni essere umano, soprattutto nell’umanità moderna, deve passare per questa cruna dell’ago dello stadio di coscienza giudaico, di Giuda. Nell’umanità di oggi, in quanto periodo di cultura, in quanto spiritualità comune, se volete, il carattere di Giuda prevale in modo assoluto.
12,8 «i poveri li avrete sempre fra di voi, me invece non avrete sempre».
Dice: lasciala fare perché sta dando l’estrema unzione a questo corpo che è destinato a morire. Pensiamo al corpo di ogni essere umano, al corpo di tutta la Terra: la Terra non è destinata a vivere in eterno ma è destinata a morire. Quindi nel nostro modo di amare la Terra deve essere compresa l’unzione di una Terra che vuole e deve morire; però l’estrema unzione ha il senso di morire in modo da risorgere nello spirito. Che tutta la spiritualità, tutte le energie di spirito dell’umanità risorgano, ma sulla base di una Terra che sta morendo e che vuole morire e che deve morire, perché se non morisse non potrebbe risorgere lo spirito umano.
La coscienza risorge soltanto quando c’è un decrescere di forze vitali; se ci fosse un continuo crescere di forze vitali, non potrebbe crescere contemporaneamente la coscienza. Coscienza e vitalità si escludono a vicenda, sono due polarità: più forze vitali ci sono e meno sono le forze di coscienza, più c’è un consumare forze vitali e più c’è la possibilità per la libertà di far sprigionare coscienza.
Quindi sarebbe illusorio pensare che il nostro modo di amare la Terra possa ridarle una gioventù che ha già passato: la gioventù della Terra, geologicamente, è già finita da millenni; ci troviamo adesso a gestire l’invecchiamento della Terra, perché la Terra vuole offrire la sua morte, il suo consumarsi, come sostrato necessario per far sprigionare forze di luce, di saggezza e di amore in tutti gli esseri umani.
Questi “poveri” esseri umani, sono poveri nel senso che hanno la coscienza di Giuda, hanno una coscienza morta, una coscienza che è cieca allo spirituale. “I poveri li avrete sempre…” perché il cammino umano è sempre il vincere la povertà interiore, povertà che costituisce sempre il punto di partenza. “…me invece non mi avrete sempre”: “me” in quanto incarnato nel Gesù di Nazareth, non in quanto Cristo.
Vendere i trecento denari per darli ai poveri, questo sarà sempre possibile. Invece, dare l’estrema unzione al corpo fisico del Cristo per consacrare la sua morte, come porta che apre alla sua resurrezione, questo c’è una volta sola. E se questa unzione, se questa benedizione della morte del Cristo non avviene ora, poi non ci sarà più una seconda possibilità. Il Cristo muore storicamente una volta sola, duemila anni fa, non muore due volte.
Il testo non dice quanto Giuda abbia capito di questi misteri, però gli vengono dette queste parole, di modo che lo accompa-gnino. E lo accompagneranno anche nelle ore più buie, dopo che avrà tradito il Figlio dell’uomo e si accorgerà del suo grande sbaglio. Si pentirà a modo suo, rigetterà le trenta monetine nel tempio, poi s’impiccherà, ma certo possiamo immaginare che queste parole del Cristo avranno riecheggiato in lui, lo avranno accompagnato anche dopo la morte e nella sua evoluzione successiva.
Il v.9 cambia registro, la scena dell’estrema unzione del Cristo è chiusa. I vangeli (di Matteo e Marco) aggiungono che in eterno, per tutta l’evoluzione umana, si parlerà di questo gesto della Maria che unge, lava e asciuga i piedi del Cristo.
12,9 Molta folla dei Giudei venne a sapere che Gesù è colà, e vennero non soltanto per vedere Gesù ma anche per vedere Lazzaro che lui aveva risuscitato dai morti.
Vengono a sapere che è a Betania e vengono a vedere Gesù, che era sparito per un po’ di tempo, ma anche Lazzaro che era stato risvegliato dai morti.
12,10 I capi dei sacerdoti avevano deciso di uccidere anche Lazzaro,
Questo versetto l’avevamo già anticipato. I capi volevano, aveva-no deciso, avevano già in sé l’impulso volitivo di uccidere anche Lazzaro.
12,11 poiché molti Giudei, a causa di lui, andavano a Gesù e credevano in lui.
A causa di Lazzaro, grazie a lui, tramite lui, molti giudei passavano a Gesù, si mettevano dalla parte di Gesù e credevano in Lui. Credevano per ciò che avevano visto avvenire in Lazzaro, e poi avevano parlato con Lazzaro – infatti non viene detto che anche Lazzaro sparisca di circolazione. Lazzaro era conosciuto, era ancora lì, la gente era andata a chiedere a lui cosa era successo ecc.; si erano informati, nella misura in cui ognuno era capace di recepire qualche barlume di ciò che era avvenuto. Quindi, non soltanto è dovuto al Cristo, che ha compiuto questo risveglio misterioso, ma è dovuto anche a Lazzaro stesso se sempre più persone si “convertivano” al Cristo; e perciò i sommi sacerdoti avevano deciso di mettere a morte anche Lazzaro.
Passo a voi la parola. Dopo il pomeriggio tempestoso sembrate lì tutti belli pensierosi…
Intervento: Come mai Giuda, dopo essere stato tre anni col Cristo, è ad un livello così basso di coscienza? In tre anni di vita col Cristo non è cresciuto? È una cosa un po’ strana.
Archiati: Risolvi la tua domanda se capovolgi la prospettiva che hai aperto. Cioè: Giuda è quello, dei dodici, più avanti nel suo cammino di coscienza. È arrivato prima degli altri al punto infimo per il quale tutti devono passare; perciò il Cristo lo ama. Quasi tutti gli altri esseri umani ci hanno messo almeno duemila anni in più. Vedi che prospettive nuove ti apre una scienza dello spirito veramente pulita?
Questo problema è serio, ma ti salvi soltanto così, sennò ti tocca condannare Giuda. Devi chiederti: perché il Cristo non lo condanna? Perché ogni essere umano ci deve passare e lui ci è passato prima. E se noi pensiamo che il Cristo non ha benedetto questo stadio di coscienza del Giuda, che non l’ha amato, sbagliamo di grosso: perché è il presupposto della libertà. Soltanto a partire dalla posizione di Giuda si fanno le cose per esperienza propria e liberamente; prima che siano passate per la cruna dell’ago di Giuda, alle persone devi predicare, predicare, pre-dicare, e faranno del bene magari perché costrette o per paura dell’inferno. Giuda, dopo aver tradito il Figlio dell’uomo, il bene che farà lo farà per convinzione, e solo il bene fatto per convinzione è buono.
Abbiamo anche un cristianesimo che vive a tutt’oggi la paura della libertà. Il Cristo non ha paura della libertà: il Cristo sa che Giuda s’impiccherà, che si toglierà la vita e dice: quello che fai a questo stadio di coscienza, fallo presto. Da un punto di vista nostro, molto più ristretto, siamo tentati di dire: ma dovrebbe fare qualcosa, almeno per impedirgli di togliersi la vita! No, no. Però il discorso ha senso soltanto se il Cristo ha la convinzione che l’evoluzione di Giuda non termini lì. Perché se il Cristo ha la convinzione che l’evoluzione di Giuda termini lì, non ha il diritto di non far nulla per Giuda. Il cristianesimo tradizionale ne ha di strada da fare…
Intervento: Parlavi del punto infimo della caduta di Giuda. Come possiamo metterlo in relazione alla libertà, con lo schema che avevi fatto oggi sui tre livelli di libertà dell’uomo? Cioè, è il punto infimo che abbiamo immaginato come un limite di confine, oppure qualche altra cosa? Volevo mettere un riferimento a quello schema.
Archiati: Il punto infimo a metà dell’evoluzione. Il punto infimo che sta alla fine, invece, è quando cadi sotto questo livello (sulla lavagna tira una linea sotto le tre parallele già fatte stamattina). Ma lo raggiungi soltanto alla fine, come risultato finale di tutta l’evoluzione: quel punto infimo è quando tu, pur avendo la libertà di scelta tra bene e male, continui in una vita – ma non ne hai una sola! – a scegliere solo il male, ad esempio il soldo, il soldo, il soldo.
Tipo di libertà |
Livello |
Tipo di scelta |
Tipo di evoluzione per l’uomo |
super-libertà |
angelico |
tra bene e meglio tra bene e bene |
|
verso l’Angelo In su: vado all’Io superiore |
|||
libertà |
umano |
tra bene e male |
punto infimo a metà evoluzione |
In giu: vado all’io inferiore verso l’animale |
|||
sotto-libertà |
diabolico |
tra male e male tra male e peggio |
|
– – – – – – – – – livello infimo finale – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – |
|||
manca la libertà |
animale |
non scelta |
Il punto infimo a metà dell’evoluzione è il punto di inversione di marcia, va bene? Quando inverti la marcia, non vai ancora più in giù, cominci ad andare in su. Ora, in che cosa consiste l’inver-sione di marcia? Non sta nel fatto che qualcuno ti predica: non continuare in questa direzione!, ma è che tu stesso dici: questa è la direzione sbagliata. Quello è il punto di Giuda, l’inversione di marcia per convincimento proprio. Ma l’inversione di marcia per convincimento proprio significa: ho fatto l’esperienza che questa direzione non va bene, tradisce l’uomo. Io devo in qualche modo aver fatto l’esperienza di ciò che tradisce e mette a morte l’uomo e solo allora, liberamente, dico: no, no, non lo faccio più, e cerco di andare nella direzione opposta.
Cos’è che tradisce e mette a morte l’umano? Fare dell’umano uno strumento per qualsiasi altra cosa, anziché fare dell’umano il fine di tutto ciò che facciamo. Quindi il male, cioè il tradimento del Figlio dell’uomo, il tradimento che mette a morte l’uomo, lo possiamo riassumere in questa categoria che è accessibile a tutti: tu tradisci l’uomo in te e negli altri, lo metti a morte ogni volta che asservi l’umano, cioè fai dell’umano lo strumento per qual-cosa d’altro. In altre parole, consideri qualcosa d’altro, qualsiasi cosa sia, più importante dell’uomo. Quando la coscienza umana ha fatto l’esperienza di tradire l’uomo e di metterlo a morte, perché c’è qualcosa d’altro più importante, e si rende conto di questo, inverte la direzione e la caduta si trasforma in riascesa.
Il bene morale, l’opposto del tradimento, è l’amore all’uomo; dar vita all’uomo significa non considerare nulla più importante dell’uomo, non fare mai l’uomo strumento per qualcosa ma porre tutto a servizio dell’uomo. Il Cristo non considera neanche la sua vita più importante dell’uomo: dà la sua vita. La cosa più importante in assoluto per Lui sono gli uomini, è l’uomo che è nell’uomo, anche in Giuda.
Giuda, per sapere che cosa dà vita all’uomo, deve sapere anche ciò che dà morte all’uomo. Chi di noi può sapere che cosa dà vita all’uomo se non ha fatto l’esperienza di quel che gli dà morte? Predicare dal di fuori non serve a nulla: di prediche se ne sono fatte per duemila anni e guardiamo il risultato! Invece, la condu-zione dell’evoluzione dell’umanità non ci fa prediche, ma ci ha portati tutti allo stadio di coscienza di Giuda: siamo in un mondo dove ormai vige un po’ in tutta la cultura che il soldo, i possedimenti materiali eccetera, sono più importanti dell’uomo, della qualità dello spirito e dell’anima. In base a questa esperienza, il singolo può dire a se stesso: ma questo è il suicidio dell’uomo! Non soltanto io ho tradito, ho messo a morte l’uomo nell’altro, ma metto a morte l’uomo in me stesso.
Soltanto l’esperienza del suicidio può insegnare all’essere umano che cosa dà vita all’uomo e fargli cercare la vita liberamente: è l’esperienza dell’uccidere l’umano in se stessi. Non dico che tutti la debbano passare fisicamente, che si debbano impiccare, ma, a qualche livello, in qualche modo, ogni essere umano deve fare l’esperienza dell’uccidersi come uomo. Sennò “il darsi vita” sarà sempre o una legge a cui si deve sottomettere, o una predica che glielo fa fare per paura ma non per convinzione.
Così è stato per il figliol prodigo, che può tornare soltanto perché prima è andato via, e torna liberamente perché ha fatto l’esperienza e dice: peggio di così non potrebbe essere – ecco il suicidio, è una forma di suicidio. Dicendo: i salariati a casa di mio padre stanno meglio di me che sono il figlio, dice al contempo: io ho commesso suicidio. Questa esperienza convince l’essere umano perché gli dà di riflesso l’esperienza di ciò che, invece di uccidere l’umano, lo fa vivere. Ma tutto dev’essere per esperienza propria, sennò…
L’amore divino è paziente con noi, perché ha creato una natura umana tale che ognuno deve fare le sue esperienze. Non servono le prediche dal di fuori, vediamo che non contano nulla, le prediche. Ogni essere umano deve fare l’esperienza in proprio di ciò che uccide l’umano: solo allora cercherà la vita perché la vuole veramente, non perché deve.
Quindi, io non ho dubbi che il Cristo ha guardato al Giuda dicendo: Giuda, tu precorri i tempi. A quei tempi era uno su dodici, adesso sono tredici su dodici, i Giuda.
Intervento: Tredici su dodici?
Archiati: È così, è così. Un essere umano che non ha la minima idea della realtà dello spirito, che è il suo essere, o dell’anima… è un suicida come Giuda. Più suicidio di così, più morte di così, inflitta a se stesso! Però nel momento in cui mi rendo conto di essere morto, di essermi ucciso, allora sì che cerco la vita, non accetto più di vivere da morto. Ma mi devo accorgere in qualche modo, mi devo convincere di essermi ucciso.
Uno degli sbagli correnti – ogni sbaglio è un frammento di suicidio, e ogni frammento di suicidio uccide forze di durata, forze eterne dell’essere umano – è una chiesa che vuole che tu faccia il bene per forza. Ma se tu vuoi che l’essere umano faccia del bene per forza, lo uccidi, perché per forza non può fare il bene, non è bene ciò che è fatto per forza. Questa impazienza, che vuole che gli esseri umani facciano il bene per forza e non per libera volontà, è un altro frammento di uccisione. D’altronde, perché farlo? Per far piacere a te o per andare nel tuo paradiso, quello che ti sei inventato?!
Intervento: Vorrei avere un chiarimento da te. Io trovo che l’intervento da parte del Cristo verso Giuda, sia molto diretto. Ho l’impressione che ci fosse stata sempre una richiesta, da parte del cieco, da parte del paralitico, della samaritana, anche da parte di Lazzaro in questo processo di iniziazione. Qui, invece, il Cristo interviene direttamente e dice: “Lasciala fare!” oppure: “Quello che devi fare fallo presto!”. A me sembra una limitazione della libertà, non dovrebbe rispettare anche…
Archiati: Non ho capito la domanda, se è una domanda.
Intervento: La domanda è questa: ho l’impressione che l’inter-vento da parte del Cristo verso Giuda sia molto direttivo, molto impositivo, cosa che a me sembra strana, che non riscontro negli altri racconti.
Archiati: No, perché? Giuda vuol ledere la libertà di Maria, vuole impedire a Maria di fare quello che sta facendo e il Cristo gli dice: lasciala. Così come la conduzione divina lascia fare a te, ti lascia tradire il Figlio dell’uomo, ti lascia impiccarti; impara dalla tolleranza dell’amore divino nei tuoi confronti a tollerare gli altri. Lasciala fare. Il Giuda vorrebbe intervenire e non far fare a Maria ciò che lei sta facendo, perché secondo lui non lo dovrebbe fare per poter vendere quell’olio prezioso… Dov’è l’intervento direttivo del Cristo?
Intervento: Negli altri casi le persone erano lasciate libere di sbagliare, di fare. Il Cristo ha lasciato che le altre persone sbagliassero, erano libere di sbagliare, no?
Archiati: Ti ho già detto, e non mi piace ripetere di nuovo, se non ti convince non ti convince. Il Cristo non dice a Giuda ciò che deve fare, gli dice soltanto: lascia fare anche agli altri.
Intervento: È un modo per dire: fai un’altra cosa.
Archiati: No, no, non dice a Giuda ciò che lui deve fare. Ti ripeto, se non hai ascoltato: è un conto se Cristo dice a Giuda ciò che Giuda deve fare (e Cristo questo non fa) e un conto è se il Cristo dice a Giuda: lascia liberi anche gli altri. Sono due cose diverse. Il Cristo dice a Giuda: lascia liberi anche gli altri, non dice a Giuda ciò che lui deve fare. Questo non lo fa.
Intervento: Dirgli di lasciar liberi anche gli altri è un’indicazione di quello che deve fare.
Archiati: No, ma no! Accetti che la legge fondamentale dell’umano è la libertà? Allora ogni lesione di libertà è male. Ma tu parli del comandamento “non ledere la libertà altrui” come se fosse un “no”. Questo è un comandamento puramente indicativo, di lasciar libero corso alla libertà altrui, non ha nulla a che fare col comandamento che dice cosa devi fare. Presuppone semplice-mente che il valore morale supremo umano è la libertà. Sarebbe un controsenso se il Cristo venisse a dirti cosa devi fare, perché lederebbe la tua libertà; ma ti dice: è un male morale assoluto proibire la libertà altrui. Sono due cose ben diverse: l’impedire la libertà altrui ed esplicare la propria libertà.
Intervento: L’importanza di fare degli errori e poi di imparare dagli errori è l’elemento della polarità che c’è in Aristotele: fare l’esperienza polare per poi trovare la via giusta. È un’esperienza che riguarda soltanto gli adulti, dopo i 21 anni, o, in qualche modo, è una cosa che si può applicare anche ai ragazzi dai 14 ai 21 anni? I genitori devono considerare anche questa possibilità.
Archiati: Quello che sa fare un quattordicenne, un quindicenne eccetera, è questione di percezione; varia da persona a persona e va osservato di volta in volta. A me interessa invece il punto di partenza da cui sei partito. Noi siamo abituati a parlare di errori perché siamo abituati a moraleggiare. E non ci rendiamo mai abbastanza conto di quanto siamo inficiati di moraleggiamento, perché viviamo di una morale che ha messo sotto sospetto la libertà (la morale del passato non ha mai incluso il valore assoluto della libertà: conosce i comandamenti soltanto).
In una morale che mette la libertà come cardine supremo della moralità, come valore assoluto, non esistono errori, esiste soltanto un provare. Se io provo a fare in un modo e poi vedo che devo cambiare, dov’è l’errore? L’errore è soltanto nella mente bacata di chi vuole correggere dicendo: dovevi saperlo già in partenza, che così non funziona. Ma certo, tu sei il Padreterno, che sai già in partenza quando le cose non funzionano!? Il Padreterno ci ha dato un mondo, ha dato piena fiducia alla libertà umana e libertà significa: provare. Se tu sapessi già in partenza tutto quello che salta fuori dalle tue azioni, non saresti libero; sei libero proprio perché devi star sveglio continuamente per vedere cosa salta fuori. Allora qual è il concetto di errore? L’errore è di chi non vuole che gli esseri umani siano liberi. Perché altrimenti il Cristo dovrebbe dire a Giuda: guarda che impiccarsi, togliersi la vita è un errore. Nooo, il Cristo dice: prova, soltanto provando saprai cosa salta fuori. Non esistono errori, esiste semmai un provare da cui uno non impara nulla, ma allora è l’omissione di imparare dall’espe-rienza, non un errore.
Non la stai prendendo personalmente, vero? Non ha nulla a che fare con la tua persona! Io mi scalmano un pochino ma… Ti chiedo adesso: dimmi cos’è un errore, dimmelo.
Intervento: È quando uno sperimenta un’azione, si rende conto che non gli porta vantaggi, cioè non gli produce uno sviluppo umano e quindi cerca di non ripeterla.
Archiati: E dov’è l’errore? È un esperimento, ma la vita è fatta di esperimenti. Ecco, quindi vedi che la categoria “errore” è un moraleggiamento che serve a mettere una cappa di piombo sugli esseri umani in modo che non usino la libertà. Siccome tu, se ti si lasciano le briglie sciolte, commetti soltanto errori, è meglio che ubbidisci alla mamma e al papà che hanno già fatto tutta l’espe-rienza. È come il classico padre che dice al figlio: figlio mio, io ho un sacco di esperienza, vorrei risparmiarti certe cose; e il figlio gli dice: ma papà, perché tuo padre non te le ha risparmiate? Perché te la sei fatta tu l’esperienza? Allora, se te la sei fatta tu l’esperienza (e non l’hai evitata ascoltando tuo papà), lascia fare anche a me la mia. Perciò il padre saggio della parabola non dice al figlio: risparmiati certi errori e avvaliti della mia esperienza, ma dice: vatti a fare tu la tua esperienza.
Questo tipo di moralità che dà fiducia all’essere umano, non c’è stata sulla Terra, prima. C’è nel cuore del Cristo, se vogliamo del Padreterno, ma non sulla Terra; e perciò è un’umanità di Giuda, che tradisce e mette a morte il Figlio dell’uomo perché non ha fiducia nella libertà. Se non hai fiducia nella libertà, uccidi l’essere umano, perché la libertà è proprio il suo anelito evolutivo.
Intervento: Prima tu hai parlato della polarità tra Pietro e Giuda. Essendo Giuda un iniziato della libertà, vorrei capire la connessione con l’iniziazione di Lazzaro.
Archiati: Il fenomeno Lazzaro ti pone davanti ciò a cui ogni essere umano è chiamato. Il fenomeno Giuda ti porta a coscienza ciò che ogni essere umano è prima di diventare un Lazzaro. Però, non puoi diventare un Lazzaro se già lo sei, e soprattutto se non lo vuoi diventare liberamente. Ognuno che vuole diventare Lazzaro deve partire da Giuda. Quindi: o inserisci la prospettiva evolutiva in ogni cosa, oppure i conti non tornano mai.
Intervento: Sì, però a questo punto mi chiedo come mai Lazzaro non è passato per la caduta.
Archiati: Tu non sai cosa Lazzaro ha passato e cosa non ha passato, prima. Le possibilità sono molte più di quelle che pensiamo. Supponiamo che facesse parte del fenomeno-Cristo che nell’Io superiore di Lazzaro venisse posto questo fenomeno dell’i-niziazione! Questa però non è un’affermazione sull’io inferiore di Lazzaro: lì, sono affari suoi!
Intervento: Anche perché sono archetipi, non si può ragionare come sto ragionando io. Mi rendo conto che è sbagliato questo modo di ragionare perché è razionale.
Archiati: Perché tu sposti ciò che è archetipico e lo rendi personale. No, la dimensione personale è un’altra cosa. Qui c’è l’archetipo del culmine dell’evoluzione umana, della meta da raggiungere. Che tipo di evoluzione deve avere l’io inferiore, che cosa l’uomo Lazzaro deve fare, sono affari suoi; non è questo che il vangelo ci propone.
Faccio un esempio qualsiasi: sarebbe come inquinare la sfera di ciò che uno Steiner ha dato all’umanità – ed è quello che c’interessa – col voler andare a sfruculiare nella sua vita privata; quella è affar suo, non ci riguarda, noi non abbiamo il diritto di farlo. Steiner ci riguarda per ciò che ha dato all’umanità, e come persona privata avrà diritto anche lui al suo cammino. Se ad un essere umano gli porti via la sfera personale, lo disincarni. Se, invece, in ciò che Steiner ha dato all’umanità ci fosse qualcosa che non va, allora dovremmo dirlo perché ci riguarda tutti.
Sembra che abbiamo una concorrenza melodica, melliflua, ri-posante, addormentante, sonnifera… sta funzionando? (si riferisce ad un coro che si sente da una stanza attigua)
Intervento: Ogni essere umano deve passare per la cruna dell’a-go, come Giuda. Allora viene spontanea una domanda ingenua: io a che punto sarò? L’ho passata o non l’ho passata? Non si sa.
Archiati: No, sta attento: proprio a questo servono le parabole. Questa domanda che tu poni è una delle domande più importanti, e siccome non ne vieni a capo intellettualmente, le Scritture ti aiutano con delle immagini. La domanda che tu poni è: come fa il figliol prodigo che è andato via e ha sperperato tutto, a sapere quando deve tornare? La parabola ti risponde: quando dice a se stesso “peggio di così non si può”. Quello è il momento in cui lui cercherà qualcosa di meglio. Finché tu, tu, tu, non arriverai al punto di dire a te stesso: peggio di così non si può, non voglio continuare così, continuerai così. E finché tu non sarai convinto che peggio non c’è, continuerai così, e ne hai diritto. Ognuno può fare soltanto per sé l’esperienza che gli dice: io adesso sono arrivato a un punto che inverto la marcia perché non mi va di continuare così, peggio non si può, ritorno al Padre. A te sembra di non esserci ancora arrivato? Continua.
Ma guarda che l’immagine del “peggio di così” non è assoluta, è sminuzzata in vari campi. Supponiamo che io, ad esempio, arri-vo a dirmi che nella teologia tradizionale non c’è più nulla, non c’è sostanza, solo moralismi eccetera: peggio di così non si può! Da quel momento vado a cercare qualcos’altro di meglio e lo faccio. Quel che mi è successo, però, non riguarda tutta la mia vita, ma solo questo campo specifico.
Come vedi le parabole servono, danno risposte; questi testi ci danno le basi conoscitive fondamentali. Basta svegliarsi un mo-mentino, capire il messaggio. Lui, il figliol prodigo, tra l’altro è il figlio “intelligente”, non “prodigo”: è un moralismo chiamarlo “prodigo”. In tedesco c’è scritto il figlio “perduto”, come se importante fosse la prima parte della vicenda, invece importante è la seconda: si dovrebbe meglio dire il figlio “ritrovato”, non perduto. Perché quello che non s’è mai perduto, non s’è nemmeno ritrovato.
Il figlio maggiore non viene festeggiato e si arrabbia; non ha avuto la festa perché non ha combinato nulla, è stato l’appendice del padre per tutto il tempo. Cosa dobbiamo celebrare? Questo qua invece ha fatto l’odissea della libertà, e quella è la festa dell’evoluzione: l’acquisizione della libertà! O fai festa per quella, o se no per che cosa fai festa, per la non libertà?! Il maggiore dice al padre: io sono sempre stato qui a obbedirti, ho sempre fatto la tua volontà e non mi fai festa! È proprio per questo che non ti faccio festa, perché sarebbe ora che tu cominciassi a fare la tua volontà perché se rimani l’appendice mia, faccio festa a me che sono padre, non a te. Oh, queste cose sono nei vangeli, mica me le sono inventate io! Nei vangeli ci sono di quelle sberle… ma sono sberle date a gente che dorme, che non le sente neanche!
Intervento: “Quello che devi fare fallo presto” è un incoraggiamento a fare l’esperienza delle…
Archiati: Questa frase verrà più tardi (v.13,27), quindi riservia-moci di vederla nel suo contesto. Però, come piccola anticipa-zione, il testo greco dice: Ó poie‹j po…hson t£cion (o poièis poiè-son tàchion), letteralmente: “ciò che fai fa(llo) più velocemente. Il testo non dice “quello che devi”, inoltre dice “più velocemente”; dunque le cose si possono fare più velocemente o meno veloce-mente, e se non ci fosse questa duplice possibilità, non ci sarebbe libertà. Allora, qual è la scelta della libertà tra più e meno veloce? Il meno veloce è quello che perde colpi, fa le omissioni…
Intervento: “Non omettere”, allora.
Archiati: Sì, non omettere i passi che sei capace di fare: se ometti dei passi vai più lentamente. Se la libertà sta nel camminare più o meno velocemente, cammini meno velocemente quando perdi col-pi, perdi passi. Omissioni. Allora ti auguro di non omettere i passi ma di farli tutti più veloci.
Non saresti libero, se non avessi questa duplice possibilità. Nel cammino di conoscenza, tu cosa auguri ad una persona: di andare il più lento che può o il più veloce che può? Più veloce che può! …e proprio quello il Cristo augura a noi. Sono una cosa straordi-naria, questi testi: più scientifici di così, concetti proprio conosci-tivi e niente moralismi!
Un’altra frase su Giuda che è detta nei sinottici (i sinottici sono ad un altro livello) è: “Meglio per lui che non fosse mai nato!”[13] È una traduzione orripilante. Perché se fosse meglio per lui che non fosse mai nato significa che non è nato per libera volontà sua, che l’ha fatto nascere il Padreterno, e allora il Padreterno ha fatto uno sbaglio. La teologia di oggi non si accorge di queste assurdità, eppure il cristianesimo tradizionale se le trascina da secoli. Ti dice: “meglio per lui che non fosse mai nato” come se fosse colpa sua la nascita. Tra l’altro, la chiesa cattolica dice che prima della nascita l’essere umano non esiste neanche, quindi come lo si può incolpare di essere nato? Se era meglio che non nascesse, il Padreterno non doveva farlo nascere: ha dunque fatto il peggio il Padreterno che ha creato l’anima di Giuda, e l’ha fatto nascere! Ma dico, ci vogliono dieci lauree da professore per capire queste cose? Eppure in tutte le traduzioni c’è: “meglio per lui che non fosse mai nato”.
Il “mai” è stato aggiunto! Se togli il “mai”, allora si riferisce soltanto a “questa volta”, e i conti tornano. È come se il Cristo dicesse: questa nascita è l’ultima che porta indietro l’essere uma-no, questa nascita non è stata la prima del progresso ma l’ultima della caduta. Questa nascita non è stata per il meglio ma per il peggio, nel senso che ha continuato la caduta: la prossima volta che nasce sarà meglio perché non può che riascendere.
Buona notte a tutti.
Sabato 30 agosto 2003, mattina
vv. 12,12 – 12,16
Si tratterà da oggi di affrontare la seconda metà, la seconda fatidica metà del vangelo di Giovanni, dove le cose diventano più profonde, nel senso che il carattere fondamentale della prima metà è maggiormente conoscitivo, tratta i misteri dell’evoluzione della coscienza umana, mentre nella seconda metà ci sono i misteri dell’amore, ciò che l’Essere dell’amore compie nel suo cuore per rendere possibile il cammino dell’evoluzione umana.
L’evoluzione totale della Terra, stando alla bellissima descri-zione che fa Rudolf Steiner soprattutto alla fine de La scienza occulta, è duplice: c’è una prima metà dell’evoluzione terrestre, geologicamente fino a metà dell’epoca Atlantica, e c’è una secon-da metà che segue. Il cammino di coscienza è sempre spostato rispetto al fenomeno vita: vita e coscienza sono polarmente oppo-ste. Finché la Terra era vitale, finché c’era il crescere vitale, si stavano solo ponendo le basi per il fenomeno della “coscienza”. Ma il fenomeno-coscienza viene messo in primo piano soltanto man mano che la vita si ritira, man mano che anche la Terra diventa un po’ più anziana e va verso la morte.
Nella prima metà dell’evoluzione terrestre il fenomeno-vita prevale, è preminente, in modo da costruire il corpo, la corporeità della coscienza, l’insieme delle percezioni che poi serviranno al cammino di coscienza dell’umanità. Come la cera viene consu-mata per dare luce, così il vitale – che geologicamente è stato costruito nella prima metà dell’evoluzione terrestre – deve poter essere consumato per dare coscienza, ma se non fosse stato costruito non ci sarebbe nulla da consumare.
Quindi il senso della prima metà della vita della Terra (ma anche della vita di ogni uomo) è di far crescere una somma di sapienza naturale, di forze vitali di natura, il dato di natura, per poi dare la possibilità di consumarlo; perché se non ci fosse il dato di natura non lo si potrebbe consumare, e lo spirito umano si evolve soltanto consumando il dato di natura.
Considerando le grandi ere, il culmine del vitale si pone alla metà dell’epoca Atlantica: dopo il vitale comincia a decrescere e comincia a salire sempre di più il fenomeno-coscienza. Il Cristo, in quanto totalità del fenomeno coscienza umana, entra definitiva-mente nella Terra non al momento del culmine geologico dell’e-voluzione vitale della Terra ma “un giorno dopo”, un’epoca più in là. E tutto l’insieme delle ere volge a trasformare un cosmo di sapienza – la natura, le leggi di natura intrise di sapienza – in un cosmo di amore.
In un cosmo di amore: nel senso che tutti questi pensieri pensati divinamente, pensati saggiamente, l’essere umano li ricrea a partire dal suo innamoramento per essi, e poi favorisce l’evo-luzione del pensiero di ogni suo fratello e sorella, l’evoluzione di ogni spirito umano, a partire dal suo innamoramento per il feno-meno umano. A partire dall’amore umano viene ricreata nel pen-siero, in chiave di amore, tutta la saggezza cristallizzata nella natura; e allora le percezioni possono sparire, perché risorgono nello spirito umano. Quindi il vitale viene consumato e ogni individuo umano fa risorgere tutto l’umano amando, perché in questo processo di ricreare l’universo emerge il singolo spirito umano, l’individuo come spirito creatore singolo.
Maria Maddalena, la Maria sorella di Lazzaro, è l’anima umana che ha questa intuizione della fantasia morale che il Cristo è venuto per morire, che il corpo fisico del Cristo (che rappresenta poi il corpo della Terra) è destinato a morire per far sprigionare la resurrezione dello spirito. Ciò che abbiamo visto ieri sera, e al quale stiamo lavorando, è l’intuizione morale della fantasia dell’a-more nell’anima umana (che è Maria): questo corpo va unto per la morte. E perciò il Cristo dice a Giuda: “Lasciala, perché l’ha unto in vista della mia sepoltura”.
Maria riceve questa intuizione morale della fantasia dell’amore, perché ha fatto l’esperienza che proprio il Cristo, esprimendo il suo amore verso gli uomini, nel giro di tre anni ha consumato il corpo fisico a un punto tale che ormai sta per morire: ecco il senso fisiologico, biologico, se vogliamo, di questa “lava-nda dei piedi” di Maria Maddalena fatta al Cristo.
Nel capitolo 13, subito dopo, il Cristo lava i piedi ai dodici rappresentanti dell’umanità; nel capitolo 12, poco prima, (primo giorno di questo settenario della settimana santa, un bellissimo settenario) abbiamo Betania con questa “lavanda dei piedi”, dove vengono lavati i piedi a Gesù Cristo con olio di nardo prezioso (molto bello questo). La lavanda ai piedi del Cristo è come una premessa alla lavanda che Lui, nel capitolo 13, farà ai piedi degli apostoli. La settimana prima di Pasqua è un settenario, è strutturata sul sette, quindi ci sono un uno, un due, un tre… L’uno è Betania; se andate avanti un pochino, il testo vi dice al v.12: “il secondo giorno”.
Intervento: C’è scritto “Il giorno seguente”.
Archiati: “Il giorno dopo” o “al secondo giorno”, l’abbiamo visto a Cana: vi ricordate che per tre volte diceva “il giorno dopo”, “il giorno dopo”, “il giorno dopo”, ma era sempre lo stesso giorno? È il secondo giorno di tre giorni che hanno il carattere di una iniziazione. Infatti nel primo capitolo diceva per tre volte “il giorno dopo”, e poi, dopo che sembravano passati tanti giorni, inizia il terzo capitolo con Cana e dice “il terzo giorno”. Quindi c’erano stati diversi eventi tutti col carattere del secondo giorno: ™paÚrion (epàurion), il giorno dopo, ripete la stessissima dici-tura. È il carattere del secondo giorno in una triade iniziatica.
Quindi abbiamo: uno, Betania (12,1), due l’ingresso a Gerusa-lemme (12,12), tre, lo vedremo, è l’incontro con il popolo; il quattro, al centro, è la morte e la resurrezione del Cristo; poi il lavoro dell’incontro, i colloqui del Risorto con gli apostoli, saran-no i primi tre a livello più alto (cinque, sei e sette). Questo se può servirvi come griglia, come schema per trovare dei risvolti ancora più profondi. Il lavoro che facciamo qui è molto più, diciamo, di dissodamento, è molto più fondamentale che non il poter già arrivare a questi livelli (che tra l’altro presuppongono un po’ tutta la scienza dello spirito).
Fisiologicamente, stavo dicendo, il corpo di Gesù di Nazareth è il vaso, lo strumento fisico per la manifestazione del Cristo (finché Gesù di Nazareth è in vita). Dicevamo già nei giorni scorsi che una cosa importantissima, in fondo la più importante, per la morte e la resurrezione del Cristo è l’ora giusta: sia astronomi-camente, come costellazione reale, sia da un punto di vista di evoluzione umana. È importante se un fatto accade a mezzanotte o a mezzogiorno, se il Cristo muore alle tre del pomeriggio, alla nona ora; da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio è in croce, tre ore in croce, e alle tre del pomeriggio muore. Tutti questi dati, queste scansioni del tempo, ci dicono che l’ora – si può dire il minuto – ma l’ora della morte dell’Essere solare è scritta da sem-pre nell’evoluzione terrestre e non dev’essere, non può essere spostata né un’ora prima, né un’ora dopo.
Le controforze fisiologiche presenti nel corpo di Gesù di Nazareth devono essere tali per cui o c’è il pericolo che il corpo muoia prima, perché è stato strapazzato troppo e non ce la fa ad arrivare fino al venerdì santo alle tre del pomeriggio, oppure si sbaglia dall’altra parte, va troppo avanti e muore troppo tardi.
Come si tratta un corpo fisico, cosa bisogna fare al corpo fisico in modo che muoia all’ora giusta? Sono cose di cui noi non ci preoccupiamo perché nel caso normale lo lasciamo ad una saggezza superiore che decide quando è il momento di morire. Però qualcuno comunque decide. E chi decide sa, tratta il corpo ben precisamente, in modo tale che non muoia né un’ora prima né un’ora dopo: è un’arte non da poco. Maria Maddalena ha questa intuizione dell’amore, delle forze dell’amore dell’anima, che il Cristo fra una settimana dovrà morire e sa (bisogna che partecipiamo a questa saggezza) che occorre che questo corpo non sia troppo vitale da tendere a vivere oltre l’ora in cui deve morire, e non sia troppo debole, troppo fragile, troppo friabile da morire prima.
Ci sono vari accenni, nei vangeli, che questo corpo minacciava di morire prematuramente. Ciò fa capire, per esempio, perché fisiologicamente – ma anche per altri motivi – il Cristo non era assolutamente in grado di portare la croce. Tra i tanti aspetti, anche cosmici, del mistero di Simone di Cirene che lo deve aiutare a portare la croce, c’è anche il fatto che sarebbe contro la natura di un corpo, ancora in grado di portare una croce così pesante, farlo morire tre ore dopo. Doveva essere nella compagine totale del corpo che morisse proprio a quell’ora.
Steiner parla della fantasia morale ne La filosofia della libertà, e le persone si chiedono: ma quali sono le intuizioni della fantasia morale? A me viene sempre questo esempio, l’intuizione della fantasia morale, dell’amore di Maria Maddalena che dice: questo corpo in una settimana deve morire. Non solo, ma il suo gesto è non di opporsi a questa morte, ma di volerla insieme col Cristo, come presupposto assoluto per la sua resurrezione, per il suo risorgere all’interno degli esseri umani. Altrimenti avrebbe preso, forse, un altro tipo di unguento che avrebbe teso a conservare il corpo più a lungo possibile.
Da tutto l’insieme della narrazione si capisce che Maria Maddalena era anche con le donne che sono andate al sepolcro portando le spezie che hanno usato dopo la sepoltura. La sua intuizione morale, l’intuizione dell’amore, le aveva fatto capire che certi oli o essenze che normalmente spalmati sul corpo servono a conservarlo, in questo corpo avrebbero invece accele-rato la decomposizione, anzi lo avrebbero reso friabile, in modo da consentirgli di far uscire tutto ciò che è acqueo, tutto il sangue. Il vangelo dice: “uscì tutto il sangue, tutta l’acqua”, e allora il corpo sarebbe restato talmente secco che se poi le spezie avessero accelerato ancora di più il processo, praticamente sarebbe diventato una realtà quasi polverizzata, e sarebbe bastata una scossa di terremoto per disperderlo.
Difatti poi vedremo il senso del terremoto: ha svolto il corpo dai panni che sono rimasti dentro al sepolcro, ha del tutto reso polvere il corpo, perché non c’era più alcuna forza strutturante in esso. Il terremoto è servito ad aprire come una crepa nella Terra e la polvere del corpo del Cristo è entrata realmente nella Terra. Come polvere. La comunione, la prima Comunione del corpo di Cristo, l’ha ricevuta la Madre Terra. Poi il terremoto è finito e sono rimasti i panni nel sepolcro, avvolti a ondate, perché il terremoto era ondulatorio. E il corpo non c’era più.
Tra l’altro, a coloro che dicono che il corpo è stato rubato, il vangelo di Giovanni espone molti particolari sui panni rimasti nel sepolcro, per dire: guarda, che se fosse venuta gente a rubarlo, mai più si sarebbe presa la briga di svolgerlo e lasciare i panni, se lo sarebbe portato via con tutti i panni, per essere ancora più sicuro di non sporcarsi o per farlo puzzare di meno, eccetera. Nessuno, ma proprio nessuno andrebbe a rubare un cadavere portandolo via senza i panni. Il vangelo arriva a questi particolari proprio per aiutare il lettore a capire cosa è successo.
Giuda, in polarità assoluta rispetto a Maria Maddalena, è la struttura di coscienza che sulla scena di questo mondo non vuole la morte ma vuol dominare, vuol restare sulla Terra, avere successo, vuole avere potere. Da una parte c’è il gioire della morte, volere la morte in quanto presupposto per la resurrezione dello spirito; dall’altra c’è invece il non voler morire, lo stabilire, soprattutto in base al denaro, il proprio potere. Questa è la polarità più forte che si possa immaginare. Dal gesto di Giuda che abbiamo visto ieri possiamo immaginare che in lui c’è tutta la psicologia dell’egoismo, una fenomenologia completa dell’ego-ismo che pensa solo a sé, alla propria autoaffermazione sulla Terra, al denaro come strumento di autoaffermazione (di volta in volta il quadro ti dà non i particolari, che si possono evincere poi, ma tutti gli elementi fondamentali di cui hai bisogno). In Maria Maddalena c’è la psicologia dell’amore, che conferma la morte ed accetta volentieri la morte, come presupposto, come preambolo di resurrezione.
Di sicuro appartiene alla psicologia di Giuda l’aver seguito volentieri questo Gesù Cristo taumaturgo per tre anni; anche in base alle cose spettacolari che il Cristo faceva, Giuda vedeva in Lui la potenzialità, la possibilità di stabilire un potere in questo mondo, magari cacciando via i Romani una volta per sempre. In altre parole, Giuda dice a Cristo: tu hai questi poteri, dunque usali, no? Vuoi bene che il tuo spirito o che la tua piccola setta diventi più grossa, no? Se hai un messaggio fatti sentire, imponiti, vai a Gerusalemme, perché fai di nascosto? C’è in Giuda questa lotta interiore che tende all’affermarsi esterno, al potere esterno perché ancora non capisce che c’è un modo di autorealizzazione molto più bello, molto più profondo che sta nell’amare.
Il potere come unico modo fondamentale di realizzarsi, di imporsi; e l’amore, l’altro modo fondamentale di realizzarsi che Giuda non conosce e che è invece la forza di Maria Maddalena. Perciò il Cristo gli dice: permetti anche quel modo, lascia anche quello, non vedi che il tuo modo di realizzarti preclude l’altro modo?
Il modo di autorealizzarsi dell’amore permette a tutti di farlo; invece il potere, per natura, deve decurtare la libertà altrui, ed è questo il suo male. Nel potere non ci si può affermare, non ci si può ingrandire senza rimpicciolire l’altro. Invece l’amore s’in-grandisce soltanto ingrandendo l’altro, perché se non ama l’altro, se non rende grande l’altro, non è amore. E amando sempre di più, ingrandendo sempre di più l’altro, l’amore diviene sempre più grande.
Le due matrici fondamentali sono: diventare grandi rendendo piccolo l’altro, oppure diventare grandi ingrandendo l’altro – e questa seconda struttura mentale, Giuda non la conosce. Nel suo tradimento c’era la speranza che, consegnando il Cristo nelle mani di coloro che volevano ucciderlo, sarebbe riuscito a costringerlo a manifestare il sommo della sua potenza, così Lui avrebbe sbaragliato tutti ecc. Ma gli è andata male, perché il Cristo si è rifiutato di manifestare qualsiasi tipo di potenza. Una delle affermazioni fondamentali del Cristo è che la logica del potere ti costringe ad esercitare il potere sull’altro, costringe l’altro a difendersi, mette in moto un meccanismo dell’uno contro l’altro che finisce sempre in una spirale e non termina più. E lo vediamo anche a distanza di 2.000 anni, questo fenomeno del potere: il fenomeno Giuda contrapposto alla struttura mentale di Maria Maddalena.
Importante è che la fenomenologia del potere è riferita ad un elemento maschile e la fenomenologia dell’amore viene riferita ad un elemento femminile. Al maschile si riferisce maggiormente anche lo spirito, che tende ad essere attivo, e in un primo tempo svolge un’attività che vuol soggiogare l’altro; invece l’anima, per natura, dà all’amore un peso molto maggiore che non al potere.
E si potrebbero dire tante altre cose, naturalmente. Qualcuno potrebbe dire: ma non è una scena un pochino… delicata questa di una donna che lava i piedi al Cristo? Va presa nel contesto culturale di allora: innanzitutto non si mangiava seduti come facciamo noi oggi, ma ci si reclinava e i piedi restavano pratica-mente in basso, però erano accessibili a persone che volessero accovacciarvisi accanto. Era una posizione del tutto normale. E poi lavare i piedi (come farà il Cristo nel tredicesimo capitolo) alla sera, dopo aver camminato su strade polverose, eccetera, era una delle abituali cose quotidiane. Quindi, il gesto di Maria Maddalena, il pulire i piedi, era un gesto quotidiano non certo osceno.
Soltanto che lei, a questo gesto quotidiano, attraverso l’olio prezioso di nardo, dà un altro significato, quello che il suo cuore intuisce. Come il corpo della Terra si sta asciugando, perché è già nella seconda metà dell’evoluzione e sta diventando sempre più avvizzito, più vecchio, così io ho lavato e sto asciugando questo piccolo corpo del Cristo che partecipa ai destini geologici della Terra. Lo asciugo con le forze di amore dell’anima che amano – l’anima ama – il prosciugarsi, l’avvizzirsi, l’invecchiare del corpo della Terra e del corpo del Gesù Cristo, perché questo morire del corpo è il presupposto del risorgere dello spirito.
Nardo. Nella parola “nardo”, le consonanti n r d fanno subito pensare al Nord, si riferiscono alle forze del Nord, alla divinità nordica-germanica Njordhr. Questo unguento si chiama nardo appunto perché ha forze, diciamo, proprie del polo Nord anziché del polo Sud. Il Sole che splende a mezzogiorno è a Sud, a mezzanotte non c’è più, è a Nord. Nel nome di questo unguento c’è il mistero dell’entrare nella morte, dello sparire dal mondo fisico – altrimenti sarebbe il Sole a mezzogiorno – per rientrare nel mondo spirituale. Sono forze che reimmettono nel mondo spirituale: quindi quest’olio combacia bene col desiderio di Maria Maddalena di accompagnare questo Sole, che sulla Terra è come un Sole a mezzogiorno che risplende, di accompagnarlo fino a mezzanotte. Le forze del Nord sono in questo nardo. Lasciando naturalmente aperto, come dicevo, che lo stesso unguento, su un altro tipo di corpo, poteva avere tutt’altro effetto o addirittura l’effetto opposto.
Tra l’altro, dicevo già in altri contesti che anche la medicina, i medici, i nostri terapeuti a vari livelli verranno sempre più confrontati con l’individualità umana. Siccome siamo decisa-mente nella seconda metà dell’evoluzione, dove conducente non è più il fattore vitale di natura (quel fattore che viene messo a disposizione per l’evoluzione della coscienza) ma conducente è il fattore di coscienza che comporta un’individualizzazione sempre maggiore, in futuro avremo a disposizione sempre più farmaci, sempre più unguenti o elementi di natura, che non soltanto agiran-no in un modo diverso da corpo a corpo, ma addirittura in un corpo e in un altro opereranno in un modo opposto. L’individua-lizzazione degli esseri umani è destinata ad aumentare sempre di più.
E questo ci fa capire perché Steiner sottolinea che, quando tirano giù Gesù dalla croce, lo cospargono di unguenti che si solevano usare per preservare il corpo (pensiamo alle procedure di mummificazione che facevano gli egiziani), ma che su questo corpo hanno avuto l’effetto opposto. In realtà l’inabitazione del Cristo ha portato il corpo di Gesù ad una decomposizione di forze formanti tali – e volutamente, per farlo diventare polvere nel corpo della Terra, come un lievito – che gli stessi unguenti, le stesse spezie che per altri corpi servivano alla conservazione, in questo corpo accelerano il processo di disgregamento.
Questo ci fa capire meglio ciò che il Cristo dice a Giuda: “i poveri li avrete sempre con voi”. Giuda, se è vero che tu ti occupi dei poveri, sappi che gli esseri umani sono tutti poveri, perché tutti si sono impoveriti nella caduta. Infatti il cosiddetto peccato originale (la caduta) è un progressivo impoverimento perché si perdono i tesori dello spirito: l’essere umano all’inizio della sua evoluzione era inserito nel mondo spirituale, poi perde l’antica chiaroveggenza, perde sempre di più ogni connessione col mondo spirituale. Quindi, la caduta è un processo di impoverimento graduale, crescente, degli esseri umani.
Questi poveri, che sono tutti gli esseri umani, “li avrete sempre con voi” perché sono destinati a ritornare sempre sulla Terra; qui, indirettamente, c’è questo accenno al fatto che gli uomini ritornano sempre sulla Terra, ritornano, questi poveri, nel loro cammino per ridiventare ricchi, per ricevere questi trecento denari. Avranno sempre la possibilità di essere sulla Terra, fino alla fine della Terra. Invece il Cristo Gesù, in quanto presenza fisica, no: è all’ultima settimana. Ancora due o tre giorni: verrà presto il giovedì santo, poi il venerdì santo e dal venerdì in poi il suo corpo non ci sarà più. Il sabato verrà messo nel sepolcro della Terra e quindi scomparirà alla vista delle persone (finché era sulla croce questo corpo poteva ancora essere veduto) e verrà sepolto nella Terra.
Chi legge il vangelo e chi ha una conoscenza di riti iniziatici, nel Gesù Cristo sulla croce ravvede subito un segno dell’iniziazione dei paesi dell’emisfero del Nord; nel suo venir poi messo nella tomba vede la sintesi tra le vie iniziatiche del Nord e le vie iniziatiche del Sud – nel Sud, soprattutto in Egitto, l’iniziato veniva messo in una specie di catafalco-sarcofago dove rimaneva per tre giorni e mezzo tra la vita e la morte. Una volta messo nel sepolcro questo corpo sparisce, non c’è più; i poveri invece li avrete sempre. Questo corpo che poi non tornerà più è il corpo che è stato unto a Betania da Maria, amorevolmente, come preparazione alla morte, una morte che non deve avvenire né troppo presto – se avvenisse già solo un’ora prima, la posizione dei pianeti sarebbe quella sbagliata – né troppo tardi.
Ora, sapere perché e che tipo di costellazione di pianeti c’era al momento della morte del Cristo è un cammino di conoscenza che l’umanità non ha ancora neanche cominciato a fare. Però è da fare, perché il vangelo in proposito è molto dettagliato: morì all’ora nona, lo dice esattamente, fu crocifisso all’ora sesta, a mezzogiorno. Se si ricostruirà il giorno in cui il Cristo Gesù è morto, e si ricostruirà esattamente la posizione di tutti i pianeti, che non era casuale, ovviamente, si capirà perché doveva essere esattamente così, in base ad un’astronomia, ad un’astrologia non più aleatoria, ma intrisa di saggezza. Potete immaginare quanti tesori di sapienza sono nascosti in questo tipo di testi, e vedete che noi siamo veramente solo all’inizio di queste scoperte; senza esagerare, siamo a un primo balbettio.
Abbiamo così visto questa scena, diciamo intima, dentro quattro mura. Col v.9 usciamo fuori. Adesso ci viene presentato il modo di reagire della folla. Avevamo già letto dal v.9 all’11, ma li rivediamo:
12,9 “Molta folla dei Giudei sapeva che era là e vennero non soltanto per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che aveva risvegliato dai morti.” Il popolo, la folla. “Folla” è diverso da “popolo”, in greco è Ôcloj (òclos), folla. Il popolo dei giudei è un gruppo di persone omogenee in quanto ha la spiritualità abramitica e la spiritualità mosaica; invece la folla è un’anima di gruppo caotica, è la “turba”, è turbata, in turbinio. Questa folla, questa turba, che ha un’astralità caotica e disordinata, riceve un primo ordinamento in questo comune riferirsi al Cristo e a Lazzaro.
Un primo elemento di ordinamento in quest’anima sulla via di diventare come quella di Maria Maddalena, è che i giudei ora si stanno chiedendo: ma, ha resuscitato Lazzaro dai morti?! Molto popolo, molta folla, tanti della folla erano dunque venuti non soltanto per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che aveva risvegliato dai morti.
Nel capitolo 10 avevamo già visto che uno dei motivi per cui la folla era curiosissima di vedere anche Lazzaro stava nel poter vedere come si muoveva uno che era morto ed era stato risuscitato. Ora, uno dei motivi per cui alla folla premeva vederlo era perché si diceva che i capi avevano deciso di mettere a morte anche Lazzaro; e allora dicevano: andiamo a Betania, facciamo presto, prima che lo acchiappino.
Ci siamo detti, almeno una volta, che la teologia tradizionale ritiene che i sinottici siano più storici che non il vangelo di Giovanni: invece è vero proprio l’opposto. I sinottici hanno molto meno la capacità di far calare gli eventi proprio fino al livello della storicità minuta, delle percezioni concrete, si fermano maggiormente a livello immaginativo – perciò sono pieni di parabole. Invece il vangelo di Giovanni ti dà l’elemento storico fondamentale, proprio come fa uno scrittore moderno. Prima vi dicevo della storicità minuta, della descrizione precisa di ciò che hanno visto nella tomba vuota, della posizione del sudario della testa e della posizione dei panni che avvolgevano il corpo... Qui ci dà la ragione storica per cui la folla era curiosa di vedere Lazzaro: sapevano che i capi avevano deciso di ucciderlo e quindi, se non facevano presto, non l’avrebbero visto più.
Allora il v.10 è proprio una nota storica. 12,10 “Infatti i capi dei sacerdoti avevano preso la decisione di uccidere anche Laz-zaro”. Questo è proprio il rapporto tipico di uno storico, ti dà un elemento che ti fa capire perché la folla era così curiosa e soprattutto perché aveva fretta di vedere anche Lazzaro prima che lo uccidessero.
12,11 “perché molti dei Giudei, a causa di lui cambiavano quartiere e credevano in Gesù”: a causa di Lazzaro, che era stato risvegliato dai morti, cambiavano bandiera, passavano da uno schieramento all’altro, e cominciavano a credere in Gesù. Questo è il motivo per cui avevano deciso di mettere a morte anche Lazzaro, perché molti a causa di Lazzaro che era stato risvegliato, avevano deciso di mettersi alla sequela di Gesù.
12,12 Il secondo giorno molta folla era venuta alla festa; avendo sentito che Gesù veniva a Gerusalemme
12,13 presero dei rami di palme e uscirono per andargli incontro e gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele!»
Il secondo giorno, non “il giorno dopo”, che non dice nulla, ma “il secondo giorno”, perché i giorni sono numerali, non sono soltanto una serie qualsiasi. Prendiamo i tre giorni: tutto ciò che abbiamo visto finora, tutto l’evento dentro la casa di Lazzaro – l’unzione di Maria Maddalena, la reazione di Giuda – il primo incontro con il popolo, tutti questi quadri sono avvenuti nel “primo giorno”, che in una triade iniziatica ha un carattere particolare.
Il “terzo giorno”, in una triade, ha sempre il carattere di nozze, perché al terzo giorno si fa l’unità degli opposti: nel primo giorno c’è l’uno, nel secondo giorno c’è il due e il tre è sempre una sintesi tra uno e due, come dicevo anche ieri. Allora, al terzo giorno avvengono le nozze, e nozze vuol dire composizione degli opposti: tra umanità e divinità, tra anima e spirito. Nelle nozze maschio e femmina si mettono insieme, come immagine primige-nia di ogni tipo di polarità, di ogni tipo di opposto, tra cui nasce una mediazione; l’equilibrio tra gli opposti è un andare a nozze, nel senso che non ho soltanto uno, né soltanto due, ma ho uno e due insieme, ho la terza forza, la forza equilibrante.
Quindi il terzo giorno è sempre un giorno di equilibramento degli opposti, e adesso siamo al secondo giorno, questo è importante, siamo nel registro del secondo giorno. Hegel direbbe: finora c’è stata la tesi, siamo adesso all’antitesi, altrimenti non avremo nulla da sintetizzare; e infatti il terzo passo sarà quello di fare la sintesi. Se uno apre La scienza della logica di Hegel, famosissimo suo libro di testo, legge: tesi = l’essere, antitesi = il nulla (c’è un sacco di cose da dire sul nulla) e poi sintesi tra essere e nulla = il divenire. Il divenire è tutti e due insieme, perché nel divenire c’è essere e non essere. Questa è la struttura di ogni evoluzione: perché se non c’è prima l’uno, poi il due e poi il tre, che fa una specie di sintesi, e se non c’è poi un cambiamento di livello e poi di nuovo uno, due e tre, non c’è evoluzione.
Non possiamo spiegare adesso tutto quello che avviene con la chiave del “due”, sono cammini di conoscenza che riserviamo al futuro. Per adesso accontentiamoci di seguire un po’ le parole; un passo successivo potrà essere quello di interpretare più specifica-mente tutte queste parole, tutti i quadri riferibili al due e non all’ uno.
Io stamattina di nuovo mi dicevo: t’è andata male, questi partecipanti al seminario non t’hanno fatto finire con la prima metà del vangelo – perché sapevo che nella seconda metà le cose sarebbero diventate un po’ più difficili. Comunque, qualche chiac-chierata la farò lo stesso, ma vi renderete conto sempre di più che entriamo in misteri dove quello che c’è da conoscere è infinito e noi siamo proprio appena agli inizi... Ma vale la pena: prima di tutto si diventa ancora più grati ad una scienza dello spirito, perché almeno ti dà un minimo di accesso; nello stesso tempo si diventa modesti (se non proprio umili, almeno modesti), nel senso che ognuno si rende conto che c’è ancora tanta strada da fare.
Qui il testo inizia schiaffandoti un: guarda che tutto quello che viene appresso lo devi interpretare con la cifra del due. Nel secondo giorno, molta folla era venuta alla festa della Pasqua: Ôcloj polÝj (òclos polýs), molta folla; le stesse parole c’erano anche nel versetto nove, che abbiamo appena visto. Quell’altra folla era andata curiosa di vedere Lazzaro, questa folla è invece venuta alla festa; è un’altra folla, nel senso che c’è un’altra astralità, un’altra compagine interiore con la quale il Cristo adesso si incontra.
Qui abbiamo a che fare con l’anima umana che celebra la Pasqua e questa diventa una Pasqua tutta particolare. La Pasqua ebraica era un’anticipazione dell’agnello, si mangiava l’agnello come un’anticipazione della venuta del Messia, dell’agnello che si sarebbe immolato per l’umanità e poi ci sarebbe stata la fine dei tempi. Vediamo come la folla, adesso, celebra questa Pasqua, che è la prima ed ultima celebrata con il Cristo che sta andando alla sua morte, come presupposto per risorgere nell’aura spirituale della Terra e nell’anima dello spirito di ogni essere umano.
“Il secondo giorno, molta folla venuta alla festa di Pasqua, avendo sentito che Gesù viene a Gerusalemme”: Betania è a soli quindici stadi di distanza (a voi hanno tradotto con “due miglia”) da Gerusalemme (l’ho fatta a piedi anch’io diverse volte e ci si arriva in tre quarti d’ora, un’ora al massimo), e qui hanno sentito che il Cristo era sparito e si chiedevano: ma non verrà alla festa? Adesso sentono: è qui vicino, è a Betania, e sta venendo a Gerusa-lemme. Quindi immaginiamo che Gesù si è già messo per strada, e si sparge la voce che sta venendo verso Gerusalemme.
Che cosa fa parte ancora di quella che viene chiamata l’intuizione morale, la fantasia morale di Maria Maddalena? Vediamolo. Lazzaro è stato iniziato dal Cristo: ora, se c’è un essere umano al quale Lazzaro è in grado di confidare (in modo che però capisca almeno in parte) i misteri di ciò che ha vissuto, questo è sua sorella Maria; di queste cose Marta capisce meno, il suo compito è di creare la base corporea per l’esistenza. Dunque, l’anima umana capace di ricevere le comunicazioni dell’espe-rienza che Lazzaro ha fatto è la sorella Maria. Ora, tra le cose che Maria ha intuito e capito, anche con l’aiuto di Lazzaro, c’è: guarda, Maria, che questo Gesù Cristo, sette giorni dopo avermi svegliato, morirà, perché dopo avermi richiamato dalla morte non lo lasceranno in vita; e passerà una settimana. Quindi Maria è in questa tensione dell’animo: sa che ormai Gesù di Nazareth è un consacrato a morte, e che vogliono uccidere anche Lazzaro.
Il Cristo viene a Gerusalemme per andare incontro alla sua morte. Aveva aspettato finora per andare a Gerusalemme perché altrimenti sarebbe morto prematuramente, Lui sa che lo vogliono uccidere. E proprio per non far avvenire la sua morte prematuramente era andato via, era sparito, e non sapevano dov’era; adesso viene a Gerusalemme perché è giunta l’ora della sua morte, e con questo indica che sceglie Lui liberamente di morire, va incontro liberamente alla sua morte. Solo che dev’es-sere l’ora giusta, il giorno giusto e l’ora giusta.
La folla seppe che stava venendo (letteralmente: che sta venendo, che viene) e gli va incontro. Se prima del risveglio di Lazzaro ci poteva essere qualche dubbio sulla sua notorietà, o sul fatto che fosse un individuo straordinario, dopo il risveglio di Lazzaro era stato raccontato dappertutto ciò che era successo e non c’era più dubbio che la figura di Gesù di Nazareth era diven-tata più famosa di tutte (se la vogliamo mettere a livello di popolino che va in cerca dell’ultima notizia sensazionale).
E gli vanno incontro. Avevano udito che Gesù sta venendo verso Gerusalemme e allora “presero dei rami di palme e uscirono per andargli incontro”. Però bisognerebbe sostantivare “gli anda-rono incontro” con “uscirono per l’incontro”: “uscire” da ciò che è passato, che è consueto, abitudinario, per andare incontro a Colui che porta tutto il futuro dell’umanità, tutta l’evoluzione futura.
E gridano, acclamano dicendo: Osanna! Gloria! In alto! Viva!… Il popolo ha un sentimento spontaneo che è qui buono: e perché dovrebbero farlo fuori? Ha richiamato una persona dalla tomba, ed è una cosa buona, magari lo facesse con tutti!... a me è morta mia madre e forse, se ci fosse stato Lui… Quindi lo osan-nano. Osanna per il popolo ebraico significa “viva”, “pollice in alto” non “pollice basso”.
“Benedetto colui che viene nel nome del Signore”: citano la Scrittura. Quella che il popolo recita insieme non è una compo-sizione individualizzata, ma è una composizione di gruppo e quindi cita la Scrittura che è l’elemento comune. La cita perché c’è un’ispirazione del popolo ebraico da parte di Chi ha ispirato le Scritture: altrimenti chi mai potrebbe dare al popolo l’ispirazione su quale versetto del Salmo tirar fuori di fronte al Cristo? Il Cristo che adesso, tra l’altro, è su un asinello e sta entrando in Gerusa-lemme.
Questa è l’ispirazione divina, l’ispirazione che già ispirò i Salmi, e che ora ispira al popolo inconsciamente, o semiconscia-mente, quale versetto calza. Sennò come fa il popolo, ‘sto popo-lino, a sapere quale versetto recitare? È proprio un’ispirazione: loro, insieme, sentono che l’operare del Cristo gli fa bene, che è buono, che Lui vuol bene agli esseri umani (ha richiamato il suo amico Lazzaro dalla morte, ecc.). Alla ricerca di un versetto da proclamare, tirano fuori questo versetto del Salmo 118,25 “Osanna, Evviva, Benedetto colui che viene nel nome del Signo-re, il Re d’Israele!”.
A questo punto le cose diventano pericolose: quest’ispirazione del popolo, per i capi religiosi va subito troppo in là. Perché il popolo, senza magari rendersene conto, caratterizza troppo speci-ficamente Gesù: “Benedetto colui che viene” e fin qui può andare, perché non ha ancora detto chi è colui che viene, ma poi: “nel nome del Signore”, quindi nel nome di Jahvè, e allora guai a chi lo uccide perché si mette contro Jahvè; e poi addirittura: “Re d’Israele”. Sono caratterizzazioni specifiche del Messia!
Quindi, mettendo tutto insieme, il popolo ha avuto un’ispi-razione che dice: costui è il Messia! La stessa folla, pochi giorni più tardi, urlerà: uccidilo, crocifiggilo! Questi sono misteri psico-logici della massa, che in qualche modo ben conosciamo. La massa è soggetta a venire ispirata dalla fonte ispirativa più alta che ci sia, ma è ugualmente soggetta – perché manca di un criterio proprio di discernimento del vero e del falso – a ispirazioni che vengono dal basso.
La massa, non avendo un criterio proprio, è in balia della propaganda che di volta in volta si fa: se Berlusconi fa propa-ganda la gente pensa così, se quell’altro fa propaganda la gente pensa cosà. La gente non ha un’idea propria, e questo è l’ele-mento fondamentale dell’anima di gruppo: che l’individuo non c’è ancora e ognuno si lascia trasportare dalla fiumana comune che muove colì o muove colà. L’emergere del singolo significa: nonostante ciò che pensano gli altri, io la penso così. È l’emergere dell’individualità, la capacità di farsi un giudizio proprio.
Questa capacità di concetti, di giudizi, di opinioni o di convin-cimenti individuali, presuppone la capacità di percepire con occhi propri le cose; perché già nel percepire, nel modo di guardare, c’è un selezionare. Abbiamo visto, in questi giorni, che non esistono due esseri umani che percepiscono la stessa cosa, perché già il modo di percepire è un rivolgere lo sguardo, non è soltanto un vedere, è un guardare, e questo guardare è già intriso delle forze più o meno penetranti del pensiero di chi guarda. Quindi c’è percezione e percezione, e propedeutica alla formazione del giudi-zio individualizzato c’è un certo tipo di percezione.
Ora, l’inizio di questo tipo di percezione è il fatto che il popolo va a vedere, perché se non andasse neanche a vedere resterebbe nel tempio, e i capi lo abbindolerebbero dicendogli cos’è successo fuori dal tempio, narrando fatti di cui il popolo non avrebbe la percezione. L’inizio della percezione individualizzata è dunque la percezione di gruppo: percepiscono tutti la stessa cosa, però almeno percepiscono – che è già un inizio –, non si lasciano solo raccontare.
Il passo più arretrato di questo processo di individualizzazione è quando non si permette alla folla neanche di avere la perce-zione: la s’indottrina in toto. I capi dicono: no, no, no, restate qui nel tempio, non andate a vedere, non andate a vedere. Cioè, se comincia la percezione comincia l’individualizzazione. Un po’ come fa la chiesa cattolica quando dice: non leggete Steiner. Non si fida del giudizio del singolo. Quindi il fatto che la folla vada a percepire è già un primo passo.
“Re d’Israele”. Che tipo di ispirazione ha il popolo che dice “Re d’Israele”? Ormai il Cristo opera da tre anni, sono tre anni che il Cristo si avvale del corpo di Gesù di Nazareth per parlare, per operare: mettendo insieme tutto quello che ha visto, tutto quello che ha sentito, il popolo arriva a questa ispirazione – non del tutto cosciente, ma pur sempre un’ispirazione del cuore –: abbiamo a che fare col Re d’Israele. È una qualifica molto alta, non dice direttamente “il Messia”, non dice direttamente il “Re dell’universo”, ma il “Re d’Israele”, che significa: noi Giudei conosciamo la spiritualità d’Israele e questo tizio è il Sommo, è il Re, in tutti i fattori di valutazione che noi conosciamo. In altre parole, in Israele noi non conosciamo niente di più regale.
Questo è il motivo per i sommi sacerdoti e per i capi politici di preoccuparsi.
12,14 Gesù trovato un asinello si sedette su di lui, così come sta scritto:
La conferma. Gesù, trovato un asinello Ñn£rion (onàrion), un piccolo di asino. Non lo cerca, ma lo trova: significa che è nel karma. Questo è il segno per esprimere la svolta dell’umanità che sta avvenendo, e la svolta consiste nel passaggio da una condu-zione dell’umanità dal di fuori – l’ultimo esempio era stata la legge di Mosè, che è una conduzione dal di fuori – ad un condursi dalla propria stessa interiorità. Le leggi mosaiche non le produco io col mio pensare, ma mi vengono date da Mosè che viene giù dal monte. Allora il Cristo deve porre un segno del cambiamento, e la folla ne trae questa prima ispirazione: qui non abbiamo a che fare con uno dei tanti fattori di Israele, ma con il Sommo. Tu sei il Re d’Israele.
Il Cristo, entrando in Gerusalemme cavalcando il figlioletto dell’asino, realizza la profezia (e il vangelo lo dice) della grande soglia dell’evoluzione. Cioè: adesso c’è il passaggio da tutte le forme di conduzione esterne ad un tipo di conduzione, a un tipo di guida che sorge dal di dentro dell’essere umano. Il Cristo visibile in Gesù di Nazareth è l’ultima conduzione dal di fuori, ma con il carattere di voler sparire al più presto, per trasformarsi nel Cristo interiore – lo Spirito Santo –, nel Cristo individualizzato che diventa conduzione (se vogliamo continuare a chiamarla “condu-zione”) dal di dentro, individualizzata. In altre parole, dal registro della legge mosaica, che doveva esserci come preparazione, al registro della libertà.
Qui il Cristo deve porre un segno di svolta, che indichi che si sta compiendo una grande novità nell’evoluzione: e allora, per porre un segno di svolta universale, fa riferimento al ciclo solare, perché è quello più comune a tutti gli uomini, indipendentemente dal fatto che siano Giudei o Elleni – vedremo gli Elleni nel dodicesimo capitolo, venuti alla festa di Pasqua. Ora (son tutte cose che forse sapete, ma a questo punto del vangelo vanno rispolverate), il Sole inverte la sua direzione di marcia due volte: d’estate e d’inverno, in Cancro e in Capricorno. Quale segno indica il cancro? Lo conoscete tutti, no?
Cosa sta a dire questo segno? È un segno di inversione di marcia, di una direzione che si cambia in quella opposta: finora il Sole andava in su e adesso va in giù. Questo logo astratto è soprav-venuto più tardi: i segni dello Zodiaco in tempi più antichi erano presi dal mondo animale e dal mondo vegetale.
Riferendoci al mondo animale, che è quello più vicino al regno umano, vediamo che la svolta, il cambio di registro più fonda-mentale che ci sia è quello del passare dalla madre al figlio. Alla fecondazione, le forze formanti femminili che vigevano nell’o-vulo vengono estromesse dallo sperma maschile, proprio vengono sbattute fuori, e la materia viene ridotta allo stato caotico che c’era all’inizio della creazione. In altre parole, la creazione esistente, le forze formanti della madre, vengono portate a termine e ricomincia da capo la formazione, grazie all’azione delle forze formanti di chi si vuole incarnare. In tempi più antichi, il Cancro veniva raffigurato da un’asina col suo asinello.
Se il Cristo entrasse in Gerusalemme cavalcando un’asina, sa-rebbe la più grande asinata che si potrebbe immaginare, perché sarebbe come dire: continuo il vecchio. La Scrittura invece dice-va: “Entrerà in Gerusalemme su un asinello”, come per dire: quando questo avverrà, verrà il Messia, verrà la svolta dell’evo-luzione paragonabile alla svolta del Sole, che fino a lì sale e poi scende.
“Gesù, trovato un asinello, si sedette su di lui così come sta scritto”. Il Cristo deve trovare, deve congiungersi con le forze dell’asinello. In altre parole, deve trovare e proporre agli esseri umani il nuovo. Quest’immagine dell’asinello era ricorrente nelle Scritture: andate a leggere in Zaccaria 9,9, in Isaia 35,4 e 40,9, in Sofonia 3,14. Perciò il popolo ebraico (che poi siamo tutti noi esseri umani) non può dire: se tu, Padre che sei nei cieli, avevi previsto di mandarci tuo figlio, potevi avvisarci no? Era scritto nelle Scritture! Addirittura c’era scritto che sarebbe arrivato su un asinello!
12,15 «Non temere figlia di Sion! Guarda, il tuo re viene seduto su un puledro d’asino».
Non temere, anima umana, figlia della Terra, Sion. Apri gli occhi,
il tuo re viene seduto sul… giovane figlio di un asino: come si dice in italiano?
Intervento: Un puledro.
Archiati: Il termine greco pîlon (pòlon) vale per tutti gli animali, è la generazione nuova; il greco è una lingua molto più aperta. Comunque avete capito.
Naturalmente ci sono i benpensanti di oggi che dicono: i giudei avevano le Scritture che lo dicevano in un modo così chiaro! Se è vero che è proprio avvenuto… possibile che erano così ottusi? Certo, avevano le Scritture e Cristo viene a Gerusalemme seduto sull’asinello…, però quelli stavano seduti su una sedia bella comoda anziché sull’asinello, e non gli era facile lasciare la sedia! Loro erano seduti sulle sedie non sull’asinello! Un po’ come è anche oggi: le sedie ci sono anche oggi, a Roma ad esempio c’è la “Santa Sede”, e se arriva uno Steiner, seduto sull’asinello perché porta qualcosa del tutto nuovo, vedersela con la Santa Sede non è facile… Non vi sto dicendo metafore, sono cose reali, realissime.
Per capire psicologicamente: nonostante ci fossero state le Scritture, e questo segnacolo così chiaro del Cristo che entra in Gerusalemme su un asinello – dunque anche a livello storico, non soltanto metafisico – loro avevano già deciso di farlo fuori, e con Lui di far fuori anche Lazzaro. Il vangelo si salva in calcio d’angolo lasciando stare le reazioni dei capi, lasciando stare le reazioni della folla (perché la folla ha un mezzo sentore) e parla dello stato di coscienza dei discepoli:
12,16 Dapprima i suoi discepoli non capirono queste cose; ma quando Gesù fu glorificato si ricordarono che quelle cose erano state scritte su di lui e che quelle cose erano state fatte a lui.
Quindi, se non ci crediamo, pensiamo che neanche gli apostoli hanno capito di primo acchito cosa stava avvenendo, ma l’han capito solo dopo la resurrezione, a posteriori.
Renato ci aveva concesso soltanto pochi minuti di pausa: ci vediamo fra 7 minuti, alle 11,30.
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Intervento: Tornando alla lavanda che ha operato Maria, tu hai messo l’accento sull’ora e sul momento della morte del Cristo, che non può essere che quella, perché questo è scritto, diciamo, nel progetto cosmico. Poi hai soggiunto che, affinché questo corpo così strapazzato non morisse né prima né dopo, era necessario resistere a delle controforze, e hai detto: “perché le controforze devono esistere”. Mi rimane difficile pensare a delle controforze riferite a questo evento cosmico, che comunque deve avvenire: le vedo necessarie, ben inserite nell’evoluzione dell’uomo, ma riferite a questo evento cosmico mi sembrano fuori luogo.
Archiati: È perché siamo abituati a vedere l’evento Cristo come se fosse qualcosa d’altro che l’evento umano.
Intervento: Io sono d’accordo che l’evento Cristo è il paradigma del cammino dell’uomo, però il Cristo, nel progetto cosmico, ha inserito questo fatto: che Lui debba morire. Per cui non è che riguarda il Gesù come archetipo umano, questo riguarda un progetto cosmico che deve comunque avvenire.
Archiati: Ma guarda che stai parlando del corpo di Gesù, non del Cristo.
Intervento: Ho capito, ma il corpo di Gesù è condotto e governato dalla coscienza del Cristo, che sa benissimo che non può… il Cristo non ha karma.
Archiati: Sì, ma ha preso su di sé il karma dell’umanità. In tutte le leggi della materia sono all’opera tutte le forze e tutte le controforze. Altrimenti fai dell’evento del Cristo un elemento di automatismo: automaticamente va come deve andare, non è né bene né male ma è automatico. Allora non ci sarebbe stata la tentazione del Cristo: perché avrebbe avuto luogo la tentazione del Cristo, se il Cristo non c’entra nulla con le controforze dell’umano? Siamo abituati ad un cristianesimo che, in fondo, non aveva ancora i presupposti conoscitivi, di coscienza, per vedere il fenomeno Cristo a tutti i livelli. Quando parli del corpo di Gesù di Nazareth non stai parlando di Cristo in generale, stai parlando della fisiologia del corpo umano. Nel corpo umano ci sono forze e controforze.
Intervento: Comunque anche la fisiologia del corpo umano non prescinde mai dalla coscienza dell’individuo.
Archiati: Sì, ma questo non vuol dire che non ci siano all’opera le controforze; io non t’ho detto che il Cristo non è all’opera, t’ho detto che sono all’opera anche le controforze, sennò non è un corpo umano.
Intervento: Senti, un’altra cosa brevissima. Questo accenno agli apostoli che non compresero. Gli apostoli non compresero il segno di svolta insito nella simbologia dell’asinello, è questo che non compresero?
Archiati: Secondo te cos’è che non compresero?
Intervento: Che era il Cristo, che era il Messia, loro l’avevano capito?
Archiati: Sì, ma l’asinello che c’entra? E l’asino?
Intervento: Appunto, dico: è quel segno che loro non comprendono?
Archiati: Penso proprio di sì! Il vangelo dice che i discepoli non capirono taàta (tàuta), queste cose, non che non capirono “chi è Lui”. Ciò che non capiscono sono le cose che erano scritte – guarda che sono due le Scritture a cui si riferisce –: che il popolo avrebbe recitato quel versetto dell’Antico Testamento (Benedetto colui che viene nel nome del Signore) e che il Messia avrebbe avverato quest’altro versetto dell’Antico Testamento (Ecco il tuo re viene seduto sopra un puledro d’asina). Loro non compresero che si stavano avverando queste Scritture, e tutt’e due vengono citate.
Intervento: Io ho poco chiaro il discorso dell’inversione del Sole. Sul disegno, il sistema aveva questo movimento: dall’alto andava verso il basso e dal basso verso l’alto... io non ho capito. C’è riferimento alla forza solare che è una forza spirituale e che può avere un riscontro dal punto di vista anche astronomico? Ecco, se mi può spiegare questa evoluzione, questo passaggio.
Archiati: Il concetto è di un “nuovo inizio”. Un certo movimento termina e comincia qualcosa di nuovo. Dove hai l’archetipo di una cesura, per cui una cosa termina e un’altra comincia? Pensa all’andata e al ritorno: l’andata va in una direzione e il ritorno va nella direzione opposta. Il ritorno non è una prosecuzione dell’an-data ma è un’inversione di marcia (perché se prosegui l’andata tu continui nella stessa direzione). È il concetto di inversione: finora c’era la caduta dell’umanità, ora comincia la riascesa. Per indicare che ora comincia l’opposto di quello che si faceva prima, l’im-magine più comune e più evidente a tutti gli uomini è il Sole: fino al 21 giugno sale, poi inverte la marcia, va in direzione opposta e scende, per poi reinvertire direzione in inverno. Oltre al fatto, naturalmente, che ogni giorno sorge e tramonta, però questo è quotidiano.
Intervento: Ed è relativo anche agli antichi misteri, questo richiamo alle immagini…
Archiati: Si usava questa immagine di inversione di direzione per dire: la venuta del Messia, la venuta del Cristo è l’inversione di tutte le direzioni.
Intervento: In aggiunta alla cosa che ha detto prima Luciana, riguardo alla fatica di identificare il Cristo nel corpo di Gesù. Dal mio punto di vista trovo molto chiaro questo grande disegno divino che ha portato il Cristo nel corpo di Gesù col fine, per gli uomini, di identificarsi con Gesù. Gesù sta facendo questo cammino per interiorizzare le forze del Cristo, per cui si devono manifestare tutte le difficoltà che l’uomo ha qui, per fare questo suo cammino. Gesù, portatore del Cristo, ha dovuto dimostrare a noi tutte le difficoltà che via via incontreremo, quindi in Gesù si devono manifestare le controforze che saranno anche nostre.
Archiati: Sì, ma il Gesù non è un Io. L’Io di Gesù prima che…
Intervento: … si è ritratto perché sono entrate in Lui le forze del Cristo, il Messia. Certo, però prima che entrassero in lui le forze del Cristo, ad uno ad uno ha dovuto far retrocedere tutti i suoi corpi, i corpi, diciamo così, dell’uomo in genere. Ci ha portato un esempio di quello che noi dovremmo fare in quest’evoluzione. Ho aperto questa parentesi perché volevo dire per quale motivo Gesù si è trovato di fronte a queste controforze: perché deve darci anche l’esempio di come noi dobbiamo agire per poi poter portare, ad una ad una, dentro di noi, tutte queste forze: nell’Io, nell’astrale, nell’eterico, fino arrivare al fisico.
Archiati: Sì, però lei prima voleva sapere cosa esattamente, concretamente, loro non hanno capito: il riferimento alla Scrittura, che qui si avveravano le Scritture e che le Scritture si riferivano alla venuta del Messia. Loro non avevano fatto ancora il nesso tra quello che avevano sotto gli occhi e le profezie. Dopo la resurrezione furono in grado di farlo: il popolo che aveva cantato quel versetto, l’ingresso in Gerusalemme su una puledra… c’era tutto nelle Scritture. Però questo nesso di avveramento delle Scritture non gli è risultato subito. Nei giudei, come negli apostoli, siamo all’inizio di un offuscamento di coscienza, che poi si manifesta esemplarmente in Pietro: Pietro, per tutta la settimana santa, avrà una coscienza sempre più offuscata e alla fine non saprà più, proprio non saprà, di essere un discepolo del Cristo, di appartenere a Lui.
La domanda che ci possiamo porre è: perché questo fenomeno, questo offuscamento di coscienza? Se si rendessero conto di ciò che sta avvenendo, significherebbe che la coscienza umana non è decaduta e non ci sarebbe bisogno di redenzione: la coscienza umana ha bisogno di redenzione proprio perché è diventata cieca, e di fronte alla caduta non serve a nulla essere apostoli, perché gli apostoli rappresentano tutta l’umanità. Il Cristo deve entrare in Gerusalemme sapendo che non c’è alcuna coscienza, eccetto quella di Lazzaro, Giovanni-Lazzaro, che l’accompagna coscien-temente.
Questo fenomeno poi si manifesta, com’è scritto nei sinottici – al Getsemani, dove il Cristo per tre volte va dai tre prediletti (diciamo), per vedere se sono in grado di tenere la coscienza desta così che non sia solo, che non debba passare per questa cruna dell’ago dell’evoluzione da solo. Ma non c’è alcuna coscienza che l’accompagna, e deve per tre volte constatare che si sono addor-mentati. E Steiner commenta: lì divenne chiaro al Cristo (perché queste cose doveva impararle) che il senso della sua morte era di entrare nella morte da solo. Però lo doveva constatare a livello di percezione, e allora per tre volte va a vedere e loro dormono.
Quando Cristo dice: “Se è possibile passi da me questo calice”, intende il calice della solitudine assoluta, dell’incomprensione assoluta, per cui nessuno sa ciò che sta avvenendo. Eccetto il discepolo che Lui amava, che ha resuscitato dai morti: quello sì che lo può accompagnare nel mistero della morte e nel mistero della resurrezione, perché ne ha fatto l’esperienza; gli altri apostoli cosa possono capire della morte del Figlio dell’uomo? Lazzaro è come passato per questa esperienza: una volta che il Cristo ha creato in un essere umano la coscienza iniziatica dei misteri della morte e della risurrezione, allora può morire e risorgere. Senza l’iniziazione di Lazzaro non ci sarebbe alcuna possibilità, nell’umanità, di recepire a livello di coscienza ciò che il Cristo sta compiendo. Quindi Lazzaro è l’unico essere umano nel quale Lui pone i presupposti di coscienza per recepire ciò che farà; e lo dimostra, lo constata con gli altri tre, evidenziando a noi che lì l’iniziazione non è possibile. Dormono.
Intervento: Io vorrei chiedere una cosa: anche Cristo viveva le nostre tentazioni animiche, questo vivere in continuo disagio, la nostra vita astrale, insomma, come la viviamo noi?
Archiati: Dunque. Diciamo i concetti più fondamentali e chiari: il Cristo non è un essere umano qualsiasi, il Cristo è un Essere macrocosmico. Attraverso il Gesù ha potuto farsi vedere e ha potuto vivere, di riflesso però, cosa vivono gli esseri umani. Ma non come se fossero emozioni sue. Prendiamo la paura della morte – i vangeli pongono proprio questo quesito –: ma il Cristo ha avuto paura della morte? Arriva uno che può dire: ma come, un Dio ha paura della morte? Ma non sa che risorgerà? Ha avuto paura o non ha avuto paura? La paura della morte non è un segno di imperfezione?
Intervento: È la compassione da parte del Cristo.
Archiati: Invece, Steiner ti dice che ogni precipitazione di risposta resta alla superficie, perché la prima cosa da fare è di rendersi conto che si tratta di cose molto, molto complesse.
Il Cristo è un Essere macrocosmico, è l’Io del Sole, l’Io dell’umanità, l’Io della Terra: la Terra è il suo corpo fisico in senso realissimo, l’umanità è la sua anima, il suo corpo animico. Quanti passi di transizione bisognava fare per dare a questo Spirito macrocosmico immane, attraverso l’anima, un’esperienza della paura della morte? È l’anima che fa da tramite fra lo spirito e il corpo, e la morte è un fenomeno corporeo, non animico: quindi la paura della morte è un fenomeno di interazione tra corpo e anima. Ora, perché questo fenomeno di interazione tra corpo e anima entri di riflesso nel Cristo, bisogna che il Cristo (come Essere spirituale) si inanimi, penetri, in qualche modo, in un’anima: quella del Gesù, che rappresenta l’anima dell’umanità.
Allora attraverso la compassione, il Cristo sente, di riflesso, cosa sentono gli uomini quando hanno paura della morte. Di riflesso, però, non è una paura propria del Cristo, che è una cosa impossibile. È complessa la cosa, perché se parti subito in quarta dicendo: un Dio non può aver paura, allora stai dicendo che Lui non s’è incarnato, non è diventato uomo. Se invece parti in quarta dicendo: Lui, il Cristo stesso, ha avuto paura della morte, dici un’altra assurdità. Allora devi capire che il fenomeno è molto complesso.
Queste sono le cose per cui, se hai avuto la fortuna o la sfortuna addirittura di studiare tutta la teologia tradizionale, tutta l’esegesi e ti sei reso conto dei problemi insolubili che ci sono, quando affronti Rudolf Steiner trovi risposte veramente convincenti. Perché da Steiner non saltano fuori rispostine, che non sai se sono giuste o no, lui ti dà degli strumenti che proprio ti convincono, e soprattutto ti aiuta a capire che le cose sono com-plesse. Come quando tu vai dal medico perché il corpo è malato, e ci vai perché il medico ha una conoscenza del corpo più approfondita della tua, vede una realtà più complessa, l’ha studiata, vede più particolari; io sto male, io so soltanto che ho un corpo malato, lui invece complessifica le cose. Essere scientifici significa complessificare le cose e non andare a naso.
La cristologia di Steiner consiste nell’entrare maggiormente nel merito della complessità degli eventi e dei passaggi che ci vogliono per portare l’Essere del Cristo all’esperienza dell’u-mano. Per l’incarnazione del Cristo in tedesco hanno un’espres-sione più centrale: “il diventare uomo del Cristo”, che è un processo complessissimo.
Allora, se tu hai a disposizione, perlomeno, il livello del corpo fisico, il livello del corpo eterico, il livello del corpo astrale (che sono le tre sfere della tentazione); se poi addirittura distingui tre tipi del corporeo, tre tipi dell’animico e tre tipi dello spirituale, cominci ad avere strumenti un pochino più specifici, vai meno a naso nel chiederti: che tipi di passaggi ha dovuto fare il Cristo per recepire di riflesso l’esperienza dell’umano?
Consideriamo i tre anni: se il Cristo avesse potuto fare il tutto in un attimo, non ci sarebbe stato bisogno di tre anni di tempo; se ci mette tre anni sono tre anni di “evoluzione” del Cristo, evoluzione nel senso che il Cristo, in partenza, dell’umano non ha nessuna idea, perché non è un umano. Di anno in anno, di mese in mese, si va compiendo un processo di umanizzazione. Il massimo di umanizzazione è l’esperienza della morte: con la paura però, che è umana, perché prima di morire non si sa come va a finire, poi, dopo la morte. Se Lui non avesse avuto l’esperienza di cosa viviamo in noi, dove sarebbe stata la sua solidarietà, in che cosa sarebbe consistito il suo essere diventato uomo? Però la cosa non è semplice, non è semplice.
La teologia tradizionale, prima o poi, dovrà accettare di dire: siamo abbastanza ignoranti. Finché non ha questa modestia, che poi è semplicemente oggettività, non andrà avanti e alcuni conti-nueranno a dire: no, il Cristo mica può aver paura della morte, come può essere così imperfetto? E altri risponderanno: no, no, ha avuto paura come noi… e allora è un Dio che ha paura! Il problema, così, non lo risolveranno.
Intervento: Pietro, scusa, ho sentito quello che hai detto come una vera novità, perché pensavo che gli apostoli fossero già degli eletti, dei chiamati e, come tali, manifestassero delle caratte-ristiche già umanizzanti dell’individuo. Hai detto che rappre-sentano l’umanità, e in che forma? Come debolezza dell’umanità?
Archiati: Oppure?
Intervento: Oppure come qualità, come pregi, come…
Archiati: Tutti e due, no? Perché vuoi o l’uno o l’altro?
Intervento: Ok. Perché, come dicevi ieri sera, se c’è un Giuda su dodici, c’è anche un Lazzaro, sempre?
Archiati: No, Lazzaro non fa parte dei dodici, fa parte del settenario, del sistema planetario. Io lo vedo volentieri come rappresentante del Sole. Nei vangeli c’è l’elemento del 12, che si riferisce alle stelle fisse belle ferme, che è più facile identificare perché sono ferme. Invece, nei sette pianeti c’è un putiferio di movimento, lì è più difficile la cosa. Allora, soprattutto nel vangelo di Giovanni, oltre alla dimensione dei dodici, che ci sono ben chiari, ci sono discepoli iniziati dal Cristo, che sono più avanti evolutivamente dei dodici.
Intervento: I settantadue?[14]
Archiati: No, no, sto parlando dei sette. I sette.
Intervento: Sette che?
Archiati: Iniziati. Attorno al fenomeno cosmico del Cristo ci deve essere la dodecuplicità dello Zodiaco e ci deve essere il settenario dei pianeti, no? Allora: Nicodemo, dove lo mettiamo? era un iniziato, ad un certo grado, ma iniziato. Poi Giuseppe di Arimatea, e Natanaele che, come dice lui stesso, è iniziato al quinto grado. Il cieco nato, Maria Maddalena, Lazzaro… sono tutti elementi molto più esoterici che non questo dodici così palese. Il vangelo lascia parecchio da scoprire, proprio a te stessa. Comunque, sia chiaro che Lazzaro non appartiene ai dodici.
Intervento: Lazzaro Giovanni, anche quello mi sembra un po’ misterioso…
Archiati: No, no, no, il cristianesimo tradizionale ha pasticciato, ha identificato il Lazzaro del vangelo cosiddetto di Giovanni, col Giovanni dei sinottici: sono pasticci che ha fatto la tradizione. Se poi nei dodici ci deve essere una rappresentanza solare, e se Lazzaro rappresenta l’Essere del Sole, con gli altri pianeti, e se tra i dodici c’è uno che rappresenta in modo particolare il Sole, allora c’è un corrispondente di Lazzaro anche nei dodici. Però ad altri livelli bisogna vedere quali aspetti vengono presi in considera-zione. La teologia tradizionale non ha gli strumenti per procedere: è convinta che lo scrittore del vangelo di Giovanni sia il Giovanni dei sinottici e non Lazzaro. Per la teologia tradizionale, Lazzaro, che c’è nel vangelo di Giovanni e non negli altri, è stato risvegliato (non parlano d’iniziazione) poi sparisce, basta, piazza pulita.
Intervento: A proposito di quest’altro evento, il risveglio di Lazzaro: non c’era già l’archetipo massimo costituito da Gesù? Gesù non era già il rappresentante massimo…
Archiati: Gesù non è un Io.
Intervento: Cristo per l’umanità?
Archiati: Cristo non è un Io umano. Bisogna avere anche il coraggio della pazienza nelle cose, perché quando si parte si vorrebbe arrivare subito. Tu cerchi adesso, con un paio di formulette, di risolvere cose che non si risolvono semplicemente. Le cose sono complesse.
Intervento: Due cose. La prima: all’inizio del capitolo 12 il testo dice: “sei giorni prima della Pasqua”. Mi chiedevo: temporal-mente per gli ebrei che significa? La Pasqua per noi è domenica, per loro cos’era: di sabato? O di venerdì, il giorno in cui il Cristo è stato crocifisso? È per capire temporalmente che giorno era.
Archiati: Il testo ti dice che non era importante quello che stai chiedendo, perché dice solo: c’è la festa della Pasqua. E allora devi chiederti: cos’è Pasqua? Pasqua è il passaggio, è l’inversione di marcia, la svolta, usciamo dall’Egitto, c’è cambiamento, tutta un’evoluzione finisce e ne comincia una nuova. In questa Pasqua verrà celebrato il cambiamento di tutti i cambiamenti perché il Cristo, con la sua morte e la sua resurrezione, farà di questo passaggio il grande passaggio, la grande svolta evolutiva.
Il testo ti dice: prima di questa svolta di tutte le svolte, che è la Pasqua nella quale il Cristo muore, ti descrivo l’ultima fenome-nologia giornaliera – non di anni o di secoli – di questi sette giorni, un settenario che poi il cristianesimo ha sempre chiamato “settimana santa”, perché è l’ultima del Cristo.
Il vangelo non ti fornisce altre categorie: prende la Pasqua, festa di morte e resurrezione, come svolta. Tu sai già che il Cristo ormai sta per morire, che lo vogliono uccidere; quindi sarà non soltanto una delle Pasque dei giudei, ma la grande svolta evolu-tiva dove il Cristo, l’Essere del Sole, muore e risorge. Sette giorni prima (ecco il settenario), questo ti dice, e non hai bisogno di altri elementi: se ne avessi bisogno, il testo te li darebbe.
Adesso però ho dimenticato cosa avevi chiesto all’inizio.
Intervento: Proprio questo. Volevo capire praticamente in che collocazione era come giorno, cioè se era di lunedì, martedì… proprio in relazione alla settimana.
Archiati: Non importa: in qualsiasi giorno sia, l’importante è che sei a “sette giorni prima”; che poi arrivi di martedì o di giovedì, che interessa? Che poi, se tu vuoi collocarlo in un giorno della settimana, salta fuori che per il mondo musulmano il giorno di festa, cioè quello in cui si celebra il passaggio dalla materia allo Spirito, è il venerdì; poi vai di là dagli ebrei e loro ti dicono: no, il grande giorno è il sabato perché Jahvè ha riposato di sabato; poi ti sposti di altri due chilometri e senti: no, no, il venerdì vale niente, il sabato vale niente, è la domenica che conta.
Da che cosa saltano fuori queste beghe? Dal lasciare il qualitativo: non importa in quale giorno celebrano, questo è un andare al giorno quantitativo. Però tutto questo ha i suoi vantaggi! In Israele ci sono sempre negozi aperti: se sono chiusi gli uni sono aperti gli altri e puoi comprare sia di venerdì, sia di sabato, sia di domenica perché ce ne sono di cristiani, di musulmani e di ebrei!
Intervento: La seconda domanda che volevo porti è in relazione alla tradizione, perché anche questa nasce dalla settimana santa, da come viene tramandata. La tradizione mi sembra dica che l’adultera era la Maddalena, però questo, nel vangelo di Giovanni, non viene detto, se non erro.
Archiati: L’adultera, o colei che nel vangelo di Luca nel capitolo 7 lava i piedi del Cristo?
Intervento: Questa è un’altra domanda ancora. Io chiedevo se l’adultera e Maria Maddalena sono la stessa persona. Anche per-ché nel capitolo otto parla di una donna.
Archiati: Stai attento, la tua domanda è una domanda quanti-tativa.
Intervento: Infatti io avevo detto che nasce dalla tradizione…
Archiati: Sì, ma è importante soltanto per un’umanità materia-lizzata…
Intervento: …ma anche per fare un po’ di chiarezza, per capire meglio.
Archiati: No, per capire meglio devi smetterla di fare domande quantitative. Stai attento: il vangelo ti dà, in quadri diversi, aspetti della fenomenologia dell’anima. Se si tratta di un elemento femminile è un frammento di fenomenologia dell’anima, va bene? C’è la fenomenologia dell’anima che lava i piedi al Cristo, la fenomenologia dell’anima da cui vengono cacciati i sette demoni, la fenomenologia dell’anima che vede il Risorto come un giar-diniere, la fenomenologia dell’anima che è colta in adulterio. Per i vangeli, che queste fenomenologie siano distribuite su pezzi di materia diversi o sullo stesso pezzo di materia, è una domanda irrilevante. Questo voglio dire. Per noi è diventata la domanda più importante, ma quando sai che sono distribuite su due pezzi di materia, su tre, su quattro o su un solo pezzo di materia, cosa hai guadagnato? Nulla! Mi son fatto capire o non si capisce il mio discorso?
Interventi: Sì. Sì. Sì…
Archiati: E perciò i vangeli non si preoccupano di dirti: guarda che è la stessa persona o non è la stessa, perché non gl’interessa. Poi, vai a rispolverare i tomi dei teologi: uno ti spiega con cinque-cento pagine che è la stessa, l’altro ti prova con settecento pagine che non è la stessa; e tu che ne sai? Conclusione: per i vangeli la domanda non esiste, quindi se non esiste puoi provare che è così o che è cosà, e intanto si perde tempo e non si fa la ricerca più importante. Se tu perdi tempo dietro a queste domande, ometti di andar dietro alle domande importanti.
Metti insieme tutte queste fenomenologie e hai la fenome-nologia completa dell’anima: quella ti serve! Che poi siano state tre donne o cinque o cinquanta, non gioco io al lotto. E lo stesso vale per le figure maschili.
Intervento: Chiedo scusa per la mia ignoranza. Da quello che ho capito, la potenza cristica ha usato il corpo di Gesù, cioè il Gesù uomo, come vaso, come possibilità di incarnarsi in quel momento facendone poi tutto quello che tu ci hai spiegato. Adesso, la do-manda che mi ponevo su questo uomo, anche perfettissimo, che è Gesù – così come mi viene prospettato dai vangeli – è: qual è la sua identità?
Archiati: La mia risposta è che non lo puoi dire in una frasetta. Tu hai usato un’immagine, “il vaso”, che è platonica. Nel vaso non c’è una reciproca compenetrazione tra il recipiente e ciò che c’è dentro: il recipiente resta recipiente e ciò che c’è dentro resta ciò che c’è dentro, ma non si compenetrano a vicenda. Se tu usi questa immagine, non c’è nulla dell’incarnazione. Tu pensi che la tua anima usi il corpo soltanto come un recipiente?
Intervento: No.
Archiati: Dunque vedi che quest’immagine è una semplifica-zione, proprio allucinante, di una cosa che è molto più complessa. L’interazione tra il Cristo e il Gesù è una realtà di estrema complessità, e tu arrivi e dici: dimmi com’è?! Studiala nella sua complessità. Allora, la prima cosa che Steiner ti dice è che se non distingui il corpo fisico, il corpo eterico, il corpo astrale e l’Io, non ti raccapezzi.
Un paio di giorni prima, poco prima, del battesimo nel Giordano, l’Io di Gesù di Nazareth, che è un Io umano, si è ritirato. Quindi sulle rive del Giordano arriva un essere umano che è un essere umano più o meno: é, diciamo, la somma dei cammini del corpo fisico, del corpo eterico e del corpo astrale, ma non ha un Io. E allora, il Cristo che è l’Io più grande che esista nel nostro mondo, si unisce e compenetra questi tre corpi – che sono i tre corpi dell’umanità, tutti i cammini dell’umanità – e diventa l’Io di questi tre corpi.
Se tu mi chiedi: come avviene questo fenomeno? ti rispondo: è complesso. Supponiamo che tu sia un medico, sai che una perito-nite è una cosa complessa e t’arriva uno che ti chiede: dimmi in una frase cos’è la peritonite. Tu glielo dici?
Intervento: Beh, posso dire che è un’infiammazione del perito-neo, che non dice niente, sì lo so. Ma dopo la resurrezione, parlo ancora di Gesù, la potenza cristica rimane in Gesù...
Archiati: Gesù è morto! Ma scusa, i tre corpi sono morti: il corpo fisico si è polverizzato, il corpo eterico rientra nell’eterico (questo a seconda della qualità… eh, dovremmo descrivere i corpi eterici di eccezione, eccetera, che restano con una certa compattezza… eh, sono cose da studiare!)… Tu adesso dici: visto che m’è andata male con la prima domanda, che era troppo complessa, allora dammi un’altra frase su quest’altra cosa. Stai facendo proprio questo, non prendertela, ma è così.
Intervento: No, no appunto perché non…
Archiati: Il Gesù è morto: che vuoi? È morto. Se non c’è neanche l’elemento umano che è morto, come fa il Cristo a dire di essersi incarnato? Adesso tu stai pensando: mannaggia, questa cosa è più complessa di quanto pensassi. Giusto! Finalmente ci arriviamo a questa scintilla.
Intervento: Mi domandavo come mai, nei vangeli sinottici, si parla dell’archetipo delle tentazioni di Gesù Cristo, mentre invece il vangelo di Giovanni non ne parla.
Archiati: Diciamo che il vangelo di Giovanni le presuppone.
Intervento: Sì, a questo ci avevo già un po’ pensato, però non è che mi convince tanto.
Archiati: No? E allora scrivi tu un vangelo di Giovanni più convincente, che ti devo dire?
Intervento: No, no, il vangelo di Giovanni mi convince, non mi convince la tua risposta, tutto qui, però…
Archiati: No, hai detto che non ti convince il fatto che non ne parla. Lo dici tu stessa che non ne parla.
Intervento: A volte il nostro pensiero (e forse è sbagliato questo modo di pensare) cerca di capire confrontando le differenze, nel discernere: qua c’è questo, là non c’è… È forse un modo quantitativo di pensare, però questo abbiamo e questo usiamo. Se voglio capire veramente la profondità del vangelo di Giovanni, una mancanza mi dice qualcosa, e allora voglio capirla fino in fondo. Non so se mi sono spiegata.
Archiati: Una prima riflessione sarebbe di chiedersi: il vangelo di Giovanni dice tutto?
Intervento: No, perché alla fine dice che tante cose….
Archiati: Brava! Stavo per andartelo a leggere io. Quindi, non dice tutto, chiaro? Quindi possono essere accadute delle cose che sono reali ma che il testo non dice, ci siamo fin qua? Se non le dice, non significa che non ci siano: non le dice perché non può dir tutto e neanche vuole dir tutto. Allora, se tu hai ricevuto una pulce nell’orecchio dai sinottici che parlano delle tre tentazioni, e ti viene da pensare: però se il vangelo di Giovanni non le narra, non sarà che proprio non sono avvenute?, vacci piano! Di’ che non le dice esplicitamente. E io ti aggiungo: non le dice esplicita-mente, ma nel vangelo di Giovanni implicitamente c’è tutto, sennò sarebbe incompleto, il testo, e invece è un testo tale che ti dà l’essenza dei fenomeni e nell’essenza c’è tutto. Ma c’è tutto implicitamente, non esplicitamente, perché per dire tutto esplicitamente non ti basterebbe neanche la telecamera, non ti bastano tutte le videoteche di questo mondo. I sinottici – che io suppongo non dicano bugie – esplicitano le cose che in Giovanni (se il vangelo di Giovanni non le esplicita), saranno implicite. Però ci devono essere, implicite.
Le tentazioni. Leggo il Cristo con la samaritana, dice: “aveva sete, era mezzogiorno, era stanco dal viaggio…”. Vi pare che non avesse neanche un minimo di tentazione di dare importanza a quest’acqua fisica? Forse parla di un’acqua metafisica? Non sarebbe uomo! Ecco la tentazione. Tentazione significa: le forze proprie del dato di natura.
La chiesa, il moralismo, hanno fatto della tentazione una categoria negativa; invece la tentazione è la cosa più bella che ci sia perché fa andare avanti. L’importante è affrontarla nel modo giusto; se un essere umano non fosse tentato da nulla, non gli succederebbe nulla! Quindi tocca a te vedere la tentazione in tutti i capitoli, in tutti i versetti. Quando entra in Gerusalemme, il Cristo sa che se monta sull’asinello l’ammazzano, perché qual-cuno che capisce il segno c’è, e hanno già deciso di farlo fuori… Vuoi dire che in Lui non c’è la tentazione di montare sull’asino anziché sull’asinello? Allora è un puro fenomeno di automatismo non di libertà!
Dove c’è l’umano, voglio bene che ci sia la tentazione! Sennò l’uomo non è pappa né ciccia, non è nulla proprio. Tentazione significa: benvenuta la controforza, altrimenti tutto diventa un puro fenomeno di automatismo, e non di libertà di scelta, dappertutto, in ogni evento. Se tu sei donna e nessun maschietto t’ha mai tentato, che sei donna a fare? Non c’è gusto, no? Se togli la tentazione vai fuori dall’umano: essere uomini significa venire tentati. Tutto sta a scegliere: questo sì, questo no. Ma se non fossimo attratti da nulla (tentare significa attrarre, no?) non succederebbe nulla.
Allora la domanda è: come abbiamo fatto a svolgere tutto in negativo? Infatti ancora oggi si dice che la tentazione è una cosa brutta, brutta, brutta!.
Intervento: Al punto tale che è inserita in una perfida traduzione del Padre Nostro: “non c’indurre in tentazione”.
Archiati: “Non c’indurre in tentazione”, la traduzione implica che sarebbe meglio che la tentazione non ci fosse. Cose proprio da menti bacate. La petizione non dice “non c’indurre in tentazione”, ma dice: quando ci regali la tentazione, aiutaci a essere vittoriosi. Ma qual è il presupposto per vincere la tentazione? Che ci sia! perché se non c’è, la tentazione, che hai da vincere? Invece la traduzione ti dice: meglio non averla! Catalessi, dall’inizio alla fine!
Intervento: (dall’interlocutrice arrivano parole che non si capi-scono perché non ha il microfono).
Archiati. E allora non venirmi a dire che nel vangelo di Giovanni non ci sono le tentazioni! Eri partita in quarta così, tu! All’inizio hai detto: nel vangelo di Giovanni non ci sono le tentazioni!
Intervento: Scusami, ho sbagliato linguaggio. Volevo capire le differenze, tutto qua.
Archiati: Vedi i moralismi? Tu, invece di dire: ci ho provato e quello m’ha dato una drizzata, e io sono contenta, dici: scusami. Mi chiedi scusa di aver fatto una prova? Ringrazia che hai imparato qualcosa! Invece no, chiedi scusa: tu volevi “essere imparata” già in partenza.
Intervento: Ma anche scusarsi è una cosa bella, cioè scusarsi con se stessi.
Archiati: No, ma no, è un’altra cosa negativa. Io non mi scuso di nulla, scusa! Ma che significa scusarsi? Se ti scusi quando pesti i piedi ad una persona, è una faccenda; ma diverso è scusarsi dei propri tentativi, che aiutano a centrare il tiro. Se mi scuso signifi-ca che sarebbe stato meglio non tentare, non provare. Questa è una cosa importante. È questo moralismo negativo che ti mette una cappa di piombo che come ti muovi sbagli, e allora è meglio che non ti muovi: cadavere in partenza. Ti ha fatto bene, no? Ti ho fatto fare un piccolo esercizio, no? Che tu poi dica: mannaggia ha sempre ragione lui…, ma lo dicevano anche a Socrate! Perché o le cose sono così o non lo sono, non importa chi ha ragione, ma che andiamo avanti tutti col pensiero, che camminiamo tutti, questo è bello. Che poi abbia avuto torto tu o io non importa, diventiamo sempre più tenaci nel pensare, questo è bello.
Tu sei partita in quarta – m’hai provocato, e io me le godo le provocazioni – dicendo: nel vangelo di Giovanni non ci sono le tentazioni, e allora io mi sono detto: ammàzzate, l’ho studiato tutta la vita e sono stato cieco, non le ho viste! Mi hai provocato.
Siete tentati di andare a mangiare?
Intervento: Volevo scusarmi, ma adesso non mi scuso più della mia ignoranza. Per favore, puoi chiarirmi…
Archiati: Chiarire a te?
Intervento: Beh, insomma, io ho avuto questo dubbio…
Archiati: Non ti chiarisco nulla, diciamo che forse ti dirò qual-cosa.
Intervento: Il vangelo di Giovanni è stato scritto da Lazzaro; io ho sempre…
Archiati: Se lo chiedi a me, ma se chiedi a qualche teologo ti dice: no!
Intervento: Per il teologo è stato scritto da Giovanni il discepolo.
Archiati: Allora tu parti da questo presupposto.
Intervento: Sì. Io volevo sapere: il nome “vangelo di Giovanni” c’è sempre stato anche all’inizio, o qualcuno aveva capito che il vangelo l’aveva scritto Lazzaro?
Archiati: È stato attribuito a Giovanni più tardi; cioè, l’autore di questo vangelo è stato chiamato Giovanni più tardi. Nei primissimi inizi sapevano che era di Lazzaro. Ma Lazzaro non l’ha scritto, i vangeli non sono stati scritti: a quei tempi, primo secolo, trent’anni dopo la morte del Cristo, non c’era bisogno di scrivere nulla, non scrivevano nulla, tramandavano oralmente. Però, inizialmente, sapevano benissimo che la sorgente delle frasi, dei pensieri, delle scene eccetera, era questo Lazzaro; tant’è vero che nel suo testo c’era la sua iniziazione, negli altri no. Poi si sono perse le tracce e dovevano perdersi, perché questo cristianesimo esoterico doveva aspettare finché il Cristo fosse ritornato. Essendosi perse le tracce dell’origine della composizione di questo testo, più in là nel tempo il Giovanni dei sinottici è divenuto il rappresentante essoterico del Lazzaro esoterico.
E ci voleva, perché la tradizione, il cristianesimo, non poteva subito cominciare dall’esoterico: il cristianesimo petrino, della fede, è il cristianesimo essoterico, di preparazione a questo secondo cristianesimo dello Spirito.
Buon viaggio a tutti.
A proposito di Pietro Archiati
Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).
Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.
Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.
Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.
Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.
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[1] Platone La Repubblica libro VII
[2] Aristotele Fisica e Sull’anima
[3] Platone Fedro
[4] Il limbo è poi stato abolito da Benedetto XVI nel maggio 2007.
[5] Oggi lo è: O.O. 323 Rudolf Steiner - Il rapporto delle diverse scienze con l’Astronomia voll. I e II - Editrice Antroposofica, Milano 2007 e 2008.
[6]Gv 17,12 Quand’ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. 2Tes 2,3 Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione
[7] Pietro Archiati - Cristo ricambia il bacio – al Giuda che vive in ogni uomo Parte prima e seconda - Archiati Edizioni
[8] Pietro Archiati - L’Odissea: il cammino di ogni uomo - Archiati Edizioni
[9] O.O. 110 Le gerarchie spirituali ed il loro riflesso nel mondo fisico. Zodiaco, pianeti, cosmo – Ed. Antroposofica
[10] O.O. 136 Le entità spirituali nei corpi celesti e nei regni della natura – Ed. Antroposofica
[11]Gv 15,5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
[12] Pietro Archiati - Cristo ricambia il bacio – al Giuda che vive in ogni uomo op. cit.
[13]Mt 26,24 «Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal qu ale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
[14]Lc 10,1 Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.