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Titolo Originale:

Jahrtausendwende – Menschheit wohin?

Traduzione e adattamento di Silvia Nerini e Pietro Archiati

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www.liberaconoscenza.it

ISBN 3-937078-93-2

Pietro Archiati

SEGNI DEI TEMPI

all’alba di un nuovo millennio

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Indice

Primo Capitolo

bene, male e libertà

Il bene e il male nell’evoluzione verso la libertà

Il bene umano è l’uomo

L’uomo è fatto di libertà e di amore

I presupposti interni ed esterni

Trovare o cercare il giusto mezzo?

Il male dello spiritualismo unilaterale

L’unilateralità del materialismo

I segni dei tempi nel ventunesimo secolo

Secondo Capitolo

il pensiero riconquista lo spirito

Causalità verticale e orizzontale

Dall’aristotelismo al materialismo

Platonismo all’inizio del millennio

«Se non si nasce dall’alto…»

Rinascita dell’Io superiore

Fantasia e tecnica morale

Il ruolo della scienza dello spirito

Platonici e aristotelici

Cosa vuol dire spiritualizzare il pensare?

Terzo Capitolo

incontro-scontro fra oriente e occidente

Dov’è «il centro» dell’umanità?

Il numero 666 dell’Apocalisse

Un cuore che non batte?

L’occidente nato per dominare la Terra?

La reciprocità vince il potere

Triarticolazione dell’organismo sociale

Lotta per l’esistenza o aiuto reciproco?

Uomo libero o uomo clonato?

Quarto Capitolo

la seconda venuta del cristo

Vedere e capire non è lo stesso s

Lucifero, Cristo, Arimane

La prima e la seconda venuta del Cristo

La «parusìa» e la «fine del mondo»

Due millenni, solo un inizio

Cristo «Signore del karma»

Il karma dei bisogni e dei talenti

Cristo ritorna «sulle nubi del cielo»

Quinto Capitolo

arimane è in arrivo!

«Arimane» il maligno?

L’incarnazione di Arimane ci vuole

Le «macchinazioni» di Arimane

Il materialismo delle scienze naturali

La scienza moderna come tappa evolutiva

Testa senza cuore

Il nazionalismo tutt’altro che morto

Due modi di appartenere al proprio popolo

Il puro utilitarismo nella vita economica

Vangeli facili o difficili?

Arimane e il secondo avvento del Cristo

Sesto Capitolo

l’evoluzione fa dei passi e dei salti

La storia (a volte) fa dei salti!

L’occidente ama il tempo, l’oriente l’eternità

Apocalisse platonica e aristotelica

Apocalisse individuale e universale

L’apocalisse del male nel nostro tempo

«Transustanziazione», apocalisse cristiana

Nascita e morte in parlamento

L’amore come apocalisse quotidiana

A proposito di Pietro Archiati

Primo capitolo

BENE, MALE E LIBERTÀ

L’umanità ha appena varcato la soglia del terzo millennio. Il passaggio da un millennio all’altro comporta un significativo cambiamento anche nella coscienza dell’uomo. Ciò che avviene nel mondo esterno rappresenta sempre nuove opportunità che vengono offerte alla libertà umana. Per quanto catastrofiche appaiano le condizioni esterne, esse non sono a loro volta che il risultato delle azioni e delle omissioni della libertà umana esercitata nel passato.

Il bene e il male nell’evoluzione verso la libertà

Ogni male nasce da un’omissione di un bene, dal tralasciare di compiere qualcosa di positivo che è necessario all’evoluzione dell’uomo. L’omissione presuppone a sua volta che il tempo e l’evoluzione non contengano solo ripetizioni cicliche sempre uguali, ma anche situazioni uniche, che non si ripresentino una seconda volta in tutto e per tutto uguali.

Detto con un’immagine: nell’evoluzione sono presenti sia il ciclico che il lineare. L’intreccio di queste due dimensioni produce la molteplice dinamica di tutta l’evoluzione. Più aumenta la libertà umana più diventa importante ciò che non si ripete, mentre ciò che si ripete in modo uguale, come avviene nei cicli della natura, si fa sempre più una pura condizione per lo sviluppo dello spirito umano verso la libertà individuale.

Grazie alla sua libertà nel pensare e nell’agire l’uomo può afferrare per così dire al volo ogni situazione di vita che gli si presenta. Ma se non è abbastanza sveglio da cogliere il momento giusto, se per esempio non si accorge delle occasioni di crescita uniche che gli sono offerte all’inizio di questo millennio, queste si verificherebbero in un certo senso invano per lui. Si ritroverebbe allora di tanto più povero, quanto più ricco sarebbe potuto diventare se avesse realizzato di volta in volta ciò che gli veniva reso possibile. Le scelte della libertà vengono poste sempre di fronte a questo tipo di alternativa.

Ci si può chiedere perché le Guide spirituali dell’umanità, che devono essere pur buone e amorevoli, abbiano deciso che ogni costellazione di fattori evolutivi, fatti per raggiungere una determinata dimensione dell’umano, si presenti una volta sola. Per quale motivo non ci si offre un’altra volta o più volte la stessa identica situazione di vita? Perché viene negata una seconda opportunità, equivalente in tutte le sue componenti, a tutti coloro i quali hanno perso la prima?

A questo punto ci imbattiamo già in un aspetto che è caratteristico della libertà umana. Se potessimo sempre e comunque recuperare tutto, non vivremmo in modo libero, ma puramente naturale e ciclico, in un mondo fatto unicamente di ripetizioni forzate di cose sempre uguali. Ma se si vuole una storia che includa la libertà, allora bisogna far sì che la libertà sia anche omissibile in tutte le sue manifestazioni, cioè che si possa anche tralasciare di esercitarla, per il fatto che ogni occasione offerta non si ripeterà in modo del tutto uguale.

Un esercizio della libertà che non si è liberi di omettere, che non si può fare a meno di realizzare, non sarebbe libero. Ci devono essere sempre delle occasioni, di fronte alle quali l’uomo possa reagire positivamente o negativamente. Cogliere le occasioni uniche vuol dire dunque sfruttare in positivo l’irripetibile.

Dal punto di vista della libertà, i grandi peccati dell’evoluzione sono allora non quelli di «commissione», ma quelli di «omissione». La fissazione moraleggiante sui «peccati di commissione», su ciò che si fa di brutto o di sbagliato, ha ormai fatto il suo tempo e diventa sempre più anacronistica.

Ciò che si considera come un male in base a delle norme esteriori, cui ci si deve sottomettere per obbedienza, è valido per la fase infantile di preparazione alla libertà, nella quale vengono creati i presupposti necessari per la sua realizzazione. Anche i bambini sono come tali capaci solo di «peccati di commissione»; ciò avviene quando compiono qualcosa di nocivo. Però non possono ancora omettere nulla, poiché non sono ancora capaci di scegliere secondo libertà.

Ma quanto più l’uomo si solleva verso la libertà, quanto più impara ad esercitarla, tanto più i suoi «peccati» più gravi diventano quelli di omissione. Ciò ci spiega come mai nella tradizione occidentale si è sempre cercato di avvicinarsi al mistero del male dalla parte della negatività, considerandolo non come qualcosa di reale e di brutto, ma come una mancanza, come una carenza di qualcosa di bello, come l’assenza di un bene.

Nell’era del materialismo, l’uomo dà molto più peso a ciò che si verifica nel mondo delle apparenze visibili, e tende invece ad ignorare o a trascurare ciò che avviene – o che spesso non avviene – al livello interiore della sua anima. Le vere catastrofi della storia non sono i fatti che registriamo sul piano fisico. Ciò che è esteriore è sempre l’effetto di qualcosa che avviene prima all’interno dell’uomo.

Sia il bene che il male sono delle realtà spirituali; e ciò che accade a livello visibile non ne è che la manifestazione esterna. Bene è far proprie tutte le qualità possibili dell’umano, male è il non evolversi: questa è la più grande tragedia spirituale per l’uomo. La sofferenza che viene dall’esterno è fatta per aiutarlo a recuperare, se non tutto il bene che ha omesso, almeno il più possibile.

E c’è qualcosa di ancor più sorprendente, qualcosa che può addirittura sconvolgere l’uomo d’oggi: le catastrofi esterne o naturali che pongono gli uomini di fronte al mistero del dolore e della sofferenza provengono sempre dagli esseri spirituali buoni, da quelli che amano l’umanità e vogliono il suo bene. Essi ricorrono a tali prove solo quando diventano inevitabili, cioè necessarie a risvegliare l’uomo, a fargli prendere coscienza di tutto il bene che omette di fare, affinché recuperi ciò che ancora può essere recuperato. Gli esseri cattivi sono tali proprio perché non vogliono per noi quel dolore che ci riscuote dal torpore e ci porta la salvezza.

Il bene umano è l’uomo

Per l’uomo non c’è cosa migliore al mondo che diventare sempre più umano, vivendo sempre più nella pienezza della sua ricchissima natura. Per capire che cosa è il bene bisogna comprendere sempre più a fondo che cosa è che fa vivere l’uomo in pienezza.

Il bene per l’uomo non può infatti essere nient’altro che la piena esplicazione del suo essere. Non c’è nulla di moralmente più «buono» che diventare umano in modo sempre più completo. La realizzazione dell’umano è la conquista complessiva dell’evoluzione. Il bene compiuto dell’evoluzione è l’assunzione individuale della natura umana da parte di ogni uomo.

Il compito del pensiero è allora quello di comprendere in modo sempre più vasto e profondo in che cosa consiste la pienezza dell’umano. E il compito della volontà e dell’azione è di realizzare a poco a poco nella vita questa pienezza. E il positivo, il bene da far proprio in modo individuale è davvero inesauribile!

Che cosa contraddistingue l’uomo dagli animali, dalle piante e dai minerali? Non troveremo una risposta a questa domanda, non coglieremo ciò che è specificamente umano, se ci limiteremo a considerare ciò che l’uomo ha in comune con gli altri esseri. In base alla teoria dell’evoluzione di Darwin in questi ultimi secoli l’uomo è stato paragonato sempre più all’animale. Non si può aver nulla in contrario con questo paragone: è evidente che uomo e animale hanno molto in comune, perché tutto ciò che troviamo nell’animale lo ritroviamo anche nell’uomo.

Ma in questo modo non riusciremo mai a conoscere ciò che è specifico dell’uomo! Non faremo altro che riconoscere l’animale dentro l’uomo. Specificamente umano è invece tutto ciò che l’uomo non ha in comune con l’animale!

L’uomo è fatto di libertà e di amore

È possibile per l’uomo un modo di essere che non è affatto possibile per l’animale, ed è di vivere nella libertà e con libero amore. Ciò che i tre regni della natura hanno in comune con l’uomo sono le leggi di natura, i loro determinismi. Ciò che è solo l’uomo ad avere è il libero arbitrio, la capacità di libera scelta, che presuppone la capacità di giudizio.

Il motivo per cui la libertà viene spesso fraintesa o negata è che essa non è data per natura, non è cioè «necessario» che ci sia. E ciò perché una libertà che esistesse di necessità – come si diceva poc’anzi – non sarebbe tale.

La libertà può essere data all’uomo solo come disposizione, come una facoltà che tocca a lui coltivare ogni giorno. Essere uomini vuol dire allora poter diventare sempre più liberi, non essere già liberi in partenza. Se l’uomo fosse già libero fin dall’inizio, non lo potrebbe diventare liberamente. La predisposizione alla libertà, all’attività creativa e artistica a tutti i livelli che è propria dello spirito umano è qualcosa di infinitamente buono e bello, poiché in essa si fonda la vera dignità umana.

Senza la chiamata a una crescente libertà saremmo dei puri esseri di natura, non potremmo mai dire «io» a noi stessi, né potremmo attribuire a noi stessi ciò che facciamo o ciò che non facciamo: i nostri pensieri, le nostre esperienze e tutte le nostre azioni. E non sentiremmo la voce della coscienza che ci dice: lì hai agito bene, lì ti sei comportato male.

La somma del bene morale è la realizzazione della libertà intesa come continua evoluzione. Ciò che è moralmente cattivo, il male, consiste sempre in una qualche omissione di libertà, o più precisamente in una sua parziale perdita. È quanto accade ogni volta che non partecipo con interessamento a ciò che avviene nel mondo o decido di oziare: allora sono meno ricco di amore di quanto potrei essere. Questo «meno», questa mancanza di bene possibile dentro di me, è il male morale.

Se il vivere in libertà è l’essenza specifica dell’uomo, ogni cosa che facciamo è un male nella misura in cui facendola diventiamo meno liberi ed è buona nella misura in cui ci rende più liberi. Solo quando possiamo indicare che una certa azione ci rende meno liberi, meno capaci di crescere possiamo dire che è moralmente cattiva. Di rado la morale del passato ha riferito il bene e il male direttamente alla libertà, e questo moralismo di fondo si vince solo giudicando il bene e il male in base al criterio della libertà interiore.

La libertà non è uno fra i tanti aspetti della moralità: è il suo tutto. Con essa l’uomo stesso sta in piedi o cade. Quando rinuncia a vivere da libero egli ricade al livello dei tre regni di natura, e perde la sua umanità. Sarà mosso dall’istinto in modo simile all’animale, potrà vegetare come una pianta o funzionare meccanicamente come una macchina, ma non vivrà ciò che è proprio dell’uomo.

A questo punto non pochi obietteranno: ma questo criterio è difficile, ed è anche astratto! Bisogna ammetterlo: questo criterio fa appello in modo particolare al pensiero di ognuno. È più facile, per individuare il bene e il male, fare riferimento a comandamenti esterni, alle leggi o alle norme tramandate o sancite da qualche autorità. Oppure c’è chi obietta: se si sottolinea la libertà in questo modo non si fa che favorire il caos, perché per libertà i più intendono che si può fare quel che pare e piace. Vedremo nelle pagine che seguono che essere interiormente liberi è tutt’altra cosa che lasciarsi andare alle forze della natura.

I presupposti interni ed esterni

Nel bambino vediamo ripetersi gli stadi che ha percorso l’uomo verso l’acquisizione dell’autonomia interiore. Questa nasce a poco a poco, lungo tutto il periodo dell’educazione. Ogni crescita richiede un fondamento su cui poggiare, un suolo su cui svolgersi. L’esercizio della libertà interiore presuppone degli strumenti corporei e animici ben precisi.

Il corporeo rappresenta la somma degli strumenti esterni della libertà, mentre i fenomeni dell’anima comprendono tutti quelli interni.

Non può esserci esercizio di libertà senza corporeità, senza la base naturale. Se non ci fosse il corporeo, il non libero, la libertà non potrebbe né venire omessa né andar persa. La libertà presuppone il determinismo delle leggi di natura in cui l’uomo possa ricadere in qualsiasi momento lasciandosi andare e perdendo così almeno un frammento della propria libertà. E d’altro canto, se la libertà si vive proprio nel liberarsi dai condizionamenti della natura, questi ci devono essere se devono sempre di nuovo essere vinti.

La natura ha quindi nell’uomo una duplice funzione: grazie ai suoi meccanismi, l’uomo ha la possibilità di ricadervi quando omette di esercitare la libertà – solo potendo anche omettere gli atti di libertà si è liberi. In secondo luogo, egli ha la possibilità di vincere dentro di sé le tendenze totalizzanti delle forze di natura.

Nella struttura interiore del nostro essere, troviamo inizialmente allora la pura facoltà della libertà, cioè la capacità di creare un mondo che va oltre la natura. Siamo dotati di pensiero e di volontà che possono reagire sia passivamente sia attivamente nei confronti del mondo circostante. Abbiamo la reale capacità di prendere in mano in modo sempre più attivo e creativo il nostro cammino interiore e la nostra vita. Si può chiamare «anima» ciò che dentro di noi ci è dato per natura, senza alcun sforzo. E la parola «spirito» possiamo riferirla a tutto ciò che c’è nell’uomo perché se lo conquista lui con libero amore.

La libertà è allora una facoltà in divenire, che va continuamente esercitata. Chi è ora un buon pianista ha la capacità di suonare bene, ma se non esercita il suo talento per anni e anni, finisce per perderlo. Un conto è saper fare qualcosa, e un altro è farlo qui e ora. Ogni attitudine si rafforza nella misura in cui viene esercitata, e s’indebolisce nella misura in cui non viene esercitata. Ogni uomo è potenzialmente uomo nel senso che è libero in ogni momento di «realizzarsi» o di «lasciarsi perdere». Uomini compiuti non si è, lo si diventa: a poco a poco, giorno per giorno.

Trovare o cercare il giusto mezzo?

Il grande pensatore greco Aristotele ha dato un apporto decisivo per la comprensione del mistero del bene e del male. In un certo senso ciò vale anche per il suo maestro Platone, che però nella sua dottrina delle Idee aveva considerato le cose in modo piuttosto statico, per così dire sub specie aeternitatis. Anche le quattro virtù platoniche sono come quattro stati ideali che l’uomo può in fondo solo guardare dal basso.

In Aristotele troviamo una nuova intuizione che ha dato poi la sua impronta anche al cristianesimo nascente. Si tratta di un pensiero fondamentale che si pone alla base la libertà. Egli dice: Bene per l’uomo, è sempre il giusto equilibrio fra due estremi. Egli vede ognuna delle quattro virtù platoniche – saggezza, fortezza, temperanza e giustizia – come uno sforzo continuo di riequilibrarsi fra un estremo e l’altro. È il libero movimento fra i tanti poli opposti della vita che ci fa sentire liberi. L’equilibrio interiore è per natura labile, in modo che il libero moto del riequilibrio non possa mai venire a cessare.

In ogni cosa l’uomo deve avere la possibilità di esagerare, di andare all’estremo – sia in una direzione che nell’altra. A dire il vero, anche Aristotele considera le cose ancora da un punto di vista un po’ statico quando afferma che la virtù, il bene morale sta nel mezzo, che consiste nel trovare il giusto mezzo fra gli estremi. Così per esempio, per lui la virtù della temperanza, che riguarda il rapporto col proprio corpo, consiste nel «trovare» il giusto mezzo fra un’ascesi che macera il corpo da un lato e il lasciarsi andare dall’altro.

Però il concetto stesso di equilibrio implica sempre una certa labilità. Un equilibrio stabile non sarebbe più un equilibrio ma una stasi e la libertà non avrebbe più alcun compito da svolgere. E se ogni equilibrio interiore è per natura labile, il mantenerlo consiste in un continuo e sempre di nuovo ripetuto «riequilibrarsi».

Noi ci sentiamo liberi reagendo al mondo circostante che continua a «sbilanciarci» in tutte le direzioni possibili. Questi sbilanciamenti sono le continue occasioni della libertà. L’uomo può lavorare a riequilibrare continuamente ogni pur minima unilateralità che sorge in lui. Essere liberi non vuol dire allora essere equilibrati, bensì lavorare ininterrottamente a ristabilire in modi sempre diversi il giusto equilibrio. La virtù, più che «stare» nel mezzo, è l’arte di ritornarvi sempre di nuovo. La vita ha il compito di farci perdere continuamente l’equilibrio interiore: guai se non lo facesse, perché solo così possiamo ritrovarlo in continuazione.

Per recuperare l’equilibrio devo ogni volta fare uno sforzo, e proprio in questo faccio l’esperienza della mia libertà. Nel ritornare verso il centro, il pendolo non si ferma a metà strada, va oltre il centro in direzione opposta. Così anche l’uomo, ma proprio per il fatto che si spinge un po’ troppo nella direzione opposta, avrà modo di ritornare indietro.

Il mondo in cui l’uomo vive è fatto in modo tale da squilibrarlo continuamente a tutti i livelli, facendolo cadere in mille piccole o grandi unilateralità. E ciò gli dà la possibilità di riequilibrarsi in modi sempre nuovi e individuali, esercitando così all’infinito la sua mobilità interiore. La libertà interiore è allora sempre un movimento di liberazione da unilateralità. È un dinamismo del pensiero che si rende conto dei vari squilibri che sorgono; e un dinamismo della volontà tesa a riarmonizzare le disarmonie che la vita porta con sé.

Chi si aspettasse un equilibrio di forze dato dall’esterno, per così dire già bell’e fatto, non vorrebbe esercitare la libertà interiore. Il mondo esterno ha proprio il compito opposto: quello di «squilibrarci» in continuazione almeno un po’ in vari modi. L’esercizio della mia libertà consiste in un incessante lavorio di riequilibrio.

Prendiamo ad esempio la saggezza – cioè l’equilibrata tensione verso la verità. Ci si sbilancia da un lato con inconsulta passionalità, con l’esaltazione sconsiderata per ciò che dovrebbe venir esaminato in modo spassionato e oggettivo, e dall’altro con la gretta ottusità, con la mancanza cioè di qualsiasi interesse per i fenomeni del mondo. Il giusto equilibrio nella ricerca della verità è sempre esposto, anche se in piccole dosi, alla passionalità fanatica da un lato e all’ottusa indifferenza dall’altro.

Un’altra virtù platonica è la fortezza, cioè la virtù del coraggio, dell’audacia, che sa prendere l’iniziativa di fronte agli eventi del mondo. Essa si colloca non meno fra due estremi: la temerarietà, la spericolatezza propria dell’irruenza, che è un eccesso di aggressività da una parte, e la vigliaccheria paurosa, la codardia rinunciataria dall’altra.

Il giusto mezzo – anche questo va sottolineato – varia da persona a persona, e per ognuno varia a seconda delle situazioni e stagioni della vita. Per esempio, il giusto mezzo fra la macerazione e la dissolutezza è di volta in volta diverso a seconda che si abbiano venti, cinquanta o settant’anni. Il giusto mezzo aristotelico mira in definitiva al dinamismo interiore della libertà, proprio perché si presenta in modo sempre individualizzato, sempre diverso per ognuno.

Non esiste «il» giusto mezzo valido per tutti e per sempre. Ognuno deve intuire ciò che è «giusto» per lui in un dato momento e darsi da fare per raggiungerlo. La virtù della giustizia racchiude perciò in sé tutte le altre virtù e ne regge i rapporti. Il «giusto» mezzo è il modo migliore di «far giustizia» fra il troppo e il troppo poco in tutti i campi della vita.

Il male dello spiritualismo unilaterale

Tutti i contrasti interiori si riconducono ad una polarità fondamentale, che è quella fra spirito e materia. L’uomo si sente libero facendo dialogare fra loro in modi sempre nuovi il suo spirito e il mondo circostante. Esistono allora due forme fondamentali del male: lo spiritualismo unilaterale e il materialismo unilaterale. Far da mediatore che concilia fra loro spirito e materia vuol dire restare in continuo e libero movimento fra due mondi.

Nel cristianesimo tradizionale si è spesso parlato del mondo della materia come se in esso fosse l’origine del male e del mondo dello spirito come se fosse tanto più buono quanto più lontano dal mondo della materia.

Ma le cose non stanno così: lo spiritualismo unilaterale è per la crescita dell’uomo non meno nocivo del materialismo unilaterale.

Il tendere verso lo spirito diventa «squilibrato» quando l’uomo comincia a disprezzare il mondo della materia, quando si illude di trovare ciò che è buono fuggendo il mondo visibile. Ma facendo così egli omette tutto ciò che è possibile compiere solo dentro il mondo visibile. Fuggire il mondo significa lasciare il campo di azione della propria libertà. Solo nel mondo la si può vivere a piene mani: nell’interazione tra spirito e materia, nella responsabilità per l’evoluzione di tutte le creature terrestri è possibile per l’uomo vivere nell’amore e nella libertà.

Anche l’evento del Cristo è un sì totale all’in-carnazione, cioè al tuffarsi pieno di amore nel mondo della «carne», della materia. È la conferma del peso morale della Terra per il divenire dell’uomo. Le religioni orientali sorte prima di Cristo affermavano che l’essere umano trova il suo bene in un mondo puramente spirituale. L’evoluzione successiva ha avuto proprio il compito di conferire all’uomo la forza di non temere più il mondo della materia, ma di amarlo come palestra di ogni libertà e di ogni amore che siano davvero umani.

L’uomo diventa umano solo umanizzando tutte le creature della Terra. E per farlo deve vivere con loro. Chi vuole lasciare la Terra, non può essere «redento», poiché la redenzione dell’uomo sta proprio nell’incessante opera volta a redimere anche tutti gli esseri della natura.

Nella scienza dello spirito di Rudolf Steiner l’entità spirituale che tenta l’uomo alla spiritualità unilaterale viene chiamata «Lucifero». Il suo compito è quello di propinare all’uomo l’illusione che dice: più ti allontani dal mondo della materia e più diventi puro, e più sei buono. Se l’uomo non lo smaschera, se non si accorge che mentre cerca di «spiritualizzarsi» sempre più si priva di tutte le condizioni necessarie per essere libero di amare, allora termina di crescere interiormente. Con la parola «Cristo» si intende quell’entità spirituale che esplica energie di trasformazione in tutta la Terra, tali da favorire la libertà dell’uomo. Egli dice alla Terra: «Questo è il mio corpo», e agli uomini: «Sarò con voi fino alla fine dei tempi terreni.»

L’unilateralità del materialismo

Al giorno d’oggi ci risulta più facile capire gli svantaggi del «materialismo», dal momento che esso costituisce la caratteristica fondamentale della vita dell’uomo moderno.

Esso rappresenta la tentazione di perdersi nei meccanismi di natura fino a venirne completamente assorbiti. Ciò si verifica ad esempio quando è la pura emotività oppure l’ambiente esterno a decidere quali pensieri uno pensa e quali azioni compie. L’istinto di natura non è qualcosa in sé negativo, nell’animale è qualcosa di buono e armonico. Sono molti però a chiedere: per quale motivo non dev’essere altrettanto buono per l’uomo agire seguendo l’istinto come fa l’animale?

È stato già detto che il male morale è sempre una qualche perdita o diminuzione della libertà. Si tratta allora di vedere se l’uomo che agisce istintivamente tralasci in qualche modo di esercitare la propria libertà. Prendiamo ad esempio il mangiare: esso è necessario per vivere e per stare bene. Però quando esageriamo nel mangiare il nutrirci non ci serve più per star bene, ma ci fa star male – e non possiamo vivere in piena libertà. Lo stesso vale per chi si ubriaca. Quando non si mangia più per vivere ma si comincia a vivere per mangiare, come fanno in fondo gli animali, si diventa simili a loro. In altre parole: la libertà sta nel poter usare ogni istinto di natura – la parte animale dell’uomo – sia a favore sia contro la propria libertà. Il criterio del bene e del male morali rimane quindi sempre l’esperienza della libertà.

I segni dei tempi nel ventunesimo secolo

I pensieri esposti possono servire da orientamento circa i grandi segni dei tempi che contraddistinguono l’inizio del terzo millennio. Intendo esaminare in particolare cinque fenomeni fondamentali:

1. Il fatto che per la prima volta vivono contemporaneamente sulla Terra i corifei del platonismo e dell’aristotelismo (cap. II);

2. il conflitto in atto fra oriente e occidente in cerca di un costante riequilibrio (cap. III);

3. 3. il materialismo della nostra cultura, in cerca di un riequilibrio quale lo offre una moderna scienza dello spirituale (cap. IV);

4. l’incarnazione unica di «Arimane» (leggi: Arímane), l’Entità spirituale ispiratrice del materialismo (cap. V);

5. la seconda venuta, tutta spirituale, del «Cristo», l’Entità che aiuta l’uomo a tendere verso l’equilibrio in ogni campo della vita.

Secondo capitolo

IL PENSIERO
RICONQUISTA LO SPIRITO

Nella Grecia antica ha inizio il pensiero umano autonomo. L’uomo comincia a gestire i contenuti del mondo in modo libero e individuale. Prima di allora c’era la rivelazione che veniva accolta dall’uomo per fede e con timore reverenziale.

Nella Grecia c’è di nuovo il fatto che gli esseri umani cominciano a creare attivamente dei processi di pensiero, ponendo così i fondamenti dell’autonomia interiore dell’uomo. Questa facoltà, inizialmente ancora poco pronunciata, si è poi rapidamente sviluppata, estendendosi e intensificandosi sempre più.

Causalità verticale e orizzontale

Con la nascita della filosofia hanno fatto la loro comparsa anche i due tipi fondamentali del pensiero umano: il pensiero platonico e quello aristotelico. Questi due modelli di pensiero hanno impresso il loro sigillo alla cultura occidentale fino ad oggi. È perciò importante osservarne più da vicino la natura, facendo appello all’intelletto di ognuno, visto che si tratta proprio della nascita del pensiero attivo e individuale.

Chiamerò queste due matrici del pensiero causalità orizzontale e causalità verticale. La causalità orizzontale corrisponde al modo di pensare di Aristotele, quella verticale al modo di Platone.

La convinzione fondamentale di Platone è che lo spirito rappresenta la vera realtà. Le idee platoniche sono dei veri e propri esseri spirituali. La parola «idea» deriva dal greco eidoj, eid, (eidos, eide), che ha la stessa origine del latino «video» (vedere). Ritroviamo la medesima radice nel Veda (e Vedanta) degli Indiani e nell’Edda dei popoli nordici. Le idee di Platone erano qualcosa di spirituale che anticamente veniva «visto», qualcosa che veniva «osservato». Si tratta di realtà o esseri sovrasensibili che venivano percepiti sotto forma di visione.

È importante non confondere le idee di Platone con quelle di Hegel o con le nostre di oggi. Queste ultime non hanno più nulla di oggettivamente percepito: nascono direttamente nell’interiorità dell’uomo. Le idee platoniche sono invece una realtà spirituale del tutto indipendente dall’uomo. Nel corso dei secoli questa facoltà percettiva – che possiamo definire «chiaroveggente» – è andata via via scemando. Per Platone è ancora lo spirituale, il mondo delle idee, la vera realtà. Le idee sono per lui la causa di tutto ciò che avviene nel mondo sensibile, che non è che un’ombra morta, una parvenza transitoria senza nulla di reale.

Nella visione platonica del mondo non esiste il divenire, l’evoluzione in senso vero e proprio. Tutto viene contemplato come in un mondo magnificamente eterno e immutabile. Lo spirito resta eternamente uguale a se stesso, gettando un’ombra opaca di sé nel regno della fisicità. Quest’ombra è così irreale che appare e scompare, come l’immagine in uno specchio, essa pure priva di qualsiasi realtà.

Causalità verticale vuol dire in senso platonico: le idee sono la causa di tutto ciò che appare o avviene nel mondo visibile. Ciò che avviene nel mondo spirituale determina tutto ciò che nasce e muore nel mondo delle apparenze.

Il primo grande pensatore che smise di volgere lo sguardo a ciò che è puramente spirituale – poiché era destino dell’umanità occuparsi sempre più del mondo della materia – fu Aristotele. Secondo Rudolf Steiner è stato lo stesso Platone a dire un bel giorno al suo discepolo: «Caro Aristotele, tu sei ancora giovane ed io sono ormai vecchio. Hai appreso molto da me; sai bene come io ho sempre parlato del mondo delle Idee. Ma ora vengono al mondo degli individui che non hanno alcuna idea della realtà delle idee, che non sanno più contemplare la realtà del mondo spirituale. L’umanità comincia a distogliere lo sguardo da ciò che è invisibile per rivolgerlo sempre più intensamente al mondo sensibile. Sarà tuo compito indagare lo spirito divino in quanto è all’opera dentro la materia, lasciando stare lo spirituale puro di cui ti ho parlato io, che è quello separato dalla materia».

Nell’affresco di Raffaello La Scuola di Atene troviamo al centro queste due grandi figure: l’una – come un Platone – ha lo sguardo rivolto in alto al mondo delle idee e degli ideali; l’altro personaggio, più giovane, tende invece lo sguardo e la mano verso il mondo della Terra.

Il vecchio maestro Platone sapeva che un pensiero in grado di penetrare nelle leggi del divenire fisico non era il suo forte. E vedeva nel suo allievo ciò di cui l’umanità avrebbe avuto sempre più bisogno nella conquista del mondo della materia.

Ed ecco nascere l’aristotelismo, che interpreta i fenomeni del mondo fisico in base ad una causalità orizzontale. Fu una rivoluzione non meno sconvolgente di quella copernicana! Platone diceva: La causa di tutto ciò che avviene quaggiù è nel mondo spirituale, è «in alto». Nel mondo materiale, «in basso», abbiamo solo effetti. Questo si intendeva con causalità verticale.

Aristotele è il primo che cerca nel mondo visibile sia le cause che gli effetti di tutto ciò che avviene. Più che guardare a ciò che fanno le «idee», egli guarda a ciò che fanno – a ciò che «causano» – gli esseri visibili: gli uomini, gli animali, l’acqua, il fuoco ecc. Aristotele indaga in altre parole la causalità orizzontale per spiegare il divenire nel mondo.

Grazie a lui, si è iniziato a interpretare tutti i fenomeni in questo modo – e la cultura occidentale ha assunto un’impronta sempre più «aristotelica». Le scienze naturali odierne – quelle sviluppatesi soprattutto negli ultimi secoli – conoscono solo la causalità «orizzontale», riconoscono come valide solo le cause osservabili nel mondo visibile. Ciò che visibilmente avviene prima viene considerato come la causa di ciò che avviene dopo. Causa ed effetto vengono cercati entrambi nel mondo visibile.

Se do una spinta ad una palla da biliardo, questa comincia a rotolare; se questa a sua volta colpisce una seconda palla, anche quest’ultima si metterà in movimento. Il primo movimento è la causa del secondo, che avviene dopo. Questo modo meccanico di causare a mo’ di urto è stato sempre più generalizzato nel senso che lo si è utilizzato per spiegare un po’ tutti i fenomeni – compresi per esempio quelli della storia. Gli eventi di una certa epoca vengono allora considerati come l’effetto di ciò che è avvenuto immediatamente prima. Ciò che è avvenuto alla fine di un secolo, per fare un esempio, è visto come una «causa d’urto» che provoca, che determina ciò che avviene all’inizio del successivo.

Dall’aristotelismo al materialismo

Se per Platone è lo spirituale a causare ciò che avviene nel mondo della materia, non possiamo semplicemente rovesciare questa affermazione e dire che per Aristotele la causa di tutto è la sola materia! Aristotele vedeva dappertutto lo spirito all’opera nel mondo della materia. Anche per lui, come per Platone, era chiaro che la causa prima di tutto ciò che avviene si trova nello spirito. Però Aristotele sottolinea che lo spirito può agire nel mondo solo servendosi di strumenti visibili, che possono considerarsi come cause secondarie o condizioni necessarie.

Col passar del tempo, però, ci si è sempre più limitati a considerare i soli fenomeni del mondo materiale. Gli uomini hanno dimenticato che Aristotele vedeva dappertutto lo spirito all’opera nella materia e hanno perso sempre di più la capacità di considerare lo spirito come una realtà. Sempre più si è vista la materia come unica realtà: tutto ciò che è «psichico» o «spirituale» lo si è considerato come un effetto di processi materiali. Anche se nell’uomo c’è qualcosa di spirituale, che chiamiamo anima, pensiero o come vogliamo, tutto ciò viene visto come effetto delle leggi della natura.

Che cosa direbbe un uomo moderno se dovesse rispondere sinceramente alla domanda se è il corpo a decidere dei suoi sentimenti o se è invece l’anima a dare l’impronta al modo di essere del corpo? Non ammetterebbe che ciò che sente dentro di sé a livello ideale come pensieri e progetti possa decidere delle sorti del corpo – per quanto riguarda per esempio la malattia, la salute, la fisionomia e così via.

Il materialismo moderno non è tanto un errore di ragionamento, un fatto solo teorico: è un modo reale di vivere. Lo spirito umano è diventato così debole in tanti uomini d’oggi, che i meccanismi della materia sono diventati davvero decisivi anche per ciò che avviene a livello mentale ed emotivo. È la libertà umana a decidere se dar ragione al materialismo o no. Se lo spirito è forte, sarà lui a decidere del destino del corpo; se invece è debole, sarà il corpo a decidere su di lui.

Platonismo all’inizio del millennio

Il materialismo, cioè l’impotenza dell’uomo di fronte alle forze di natura, non è un errore che si possa confutare a livello teorico. È divenuto una realtà di vita, qualcosa che ognuno può solo trasformare praticamente dentro di sé. E ciò può avvenire solo grazie ad un cammino interiore. Solo se rafforzo il mio spirito esercitando sempre di più la mia creatività, può nascere in me un rapporto diverso fra spirito e materia. Se ogni giorno restituisco al mio spirito la sua energia creatrice e causante, esso sarà capace di decidere sempre più anche delle sorti del corpo.

Dietro la filosofia sia platonica sia aristotelica si nasconde allora una realtà più profonda che si riferisce ai due tipi principali di interesse dell’uomo. L’interesse platonico è espresso nella frase detta dal Cristo a Pilato: «Il mio regno non è di questo mondo.» Per esprimere l’interesse aristotelico, basta modificare la frase in questo modo: «Il mio regno è in questo mondo.»

Entrambe le massime sono unilaterali e devono integrarsi a vicenda: hanno senso solo se prese insieme. L’una sottolinea lo spirito del mondo, l’altra lo spirito nel mondo. Chiaramente unilaterale sarebbe invece dire: «Il mio regno non è in questo mondo» – in quanto tende a negare il ruolo del mondo visibile – e non meno unilaterale il dire: «Il mio regno è solo di questo mondo», che significherebbe negare la realtà dello spirito. Un uomo può tendere al successo esteriore, gli interessi di un altro possono essere maggiormente rivolti al mondo interiore.

Per chi ha una «mentalità aristotelica» è importante instaurare un «regno» che possa essere esibito esteriormente, a lui preme cioè avere successo sulla scena del mondo visibile, fare in modo che i propri talenti trovino riscontro nel successo esteriore. Dal punto di vista platonico invece tutto ciò che è visibile è un mero strumento al servizio dello sviluppo interiore dell’uomo. In questo caso il valore di un uomo ha poco a che fare col successo esterno, che riveste un’importanza del tutto secondaria.

Se uno guarda ai suoi reali interessi di vita, può stabilire con facilità se è un aristotelico o un platonico. Ognuno è in grado di verificare se i suoi interessi sono più rivolti all’affermazione di sé all’esterno, oppure al progresso interiore del proprio e altrui spirito.

«Se non si nasce dall’alto…»

In occasione del suo incontro con Nicodemo (Gv 3), il Cristo, stando alla traduzione corrente, gli dice: «In verità, in verità ti dico: nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce di nuovo.» E Nicodemo replica: «Come può un uomo rinascere quand’è già vecchio? Può forse ritornare nel seno della madre e nascere ancora una volta?»

La parola greca che viene di solito tradotta con «di nuovo» (anwqen, anothen) significa originariamente «dall’alto» (anw vuol dire «sopra» e qen indica la provenienza). Tradotto alla lettera, il testo dice: «Se non nascerete dall’alto non entrerete nel regno dei cieli.» Ci si può chiedere: se il significato di questa parola greca è così evidente, come fa Nicodemo a fraintenderlo? Egli chiede infatti come si possa tornare di nuovo nel grembo materno per poter rinascere e ricominciare la vita da capo.

Pensiamo alla causalità platonica: «in alto» abbiamo la realtà dello spirito, e «in basso» ciò che lo spirito causa nel mondo delle apparenze sensibili. Nella causalità aristotelica invece la causa di qualcosa è ciò che viene prima nel tempo, ciò che avviene all’inizio. La nascita avviene all’inizio della vita, e viene considerata come la causa di ciò che succede durante la vita.

Se si sfoglia un dizionario di greco tipo il Rocci, si fa questa interessante scoperta: in Omero e in Esiodo, nelle epoche più antiche quindi della cultura greca, questa parola anwqen significa sempre «dall’alto», «dal cielo», «dagli dei», in altre parole dal mondo spirituale. Non significa «di nuovo», «ancora una volta» o «da capo». Non viene intesa in senso temporale, come se ci fosse un prima e un dopo, ma nel senso di un operare «contemporaneo» di una realtà spirituale (il «di sopra») dentro il mondo fisico (il «di sotto»).

Questa stessa parola però ha assunto in greco nel corso dei secoli sempre più l’altro significato di «ancora», «di nuovo», «da capo», e il significato originario è passato sempre più in secondo piano.

Nel dialogo fra il Cristo e Nicodemo si incontrano tra loro per così dire il platonismo e l’aristotelismo. Nelle parole del Cristo, abbiamo quel platonismo che ha caratterizzato i tempi antichi e che mette l’accento sull’operare dello spirito «dall’alto verso il basso»; nella risposta di Nicodemo troviamo quel materialismo incipiente che trae le sue origini da Aristotele, che finisce per ignorare ogni causazione dall’alto e prende in considerazione solo il «prima» sensibile come causa di quel «dopo» che si manifesta esso pure nel mondo visibile. Nel mutamento semantico subito da questa parola greca viene documentata l’evoluzione della coscienza umana.

Il nostro Io più «alto», quello superiore, cioè l’essere spirituale dell’uomo, nel corso del tempo ci è divenuto «sovracosciente». Nell’attuale coscienza ordinaria l’uomo vive solo il suo io «basso» o inferiore, che è solo un’immagine riflessa dell’Io superiore e che si fa determinare da ciò che avviene prima nel mondo fisico, come le forze ereditarie e l’ambiente educativo. Perciò l’uomo conosce oggi quasi solamente le cause che operano in ambito materiale e si vive quasi unicamente come loro effetto.

Rinascita dell’Io superiore

L’uomo d’oggi può riflettere su questo fatto: quando mi addormento, tutti i contenuti della mia coscienza ordinaria cadono nel nulla. Se in me ci fosse solo ciò di cui sono cosciente, con l’addormentarmi sparirebbe tutto di me e ad ogni risveglio dovrei venir ricreato dal nulla. Ma le cose non possono star così: il mio Io vero di certo continua ad esistere, anche quando non ho coscienza di lui. Ciò che scompare nell’addormentarsi e che riappare al risveglio è solo l’immagine riflessa dell’Io, è la pura coscienza dell’Io. Quando il mio Io spirituale vero viene a contatto con la mia costituzione fisica, questa funziona da specchio e proietta l’immagine dell’Io nella coscienza.

Per il platonico la fonte, l’origine di ogni agire morale è l’Io superiore. «Nascere dall’alto» per lui significa attivare la fantasia morale dell’Io vero, la sua facoltà intuitiva spirituale. Nel fare la scoperta di un’istanza superiore dentro di sé l’uomo ha la prova del fatto che normalmente non ne ha coscienza. Perciò egli tende ad unirsi sempre più intimamente con il suo Io superiore, a far proprie a livello conscio le sue ispirazioni.

L’io della coscienza ordinaria non conosce a tutta prima una volontà che attinge dallo spirituale, conosce le passioni che vengono proiettate dagli istinti e dalle brame: invece di scendere dall’alto, queste salgono «dal basso», cioè dalla fisicità. La differenza fra l’Io vero e l’io della coscienza ordinaria è la stessa che c’è fra un volere illuminato di saggezza e le brame offuscate dall’istinto.

E come si fa in una data situazione a sapere che cosa vuole l’Io superiore? Ognuno può dire a se stesso: «Tutto ciò che mi capita è espressione della volontà del mio Io superiore.» Noi siamo soliti cercare le cause nelle persone e nelle circostanze al di fuori di noi, per esempio quando diciamo: «Oggi ho avuto una pessima giornata, perché il mio principale…» Questo è il modo di pensare della coscienza ordinaria, dell’Aristotele in noi. Ma il Platone in noi è capace di cogliere la volontà morale dell’Io superiore, grazie alla convinzione che tutto ciò che gli capita è voluto liberamente da lui per il suo bene.

Allora l’uomo si dice: non può accadermi nulla che il mio stesso vero Io non abbia voluto e scelto per la mia crescita. Ha programmato il mio destino in piena libertà e l’ha modellato in considerazione delle occasioni di crescita che fanno proprio al caso mio.

Ognuno è libero di vedere e di vivere ciò che gli accade come qualcosa di voluto, nel suo essere più profondo, da lui stesso, oppure come qualcosa che subisce dall’esterno. In questo consiste sempre la scelta fondamentale della libertà.

Fantasia e tecnica morale

Nella sua Filosofia della libertà Rudolf Steiner vede la libertà in una sana interazione fra platonismo e aristotelismo. Da un lato l’uomo porta a coscienza, da buon platonico, la volontà del proprio Io superiore, servendosi della sua fantasia e della sua intuizione morali. Ma per attuare nel concreto i suoi ideali l’uomo ha bisogno anche di una «tecnica morale» – e questo è il contributo aristotelico.

L’Io superiore è di natura platonica nel senso che intuisce che cosa va fatto; l’io ordinario è di indole aristotelica in quanto si occupa del come va fatto, della sua attuazione concreta nel mondo visibile. La tecnica morale ha il compito di studiare le leggi di funzionamento del mondo già esistente, per vedere in che modo il da farsi, cioè il nuovo, può trasformare il vecchio, in che modo ciò che già esiste è in grado o meno di far posto al nuovo. Altrimenti gli ideali resterebbero sospesi per aria, senza potersi mai realizzare nel mondo esistente. È quanto mai significativo che Nicodemo ponga più volte la domanda circa il come («come può avvenire ciò…»).

Il platonico e l’aristotelico si distinguono l’uno dall’altro anche nel modo di giustificare il proprio agire. Per il primo non hanno nessun valore le legittimazioni sulla base di ciò che già esiste. Ciò che già c’è non può essere la norma morale di ciò che c’è da fare. Non si può semplicemente dedurre dai passi già fatti quelli che vanno fatti in futuro. Ogni passo successivo va deciso da una rinnovata volontà di orientamento che è propria dell’Io spirituale. Per un bravo pittore non sono i quadri già dipinti a decidere come sarà il successivo, ma è lui che in quanto artista crea sempre qualcosa di nuovo.

L’aristotelismo diventa unilaterale quando si tende a identificarsi con ciò che è già stato conseguito, quando si resta aggrappati a ciò che ha avuto successo in passato, e lo si ripete senza rinnovarsi interiormente. La tentazione che deve vincere il platonico è invece quella di innamorarsi unilateralmente dello spirituale, degli ideali più alti e di non voler scendere a nessun tipo di «compromesso» con la realtà esistente per non contaminarne la purezza. Ciò può diventare una bella scusa per non fare niente. Quando si vuole realizzare qualcosa, bisogna in un modo o nell’altro fare i conti con il mondo esistente.

Il platonico è in altre parole l’artista che crea gli ideali, l’aristotelico è l’artista della loro realizzazione. Solo se lavorano insieme, nel giusto equilibrio, sorge qualcosa di buono e fruttuoso. Il passato si apre allora al nuovo e il nuovo sa trovare la dovuta soluzione di continuità col passato.

L’aristotelico – essendo abituato a dare importanza a ciò che già esiste – tende a cercare la giustificazione del suo operare in ciò che da sempre «funziona» bene e «fila liscio», cioè che ha successo in senso esteriore. Può però facilmente soccombere alla tentazione di voler perpetuare all’infinito ciò che è stato una volta collaudato, magari facendo ricorso alla violenza per difenderlo. Rischia di non voler più far posto a nulla di nuovo. Quando nel mondo delle apparenze visibili ciò che già esiste viene considerato come norma del da farsi, ci si ripete all’infinito, l’evoluzione si arresta e non succede nulla di veramente nuovo.

Il ruolo della scienza dello spirito

Rudolf Steiner ha più volte richiamato l’attenzione su un fenomeno importante che si avvera per la prima volta alla svolta del nuovo millennio. Coloro che coltivano il tipo di Scienza dello spirito che lui ha inaugurato sono in grado di instaurare una comprensione reciproca e una collaborazione fra platonici e aristotelici. Un dialogo effettivo fra queste due correnti presuppone infatti che entrambi questi gruppi di individui abbiano come fondamento comune una conoscenza scientifica di entrambi i mondi nei quali viviamo: quello materiale-aristotelico e quello spirituale-platonico.

Una tale scienza consente anche di non fermasi alla percezione dell’apparenza sensibile dell’altro ma di cogliere anche la sua realtà animico-spirituale. Nell’incontro fra individui nasce l’anelito a conoscere sempre meglio l’Io spirituale dell’altro. È infatti l’essenza spirituale di ogni uomo a dirci quali intuizioni e intenzioni morali egli voglia far incarnare nel mondo in cui vive.

Immaginiamoci di leggere un romanzo particolarmente avvincente e di essere arrivati al settimo capitolo. Cosa o chi decide ciò che avviene nell’ottavo? È il settimo capitolo a decidere quello che accade nell’ottavo? Se abbiamo a che fare con uno scrittore che ha poco dell’artista, che è poco creativo, allora il settimo capitolo deciderà effettivamente il corso degli eventi dell’ottavo.

Ma se abbiamo a che fare con un bravo artista, non sarà il contenuto del settimo capitolo a decidere dell’ottavo, ma sarà lo scrittore stesso! Ovviamente l’ottavo capitolo non contraddirà i primi sette. Se però il lettore sa già alla fine del settimo capitolo che cosa succederà nell’ottavo, gli passa la voglia di continuare a leggere.

Lo stesso accade con gli avvenimenti storici: non è ciò che è successo prima a causare ciò che avviene dopo. Ciò che accade nel ventunesimo secolo non ha la sua causa in ciò che è successo nel ventesimo. La causa va ricercata in quegli artisti ricchi di immaginazione che sono gli esseri umani. Loro sono la causa! Ciò che compiono oggi non ha la sua causa in ciò che hanno realizzato ieri, ma nel loro spirito pieno d’inventiva. Ieri hanno fatto qualcosa e oggi possono fare qualcosa di completamente diverso e di nuovo. Anzi, ciò che fanno oggi è la causa di ciò che hanno fatto ieri come premessa a ciò che c’è da fare oggi. Dove c’è una pianificazione il dopo, lo scopo, è la causa del prima, dei mezzi per conseguirlo.

Il materialismo si è abituato a considerare i fatti del ventunesimo secolo come effetti di quelli del ventesimo. In altre parole, considera la storia come se non esistessero gli uomini che pianificano e mirano a degli scopi. Far posto ai platonici, che non hanno vita facile nel mondo d’oggi – in quest’epoca di «egemonia» aristotelica – significa capire che la dignità dell’uomo consiste nel causare tutto «dall’alto», a partire dalle intuizioni della sua fantasia morale.

L’artista sa che l’opera veramente creativa, l’azione veramente inventiva, viene sempre dall’alto, dall’essere geniale invisibile che vive in ognuno di noi. Il vero artista non imita, non ripete mai ciò che già esiste: fa scaturire qualcosa di sempre nuovo dal mondo spirituale, e solo così è veramente creativo.

Platonici e aristotelici

Il grande compito culturale che spetta agli uomini all’inizio del nuovo millennio è quello di riconciliare il mondo della materia con quello dello spirito. L’intelligenza aristotelica, che soprattutto in occidente si è dedicata all’indagine e al dominio del mondo visibile, attende di riscoprire il mondo spirituale con tutti i suoi esseri che imprimono forma e direzione anche a ciò che avviene nel mondo fisico.

Rudolf Steiner afferma qualcosa che mi pare di enorme portata a proposito della collaborazione fra l’intelligenza aristotelica e la spiritualità platonica. Egli dice: alla svolta tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, i corifei dei platonici e degli aristotelici sono per la prima volta nella storia contemporaneamente in azione sulla Terra.

Prima del nostro tempo non c’erano mai state le condizioni di coscienza per una tale collaborazione. Nella storia dell’occidente riscontriamo nel passato un ripetuto alternarsi di platonismo e aristotelismo. L’archetipo di questo susseguirsi è il passaggio da Platone ad Aristotele: a un mondo subentra un altro. I due sono così antitetici fra loro che una vera sintesi non era a quei tempi possibile.

Un esempio tipico dello stesso avvicendamento è il passaggio dal platonismo della Scuola di Chartres nel dodicesimo secolo all’aristotelismo degli scolastici nel tredicesimo. Non è che aristotelismo e platonismo siano in contraddizione o che si escludano a vicenda; ciascuna delle due correnti richiama in fondo l’altra. Però l’atteggiamento fondamentale dell’animo, la forma di pensiero di ognuna sono profondamente diversi fra loro. E ci sono voluti secoli e secoli per creare i presupposti per un vero e proprio arricchimento reciproco. E questa prima collaborazione a sua volta renderà possibile in futuro la sintesi di aristotelismo e platonismo all’interno di ogni singola persona.

Cosa vuol dire spiritualizzare il pensare?

Una vera scienza integrale di entrambi i mondi in cui viviamo rende possibile la riconciliazione tra platonismo e aristotelismo. La scienza dello spirito ha di aristotelico il metodo della scienza moderna, che consiste nell’interazione rigorosa fra percezione e pensiero. E di platonico ha il fatto che quanto viene indagato non si limita al mondo materiale, ma comprende anche la realtà dei mondi spirituali.

Se è vero che i fondatori dell’aristotelismo e del platonismo vivono ai nostri giorni per la prima volta contemporaneamente incarnati sulla Terra, ciò significa che queste individualità si sono ripromesse di ritrovarsi per lavorare insieme. Per l’umanità diventa allora quanto mai importante la domanda: come si realizza nella vita concreta e quotidiana la spiritualizzazione platonica dell’intelligenza formatasi dapprima in modo aristotelico con le scienze naturali? Come si fa a conciliare nella coscienza e nell’operare dell’uomo il mondo della materia con quello dello spirito?

Pensiamo per esempio alla pedagogia. Un’educazione che prende in considerazione solo il lato esterno del bambino è materialistica, unilateralmente aristotelica. Questa educazione vuole che il bambino si adatti al mondo esterno già esistente; subordina la pedagogia alla gestione del mondo visibile e al suo ulteriore progresso. Vede nel giovane colui che va reso capace di contribuire a questo fine, colui che deve servire come strumento ai poteri costituiti. Un platonismo unilaterale invece tenderebbe a trascurare la missione da svolgere sulla Terra, a sottovalutare l’importanza della legittima influenza esercitata sul bambino dalla realtà che lo circonda, dal mondo cui deve dare il suo contributo specifico.

Spiritualizzare l’intelligenza nell’arte dell’educazione vuol dire vedere in ogni bambino un’individualità che s’incarna con un compito ben preciso e assolutamente individuale. Tocca a questa individualità dire al mondo chi lei è e che cosa è venuta a fare. Nessun pedagogo glielo può imporre dall’esterno. D’altro canto però l’insegnante deve prendere sul serio il suo compito aristotelico, che consiste nel creare le condizioni esterne che favoriscano la crescita del bambino. Il bravo maestro è come un buon giardiniere: il suo compito non è quello di intervenire sulle leggi di sviluppo della pianta, ma è quello di creare le condizioni di terreno necessarie, senza le quali nessuna pianta può crescere.

Lo stesso discorso vale – per prendere un altro esempio – per tutti i generi di terapia, volti a guarire l’uomo malato nel corpo o nell’anima. Anche in questo caso l’atteggiamento materialistico consiste nell’uniformarsi ad un concetto esterno di salute, nel ritenerlo valido per tutti. Invece il terapeuta che spiritualizza la propria intelligenza terrà conto dell’essere spirituale e del tutto individuale del cosiddetto paziente. Rinuncerà ad ogni opinione preconfezionata e generalizzata su come debba svolgersi la terapia. Anch’egli, non meno dell’insegnante, si farà amorevole giardiniere, che accompagna lo sviluppo dell’altro col mettergli a disposizione gli strumenti a lui necessari.

Il senso positivo di una malattia è la crescita interiore che avviene proprio grazie alla lotta del tutto individuale per vincerla. Il compito del terapeuta è quello di accompagnare, non di impedire, questa lotta, permettendo alla fantasia morale individuale del paziente di stabilirne sia la forma sia la durata.

Terzo capitolo

INCONTRO-SCONTRO
FRA ORIENTE E OCCIDENTE

La cultura orientale ha avuto da sempre un’indole platonica, rivolta primariamente al mondo dello spirito. In occidente invece la cultura è stata marcata prevalentemente dallo spirito aristotelico, rivolto al mondo della materia. Ancor oggi, nonostante tutte le tendenze contrarie, l’oriente vive della sua antica spiritualità; mentre l’occidente ha dato origine, per mezzo delle scienze naturali e della tecnica moderne, ad una cultura di carattere materialistico.

Non è un caso che una moderna Scienza dello spirito come quella inaugurata da Rudolf Steiner, che tende alla riconciliazione fra spiritualismo e materialismo sia nata proprio in quell’Europa che si trova al centro fra est e ovest, e che vive la sfida della riconciliazione tra la spiritualità orientale e la tecnica occidentale. Ogni uomo può diventare lui stesso un «centro» che crea l’equilibrio fra estremi. Lo fa nella misura in cui crea nella sua mente e nel suo cuore una sintesi armonica tra materia e spirito, tra le due grandi matrici culturali dell’oriente e dell’occidente.

La mediazione tra questi due poli culturali dell’umanità consiste nel tendere ad un giusto equilibrio inducendo da un lato lo spirito ad amare sempre più la materia e dall’altro portando la materia – per esempio la realtà corporea dell’uomo – a non più opporsi allo spirito, ma a porsi invece al suo servizio. Quando i poli opposti non trovano una riconciliazione, la polarità rischia di trasformarsi in un conflitto, in uno scontro che provoca distruzione.

Dov’è «il centro» dell’umanità?

A questo punto ci si può chiedere: l’Europa viene vista come centro fra l’oriente e l’occidente solo perché noi – cioè gli europei – ne facciamo parte? Chi vive in America non ha lo stesso diritto a vedere il «centro» nell’America, col compito di mediare tra il suo est e il suo ovest, Europa e Asia?

Per rispondere a questa domanda bisogna prescindere da ogni riferimento geografico esterno e guardare al carattere oggettivo dei vari fenomeni culturali. Se siamo del parere, per esempio, che l’idealismo tedesco e la Scienza dello spirito di Rudolf Steiner contengano in modo esemplare il giusto equilibrio tra le varie polarità della vita, tra il mondo dello spirito e quello della materia, ciò non sarà da attribuire al fatto che sono fenomeni «europei», ma al fatto – che va oggettivamente riscontrato – che è nella loro natura di riconciliare il mondo dello spirito con quello della materia.

Solo se per esempio la scienza dello spirito di Rudolf Steiner rappresenta nella sua essenza oggettiva un superamento esemplare dell’unilateralità sia del materialismo che dello spiritualismo, può venir indicata come fenomeno culturale del «centro», cioè di mediazione tra estremi opposti. Il luogo geografico o il popolo nel quale è sorta una certa creazione fa parte delle condizioni esterne, non della sua essenza o natura. Il Faust di Goethe rappresenta l’archetipo universale dell’uomo che è sempre in cammino solo nella misura in cui ogni uomo sulla Terra può identificarsi con lui e farlo «proprio». Se una tale conquista culturale si fosse verificata in America, allora questo «centro» culturale si troverebbe in America, però non in quanto luogo geografico, bensì in quanto origine di creazioni valide per tutti gli uomini.

Steiner indica come fenomeno esemplare di una genuina collaborazione tra aristotelismo e platonismo la non facile ma fecondissima amicizia che legò per dieci anni Schiller e Goethe. Il modo in cui questi due spiriti per molti versi antitetici si sono arricchiti a vicenda è archetipico. Goethe può essere considerato l’ultimo grande platonico nell’umanità moderna. La sua «pianta primigenia» (Urpflanze) che lo affascina per tutta una vita non è altro che ciò che Platone chiamava l’idea della pianta, ciò che fa di ogni pianta una pianta. Schiller è più aristotelico, più interessato all’intelletto – o alla ragione – di tipo moderno e di matrice kantiana, intesa ad indagare il mondo sensibile e a considerare reale solo la percezione.

Il carattere culturale oggettivo sia dell’oriente che dell’occidente esclude la comparsa simultanea sia in oriente che in occidente di Goethe e di Schiller. L’occidente non ha i presupposti linguistici e culturali per far sorgere un Goethe, e Schiller non è pensabile come fenomeno della cultura orientale. Una lingua e una cultura che li fa sorgere entrambi e per di più in intima collaborazione fra loro, è per natura una cultura di equilibrio tra polarità.

Il numero 666 dell’Apocalisse

Quando sul piano fisico si verificano conflitti che a loro volta generano sofferenza e morte per molte persone, ciò è sempre perché gli esseri umani hanno in passato compiuto del male o omesso del bene. Se continuassero di questo passo indisturbati si danneggerebbero, senza neanche accorgersi, a livelli che diventerebbero prima o poi non solo insostenibili ma anche irreversibili. Per questo motivo gli esseri divini buoni, come accennavo, quelli che vogliono il bene dell’umanità, sono costretti a ricorrere alla sofferenza come strumento pedagogico di richiamo, per aiutare gli uomini a rendersi conto che le loro azioni hanno delle conseguenze ben precise.

Come esposto all’inizio, il male è sempre l’omissione di un qualche «bene». L’impoverimento spirituale dell’uomo ha raggiunto al giorno d’oggi delle proporzioni davvero allarmanti, e l’amore degli Esseri divini non può consentire all’uomo di andare oltre certi limiti di autodistruzione.

La situazione è quella che è perché gli uomini si trovano ancora all’inizio della seconda parte dell’evoluzione, quella che consente all’uomo una sempre crescente autonomia individuale quale essere spirituale. Più progrediamo, e più i pedagoghi divini si ritirano per far posto alla nostra libertà. Ci permettono non solo di ascendere alle vette più alte, ma anche di sprofondare negli abissi più tenebrosi. Un amore che vuole realmente la nostra libertà deve essere capace di accettarne anche i possibili abissi.

L’Essere chiamato «Cristo» è quello che ama più di tutti e al di sopra di tutto la libertà interiore di ogni uomo. Perciò non può voler «costringere» nessuno al bene. Fa come ogni buon genitore o pedagogo.

E qual è l’abisso ultimo della libertà? Nell’Apocalisse questo mistero viene espresso in immagini, soprattutto in quella della «Bestia» a cui corrisponde il numero 666. È un numero che ha diversi significati, che indica realtà diverse nel cammino dell’uomo.

L’autore dell’Apocalisse ha previsto che nel VII secolo dopo Cristo – intorno all’anno 666 – nell’umanità sarebbe sorta una prima potente forza che si oppone alla conquista della libertà umana, e questa forza si è espressa nell’islamismo. La libertà può essere esercitata solo combattendo le forze che la contrastano. La religione islamica nega al Dio Allah proprio quel Figlio che ama la libertà umana e di cui parlano le Scritture del cristianesimo.

Il numero 666 indica nello stesso tempo un ciclo di tempo che si ripete. Raddoppiato ci porta al 1332, alla prima metà del quattordicesimo secolo. Lì troviamo l’ordine dei Templari, animati da uno spirito puramente cristiano. Essi vennero brutalmente soppressi con successo dalla «Bestia» dell’Apocalisse che si manifesta per la seconda volta, in grande stile, nella persona di Filippo il Bello, letteralmente posseduto dalla brama dell’oro.

E se moltiplichiamo per tre il numero 666 otteniamo 1998. Per questo è stato variamente annunciato che l’umanità alla svolta tra il secondo e il terzo millennio sarebbe stata posta di fronte a grandi prove. Forse abbiamo bisogno di una maggiore distanza nel tempo per capire meglio ciò che di fatidico è avvenuto negli ultimi tempi, e che è tuttora in corso.

Occorre distinguere tra i fenomeni che sono di primaria importanza e quelli secondari. Platone ha ragione quando afferma: i fenomeni più importanti, quelli decisivi, avvengono nel mondo spirituale. Le manifestazioni sul piano fisico ne sono soltanto le conseguenze. È importante allora leggere la storia umana secondo un metodo «sintomatologico». In tutto ciò che compare esteriormente va visto un sintomo che palesa qualcosa che agisce in modo profondo e nascosto.

Come le lacrime di chi piange non sono il fenomeno «vero e proprio», ma semplicemente il «sintomo» esteriore, la manifestazione di uno stato d’animo – che non si riduce al liquido lacrimale – così gli avvenimenti storici esterni sono l’espressione di ciò che avviene nell’interiorità nascosta di esseri spirituali umani e divini.

Che cosa faccio quando vedo scendere lacrime dagli occhi di una persona? Raccolgo quel liquido e ne analizzo i sali o la percentuale di idrogeno e di ossigeno? No, mi chiedo o gli chiedo perché piange. Considero ciò che avviene esteriormente come sintomo di ciò che avviene all’interno, ed è questo che conta. Parto cioè dal presupposto che la realtà non si esaurisca in ciò che si vede esteriormente. So di aver a che fare con qualcosa di invisibile, per esempio con la tristezza di una persona che magari si sente sola.

Anche la storia va analizzata in questo modo, poiché tutto ciò che succede sul piano fisico è espressione di realtà invisibili come lo è la tristezza. Reale e causante in modo sommo è sempre ciò che è spirituale. Ciò che si presenta ai sensi esterni è semplicemente il modo in cui ciò che è spirituale si manifesta all’esterno. Nella parola «apparire» si esprime bene sia la manifestazione sia il nascondersi di ciò che è spirituale nel mondo fisico. Una cosa appare veramente per quello che è o «pare» solo apparire? Si svela o si cela nella «parvenza» che ho davanti agli occhi? Se interpreto correttamente il mondo dell’apparenza, posso risalire alla realtà vera. Ma se parto dal presupposto che la realtà si esaurisca in ciò che vedo, allora non colgo ciò che sta alla base, e la parvenza esterna m’inganna.

Un cuore che non batte?

Nell’umanità di oggi manca un tipo specifico di cultura di cui si possa dire che rappresenta un equilibrio, una mediazione fra oriente e occidente. Quello che nei secoli passati, fino al tempo di Goethe, era stato il centro «culturale» dell’umanità ha negli ultimi tempi tragicamente cessato di esserlo. In questo centro non palpita più il cuore dell’umanità.

La prova più lampante sta nel fatto che il fenomeno «Rudolf Steiner», che un secolo fa ha inaugurato la più vasta mediazione fra le varie polarità in tutti i campi della vita, non è stato recepito dalla cultura generale neppure nell’Europa centrale. Là dove sono nati il goetheanismo e l’idealismo, è sorta all’inizio del secolo scorso la più moderna scienza dei mondi dello spirito. Eppure finora né il goetheanismo né la scienza dello spirito di Rudolf Steiner sono riusciti ad imprimere il loro carattere alla cultura cosiddetta ufficiale.

Ciò che si vive oggi nell’Europa intera è un continuo oscillare fra oriente e occidente. Da una parte dominano la scienza e la tecnica occidentali di tipo materialistico, e dall’altra viene coltivata da molti una spiritualità di tipo orientale avulsa dalla vita. L’unilateralità di entrambi i poli agisce così in Europa con raddoppiata intensità. Non sono pochi ad andare matti per la «spiritualità orientale» senza neanche sapere che esistono una spiritualità goethiana e una della scienza dello spirito. E vanno matti, nella scienza e nella tecnica, per Newton e Darwin, senza sospettare che Goethe – orribile dictu! – proprio in quanto scienziato vale non meno di Newton.

E tuttavia l’uomo che vuol far da ponte tra spirito e materia può essere di casa solo dove regna un dinamismo volto incessantemente al dialogo fra culture polarmente opposte. Quando il centro non svolge il proprio compito di mediare, è costretto a vivere un doppio estraniamento, come ha dimostrato per decenni quella cortina di ferro che separava il mondo orientale da quello occidentale. Al centro, al posto di un cuore grande abbastanza da abbracciare est e ovest, c’era una linea che divideva due mondi, una spaccatura che contraddistingue fino ad oggi la situazione spirituale in cui l’Europa si trova.

Quando c’erano ancora il muro di Berlino e la cortina di ferro, sembrava che l’Europa portasse impresso sul suo corpo il sigillo della divisione: una metà unilateralmente occidentale nel suo darsi alla scienza e alla tecnica materialistiche; l’altra metà era unilateralmente orientale col suo comunismo messianico da oppio del popolo. Da un punto di vista culturale e spirituale la cortina di ferro esiste ancora oggi, nelle menti e nei cuori degli uomini. Ciò può sembrare in contraddizione con il fatto che nell’ex Unione Sovietica l’ateismo ideologico è sempre stato non meno materialistico che in occidente. Questa variante russa del materialismo occidentale è stata però come un corpo estraneo, un giogo imposto dal potere dell’occidente sul popolo russo. L’anima orientale ha sofferto indicibilmente sotto il peso di questa cappa di piombo di stampo occidentale, senza però mai perdere la propria innata spiritualità.

L’occidente nato per dominare la Terra?

A proposito della polarità tra oriente e occidente, Rudolf Steiner fa la seguente affermazione: in occidente ci sono delle cerchie ristrette di persone, soprattutto nel mondo anglosassone, in cui si è a conoscenza del fatto che l’occidente (il mondo angloamericano di lingua inglese) nei prossimi secoli o persino millenni potrà, qualora lo voglia, dominare il mondo intero grazie alle sue conquiste tecniche e industriali, in base al suo potere finanziario e militare. I politici non sono che esponenti di istanze che agiscono dietro le quinte. Il destino dell’umanità è nelle mani di pochi e in ultima analisi sono in pochi a decidere del modo in cui, per esempio, circola il denaro o di ciò che si legge o non si legge sulla stampa.

L’occidente, che dispone di conoscenze scientifiche e di vasti strumenti di potere ha la libertà di scegliere: può fare di tutto per favorire lo spirito che vive in ogni uomo, mettendo i propri talenti al servizio di tutta l’umanità – oppure può impiegare le sue risorse per dominare economicamente e così sfruttare il mondo intero.

La volontà di servire il bene di tutti potrebbe però nascere in occidente solo se il centro, il cuore dell’umanità, adempisse al suo compito di spiritualizzare la scienza e la tecnica materialistiche. Ciò vuol dire far di tutto per rendere l’uomo sempre più umano, in quanto dotato non solo di un corpo, ma anche di un’anima e di uno spirito.

L’occidente può scegliere di favorire la cultura del centro come indispensabile mediazione fra oriente e occidente per il bene di tutta l’umanità, ma può anche decidere di far di tutto per eliminare ogni tentativo di mediazione.

Consideriamo ora più da vicino alcuni degli aspetti della polarità che c’è fra oriente e occidente, richiamando l’attenzione sulle forze più profonde che sono attualmente attive nell’umanità.

Rudolf Steiner riconduce le due matrici culturali, all’opera in oriente e in occidente, al sistema nervoso e a quello sanguigno. In occidente il sistema neurosensoriale è stato portato al massimo sviluppo; ha dato origine alle scienze naturali e alla tecnica moderne. Si tratta di forze predestinate alla conquista e al dominio sempre più ferreo del mondo fisico. Si pensi solo agli ultimi sviluppi della tecnologia genetica e alle prospettive che si delineano con la clonazione.

Dal punto di vista della vita economica il materialismo, che ha invaso tutti i settori dell’esistenza, è determinante. Sono sempre più numerose le persone che mirano ad un possesso puramente materiale, al successo terreno e al godimento esteriore. Questa mentalità consumistica ha elevato all’ennesima potenza la bramosia umana. Ma per le cose materiali vale la legge dell’esclusività: ciò che è mio non può essere contemporaneamente tuo; il mio vantaggio è il tuo svantaggio. La lotta per l’esistenza genera nella vita quotidiana sempre più stress e aggressività, perché ognuno è costretto a vivere sotto l’obbligo del rendimento, e il successo non può essere ottenuto senza una spietata concorrenza.

Questa situazione culturale-esistenziale ha però delle conseguenze di vasta portata. Il mondo occidentale può mantenere, e possibilmente incrementare ulteriormente, il suo livello di vita materialistico solo sfruttando l’ambiente ecologico e l’umanità intera. Quello che due secoli fa si è manifestato dapprima nello stesso occidente come lotta di classe fra lavoratori e datori di lavoro si estende ora a tutto il genere umano: l’occidente si comporta sempre più da imprenditore «globale», e costringe il resto del mondo nel ruolo del lavoratore.

Questa divisione dei ruoli procede parallelamente ad un’altra divisione: in una economia globalizzata l’occidente vuol disporre del capitale e della produzione, mentre l’oriente deve occuparsi dello smercio e del consumo. Ci sono molti fenomeni che sembrano contraddire questi fatti, ma in realtà fanno parte di questo piano. Hanno lo scopo di occultare la natura vera degli eventi mondiali.

Il dominio economico e militare del mondo da parte dell’occidente, dicevo, è realizzabile solo eliminando il centro come alternativa culturale e spirituale. Chi vuole dominare sopporta solo individui che si sottomettono senza resistenza. L’idea di una mediazione fra la sua volontà di dominio e il resto del mondo verrebbe a sventare i suoi piani.

Solo se l’occidente decidesse di mettersi al servizio dell’umanità, saprebbe onorare una cultura che crea il giusto equilibrio tra oriente e occidente. Ma questo equilibrio si trova unicamente se il materialismo viene superato, se gli uomini cominciano a cercare e ad apprezzare più intensamente tutto ciò che è spirituale – la scienza dell’invisibile, l’arte in tutte le sue forme, l’esercizio della religione.

Il rapporto fra un’élite dirigente e una massa da dirigere fa parte della strategia di dominio mondiale. La classe dirigente è di natura più prettamente economica in occidente, e maggiormente politica in oriente, e ciò ha reso quest’ultima dipendente dalla prima. Dato che in occidente sono le istanze della tecnica, della finanza e del militarismo ad esercitare un ruolo di primo piano nella «cultura» generale, la massa della popolazione deve essere aggiogata al processo economico stesso. La scienza e la tecnica sono quindi in occidente il pane quotidiano non solo della classe dirigente, ma anche dell’intera popolazione. La stessa cosa non si può dire affatto delle grandi masse in oriente, che hanno un accesso molto più limitato all’istruzione tecnico-scientifica e al benessere materiale.

Agli inizi del ventesimo secolo la cosa più importante per la realizzazione di questo piano era l’eliminazione del centro nel cuore dell’Europa. Fu questo lo scopo della prima guerra mondiale. La seconda ne è stata l’inevitabile conseguenza. Nello stesso tempo si voleva introdurre in oriente, con la Russia in testa, una classe dirigente politica col compito di reprimere la massa proletaria assopita o anche in subbuglio, fino al punto da rendere l’oppressione insopportabile. In tal modo si è voluto mettere in atto l’esperimento del comunismo il più possibile lontano da casa propria.

Allora – si calcolava – le forze del sangue si sarebbero scatenate contro l’occidente, contro il centro. Ancor oggi, l’ondata di migrazioni dall’est non vuol avere fine. Questo spostamento di popoli dovrebbe provocare nuovamente una devastazione del centro, tale per cui questo si ritrovi ancora a dipendere dall’aiuto dell’occidente. Ecco che ancora una volta la metà orientale dell’umanità, a partire dal centro, viene trasformata in mercato di sbocco e di smercio per il dominio economico occidentale.

Ma che cosa si intende parlando di forze del sangue? In occidente l’uomo vive la propria identità e la propria dignità a partire dal sistema neurosensoriale: attraverso il controllo che esercita individualmente sui meccanismi della tecnica fondata sulle scienze naturali. L’uomo occidentale vuole mostrare al mondo quello che sa e quello che sa fare. In oriente, dove la scienza e la tecnica non hanno raggiunto nella stessa misura le grandi masse, l’uomo del popolo trova la propria identità nel sangue. La sua professione o le sue abilità sono per lui molto meno importanti di ciò che è per natura.

La domanda più importante in occidente è: Che cosa fai? In oriente è invece: Chi sei? La risposta a questa domanda si riferisce al proprio popolo, alla propria stirpe, al sangue appunto. L’uomo orientale è contento quando ha lo stretto necessario per vivere. E quando la povertà lo opprime eccessivamente, sono le forze del sangue a farsi sentire, i nazionalismi – proprio per la carenza di una visione scientifica del mondo quale accesso al mondo della tecnica.

La tendenza dell’occidente a soggiogare l’umanità intera mostra il suo volto disumano in modo sintomatico e originario nel fenomeno della cosiddetta disoccupazione di massa. Nella prima fase del capitalismo il motto: «Ogni uomo è sostituibile!» voleva dire che ogni lavoratore poteva essere sostituito da un altro operaio o da un altro proletario. Nella seconda fase, nel nostro tempo, il motto assume un significato del tutto diverso: ogni uomo può essere sostituito da una macchina! Viviamo in tempi in cui la macchina viene esaltata e l’uomo viene vissuto come qualcosa che crea solo problemi e che costa troppo.

In tal modo si spiegano i licenziamenti di massa, atti a provocare altri rivolgimenti sociali. I prossimi provvedimenti sulla via del dominio del mondo devono infatti presentarsi – come il lupo in veste di agnello – come l’unica soluzione possibile ai problemi generati dalla disoccupazione. Saranno forse ben pochi a chiedersi: e chi ha causato secondo un piano prestabilito la disoccupazione di massa?

La cosiddetta disoccupazione di massa nel centro dell’Europa e la fame disperata in oriente non dipendono per niente dal fatto che per gli uni non ci sia lavoro e per gli altri niente da mangiare. In entrambi i casi si tratta di una equa – anzi iniqua – distribuzione, che se fosse davvero equa e giusta dovrebbe occuparsi anche della povertà dell’Africa intera. Se le macchine svolgono la maggior parte dei lavori necessari per tutti, tutti gli uomini ne dovrebbero avere un vantaggio: tutti dovrebbero eseguire meno lavori meccanici e tutti dovrebbero potersi dedicare ad attività più specificamente umane.

Il rincaro artificiale del lavoro, con la falsa motivazione della sua scarsità, serve in realtà a creare una classe dominante sempre più ristretta, che esercita il controllo su una classe di schiavi in continuo aumento. Così l’obiettivo occidentale del dominio economico si è alleato anche con le cosiddette classi dirigenti del centro, dell’oriente e del sud, che a loro volta diventano schiave del dominio mondiale occidentale chiamato «globalizzazione».

Rudolf Steiner richiama l’attenzione su questa costellazione di forze che determineranno ancora a lungo l’evoluzione dell’umanità:

«I due schieramenti si contrappongono a livello economico a mano a mano che diventa evidente che la popolazione anglofona rappresenta geograficamente e storicamente una specie di classe imprenditoriale come elemento dominante, che in un modo o nell’altro soggioga il resto del mondo – l’Europa centrale, quella orientale, più o meno il proletariato. Come nella fabbrica moderna si fronteggiano l’imprenditore e il lavoratore, così nel mondo si fronteggiano la classe imprenditoriale della vecchia Entente con a capo l’America, e il proletariato delle popolazioni sconfitte.»

E altrove aggiunge:

«… che dall’occidente verrà sempre più apertamente inscenata la lotta che è una lotta puramente materialistica, che precipiterà l’umanità nelle guerre del materialismo: da oriente il sangue lotterà contro ciò che proviene da occidente come lotta economica. Dobbiamo interpretare più da vicino questa affermazione, che in futuro acquisterà una straordinaria importanza nel sociale e che è importante per ognuno che voglia formarsi un giudizio lucido.» (Conferenze del 22 e 23 novembre 1918).

La classe dirigente orientale ha imparato dall’occidente il vivere da materialisti e l’ha fatto suo: è il potere economico dell’occidente che l’ha portata al potere politico. Essa governa una popolazione che vive la propria identità e la propria dignità più in base al sangue che alla professione. L’uomo orientale, a differenza dell’occidentale, non è in grado di radicarsi profondamente nel mondo della materia. Nell’intimo si sente ancora come un pellegrino su questa Terra, in cammino verso una patria di natura spirituale. È tuttora predisposto ad ogni tipo di messianismo, di speranza di redenzione millenaria. Nella sua inesauribile forza di sacrificio, è molto più disposto dell’uomo occidentale a perdere tutti i beni terreni. Ma proprio questa mentalità da nomade lo rende quanto mai prono ad essere sfruttato, a dare avvio a movimenti di massa e a migrazioni di popoli.

La reciprocità vince il potere

Rudolf Steiner sottolinea che l’unica arma contro ogni potere terreno, che lui riconduce a un essere spirituale che chiama Arimane, è un pensare sveglio. Ciò non vuol dire però che questo basti da solo. Se il male è sempre l’omissione di un qualche bene, il suo superamento può solo consistere nel fare il bene.

Il fatto che la potenza economico-militare dell’occidente eserciti un effetto deleterio sull’umanità non significa che il dominio tecnico ed economico della Terra sia di per sé un male. Esso potrebbe anche venire impiegato per il bene degli uomini. Il male morale consiste nell’omettere di impiegare queste forze al servizio dell’uomo. E il vincere questo grande peccato di omissione non è il compito specifico dell’occidente, bensì del centro e dell’Europa intera. Qui ci sono i presupposti culturali per adoperare la scienza e la tecnica non contro l’uomo, ma a favore dell’uomo. Le scoperte della scienza e le conquiste della tecnica restano la prerogativa dell’occidente. Il modo della loro utilizzazione, il «come» dell’impiego e della gestione che pone al centro l’uomo è il compito specifico del centro.

L’occidente è il conquistatore della Terra, il centro ha il compito di mettere l’uomo al centro, di far sì che la tecnica non lo renda schiavo, ma si ponga al suo servizio. L’occidente conosce solo il limite tra il fattibile e il non fattibile; il centro deve mettere in primo piano il limite fra l’umano e il disumano, deve indicare i limiti al fattibile, per far sì che la tecnica non si rivolga contro l’uomo.

La disumanità del potere e la smisuratezza di ciò che è tecnicamente possibile si avverano quando si perde di vista l’uomo. Si tralascia di evidenziare, non sviluppando lo spirito umano, il ruolo di servizio di tutto ciò che è materiale. Solo il godimento dell’arte, la passione per la conoscenza spirituale come cura della pienezza interiore dell’uomo può domare il potere terreno, ponendolo al servizio dell’uomo.

Un potere non si può mai vincere con un altro. Per vincere il primo quest’ultimo dovrebbe essere ancora più potente, cioè ancora più disumano, di quello che vuol combattere. Ogni potere può essere un ottimo servitore dell’uomo, ma è comunque un pessimo padrone.

Quando l’esercizio del potere terreno si fa disumano, è importante chiedersi: dove e come è stato omesso ciò che è umano, ciò che è il bene dell’uomo? E la risposta è: là dove in particolar modo ci sono le condizioni storico-culturali che avrebbero consentito di coltivarlo. Riusciranno gli eventi di inizio millennio a risvegliare la coscienza morale del centro, del cuore dell’umanità, quando la misura della disumanità sarà colma e l’invocazione di umanità salirà fino al cielo?

L’apprezzamento occidentale dell’individualità libera e intraprendente, delle possibilità di conquista tecnicamente illimitate, non sono meno necessarie all’evoluzione dell’umanità della preferenza data in oriente alla comunità e alla solidarietà. Le forze della libertà e quelle della fratellanza non devono sopraffarsi a vicenda, altrimenti l’umanità non avrebbe più né l’una né l’altra. È necessaria una terza forza, in grado di fare in modo che la libertà e la fraternità si favoriscano reciprocamente invece di osteggiarsi a vicenda.

La missione del centro nei confronti di tutta l’umanità consiste nel trovare la risposta concreta a questa domanda: come può l’esercizio della libertà individuale trovare il proprio compimento nell’amore per la comunità? E viceversa: come può l’esperienza della solidarietà favorire la libertà individuale di ogni uomo?

Triarticolazione dell’organismo sociale

La vera missione dell’Europa in seno all’umanità, sempre che veda nel proprio destino una responsabilità nei confronti dell’umanità, consiste nel portare a coscienza ciò che Rudolf Steiner chiama la triarticolazione dell’organismo sociale. Nell’umanità – anche da un punto di vista geografico – vi sono tre impulsi fondamentalmente diversi:

1. L’uomo orientale è contraddistinto da una profonda spiritualità, anche se questa è spesso di natura tradizionale.

2. In occidente, dove è sorta la tecnica moderna, l’uomo si sente a proprio agio nel mondo della materia.

3. Nel centro, in Europa, ci sono tutti presupposti culturali per una mediazione tra oriente e occidente, tra l’amore per lo spirito e l’amore per la materia.

Queste tre qualità compaiono come espressione dell’uomo anche nei tre ambiti della vita sociale, indipendentemente da ogni collocazione geografica:

1. da un lato c’è l’ambito dello sviluppo dei talenti individuali, la sfera spirituale-culturale o vita spirituale;

2. dall’altro c’è l’ambito della soddisfazione dei bisogni mediante la produzione e il consumo di servizi e di merci, la sfera o vita economica;

3. e c’è poi una sfera intermedia, quella dei pari diritti e doveri di ogni uomo in quanto uomo, la sfera politica e della vita giuridica.

Oggi l’organismo sociale è un po’ dappertutto malato, poiché queste tre sfere, che per natura dovrebbero essere autonome, sono caoticamente mischiate fra loro. All’inizio lo stato ha assorbito sia la sfera spirituale (basti pensare all’istruzione pubblica statale) e poi sempre più anche quella economica (per mezzo delle più svariate «sovvenzioni»). Al che si è verificato uno spostamento sempre maggiore in direzione della sfera economica. Questa ha sempre più inglobato sia la sfera politica che quella culturale, e ciò ha fatto sì che oggi non si sappia più se sono i grandi magnati industriali o i politici a dirigere le sorti dell’umanità. Negli ultimissimi tempi, a causa della globalizzazione, forse più ancora che gli imprenditori o i politici è il denaro a reggere sempre più impersonalmente e irrazionalmente le sorti del mondo.

Ma per quale motivo questi tre ambiti della vita sociale dovrebbero essere resi indipendenti l’uno dall’altro?

La sfera culturale, quella della formazione e dell’esercizio dei talenti individuali, si fonda sul principio di un’assoluta libertà individuale. La sfera ad essa opposta invece, quella della vita economica, dove ciò che conta è l’appagamento dei bisogni reali di ognuno, si basa su un principio opposto e contrastante, che è quello del reciproco aiuto, della fraternità.

Ognuno dovrebbe acquisire una flessibilità interiore tale da assumere un atteggiamento di libertà di fronte ai talenti, in ambito culturale, e di servizio agli altri di fronte ai bisogni in ambito economico – atteggiamenti che sono diametralmente opposti fra loro.

Libertà in ambito culturale-spirituale significa che là dove si tratta di sviluppare e coltivare i talenti e le attitudini individuali è il singolo individuo che deve prendere le dovute decisioni. In quest’ambito non può esserci fraternità, perché essa non sarebbe altro che un ricatto dell’individuo a danno della società. In questa sfera la pretesa di fratellanza minaccerebbe continuamente di soffocare i talenti dell’individuo.

Nella sfera economica vale proprio il contrario: lì occorre argomentare, vivere e agire in modo completamente diverso. In economia non si tratta di garantire ad ognuno la sua libertà nel gestire propri talenti, ma al contrario che ognuno si metta al servizio degli altri, che ci si aiuti reciprocamente, per soddisfare i reali bisogni di tutti, dicendosi ciò di cui si ha necessità e come ci si può aiutare.

Ovviamente, chi produce qualcosa nella sfera economica non può farlo che esplicando i propri talenti individuali in qualità di produttore: non si tratta quindi di compartimenti stagni, bensì di atteggiamenti interiori, di modi diversi di agire dell’uomo stesso. Il fatto per cui oggi però il produttore impone le sue condizioni al consumatore rende impossibile la solidarietà, perché ogni consumatore dovrebbe poter decidere, in riferimento ai suoi bisogni reali, che valore ha per lui una certa merce o prestazione. Il criterio che dà valore a una merce sono i bisogni reali di chi la acquista, non le istanze di chi la produce.

Dal momento che la vita culturale e quella economica possono funzionare bene solo grazie a due atteggiamenti interiori diametralmente opposti – quello della libertà e quello della solidarietà –, ci dev’essere una terza sfera che fa da mediazione, nella quale non prevalga né l’uno né l’altro, in cui libertà e fraternità abbiano pari peso per tutti. In altre parole, deve esistere un terzo ambito in cui ci si deve comportare con un atteggiamento interiore che rispetta l’uguaglianza assoluta di tutti gli uomini.

Qui si stabilisce un rapporto che non mette in primo piano né i talenti né i bisogni – che sono diversi in ognuno – ma la pari dignità di tutti. È un rapporto da uomo a uomo. Ciò che rende gli uomini tutti uguali è la ricerca del giusto equilibrio tra talenti e bisogni. In questo equilibrio viene rispettata la dignità umana. Qui vale l’uguaglianza assoluta fra tutti gli uomini nella loro dignità in quanto esseri umani. Ognuno ha ugual dovere di rispettare tutti i diritti dell’altro, ognuno ha il pari diritto di veder rispettati i propri. Ognuno ha ugual diritto all’esplicazione dei propri talenti e all’appagamento dei propri bisogni.

Dato che attualmente queste tre sfere sociali non agiscono autonomamente, pur essendo per natura così diverse, è sorta una gran confusione, che ne causa la reciproca distruzione. Questa situazione caotica è la causa più profonda di tanti problemi sociali del nostro tempo. Spesso cerchiamo solidarietà dove dovremmo agire liberamente a difesa della nostra diversità; e non meno spesso vogliamo essere liberi in situazioni che richiedono reciproca solidarietà. E poi vogliamo essere uguali là dove l’uguaglianza non è possibile, o è finta.

La missione particolare dell’Europa, che si è scelta il suo destino in mezzo alle due grandi qualità oggettive dell’oriente e dell’occidente, consiste nel sentirsi moralmente responsabile nei confronti della triarticolazione dell’organismo sociale. Grazie a una tale tripartizione, la struttura sociale potrebbe ristabilire il giusto equilibrio, per quanto sempre labile, fra la libertà dell’individuo e l’aiuto reciproco in seno alla comunità umana.

Rudolf Steiner afferma a questo proposito: o nei prossimi decenni l’umanità si decide a conferire coscientemente e liberamente una struttura trinitaria all’organismo sociale, o si dirigerà verso una catastrofe dopo l’altra. Un’altra alternativa non esiste.

E con ciò si è solo accennato al grande lavoro che va compiuto! Ognuno è libero di rendersi conto dell’urgenza di questo compito sociale e di assumersene personalmente la responsabilità, poiché nell’umanità odierna non esiste più nessuna responsabilità collettiva. Per quanto riguarda il destino futuro degli uomini, ognuno può solo assumersene la responsabilità individuale. È finito il tempo dell’anima di gruppo e delle autorità che fanno da trainatori.

Se uno riflette su quello che c’è in gioco, gli può nascere la volontà di approfondire prima di tutto la conoscenza delle cose per poi aiutare quante più persone possibile ad aprire spazi di libertà e fraternità, a lavorare insieme per imprimere una svolta positiva al destino dell’umanità, di modo che diventi sempre meno necessario farlo costretti da cataclismi sociali e da catastrofi naturali.

Lotta per l’esistenza o aiuto reciproco?

Il contrasto tra l’oriente e l’occidente, tra le forze della libertà e quelle della fraternità sempre in cerca del giusto equilibrio, può essere studiato esaminando due personaggi vissuti tempo fa: Darwin e Kropotkin. Il primo è noto a tutti in occidente, il secondo è quasi completamente sconosciuto.

Charles Darwin rappresenta l’uomo occidentale che studia l’evoluzione da scienziato. Giunge alla conclusione che la forza motrice per l’evoluzione dell’animale e dell’uomo è la «lotta per l’esistenza». La capacità di adattamento è decisiva sia per la sopravvivenza sia per l’estinzione di una data specie. Quasi contemporaneamente, in oriente, il russo Piotr Kropotkin studia gli stessi fenomeni evolutivi e giunge al risultato opposto. Egli conclude che la forza che sta alla base di tutta l’evoluzione è il «mutuo soccorso».

È importante sottolineare che in occidente la visione di Darwin è non solo generalmente nota, ma anche generalmente condivisa, mentre i più di Kropotkin ignorano persino il nome. Se poi vogliamo sapere chi dei due abbia ragione, arriviamo presto o tardi alla conclusione che entrambi hanno torto e ragione in ugual misura – ognuno dal suo punto di vista.

Ci sono infatti infiniti fenomeni dell’evoluzione – si pensi solo alla nascita e alla formazione di un qualsiasi organismo vivente – spiegabili unicamente in base al mutuo soccorso, per esempio quello esistente fra le varie cellule e i vari organi di un organismo. Ed esistono altrettanti fenomeni – si pensi solo alle «guerre» nel regno animale e in quello umano – che si possono intendere come fenomeni di lotta per l’esistenza.

Allora non importa tanto chi dei due abbia ragione a livello puramente teorico, quanto chiedersi come e perché in oriente e in occidente siano sorte due interpretazioni opposte degli stessi fenomeni. E la risposta è: perché questi due tipi di uomini portano in sé pensieri e atteggiamenti diversi, che ognuno crede di vedere all’opera nei fenomeni dell’evoluzione.

In epoca moderna non è l’evoluzione in quanto tale ad aver fatto emergere in modo sempre più evidente le forze della lotta per l’esistenza, bensì l’uomo occidentale. È nata in occidente l’individualità libera, tutta concentrata su di sé, e ciò non poteva verificarsi senza «lotta per l’esistenza»! È un male in sé? No, è inevitabile, se si vuole che ci sia l’individuo libero e autonomo.

Kropotkin vede il mutuo soccorso, l’aiuto reciproco, in tutti i fenomeni evolutivi per il fatto che l’uomo orientale in linea generale si sente inserito in un contesto comunitario, sostenuto dal gruppo di appartenenza. Il bene sommo è per lui la comunità, non l’individuo, è la solidarietà, non la libertà. La religione ha in oriente un grande peso perché calibra la comunanza fra gli uomini, non meno del sangue comune. Se un partito comunista vuol far presa sugli animi con la sua ideologia «ateistica», non ha che da presentarsi con una missione «divina» per la salvezza dell’umanità.

È all’opera nel mondo attuale il contrasto fra la mentalità occidentale della guerra di tutti contro tutti e la profonda nostalgia orientale di reciproca appartenenza. È ogni giorno in atto lo scontro che avviene fra tutte le forze della libertà individuale – che, se non si apre all’amore, non è altro che freddo egoismo – e tutte quelle dello spirito di gruppo – che, in assenza di autonomia individuale, degenerano nel paternalismo e nell’ipnosi della massa.

Il compito di massima urgenza per l’umanità di oggi è quello di riequilibrare le forze della libertà individuale e della comunione fraterna. La missione storico-culturale del centro, quella di mediare tra estremi, non può essere ulteriormente rimandata! L’uomo potrà vivere la sua vera dignità e la sua pienezza in quanto essere umano solo armonizzando tra loro libertà e amore: la libertà vissuta nell’esplicazione dei propri talenti diventa essa stessa sforzo amorevole di servire tutti gli uomini, venendo incontro ai loro veri bisogni.

Uomo libero o uomo clonato?

Rudolf Steiner parla di uomini tanto in oriente quanto in occidente che minacciano di perdere le forze specifiche dell’uomo – come conseguenza del fatto che non viene instaurata la triarticolazione dell’organismo sociale per neutralizzare le tendenze dell’egoismo e del collettivismo. La smania occidentale di libertà degenera in uno sfruttamento spietato della Terra e dell’umanità. La tendenza al collettivo in oriente porta alla perdita della fisionomia individuale da parte del singolo.

In occidente ci saranno sempre più persone, sempre stando a Rudolf Steiner, che si faranno puri strumenti di Entità spirituali. Queste si serviranno di loro per impedire la triarticolazione del sociale. Queste persone si divideranno in tre gruppi. I primi saranno veri e propri geni della conoscenza delle forze elementari della Terra, in grado di controllare con precisione e a proprio vantaggio tutto ciò che riguarda il colonialismo e il commercio (un rovesciamento dei principi della fraternità nella vita economica). I secondi avranno il talento particolare di giustificare, simulando buone intenzioni, tutti i modi di agire possibili che rappresentino un pervertimento della vita giuridica. I terzi intorbidiranno ogni sensibilità nei confronti dei talenti naturali e della libertà della vita culturale richiamandosi alla natura e alla comunione del sangue, facendo dell’uomo un mero prodotto della sua nazionalità.

Anche in oriente Entità spirituali si impossesseranno di svariati individui, inducendoli a non volersi mettere in comunicazione in modo giusto con le forze della Terra, a provare avversione per l’incarnazione umana che comporta una piena assunzione della fisicità, cosa indispensabile per una sana vita economica. Altri vivranno in un «egoismo altruistico», in un finto altruismo, che renderà impossibile qualsiasi vita giuridica degna dell’uomo. Altri ancora vorranno vivere in fatui misticismi, in opposizione ad una vita spirituale desta, cosciente e individuale.

In questo contesto viene spontanea la domanda: qual è il significato, in riferimento agli eventi apocalittici di questo inizio di millennio, dell’imminente possibilità tecnica della clonazione dell’uomo? La tecnologia genetica rende possibile creare «uomini» (che non possono esserlo nel vero senso della parola, poiché privi di Io individuale e di anima) che verranno usati come strumenti da altre Potenze a danno dell’umanità?

Questa domanda inquietante ci indica ancor più insistentemente l’assoluta necessità di opporsi a queste forze disumane – che si annunciano in tal modo in oriente e in occidente – sostenendo e incrementando la forza dell’equilibrio, la mediazione fra gli opposti con una sana triarticolazione dell’intera vita sociale.

Quarto capitolo

LA SECONDA VENUTA
DEL CRISTO

I segni dei Tempi con i quali l’uomo viene confrontato all’alba del terzo millennio hanno lo scopo di fargli compiere passi nuovi e importanti sul suo cammino verso la pienezza dell’umano.

Abbiamo visto che non potrebbe esserci libertà senza anche la possibilità di lasciarsi sfuggire delle occasioni di crescita che vengono offerte una volta sola. Ciò a sua volta non sarebbe possibile se ci fosse solo un’evoluzione ciclica che si ripetesse in modo sempre uguale, senza presentare possibilità sempre nuove di realizzare se stesso da parte dell’uomo.

Proprio in questo consiste l’importanza della libertà e la responsabilità morale nei suoi confronti: essa oscilla sempre fra il cogliere al volo le opportunità che si presentano una volta sola e in un momento ben preciso – quello che i greci chiamavano il «kairoj» (kairos) –, e il lasciarsele sfuggire per sempre. È vero che c’è anche, come già accennato, una certa possibilità di recupero, dato che non succede mai che tutti i fattori evolutivi cambino all’improvviso. Ma poiché non contano tanto le costanti fondamentali – che in quanto tali rappresentano la condizione necessaria per tutti i gradini evolutivi – quanto ciò che di unico e irripetibile viene di volta in volta reso possibile in ogni epoca, occorre sottolineare con lo stesso vigore che l’incessante mutamento dei fattori evolutivi specifici rende comunque limitata ogni possibilità di recupero.

Questa affermazione vale soprattutto per quei periodi in cui si verificano eventi non solo unici, ma anche di importanza decisiva per l’evoluzione dell’uomo, per cui da un punto di vista morale tutto acquista un peso maggiore.

Secondo Rudolf Steiner uno di questi eventi – che ha iniziato a manifestarsi negli anni trenta e quaranta del secolo scorso – è che alcuni uomini cominceranno a percepire per la prima volta nel mondo spirituale l’Essere chiamato «Cristo». Attualmente esistono tutti i presupposti necessari alla realizzazione di questo evento, per quanto riguarda sia l’evoluzione della coscienza umana che i fattori esterni che lo rendono possibile.

Vedere e capire non è lo stesso

Il Cristo è venuto sulla Terra sul piano fisico duemila anni fa. Nel cosiddetto «secondo avvento» che si verifica nel nostro tempo il Cristo non si manifesta più all’uomo in forma fisica, bensì in forma «eterica», sovrasensibile, sul piano della visione spirituale. Come a livello sensibile abbiamo delle percezioni dei sensi sulle quali riflettiamo col nostro pensiero, così il ritorno del Cristo viene vissuto in un primo momento una specie di percezione sovrasensibile, come una visione, che bisogna però ugualmente affrontare col pensiero.

Per ogni percezione sensibile tocca a noi trovare il concetto corrispondente. Quando diciamo: «Quella è una rosa» facciamo una specie di dialogo con noi stessi, un dialogo fra la percezione e ciò che esprimiamo su di essa in base alle forze del nostro pensiero. Quando di fronte a una percezione sovrasensibile cerchiamo il concetto, saliamo dal gradino che Steiner chiama immaginazione a quello dell’ispirazione. Questi termini non devono disturbarci; ne potremmo tranquillamente usare anche altri, son fatti per intendersi. Importanti sono le realtà che essi indicano.

Come nella conoscenza ordinaria la sintesi fra percezione e concetto porta alla conoscenza completa, così nel riconoscimento di ciò che è puramente spirituale la sintesi fra immaginazione (percezione nello spirituale) e ispirazione (formazione del concetto) porta a quella conoscenza degli esseri spirituali che Rudolf Steiner chiama intuizione. Intuizione è l’identificazione degli Esseri nel mondo dello spirito.

Al giorno d’oggi siamo abituati ad attribuire valore solo alle cose visibili esteriormente, in quest’epoca materialistica non sappiamo neanche che esiste lo spirituale, per non parlare di una sua conoscenza oggettiva e scientifica.

Nell’incontro con il Cristo, all’occhio spirituale appare dapprima un’immagine di luce, come una figura luminosa. Se l’uomo affronta una tale apparizione con delle conoscenze scientifico-spirituali, saprà di che si tratta. In caso contrario gli sarà difficile interpretare correttamente o capire il senso di questa esperienza. In questo sta la grande differenza: non conta tanto il vedere qualcosa, quanto il sapere esattamente di che si tratta.

Se uno ha delle percezioni spirituali ma non sa cos’è che sta vedendo, oppure pensa che sia una cosa e invece è un’altra, allora sarebbe meglio se non vedesse affatto. Tutti avevamo delle visioni spirituali quattro o cinquemila anni fa, a quel tempo eravamo tutti «chiaroveggenti» in senso istintivo, senza bisogno di interpretare col pensiero ciò che vedevamo. Era però una chiaroveggenza quasi sognante, non conscia perché non c’era ancora un pensiero individuale ad accompagnarla.

Il visionario di oggi, che ha delle visioni senza andare a colpo sicuro nel creare col suo pensiero i concetti corrispondenti, non è più evoluto di coloro che di visioni non ne hanno. Se facesse dei passi in avanti nella sua capacità di pensare, cioè in direzione dell’autonomia interiore, sparirebbero le visioni perché gli basterebbero le infinite percezioni del mondo sensibile, che sono fatte apposta per allenare il pensiero.

Un adulto sale su una collina con un bimbo di un anno e mezzo. Una volta giunti in cima, vedono infuriare una terribile battaglia sull’altro versante della collina, nella valle. Scorre molto sangue, e si svolgono scene di inaudita violenza. Una cosa spaventosa, pericolosa. L’adulto decide di scappar via immediatamente per sottrarsi al pericolo. E il bambino?

Che cosa vede il bambino mentre guarda nella valle? Tutto e niente. Vede molti colori, i colori delle bandiere, forse, il rosso del sangue che scorre, vede movimenti frenetici… Il bimbo vede tutto. Ma non vede la battaglia, non vede la morte, non vede il pericolo, perché questi possono essere «visti» solo col pensiero. Il bambino ha per ora solo la potenzialità del pensiero, questa in lui non si è ancora attualizzata. È per questo che «vede» tutto, senza però sapere nulla di quel che sta succedendo.

Questo mostra la differenza fondamentale fra il puro vedere e il capire ciò che si vede. Il bimbo vede tutto ma non capisce nulla. In questa stessa situazione si trovano anche molti «chiaroveggenti» dei nostri giorni.

Un Rudolf Steiner non è grande per il fatto che abbia visto o percepito tanti esseri o fenomeni spirituali. Questa è una cosa che ha in comune con molti altri. La sua grandezza consiste nella sua elevata capacità di penetrare ogni percezione sovrasensibile con un pensiero chiaro, allenato scientificamente grazie all’indagine del mondo sensibile. È in grado di discernere, di valutare le percezioni spirituali, per cui ti dice: questo è un angelo buono, questo è un diavolo che non vuol bene all’uomo, questo è un arcangelo – qualcosa di molto diverso da un angelo.

E come si fa a sapere di volta in volta di che si tratta? Che un Essere spirituale abbia queste o quelle intenzioni, questo o quel compito da svolgere, tutto ciò non lo si può semplicemente vedere o percepire, va capito col pensare che interpreta i fenomeni nel contesto complessivo della conduzione del mondo. E il capire è una faccenda del pensiero, non della percezione.

Lucifero, Cristo, Arimane

In base alle sue ricerche spirituali Rudolf Steiner riferisce che nel corso degli ultimi cinque millenni si verifica l’incarnazione sul piano fisico di tre grandi entità spirituali, ciascuna una sola volta.

Agli inizi del terzo millennio avanti Cristo, Lucifero si è incarnato in oriente un’unica volta, introducendo l’intera corrente dell’antica saggezza. Lucifero è un ispiratore di saggezza divina, vale a dire di saggezza che non viene ancora gestita liberamente dall’uomo – proprio come l’antica chiaroveggenza di cui si è parlato poc’anzi.

Duemila anni fa l’umanità ha poi assistito all’unica incarnazione del Cristo, al suo farsi uomo sul piano fisico, con la relativa esperienza della morte.

Nel nostro tempo, all’inizio del terzo millennio, avviene l’altrettanto unica incarnazione di Arimane sul piano fisico, che ha luogo in occidente. Arimane è il dominatore del mondo della materia, l’ispiratore del materialismo.

Qual è il compito di queste tre entità spirituali? Si può dire che questa triade comprende in sé tutti gli impulsi dell’evoluzione umana sulla via di una libertà e di un amore sempre più perfetti.

Lucifero conduce all’unilateralità dello spiritualismo, che induce l’uomo a sottovalutare il mondo della materia.

Arimane porta gli uomini a vivere materialisticamente fino a far loro dimenticare, se non addirittura negare, la realtà dello spirito.

La libertà, l’abbiamo visto, può essere vissuta solo se ci sono delle polarità fra cui muoversi liberamente. Fra questi due grandi tentatori che inducono l’uomo all’unilateralità da un lato e dall’altro, c’è un terzo Essere che dà all’uomo la forza di ristabilire in modi sempre nuovi il giusto equilibrio. Questo Essere viene chiamato «Cristo», che è la traduzione greca dell’ebraico «Messia» e che vuol dire «l’Unto».

Cristico è tutto ciò che media fra i vari estremi della vita, tra le varie polarità e unilateralità. Riequilibrando sempre di nuovo le sue unilateralità, l’uomo ritrova se stesso e vive non solo in modo sempre nuovo l’amore dello spirito per quello strumento indispensabile che è il corpo, ma anche la nostalgia di tutto ciò che è corporeo per lo spirito che lo rende libero. Questa è l’essenza della forza cristica nell’uomo: l’amore della materia per lo spirito e l’amore dello spirito per la materia, l’uno e l’altro nell’uomo e grazie all’uomo.

Queste tre entità accompagnano da sempre l’umanità nel suo cammino. È comprensibile che l’unilateralità spiritualistica abbia dovuto esprimersi prima del Cristo e quella materialistica dopo di lui. Arimane sarebbe stato assolutamente fuori posto, non avrebbe concluso nulla se si fosse incarnato cinquemila anni fa. Se invece osserviamo ad occhi aperti i fenomeni del nostro tempo, dobbiamo dirci che Arimane trova oggi il momento più propizio per la sua incarnazione. È per questo che viene volentieri, ed è per questo che deve venire.

La prima e la seconda venuta del Cristo

Di fronte a queste tre grandi incarnazioni si pone una domanda importante: che differenza c’è la fra la prima venuta del Cristo duemila anni fa e la cosiddetta «seconda venuta» che avviene nel nostro tempo, che è anche il tempo dell’incarnazione fisica di Arimane? Inizialmente sono solo in pochi, stando a Rudolf Steiner, ad incontrare il Cristo «nel mondo eterico» cioè nella visione spirituale. Ma col passar del tempo diverranno sempre più numerosi. Nel corso dei prossimi due o tremila anni questa facoltà potrà diventare patrimonio di tutti.

Nei vangeli la parola greca che indica il ritorno del Cristo è parousia (parusìa); ousia è l’essere; para vuol dire vicino, accanto. Questa parola allora indica una presenza spirituale. Traducendo con «seconda venuta» o «ritorno», si evoca l’impressione errata che il Cristo se ne sia andato via e che adesso stia per ritornare una seconda volta.

La parola greca dice chiaramente che il Cristo è sempre presente nel mondo umano, che la sua presenza spirituale non viene mai meno. L’incontro col Cristo che vive nei mondi spirituali non è da intendersi come un suo ritorno a noi a partire da qualche luogo lontano. La sua seconda venuta consiste nel fatto che questa volta dev’essere l’uomo ad andare verso di lui e ad incontrarlo all’interno della sua coscienza, attraverso un cammino di conoscenza e di amore.

La prima volta si trattava della decisione del Cristo di venire incontro agli uomini senza aspettare la loro risposta, senza aspettare che fossero in grado di apprezzare la sua incarnazione. La prima venuta è un fatto storico compiuto dal Cristo in modo uguale per tutti gli uomini, indipendentemente da ogni presa di posizione conoscitiva o morale da parte degli uomini stessi.

Nella sua seconda venuta avviene proprio l’opposto: qui l’essenziale è ciò che avviene nel pensiero e nel cuore degli uomini, e più precisamente di ogni singolo individuo. La prima venuta del Cristo è il suo operare nell’uomo: i secoli passati avevano lo scopo di trasformare la natura umana di ciascuno di noi così da renderla capace di incontrarlo nel mondo spirituale in modo individuale, grazie alle forze del pensiero e dell’amore. Proprio grazie all’azione del Cristo nella sua anima, ogni uomo viene reso capace di vedere il Cristo col proprio spirito, cioè per mezzo del proprio pensiero intuitivo e grazie alle forze dell’amore.

La «parusìa» e la «fine del mondo»

Nei vangeli il ritorno del Cristo viene messo in rapporto con ciò che è stato tradotto, o chiamato, la fine del mondo. Ci si è spesso chiesti se i primi cristiani fossero convinti che la fine del mondo fosse imminente. Se osserviamo certi messaggi apocalittici presenti nei vangeli, potremmo effettivamente pensare che gli evangelisti credessero ad un imminente ritorno del Cristo «sulle nubi del cielo» per inaugurare la fine del mondo fisico, col giudizio universale dei vivi e dei morti. Questo tipo di interpretazione ha origine però nel materialismo moderno, e non ha niente a che vedere col modo di pensare di allora. Il concetto espresso nei vangeli si riferisce a qualcosa di completamente diverso.

Parlando di fine del mondo e di riapparizione del Cristo «sulle nubi del cielo», gli evangelisti intendono dire: il mondo di Dio Padre, il mondo della natura, ha terminato di determinare in tutto e per tutto anche l’uomo. Dio Padre rinuncia liberamente alla sua onnipotenza dentro l’uomo, per far posto al Figlio che porta l’amore. Il Figlio opera nell’uomo non con onnipotenza, ma con amore, per far posto alla crescente libertà dell’uomo, perché solo se libero questi potrà a sua volta amare.

Quando nella Divina Commedia Virgilio conclude il suo compito di guida, al momento del passaggio dal Purgatorio al «Paradiso terrestre», dice a Dante: «Te sovra te corono e mitrio» (Io ti do la corona dell’autorità politica e la mitra dell’autorità religiosa). E ciò vuol dire: «D’ora in poi tu sei papa e imperatore di te stesso. A partire da questo momento la tua crescita spirituale (papa) e quella sociale (imperatore) è nelle tue mani. Sei chiamato a vivere da uomo libero e indipendente.» Perciò da quel momento in poi Dante viene guidato da Beatrice. La guida esteriore si ritira e comincia quella interiore. Prima del Cristo nell’uomo era presente solo la guida divina che si esprime nelle leggi di natura, allora l’uomo aveva solo in nuce la libertà spirituale individuale.

Con la venuta del Cristo ha avuto luogo una vera e propria «fine del mondo», fine che si ripete nell’uomo ogni volta che questi si lascia afferrare dalle forze cristiche. Il mondo, la natura ha davvero finito, ha cessato di decidere delle sorti dell’uomo. Da padrone che era, il mondo della natura si è fatto servitore dell’uomo, strumento nelle mani della sua libertà.

Tutte le volte in cui l’uomo non fa questa esperienza di vittoria sul mondo, continua a vivere «prima della venuta» del Cristo. Le forze di natura non hanno ancora finito di condizionarlo in tutto e per tutto, non sono ancora state trasformate in strumento per qualcosa di più alto. Continuano ad essere la causa indiscussa di ciò che avviene in lui, svolgono ancora un ruolo di primo piano nell’essere umano. La fine del mondo per quest’uomo non è ancora venuta.

Ma il bello e il buono dell’uomo non è tanto ciò che la natura compie in lui, quanto quel qualcosa «in più» che avviene in termini di libertà e di amore. Quando la libertà e l’amore hanno il sopravvento sulle forze di natura, dentro l’uomo avviene la «fine del mondo». Non si tratta di una fine esteriore, percepibile attraverso i sensi. È qualcosa che avviene all’interno dell’uomo, quando fa l’esperienza della libertà, l’esperienza della «cristificazione» del suo essere. Se l’uomo non provoca in se stesso la fine del mondo, il mondo continua ad agire in lui in tutto e per tutto con i suoi determinismi.

Fino al quarto secolo dopo Cristo ci sono stati degli iniziati cristiani che sapevano bene cosa si intendeva con la «fine del mondo» e la venuta del Cristo «sulle nubi del cielo». Col trascorrere del tempo molte conoscenze sono andate perdute, tutto è stato interpretato materialmente, e questo dà al singolo la possibilità di riscoprire il senso spirituale.

Molte delle immagini dei vangeli, spesso interpretate in modo materialistico, si riferiscono a realtà spirituali. Le «nubi del cielo», su cui il Cristo ritorna, per fare un esempio, non sono nuvole esteriormente visibili. Nel linguaggio esoterico indicano il mondo cosiddetto «eterico», il mondo delle forze vitali. Quello che la scienza dello spirito di Rudolf Steiner definisce «mondo eterico», viene chiamato nei vangeli – con un termine altrettanto tecnico – «nubi del cielo». In entrambi i casi si intende la stessa identica cosa, e cioè un mondo che si manifesta solo alla percezione spirituale. Quando si dice che il Cristo ritornerà sulle nubi del cielo, si vuol dire che Egli si presenterà all’occhio dello spirito, cioè che non potrà più essere visto e vissuto sul piano fisico come duemila anni fa.

Questi esempi ci mostrano come la nostra comprensione dei testi evangelici sia solo agli inizi. In un primo tempo gli esseri umani poterono avere solo un rapporto di «fede» con questi testi. Ora possiamo sempre più affrontarli con una vera scienza dello spirituale.

Due millenni, solo un inizio

In relazione alla seconda venuta del Cristo, che introduce un nuovo livello nell’evoluzione umana, possiamo capire in modo nuovo anche il cristianesimo tradizionale. L’essenza del cristianesimo trascorso non è ciò che gli uomini hanno capito o non capito del fatto avvenuto duemila anni fa, ma è il fatto stesso. L’essenziale del cristianesimo è l’essere del Cristo stesso e il suo operare: chi Lui è e ciò che Lui compie.

La realtà più profonda degli ultimi duemila anni consiste allora in ciò che il Cristo stesso ha compiuto nell’umanità, nelle profondità degli animi umani. Le idee che gli uomini si sono fatti su ciò che Egli è o compie, possono essere considerate un fenomeno secondario. La teologia, i dogmi, le cerimonie religiose: tutto questo è opera dell’uomo, non del Cristo.

Il Cristo sapeva bene che per suscitare nell’uomo le giuste forze di conoscenza e di amore era prima necessario crearne in lui le condizioni. L’essenza del cristianesimo trascorso è l’azione amorevole del Cristo avvenuta nel profondo di ogni uomo, che lo ha reso capace di prendere posizione in modo individuale e libero nei confronti dell’Essere e dell’operare del Cristo.

Cristo «Signore del karma»

Con la sua seconda venuta nell’umanità il Cristo diventa, per usare un’espressione di Rudolf Steiner, il Signore del karma degli uomini, il reggitore cioè di tutti i destini dei singoli uomini e dell’umanità intera. Anche questo non è un evento esterno, ma qualcosa che avviene principalmente nella coscienza degli uomini, quando cominciano a prendere sul serio i misteri del karma, cioè degli influssi gli uni sugli altri e sull’evoluzione della Terra.

Il karma è l’infinitamente complicato reticolo dei destini umani. Noi siamo, oltre la fisicità, membra di un unico organismo spirituale che il cristianesimo chiama «corpo mistico del Cristo». Ci influenziamo reciprocamente nei modi più profondi e diversi, non meno di come fanno le varie membra, i vari organi di un organismo vivente.

Fino al ventesimo secolo, narra Rudolf Steiner, alla loro morte gli uomini venivano accolti da Mosè che tiene in mano le tavole della Legge. Il bilancio morale della vita appena conclusa veniva fatto secondo lo spirito della Legge Mosaica. L’uomo veniva allora guidato in base ad una legge fondata sui dieci comandamenti e sull’appartenenza ad un popolo: in base alla sua fedeltà ad entrambi egli veniva valutato.

A partire dal ventesimo secolo, i defunti non incontrano più dopo la morte Mosè con le sue tavole della Legge. In fatto di bene e male morale non basta più sottomettersi alle leggi proposte da un’autorità esterna all’uomo. Non basta più chiedersi: ho ubbidito alla legge e ai comandamenti che l’autorità mi ha inculcato? La domanda che assume sempre più un’importanza fondamentale è quella che chiede: ho fatto liberamente tutto il bene che potevo? Le mie azioni sono state permeate d’amore? Ho realizzato la missione individuale del mio Io?

Grazie al fatto che il Cristo diviene il signore del karma, l’umanità sta passando dal karma della giustizia al karma dell’amore. Sta per finire il vivere fondato unicamente sul diritto e sulla legge, in cui ognuno doveva rispettare i limiti. Comincia un karma d’amore, dove l’unica misura è il sovrappiù che ci si dà a vicenda, dato che l’amore non conosce limiti. Quando l’uomo fa posto al Cristo nel suo cuore, l’antico amore della legge fa posto sempre più alla nuova legge dell’amore.

«Ama il prossimo tuo come te stesso» vuol dire: come l’amore che provi per te stesso è illimitato – ed è bene che lo sia – così non porre limiti all’amore che nutri per il tuo prossimo. Ama il tuo prossimo, perché lui è un essere solo con te. Siete tutti membra di un unico organismo. Perciò il Cristo dice: vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda come io vi ho amati.

La conseguenza ultima di questo pensiero è che stiamo andando verso un futuro in cui sarà impossibile che un individuo sia felice se non lo saranno anche tutti gli altri – come nessun organo può essere sano, se non è sano l’intero organismo. Il peccato originale dell’egoismo ha «smembrato» gli uomini isolandoli gli uni dagli altri; il Signore del karma li aiuta a ridiventare membra gli uni degli altri.

La prima parte dell’evoluzione è servita a differenziare sempre più l’umanità. In tal modo ognuno di noi ha conseguito la propria autonomia. L’umanità, che inizialmente costituiva un tutt’uno, è stata scomposta in singoli individui, ciascuno chiuso nel proprio egoismo personale. Ognuno ha avuto così la possibilità di definirsi come «io» e di viversi come un’unità a sé stante.

La seconda parte dell’evoluzione ha il compito di riportare le membra disperse all’unità, mediante l’esercizio della libertà individuale e dell’amore vicendevole. L’uomo si dice: finora ho considerato gli altri uomini come esseri al di fuori di me, individuando il mio vantaggio nel loro svantaggio. Il Signore del karma ora mi dice: «Ciò che hai fatto al più piccolo lo hai fatto a me.» Dentro ogni uomo, «il più piccolo» è ciò che è nato per ultimo, cioè l’Io individuale. Ecco allora che la frase del Cristo significa: ciò che avrete fatto per amore dell’Io che è in ogni uomo, per amore della libertà dell’altro, l’avrete fatto al grande Io dell’umanità, all’Io del Cristo. Ciò che viene fatto ad un membro del corpo del Cristo, viene fatto al corpo intero, al Cristo stesso.

A partire dal ventesimo secolo ogni individuo che si incarna porta sulla Terra nel suo Io spirituale un piano karmico completamente nuovo. Il nostro Io superiore, e soprattutto quello dei bambini incarnatisi tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo, viene sulla Terra seguendo l’ispirazione del Signore del karma. Non gli basta più pareggiare il proprio karma personale, ma vuole che la sua vita aiuti a crescere anche tutti gli altri uomini.

Il karma è quel piano divino sulla vita del singolo e dell’umanità che consente a ognuno di progredire nel miglior modo possibile. È un progetto pieno di sapienza e di amore. Ognuno può far sue tutte le virtù umane, una dopo l’altra, nel corso di un lungo cammino.

Occorre una fantasia morale divina per armonizzare i percorsi karmici, i destini di tutti gli uomini in modo tale da favorire sia l’evoluzione di tutti sia quella di ognuno in particolare. Pensiamo a cosa vuol dire armonizzare fra loro i cammini esteriori e interiori anche solo di due persone. Nulla avviene a caso. Ogni passo, ogni evento, ogni incontro deve essere quello giusto per tutti e due. È un calcolo così complicato, che nessun uomo è in grado di farlo.

Il Cristo come Signore del karma richiede che la via percorsa da un individuo sia buona e favorevole anche per gli altri. Il cammino del mio prossimo deve starmi a cuore quanto il mio. Ciò che mi giova, mi giova solo nella misura in cui giova anche all’altro. L’ispiratore di questa fantasia morale vasta e profonda è il Cristo, l’Essere pieno di amore, il Signore del karma dell’umanità che diventa sempre più un organismo vivente. L’esperienza della sua presenza, del suo «ritorno» nella coscienza morale dell’uomo consiste nel nostro prendere coscienza delle energie di amore che vivono in tutti gli uomini.

L’uomo si incontra spiritualmente col Signore del karma quando vuole il bene del proprio prossimo con la stessa intensità con cui vuole il proprio. Con queste forze di amore la sua coscienza morale si risveglia alla sua presenza e lo contempla con gli occhi del suo spirito. Il Signore dell’amore universale, della reciproca appartenenza, si rende visibile a quella «vista» che solo l’amore può dare.

Cristo Signore del karma, si legge nel vangelo, verrà «sulle nubi cielo per giudicare i vivi e i morti.» Solo lui infatti può dirci quando un uomo è vivo e quando è morto, perché solo l’amore ci rende vivi, e morti siamo quando non amiamo. Il Cristo dice all’uomo: se ti stacchi dal corpo spirituale dell’umanità, se vivi nell’isolamento dell’egoismo, allora sei morto, perché lasci il corpo che ti dà vita. La definizione di Rudolf Steiner «Cristo, Signore del karma» corrisponde bene alle parole del vangelo che parlano di Colui che giudica col criterio dell’amore se un uomo è vivo o morto.

Il karma dei bisogni e dei talenti

Ma, in concreto, come dev’essere il cammino del singolo per essere utile a tutti? In futuro gli uomini riusciranno a capire sempre meglio che il karma dell’umanità consiste nell’assoluta corrispondenza fra i talenti di ogni individuo e i bisogni di tutti gli altri, in particolare di quelli con i quali condivide la vita quotidiana. Il Cristo come Signore del karma lo incontriamo nella gioia di dedicare i nostri talenti all’appagamento dei bisogni altrui.

Se l’umanità è davvero un organismo vivente, allora il karma dell’umanità è come quello di un organismo: è la perfetta corrispondenza tra la salute dei singoli membri e la salute di tutto l’organismo. Lo sviluppo dei «talenti», delle funzioni dei singoli organi, è al contempo l’appagamento dei «bisogni» di tutto l’organismo. Il karma dell’umanità è la salute del corpo mistico del Cristo.

Ma come faccio io a sapere quali sono i miei talenti specifici? Qual è il criterio di valutazione delle mie particolari capacità? Sono i bisogni delle persone a me legate karmicamente! Questo però è solo un lato della medaglia: se ci fosse solo questo, cadremmo facilmente vittima di ricatti. I bisogni a cui gli altri attribuiscono valore sono infiniti, ed io non posso avere il compito di soddisfarli tutti.

È per questo che ci dev’essere anche il criterio opposto, per cui ci si chiede: come faccio a sapere quali bisogni effettivi degli altri dipendono da me per la loro legittima soddisfazione? E la risposta è: li posso individuare solo nella misura in cui conosco bene i miei talenti. Per quel che mi riguarda, le persone che mi stanno intorno hanno diritto alla soddisfazione solo di quei bisogni per i quali io dispongo dei talenti corrispondenti. I bisogni per cui io non ho nessun talento non fanno direttamente parte del mio karma.

E con questo si è solo accennato a qualcosa su cui si potrebbe riflettere all’infinito. Questo modo di vedere il karma – la corrispondenza fra talenti e bisogni – può risultare molto proficuo per la vita. Quante volte siamo unilaterali perché prendiamo in considerazione solo i nostri talenti senza vederli nella loro oggettività, perché ci manca quel criterio per valutarli adeguatamente che sono i bisogni degli altri. E quante volte siamo unilaterali perché vediamo solo i bisogni altrui e ci esauriamo nello sforzo di soddisfarli tutti per piacere a tutti, senza valutarli in base ai nostri talenti, in base alle energie che abbiamo realmente a disposizione.

Anche la polarità dei talenti e dei bisogni ci mostra l’appartenenza e la dipendenza reciproche dei nostri destini. Da un lato c’è quello che siamo noi, e dall’altro il modo di essere dei nostri simili. Proprio per il fatto di appartenerci karmicamente, è necessario tendere verso una corrispondenza sempre più perfetta fra i bisogni di di tutti e i talenti di ognuno.

La legge del karma è la legge dell’amore. Il Signore del karma è all’opera per far sì che i talenti di una persona attirino coloro i cui bisogni possono venir soddisfatti al meglio dai suoi talenti – e che i suoi bisogni attirino tutti e solo coloro che hanno i talenti per soddisfarli nel modo migliore. La perfezione dell’amore consiste nella perfetta corrispondenza fra l’esplicazione dei talenti di ogni individuo e l’appagamento dei bisogni di tutti. La globalità dei talenti dell’organismo dell’umanità corrisponde alla globalità dei bisogni degli uomini stessi. Quello che uno ha come talento, l’altro ce l’ha come bisogno.

Dante scrive la Divina Commedia e, sviluppando il proprio talento unico, fa sorgere in tanti uomini il bisogno della Divina Commedia. Questi uomini diventano coscienti del fatto che questo bisogno «appartiene» loro, che il talento di Dante fa parte anche di loro. Una madre ama il suo bambino: ha il talento di essere «madre» in modo completamente diverso da qualsiasi altra madre, perché i «bisogni» di quel bambino che l’ha scelta come madre sono completamente diversi da quelli di ogni altro bambino.

Cristo ritorna «sulle nubi del cielo»

L’esperienza spirituale del Cristo che ritorna nell’umanità si manifesta in diverse esperienze che l’uomo può fare. Rudolf Steiner ne sottolinea in particolare tre:

1. la già citata visione del Cristo in forma eterica, come figura di luce;

2. la percezione del corpo eterico o di luce degli altri uomini;

3. la visione del pareggio karmico di un’azione compiuta.

Vogliamo dedicare alcune riflessioni a ciascuna di queste esperienze:

1. Abbiamo già accennato alla visione del Cristo nel mondo eterico, cioè nel mondo della vita. Secondo Steiner già negli anni trenta e quaranta del ventesimo secolo devono esserci state delle persone che hanno fatto l’esperienza del Cristo sul piano eterico. Ci si può chiedere: chi erano queste persone? Sono veramente esistite?

Ci sono numerosi racconti di esperienze che possono essere interpretate come incontri con il Cristo nel mondo spirituale. Steiner ha però anche fatto notare che è possibile che il ritorno del Cristo passi inosservato.

Forse ci sono state delle persone, magari in guerra o nei campi di concentramento, che hanno vissuto un incontro reale con l’Essere pieno di amore al momento della morte, negli ultimi istanti della loro vita. Forse hanno varcato la soglia della morte senza poter comunicare a nessuno questa loro esperienza. Forse altre persone che fanno questa esperienza se la tengono per sé, perché credono che parlandone si esporrebbero al ridicolo e allo scherno da parte dei loro simili. E forse ve ne sono di altre che hanno vissuto un incontro col Cristo senza avere la più pallida idea a livello cosciente di chi è entrato in contatto con loro.

2. Il ritorno del Cristo nella coscienza degli uomini li rende capaci di vedere un corpo di luce lungo i contorni del corpo fisico di un’altra persona. Anche questo fenomeno ha iniziato ad essere possibile nel secolo scorso. Gli uomini cominciano a vedere il corpo eterico degli altri – non ancora il corpo astrale, cioè l’anima, e nemmeno lo spirito, cioè l’Io individuale. Chi vede il corpo eterico di un altro può prendere piena coscienza del fatto che gli uomini non sono degli esseri meramente materiali, ma che nell’involucro di materia alberga un essere di luce.

Fa parte dell’incontro col Cristo, col Signore del karma che riappare fra gli uomini, il nostro vivere il prossimo non solo nella sua manifestazione sensibile, ma anche come individualità spirituale. Quando l’altro ci appare alla contemplazione «immaginativa» come pervaso da un corpo di luce, l’incontro con la sua essenza spirituale diventa un’esperienza reale. Questa esperienza è l’inizio della riconnessione fra loro degli esseri umani, che li trasforma tutti nel corpo spirituale del Cristo risorto.

3. Un terzo aspetto dell’incontro con il Cristo è questo: sempre più persone, dopo aver compiuto una particolare azione, sentono il bisogno di fermarsi per un attimo a riflettere su ciò che hanno fatto – e mentre riflettono compare loro davanti agli occhi spirituali una scena in cui vedono se stessi compiere un’azione non mai compiuta. La compiranno in futuro, perché si tratta del pareggio karmico dell’azione appena fatta. Le forze karmiche generate dall’azione appena realizzata creano anche le energie per il corrispondente pareggio. Ogni azione è parziale, è manchevole in infiniti modi. Ciò fa sorgere il desiderio e le forze di completarla il più possibile nella logica dell’amore.

In questo modo l’uomo raggiunge un livello del tutto nuovo nell’evoluzione della coscienza morale. Egli diviene un artista morale, quando in lui non parla più soltanto la voce soggettiva della coscienza, ma anche le forze oggettive del karma che gli presagiscono nella visione quello che non potrà fare a meno di fare in futuro. La coscienza morale diventa oggettiva, intridendosi di quelle forze di amore che il Signore del karma è venuto a portare.

In Poesia e verità Goethe racconta un singolare episodio della sua vita. Un’amicizia profonda lo legava alla figlia di un pastore protestante. Questa relazione, come molte altre, ebbe un giorno il suo termine. Goethe descrive quanto sofferto fu il momento della separazione. L’amicizia sentita indica che i due sono legati da forze karmiche profonde. Goethe è già a cavallo, pronto per partire, e lei, in lacrime, gli prende la mano un’ultima volta…

Lui si allontana ed ora descrive come all’improvviso veda se stesso cavalcare nella direzione opposta, verso la casa di lei – e vede anche esattamente com’è vestito. Scrive che questa visione, che è rapidamente svanita, gli ha recato conforto. Otto anni dopo, aggiunge, le circostanze lo riportano presso questa famiglia. All’improvviso, mentre è in viaggio a cavallo, si accorge di indossare esattamente quegli abiti che si era visto addosso otto anni prima.

Goethe precursore dei misteri del Cristo quale Signore del karma! Qual era il karma di quell’amicizia? Come ogni relazione umana, era un conto karmico del tutto aperto. Nessun karma umano è compiuto prima che venga la fine dei tempi. Ogni rapporto umano è un conto sempre aperto. E Goethe, da uomo sensibile e profondo qual era, è in grado – proprio perché quella separazione gli aveva procurato profonda sofferenza – di fare l’esperienza dell’amore del Signore del karma, che lo conforta con la visione dell’occasione che gli verrà offerta di compensare almeno un po’ un’amicizia che gli pare infinitamente manchevole.

Il desiderio del suo cuore era di ritornare per dire: è vero che ci lasciamo, ma solo esteriormente. In realtà, nel mondo dell’invisibile, ci apparteniamo per sempre. Il cuore trafitto dall’assenza dell’altro, dal senso di appartenenza reciproca di tutti gli uomini, genera le forze d’amore che fanno sorgere davanti all’occhio spirituale ogni incontro futuro che ci aspetta, come riscatto di ogni incontro passato dalla sua inevitabile misura di solitudine e di egoismo.

Quinto capitolo

ARIMANE È IN ARRIVO!

Nel nostro tempo ha inizio il ritornare del Cristo nella coscienza intellettiva e morale degli uomini. Questo fenomeno di vasta portata non può verificarsi senza che ci sia anche la corrispondente controforza. Questa viene offerta dall’entità che la scienza dello spirito chiama Arimane, e che ispira agli uomini la negazione di tutto ciò che è spirituale.

Anche Arimane si incarna una sola volta, e ciò avviene all’inizio del terzo millennio dopo Cristo. Ai nostri giorni sono in corso i più intensi preparativi per dare alla sua incarnazione il massimo successo.

L’impulso cristico mira all’equilibrio fra spirito e materia in tutti i campi della vita. L’uomo vive nella libertà e nell’amore nella misura in cui lo spirito in lui ama e redime il mondo della materia, e quando tutto ciò che è materiale in lui tende verso lo spirito. La nostra epoca vede culminare il materialismo in tutti i campi della vita. Mai prima d’ora Arimane ha avuto un tale successo nell’umanità.

Arimane il maligno?

È importante esaminare le «macchinazioni» – come suol chiamarle Rudolf Steiner – che Arimane sta mettendo in atto per preparare al meglio la sua incarnazione. Si tratta di manovre in atto da tempo e che raggiungono il loro culmine all’alba del nuovo millennio. È per ognuno di noi importante conoscere quei modi d’azione di Arimane che ci riguardano tutti. Poco proficuo è invece speculare su dove e quando di preciso si incarni e chi esattamente sarà il portatore umano di questa energia sovrumana.

Il conoscere già esattamente tutti i dettagli a questo riguardo potrebbe rivelarsi lesivo della libertà. Chi si dedica alla domanda sul «chi» e sul «dove» fa il gioco di Arimane, per due motivi principali: prima di tutto gli uomini non si accorderanno mai sul chi e sul dove, e il porre al centro questa domanda non farà che creare lotte e partiti: in secondo luogo il concentrarsi sul chi e sul dove distoglie l’attenzione dal fatto che Arimane è oggi all’opera in tutti e dappertutto. E il distrarre da questo fatto comporterebbe il massimo di successo da parte sua.

Le macchinazioni di Arimane sono dunque fenomeni culturali che ci coinvolgono tutti e direttamente, giorno per giorno. Per questo è importante distinguere bene tra i modi in cui l’uomo si «arimanizza» e quelli in cui si «cristifica». È questa la grande alternativa della libertà che si acuisce sempre più nel nostro tempo.

Come premessa è necessario sapere che Arimane fa di tutto per toglierci la libertà e rimetterci in balia delle forze della natura. È l’astuzia, la scaltrezza in persona, un vero genio. La sua arte più raffinata consiste nel far sembrare buono ciò che è cattivo per l’uomo, nel presentare come vero ciò che è falso, nello spacciare per libertà ciò che con la libertà non ha nulla a che fare.

Nella libertà umana si forma un nuovo modo di creare, paragonabile solo alla creazione divina dal nulla. Si tratta dell’energia creativa pura e originaria dell’uomo stesso, che si esprime nel pensiero e nella volontà illuminata dal pensiero. Se l’uomo non fa questa esperienza della libertà, ricade al livello degli animali.

Un esempio significativo degli inganni a cui siamo esposti a questo proposito è il fatto che oggi sono in molti a confondere spontaneità con libertà. Dal momento che attualmente, in base alle teoria darwinistica dell’evoluzione, l’uomo viene sempre più visto come «animale superiore», in molte persone è sorta la convinzione che essere liberi e essere spontanei sia la stessa cosa.

Si crede che per essere liberi basti abbandonarsi ai propri impulsi, agli istinti emotivi, lasciando che essi si esprimano così come sono. Essere libero significa per molti semplicemente lasciarsi andare. Dietro questo modo di pensare e di vivere si cela una raffinata manovra di Arimane, poiché in questo modo l’uomo viene trasformato in animale senza per niente accorgersene. La spontaneità di cui oggi si parla è spesso una spontaneità meramente istintiva, volta a minare sistematicamente la forza della volontà, cioè la libertà, così che l’uomo si riduca a natura.

All’attuale grado di sviluppo dell’umanità, la vitalità e la forza fisiche raggiungono il loro culmine verso la fine dei vent’anni. Dato che a quest’età la costituzione fisica è nel pieno delle sue forze, possiamo presumere che Arimane svolgerà la sua più intensa attività da incarnato attraverso un corpo di quasi trent’anni. Arimane vorrà diffondere una cultura corrispondente alla maturità psichica di un trentenne. È questa l’età in cui l’uomo dispone al massimo di forza fisica e aspira massimamente al potere terreno. Ma è anche l’età in cui è più forte la tentazione di abbandonarsi alle forze fisiche, cioè agli istinti e agli impulsi della natura.

Secondo Rudolf Steiner, c’è una corrispondenza fra l’incarnazione fisica di Arimane, il ritorno spirituale del Cristo e l’incarnazione di Lucifero avvenuta agli inizi del III millennio a.C. Come nella nostra epoca Arimane dà l’impulso al materialismo unilaterale, così a quei tempi Lucifero ha diffuso in tutta l’umanità l’antica sapienza unilateralmente spiritualistica.

Lucifero introdusse in oriente una corrente di saggezza in cui mancava la dimensione della moralità. In questo consiste la sua unilateralità «luciferina». Ancora per l’arte greca, per esempio nell’Odissea e nell’Iliade di Omero, ci si può chiedere: ma nel comportamento di questi dei, dov’è la dimensione morale del bene e del male? In realtà non esiste.

La corrente spirituale dell’ebraismo è stata la prima ad introdurre la coscienza del bene e del male nella storia e nell’agire umani. La Legge Mosaica è il contributo particolare del popolo ebraico che prepara la venuta del Messia. Lucifero ha conferito all’umanità contenuti di saggezza sublimi però privi di moralità; Arimane assomma in sé tutti gli impulsi del potere terreno. Pensiero (saggezza) e volontà (potere) – è questa la più grande polarità dell’evoluzione umana. Lucifero è stato l’ispiratore del pensiero orientale intriso di saggezza, che rappresenta il passato dell’umanità. Arimane introduce sempre più la corrente della volontà di potere (Wille zur Macht, come la chiama Nietzsche), e che in futuro si affermerà sempre più soprattutto in occidente.

L’incarnazione di Arimane ci vuole

Anche l’incarnazione e l’operare di Arimane hanno un significato positivo in quanto fanno parte indispensabile dell’evoluzione umana. Si tratta allora di vedere quali passi in avanti l’uomo può fare proprio grazie al confronto con Arimane: per mezzo suo verrà offerta al pensiero di ognuno una serie di percezioni che possono far capire meglio la natura del potere terreno e del male umano.

Se è vero che Arimane vuole indurre l’uomo a trascurare completamente lo spirito, allora ad ogni uomo dev’essere «mostrato» – in base alla percezione oggettiva e non a dogmi o a speculazioni astratte – a che cosa può e non può portare il materialismo. Sulla scorta del «fenomeno Arimane», ognuno potrà fare le riflessioni che è in grado di fare. Per questo è necessario che il fenomeno Arimane – come è avvenuto per il fenomeno Cristo e per il fenomeno Lucifero – si renda fisicamente percepibile: per lasciare la presa di posizione del pensiero alla libertà di ognuno.

Chi non si accorge della disumanizzazione dell’uomo che avviene mediante la materializzazione della vita, continuerà a rimanere abbagliato da Arimane e dalla fissazione sulle meraviglie della scienza e della tecnica. Naturalmente, chi mira al potere di questo mondo, alla ricchezza e al prestigio, dirà che non c’è mai stato niente di più grande e degno di essere imitato.

Ad ognuno dunque dev’essere offerta la percezione del fenomeno di Arimane affinché possa liberamente prendere posizione. Si può chiedere se non siano svantaggiati quelli che non sono «contemporanei» di Arimane e che quindi non potranno percepire direttamente la sua «persona», la sua parola e le sue azioni. Come risposta vale ciò a cui è stato accennato prima: non è importante per la propria crescita «individuare» l’individuo in cui è incarnato Arimane – in lui solo, in tutti gli altri no. Importante è individuare quei suoi modi di operare che sono in corso da secoli, in ogni parte della Terra e in ogni uomo. Questo tipo di percezione viene offerto ugualmente a tutti gli uomini.

Ma anche il fenomeno unico dell’incarnazione di Arimane vera e propria in un singolo individuo può venir tramandato dai contemporanei che lo percepiscono – se aggiungono alle percezioni l’interpretazione giusta! – così come è stato fatto per l’unica incarnazione visibile del Cristo. Lo stesso vale anche per tutti gli altri avvenimenti storici. La contemporaneità non è un fattore determinante: non occorre che ciascuno abbia la percezione diretta e immediata di tutto. Le percezioni possono essere comunicate oggettivamente dagli uni agli altri.

In questo modo è data a ogni uomo la possibilità di prendere posizione nei confronti dell’operare di Arimane. Ognuno deve decidere che cosa pensa di una vita terrena vissuta all’insegna del motto «Il mio regno è di questo mondo».

Il mistero del male, dell’uomo che scivola nell’abisso della non libertà in quanto si abbandona ai meccanismi della natura, viene espresso nell’Apocalisse per mezzo del mistero della bestia. Sulla via del disfacimento arimaniano dell’umano, l’uomo viene mineralizzato nel suo spirito, ridotto a vegetare nella sua anima e a essere animalescamente istintivo nel suo corpo. L’autore dell’Apocalisse presenta queste realtà con l’immagine della prima e della seconda morte.

La prima fase di evoluzione arimanica consiste nell’omissione da parte dell’uomo dell’esercizio della sua libertà, omissione che avviene giorno dopo giorno, pur senza perdere dapprima la sua capacità di fare scelte libere. Ma la conseguenza estrema di questo sistematico omettere porta a un’altra soglia dell’evoluzione – e precisamente la più tragica che ci si possa immaginare. È il fatto che un uomo nel corso del tempo può giungere a disfare la stessa facoltà della libertà. Non solo omette di fare scelte libere – pur essendone capace – ma perde alla fine anche la capacità di farle. Fino a quel punto non era libero per libera scelta, a partire da quel punto non può più fare nessuna scelta libera.

E quando l’uomo non è più capace di scegliere liberamente, è sceso al livello dell’animale, poiché la differenza fondamentale fra uomo e animale risiede nel fatto che quest’ultimo non dispone della potenzialità di libertà, mentre l’uomo è essenzialmente dotato della facoltà, della capacità di agire liberamente, se lo vuole.

A fronte di questa dinamica dell’esito finale dell’evoluzione dell’uomo, spunta il già ricordato numero 666, che l’Apocalisse chiama il numero della bestia, o dell’animale.

La prima manifestazione dell’impulso arimaniano nell’umanità del settimo secolo – attorno al 666 – , all’epoca della nascita dell’islamismo, coinvolgeva soprattutto il pensiero, si presentava più che altro come una concezione filosofica del mondo: si ripresenta lo spirito che reggeva l’umanità prima di Cristo, lo spirito della giustizia e della legge. Della divinità si conosce solo il Padre, non il Figlio e lo Spirito Santo. Tutto viene attribuito al determinismo di natura, all’inesorabile onnipotenza di Dio.

La seconda grande manifestazione dell’impulso arimaniano avvenne, come già accennavo, nel diciannovesimo secolo (666 x 2 = 1332), quando i Templari furono annientati da Filippo il Bello. Qui Arimane ha catturato, oltre al pensiero, anche la sensibilità dell’uomo. Nella Divina Commedia Dante accenna più volte, per chi sa leggere anche tra le righe, il mistero che avvolge i Templari e Filippo il Bello.

La terza volta, a partire dal 1998 (666 x 3 = 1998), l’elemento arimaniano, proprio in virtù dei preparativi di Arimane alla sua imminente incarnazione, agisce nel pensiero, nella sensibilità e nella volontà dell’uomo, cioè coinvolge la totalità dell’uomo.

Le «macchinazioni» di Arimane

A questo punto vogliamo occuparci più da vicino delle principali «macchinazioni» di Arimane che sono in corso nel nostro tempo. Esse sono dei fenomeni culturali che si possono osservare dappertutto, poiché sono componenti essenziali alla «civiltà» odierna.

L’operare di Arimane può essere ricondotto a una triade: al modo in cui interviene nella vita culturale, in quella politico-giuridica e in quella economica.

Per quanto riguarda il primo aspetto, abbiamo le scienze naturali di stampo materialistico: l’interpretazione dell’universo come una grande macchina e dell’uomo come dominato in tutto e per tutto dal fattore biologico.

Il secondo è il nazionalismo, la recrudescenza delle idee nazionalistiche, di tutto ciò che divide gli uomini in sette, in partiti o in gruppi più o meno grandi.

E per terzo: l’orientamento utilitaristico e la sete di guadagno in ambito economico, l’inasprimento della concorrenza, della lotta per la sopravvivenza e della fissazione sul denaro.

Questa triade trova a sua volta il suo fondamento in un quarto aspetto, che Rudolf Steiner chiama la «la lettura semplice dei vangeli». Si tratta di una religione che vuole restare bambina e che si oppone ad ogni indagine scientifica dei mondi spirituali.

Il materialismo delle scienze naturali

Il materialismo consiste nel fatto che l’uomo non sa più che il mondo in cui viviamo è popolato da esseri spirituali. L’uomo moderno guarda in alto – sia ad occhio nudo che con il telescopio – come se lassù ci fossero esclusivamente dei corpi materiali che compiono degli strani e complicati movimenti.

Un Tommaso d’Aquino, un Dante sapevano ancora di quelle che chiamano le «intelligenze» dei corpi celesti. Con esse intendevano le gerarchie angeliche, di cui pianeti e stelle sono i corpi visibili, le manifestazioni all’esterno. Per loro era ancora scontato che l’universo è abitato da Esseri spirituali che pensano e sono all’opera in tutto ciò che avviene nel mondo.

Una cosa simile succede anche a noi, come dicevamo, quando ci troviamo davanti a una persona: non pensiamo di avere a che fare solo con un pezzo di materia – che allora sarebbe un cadavere –, sappiamo bene che il corpo che vediamo è l’espressione di un essere «che non si vede», dotato di pensieri e sentimenti.

Che cos’è allora il Sole? È il corpo visibile di una miriade di esseri spirituali. Ciò che vediamo grazie ad un’analisi spettrale è la sua fisicità, anche se qui non si tratta di materia ponderabile come quella sulla Terra. Secondo Rudolf Steiner il Sole – anche da un punto di vista fisico – è costituito da «antimateria» che, osservata attraverso l’atmosfera terrestre, produce gli «effetti luminosi» che vengono poi interpretati in un certo modo dal pensiero dell’uomo. Anche se attribuiamo a questi effetti luminosi un’origine materiale, dato che li percepiamo visivamente, resta pur vero che si tratta della «fisicità» di esseri spirituali.

Nel cristianesimo tradizionale, e anche nelle altre religioni, si è sempre parlato di queste entità spirituali – angeli, arcangeli ecc. L’uomo «religioso» di oggi il più delle volte non distingue più tra i vari tipi di esseri spirituali, al massimo è vagamente convinto che «Dio» esista. Arimane non può che godere del fatto che gli uomini abbiano questa convinzione. Per lui è importante che restino convinti a livello puramente teorico dell’esistenza di Dio, perché così possono continuare a vivere come se lo spirito non esistesse. Lo spiritualismo teorico è la forma migliore di camuffamento del materialismo pratico. Ed è la vita pratica che conta per Arimane.

L’uomo ritrova il suo equilibrio interiore, vince la tentazione di Arimane quando si accorge della differenza che c’è fra l’affermazione teorica dell’esistenza di Dio e le conseguenze che questa convinzione può provocare nella vita. A che serve infatti sostenere l’esistenza di Dio se poi si vive come se non ci fosse? Il giusto equilibrio tra spiritualismo e materialismo sta nello sforzo di far combaciare tra loro il più possibile la teoria e la prassi di vita.

La necessità di una scienza dello spirito basata non su una teoria astratta, ma su una reale percezione del sovrasensibile, risulta dal fatto che l’uomo moderno vive come reale solo ciò che percepisce come qualcosa che è fuori di lui. Ciò a cui deve semplicemente credere non costituisce più per lui un’esperienza che incide sulla vita, rimane una teoria astratta che non c’entra, per esempio, col modo di usare il proprio denaro.

Steiner fa osservare che anche se l’uomo d’oggi, nella sua coscienza diurna, fa come se lo spirituale non esistesse, ogni notte sospende questo stato di coscienza. E che cosa succede durante il sonno? Lo spirito umano vive – pur senza averne coscienza – in comunione con gli esseri spirituali! Durante il sonno la comunicazione con loro è molto intensa. Poi l’uomo si sveglia e riprende a vivere come se questi esseri non esistessero affatto…

Questa contraddizione produce un profondo conflitto interiore nell’uomo d’oggi, che è anche la causa più profonda di tante malattie, di cui spesso i medici non riescono a identificare la causa «specifica». Il materialismo di oggi crea una forte lacerazione interiore dell’uomo nei confronti di se stesso: di giorno egli ignora lo spirituale, vive come se non ci fosse, mentre di notte lo vive come la cosa più reale, più importante di tutte. Questa forma moderna di «schizofrenia» gli tormenta l’anima, anche se in modo inconsapevole, e indebolisce sempre più anche la sua fisicità.

La scienza moderna come tappa evolutiva

La concezione materialistica del mondo è in se stessa qualcosa di negativo? Possiamo rispondere: la razionalità moderna che l’ha creata costituisce un bene per l’uomo. Nel prendere in considerazione solo il lato materiale del mondo, l’uomo si sente libero nei suoi confronti.

Allora ci diciamo che la scienza moderna non è affatto nata per trasmettere all’uomo una conoscenza oggettiva della realtà, al contrario! L’esperienza della libertà è dovuto proprio al fatto che l’uomo ha svuotato il mondo di ogni contenuto di realtà oggettiva.

È per via della libertà che il nostro approccio alla realtà si è ridotto al minimo. La concezione materialistica del mondo è sorta nell’umanità per consentire all’uomo la libertà. Ciò presuppone che alla coscienza venga tolto tutto ciò che è vivo, animico e spirituale. Nella coscienza dell’uomo è rimasto solo l’elemento morto del mondo, perché solo questo lascia del tutto liberi.

Si sbaglia quindi se si pensa che moderna ci permetta di penetrare meglio e più profondamente nella realtà del mondo. È vero proprio il contrario: la scientificità moderna fa sì che la realtà smetta di agire nella nostra coscienza nella sua vera sostanzialità. In questo senso la scienza moderna è una presa di distanza dalla realtà da parte dell’uomo. Prendere distanza dalla realtà significa mettersi al di fuori di essa per poterla descrivere e dominare dall’esterno – solo nella sua riproducibilità – senza farsene contagiare. Questo rende l’uomo libero e nello stesso tempo lontano dalla realtà.

Testa senza cuore

Fra gli intrighi più importanti di Arimane connessi a questa prima «macchinazione» del materialismo c’è anche il suo tentativo di impedire all’uomo di collegare la sua scienza, tutto il suo sapere, con l’elemento della vita, con l’interesse del cuore. Tutto deve svolgersi in modo oggettivo – cioè arido e piatto. Ci basti pensare agli studi universitari di oggi. Spesso viene richiesta come premessa scientifica proprio la separazione fra testa e cuore. Si imparano tante cose solo per superare gli esami e ottenere i «certificati» necessari al conseguimento di una determinata posizione sociale o di grandi guadagni. Ma spesso l’uomo non è in grado di mettere in relazione ciò che impara con i veri interessi del suo cuore.

Ed è soprattutto questo che Arimane si prefigge: vuole che l’uomo «sappia» un’infinità di cose, ma non vuole che impari ad amarle. Se l’uomo imparasse ad amare le cose che sa, Arimane sarebbe perduto. Per lui il sapere deve unicamente servire al dominio del mondo. Se rientra in gioco l’amore, l’uomo riprende ad essere toccato dalla forza creativa del suo spirito, cosa che Arimane teme e odia. Egli vuole un sapere freddo, adatto al calcolo e al controllo, in cui non ci sia posto per il cuore.

Per questo all’uomo è stato detto già da molto tempo: «Guarda, se non sei in grado di essere oggettivo, se non sai osservare le cose in modo del tutto imparziale, spassionato, non sei adatto alla ricerca scientifica. Lascia perdere gli slanci del cuore». Ed ecco che ci ritroviamo con una cultura priva di cuore, che suscita in Arimane una maligna risata di scherno.

In questo contesto Steiner parla delle grandi e piccole «scatole di conserva» dell’umanità. Quelle grandi sono le biblioteche: in esse è accumulata un’enorme quantità di sapere che in realtà sta poco a cuore all’uomo. Schiere di esseri elementari arimaniani si avvicinano a questi libri e si uniscono a un sapere che non è collegato al cuore dell’uomo. In questo modo si coltiva nell’umanità l’elemento della «freddezza» del cuore come conseguenza necessaria della freddezza della testa. Le piccole scatole di conserva sono allora i documenti sugli scaffali o nelle cartelle, le mappe o gli atti, anch’essi sovente di scarso o nullo interesse per il cuore dell’uomo.

Un altro aspetto della concezione matematico-meccanica del mondo è il modo in cui le scienze naturali odierne considerano tutto da un punto di vista di causa ed effetto. L’abbiamo già accennato: per ogni fenomeno che si manifesta a livello percepibile si cerca una causa altrettanto percepibile mediante i sensi. Cause ed effetti vengono ricercati esclusivamente nel mondo delle apparenze visibili.

Questa concezione materialistica del rapporto fra causa ed effetto non può che indurre l’uomo a negare completamente la realtà del suo spirito. Ne abbiamo già parlato: nell’opera di un essere spirituale – e l’Io dell’uomo lo è – le cause, per esempio la progettazione di qualcosa, possono precedere anche di secoli l’effetto, l’obiettivo da raggiungere. Tutte le cause intermedie sul cammino verso la meta non sono cause in senso proprio, bensì strumenti di cui l’uomo si serve, quindi a loro volta effetti di un operare originariamente spirituale.

Il nazionalismo tutt’altro che morto

La seconda grande macchinazione di Arimane è riscontrabile nel nazionalismo. Con questo fenomeno si intende tutto ciò che divide gli uomini in gruppi mettendoli gli uni contro gli altri: i partiti, le sette, tutto ciò che, servendosi di una concezione fanatica o dogmatica, scompone l’umanità in fazioni più o meno grandi, in lotta fra loro. All’antico fenomeno che vedeva il singolo dissolversi nell’anima di gruppo si aggiunge l’elemento conflittuale della contrapposizione fra raggruppamenti di ogni tipo.

Questo processo di continua frammentazione dell’umanità si oppone al compito che l’uomo è chiamato a svolgere di questi tempi. Già da tempo viviamo in un’epoca in cui l’umanità deve riprendere a crescere insieme, in cui la nostra missione consiste nel connettere in un’unità organica tutti i membri del genere umano.

Osservando gli avvenimenti del mondo d’oggi, non ci resta alcun dubbio che il nazionalismo stia vivendo un forte momento di crescita. Proprio in questo ambito vediamo con quale solerzia, con quale furia stia lavorando Arimane. Tutto fa credere che la concezione della lotta, dell’odio e dell’intolleranza reciproci si intensificherà ulteriormente nei prossimi decenni. Un numero sempre maggiore di persone vogliono abbandonarsi alle forze istintive che pulsano nel sangue e che derivano dal suolo, dal clima, dall’alimentazione e dalla lingua. Tutti questi sono fattori naturali, fattori di non libertà. L’uomo che si identifica con «sangue e suolo» combatte come nemici il sangue il suolo altrui.

All’inizio del ventesimo secolo è sorto un dogma prettamente arimaniano che ha agito e continua ad agire con la violenza tipica di ogni dogma. È stato messo al mondo verso la fine della prima guerra mondiale dal presidente americano Woodrow Wilson e contiene il motto ancor oggi fortemente suggestivo dell’autodeterminazione dei popoli. Ogni popolo ha il diritto all’autodeterminazione: che cosa potrebbe sembrare più giusto e giustificato di questo diritto?

Fa parte dei compiti morali più importanti dell’uomo moderno esaminare a fondo come e perché il motto dell’autodeterminazione dei popoli rappresenta un impulso profondamente disumano. Non è un compito facile. Per adempierlo in modo adeguato è necessario non farsi trascinare dalle emozioni.

Nella conferenza da lui tenuta a Berlino il 3 luglio 1917, circa tre anni dopo l’inizio della prima guerra mondiale, Rudolf Steiner ha rivolto le seguenti parole a un’Europa alle prese con un’immane tragedia:

«Poiché, nevvero, molto, molto di ciò che l’uomo ha vissuto e sperimentato nel corso di secoli è naufragato in questi ultimi tre anni. E tutti soffriamo intensamente, soprattutto in presenza di ciò che abbiamo dovuto sopportare negli ultimi tre anni. Ma che cosa ha sofferto massimamente in questo naufragio? Possiamo sollevare questa domanda, e la risposta è: il cristianesimo ha sofferto massimamente di questo naufragio!»

Ce li avesse avuti una delle chiese cristiane il coraggio e la saggezza di pronunciare queste parole a quei tempi! Steiner ha dovuto alzare la voce per scuotere l’umanità e farle notare che con il nazionalismo, con lo slogan del diritto di ogni popolo all’autodeterminazione, il cristianesimo viene distrutto. Non parla di germanesimo – la Germania era già distrutta – ma di cristianesimo! E prosegue:

«Per quanto strano possa sembrare a qualcuno, è il cristianesimo ad aver sofferto massimamente di questo naufragio. Ovunque guardiate, vedrete come oggi il cristianesimo venga in pratica rinnegato. Molte cose sono una diretta derisione del cristianesimo, anche se non si ha abbastanza coraggio per ammetterlo a se stessi. È forse un’idea cristiana, quella da cui oggi molte persone, la grande maggioranza degli abitanti della Terra, si aspettano quanto vi sia di più prezioso, quella che dice: ogni popolo deve amministrare se stesso? Non voglio parlare di ciò che è giusto o ingiusto, ma di ciò che è cristiano e di ciò che non lo è. Si tratta forse di un’idea cristiana? No, niente affatto. Un’idea cristiana è che i popoli si comprendano a vicenda per mezzo delle persone. Proprio ciò che viene detto sulla presunta libertà dei singoli popoli – che comunque non è realizzabile – è quanto di meno cristiano ci si possa immaginare. Cristianesimo significa infatti comprensione per tutti gli uomini che sono sulla Terra. Vuol dire addirittura comprensione per tutti coloro che vivono su territori al di fuori della Terra, se se ne potessero trovare. E dal mistero del Golgota in poi non è mai accaduto che sulla Terra gli uomini che si dicono cristiani non siano andati d’accordo neanche nel senso più superficiale della parola!»

Nella Berlino stroncata da tre anni di guerra, Steiner si preoccupa delle sorti del cristianesimo e della cristianità in un genere umano minacciato dai quattordici punti arimaniani di Woodrow Wilson!

Che cosa vuol dire questo? Sulla via verso la libertà e verso l’amore, l’autodeterminazione riguarda il singolo individuo e non un popolo in quanto gruppo impersonale. Nessun gruppo può esercitare libertà e «autodeterminazione», poiché un gruppo di uomini in quanto tale non può avere né pensieri, né sentimenti, né impulsi volitivi. Questi possono essere realmente attivati e vissuti solo dal singolo individuo; solo il singolo può realmente sperimentare l’amore o l’odio, l’interessamento o il rifiuto nei confronti di chi appartiene ad un altro popolo o gruppo. Soltanto i singoli individui possono provare comprensione e amore per chi ha radici fisiche e psichiche diverse dalle loro.

Ogni popolo ha una sua specifica missione nell’organismo dell’umanità. Il portatore di questa missione non è il singolo uomo, ma lo Spirito del popolo, che è un essere spirituale ben reale, al quale risale per esempio la lingua che un popolo parla. Ogni singolo Spirito di popolo – il cristianesimo chiama «Arcangeli» gli spiriti che reggono le sorti di un intero gruppo di persone – attinge le sue ispirazioni dallo spirito unitario dell’umanità. Da lui viene a sapere qual è la missione particolare del suo «popolo» per l’evoluzione di tutti gli uomini. Resta però il fatto che questo spirito non ispira il popolo nel suo insieme – poiché questa uniformità non esiste a livello umano –, ma ogni singolo individuo direttamente. Ogni singolo uomo ha il compito di entrare in rapporto diretto con lo Spirito del suo popolo.

Lo slogan del diritto di ogni popolo all’autodeterminazione ignora la realtà degli Spiriti che sono alla guida dei vari popoli. Con questo slogan Arimane vuole ottenere due cose: da un lato, per effetto del principio di autodeterminazione del gruppo in quanto tale, l’individuo deve annullarsi il più possibile, deve venir assorbito dall’elemento impersonale del suo popolo, da una specie di suggestione di massa; dall’altro viene portato all’esasperazione l’egoismo umano. Che cosa significa infatti ricondurre i rapporti fra gli uomini al diritto all’autodeterminazione, se non che ognuno viene esortato ad imporre il proprio egoismo più che può? Che cosa succederebbe in breve tempo in un’amicizia, in un matrimonio o in una famiglia se la massima suprema di vita da parte di ognuno fosse semplicemente il «diritto all’autodeterminazione»?

Due modi di appartenere al proprio popolo

Ognuno può vivere l’appartenenza al proprio popolo in due modi diametralmente opposti: come questione di sangue o come questione di karma. Se uno è per sangue, istintivamente, a livello puramente emotivo, americano o olandese, cinese o italiano, allora sarà il sangue con i suoi impulsi a dirigerlo.

Sentirsi americano o olandese per karma, invece, significa essere consapevoli del senso positivo del proprio karma, del compito che il proprio popolo è chiamato a svolgere a favore di tutta l’umanità. Il karma non è solo un diritto, ma anche un dovere.

Ad ogni spirito o genio buono di un popolo corrisponde come forza antagonista un «demone di popolo», che cerca di volgere al contrario tutte le buone ispirazioni dello spirito del popolo. Questo essere demoniaco è necessario che ci sia, perché solo potendo scegliere tra le ispirazioni dello Spirito del suo popolo e quelle opposte del Demone corrispondente l’uomo può esercitare la sua libertà.

La parola d’ordine del diritto all’autodeterminazione di ogni popolo è il rovesciamento da parte del Demone dell’ispirazione dello Spirito del popolo, che richiama invece l’attenzione di ogni singolo individuo sul dovere morale di farsi tutore del bene particolare di ogni singolo popolo, facendo suoi i doveri – non solo i diritti – che il suo popolo ha nei confronti di tutti gli uomini. L’appartenenza ad un popolo è anch’essa un’arma a doppio taglio: può agire sia per il bene che per la rovina dell’uomo. A decidere è sempre la libertà del singolo.

Se uno vive l’appartenenza al suo popolo da un punto di vista puramente emotivo, istintivo, allora il sangue agisce in lui con la costrizione propria delle leggi di natura. L’emotività finisce sempre per conferire molto più peso ai diritti e bisogni propri che non a quelli degli altri, dal momento che i propri vengono vissuti con la forza del sangue, mentre quelli degli altri è già molto se si vengono a conoscere a livello di astratta teoria. Un uomo di questo tipo attribuirà anche inevitabilmente più diritti al suo popolo che non agli altri.

Se consideriamo l’umanità come un unico organismo, il motto citato si rivela un controsenso. Esso vorrebbe dare a intendere che un organismo sano è il risultato del fatto che tutte le sue membra fanno valere il diritto all’autodeterminazione. Il rapporto fra polmoni, cuore e reni dovrebbe venir deciso in base al diritto di ogni organo all’autodeterminazione! Vediamo bene quanto sia assurda una concezione di questo genere.

Charles Darwin ha affermato che la legge fondamentale dell’evoluzione è la «lotta per l’esistenza». Ma si tratta di un’interpretazione soggettiva dei fatti. Molte cose nell’umanità odierna appaiono senz’altro come dettate dalla «lotta per l’esistenza», ma non è affatto necessario che le cose siano così. Ognuno può coltivare dentro di sé il sentimento opposto, quello dell’aiuto reciproco da parte di tutti gli uomini. Una cosa è comunque certa: nessun organismo potrebbe formarsi o restare sano se tutte le sue componenti interagissero solo in base al principio della lotta per l’esistenza o se facessero valere unicamente il «diritto all’autodeterminazione».

Se l’uomo vede la sua appartenenza ad un popolo come parte integrale del suo karma, come facente parte dei «doveri» che ha verso tutti gli uomini, allora mi chiedo: in che cosa consiste il contributo unico e tutto positivo che solo il mio popolo può portare all’organismo complessivo dell’umanità? Chi appartiene ad un altro popolo si rivolge a me con il desiderio, anche se inconscio, di trovare negli appartenenti al mio popolo, nella mia lingua e cultura, quel qualcosa di particolare che in altri popoli non trova.

Il puro utilitarismo nella vita economica

Un altro modo in cui Arimane cerca di togliere all’uomo la sua libertà consiste nell’esasperare la tendenza al puro utilitarismo, soprattutto nella vita economica.

In questo campo l’individuo viene posto sempre di nuovo di fronte all’alternativa fra essere e avere. I beni materiali e quelli spirituali agiscono in direzioni opposte: i primi sono «esclusivi», i secondi «inclusivi». I beni materiali sono esclusivi nel senso che ogni proprietà privata «priva» l’altro della possibilità di disporne. Uno può arricchirsi soltanto impoverendo l’altro, il vantaggio dell’uno è tale solo se rappresenta uno svantaggio per un altro.

La legge fondamentale di tutto ciò che è spirituale è invece l’inclusività: i pensieri che penso io li puoi pensare anche tu, senza bisogno di portarli via a me. La gioia di uno può essere condivisa da molti, e ciò la rende per di più ancora più intensa. Un ideale può essere comune a molte persone e in questo modo si rafforza in tutti. Più gli uomini amano ciò che è spirituale, e più ci sarà armonia nell’umanità.

La fissazione sul possesso materiale rende gli uomini sempre più isolati, poiché sono costretti a vedersi e a trattarsi come rivali e nemici. Le persone che si sentono sole, in balia della depressione, sono sempre più numerose.

Forse è proprio nella corsa alla felicità, intesa come godimento esterno, che il materialismo mostra più che mai la sua crudeltà. Molti sono come ossessionati dalla ricerca della felicità, che li porta a vivere come se il senso della vita stesse nel massimo godimento possibile a livello esterno e materiale. Pochi riflettono sul fatto che l’uomo è un essere spirituale, che non può essere felice solo grazie al possesso e al godimento puramente terreni.

La fissazione sul possesso e sul godimento esterno è un vero «peccato» nel senso che l’uomo si accontenta delle briciole più misere di ciò che la vita può offrire. Non lo farebbe, se sapesse quanto la vita ha da offrirgli in più. Arimane fa di tutto perché l’uomo non si accorga che oltre alle misere briciole di una vita puramente materialistica esiste un nutrimento autentico e sostanziale.

Ciò non significa che gli uomini non debbano più concedersi nessun piacere o che si debbano dedicare solo alle cose serie della vita. Chi lo dice fa del vero e proprio moralismo. Il bene è buono per l’uomo solo se gli procura gioia. Allora uno può dirsi: ma guarda, c’è qualcosa che dà molta più gioia che non il vivere solo per ciò che è materiale. Se un ragazzino ha appena ricevuto la sua prima bicicletta, mai più lo convinceremo a separarsi dalla bicicletta per riprendere ad andare a piedi. Ma lui stesso abbandonerà spontaneamente la bicicletta non appena gli daremo un motorino!

Chi «gode» a piene mani della crescita in conoscenza e amore, è in grado di dare il giusto peso anche a tutto ciò che è materiale. Egli sa per quali grandi cose esso è uno strumento prezioso, indispensabile. Il materialista non è tanto uno che disprezza lo spirito – di cui non conosce neppure l’esistenza – ma piuttosto uno che disprezza la materia, poiché non sa per che cosa è buona e preziosa. Avvilisce tutto ciò che è materiale perché lo degrada a fine a se stesso. Quando invece tutto ciò che è materiale si fa strumento per il cammino dell’anima e per le conquiste dello spirito, allora sì che acquista valore.

Vangeli facili o difficili?

Rudolf Steiner indica anche un tipo di macchinazione di Arimane che potrebbe sorprenderci. È la tentazione ricorrente di leggere e interpretare i vangeli «in tutta semplicità». Arimane fa di tutto per convincere gli uomini che i vangeli siano stati scritti per persone semplici, che occorre affrontarli con animo semplice e interpretarli nel modo più schietto possibile.

In questo modo Arimane riesce ad abbindolare moltissime persone. Questa idea è così allettante e nasconde così bene la sua malizia da riuscire a convincere molta gente. In questo modo Arimane riesce persino a dar l’impressione di adoperarsi per il vero cristianesimo!

Non è facile convincere gli uomini che i vangeli sono dei testi non facili! Le parabole del Cristo sono storielle raccontate al popolo. L’animo ancora bambino, capace di fede ma non ancora di scienza, le accoglie certo con semplicità.

Ma il Cristo ha anche spiegato le parabole a coloro che erano in grado non solo di credere ma anche di capire. E per chi vuol capirli a fondo, i testi evangelici sono di una grande complessità. La complessità proviene dal fatto che i vangeli hanno a che fare con un evento che riassume in sé tutti i misteri dell’evoluzione dell’uomo e della Terra. Come possiamo presumere che i loro contenuti siano solo «semplici» e che possano essere compresi a fondo senza nessuno sforzo di pensiero?

C’è stato un tempo in cui la sete di conoscenza scientifica non era ancora sentita come oggi, in cui quell’atteggiamento di fede semplice del cuore era quello giusto. La «fede» dei tempi passati era comunque accompagnata da una profonda venerazione per i vangeli. Tanti uomini oggi non hanno più questo timore reverenziale, anzi non si interessano affatto ai vangeli. I conti non tornano più se ci si vuol accontentare della pura e semplice fede.

È per questo che al giorno d’oggi la «religione» trova sempre meno credito fra gli uomini. Sempre più numerosi sono coloro che vogliono capire ciò che fino a poco tempo fa molti erano ancora disposti a credere anche senza capirlo. La fede non diminuisce quando capiamo di più: più capiamo infatti, e più grandi e numerose diventano le cose che non siamo ancora in grado di capire. E di fronte alle cose che ancora non capiamo e che aumentano sempre di più, l’atteggiamento giusto è quello della venerazione – della fede appunto.

Quando si dice agli uomini che devono accostarsi ai vangeli con animo infantile e pensieri semplici, e che è indice di presunzione volerli affrontare con strumenti così complessi come quelli della scienza dello spirito, allora sì che si mostra una dose considerevole di presunzione: ci si arroga il diritto di comprendere cose estremamente complesse senza il minimo sforzo conoscitivo. Ci si illude di poter accedere alle cose più profonde della vita rimanendo spiritualmente pigri. E ci si nasconde la propria pigrizia nel cammino della conoscenza raccontandosi la favola «dell’animo semplice».

Questa macchinazione di Arimane si contrappone direttamente all’operare del Cristo nell’umanità di oggi. Se abbassiamo i vangeli al nostro livello «semplice semplice», allora diventano così «terra terra», così banali che anche la persona più sprovveduta pensa di capirli. Ma che ne è allora della figura di Gesù Cristo? Il Cristo come entità spirituale, divina e cosmica, scompare – e in effetti è sparito per molti già da tempo – e chi resta è solo il Gesù di Nazareth: il «semplice uomo di Nazareth», come si dice ormai anche negli ambienti teologici.

Arimane e il secondo avvento del Cristo

L’operare di Arimane si estende a tutti i fenomeni del materialismo; l’esperienza del Cristo che fa ingresso nella coscienza dell’uomo rappresenta la spiritualizzazione sia della scienza sia della vita. Perciò questi due fenomeni rappresentano una fondamentale polarità che può servire da lettura per molti fenomeni che si verificano nel nostro tempo.

Se mettiamo le varie macchinazioni di Arimane in relazione con i vari aspetti del ritorno del Cristo possiamo vedere che si corrispondono. L’incontro col Cristo in forma eterica smentisce Arimane che dice agli uomini che il mondo è costituito solo di materia. Quando l’uomo incontra l’essere cosmico del Cristo, comincia a scoprire che il mondo è popolato da esseri spirituali.

Un secondo aspetto della venuta del Cristo è che l’uomo viene visto avvolto in un corpo di luce. Questo significa la sconfitta di ogni nazionalismo – altra macchinazione di Arimane. Identificando l’uomo con la sua corporeità fisica non si vede più la sua essenza spirituale. Se invece ogni essere umano mi viene incontro come forma di luce, mi si manifesta come essere spirituale al di là di ogni caratteristica fisica di popolo o di razza. I tratti particolari di un popolo mi appaiono allora come aspetti luminosi dell’universalmente umano, che concorrono a formare il corpo risorto del Cristo che ritorna spiritualmente fra gli uomini a renderli uno.

La mentalità utilitaristica nella vita economica, la lotta per l’esistenza, la guerra di tutti contro tutti per il potere e il denaro, ha come controparte, nell’esperienza del Cristo che ritorna spiritualmente, la visione del pareggio karmico di ogni azione che si compie. Questo compenso karmico è infatti sempre l’amorevole intenzione di ridare all’altro tutto ciò che gli abbiamo sottratto in passato rivendicandolo per noi stessi.

Il karma di ogni uomo ha due fasi: nella prima, durante la caduta nella materia e nell’egoismo, ognuno di noi ha preso per sé tutto ciò che c’era a disposizione. La seconda metà dell’evoluzione ha lo scopo di rovesciare questo rapporto. Come mi sono servito in passato di tutti gli esseri umani per il mio vantaggio personale – e ciò è stato necessario per rendermi un individuo autonomo – così ora svilupperò altrettanto amore per pareggiare karmicamente tutto il mio egoismo. Tutte le forze che ho creato in me prendendole dall’organismo dell’umanità, le restituisco ora a tutti a piene mani. È questo il senso della legge del «trapasso» karmico rispetto a ciò che si è compiuto in passato.

E l’inganno di Arimane, per cui ci si deve accostare ai vangeli con animo semplice, viene sventato nella misura in cui l’uomo fa l’esperienza del Cristo come Signore del karma. Ciò gli fa capire che l’infinita complessità e l’inesauribile ricchezza di quell’organismo spirituale che è l’umanità rendono indispensabile una scienza dello spirito non meno articolata e complessa.

Sesto capitolo

L’EVOLUZIONE
FA DEI PASSI E DEI SALTI

La vita umana presenta in tutti i suoi fenomeni due aspetti fondamentali: da una parte c’è sempre ed ovunque continuità, dall’altra sorgono cose sempre nuove, mai viste prima. Queste due dimensioni di ogni evoluzione danno la possibilità di infiniti riequilibri tra il vecchio e il nuovo. E in questo continuo movimento l’uomo può fare in modi sempre nuovi l’esperienza della sua libertà e creatività.

Ad un primo sguardo l’elemento di continuità e quello a balzi sembrano contraddirsi o escludersi a vicenda. Eppure l’evoluzione, il divenire non è possibile senza che concorrano tutti e due, il vecchio e il nuovo, in modi sempre diversi.

La storia (a volte) fa dei salti!

Se ci fosse solo continuità nella vita non sorgerebbe mai nulla di nuovo. Se considerassimo la storia esclusivamente dal punto di vista della continuità, vedremmo solo il ripetersi sempre uguale dei cicli di natura, ci sfuggirebbe che nel mondo umano si succedono degli avvenimenti di volta in volta nuovi, che non si ripetono una seconda volta in forma uguale. La natura si ripete sempre, la storia umana mai.

Se d’altra parte prendessimo in considerazione unicamente gli elementi di discontinuità, di rottura, cercheremmo dappertutto dei nuovi inizi senza soluzione di continuità, e questo sarebbe altrettanto impossibile, perché il mondo è già fatto e un nuovo inizio in assoluto non è possibile. Ogni nuova partenza deve poggiarsi su ciò che già c’è.

Il concetto di salto di qualità è quello noto alla filosofia come «creazione dal nulla». Anche questo «nulla» non va inteso in senso assoluto, ma nel senso che quando creiamo qualcosa di veramente nuovo, prima della nostra creazione non c’era nulla di quello che noi creiamo. Prima che Michelangelo creasse la sua Pietà, c’era il nulla di quell’opera d’arte, essa non era per nulla esistente.

Questi due modi diametralmente opposti di vedere il mondo li riscontriamo già agli albori del pensiero occidentale, e precisamente in Parmenide ed Eraclito. Parmenide pone al centro l’essere inteso come qualcosa che non può trasformarsi senza negare se stesso o diventare qualcosa di diverso. Eraclito al contrario attribuisce maggiore importanza in ogni fenomeno al carattere di novità: panta rei (pànta rhèi) tutto scorre, diceva, nulla resta mai identico a se stesso.

Per quanto riguarda l’uomo, la stessa polarità l’abbiamo già vista parlando di spirito e di anima. Siamo fatti dell’uno e dell’altra: di ciò che rimane sempre uguale a se stesso e di ciò che è in continuo mutamento. Essere uomini vuol dire restare fedeli a se stessi proprio rinnovandosi continuamente, e viceversa: rinnovarsi continuamente rimanendo fedeli a se stessi. Lo spirito è stabilità, l’anima mutevolezza.

L’esperienza dell’Io è quella di sentirsi sempre la stessa persona, l’origine costante e unica di tutti i pensieri e i sentimenti che vanno e che vengono dentro di noi. Dicendo «io» intendo quella realtà di me, per cui non sono ogni giorno qualcuno di diverso, ma sempre lo stesso essere con una fisionomia propria e duratura. Senza sentirmi la stessa persona che ha fatto determinate cose ieri, la stessa che ne vive le conseguenze oggi, e la stessa che pianifica di conseguenza il suo domani verrei a negare la mia identità di essere umano. Grazie all’esperienza dell’Io, alla capacità di sentirsi responsabili dei propri pensieri e delle proprie azioni, è nato nell’umanità, come abbiamo visto, il monoteismo.

L’anima, al contrario, è fatta di un’infinita e mutevole varietà di energie, di emozioni, di sentimenti. È come un fiume in costante movimento nei suoi desideri, impulsi, passioni. Sulla base della molteplicità delle esperienze animiche ha fatto la sua comparsa nella storia la corrente culturale e religiosa del politeismo.

L’esperienza dell’unità del proprio Io individuale fa nascere il desiderio di tante «variazioni sul tema» nella grande sinfonia della vita. D’altro canto però l’uomo che vive un continuo fluttuare nella sua anima desidera trovare dentro di sé anche una realtà stabile. Tutti i cambiamenti del proprio essere sono cambiamenti di un essere che rimane uguale a se stesso, e che si conferma proprio in ogni suo ulteriore sviluppo e trasformazione.

Nella realtà dello spirito e in quella dell’anima abbiamo i due poli di ogni evoluzione umana: la durata e il tempo, la continuità e l’innovazione.

L’occidente ama il tempo, l’oriente l’eternità

I due principali errori di interpretazione riguardo all’evoluzione consistono nell’osservare unilateralmente i fenomeni o dal punto di vista di un continuo cambiamento, prestando insufficiente attenzione agli elementi di continuità, o nel sottolineare unilateralmente ciò che è stabile, sottovalutando i dovuti innovamenti.

La polarità fra un mondo in cui non c’è mai niente di nuovo e uno in cui ci sono solo novità, è la stessa che esiste fra mondo spirituale e mondo fisico. Nel mondo spirituale non c’è mai niente di completamente nuovo, in quanto ogni essere spirituale rimane sempre uguale a se stesso, non può né «nascere» né «morire». La nascita e la morte appartengono al mondo sensibile, al mondo della «caducità».

Se osserviamo lo spirito umano – l’unico essere spirituale di cui possiamo fare l’esperienza diretta nel mondo delle apparenze sensibili – vediamo subito che esso si distingue per questo carattere di durata, cioè di costante identità con se stesso. Il mondo visibile è invece caratterizzato da un continuo nascere e morire, da continui cambiamenti.

Come già detto, una delle grandi questioni degli albori del millennio riguarda il modo in cui si rapporteranno fra loro oriente e occidente – se si metterà in primo piano la «continuità», oppure la «discontinuità». Abbiamo visto che se l’uomo omette di creare liberamente una mediazione fra questi due mondi, nel senso di una riconciliazione continuativa, diventa inevitabile uno scontro dirompente.

L’oriente, che ha fatto da guida spirituale dell’umanità fino alla grande svolta dei tempi, vede da sempre il mondo e la storia dal punto di vista della durata. Ancor oggi le religioni orientali considerano il mondo delle forme visibili come un’illusione, come «Maya». L’occidente pensa invece a un’evoluzione lineare, progressiva, in cui ogni fatto avviene una volta sola. Vede come più importante ciò che nasce e muore nel modo visibile. Per l’occidente quindi più che la durata conta lo scorrere del tempo.

Poiché ciò che muta è più percepibile a livello sensoriale, l’occidente si è dedicato alla conquista del mondo sensibile: con la sua scienza e la sua tecnica. E dato che ciò che resta sempre uguale a se stesso si trova nel mondo dello spirito, l’oriente è stato da sempre rivolto all’eterno con la sua religione e la sua spiritualità.

Non esiste solo un divenire generale dell’essere umano, in cui sono presenti le due dimensioni – durata nel suo Io e mutevolezza nella sua anima – ma ci sono anche gli avvenimenti della storia, che vanno osservati in tutti i loro aspetti per vedere sotto quali punti di vista mostrano il carattere della continuità e sotto quali altri il carattere dello sbalzo.

Prendiamo ad esempio il bambino che cresce. Finché è piccolo viene guidato dall’esterno. Si tratta però di una guida provvisoria, che è destinata a scomparire. Essa si rende superflua accompagnando il bambino verso l’autonomia interiore. Se dicessimo che il bambino, nel momento in cui assume la propria guida, non fa che continuare quel che c’era prima, ci sbaglieremmo, perché in realtà abbiamo una discontinuità assoluta, un’inversione di marcia.

Non si può considerare l’autogestione, la guida interiore come continuità rispetto a quella esteriore. Il sorgere dell’una fa cessare l’altra, come la morte di una pianta è la cessazione della sua esistenza. Qui avviene un salto, un passaggio di soglia. Viene compiuto un balzo qualitativo nel senso che inizia qualcosa di completamente nuovo, che prima non c’era. Capisco queste due fasi della vita solo se so di avere a che fare in primo piano con una discontinuità, non con una continuità.

Quando si dice che in questo inizio di millennio si verifica una costellazione di eventi non solo straordinari ma per di più unici, si intende sottolineare che non basta guardare a quello che c’è sempre stato, a ciò che rimane costante, ma che bisogna soprattutto saper cogliere ciò che è completamente nuovo negli eventi del mondo.

I segni dei tempi in cui viviamo ci dicono che, pur con tutta l’innegabile continuità, in questo inizio di millennio avviene qualcosa di importante che è assolutamente nuovo, mai visto prima. Dove il nuovo viene riconosciuto e realizzato, il vecchio gli deve fare da base e da strumento. Anche se il vecchio è assolutamente necessario come punto di partenza per il nuovo, il suo valore morale si manifesta nel suo farsi strumento per la nascita del nuovo. In questo modo ciò che è vecchio continua a vivere nel nuovo.

Pensiamo al rapporto tra due persone, tra un uomo e una donna: nel quotidiano c’è la ripetizione uguale di tante cose – e un bel giorno nasce un bambino. Finora erano solo uomo e donna, d’ora in poi sono padre e madre. Non si può certo dire che col nascere di un bambino la vita continui come al solito. Se di fronte a un fenomeno di questo genere si guardasse solo a ciò che è rimasto immutato, si ignorerebbe proprio la realtà più importante.

La vita quotidiana cambia profondamente per una mamma quando mette al mondo un nuovo essere. Nella sua vita ha a che fare con un salto, con un nuovo inizio. Per farvi fronte deve sapersi rinnovare interiormente, la nuova situazione invita a far emergere delle risorse mai attivate prima, dei comportamenti del tutto nuovi. In questa capacità di rinnovamento l’uomo sperimenta la ricchezza del proprio essere. Magari si meraviglia di se stesso e si dice: Non avrei mai creduto di poter fare tali cose! Ho sempre pensato di non essere in grado di far fronte a una tale situazione, e invece…!

Fedeltà e rinnovamento: queste due dimensioni di ogni cammino umano interagiscono in ogni evento. Se uno dei due mancasse, la vita non sarebbe possibile. Se ci fosse solo continuità, in men che non si dica non ci sarebbe più originalità, tutto diventerebbe monotono e noioso. Sarebbe come se un artista volesse lavorare con la sola luce sempre uguale, anziché con i vari colori e le loro infinite sfumature – o se volesse ripetere sempre lo stesso quadro.

E al contrario, se volessimo solo novità senza continuità – l’altro estremo per il pensiero umano – dovremmo far sparire nel nulla tutto quello che già c’è, noi stessi compresi! E non resterebbe più nessuno per ricominciare tutto da capo...

Apocalisse platonica e aristotelica

Apocalittico è tutto ciò che di nuovo si verifica all’improvviso, il discontinuo in assoluto. La morte di una persona è ad esempio un’apocalisse nel senso che tutto ciò che fa parte del vivere sulla Terra viene di colpo a cessare. Altrettanto repentinamente si presentano tutte le esperienze del dopo morte, del tutto diverse da quelle fatte in vita. Non c’è soluzione di continuità nella morte, dal punto di vista di quello che noi vediamo e viviamo. Non sarebbe un tale «salto mortale» se potessimo «continuare» a comunicare anche con la persona morta. Allora potremmo vivere anche l’aspetto della continuità.

In base a quanto finora esposto, c’è anche in ogni apocalisse un aspetto aristotelico e uno platonico. Dal punto di vista aristotelico l’elemento apocalittico si riferisce a tutto ciò che è esterno, che tutti possono vedere. Sia il crollo improvviso del vecchio, sia il sorgere improvviso di qualcosa del tutto nuovo sono percepibili esteriormente, nel prima e dopo del tempo.

La dimensione platonica dell’elemento apocalittico è di natura completamente diversa, in quanto si riferisce a ciò che è spirituale, sovrasensibile. Lo dice il termine greco «apokalypsis»: aokaluyi = svelamento, rivelazione (apo = via, kaluptw = io nascondo). L’apocalisse platonica è un improvviso svelare, un togliere di botto il velo: improvvisamente si vede qualcosa che prima era nascosto.

Il fenomeno archetipico dell’apocalisse in senso platonico è «l’iniziazione». Quando un uomo, che finora ha conosciuto solo il mondo materiale, apre di colpo gli occhi sull’invisibile, sperimenta la più grande «apocalisse», la più grande «rivelazione» e rivoluzione interiore che si possa immaginare. Per questa individualità inizia un capitolo assolutamente nuovo, le si apre un mondo di cui prima ignorava l’esistenza, un mondo sorto dal nulla per lei. Tutte le realtà visibili sono rimaste immutate, lì c’è assoluta continuità. Eppure per lui ha inizio una vita completamente nuova: niente sarà più come prima. Questo tipo di apocalisse è per l’uomo quella più importante proprio per il fatto di aver luogo a livello del tutto individuale e nell’interiorità dell’uomo.

La domanda importante a questo punto è: in che rapporto stanno fra loro queste due dimensioni? Pensiamo all’illustre Archimede, che è stato il primo ad accorgersi, mentre faceva il bagno, che la gamba è più leggera finché sta nell’acqua, mentre diventa pesante non appena la si tira fuori. Per primo ha intuito la portata di questo fatto, tutta la nostra tecnica su basa sul suo principio. La storia vuole che sia corso per la città esclamando «Eureka!» ho trovato, ho scoperto!

Ma nel mondo esterno era cambiato qualcosa? No, tutto era rimasto tale e quale – e anche Archimede, esteriormente. E allora, dove si è verificata l’apocalisse? Nel suo pensiero, nel suo spirito! E da quel giorno la sua vita non è stata più la stessa. Tutto è cambiato per lui e in seguito anche per l’umanità.

Gli operai e gli ingegneri del giorno d’oggi sanno che quando costruiscono una galleria c’è anche il contributo di Leibniz, che ha scoperto il calcolo infinitesimale? Grazie ai suoi pensieri pensati alla scrivania, nel suo studiolo, grazie all’apocalisse interiore di una scoperta fatta nel pensiero, oggi siamo in grado di costruire una galleria. E questo fatto è diventato anche un’apocalisse esteriore, un’apocalisse dalle vaste conseguenze anche per la vita esterna. Ogni uomo vive di queste «rivelazioni», di tali momenti decisivi per la sua esistenza.

I rivolgimenti esterni sono sempre la conseguenza di ciò che si verifica nell’interiorità dell’uomo. I fattori esterni sono le condizioni necessarie a creare gli stimoli necessari per raggiungere una dimensione sempre più vasta di umanità interiore. La realtà completa di ogni apocalisse è quindi l’irrompere dello spirituale nel visibile, il manifestarsi a livello esterno di ciò che prima è invisibile.

Apocalisse individuale e universale

I grandi cambiamenti che avvengono all’interno di una persona hanno il vantaggio di essere individuali e di lasciar liberi gli altri. In un uomo può verificarsi un’apocalittica «fine del mondo»: il mondo delle apparenze visibili smette di essere l’unico reale, più reale ancora diventa per lui quello spirituale, di cui fa esperienza diretta per la prima volta. Altri, che magari vivono quotidianamente con lui, non si accorgono forse di nulla. La loro libertà non viene pregiudicata.

Gli uomini hanno bisogno di un mondo con leggi valide per tutti come base per l’evoluzione unica di ognuno. Il mondo in cui viviamo non può essere confezionato su misura per ogni singolo individuo, altrimenti ci toccherebbe vivere in tanti diversi mondi quanti sono gli esseri umani.

Questo vale anche per il corso della storia. Per esempio, per l’umanità intera giunge il momento in cui una determinata epoca culturale termina per far posto alla successiva. Le condizioni culturali restano più o meno costanti per circa 2160 anni (il tempo in cui il Sole attraversa un segno zodiacale) per dare a tutti gli uomini ugualmente la possibilità di acquisire determinate facoltà. Nell’antichità si è sempre detto: una delle cause più importanti – per quanto riguarda ciò che ha validità generale – dell’interazione fra l’elemento continuativo e quello apocalittico è il passaggio del Sole da un segno zodiacale ad un altro e quindi – indirettamente – la rispettiva trasformazione di tutte le condizioni evolutive sulla Terra.

Le condizioni di vita odierne non sarebbero quelle giuste per un Greco. Se venisse proiettato all’improvviso nel nostro mondo si sentirebbe del tutto spaesato! In Grecia le condizioni di vita erano completamente diverse dalle nostre. Noi ci abbiamo ormai fatto l’abitudine, per noi hanno assunto il carattere della continuità, poiché ci viviamo dentro.

Il periodo culturale greco-romano va dal 747 a.C. – l’anno della fondazione di Roma – al 1413 d.C. Con l’anno 1413 (queste date sono sempre da intendersi come approssimative), comincia un nuovo tipo di cultura, che è quello attuale. Se paragoniamo anche solo il quattordicesimo secolo col quindicesimo, ci imbattiamo in due mondi del tutto diversi. Il quattordicesimo secolo conclude l’epoca culturale greca, il quindicesimo ne inaugura una nuova. Nel quattordicesimo secolo un Galileo, un Copernico o un Leonardo sono impensabili; uno o due secoli dopo sono non solo concepibili, ma anche assolutamente reali. E così un Dante non è pensabile anche solo due secoli dopo.

L’apocalisse del male nel nostro tempo

Una delle caratteristiche fondamentali del periodo culturale greco e romano è che l’uomo venne allora per la prima volta confrontato col mistero della morte, mentre il compito principale della nostra cultura attuale è il confronto con il mistero del male. La missione della nostra era evolutiva, che è appena agli inizi, è quella di portare a coscienza la realtà del male – e quindi anche del bene in senso morale.

In che cosa consiste il male? Ce lo siamo già detti all’inizio di queste pagine: il male non consiste in azioni malvagie, in quanto le azioni sul piano fisico sono conseguenze di qualcosa di interiore. La radice del male sono gli impulsi di distruzione presenti nell’animo dell’uomo. Ma il fatto che esista in ognuno di noi la tendenza interiore al male non significa necessariamente che questa tendenza debba venir assecondata nelle azioni verso l’esterno. Una cosa è avere in sé l’inclinazione al male – e un’altra è cedere ad essa.

Ogni uomo deve avere dentro di sé tutte le tendenze umanamente possibili al male, perché solo il confronto con queste controforze gli dà di volere liberamente il bene. Ogni uomo è in altre parole potenzialmente capace di qualsiasi forma di male. Deve averne la possibilità, perché il bene è bene solo se è libero, e per essere libero deve avere sempre la possibilità di cedere alla controforza.

La differenza fra un delinquente e un uomo cosiddetto «normale» non sta nel fatto che il primo ha in origine una maggiore inclinazione al male del secondo. Entrambi hanno ricevuto all’inizio i medesimi impulsi; la differenza è sorta nel corso di un lungo cammino grazie al diverso modo di gestirli. Il primo ha dato e dà maggiormente libero sfogo a questi istinti, mentre il secondo ha lavorato di più per vincerli.

Il significato positivo del lottare contro il male è il desiderio di fare l’esperienza diretta di ciò che è spirituale – che è il bene sommo. Ciò di cui l’umanità odierna ha più di tutto bisogno è l’anelito reale e cosciente verso la realtà dello spirito. La mancanza di tale desiderio è la radice di ogni «male» del nostro tempo.

L’uomo cerca per natura la realtà dello spirituale, e non solo sul piano astratto. Cerca gli Angeli come guide reali del karma individuale, gli Arcangeli come tessitori del destino comune, gli Spiriti del tempo come organizzatori del karma di un’epoca intera. L’uomo sarà indotto a riconoscere e a cercare queste Entità spirituali nella misura in cui verrà messo a confronto con la realtà del male.

Lo scontro con ciò che è male, con ciò che è deleterio per l’uomo va di pari passo col riconoscimento della realtà dello spirito, poiché il male non è una teoria, ma una realtà che genera distruzione e morte in tutti i campi della vita. Ci sono Esseri spirituali reali il cui compito è proprio quello di spingere l’uomo al male, e lui deve viversi come essere realmente spirituale – nel suo Io – che ha in sé la forza del bene, la forza di vincere ogni tendenza al male che porta in sé. Per vincere Esseri spirituali che spingono al male l’uomo si deve alleare con Esseri spirituali altrettanto reali che favoriscono il suo bene.

L’uomo trova la forza che vince il male facendo l’esperienza della realtà dello spirito. Ogni forma di male è in un certo senso una negazione dello spirito – l’origine di ogni male consiste proprio in questa negazione. Attualmente l’uomo sta subendo l’ipnosi del mondo della materia. La forza che vince questo male è l’esperienza dell’energia creativa e piena di amore dello spirito.

All’uomo non basta la pura teoria dello spirito, uno spirito di cui si parla senza che nella vita di ogni giorno cambi niente. Egli vuole viversi come spirito creatore che dà la sua impronta a tutte le faccende della vita. Vuole fare l’esperienza della forza reale del suo Io, poiché il primo essere spirituale che l’uomo può conoscere è il suo stesso Io. Il male in assoluto è il materialismo in quanto negazione dello spirito, poiché in esso l’uomo annulla non solo teoricamente, ma realmente se stesso come essere spirituale.

«Transustanziazione», apocalisse cristiana

Il mistero centrale del cristianesimo viene chiamato «transustanziazione». L’uomo che vive ciò che è materiale come più reale di ciò che è spirituale, che ravvisa in processi materiali la causa di ciò che avviene in lui e nel mondo, vive, cristianamente parlando, «prima di Cristo». Il Cristo «viene» nel singolo uomo in quanto realmente vissuto ogni volta che avviene quell’apocalisse, quella «svolta» nel suo cammino interiore che gli fa vivere per esperienza personale che lo spirito è la vera realtà – e che tutto ciò che è materiale non è che un’espressione dello spirito. Prima della «transustanziazione» è più «sostanziale», più reale, ciò che è materiale, dopo di essa diventa per l’uomo più sostanziale e reale lo spirito.

Questa apocalisse interiore è il segreto palese della vita quotidiana, il mistero di ogni istante. L’uomo è fatto per trasformare il mondo nel proprio pensiero: pensando crea nei concetti la vera sostanzialità, la vera essenza delle cose. L’apocalisse del proprio spirito si può verificare in ogni attimo della vita: nel trasformare la materia, che mi dà la percezione, nel corrispondente concetto, che mi fa fare l’esperienza dello spirito.

Se oggi, grazie all’evoluzione che ha avuto luogo nel periodo culturale greco-romano, siamo in grado di oggettivare il mistero della morte e di guardarlo in faccia con le forze dell’anima cosciente, ne consegue che siamo anche in grado – ed ogni uomo ha in realtà questa capacità, dovrebbe solo esercitarla – di capire che tutto ciò che nasce deve anche morire, altrimenti nulla di nuovo potrebbe nascere. Quando si comprende questo, svanisce anche la brama di creare qualcosa di eterno nel mondo sensibile. Tutto ciò che nasce deve prima o poi morire, e quando non vuol morire, il suo male morale consiste nell’impedire la nascita di qualcosa di nuovo.

Quando si fonda un’istituzione di qualunque tipo è importante tener presente fin dall’inizio che prima o poi dovrà morire. Le istituzioni vanno messe in moto non come fine a se stesse, ma per ciò che gli uomini possono diventare grazie ad esse. Se gli uomini prestano attenzione a ciò che possono diventare interiormente grazie a tutte le istituzioni, si evolveranno e diventeranno sempre diversi, e avranno bisogno di istituzioni sempre nuove.

Tutto ciò che è di natura istituzionale è sano nella misura in cui mantiene la possibilità reale di morire, di essere sostituito da qualcosa d’altro. Quando un’istituzione non è più capace di morire, significa che è stata trasformata da mezzo in fine. Non è più in grado di morire, perché è già morta. E così l’uomo diventa uno strumento per il mantenimento di qualcosa di istituzionale.

Chi se ne rende conto non vorrà più che qualcosa di esterno duri in eterno. Vorrà invece un continuo rinnovamento di tutte le istituzioni per favorire l’evoluzione interiore degli uomini. Con la medesima libertà con cui crea le istituzioni le fa anche morire – senza rimpianti, poiché fin dall’inizio ha voluto che prima o poi giungessero a termine. L’essenza del materialismo e del male morale è nell’attaccamento alle conquiste esteriori con cui ci si identifica e che si vorrebbe perpetuare invece di usarle come strumenti per la crescita interiore dell’uomo.

Nascita e morte in parlamento

Nella procedura parlamentare si può studiare bene il processo di nascita e di morte. Nella professione del parlamentare troviamo esattamente questo: ogni individualità, ogni personalità, «nasce» nel momento in cui fa uso del diritto di esprimere la propria opinione. Durante la seduta parlamentare, cioè mentre si presta ascolto prima ad un oratore, poi ad un altro e poi ad un altro ancora – dove l’uno può anche opporsi con veemenza alle opinioni dell’altro – assistiamo alla nascita di ciò che è individuale, unico in ognuno, non solo per quanto riguarda i contenuti dei discorsi, ma anche la gestualità e le sfumature nella voce, il temperamento di ognuno.

Al termine del dibattito si passa alla votazione, e lì avviene il totale annientamento di ogni diversità tra le persone. Lì ognuno è anonimo, tutti sono uguali. Si ha il livellamento assoluto, la «morte» di tutto ciò che è individuale. È un’assurdità? No, fa parte della vita. Anche lì si nasce e si muore. È tuttavia importante prendere coscienza di questo: facciamo nascere ciò che è personale e poi lo facciamo morire.

A che cosa ci serve questa alternanza del nascere e del morire che viviamo in ogni evento? Otteniamo determinate qualità quando nasciamo, ma ci sono altre qualità che possiamo ottenere solo quando muore qualcosa in noi.

L’uomo è libero quando nel far nascere qualcosa di esteriore – cosa facile, poiché tutti vogliono mostrare di poter fare qualcosa – è in grado di volerne anche la morte fin dall’inizio. Mettendo in conto fin dal principio sia la nascita sia la morte di un’istituzione, vedo in entrambi la condizione per ciò che l’uomo può diventare interiormente, sia nel processo di creare qualcosa sia nell’esperienza di distaccarsene.

Per l’uomo esistono due realtà fondamentali con cui identificarsi: si può identificare con ciò che si è già creato, oppure con ciò che è in divenire e che non è mai concluso. Nel primo caso l’uomo si ritroverà sempre povero, non libero. Identificandosi con ciò che è già stabilito fa suo qualcosa di morto, con lo scopo di conservarlo. Chi invece si identifica con tutto ciò che è in divenire, con l’evoluzione sempre in corso, considera tutto ciò che già c’è come base per un cammino sempre aperto dell’uomo stesso.

Quand’è che un’istituzione è altrettanto valida per gli uomini che vi sono dentro anche vent’anni dopo la sua fondazione? Solo e soltanto a condizione che le persone interessate siano rimaste uguali! Ma questa sarebbe una vera e propria catastrofe apocalittica per l’uomo! Se invece, come dev’essere, tutti si evolvono nel corso di quei vent’anni, le condizioni esteriori che venti anni prima erano favorevoli per la loro evoluzione, non lo possono più essere altrettanto vent’anni dopo.

È un segno del loro essersi ulteriormente evoluti il fatto di volere che anche le istituzioni cambino. «Ma vent’anni fa la pensavi in modo completamente diverso!», dice uno al suo amico. E l’amico: «Certo, perché nel frattempo ho continuato a camminare, tu no?» Ovviamente questo non vuol dire che ogni dieci giorni si debba cambiare del tutto la propria concezione del mondo o il proprio modo di vivere!

La grande tentazione dell’uomo è di voler essere già ciò che invece è chiamato a diventare. Se un uomo si identifica esclusivamente con ciò che è già, con ciò che è già diventato, perde di vista ciò che può ancora diventare.

Allora tutto ciò che sono divenuto, tutto ciò che già sono, non ha nessun valore? Al contrario! Questo diventa base indispensabile per ciò che posso ancora conquistare. Ma si tratta del terreno per ciò che di nuovo nasce in ogni momento.

L’amore come apocalisse quotidiana

L’amore è un fattore di continuità o di discontinuità? È qualcosa di continuativo o qualcosa che si presenta in modo inatteso? Fa parte del ricorrente quotidiano o è qualcosa di sempre nuovo?

L’animo piccolo vorrebbe poter compiere grandi azioni, per dimostrare la propria grandezza. L’animo grande preferisce fare cose piccole con grande amore. La grandezza di un uomo non sta tanto nelle azioni, ma nel suo cuore, nello spirito col quale le compie. La ricerca del sensazionale, del nuovo esteriore, è la falsa grandezza esteriore, che cerca di compensare la mancanza di grandezza interiore.

La vera grandezza si manifesta nel quotidiano. Chi non dà importanza al quotidiano, non dà importanza alla propria vita, che è fatta di un giorno dopo l’altro. La grandezza del cuore e del pensiero non conosce confini, e può esprimersi nei più piccoli gesti della vita di ogni giorno. La vera grandezza non consiste nel fare cose grandi, ma nell’essere grandi nel fare le più piccole cose. Come la decisione presa qui e ora di prestare attenzione all’altro, di prendere a cuore ciò che sta a cuore a lui.

Possiamo osservare anche un’altra polarità da un lato la convinzione di fondo degli uomini che lavorano principalmente come operai o dipendenti, e dall’altro quella di coloro i quali si considerano soprattutto imprenditori e datori di lavoro.

L’operaio pensa: «Io vivo del mio lavoro». L’imprenditore sostiene: «Io vivo del mio denaro, del mio capitale.» Si tratta di due grandi non verità. Se un uomo sostiene di vivere del proprio lavoro, non la dice giusta perché al giorno d’oggi, a fronte della divisione del lavoro in tutti i processi produttivi, non c’è più nessuno che sia in grado di vivere del proprio lavoro.

L’atteggiamento interiore che si cela dietro la convinzione di vivere del proprio lavoro è quello di disinteresse per tutto quello che gli altri fanno perché uno possa vivere. Non si tratta tanto di «avere interesse» per il nostro simile, quanto di «interessarsi» a lui in modi sempre nuovi. «Essere interessati» si riferisce ad uno stato psichico che c’è senza nostro sforzo. Provare interesse, interessarsi, può verificarsi invece solo se ci si dà da fare in modo cosciente e libero.

Normalmente una madre non ha bisogno di interessarsi al suo bambino, perché è per natura interessata. Può invece decidere liberamente di interessarsi ai figli degli altri. Dove manca l’interesse di natura, può nascere l’interessamento della libertà. Ma perché manca così spesso l’interesse per l’altro? Per darci la possibilità di farlo sorgere noi liberamente!

Una componente essenziale dell’interessarsi agli altri consiste nel tener presente che ognuno vive dei talenti e delle prestazioni di tutti, non del suo proprio lavoro. In questo modo io comincio ad interessarmi a tutti gli uomini, poiché senza di loro non potrei affatto vivere. Coltivo dentro di me un’infinita gratitudine nei confronti di tutti gli uomini.

Ma anche il capitalista che crede di vivere del proprio denaro è preda di una grande illusione. Immaginiamoci che debba mettersi a divorare le sue banconote! In realtà il suo capitale gli permette di far lavorare alle sue dipendenze un tot di persone, ed è grazie al lavoro di costoro che lui ha le cose di cui può vivere. Chi davvero vive del suo capitale, senza fare niente per gli altri, vive sfruttando gli altri. L’estrema conseguenza dell’interesse per l’altro è il sentirsi membro vivente nell’organismo dell’umanità – membro che per vivere dipende in tutto e per tutto dall’insieme dell’organismo.

Superando queste due illusioni, quella dell’operaio e dell’imprenditore che vivono in ognuno di noi – poiché ogni uomo è per tanti versi sia l’uno sia l’altro – andiamo in cerca dell’atteggiamento giusto. Dal momento che io sono una persona con molti bisogni, vivo grazie ai talenti degli altri che li soddisfano. Ed essendo dotato di molti talenti, li metto al servizio degli altri facendoli vivere a loro volta. Non esistono uomini più o meno dotati; ognuno ha la sua misura colma di capacità. Che uno abbia una damigiana piena e l’altro solo un bicchiere non ha alcuna importanza: ognuno ha la sua misura colma. Ogni individualità umana è una fonte inesauribile di talenti.

Le due espressioni errate devono allora essere riformulate in modo corretto: come uomo con molti bisogni io vivo grazie ai talenti degli altri, e come uomo dai molti talenti vivo per gli altri. Questa duplice attenzione dell’amore si realizza sempre tramite una trasformazione interiore «apocalittica» che avviene nella continuità esteriore della vita quotidiana.

Se riportiamo questa cura «quotidiana» dell’attenzione e dell’interessamento ai grandi eventi dell’inizio di questo millennio, possiamo dirci: anche in ciò che concerne questi avvenimenti si tratta di estendere le energie dell’amore e dell’interesse all’umanità intera. Questo ampliamento degli orizzonti avviene a sua volta nella vita quotidiana, nell’interiorità dell’uomo, senza che all’esterno nessuno se ne debba accorgere.

E se un numero sempre maggiore di persone compie in modo sempre più profondo questa trasformazione interiore, il rinnovamento si manifesterà in misura sempre maggiore anche all’esterno: aristotelici e platonici si arricchiranno vicendevolmente; il centro dell’umanità diventerà un cuore che batte; l’oriente e l’occidente si aiuteranno a vicenda; persino la forza antagonista rappresentata da Arimane favorirà la forza del bene, e sempre più uomini verranno a conoscere per esperienza personale l’Essere pieno di amore.

A proposito di Pietro Archiati

Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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