Indice
Prefazione di Pietro Archiati 7
conferenze tenute a
basilea il 28 dicembre 1915 e a
dornach il 25 dicembre 1916
• Come una bimba incontrò Gesù Bambino - Un racconto natalizio 9
• Il Buon Gherardo - Un racconto natalizio 27
A proposito di Rudolf Steiner 63
Prefazione
Che cosa può capire del Natale una piccola bambina? Forse più di quanto non ne capisca oggi la maggior parte degli adulti! Diciamocelo sinceramente: che cosa capiamo oggi del Natale noi adulti? O, formulando la domanda in un altro modo: molti di noi non provano forse un certo imbarazzo al solo sentir pronunciare la parola Cristo o Gesù Bambino?
L’animo infantile – che ogni adulto vorrebbe recuperare almeno nel periodo natalizio – sente col cuore quanto grati possiamo essere noi uomini del fatto che nel periodo del freddo più pungente e delle giornate più buie – nell’epoca di un gelido egoismo e di un materialismo che ci ha oscurato la coscienza – faccia sempre ritorno a noi l’Essere del Sole, colmo di luce e calore, portandoci tutti i tesori della sua saggezza e tutti i doni del suo amore.
E che cosa ha a che fare col Natale la storia del buon Gherardo? Rudolf Steiner faceva sul serio quando ha raccontato questa storia proprio il giorno di Natale? Il buon Gherardo è un uomo per cui è assolutamente naturale fare di tutto per aiutare chi è in difficoltà. Un individuo così – questo mi pare il senso del racconto natalizio di Rudolf Steiner – dev’essere interamente pervaso dello spirito del Bambin Gesù, che per amore ha fatto – e continua a fare – di tutto per gli esseri umani che sono oggi più in difficoltà che mai.
Pietro Archiati
Come una bimba
incontrò Gesù Bambino
Un racconto natalizio
Conferenza tenuta a Basilea
il 28 dicembre 1915
Cari amici,
avete appena sentito parlare dell’intima connessione fra la festa del Natale e lo spirito all’opera nella natura. È vero: questo pensiero può pervadere in modo particolarmente caldo e profondo le nostre cerchie scientifico-spirituali alla vista dell’albero illuminato nella notte di Natale, nel cuore buio dell’inverno.
Di tutti i simboli che sono entrati nella cultura a partire da una certa coscienza elementare, non superficiale, l’albero di Natale è uno dei più recenti. Se torniamo indietro di circa duecento anni nel corso della vita culturale europea, troviamo che l’albero di Natale compare qua e là solo in casi sporadici. Non è un simbolo natalizio molto antico.
A questo pensiero, che cioè l’albero di Natale suscita la gioia, l’impulso alla gratitudine nel cuore infantile, si associa in noi facilmente l’altro pensiero che quest’albero di Natale è diventato infinitamente caro a molti dei nostri gruppi di lavoro, e che non vogliamo farne a meno quando festeggiamo il Natale tra di noi.
Veramente quest’albero di Natale – pur essendosi trasformato solo tardi in simbolo natalizio cristiano nelle profondità inconsce del cuore umano – è in relazione con sensazioni e sentimenti profondi a proposito della natura e del significato del Natale.
Nel Medioevo è nata la consuetudine di eseguire delle rappresentazioni natalizie a Natale, a Capodanno e alla festa dell’Epifania. La nascita di Cristo veniva rappresentata di villaggio in villaggio da contadini che si erano preparati a lungo per questa recita. Rappresentavano l’apparizione dei tre re magi davanti al Cristo appena nato.
Ma nella cosiddetta rappresentazione del paradiso recitavano anche ciò che nella Genesi viene descritto come la creazione della nostra Terra: quella scena che deve apparirci così fortemente illuminante, in grado di svelare i segreti della nostra stessa anima – la scena all’inizio della Terra, in cui risuonano quelle significative parole: «Potete mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma non dell’albero della conoscenza del bene e del male».
Oggi, in ricordo dell’intimo legame fra gli inizi della creazione terrestre e la festa del Natale, è rimasto solo il fatto che il nostro calendario il 24 dicembre presenta Adamo ed Eva e il 25 la ricorrenza della nascita del Cristo Gesù.
E tuttavia – come già detto, a livello non tanto razionale quanto emotivo – non si può fare a meno di chiedersi: non è forse sorto dalle oscure profondità del cuore umano, dalla sensibilità cristiana, l’impulso di allestire il giorno della nascita del Cristo quell’antichissimo albero cosmico, l’albero del bene e del male posto al centro del paradiso, quell’albero di cui non si sarebbero dovuti mangiare i frutti?
La rappresentazione del paradiso veniva messa in scena. Come reminiscenza del paradiso restava l’albero del paradiso, che venne collegato ai sentimenti che possiamo provare riguardo alla nascita del Cristo Gesù.
Non voglio elaborare teorie in questa sede, non si addicono a questo giorno di festa. Certo, si può dire altro sui motivi della nascita dell’albero di Natale. Ma è da un punto di vista del cuore – del sentimento che dovrebbe sorgere in noi mentre gli stiamo accanto, mentre facciamo risplendere nella nostra anima i sentimenti che ci legano a questa festa –, è a partire dai sentimenti più infantili dell’uomo che si desidera parlare mentre si contempla l’albero di Natale, quando in esso si vede come un rinascere dell’albero del paradiso.
Quest’albero di Natale non si presenta come un simbolo pagano, e neanche solo nordico. Quando la nostra Terra si copre di neve, quando i ghiaccioli pendono dai bordi dei tetti delle case e dagli alberi, e gli uomini fuggono da quei luoghi della Terra dove per mesi il verde e il variopinto mondo dei fiori incantano gli occhi, e che hanno offerto i frutti necessari all’uomo, quando l’uomo deve ritirarsi da tutto ciò che, perlomeno nella sua percezione, si trova là fuori, tutto ciò con cui vive in primavera e in estate – quando si deve rifugiare in quelle stanze dalle quali la neve e i ghiaccioli si osservano là fuori, stanze che deve riscaldare dall’interno, allora gli uomini che vivevano prima di Cristo percepivano qualcosa di quello che il mondo potrebbe diventare se fosse lasciato a se stesso.
Il pagano sentiva avvicinarsi il grande inverno della fine dell’esistenza terrena quando era così abbandonato dagli spiriti della natura, da tutto ciò che lui percepiva come gnomi, ondine e silfidi, quando doveva rifugiarsi nel calore della stufa, quando doveva fuggire da quella parte della sua amata natura che lo voleva abbandonare, quando da una piccola finestra osservava ciò in cui non poteva essere. Quando viveva questo senso di abbandono, in quel periodo invernale dilatato all’infinito, sentiva che tutto veniva sommerso, tutto veniva coperto, sentiva la fine dell’esistenza terrena, il grande inverno del mondo.
E il cristiano gli avrebbe risposto, di nuovo forse non per comprensione teorica, ma grazie a un intuito del cuore: «Sì, potresti aver ragione, questo sarebbe accaduto alla Terra se quell’albero, del quale gli uomini hanno goduto il frutto della conoscenza del bene e del male nonostante la proibizione, a causa della tentazione luciferica, avesse sviluppato il suo potere».
E se si pensa in questo modo all’evoluzione della Terra, con la meta prefigurata dal senso di abbandono e di solitudine dell’inverno, dal freddo e dal gelo che anche in riferimento all’anima incomberebbero su tutta la Terra, e se lo si collega alle conseguenze della seduzione luciferica, agli effetti dell’aver goduto dell’albero della conoscenza del bene e del male, allora si può sentire davvero anche che cosa significa effettivamente il Natale.
Prima del pensiero del Natale è giunto alla coscienza degli uomini dell’evoluzione cristiana il pensiero della Pasqua, quel pensiero che è contenuto così significativamente nei simboli pasquali, secondo il quale l’uomo è stato liberato da tutto ciò che si trova nella seduzione luciferica. La grandiosità dell’esperienza del pensiero pasquale può scuotere e attraversare l’anima nel periodo primaverile, al risveglio della natura.
Ma le cose sono diverse con il pensiero natalizio, con quest’altro lato del pensiero cristico. Per capire il pensiero pasquale occorre già qualcosa che bisogna aver ottenuto prima in termini di conoscenza. Il pensiero natalizio lo capiscono invece anche i bambini più piccoli nel loro cuore. E che cos’è questo sentimento che il cuore ha del Natale se lo si studia nei bambini che vengono chiamati dopo che le luci sono state accese e i regali disposti tutt’intorno – che cos’è mai questo profondo sentimento del Natale quando poi i bimbi vengono condotti davanti all’albero di Natale, quando ricevono i doni, quando viene detto loro che è stato Gesù Bambino a portarli – qual è la cosa essenziale?
Forse i bambini non lo sanno, ma lo sentono inconsciamente in quelle profondità dell’anima umana, così intime che non sempre le si può chiamare alla coscienza. Che cos’è questa cosa essenziale, se si indaga a fondo ciò che vive nei bambini – di solito non lo si fa –, quando si sentono dire che questi regali gli sono stati portati da esseri celesti? Non sono quei regali che loro stessi possono cogliere là fuori lungo il ruscello, in primavera e in estate, no, sono doni che vengono dal Cielo, non dalla Terra. Che cos’è che vive allora nei bambini?
Se si guarda a fondo nei cuori dei bambini con occhi che possiamo definire «veggenti» e che si acquisiscono a poco a poco, si può dire: la cosa più importante, il sentimento più intenso che vive inconsciamente nei cuori infantili è un’infinita, profondissima gratitudine.
E se ci si immedesima in essa, si sente qualcosa del pensiero che fa sgorgare questo sentimento di gratitudine. Perché mai questa gratitudine inonda il cuore, le anime dei bambini, perché mai?
È perché nel profondo dell’inconscio questo cuore si dice: noi uomini dobbiamo essere grati di non essere stati abbandonati, riconoscenti per il fatto che dalle altezze spirituali un Essere si sia chinato verso di noi, che abbia voluto dimorare sulla Terra con noi uomini – su quella Terra che sarebbe dovuta rimanere buia a causa della tentazione in paradiso, che si sarebbe dovuta raffreddare e irrigidire all’ingresso del grande inverno. Ogni anno quell’Essere ritorna su questa Terra che si appresta all’irrigidimento, nel periodo che ci annuncia a livello sia simbolico sia reale la fine della Terra nel gelo dell’inverno, nel buio, nell’oscurità.
Grati dobbiamo essere noi uomini allo spirito cosmico che è sceso per unirsi all’evoluzione terrena degli uomini, così che non dobbiamo temere il sopraggiungere del grande inverno, ma possiamo sperare che quando, per via del corso naturale esteriore della Terra, dovesse seguire il grande inverno nel suo gelo cosmico, sarà con noi quell’Essere che ogni anno ci si avvicina in forma di Bambino e che ringiovanisce la Terra, così che essa non si irrigidisca, ma venga portata alla sua ulteriore esistenza nel cosmo.
Ecco da dove viene il calore infinito che emana dal Natale. Ed ecco da dove viene il carattere particolarmente convincente del Natale.
Il Natale ha qualcosa di convincente, di dimostrativo riguardo al Cristo: nei suoi confronti si può provare che quanto rappresenta è evidente e vero per il fatto che, non appena il solo pensiero di questa festa viene concepito nell’animo del bambino, esso afferra immediatamente nel proprio pieno significato il cuore infantile, l’anima bambina e tutto ciò che vi è di infantile nell’uomo, indipendentemente dal fatto che questo elemento fanciullesco si manifesti nel bambino o nell’adulto.
Proprio coloro che da un lato sanno vivere in sintonia con la natura esteriore, con tutta la sua bellezza primaverile ed estiva, e che sanno anche cogliere il particolare senso di solitudine dell’inverno, che vivono l’atmosfera sacra del periodo natalizio, riescono a sentire anche questo carattere di assoluta evidenza del Natale.
Vedete, uno scrittore che durante la sua vita si è sempre immerso in un’osservazione minuziosa della natura, che ha parlato meravigliosamente del Natale nelle sue poesie, afferma: «Gli uomini dicono che un temporale, una tempesta, un terremoto, un’eruzione vulcanica potrebbero essere grandiosi. Io trovo grandiosa la coccinella che cammina sulla foglia, se solo la si coglie nel suo intimo essere».
Più o meno così si è espresso Adalbert Stifter. E da questa sua comprensione della grandezza nelle cose piccole della natura, di ciò che pervade spiritualmente tutta la natura, è nata anche quella bella composizione natalizia nella cui nota fondamentale vive l’elemento dimostrativo del Natale.
Lo scrittore ci conduce in una solitaria vallata delle Alpi, che naturalmente ha una valle collaterale. In entrambe le valli ci sono dei villaggi. Come avviene nelle Alpi, perlomeno nei tempi andati, gli abitanti di una valle si incontrano di rado con quelli dell’altra. Ma ecco che un abitante di una delle due valli – un calzolaio – sposa una donna dell’altra valle. Costei viene considerata una straniera, pur essendo nata solo dall’altra parte della montagna. I due mettono al mondo dei bambini. I nonni vivono nell’altra valle. Il nonno ce l’ha un po’ con il genero, per cui si interessa poco dei bambini. La nonna è venuta spesso a trovarli, ma quando i bambini sono cresciuti un po’, pur essendo ancora piccoli, la nonna è diventata troppo vecchia per recarsi da loro, così sono stati i nipoti ad andare da lei. Una volta i due bambini vennero mandati dai nonni alla vigilia di Natale, dato che le condizioni atmosferiche non presentavano alcun rischio, e si misero in cammino. Poiché erano ancora piccoli, ricordavano poche volte di essere stati davanti all’albero di Natale nel silenzio notturno del rifugio alpino e di aver udito qualche parola a proposito del mistero del Cristo, solo poche parole. E ora che sono ancora relativamente piccoli vengono mandati a trovare la nonna. Si poteva sperare che il tempo si mantenesse bello. Si recarono dalla nonna nel villaggio vicino e lei diede i suoi regali ai bambini e li esortò a far ritorno a casa con prudenza. Ma ecco che cominciò a nevicare. I bambini dovevano attraversare la montagna per raggiungere l’altra valle, ma persero la strada, non riuscirono più a ritrovare il sentiero e si smarrirono. Il ragazzo, un po’ più grandicello, si prese a cuore la sorellina. Attraversarono addirittura un ghiacciaio. Riuscirono a mantenersi in vita solo grazie al caffè che avevano ricevuto in dono dalla nonna. Il ragazzo una volta aveva sentito dire che con il caffè si può impedire l’assideramento. Già, non trovavano più la via di casa. La notte diventava sempre più buia e loro due erano lassù fra ghiaccio e neve, così che non potevano sentire nemmeno le campane di Natale che risuonavano dappertutto a mezzanotte. E così rimasero svegli tutta la notte di Natale, mentre giù al villaggio non solo i genitori ma tutti quanti erano stati colti dalla paura. La gente era uscita a cercare i due bambini, ma loro erano lassù nella solitudine. Dovettero aspettare, mentre cercavano di tenersi caldi in tutti i modi che la loro arguzia infantile gli suggeriva, dovettero aspettare che a poco a poco si facesse mattino. Avevano la neve e il ghiaccio sotto di sé e le stelle sopra di sé. Poi, mentre fissavano il cielo, sul far del mattino apparve in cima alle montagne un meraviglioso chiarore.
I bambini furono ritrovati, li si portò a casa semiassiderati, li si mise a letto. Si erano persi la sera della vigilia, ma il giorno dopo ricevettero tutti i loro regali. Per prima cosa però dovettero riprendersi dall’assideramento e furono quindi messi a letto. La madre – non sto a raccontare tutte le varie scene, descritte in maniera commovente da questo scrittore – si siede accanto al letto della bambina e si fa descrivere la terribile esperienza vissuta. Allora la bambina che, come vi ho detto, aveva udito solo un paio di volte qualche parola sul significato del Natale, le dice: «Mamma, quando eravamo lassù e sentivo un freddo da morire, mentre non vedevamo altro che la neve e le stelle, ho fissato le stelle e sai chi ho visto, mamma, mentre guardavo il cielo? Ho visto Gesù Bambino!».
Vi dicevo che una novella come questa ha qualcosa di evidente, poiché testimonia come il pensiero del Cristo si unisce intimamente, in modo naturale, elementare, con il cuore umano – anche se l’uomo non ha sentito molto parlare di questo pensiero cristico. Per questo non può che essere profondamente radicato nel cuore umano: lo si capisce a ogni età, a partire dalla più tenera infanzia! Lo scrittore, Adalbert Stifter, ha detto il vero: lo si capisce in modo da poter cogliere fin da piccoli la voce del Cristo nel linguaggio delle stelle.
Ciò ha veramente a che fare con la gratitudine per il fatto cosmico che un essere divino sia voluto scendere sulla Terra affinché gli uomini non restassero soli nell’evoluzione terrestre. «Il Soccorritore divino è venuto a strapparci alla solitudine» – è questo che sente l’animo del bambino.
Questo sentimento di gratitudine nei confronti delle potenze cosmiche, e che può essere così profondo, è il sentimento pieno di calore che infiamma i cuori degli uomini la notte di Natale. È questo che, la notte di Natale, rende spiritualmente calda la vita nel freddo dell’inverno, è questo che nella notte di Natale rende la vita così luminosa nel buio dell’inverno, quando il sole tocca il suo punto più basso.
E noi, che cerchiamo la conoscenza, la dobbiamo cercare in modo diverso da come è stata procurata dal tentatore. Ed è davvero la conoscenza che noi cerchiamo, la conoscenza spirituale!
L’albero della conoscenza deve contare molto per noi: se sentiamo nel modo giusto, l’albero di Natale è anche per noi l’albero della conoscenza. Ma non lasciamo che siano le potenze luciferiche a porgercelo, vogliamo invece riceverlo dal Cristo che è sceso sulla Terra.
Perché è così che quest’albero della conoscenza dev’essere ricevuto dal cuore umano, dall’animo umano, dall’anelito umano alla conoscenza: dev’essere accolto solo se è il Cristo che ce lo porge. Ciò che Lucifero non doveva dare all’uomo, viene offerto all’uomo dal Cristo.
E così si rinnova l’albero del paradiso, diventando l’albero di Natale. Ciò che Lucifero ha offerto all’uomo come tentazione viene riofferto all’uomo dal Cristo come riconciliazione.
E così anche il pensiero più maturo dell’anelito alla conoscenza viene collegato con il pensiero infantile dell’albero di Natale. Come il bambino accoglie alla vigilia di Natale come un dono sacro ciò che è solito vedere come doni della natura, della società, così possiamo pensare che noi riceviamo dal Cristo, che ha voluto unire i suoi impulsi con quelli della Terra, quanto ci è di più sacro e prezioso: il dono dell’albero della conoscenza.
Capiremo allora come animare nel senso della nostra visione del mondo la fervida gratitudine nei confronti dell’Essere cristico che ha voluto venire sulla Terra per liberare gli uomini dalla solitudine, simboleggiata dall’oscurità e dal freddo invernali. E dall’altra parte viene simboleggiato il fervore dell’anima con cui l’uomo può sentirsi in comunione con le potenze spirituali nel calore che emana da quella coscienza che inonda il nostro cuore a partire dal nostro spirito, quando capiamo nel senso giusto il simbolo dell’albero di Natale, del rinnovato albero della conoscenza – l’albero di quella conoscenza che ci viene offerta dal Cristo Gesù – quando lasciamo che questo simbolo natalizio, che riscalda il freddo del mondo, parli al nostro cuore, alla nostra anima.
il buon gHerardo
Un racconto natalizio
Cari amici
… L’epoca presente non è incline ad altro che ad assolutizzare il mondo dell’illusione, la maya, dichiarandolo verità assoluta. Provate a seguire i seminari di storia del giorno d’oggi… a che cosa si dà il nome di critica storica? Alla pura estrapolazione dei fatti esterni – che non possono che indurre in errore! Se infatti ci si sforza di esporre solo i fatti sensibili, si scivola nella maya. Ma la maya è per l’appunto l’illusione. Ecco allora che quel tipo di storia che si adopera a eliminare tutto ciò che è spirituale, per mettere in evidenza solo l’esteriorità dei fatti, finisce inevitabilmente per condurre proprio alla maya.
Provate a distillare la verità dei fatti storici con il metodo seminaristico del giorno d’oggi, con il metodo attuale degli Istituti di Storia: nel momento in cui scartate tutto ciò che è spirituale e mettete in evidenza solo ciò che accade sul piano fisico – i fatti sensibili –, cadete preda della maya, non potrete mai capire la storia.
Ma la storia non è sempre stata scritta in questo modo. Oggi si disprezza il modo in cui si scriveva la storia una volta. E fa parte di un destino terribile dell’umanità che già nell’osservazione della storia l’elemento spirituale debba in un certo senso essere eliminato.
Proviamo a risalire all’epoca in cui dominano ancora le idee del quarto periodo postatlantideo. Là si racconta la storia in un modo completamente diverso! La storia viene raccontata in modo tale che l’uomo d’oggi, contagiato dai cattedratici, storce il naso e dice: «Quelli non avevano nessun senso critico! Si sono bevuti tutti i miti e le leggende possibili. Non avevano un senso critico per esaminare i fatti nella loro verità».
Così dice lo storico d’oggi, e naturalmente a maggior ragione chi ripete le sue parole come un pappagallo. «A quei tempi gli uomini erano infantili!», dice quella gente. Lo erano senza dubbio rispetto ai parametri odierni. Ascoltiamo per esempio come è stata raccontata una vecchia storia che moltissimi uomini con l’ottica del quarto periodo postatlantideo consideravano qualcosa di storico. Prendiamo oggi in esame un esempio, così che ci fornisca la base per ulteriori considerazioni.
Viveva un tempo in Sassonia, così si narra, un imperatore che veniva chiamato l’imperatore rosso, l’imperatore con la barba rossa, Ottone dalla barba rossa. Questo imperatore aveva una sposa originaria dell’Inghilterra, che, per soddisfare le aspirazioni del suo cuore, desiderava avere una particolare fondazione ecclesiastica. Allora Ottone il rosso decise di metter mano alla fondazione dell’arcivescovado del Magdeburgo. Questo arcivescovado doveva svolgere una missione particolare in Europa, e precisamente quella di far da tramite tra l’occidente e l’oriente, così che proprio da quell’arcivescovado il cristianesimo venisse diffuso fra gli slavi che vivevano appena oltre il confine.
L’arcivescovado del Magdeburgo faceva grandi progressi, esercitando effetti estremamente benefici su un ampio territorio. E Ottone dalla barba rossa, che vedeva quali effetti benefici aveva sul territorio la sua fondazione, se ne rallegrava assai. «Una vera benedizione nel mondo terreno sono le mie azioni», si diceva. E desiderava sempre che Dio lo ricompensasse per le buone azioni che compiva per gli esseri umani. E questa era la sua aspirazione: ricevere la giusta ricompensa divina, dato che ciò che intraprendeva lo faceva per devozione.
Una volta era inginocchiato in chiesa e mentre, in una preghiera assurta al livello di meditazione, implorava che al momento della morte gli esseri divini lo ripagassero per ciò che aveva fondato, così com’era stato ripagato sul piano fisico dal bene sorto nel territorio dell’arcivescovado del Magdeburgo, gli apparve un essere spirituale che gli disse queste parole: «È vero, hai fatto del bene, hai compiuto buone azioni nei confronti di molti uomini. Ma l’hai fatto con la prospettiva di ricevere la benedizione divina dopo la tua morte, così come adesso hai ricevuto quella terrena. Questo non va bene, con ciò mandi in rovina la tua fondazione».
Ora Ottone dalla barba rossa si sentiva assai infelice mentre così conversava con l’essere spirituale, che noi sappiamo appartenere alla schiera degli Angeli – questo racconto proviene dal modo di pensare del quarto periodo postatlantico. E quell’essere gli spiegò: «Va’ a Colonia, là abita il buon Gherardo. Chiedi di lui e se potrai migliorare la tua anima grazie alle cose che ti dirà il buon Gherardo, allora forse potrai impedire che ti accada ciò che ti è appena stato detto». Questo più o meno è stato il colloquio fra Ottone dalla barba rossa e l’essere spirituale.
L’imperatore organizzò, in un modo alquanto incomprensibile per il suo seguito, un viaggio a Colonia. Giunto in quella città, convocò non solo il borgomastro, ma anche tutti i consiglieri saggi e illustri della città. Già dall’aspetto di uno dei convenuti riconobbe che si trattava di un uomo particolare – e in effetti era solo per lui che si era recato fin lì. Chiese all’arcivescovo che l’aveva accompagnato se quello fosse il cosiddetto buon Gherardo. Era proprio lui. Allora l’imperatore disse ai consiglieri: «Mi volevo consultare con voi, ma prima voglio parlare separatamente con quest’uomo e poi discutere con voi su ciò che avrò appreso dopo aver parlato con lui».
Forse i consiglieri, vedendo che uno di loro era stato prescelto, erano rimasti con un palmo di naso e coi musi lunghi – ma questo non ci interessa più di tanto. A ogni modo l’imperatore convocò in una stanza a parte il consigliere che a Colonia veniva chiamato il buon Gherardo e gli chiese: «Come mai ti chiamano il buon Gherardo»? Doveva fare quella domanda, perché l’angelo gli aveva detto che parecchio dipendeva dal fatto che lui capisse perché quell’uomo veniva chiamato il buon Gherardo. Era infatti tramite lui che doveva essere curato nella sua anima.
Allora il buon Gherardo disse pressappoco così: «Mi chiamano il buon Gherardo perché la gente è sconsiderata. Non ho fatto niente di speciale! Ma ciò che ho fatto e che è davvero insignificante, che non ti voglio raccontare e non ti racconterò, si è purtroppo risaputo. E poiché la gente ha sempre bisogno di inventare parole, vengo chiamato il buon Gherardo».
«No, no», disse l’imperatore, «non può essere così semplice la cosa! E per me e per il mio regno è estremamente importante che io sappia come mai ti chiamano il buon Gherardo».
Il buon Gherardo non lo voleva rivelare, ma l’imperatore divenne sempre più insistente, così il buon Gherardo gli disse: «Allora ti racconterò come mai mi chiamano il buon Gherardo. Ma non lo devi raccontare a nessun altro, perché non ci vedo davvero niente di speciale».
«Sono un semplice mercante, lo sono sempre stato, e un giorno ho organizzato un viaggio. Dapprima ho attraversato alcune regioni per terra, poi per mare, sono arrivato in Oriente, e ho comprato moltissime stoffe preziose e molti oggetti rari, tutto il possibile, a poco prezzo. Credevo che avrei rivenduto il tutto qui o là per il doppio, il triplo, il quadruplo, il quintuplo, perché così usano fare i mercanti – questi erano i miei affari, la mia professione. Poi proseguii il viaggio per nave, perché così era necessario. Ma in mare fummo travolti da un vento sfavorevole. Non sapevamo più dove eravamo, e io con pochi compagni venivo colpito dal vento in mare aperto, con i miei aggeggi e le mie stoffe preziose. Giungemmo a una spiaggia, su cui si ergeva una montagna. Mandammo un esploratore sulla montagna per vedere che cosa ci fosse dall’altra parte, dato che eravamo stati sbattuti sulla spiaggia. L’esploratore vide dall’altra parte della montagna un’imponente città, evidentemente una grande città commerciale: da ogni lato arrivavano carovane passando per una serie di strade, un fiume l’attraversava. L’esploratore tornò e noi riuscimmo così a trovare la via per attraccare con la nostra nave presso quella città.
Eravamo in una città straniera. Ben presto emerse che eravamo gli unici cristiani in mezzo a pagani. Vedemmo un vivace mercato e io pensai di potervi vendere di tutto, dato che in quella città le attività commerciali erano intense, ma non sapevo come fare. Allora sulla strada mi venne incontro un uomo che mi parve degno di fiducia. Gli dissi: «Mi potresti aiutare a vendere la mia merce qui»? Evidentemente anch’io gli avevo ispirato fiducia, perché mi domandò: «Da dove vieni»? Gli raccontai di essere un cristiano di Colonia. Al che lui rispose: «E dire che mi sembri un brav’uomo. Fino a oggi ho sempre avuto una pessima idea dei cristiani, ma tu non mi sembri un mostro. Ti aiuterò e ti procurerò un alloggio. E poi mi farai dare un’occhiata alla tua mercanzia».
Pochi giorni dopo aver sistemato il mercante nell’alloggio, arrivò il pagano che aveva incontrato, questi esaminò le merci, le trovò straordinariamente preziose e disse: «In città, nonostante vi sia un numero cospicuo di ricchi, non c’è nessuno che abbia denaro sufficiente per comprare queste cose, è assolutamente fuori discussione. Io qui sono il solo ad avere l’equivalente per queste merci. Se me le darai tutte io posso offrirti il loro controvalore, ma sono davvero l’unico ad averlo». Bene, l’uomo di Colonia voleva vedere le sue merci – raccontò all’imperatore tutto per filo e per segno.
«Sì, vieni da me e ti farò vedere le merci che posso offrirti in cambio delle tue, che sono davvero preziose, le più preziose del mondo».
Quando Gherardo giunse presso il pagano, si accorse subito di avere a che fare con uomo straordinariamente importante di quella città. Per prima cosa l’infedele lo condusse in una stanza in cui c’erano dodici giovinetti, legati come prigionieri, macilenti, in condizioni miserabili. «Vedi», gli disse, «sono dodici cristiani. Li abbiamo catturati in mare aperto, dove nuotavano senza meta. Ora ti mostrerò l’altra parte della merce». E lo accompagnò in un’altra stanza, dove gli mostrò altrettanti vecchi mal ridotti. A Gherardo la vista dei vecchi fece ancor più male al cuore di quella dei ragazzi. E poi il pagano gli mostrò anche un certo numero di donne – credo quindici –, anch’esse prese prigioniere. Dopo di che gli disse: «Se mi dai la tua merce, io ti darò questi prigionieri. Sono molto preziosi, puoi averli».
Gherardo, il mercante di Colonia, venne a sapere che fra le donne ce n’era una di grande valore, dato che era una principessa norvegese che aveva fatto naufragio con le sue ancelle – poche, le altre provenivano da altrove – ed era stata catturata dal pagano. Le altre erano inglesi. Anche i ragazzi e i vecchi erano inglesi, e precisamente erano partiti con il figlio del re d’Inghilterra, Guglielmo, che doveva andare a prendersi la sua promessa sposa norvegese. Al ritorno avevano fatto naufragio, e tutta la compagnia fu trascinata al largo. Il figlio del re, Guglielmo, fu separato dagli altri, e nessuno sapeva dove fosse finito. Gli altri l’avevano dato per disperso. Ma quelli che ho elencato, le donne e la figlia del re di Norvegia, i dodici nobili giovinetti dell’Inghilterra, i dodici nobili vecchi, le altre donne che erano andate a prendere la principessa con Guglielmo, quelli erano naufragati ed erano diventati prigionieri di quel principe pagano che li voleva dare a Gherardo in cambio delle sue merci orientali.
Gherardo versò molte lacrime, non per la merce, al contrario, per dover barattare un bene umano così prezioso con della merce, e concluse l’affare in base alle sue convinzioni. Il capo dei pagani era molto commosso e si diceva: «Questi cristiani non sono poi dei mostri così brutti». Gli fece preparare perfino una nave con tutti i viveri, così che Gherardo potesse portare con sé i ragazzi, i vecchi, la principessa e le fanciulle. E si accomiatò da lui con grande commozione, dicendogli: «Grazie a te d’ora in poi sarò molto magnanimo nei confronti di tutti i cristiani che prenderò prigionieri».
Il mercante Gherardo di Colonia viaggiò per mare e quando giunse al punto in cui si poteva riconoscere dove si separano le vie per Londra e per Utrecht, disse ai suoi compagni di viaggio: «Quelli che appartengono all’Inghilterra vadano ora in Inghilterra. Quelli che appartengono alla Norvegia – la principessa e le sue poche ancelle – verranno con me a Colonia, dove vedrò se colui al quale era destinata questa sposa verrà a prendersela, sempre che si sia salvato e si faccia vivo».
A Colonia Gherardo mantenne la principessa norvegese in condizioni adeguate al suo stato sociale. La famiglia si prendeva cura di lei con straordinario affetto … il buon Gherardo fece solo un piccolo accenno al fatto che sua moglie a tutta prima arricciò un po’ il naso quando lui arrivò a casa con la figlia di un re. Ma poi anche lei l’amò come una figlia… Beh, sono cose che si capiscono.
La giovane fu dunque accolta come una figlia, era molto amata, ma aveva un grande dolore che risultava dal fatto che piangeva sempre per il suo innamorato, Guglielmo. Aveva infatti creduto che lui, una volta salvato, l’avrebbe cercata ovunque e infine l’avrebbe trovata. Ma lui non arrivava mai. Nel frattempo la famiglia del buon Gherardo le si era affezionata e Gherardo aveva un figlio, così pensò che quella bella figliola potesse diventare la sposa di suo figlio. Ciò era possibile, in base al modo di pensare di quei tempi, solo se il figlio di Gherardo le fosse stato pari di rango. L’arcivescovo di Colonia si dichiarò disposto a nominare cavaliere il figlio. Tutto venne fatto come si deve: Gherardo era molto ricco, tutto andò per il meglio. Si fecero dei tornei e dopo aver atteso ancora un anno che Guglielmo si facesse vivo – la principessa aveva chiesto un anno ancora di attesa –, si organizzarono le nozze.
Durante la cerimonia comparve un pellegrino con una barba così lunga, da far capire che da molto tempo il rasoio non era passato sul suo volto. Il pellegrino era molto triste. Il buon Gherardo provò una grande pietà quando lo vide e gli chiese che cosa avesse. Il pellegrino gli rispose che era impossibile dirlo, poiché ormai doveva portare in giro per il mondo il suo dolore e da quel giorno sapeva che le sue sofferenze non sarebbero mai più state lenite.
Quel pellegrino altri non era che Guglielmo, che aveva perduto tutti i suoi compagni, era stato sbattuto su una costa, aveva vagato per il mondo come pellegrino ed era arrivato nel momento sbagliato, quando la sua promessa stava per essere data in sposa al figlio di Gherardo a Colonia.
Gherardo gli disse: «È la cosa più naturale di questo mondo che tu riceva la tua legittima sposa, parlerò con mio figlio».
Dato che anche la sposa era più innamorata del suo perduto Guglielmo, la faccenda si mise a posto. E dopo aver festeggiato a Colonia le nozze con Guglielmo, Gherardo portò a Londra l’erede al trono d’Inghilterra con la sua sposa. Una volta arrivati, lasciò prima indietro gli altri. Era ben conosciuto come mercante, era già stato diverse volte a Londra… Entrò in città e sentì dire che c’era una grande riunione. Tutto era in subbuglio, già all’apparenza c’era un’aria di rivoluzione. Gherardo sentì dire che nel paese erano scoppiati dei disordini poiché non c’era un successore al trono. Si diceva che l’erede al trono era scomparso da anni, che non era più tornato, che aveva dei seguaci nel paese, ma tutto il resto era in disaccordo e adesso si voleva cercare un successore al trono.
Gherardo indossò il suo abito più bello e andò alla riunione. Fu lasciato entrare, dato che indossava il suo abito migliore, che su quel ricco mercante faceva un effetto straordinariamente sfarzoso. E lì trovò ventiquattro uomini che si consultavano per decidere chi mettere sul trono al posto del loro amato Guglielmo. E vide che quei ventiquattro uomini erano i ventiquattro che aveva liberato dal capo pagano, quelli che quando le strade per Londra e Utrecht si erano divise lui aveva mandato a Londra. Essi non lo riconobbero subito, e gli raccontarono di aver perduto Guglielmo, il loro amatissimo Guglielmo. Ma poi Gherardo e gli altri si riconobbero, ed egli disse che gli avrebbe presentato il loro Guglielmo.
Così si risolse la questione. Non c’è bisogno che vi descriva la gioia che regnava in Inghilterra. Guglielmo divenne re d’Inghilterra. In un primo momento, quando ancora non sapevano chi Gherardo avrebbe portato, ma avevano già riconosciuto in lui quello che li aveva salvati, i ventiquattro avrebbero voluto acclamare re Gherardo. E ora Guglielmo voleva dargli il ducato del Kent, ma lui non lo accettò. Perfino dalla nuova regina, che era stata così a lungo sua figlia adottiva, non accettò i tesori che gli voleva donare, ma solo un anello e poco altro, che volle portare a casa a sua moglie in ricordo della figlia adottiva. Poi ripartì per Colonia.
«Questo è ciò che purtroppo si è risaputo nel mio ambiente», disse il buon Gherardo a Ottone il rosso, «e per questo mi chiamano il buon Gherardo. Ma decidere se quello che ho fatto è buono o meno, non spetta agli uomini, e neppure a me. E per questo è del tutto assurdo che oggi la gente mi chiami il buon Gherardo, se le parole devono avere un senso».
Ottone il rosso, l’imperatore, ascoltò attentamente e si rese conto che c’è un altro modo di vivere rispetto a quello che aveva sviluppato lui, e che quest’altro modo di pensare si trovava addirittura presso un mercante di Colonia. La cosa lo impressionò profondamente. Ritornò alla riunione del consiglio e disse ai convenuti: «Potete andare a casa, ho già appreso tutto il necessario dal buon Gherardo». Quei consiglieri saggi e illustri rimasero ancor di più con un palmo di naso, ma l’anima di Ottone il rosso aveva ormai preso una piega completamente diversa.
Così si narrava una volta la storia! Naturalmente lo storico d’oggi – che vuole semplicemente estrapolare i fatti che si svolgono sul piano fisico – critica da cima a fondo ciò che è stato appena raccontato. Ma nella concezione storica ancora dominante nel quarto periodo postatlantideo si raccontava così non solo questo episodio, ma anche molti altri, in modo da non raccontare solo i fatti fisici, ma anche il significato connesso al mondo spirituale. Si lasciava che quanto accadeva sul piano fisico si intrecciasse con il significato che lo pervade.
E non c’è dubbio che la storia di Ottone il rosso e del buon Gherardo racchiuda un significato davvero profondo!
Glossario
L’anima umana può venir compresa soltanto se la si considera in relazione con lo spirito pensante da un lato e con il corpo fisico dall’altro. È il vero mondo interiore soggettivo dell’uomo. La possiamo distinguere in tre parti:
Anima senziente: la fonte dell’attività interiore che risponde alle impressioni del mondo esterno con le sensazioni. È il mondo interiore delle sensazioni, dei sentimenti (piacere, dispiacere ecc.), delle emozioni, degli impulsi, degli istinti, delle passioni. Per tale elemento l’uomo è affine all’animale.
Anima razionale: la fonte dell’attività interiore che pone il pensare al proprio servizio, per cui non si seguono alla cieca nemmeno i propri impulsi. L’anima compenetrata dalla forza pensante.
Anima cosciente: il nocciolo della coscienza umana intellettiva, l’anima nell’anima, l’elemento interiore in cui vive la verità e il bene in sé anche quando tutti i sentimenti personali si sollevano loro contro. Ciò che di eterno risplende nell’anima: quanto più l’anima si riempie di ciò che è vero e buono, tanto più cresce e si estende l’eterno in lei.
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