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Redazione a cura di Stefania Carosi

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www.liberaconoscenza.it

ISBN 978-88-96193-67-9

Pietro Archiati

«VOI SIETE DÈI!»

L’UOMO IN CAMMINO

Il quinto vangelo, fonte di tutti i vangeli

Volume 1

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Indice

Note introduttive

Prefazione

Prima conferenza

la scienza degli iniziati

L’evento del Cristo e ciò che l’uomo ne ha capito

I vangeli narrano solo una leggenda?

Il linguaggio esoterico e il linguaggio essoterico

Il fenomeno Rudolf Steiner

I quattro evangelisti: quattro iniziati

L’evento del Cristo è un fatto senza paragoni

dibattito

Seconda conferenza

i perenni misteri dellevoluzione

«Chi vuole venire dietro a me…»

Il fine e la fine

Il fantòma e la tomba vuota

La creazione dal nulla

Il sussulto della Terra

dibattito

Terza conferenza

la discesa agli inferi

Gli inferi nell’uomo

La vita di Gesù dai dodici ai trent’anni

Gli inferi nella natura

L’ascensione al cielo

Il karma umano

Il perdono karmico

dibattito

Quarta conferenza

lenigma della morte

La morte è un evento della coscienza

L’uomo è immortale? Dipende

Pensieri morti e pensieri vivi

Azioni morte e azioni vive

«Io vado al Padre»

dibattito

Quinta conferenza

i tre anni di incarnazione del Cristo

L’incarnazione del Cristo nel Gesù

Perché tutto questo dolore?

«Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue»

Come ha parlato il Cristo

Come ha agito il Cristo: i “miracoli”

I quattro livelli di guarigione

I quattro sacrifici dell’Essere solare

dibattito

Sesta conferenza

il padre nostro

Il culto della messa

Il mistero dei due bambini Gesù

Il dialogo fra Gesù e la madre adottiva

Il Padre Nostro rovesciato

Gesù racconta la visione del Buddha

dibattito

Settima conferenza

le tre grandi tentazioni

Perché i vangeli non parlano della vita di Gesù

dai dodici ai trent’anni?

Gesù verso il Giordano: l’incontro con gli esseni

Gesù verso il Giordano: l’incontro col disperato

e col lebbroso

Le tre grandi tentazioni

dibattito

Ottava conferenza

il ritorno del Cristo

La responsabilità di conoscere la scienza dello spirito

Il nostro ritorno all’Io Sono

Come si percepisce il Cristo nel mondo eterico

Il Signore del karma

Essere gli uni negli altri, ben radicati nel proprio Io

dibattito

Letture correlate

A proposito di Pietro Archiati

Note introduttive

«Voi siete dèi» L’uomo in cammino, volumi 1, 2, 3, raccolgono le prime pubblicazioni di Pietro Archiati in Italia, esaurite da oltre un decennio: Il quinto vangelo (1992), Lettura esoterica dei vangeli (1996) e Dal cristianesimo al Cristo (1997). L’argomento trattato è l’evento del Golgota, è la grande svolta dell’evoluzione umana vista in un’ottica a dir poco rivoluzionaria.

Non è stata fatta una semplice ristampa di quei libri perché nel corso degli anni Pietro Archiati ha portato la scienza dello spirito (antroposofia) di Rudolf Steiner a un pubblico sempre più vasto, creando un nuovo linguaggio che non dà per scontata nessuna conoscenza esoterica.

I contenuti sono perciò rimasti gli stessi di tanti anni fa ma il linguaggio è stato snellito e sono state ampliate e inserite nel testo le note esplicative.

I tre volumi presentano in questa nuova edizione un percorso unitario che inizia dalla percezione diretta dei fatti di duemila anni fa da parte dell’iniziato Rudolf Steiner («Voi siete dèi» L’uomo in cammino. Il quinto vangelo, fonte di tutti i vangeli, vol 1), passa alla descrizione e decifrazione del linguaggio tecnico-esoterico dei vangeli («Voi siete dèi» L’uomo in cammino. Le chiavi di lettura dei vangeli, vol 2) e conclude con una disamina del cristianesimo non come religione, ma come nuovo umanesimo ancora tutto da costruire («Voi siete dèi» L’uomo in cammino. Il mio regno non è di questo mondo, vol 3). Quest’ultimo testo è corredato da numerosi stralci di conferenze di Rudolf Steiner, tradotti da Pietro Archiati.

Auguriamo a tutti una buona lettura, perché è davvero una buona lettura.

La Redazione

Prima conferenza

LA SCIENZA DEGLI INIZIATI

Firenze, 2 gennaio 1992

Cari amici,

alla base di queste conferenze metterò due mie convinzioni fondamentali e mi sembra importante e onesto dichiararle.

La prima riguarda la centralità assoluta dell’evento del Cristo, quale chiave di volta dell’evoluzione umana e della Terra: non è per me un enunciato di partenza, ma il risultato del cammino, soprattutto conoscitivo, di tutta la mia vita. Cercherò allora di esporre in questi giorni alcune proposte per un’interpretazione dell’esistenza umana che abbia al suo centro l’evento del Cristo.

Viviamo in tempi in cui il pensare si occupa di tutto fuorché di questo mistero: a esso si rivolge la religione, per molti aspetti separata dalla vita. Non abbiamo ancora una cultura capace di scorgere connessioni sostanziali tra i fondamenti di ciò che è umano e l’Essere del Cristo stesso.

Anzi, la stessa parola Cristo è diventata difficile da pronunciare perché ha perso il significato universale originario ed è diventata patrimonio esclusivo di una porzione dell’umanità. La parola Cristo viene dal greco CristÒj (Christòs) che significa l’Unto. Nell’antichità “Unti” dall’olio, simbolo dorato del Sole, erano i re, i sacerdoti e i profeti, cioè coloro che operavano per l’evoluzione dell’umanità offrendosi con dedizione e generosità, come fa il Sole. In questo senso è possibile indicare il Cristo col nome di Essere del Sole, o anche Essere della Libertà, Essere dell’Amore, Essere dell’Io e moltissimi altri nomi.

La seconda convinzione sulla quale fondo le mie riflessioni è l’importanza della figura di Rudolf Steiner che, all’inizio del novecento, ha comunicato all’umanità la scienza dello spirito (o antroposofia).[1]

L’evento del Cristo e ciò che l’uomo ne ha capito

Per stabilire un primo rapporto tra il mistero del Cristo e la scienza dello spirito di Rudolf Steiner (1861-1925), la cosa più importante è distinguere l’evento del Cristo da ciò che gli esseri umani ne hanno compreso in base alle loro forze conoscitive e morali. Se paragoniamo queste due dimensioni tra loro, restiamo esterrefatti per la disparità che esiste tra la perfezione di ciò che il Cristo ha compiuto e l’imperfezione smisurata di ciò che l’umanità ne ha capito.

Quanto è avvenuto duemila anni fa ha natura di assolutezza e di compiutezza: ha portato nella Terra tutte le forze che condurranno l’umanità per il resto dell’evoluzione. La venuta del Cristo ha mutato il mondo e l’intera umanità in modo tale che questa trasformazione ha carattere finale: non le manca nulla, non è passibile in se stessa di miglioramento né di incremento alcuno. Se così non fosse, dovremmo implicitamente affermare che ciò che il Cristo ha compiuto nel tempo della Sua incarnazione sia sostanzialmente manchevole, e che quindi Egli debba ancora aggiungere qualcosa a quel che ha fatto in modo incompleto.

D’altra parte, però, l’umanità è ancora agli inizi riguardo alla comprensione oggettiva del mistero del Golgota: per duemila anni, infatti, ha vissuto con questo evento un rapporto del cuore, del sentimento. Fino a circa un secolo fa è stata la fede delle generazioni precedenti a permettere agli uomini di venir compenetrati profondissimamente dal mistero del Cristo. Non era una conoscenza scientifica vera e propria. Molti di noi ricordano che quando nasceva il desiderio di capire, di avere chiarificazioni del pensiero più profonde, la risposta dei genitori e dei nonni era sempre: non c’è bisogno di tante spiegazioni, basta credere.

Il Cristo, in questi duemila anni, ha afferrato i cuori degli uomini, non tanto le loro menti. Questo è un dato storico importantissimo, da cogliere nella sua oggettività. Moltitudini di persone sono state forgiate dalla presenza vivente dell’Essere del Sole che operava in loro, ma non c’era l’aspirazione a una conoscenza scientifico-oggettiva dell’evento che le compenetrava.

I vangeli narrano solo una leggenda?

Soprattutto nel secolo scorso, è invalsa nell’umanità l’aspirazione ad accostarsi ai testi evangelici con la mentalità storico-scientifica delle università e del mondo accademico, e i vangeli non hanno retto a questa prova. Si è scoperto ben presto che non possiedono alcuna autorevolezza se li analizziamo secondo i criteri storiografici ufficiali: si sono notate tante contraddizioni tra un vangelo e l’altro delle quali, prima, non ci si era accorti, proprio perché l’umanità non aveva mai vissuto esigenze critiche.

Per esempio, si è rilevato che dopo la nascita del bambino Gesù nel Vangelo di Matteo i genitori fuggono in Egitto, mentre nel Vangelo di Luca tornano a Nazareth, da dove erano scesi per venire a Gerusalemme. Possiamo chiederci come mai l’umanità, per quasi duemila anni, non abbia mai trovato difficoltà di fronte a questa presunta contraddizione. Fatto sta che la critica moderna l’ha messa in rilievo e dice: o sono fuggiti in Egitto, o sono ritornati a Nazareth, ma non le due cose contemporaneamente. Quindi Luca e Matteo non possono avere ambedue ragione.

Cosa ne segue? I protestanti sono stati i primi ad avere meno remore rispetto ai cattolici e hanno detto: non abbiamo a che fare con testi storici. I vangeli sono testi teologici e apologetici che non vogliono indicare esattamente i fatti accaduti, ma intendono narrarci dei contenuti di fede.

Una volta compiuto questo primo passo, lascio a voi immaginare con quanta velocità tutti gli altri siano seguiti, fino al punto di dire che non possiamo neanche essere sicuri che il Cristo sia realmente vissuto. L’unica cosa di cui si è certi è che circa duemila anni fa furono composti dei testi che testimoniano il prodotto delle menti di coloro che li scrissero: ma non siamo in grado di dire se i contenuti, per noi di difficile accesso, corrispondano a fatti avvenuti oggettivamente.

Sono di nuovo i protestanti che, per primi, hanno parlato del “mito” del Cristo: come tremila, cinquemila anni fa i babilonesi, gli egiziani e i greci inventarono i loro miti, così duemila anni fa è sorta un’altra bella leggenda.

Dal momento in cui l’umanità ha cominciato ad accostarsi al tema dei vangeli con la mente critico-oggettiva della scienza storica attuale, questi testi sono stati inficiati nella loro capacità di dirci che duemila anni fa un evento oggettivo e centrale ha posto nella Terra le forze che consentono, a ogni essere umano che le afferri e le faccia sue, la libertà di trasformare tutta l’evoluzione successiva.

Così si spiega il fatto che negli ultimi decenni noi siamo andati perdendo un rapporto reale coi vangeli, occupandoci sempre meno di dimostrarne la fondatezza e considerandoli sempre di più come testi del tutto marginali per la nostra cultura. L’atteggiamento pre-critico e pre-scientifico della fede e del cuore va contemporaneamente perdendo la sua forza. Coloro che oggi si interessano dei vangeli hanno un approccio problematico, complesso e difficile: vogliono capire.

I vangeli sono pieni di paradossi e di narrazioni che appaiono irreali: l’uomo d’oggi vorrebbe spiegazioni capaci di soddisfare la sua ricerca conoscitiva, ma si allontana dai testi evangelici scoraggiato da risposte inadeguate.

Il linguaggio esoterico e il linguaggio essoterico

Sulla base di queste considerazioni appare ancora più straordinario il fenomeno Rudolf Steiner: attraverso di lui sorge nell’umanità la possibilità di un rapporto con i vangeli del tutto nuovo. La dimensione della fede e del cuore non viene sminuita ma approfondita nella sua vera natura: ciò che vi si aggiunge di nuovo è la possibilità di accostarsi alle Scritture con conoscenza oggettiva, quella che deriva dal possedere le giuste chiavi di lettura.

In fondo, la difficoltà d’accesso ai vangeli per l’uomo moderno, sia laico che religioso, sta proprio nel fatto che mancano gli strumenti di comprensione per quel linguaggio. I vangeli non sono testi ordinari, scritti per tutti: in origine erano rivolti ai pochi in grado di comprenderli ed erano destinati poi, nel corso del tempo, a diffondersi in tutta l’umanità. Sono testi scritti in un linguaggio esoterico, che è un linguaggio tecnico ben preciso.

Dobbiamo fare una distinzione tra ciò che nell’umanità è essoterico e ciò che è esoterico. Etimologicamente œxw (éxo) significa fuori, cioè per tutti, mentre œsw (éso) significa dentro, solo per gli intimi.

Basta prendere i vangeli stessi per vedere che il Cristo si esprimeva in due modi completamente diversi: quando rivolgeva il suo insegnamento alla folla parlava per parabole, per immagini, e quando colloquiava con i dodici apostoli spiegava il significato, dava concetti.

Che differenza c’è tra il parlare artisticamente per immagini e l’elaborare concetti?

Quando si racconta una parabola, una fiaba, e si lascia l’immagine vivere nella parola stessa, essa opera come un seme in colui che l’ascolta e se la rappresenta. La forza immanente delle immagini lavora nell’uomo senza che egli si accorga della propria trasformazione. In altre parole, a chi non era ancora in grado di afferrare il significato del Suo insegnamento tramite le proprie forze conoscitive, cioè forgiando concetti, il Cristo dava immagini capaci di operare trasformazioni nell’interiorità di chi le riceveva – come semi che germinano, crescono, portano foglie e frutti. Questo è il livello essoterico dell’insegnamento del Cristo.

• Il secondo tipo di insegnamento, quello esoterico, presuppone in chi ascolta un’autonomia interiore molto più forte, richiede la sua partecipazione attiva, fa appello alla mente, alla consapevolezza, al saper formare concetti che consentono di gestire in proprio il significato del messaggio che viene comunicato. Questo secondo livello era quello dei discepoli, che avevano le basi conoscitive per comprendere ciò che il Cristo diceva.

La distinzione tra l’essoterico e l’esoterico (riscontrabile anche nelle opere di Aristotele, per esempio) implica il riconoscere che gli uomini non sono tutti allo stesso stadio evolutivo, e che le tappe sono tante, molto diverse e tutte legittime. In passato ciò significava che quel che si può dire a una persona non lo si deve dire a un’altra, per non farle del male. Non era un discorso aristocratico o un vanto ingiustificato: rappresentava il rispetto delle tappe evolutive oggettive delle persone a cui si parlava. Bisognava capire con chi si aveva a che fare per decidere cosa fosse lecito dire e non dire.

Questa grande distinzione già oggi viene meno, non è più del tutto giustificata poiché incominciamo a essere nella condizione spirituale in cui è legittimo e necessario che ognuno sappia il più possibile. Le conoscenze esoteriche oggi non possono danneggiare, perché l’uomo non può più essere trasformato dall’interno senza l’attivazione delle sue forze conoscitive autonome. Queste forze sono dapprima intellettuali, non provocano nulla, non implicano, cioè, un’automatica metamorfosi dell’interiorità di chi le esplica. Quindi non è più così rovinoso e pericoloso comunicare conoscenze, anche le più profonde, a chiunque le voglia ascoltare.

La teologia tradizionale manca degli strumenti per decifrare i vangeli e per interpretarli perché non conosce il linguaggio esoterico, oggettivamente tecnico, di cui Rudolf Steiner ci ha restituito le chiavi di lettura. Noi possediamo oggi un gergo tecnico per tutte le scienze: e più specifiche esse diventano, più preciso e rigoroso è il lessico.

Un esempio, fra i tanti che si potrebbero citare, può servire a comprendere: è l’inizio del Padre Nostro. «Padre Nostro che sei nei cieli»: se noi chiediamo oggi a un teologo quali siano i cieli di cui si parla, non sa rispondere e noi, esteriormente, conosciamo un cielo solo. Sappiamo che Dante, rifacendosi tra l’altro a Tommaso d’Aquino, indicava ancora questa molteplicità di sfere celesti, ma la consideriamo il frutto della sua grande fantasia poetica. Penso che poche persone ritengano realmente esistenti le sfere celesti, intese quali abitacoli delle Gerarchie angeliche.[2]

Anche Paolo di Tarso scrive: «Fui rapito al terzo cielo», quindi presupponeva una conoscenza del primo e del secondo cielo. Poi aggiungeva: «Andai oltre il terzo cielo, in paradiso», e questo è il quarto cielo. Paolo non si preoccupava di spiegare più di tanto questi cieli perché, evidentemente, coloro per i quali scriveva avevano conoscenza di tali contenuti.

Si potrebbero citare moltissimi esempi dai quali risulta chiaro che nei vangeli esistono le espressioni tecniche dell’esoterismo, che vanno comprese e imparate nella loro specificità, non con l’approssimazione del linguaggio ordinario.

Il fenomeno Rudolf Steiner

Tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento è vissuto Rudolf Steiner, un uomo che ha asserito di osservare i mondi spirituali e ha inteso comunicare gli eventi di duemila anni fa non in base all’interpretazione dei testi che noi conosciamo, ma in base a percezione diretta.

Queste affermazioni sono di enorme portata, e coloro che le sentono per la prima volta possono naturalmente chiedersi di che si tratti, rifletterci, metterle in discussione. Rudolf Steiner non ha fatto teorie, non ha escogitato filosofie sul mistero dell’Essere solare: egli ha affermato di descrivere l’evento del Golgota perché lo ha percepito direttamente, come noi facciamo di fronte al mondo visibile quando vediamo i colori, udiamo i suoni, sentiamo i profumi, tocchiamo le superfici.

Allo stesso modo in cui ogni essere umano dice di avere dei sensi che gli consentono di percepire l’oggettività del mondo sensibile circostante, così la straordinarietà e l’unicità del fenomeno Rudolf Steiner sta nel fatto che egli vedeva, sentiva, percepiva direttamente anche la realtà dei mondi spirituali.

Questa veggenza spirituale viene accompagnata in lui da una forza pensante non meno straordinaria, che lo poneva in grado di comprendere e di rendere comprensibili le cose spiritualmente percepite. Era un iniziato moderno.

Nel Nuovo Testamento c’è un’espressione per indicare ciò che è scritto nel mondo spirituale e che non si cancella mai: il Libro della vita, B…bloj tÁj zwÁj (Bíblos tes zoes). Ecco un altro termine tecnico – ricorre nell’Apocalisse più di una volta. Cosa significa? Viene usato il termine libro, si sceglie dal mondo visibile questa parola proprio per indicare che c’è qualcosa da leggere, che si tratta di una realtà in cui va decifrato qualcosa. Altrimenti l’immagine del libro sarebbe senza senso.

Come deve essere fatto un libro della vita? Ci sono anche i libri della morte? Se vogliamo, i libri della morte sono quelli che noi conosciamo, quelli che non pullulano di vita, che non si allargano, non si stringono, non germinano… Le lettere e i caratteri che vi sono impressi sono morti, per sempre uguali a sé stessi: appartengono al mondo fisico minerale, inorganico, e di esso acquisiscono la forma fissa, inerte.

Il Nuovo Testamento parla, invece, di un libro “vivente” e dunque bisogna conquistare facoltà specifiche e nuove per leggervi dentro. Non è un libro percepibile con i sensi fisici e va letto là dove nell’universo opera il vivente, cioè nel mondo eterico.

Per capirci meglio anche nella terminologia, vi ricordo in sintesi i quattro mondi ai quali l’uomo appartiene e che si riflettono nella sua stessa struttura. La scienza dello spirito di Rudolf Steiner, infatti, pone a fondamento dell’evoluzione di ogni uomo l’acquisizione nel tempo dell’interezza dell’umano, dimensione dopo dimensione. Allo stato attuale la compagine umana è costituita da quattro arti costitutivi:

1. il corpo fisico, l’unico visibile e percepibile ai sensi fisici, attraverso il quale si manifestano le forme: le leggi del regno minerale lo rappresentano in forma pura cui anche l’uomo appartiene;

2. il corpo eterico o vitale, trasforma in continuazione le forme: è costituito da fasci invisibili di correnti vitali che sono la base plasmatrice del vivente e danno origine ai fenomeni (fenomeni di nascita, crescita e metamorfosi), la cui espressione pura è il regno vegetale, poiché le piante sono costituite soltanto da corpo fisico e corpo eterico, al quale anche l’uomo appartiene;

3. il corpo astrale, o anima, è l’infinita ricchezza delle sensazioni che accomuna l’uomo al regno animale, rendendolo capace di movimento e reazione interiore al mondo esterno. Ogni animale è costituito da corpo fisico, corpo eterico e corpo astrale;

4. infine l’Io, o spirito pensante, è la dimensione specificamente umana, capace di organizzare e nobilitare per forza autonoma propria il mare delle forze animiche, orientandosi verso l’oggettività dello spirito.

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Nell’evoluzione futura si aggiungeranno altre tre dimensioni dell’essere: Sé spirituale, Spirito vitale e Uomo-spirito.[3]

Torniamo al Libro della vita, per il quale il sanscrito ha l’espressione Cronaca dell’akasha (akasha vuol dire incancellabile) e che troviamo nel sottotitolo del testo che raccoglie le conferenze di Rudolf Steiner sul quinto vangelo: Il quinto vangelo – Ricerca dalla cronaca dell’akasha.[4] Indagine dal Libro della vita è la traduzione esatta di ciò che in sanscrito si intendeva dire riferendosi non alla cronaca scritta sulla carta, che prima o poi scompare, ma a quella impressa nel mondo spirituale, che non si cancella mai e che ogni essere umano può leggere se è capace di percepire i mondi spirituali stessi.

Che cosa dice questo Libro della vita? Dice che tutto quello che avviene nella dimensione passeggera del fisico-materiale ha un risvolto permanente di natura spirituale. Ogni parola e ogni azione si inseriscono nei mondi spirituali e li trasformano, anche se in minima parte: questa trasformazione resta scritta per sempre. Se noi avessimo gli organi di senso corrispondenti saremmo in grado di risentire nei mondi spirituali ogni parola pronunciata, saremmo in grado di rileggere e vedere ogni gesto compiuto, di seguire, cioè, per percezione diretta tutto ciò che è stato fatto. Questo è il concetto scientifico spirituale del Libro della vita, o Cronaca dell’akasha. Gli iniziati dell’umanità hanno sempre saputo di questa Cronaca invisibile e l’hanno letta, per poi comunicare all’umanità non solo ciò che avviene nei mondi fisici, ma anche in quelli spirituali.

Rudolf Steiner afferma che allo sguardo spirituale aperto si dischiude, oggi come sempre, tutto ciò che è accaduto nei millenni della nostra evoluzione: nulla è sparito, nulla è andato perduto. E dunque anche ciò che il Cristo ha compiuto è indelebile nei mondi spirituali, resta per sempre.

Ciascuno di noi, per cammino evolutivo, è chiamato a trasformarsi spiritualmente fino al punto di saper leggere da solo nel Libro della vita: allora non avremo più bisogno dei vangeli ma sapremo, vedremo, interpreteremo noi stessi gli eventi di duemila anni fa.

Il quinto vangelo rappresenta tutto ciò che, nel Libro della vita, riguarda l’evento del Cristo. È la fonte di tutti i vangeli. È la somma di tutto ciò che il Cristo ha compiuto. In un certo senso, non è giusto dire che Rudolf Steiner ci ha dato il quinto vangelo: è vero, invece, che egli ne ha colto nuovi aspetti perché è per sua natura inesauribile. Siamo soltanto agli inizi della sua decifrazione e della sua lettura: quel che dice Steiner e quel che dicono i vangeli tradizionali rappresentano alcuni aspetti, se pur centrali ed essenziali, di quanto si può osservare intorno all’evento del Cristo.

Perché il quinto vangelo è per sua natura inesauribile?

Se esso rappresenta ciò che i mondi spirituali conservano di quanto il Cristo ha detto e fatto, e se è vero che il mistero del Golgota è il centro dell’evoluzione terrestre, allora possiamo dire che il quinto vangelo riassume tutta l’evoluzione umana e della Terra, e ne preannuncia e già compie in sé l’evoluzione futura. Tutto il cammino successivo dell’umanità, a partire da oggi, consisterà in questo: saremo sempre più in grado di cogliere nuovi aspetti, nuove dimensioni di quanto appare ancora insondabile del mistero di tutti i misteri, cioè dell’evento del Cristo.

I quattro evangelisti: quattro iniziati

I quattro evangelisti della tradizione dove hanno raccolto il materiale che ci hanno offerto? L’esegesi critico-letteraria risponde che l’hanno tratto dalla vita trascorsa con il Cristo per tre anni: Matteo e Giovanni erano apostoli, Luca e Marco erano discepoli degli apostoli e quindi hanno avuto modo o di osservare direttamente gli eventi o di ascoltarne la narrazione di prima mano.

Steiner afferma qualcosa di molto diverso: i quattro evangelisti erano degli iniziati in quattro modi differenti. La loro fonte di informazione e ispirazione non è stata tanto il succedersi degli eventi sul piano fisico, quanto piuttosto la capacità iniziatica di osservare e leggere gli avvenimenti nel Libro della vita.

Il dogma dell’ispirazione delle Scritture ha attraversato, negli ultimi tempi, enormi traversie. Prima si riteneva che i vangeli fossero direttamente ispirati dal mondo spirituale. Oggi, leggendo i grossi tomi di commento ai vangeli, si ha l’impressione che certi esegeti ne sappiano più di Matteo, Luca, Marco e Giovanni messi insieme. Si ritengono infatti in grado di correggere il testo: Matteo ha dimenticato la tal cosa nel tal punto, qui ha copiato, là è inesatto… L’esegeta di oggi parte dal presupposto che vi sono delle contraddizioni non soltanto tra i singoli vangeli, ma anche all’interno di uno stesso vangelo.

Se così stanno le cose, che ne è del dogma dell’ispirazione? Fino a non molto tempo fa esso diceva nel modo più chiaro che i testi sacri non sono stati scritti da mano umana e che il loro contenuto non è il prodotto della mente umana. Il contenuto di questi testi e la sua formulazione provengono dalla divinità stessa e quindi sono, per natura, di una giustezza assoluta.

Rudolf Steiner riprende la tradizione dell’ispirazione sacra e divina delle Scritture ridandole il suo significato tecnico-esoterico: gli scrittori di quei testi erano degli iniziati con capacità ben specifiche, atte a comunicare all’umanità i risultati della percezione diretta delle realtà dei mondi spirituali.

Se così è, ne consegue che nei vangeli non c’è nulla da correggere, e che sono di una precisione spirituale la più perfetta che si possa immaginare. Gli evangelisti sapevano bene che cosa scrivevano, perché lo sapevano da fonte divina. Questo è il senso del dogma dell’ispirazione. Sottolineo questo fatto perché spesso viene detto che Rudolf Steiner butta all’aria i dogmi tradizionali e rigetta il cristianesimo tradizionale: non ci si vuol rendere conto di quali tesori essenziali per il cristianesimo vengano salvati dalla rovina proprio da Rudolf Steiner. Ma è chiaro anche che il cristianesimo cui si perviene attraverso la scienza dello spirito non ha carattere di religione o di confessione intese in senso tradizionale, ma è la restituzione all’uomo di ciò che è dell’uomo.

Il vero cristianesimo è umanesimo.

Perché abbiamo quattro vangeli tradizionali? La risposta
a questa domanda – che ci farà poi comprendere meglio la natura del quinto vangelo – è che i quattro iniziati, posti di fronte all’evento del Cristo, lo riconoscevano di natura così immensa e inesauribile che nessun essere umano poteva pretendere di descriverlo in modo esaustivo. Compresero, fin dall’inizio, la necessità che ciascuno di loro guardasse a questo mistero da un determinato punto di vista, compresero che, in un certo senso, ognuno si doveva specializzare in una dimensione particolare.

Alla base della quadruplicità dei vangeli tradizionali c’è la modestia umana degli iniziati: di fronte al mistero del Cristo bisogna accontentarsi di descriverne un aspetto solo, perché è impossibile comprenderli tutti contemporaneamente. Di conseguenza i quattro vangeli sono quattro descrizioni specialistiche che partono da presupposti diversi, dovuti a un diverso cammino di iniziazione.

Marco, Luca e Giovanni considerano il Cristo nella Sua divinità, e ciascuno in una delle tre manifestazioni fondamentali della parola divina che si fa parola umana:

il Verbo in quanto mistero di saggezza, è la prospettiva specifica di Giovanni;

l’Agnello immolato per salvare l’umanità, la prospettiva della misericordia e dell’amore, è quella specifica di Luca;

la potenza cosmica, la forza cosmica del Verbo, è la prospettiva di Marco;

Matteo guarda al mistero del Cristo maggiormente dal punto di vista umano: egli ci descrive soprattutto il Gesù, quindi l’umanità del Verbo incarnato, attenendosi di più alla prospettiva storica. È l’iniziato che si riallaccia al Vecchio Testamento.

Analizzando anche solo un capitolo dei quattro vangeli, si vede come queste diverse angolazioni siano chiavi di lettura basilari per comprenderli.

L’evento del Cristo è un fatto senza paragoni

Un’altra caratteristica fondamentale dell’evento del Cristo, che ne rende difficile la comprensione, è il fatto che noi non abbiamo nessuna realtà analoga alla quale paragonarlo. L’analogia aiuta sempre a capire un fenomeno: ma il mistero del Cristo è un unicum in tutta l’evoluzione terrestre e non possiamo paragonarlo a nessun altro evento. Questo significa che l’unico modo legittimo di avvicinare il mistero del Golgota è quello di partire dal mistero stesso, cogliendone la sua natura specifica: quando cominciamo a paragonarlo con qualsiasi altro evento, lo abbiamo già perso.

Le leggi della natura sono affidabili proprio perché vengono costruite sulla ricorrenza dei casi: la legge di gravità, per esempio, è applicabile a tutti i corpi che conosciamo. Qui il criterio dell’analogia è assoluto. Per l’evento del Cristo, invece, in mancanza di eventi analoghi, dobbiamo penetrare direttamente nella natura stessa di questo mistero. La scienza ufficiale, che si occupa di leggi universali, l’ha ignorato poiché non può fare una legge generale di questo unicum senza termini di paragone.

Stando così le cose, dobbiamo disperare delle nostre possibilità di comprendere questo mistero? No, ci vengono in aiuto, paradossalmente, due realtà fondamentali: la totalità dell’evoluzione umana e terrestre e la realtà dell’Io individuale e libero di ogni essere umano. Realtà altrettanto uniche e imparagonabili.

1. Quanto più comprenderemo l’andamento intrinseco di tutta l’evoluzione umana e terrestre, tanto meglio entreremo nel mistero del Golgota.

2. L’altra via di comprensione, quella della realtà dell’Io, parte dall’individualità umana e mostra subito che non c’è un Io analogo a un altro: gli esseri umani non sono paragonabili, ognuno è un unicum assoluto nell’universo in cui viviamo. Non possiamo mai capire un uomo a partire da un altro, perché se volessimo farlo rileveremmo proprio ciò che in lui è comune (e dunque inessenziale) e non ciò che è individuale. Di fronte all’individualità umana siamo al cospetto dello stesso mistero del Cristo, del non paragonabile. Nella misura in cui ogni essere umano coglie conoscitivamente e attua con amore l’unicità del suo Io spirituale, nella stessa misura sarà sempre più in grado di cogliere il mistero del Cristo, dell’Individualità solare che ha preso la decisione assolutamente libera di incarnarsi e morire sulla croce.

La redenzione[5] dell’umanità è l’opera dell’Individualità suprema del nostro cosmo, la più libera che ci sia mai stata, capace di attuare la «tecnica morale» (per dirla con i termini de La filosofia della libertà[6] di Rudolf Steiner) che rinnova tutta la Terra e trasforma l’intera umanità.

In risposta, soltanto l’individualità umana libera, nella sua fantasia morale capace di amore, è in grado di comprendere la natura dell’evento del Cristo e di intuirne l’opera di redenzione, come compimento del senso di tutta l’evoluzione terrestre.

Dibattito

Intervento: Vorrei una chiarificazione sui vangeli apocrifi.

Archiati: La tradizione, fin dai primi secoli, non ha stimato i vangeli apocrifi di natura universale. Invece, i quattro vangeli a noi noti sono stati considerati come normativi, ritenendo che Matteo, Marco, Luca e Giovanni rispecchiassero nella loro opera la realtà dell’evento del Cristo in modo valido per l’intera umanità. Questa dichiarazione di canonicità fu operata da iniziati: essi riconobbero nell’opera dei quattro evangelisti quelle dimensioni del mistero del Cristo che non avrebbero mai esaurito la loro attualità.

Questo significa che i vangeli apocrifi sono meno veri? Non necessariamente. Nel mistero del Cristo ci sono anche degli aspetti che possono essere validi per una cultura e per un tempo, non per tutta l’umanità e per tutti tempi.

Un altro problema era quello della pericolosità: alcuni testi esprimevano in modo poco cauto i contenuti del Nuovo Testamento. Vennero considerati apocrifi perché non li si voleva mettere in mano a tutte le chiese allora esistenti. Prendiamo, per esempio, il rapporto con la Gnosi, una corrente spirituale che va dal secondo secolo a.C. al secondo secolo d.C. Steiner ne parla molto spesso nelle sue conferenze, indicandola come l’ultima manifestazione della sapienza iniziatica dell’umanità, ultimo resto di quella rivelazione originaria nota anche al dogma cattolico. Ne parlerò domani.

Il contenuto centrale della Gnosi era la descrizione dei mondi spirituali attraverso la molteplicità degli eoni: a„èn (aión) in greco significa sia Entità celeste sia ciclo evolutivo. L’incarnazione del Verbo avviene scendendo di eone in eone: la Gnosi aveva conoscenze specifiche fino al trentunesimo eone, quello del mondo fisico, l’unico che noi oggi conosciamo. A questo livello è avvenuta l’incarnazione del Cristo.

Gli gnostici avevano conoscenze dei mondi spirituali per tradizione, ma non erano più così chiare come tre, quattro, cinquemila anni prima. La loro grande difficoltà, lo vedremo – ne parleremo domani –, consisteva nel comprendere come il Cristo, l’Essere solare, potesse diventare veramente uomo. Egli era per loro così sublime, di natura così infinita nella sapienza e nella forza, che non riuscivano a capire come gli fosse possibile comprimersi dentro un corpo di materia, spogliandosi di tutte le sue facoltà sovrumane.

Ma l’incarnazione consiste proprio in questo: l’Essere solare prese la decisione di non compiere nessuna opera, nessun miracolo che non ricadesse, nella prospettiva dell’evoluzione, nell’umanamente possibile. Il Tentatore gli dice: «Tu hai i poteri sovrumani, usali!», e il Cristo risponde: «Io so bene di averli, ma non voglio servirmene».

San Paolo esprime il mistero del comprimersi del Cristo nella realtà dell’umanamente possibile quale svuotamento di sé.[7] Questa decisione, e la sua capacità di attuarla, era per gli gnostici di difficilissima comprensione e perciò tendevano a dire: il Cristo è apparso in forma d’uomo, ma non è diventato uomo; sulla croce sembra che muoia, ma in realtà non può morire perché non è un essere umano. I vangeli canonici, invece, prendono sul serio e fino in fondo l’incarnazione del Cristo.

Intervento: Vorrei fare una domanda riguardo al Libro della vita, dove si iscrive tutto quello che avviene. La mia conoscenza dell’antroposofia è limitata, però so che Steiner ha parlato delle epoche future dell’umanità: anche queste comunicazioni, dunque, le ha tratte dal Libro della vita. Allora lì è iscritto non solo ciò che è stato ma anche ciò che sarà?

Archiati: Il rapporto con ciò che è stato è molto diverso dal rapporto con ciò che sarà, per il semplice motivo che il passato non si può cambiare mentre il futuro è in parte in mano nostra, dipende da noi. La conduzione spirituale dell’umanità (cioè le Entità delle Gerarchie spirituali che si occupano dell’evoluzione umana) ci consente un rapporto di natura diversa verso ciò che è stato e verso ciò che sarà: riguardo al passato non viene posto alcun limite alla nostra conoscenza, proprio perché è immutabile; se invece noi conoscessimo in anticipo, nei particolari, gli eventi che ci attendono, saremmo privati ipso facto della libertà.

Ma c’è un altro aspetto molto più importante da evidenziare: la sola conoscenza del futuro che ci giova senza ledere la libertà è quella conquistata in base alla conoscenza del passato. Questa conoscenza è sempre la benvenuta. Come si fa a conoscere l’avvenire in base al passato? Facciamo un esempio banale: una persona si dà fortemente al bere per dieci anni. Bisogna essere iniziati per capire che il suo fegato sarà rovinato? Questo dato del futuro segue dal passato, e il passato è germe di necessità per l’avvenire.

Una delle caratteristiche fondamentali e più entusiasmanti della scienza dello spirito è che ci consente una lettura tale del passato da renderla speculare per la lettura dell’avvenire. L’approfondimento dell’evoluzione passata ci dà gli strumenti interpretativi per quel che ci aspetta nel futuro, cioè per le condizioni evolutive necessarie in vista degli stadi futuri della libertà umana.

I sette periodi di civiltà[8] per esempio, ognuno della durata di 2160 anni, che scandiscono le sette grandi epoche evolutive (noi siamo attualmente nel quinto periodo della quinta epoca), si rispecchiano in questo modo: il I col VII, il II col VI, il III col V, mentre il IV – il periodo di civiltà in cui è avvenuta l’incarnazione del Cristo – fa da grande svolta.

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i sette periodi della nostra quinta epoca postatlantica

La scienza dello spirito coltiva a piene mani questo tipo di conoscenza del futuro perché aiuta a capire le tappe e le possibilità evolutive dell’avvenire. Ma ciò è ben diverso dal dire: fra cinque anni e tre mesi ci sarà la fine del mondo, oppure succederà questa o quella cosa ben precisa.

Intervento: A questo proposito, cosa ne pensa del fatto che i Testimoni di Geova dicano che quando morirà l’ultima persona nata nel 1915 ci sarà la fine del mondo?

Archiati: Indicazioni del genere lasciano indifferenti le persone che pensano in modo sano. Chi crede a un’affermazione di questo tipo si aspetta la risoluzione dell’enigma della vita in chiave assolutamente miracolistica, ha un atteggiamento interiore che abdica alla penetrazione cosciente di un avvenire aperto alla libertà umana. Attende dall’esterno una risoluzione finale più o meno imminente. È l’apoteosi dell’irrazionalità. Un essere umano secondo il quale la fine del mondo avverrà fra pochi anni, è uno che si aspetta che tutto gli venga fatto perché nulla è in grado di fare.

Come si fa a prepararsi concretamente a una fine del mondo imminente? Abdicando a tutti i doveri di continuità e di costanza sulla Terra, catapultandosi di botto in una situazione di assoluta emergenza, in una mentalità di apocalisse definitiva che ci estrania dai compiti concreti che l’evoluzione ci pone davanti oggi, e con i quali sappiamo di avere a che fare anche in futuro.

Il modo miracolistico di guardare al futuro è l’opposto della scienza dello spirito di Steiner, che chiede una responsabilità sempre più cosciente da parte del singolo nei confronti del divenire dell’umanità e della Terra. Questa lettura dei compiti che ci aspettano, però, non viene fatta in base alla previsione concreta degli eventi che ne costituiscono le condizioni necessarie: questi devono venirci incontro senza una preventiva minuta descrizione, affinché possiamo esercitare una reazione libera. La previsione che dobbiamo fare del divenire è la conoscenza delle mete, delle tappe evolutive da conquistare, delle facoltà che l’essere umano deve ancora acquisire dentro di sé per divenire sempre più pienamente umano.

Seconda conferenza

I perenni misteri

Dell’evoluzione

Firenze, 3 gennaio 1992

«Chi vuole venire dietro a me…»

Cari amici,

questa mattina comincerei con una domanda: l’essere umano è forse chiamato a imitare il Cristo? È una domanda importante sia per la scienza dello spirito, sia per la teologia. Potrebbe a prima vista sembrare che ciò che il Cristo ha compiuto sia inimitabile in senso assoluto: per stabilire veramente una sequela del Cristo bisognerebbe essere, in fondo, il Cristo stesso.

D’altro lato sappiamo che la nostra evoluzione dipende dall’essere sempre più a Sua immagine, dal conformarci sempre di più a Lui nel senso del detto di Paolo: «Non sono più io a vivere, ma è Cristo che vive in me».[9] In questa frase è racchiuso il mistero dell’Io umano: esso è duplice, scisso in un io inferiore e un Io superiore. Quando Paolo dice: «Non sono più io a vivere», parla dell’io inferiore; quando dice «ma è Cristo che vive nel mio Io», si riferisce all’Io superiore. Il mistero dell’Io è proprio l’enigma dell’uomo che cerca se stesso e deve morire per trovarsi, deve perdere la sua anima per riconquistarla. Nei vangeli spesso incontriamo espressioni paradossali, e sono tutte riferite al mistero dell’Io.

Nella prima fase dell’evoluzione abbiamo conseguito l’egoità, un io intriso di egoismo che tende a escludere gli esseri intorno a sé, a viverli secondo il proprio vantaggio. Questo era necessario per l’evoluzione: bisognava che prima ognuno trovasse una dimensione di separazione dagli altri, un suo spazio. Possiamo chiamare questa prima libertà libertà emancipatoria, di affrancamento: è la libertà negativa, è libertà da qualcosa, non ancora libertà per qualcosa. Non è ancora la libertà dell’amore, ma è il presupposto necessario per diventare veramente liberi.

L’io che abbiamo costruito finora è dunque l’io inferiore, egoistico, l’io della coscienza quotidiana: di questo io Paolo dice che ora si tratta di trasformarlo sempre più in sostanza d’amore.

Se ci chiediamo cosa significhi la sequela, l’imitazione del Cristo, dobbiamo innanzi tutto comprendere che Egli non impone mai nulla agli esseri umani. E nemmeno chiede. È venuto a compiere qualcosa, a essere, dentro la Terra, ciò che Lui è. Dall’amore che ha per noi sorge la speranza che diventiamo capaci di guardare e capire quel che ha fatto.

Il Cristo non dice: «Chi vuol venire con me, prenda la sua croce e cammini insieme a me», ma dice: «Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua»[10] – in greco dietro a me è Ñp…sw mou (opíso mu). Che differenza c’è tra camminare insieme, in parallelo, e camminare dietro? Non è forse più bello camminare insieme? Per camminare insieme basta adeguarmi all’andatura, all’impulso di chi mi sta al fianco: mi lascio investire e trascinare. Per camminare dietro, invece, devo prima guardare come cammina l’altro e poi, se mi convinco che vale la pena di seguirlo, mi muovo anch’io.

Lo spazio che c’è tra il Cristo che cammina avanti e noi che lo seguiamo è lo spazio della libertà, è il tempo animico e spirituale di cui abbiamo bisogno per vedere il Suo operare e valutarlo. Egli deve agire davanti a noi, cioè prima di noi per offrirsi alla nostra conoscenza. Tutto ciò che si offre alla conoscenza lascia liberi. Questo vale anche per i rapporti fra esseri umani: nello spirito dell’impulso cristico si fa appello alle forze conoscitive dell’altro. Invece, operare direttamente sugli impulsi volitivi degli altri significa manipolarli, inserirli nei propri scopi e trascinarli.

Il Cristo non traina: va avanti e desidera solo che noi guardiamo ciò che fa e come lo fa, ciò che dice e come lo dice. E se troviamo in noi stessi le vere forze dell’umano, riconosceremo che ciò che l’Essere dell’Amore e della Libertà fa e dice è il paradigma di quanto noi cerchiamo nella più intima nostra essenza. E allora possiamo andargli dietro.

All’uomo è necessaria la percezione di ciò che il Cristo compie per potervi aggiungere i suoi concetti[11] e valutare, per poi seguire, convinto, quelle orme. In tedesco, la parola che indica la sequela del Cristo esprime ancor più chiaramente il mistero della libertà: nach-folgen significa seguire dietro, seguire dopo, in base alla percezione fatta nella propria interiorità e in base al proprio pensiero.

«Chi vuol venire dietro a me prenda la sua croce e mi segua»: le cose più profonde dei misteri evangelici, espresse in un linguaggio tecnico precisissimo, sono contenute proprio in queste frasi che conosciamo fin dall’infanzia. Il significato esoterico della croce è il karma,[12] il destino di ogni essere umano. Prendere la propria croce significa raggiungere una statura interiore di maturità che ci renda capaci di non riversare sugli esseri attorno a noi il nostro karma, ma di prenderlo noi stessi in mano, di portarlo responsabilmente e partecipare così alla costruzione del divenire dell’umanità e della Terra.

Prendere nelle mani il nostro karma è la sequela del Cristo.

E qual è il karma del Cristo? L’Essere solare è l’unico nel cosmo terrestre che non abbia assunto su di sé un karma proprio, ma quello di tutta l’umanità, dell’evoluzione terrestre nella sua globalità: il karma della caduta, cioè del cosiddetto peccato originale, sul quale ci soffermeremo in questi giorni. Noi non siamo ancora in grado di prendere la Sua croce, appunto perché abbraccia tutta l’umanità: ciascuno è chiamato, per ora, a portare la propria croce, il proprio destino.

Il Cristo non causa direttamente nulla dentro di noi, perché non lo vuole. L’autore libero di tutto ciò che faccio – la causa efficiente, per dirla con Aristotele – devo essere io stesso. L’Essere della Libertà vuol darci gli strumenti per la nostra libera conoscenza e per il nostro libero agire.

Il Vangelo di Giovanni esprime questa verità dicendo: «Lo spirito dà la vita, la carne non serve a nulla»:[13] ecco un’altra espressione enigmatica del Nuovo Testamento. Cosa vuol dire?

Da un lato, la carne rappresenta tutta la realtà non libera della corporeità umana e della natura. «Il Verbo si è fatto carne» significa che si è rivestito degli elementi corporei di natura, base fisica dell’uomo. Se però permettiamo alla natura di agire anche nella nostra interiorità, diventiamo esseri necessitati: nelle nostre scelte, cioè, operiamo spinti dalle sue leggi, consentiamo ai suoi processi di manifestarsi in noi nella forma dell’istinto e questo «non serve a nulla», non contribuisce al raggiungimento del fine per il quale siamo venuti sulla Terra. Anzi, ci vanifica come esseri umani liberi riportandoci al livello del determinismo. La natura, intorno a noi, già c’è e c’è nella fisiologia del nostro corpo: non c’è bisogno che contribuiamo a espanderla diventando anche noi solo natura anche nell’anima!

Da un altro lato, poi, questa natura è per noi fondamento e strumento affinché, trasformandola, costruiamo nel divenire il nostro essere liberi. Perciò non è del tutto esatta la traduzione: «la carne non serve a nulla»; meglio sarebbe tradurre: «la carne giova in quanto si nullifica», cioè giova nella misura in cui mostra allo spirito la sua nullità. Così si dà ragione alla carne del suo compito prezioso.[14]

I retaggi moralistici del nostro tempo impediscono una spregiudicata osservazione della fisicità, oppure, come reazione, ne innescano un’idolatria, aprono la strada alla sua esaltazione. Invece, l’ambito degli istinti di natura favorevole all’uomo è quello che avvia la sana cura del suo prezioso strumento – il corpo – che è regolato, appunto, da leggi naturali: a esse l’uomo non può che soggiacere, in armonia con tutta la corporeità del cosmo. Ma quando, nella sua dimensione animico-spirituale, egli opera secondo l’umano (e non secondo lo strumento dell’umano), la natura col suo determinismo gli serve al nulla, gli serve per comprenderne la dimensione illusoria. La materia fisica è stata creata perché sia l’opposto della libertà, perché sia la resistenza assoluta al cammino della libertà, che si costruisce proprio là dove vinciamo le leggi della carne.

È evidente al nostro pensiero che la libertà si può esercitare soltanto in presenza di una forza di contrasto totale: se questa non ci fosse, la libertà sarebbe automatica e dunque non libera. Se però noi andiamo a cercare la libertà là dove c’è la forza di contrasto, troveremo solo l’annullamento della libertà; ugualmente, quando esercitiamo la libertà, la forza del determinismo si annulla.

Dunque imitazione del Cristo significa che noi, guardando e cercando di penetrare la bellezza irradiante di ciò che compie, veniamo conquistati dai Suoi gesti di amore e, in base a libera convinzione, vediamo sorgere il desiderio profondo di comportarci come Lui, di essere liberi come lo è stato Lui.

Questo è il mistero paradossale della sequela del Cristo: imitare la Sua resistenza a ogni imitazione che sia automatica. Imitare l’Essere dell’Io significa comprendere che l’individualità umana è inimitabile. Il Cristo è l’Essere che, per eccellenza, non si è conformato a nessuno e ha mostrato così l’essenza dell’umano. Siamo ricondotti alla nostra unicità assoluta che sempre di nuovo dobbiamo scoprire e attivare in noi profondamente, in tutte le sue potenzialità, fino alla pienezza. Diventare unici al mondo, come l’Essere dell’Io è stato unico. Attuare se stessi senza paure e senza puntelli.

Dalla mia personale esperienza nei vari continenti del mondo, devo dire che nell’umanità non ho visto nulla che faccia altrettanto paura quanto la libertà. Essere liberi interiormente vuol dire stare in piedi da soli, avere la forza interiore di veder cadere il mondo intero restando radicati in sé. Significa trovare le ragioni della propria esistenza non in norme morali, non nella legittimazione da parte di altri, non nella forza dell’istituzione, ma nella misura assoluta del proprio Io, nella sua pienezza inesauribile.

Il fine e la fine

L’esperienza del contemplare ciò che il Cristo ha fatto è stata vissuta, prima di ogni altro, dai dodici apostoli. Intorno al mistero del Golgota abbiamo dodici uomini che sono la rappresentanza universale della dodecuplicità degli impulsi dell’umanità intera. I Dodici ci rappresentano tutti, perché ciascuno di noi compie, di volta in volta, un’esistenza in chiave di uno dei segni zodiacali.[15]

Rudolf Steiner mostra in modo bellissimo come gli apostoli abbiano cominciato a contemplare l’evento del Cristo dopo che esso era avvenuto: ecco il mistero della sequela. Gli apostoli non hanno potuto attraversare ciò che avveniva davanti ai loro occhi avendone contemporaneamente piena coscienza: sarebbero stati travolti dalla smisuratezza dell’evento. Quali misteri della libertà troviamo nei vangeli! Mentre gli avvenimenti si succedevano, la loro coscienza non era presente al messaggio e all’azione del Cristo: non erano in grado di afferrarne il richiamo irresistibile e assoluto.

La piena coscienza fu data agli apostoli a partire dalla Pentecoste. Perciò Il quinto vangelo inizia guardando nella coscienza umana di questi dodici esseri che si risvegliano e, per la discesa dello Spirito Santo, cominciano a osservare veramente ciò che il Cristo ha fatto e cominciano a generare in sé stessi una risposta del tutto autonoma.

La differenza tra il poter guardare a ritroso ciò che è stato compiuto e il venirne travolti nell’immediatezza dell’evento è essenziale per la comprensione del mistero del Golgota. Immaginate che cosa succederebbe in noi se ci fosse dato di partecipare direttamente e simultaneamente, in piena coscienza (che è molto di più della semplice presenza fisica) all’incarnazione del Cristo, al suo morire in croce, all’oscuramento del Sole, al terremoto della Terra, alla resurrezione: finiremmo di essere liberi, perché questi eventi di natura e di grazia sono i più travolgenti, i più immani che ci siano mai stati!

L’altro motivo di questo cammino a ritroso – che per gli apostoli comincia dalla morte e resurrezione per poi abbracciare tutti gli eventi dei tre anni della vita del Cristo sulla Terra[16] – è che ogni fine è sempre l’inizio vero di qualcosa: il fine diventa una fine.

Che cos’è il fine? È ciò che noi ci prefiggiamo prima di iniziare a fare qualcosa: il fine è sempre la prima cosa che accade nel mondo spirituale. In filosofia nasce la nota discussione sul rapporto tra causa ed effetto: se si chiede quale dei due venga prima, normalmente si risponde che prima viene la causa e poi l’effetto. È una mezza verità.

Nel mondo fisico, nel mondo della realizzazione esteriore, viene prima la causa e poi l’effetto; ma nel mondo dell’ideazione, della pianificazione, viene sempre prima l’effetto e poi la causa. Quando noi progettiamo qualcosa, prima guardiamo a ciò che vogliamo raggiungere e poi cerchiamo tutti i passi, tutti gli strumenti intermedi per arrivarci: essi sono le cause che via via ci portano l’effetto finale, ma quest’ultimo è stata la prima realtà che noi abbiamo dovuto considerare.

Dalla natura del fine noi decidiamo e strutturiamo le cause che poi ci condurranno, alla fine, a questo fine. Il fine e la fine sono sempre la chiave di lettura di tutto ciò che avviene: sono il senso occulto del cammino a ritroso. In relazione a questo la scienza dello spirito indica come sarebbe giovevole, prima di addormentarsi, fare una revisione a ritroso della giornata partendo dall’ultimo gesto della sera e risalendo fino al mattino.

Alla fine della vita, quando si conclude un cammino umano, entriamo nel luogo di purificazione della sfera animica (detto purgatorio nella terminologia occidentale e kamaloca, o luogo delle brame, in quella orientale):[17] in esso restiamo per un tempo che si può rapportare a un terzo dell’intera durata dell’esistenza (il tempo, quindi, che abbiamo passato dormendo) e lì ripercorriamo a ritroso tutti gli eventi della vita.

Questo mistero viene espresso anche nella preghiera tradizionale per i morti: Requiem aeternam dona ei, Domine. La nostra anima deve arrivare alla pace e la troverà soltanto purificandosi, rivivendo dentro di sé ciò che ha fatto sperimentare agli altri con le sue azioni, dalla fine della vita all’inizio. Quando si è ripercorsa a ritroso anche l’infanzia, si entra nel regno dei cieli, cioè nel mondo spirituale vero e proprio: per tutto il tempo che occorre a ridiventare bambini siamo nel regno dell’anima o, usando i termini della scienza dello spirito, nel mondo astrale.

«Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli»:[18] questo è detto nel linguaggio tecnico dei vangeli che esige una chiave di lettura. Io ricordo ore e ore di esegesi cattolica per spiegare come si faccia a ridiventare bambini e, soprattutto, cosa significhi: perché, in qualsiasi modo si guardi la cosa, nessun adulto può tornare a essere un bimbo innocente. E poi, sarebbe davvero auspicabile regredire allo stadio dove non eravamo capaci né di pensare, né di volere?

La prima parte della preghiera Requiem aeternam dona ei, Domine – l’eterno riposo dona a lui, o Signore – si riferisce non al riposo dopo le fatiche della vita, ma al riposo dopo quelle della purificazione che fa raggiungere l’equanimità nell’anima, la pace interiore che guarda all’oggettività karmica della vita passata. Quando il cosiddetto morto (che è più vivo di noi) ha percorso tutta la sua strada a ritroso, entra nei mondi spirituali e finisce di vivere nel mondo animico della sua interiorità personale. Questo esprimono le parole: et lux perpetua luceat ei. Ci sono profonde conoscenze occulte in questa piccola, antica preghiera di cui oggi si è perduto il senso. In essa sono indicate le due grandi fasi del dopo-morte: la fase animica del purgatorio e la fase prettamente spirituale.

Requiem aeternam è un mettere a posto le cose animiche dentro di sé;

lux perpetua non è più una realtà personale, ma è il vivere nella dimensione oggettiva dello spirito che illumina tutti gli esseri e le cose.

Con questo ho voluto evidenziare l’importanza per gli apostoli di vivere il mistero del Cristo con la coscienza ridestata dalle forze pentecostali, a ritroso, dopo il compimento degli eventi e senza esserne travolti. Il fatto mistico – cioè l’evento che ha trasformato la Terra e l’umanità nell’interiorità, portando le forze dell’amore cosmico – è avvenuto senza la piena presenza della coscienza umana. Questa coscienza comincia nell’umanità solo ora, dopo duemila anni, in base a una vera e propria scienza dello spirito, e con tutte le resistenze e opposizioni che ci sono note.

Il fantòma e la tomba vuota

Qual è la meta suprema della vita del Cristo, alla quale gli apostoli cominciano a guardare dopo la Pentecoste? Il fine verso il quale tende tutto ciò che il Cristo ha detto e ha fatto è il mistero della Sua morte e della Sua resurrezione, il morire e risorgere dentro la Terra e dentro l’uomo. In base a questa realtà, che viene alla fine, dobbiamo capire tutti gli altri passi.

Nel mistero del Golgota abbiamo il modo divino del Cristo di morire umanamente e al contempo il modo di morire di un essere umano (Gesù di Nazareth) del tutto divinizzato nella propria interiorità. Sappiamo dalla scienza dello spirito che il mistero della morte e resurrezione del Cristo è inesauribile nei suoi significati e nelle sue dimensioni, per tutte le trasformazioni che ha portato nell’umanità. Possiamo di volta in volta soffermarci solo su alcuni aspetti: uno dei più centrali è quello della tomba vuota.

Tragicamente, la cristianità tradizionale ha perso di vista il nucleo della resurrezione limitandosi a indicare, nel mistero della Pasqua, che il Cristo non è morto ma continua a vivere in mezzo a noi. Se illuminiamo questo evento con le conoscenze della scienza dello spirito, ci rendiamo conto che quest’affermazione vale per ogni uomo che muore: infatti, a meno che non si sia diventati così materialisti da pensare che la morte sia la cessazione assoluta di tutto, sappiamo già che dopo la morte si continua a vivere nei mondi sovrasensibili. Oltretutto, duemila anni fa l’umanità era ben consapevole che la morte è solo uno svestirsi del corpo fisico per entrare nei mondi spirituali. L’umanità ha sempre saputo che uno spirito non si può uccidere, non può morire. E allora, dire che il Cristo continua a vivere non afferma nulla di unico, anzi, indica che non ha fatto niente di così particolare che possa differenziarsi da ciò che accade a ogni essere umano.

Il fulcro del mistero del Golgota è la tomba vuota, e proprio su di essa il cristianesimo tradizionale ha ben poco da dire. In teologia si spendono molte lezioni su questo tema ma si tratta, per lo più, di capriole intellettuali che non spiegano la sostanza dell’evento: essa può essere avvicinata soltanto con gli strumenti specifici di una scienza spirituale.

I vangeli non insistono sul fatto che il Cristo continui a vivere, ma sulla tomba vuota, descrivendola nei minimi particolari. Questo era l’elemento da spiegare, inaudito e unico: un corpo fisico che sparisce dalla tomba! Si sottolinea la menzogna delle guardie corrotte che dicono: «Mentre noi dormivamo il cadavere è stato sottratto!»;[19] Giovanni descrive i panni rimasti nel sepolcro, avvolti in un certo modo, a insistere sul fatto che se qualcuno avesse rubato il corpo non lo avrebbe svolto dai panni, dalla sindone: insomma, nei vangeli viene fortemente indicata l’importanza enigmatica della tomba vuota. Eppure, se si tenta di trovare un rapporto conoscitivo positivo con queste cose e ci si rivolge direttamente ai sacerdoti chiedendo: ma dove è andato a finire il corpo fisico del Cristo?, ci si trova di fronte all’imbarazzo enorme di chi, realmente, non ha una risposta.[20]

La scienza dello spirito ci dice che il corpo di carne che noi portiamo non è il corpo fisico: questo, nella sua origine, prima della cosiddetta caduta, era un corpo sovrasensibile, era una compagine di linee di forza di natura fisica sovrasensibile. In altre parole, era un corpo formato da elementi fisico-terrestri (soggetti quindi a leggi naturali) di tipo magnetico, gravitazionale, elettrico, radioattivo… Questo corpo di forze e leggi fisiche non era ancora compenetrato di materia minerale inerte: e la materia inerte non è dunque il corpo fisico, ma è “il ripieno” del corpo fisico.

Dopo la caduta, queste linee di forza, proprio come linee magnetiche, hanno cominciato ad attirare a sé materia inerte, riempiendosene. Immaginare un campo magnetico, che esiste anche se non si vede, può aiutare a comprendere cosa sia un corpo fisico senza materia: se prendiamo della limatura di ferro, la mettiamo su un piano e inseriamo il tutto in un campo magnetico, vedremo che la limatura si disporrà secondo le linee di forza del campo stesso. Così la materia del nostro corpo fisico è stata attirata dall’invisibile configurazione di forze regolate da leggi fisiche.

La scienza dello spirito chiama fantòma[21] questo corpo invisibile, matrice del corpo fisico. Perché mai è stato necessario riempirlo di materia? Perché soltanto nella materialità inerte ciascuno di noi ha conseguito la visibilità esteriore del mondo materiale, in base alla quale abbiamo la possibilità di separarci e individualizzarci completamente sia gli uni dagli altri, sia dalle cose.

La dualità soggetto-oggetto è sorta in questo modo: ob-jectum (gettato davanti) è ciò che mi si pone di fronte, separato da me. Solo la materia visibile ci mette in grado di dire: tu sei lì, io sono qui, l’altro è là. Tutto ciò che non è visibile non è separabile in modo assoluto. La divisione materiale, che è l’opposto della comunione, era necessaria per diventare egoici in questa prima fase negativa di distacco dagli altri.

La piena e compiuta individualizzazione, che dobbiamo ancora conquistare, è quella che consente alla forza pura dell’Io di essere pienamente un Io proprio grazie all’inserimento nella comunione universale di tutti gli esseri. Il presupposto, la conditio sine qua non per questa individualizzazione positiva dell’Io superiore, era l’individualizzazione negativa dell’io inferiore, che poggia sulla separabilità dei pezzi di materia già data per natura .

Per procedere realmente verso una comunione universale generata dalla forza pura dell’Io, era necessario che essa non fosse il portato automatico dell’evoluzione: era necessario creare un ostacolo assoluto che l’Io libero potesse vincere per forza propria. Perciò siamo ben lungi dal condannare la cosiddetta caduta[22] e l’intridersi di materia inerte da parte del nostro corpo fisico originario: la scienza dello spirito riprende in chiave positiva queste necessità evolutive, benedicendole quali condizioni di cammino, quali porte di infinite potenzialità aperte sul futuro.

Nel mistero della tomba vuota abbiamo un’inversione evolutiva: come, con l’aiuto di Lucifero, noi siamo entrati nella libertà intridendo di materia il nostro originario corpo fisico sovrasensibile, così nell’evento del Cristo si compie la grande separazione tra la materia inerte e il fantòma ripristinato del corpo fisico spirituale umano che risorge dalla tomba.

La prima parte dell’evoluzione umana e terrestre è servita a farci entrare sempre più profondamente nella materia; la seconda parte, inaugurata dal Cristo, servirà a lasciare indietro come polvere cosmica (così la chiama Rudolf Steiner) tutta la materialità inerte e a far risorgere l’intera spiritualità terrestre, trasfigurata nell’immagine del Cristo Risorto. Per iniziare la creazione di mondi nuovi, dopo quello della Terra.

La creazione dal nulla

Dov’è dunque andata a finire la materia del corpo fisico del Cristo? È stata riportata al livello di polvere cosmica, al livello di ciò che ancora gli scolastici chiamavano materia prima: la prîth Ülh (prote úle) di Aristotele. È una “quinta essenza” al di sopra delle quattro essenze degli esseri elementari: solido, liquido, aeriforme, calorico. La quinta essenza è la matrice, la mater universale, il caos primigenio dal quale si creano mondi sempre nuovi. Riportare la materia fisica al livello di polvere cosmica significa toglierle, in senso metafisico assoluto, i principi e le forze formanti che le furono impressi da Esseri spirituali, rendendola così disponibile per altre formazioni.

Questo è il mistero della creazione dal nulla. Il concetto puro di creazione dal nulla, nel senso della scienza dello spirito, indica una creazione che avviene là dove il sostrato materiale non alberga in sé alcuna forza propria intrinseca, e la legge formante promana unicamente dall’Essere creatore, che non incontra alcuna resistenza già insita nel materiale che ha davanti a sé.

• È il tutto della creazione che sgorga dall’interiorità dello spirito.

• È il nulla di leggi da osservare che si impongono dal di fuori.

Il dipingere, per esempio, non può essere una creazione dal nulla in senso assoluto, perché i colori hanno già una loro legge di natura (immessa da chi li ha creati) che va colta nella sua essenza e rispettata come tale.

La creazione dal nulla avviene ogni volta che uno spirito umano scende di nuovo sulla Terra per costruirsi la casa del corpo fisico. La fecondazione dell’ovulo nel grembo materno avviene in un senso del tutto opposto a ciò che la scienza oggi afferma. L’uovo fecondato è ben lungi dall’essere un complessissimo frammento di materia, non ha già in sé tutto ciò che poi si esplicherà, come crede la scienza moderna.

È vero proprio il contrario: grazie allo spermatozoo maschile abbiamo un frammento di materia (l’ovulo femminile) che è stato riportato al caos primigenio, antecedente la creazione. Nell’ovulo fecondato la materia che noi conosciamo viene svuotata, privata di ogni principio immanente di formazione, e diventa pura polvere cosmica, pura disgregazione senza inerzia propria. Tutte le decisioni riguardo al modo in cui questa materia riportata al caos si strutturerà, dipendono dall’Io umano che vuole incarnarsi. La sua compagine spirituale deciderà nel modo più assoluto come verrà configurata quella materia: l’Io compie una creazione dal nulla, espressione totale delle leggi del proprio essere spirituale e nulla verrà incontro automaticamente, in modo inerziale, dalla materia stessa. Così è, quando un essere umano nasce.

Il sussulto della Terra

Nel mistero della tomba vuota, nello scindersi del fantòma invisibile del corpo fisico dalla materia che si polverizza, abbiamo l’inizio della creazione dal nulla della Terra Nuova. Fino all’evento del Cristo è stata creata la vecchia Terra, quella che si è intrisa sempre più di materia, quella stessa materia dove l’umanità è entrata così nel profondo da lasciarsene interiormente determinare e costruire. La tomba vuota del Cristo testimonia l’inversione di questo processo, è il riportare la materia al caos per ridare allo spirito umano tutte le forze creanti, in grado di configurare la materia terrestre a immagine del corpo risorto dell’Essere del Sole. Ricostruire la corporeità risorta di tutta l’umanità sarà la trasfigurazione della Terra intera in una Terra Nuova, la Gerusalemme celeste di cui parla l’Apocalisse.

Dove è andato a finire, allora, quel corpo sottoposto agli sforzi più sovrumani che si possano immaginare, quel corpo strapazzato fino all’ultimo perché albergava dentro di sé le forze infinite del Cristo? Dove è andato a finire quel corpo che già nel Getzemani rischiava di disintegrarsi, perché non ce la faceva più a portare quell’Essere infinito? Bastarono le spezie, gli unguenti, a renderlo così friabile che nella tomba, ancora prima del terremoto, era già un cumulo di polvere, carne umana portata al livello di cenere cosmica.

La scienza dello spirito, in una delle sue affermazioni più sublimi, descrive come la nostra madre Terra sussultò di gioia davanti a quella nuova creazione, come trasalì davanti al mistero della carne riportata a polvere cosmica. Il terremoto di cui parlano i vangeli fu un fremito di gratitudine della Terra che aprì la tomba del Cristo e inghiottì quella polvere, ricevendo la prima comunione di tutta l’umanità. La Terra tremò di gratitudine di fronte alla redenzione sua e di tutti gli uomini. Era quello l’inizio della trasmutazione di tutta la Terra. Il ripieno di materia del corpo del Cristo è il fermento che polverizzerà un po’ alla volta tutta la Terra, fino allo stadio di un nuovo caos, premessa per la creazione di nuovi mondi.

Nel mondo vegetale in ogni seme avviene il dissolversi della materialità precedente: la nuova pianta non è la successione della precedente, ma viene creata dal nulla, da tutte le forze cosmiche, sulla base di un morire totale, di un caotizzarsi assoluto della materia che era nel seme. «Se il chicco di grano seminato nel terreno non muore, rimane esso solo; se invece muore porta molto frutto».[23] Il Cristo stesso è il chicco di grano penetrato nella Terra, nella tomba cosmica dell’umanità, per far morire lì dentro la materia della nostra caduta e per ricreare dalla polvere cosmica la materia che verrà strutturata secondo i principi interiori della libertà.

Il ciclo che comincia non è la continuazione di ciò che termina, ma inizia ex novo: dove c’è qualcosa che veramente finisce e muore, là c’è una creazione dal nulla. I vangeli e altre tradizioni esoteriche dell’umanità esprimono il mistero di ciò che termina in assoluto e di ciò che in assoluto comincia, nel rapporto tra due generazioni di esseri animali: per esempio tramite l’immagine dell’asina e dell’asinello. L’asinello, la prole dell’asina, non è la continuazione della materialità dell’animale genitore: è stato necessario che nell’asina la materia cessasse di avere la sua legge intrinseca e che dal nulla si formasse il nuovo asinello. Ecco il mistero del Cristo che entra in Gerusalemme cavalcando un asinello e con l’asina che lo accompagna.[24]

Il Cristo conclude in assoluto tutta la legge evolutiva che ci ha portato a inserirci sempre più nella materia, e crea dal nulla la nuova fase evolutiva della libertà individuale degli spiriti umani. Ecco un altro esempio di linguaggio tecnico esoterico dei vangeli, che si capisce soltanto se si hanno le chiavi di lettura.

Il mistero della creazione dal nulla, quindi della morte e della resurrezione, avviene forse soltanto nel Cristo e là dove si ha una fecondazione? No, noi portiamo in tutti i momenti della vita i presupposti per una resurrezione interiore! La resurrezione compiuta dal Cristo nella materialità e nella corporeità terrestre noi siamo già in grado di attuarla, dapprima al livello del nostro spirito che sa pensare e volere. Esercitando questa spiritualità creatrice di mondi nuovi, contribuiremo a trasfigurare anche la corporeità della Terra intera, e nostra propria, nell’immagine del Cristo risorto.

Ogni volta che nel nostro Io spirituale, con la forza dell’immaginativa morale, creiamo intuizioni conoscitive e morali che provengono unicamente dalla pienezza del nostro Io libero, là noi creiamo dal nulla. Quando un essere umano, in base a intuizione di pensiero puro, concepisce qualcosa che non prende dal mondo che già c’è, in quel momento porta tutto ciò che l’ha preceduto nel nulla di operatività, nel nulla di capacità causante e si pone lui stesso come causazione assoluta, come inizio primigenio di mondi nuovi.

Questa intuizione morale è l’intuizione dell’Io creatore, quell’Io così libero e così amante nella conoscenza intuitiva che non considera più tutto l’esistente come falsariga, come induzione e spinta obbligata per ciò che sarà, ma solo come occasione e punto di partenza per quanto lui stesso crea in modo originale e originario. In questo modo diventiamo, dentro di noi, creatori dal nulla e avveriamo il detto del Cristo che il determinismo, l’automatismo (la carne) serve a venire annullato – tramite l’esercizio della forza dell’Io che si confronta con la resistenza del non-io. La carne è riportata al caos e allora anche il nostro corpo comincia a fremere di gioia, come la Terra quando il Cristo morì.

Dibattito

Intervento: Vorrei qualche chiarimento sulla connessione tra l’immagine dell’asina e dell’asinello e il principio della creazione dal nulla.

Archiati: Prendiamo dal Vangelo l’entrata in Gerusalemme:

«Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Betfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: ‹Andate nel villaggio che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa un puledro: scioglieteli e conduceteli a me. Se qualcuno poi vi dirà qualche cosa, risponderete: Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito›. Ora questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta: ‹Dite alla figlia di Sion: ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina e su un puledro figlio di giumenta›. I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere».[25]

Le domande che possono sorgere di fronte a un tale testo sono molte: prima di tutto, perché è così importante questa profezia sul modo come il Cristo deve entrare in Gerusalemme? È chiaro che questa indicazione, facendo parte della profezia sul mistero del Golgota, deve avere a che fare con l’essenza di ciò che si sta compiendo: per questo è necessario interpretare il significato del rapporto tra l’asina e l’asinello.

Abbiamo già visto che siamo di fronte a un ciclo che termina, non a una semplice metamorfosi dell’esistente. Ci sono due principi evolutivi fondamentali: la metamorfosi e la creazione dal nulla. Altri principi evolutivi sono, naturalmente, variazioni di questi due.

• Dove c’è il principio di metamorfosi, il vecchio non finisce, ma si trasforma. Trascorrendo i giorni della vita, noi, a cinquant’anni, siamo ben diversi da quando eravamo ventenni ma non siamo un altro Io, non siamo un essere nuovo. Nella metamorfosi ciò che già esiste non cessa, ma cambia. Questo è il principio evolutivo noto alla scienza.

• L’altro principio evolutivo, che la scienza ufficiale non conosce, è il principio della creazione dal nulla: l’esistente viene rigettato nel caos, nella “materia prima” che non ha nessun principio di formazione immanente dentro di sé. Qui una realtà termina e può incominciare qualcosa di assolutamente nuovo. Il grande segno occulto della creazione dal nulla era il segno del cancro, due spirali una dentro l’altra. La caratteristica essenziale in questo simbolo è lo spazio vuoto, la cesura, il salto nel nulla tra una spirale e l’altra. Ci deve essere soluzione, scioglimento di continuità: la prima linea deve cessare, la seconda deve creare in assoluto dal nulla della prima.

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Il generato crea il proprio involucro fisico dal nulla, rigettando la materia paterna e materna nel caos originario e riformandola secondo principi creanti del tutto nuovi – a immagine e somiglianza del proprio spirito. Ma allora, potremmo chiederci, perché il bambino assomiglia molto spesso ai suoi genitori? È simile non dal basso, in quanto prodotto della materia, ma dall’alto, in quanto spiritualmente ha qualità congeniali ai suoi genitori: lui stesso li ha scelti in base all’affinità del karma, lui stesso forgia la materia in modo simile al padre e alla madre e non perché la materia contenga leggi intrinseche ineludibili.[26]

Vediamo così il concetto di ereditarietà da un punto di vista del tutto opposto al consueto: non è la materia a causare la costituzione di chi nasce, ma colui che nasce configura dal nulla la materia a immagine sua e di coloro che sono karmicamente imparentati con lui. La materia, che aveva una sua legge intrinseca (quella del padre e della madre che la mettono a disposizione), viene spogliata e diseredata grazie alla fecondazione.

Il simbolo di questo rapporto è il segno zodiacale del cancro, che indica il punto di massima altezza del Sole all’orizzonte. Ora chiediamoci: la discesa è forse una continuazione della salita? No, non è una metamorfosi del salire, è esattamente l’opposto: termina il salire e comincia il discendere. Per questo motivo il segno occulto del cancro ha sempre indicato una fine, il ricadere nel caos primigenio, e un nuovo inizio.

Osserviamo l’importanza e la precisione di questi segni occulti. Andiamo avanti nella lettura del testo evangelico: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!».[27] Quando il Cristo entra in Gerusalemme, il Sole termina la sua prima fase evolutiva nella Terra: siamo nel più alto dei cieli. Un ciclo è finito e ne inizia uno nuovo. Questo dicono i vangeli, ma noi non li comprendiamo più.

Se noi andiamo ancora più indietro nel tempo, troviamo che il segno zodiacale del cancro veniva espresso con l’immagine dell’asina e dell’asinello, a significare il passaggio epocale tra la generazione precedente e quella successiva, dove nulla si eredita e tutto, dopo la caotizzazione delle forze passate, rinasce a nuovo. L’evo evolutivo della grazia senza libertà è finito. L’evo evolutivo tutto nuovo della grazia grazie alla libertà, ha il suo inizio. Il Gesù cavalca l’asina e il Cristo sta cavalcando l’asinello: coloro che hanno soltanto occhi fisici vedono Gesù che cavalca l’asina, chi possiede occhi spirituali vede anche il Cristo sull’asinello.

La realtà umana fisico-materiale termina sull’asina.

La realtà divina, quella che comincia e crea mondi nuovi, è sull’asinello.

Intervento: Cosa vuol dire che Tommaso, per riconoscere il Cristo risorto, deve toccargli le ferite? Di quali ferite si tratta, se il ripieno del corpo fisico del Cristo si era polverizzato?

Archiati: Il punto di riferimento per riconoscere il Cristo prima della sua morte era il ripieno corporeo. Partiamo dal dato fondamentale che il ripieno dà al corpo fisico la visibilità percepibile tramite i sensi fisici. Come sarebbero distinguibili le nostre corporeità l’una dall’altra se non ci fosse questo ripieno di materia? Ciò che permette di distinguerle è l’Io spirituale, poiché si è individualizzato a un punto tale da non essere più confondibile, in assoluto, con qualsiasi altro essere. È chiaro che il Cristo portava in sé questa suprema pienezza di individualità, ma i discepoli erano appena all’inizio dell’esercizio delle capacità conoscitive e non la potevano cogliere. Allora il Cristo stesso li aiuta dando loro le forze per poter vedere innanzi tutto il fantòma, che è la compagine invisibile di forze fisiche. Però, dice Steiner, ciò che consente agli apostoli di riconoscerlo proprio come fantòma del Cristo, sono le forze eteriche specifiche di colui che è morto in croce: sulle mani e sul costato, là dove sono state inferte le ferite, il corpo eterico deve fare uno sforzo del tutto particolare per ricreare le forze vitali capaci di rimarginare. Il corpo eterico del Cristo lo si riconosce, dunque, dalle ferite eteriche che porta in sé, o meglio, dalle forze di rimarginazione.

Duemila anni fa il fatto di vedere i morti era comune, i morti apparivano – lo dice anche il Vangelo: «Abbiamo visto morti resuscitare…».[28] Tommaso, quando gli altri apostoli gli dicono di aver visto il Signore risponde: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò».[29] Otto giorni dopo il Cristo torna ad apparire e mostra a Tommaso le ferite nel corpo eterico, portandolo alla certezza.

Anche la Maddalena vede il Signore vicino al sepolcro vuoto, e lo scambia per il giardiniere:[30] cosa significa questa indicazione? Se si trattasse del Cristo fisico, non sarebbe pensabile che la Maddalena non lo riconosca. In realtà, il “giardino” è il mondo delle pure forze eteriche, delle pure forze vitali di crescita e quindi Maria Maddalena ha l’esperienza di vivere in un insieme di forze eteriche, ma non riconosce il Cristo risorto. A questo riguardo la scienza dello spirito dice che la visione immaginativa (il primo livello dell’iniziazione) non basta a capire ciò che si vede: bisogna aggiungere al vedere la facoltà ispirativa che permette di comprendere quel che l’immagine esprime dall’interno come suo contenuto reale, ciò che essa vuole dire. Quando il Cristo la chiama – Maria! – allora lei lo riconosce. Nel linguaggio esoterico, il fatto che la Maddalena veda un giardiniere significa che essa percepisce al livello immaginativo: passa poi al livello ispirativo quando ode la parola del Cristo, quando cioè la configurazione interna dell’essere che le è apparso comincia a esprimersi e lei è capace di capire.

Intervento: Esiste una buona traduzione italiana dei vangeli?

Archiati: I testi originali del Nuovo Testamento sono in greco, con l’unica eccezione del Vangelo di Matteo, che era scritto originariamente in aramaico ed è andato perduto. Per chi non sa il greco, sarebbe consigliabile un’edizione interlineare dove, parola per parola, è riportato il testo greco con immediatamente sotto la traduzione corrispondente. In questo modo è possibile rendersi conto maggiormente di ciò che il testo originale contiene.[31] La traduzione peggiore di tutte è la Bibbia in lingua corrente, fatta da cattolici e protestanti insieme: per mettersi d’accordo, hanno operato un’enormità di compromessi. La traduzione dove forse si rischia meno è La Bibbia di Gerusalemme, scritta in francese da un gruppo di domenicani che lavorano a Gerusalemme: dal francese è stata fatta un’edizione in italiano.

Intervento: A me pare molto difficile dimostrare che la libertà esiste, soprattutto in riferimento a quanto è stato detto sulla creazione dal nulla.

Archiati: L’opposto della creazione dal nulla è il determinismo: determinismo significa che la natura di ciò che precede determina come sarà ciò che segue. Chi afferma che l’essere umano è determinato, sperimenta realmente in sé questa cogenza, questa pressione dei meccanismi già precostituiti che muovono l’esistenza partendo dal corporeo.

Ora, se io, sulla base di questi determinismi che ci sono sempre, voglio aggiungere qualcosa che creo dal nulla, lo faccio: ecco allora che non ho bisogno di dimostrare la libertà, perché la mostro vivendola. In altre parole, chi nega la libertà constata che esiste il determinismo, e così facendo afferma una verità; ma va aggiunto che costui non ha sperimentato che, sempre sulla base del determinismo di partenza, si può, se si vuole, creare dal nulla con le libere forze intuitive e morali dell’Io superiore. Ma ciò non avviene automaticamente.

Di conseguenza la libertà non si può dimostrare: o la si mostra perché c’è, oppure non la si mostra, e quindi non c’è. La libertà non è una questione di dimostrazione intellettuale: bisogna andare a vedere presso ogni uomo se c’è e quanta ce n’è. Ogni dimostrazione teorica sulla libertà non serve a nulla. La negazione della libertà non consiste nella constatazione della sua assenza, ma nell’affermazione di principio della sua non possibilità. Però ogni argomentazione teorica di impossibilità è del tutto non scientifica, poiché la scienza può fare affermazioni davvero scientifiche unicamente su ciò che è reale e sulle sue qualità, mentre non può speculare sulla possibilità o non possibilità del non reale. Aver finora sempre e ovunque percepito soltanto determinismo è ben altra cosa che pretendere di dimostrare – in base a un autoritario dogmatismo – che non vi possa essere una realtà di tutt’altra natura.

Terza conferenza

La discesa agli inferi

Firenze, 3 gennaio 1992

Gli inferi nell’uomo

Cari amici,

un evento fondamentale in seno al mistero del Golgota è la discesa agli inferi: che cosa è racchiuso in questo grande fatto di cui parlano le Scritture e anche il quinto vangelo? Dobbiamo recuperare, in chiave scientifico-spirituale, il significato del termine inferi in tutta la sua profondità e vastità: inferi è opposto a superi ed esprime tutto ciò che è mondo inferiore. Nei mondi inferiori, dove era tenebra, il Cristo morendo e risorgendo è entrato per portare luce.

Gli inferi hanno un duplice aspetto: da un lato sono il mondo di oscurità dentro l’essere umano e dall’altro sono la natura, il mondo esterno opaco e resistente allo spirito, il regno degli esseri elementari divenuti refrattari al cammino dell’uomo. Il Cristo è sceso sia nell’uno sia nell’altro mondo degli inferi.

Quali sono gli inferi dentro l’uomo? Sono l’oscuramento della coscienza dell’Io nell’umanità, e riassumono tutto il cammino della caduta: l’Io superiore, dice Paolo, è stato sottratto alla coscienza ordinaria e trasposto nei mondi spirituali, è diventato sovracosciente e nella coscienza è rimasto soltanto il suo riflesso, l’io inferiore.[32] La scienza dello spirito descrive in modo articolato gli inferi dentro l’essere umano, relativi alla sua intera compagine:

gli inferi nel corpo astrale sono l’offuscamento dovuto all’egoismo che impedisce di cogliere la realtà nella sua oggettività e ci fa guardare le cose secondo interessi soggettivi animici, di simpatia e antipatia;

• gli inferi nel corpo eterico, dove ci sono le forze viventi del pensiero, comportano la possibilità di errore, da un lato, e di menzogna, dall’altro;

• gli inferi nel corpo fisico determinano la possibilità di malattia e morte.

Nelle conferenze tenute a Karlsruhe,[33] Steiner parla dell’offuscamento della coscienza dell’Io negli esseri umani in base alla triplice caduta, e in questo contesto cita tre grandi correnti del divenire umano relative alla visione dell’Io: l’ebraismo, il paganesimo (soprattutto nella sua somma espressione greca) e il buddhismo. Attraverso questo triplice atteggiamento dell’umanità nei confronti dell’Io, è possibile stabilire un nesso con ciò che Rudolf Steiner dice ne Il quinto vangelo riguardo alle tre tappe della vita di Gesù di Nazareth, dai dodici ai trent’anni. Nei vangeli canonici non si fa alcun cenno a questo periodo della vita di Gesù: infatti, dal Gesù dodicenne che parla ai dottori nel tempio si passa direttamente al Gesù trentenne che riceve il battesimo nel Giordano.

Rudolf Steiner parla di eventi accaduti in quei diciotto anni, attingendo dal Libro della vita ogni narrazione:

• dai dodici ai diciotto anni Gesù di Nazareth fa l’esperienza fondamentale del cammino di decadimento dell’ebraismo;

• dai diciotto ai ventiquattro anni incontra e attraversa il decadimento del paganesimo; dai ventiquattro ai trent’anni sperimenta il traviamento dell’esoterismo nell’umanità a contatto con gli esseni, eredi del buddhismo.

È infinita la ricchezza di conoscenza che la scienza dello spirito riassume riguardo ai grandi cammini dell’umanità: i nostri stessi cammini delle trascorse esistenze.[34] Prima del Cristo, nell’umanità non c’era una coscienza vera e propria dell’Io: l’avrebbe poi portata il Cristo stesso. Quindi la discesa agli inferi è l’entrata trionfale del Cristo risorto nell’interiorità umana, ormai decaduta rispetto alla realtà sacra dell’Io, per rischiararla tramite la coscienza dell’Io individuale immortale.

1. Cosa pensava il buddhismo, nei secoli prima di Cristo, circa l’Io umano?[35] Lo riteneva un’illusione: l’Io non esiste e gli uomini si illudono, nella loro coscienza, di essere un’entità individuale immortale. Alla morte, ogni coscienza umana si dissolve nel cosmo. Il cammino spirituale consisteva allora nel superare questa maya di egoità per sparire e sciogliersi, come una goccia nell’acqua del mare, ritornando nel Tutto: l’illusione di essere un’entità spirituale a sé stante, libera e indipendente, veniva definitivamente estirpata nel Nirvana.

Ricordiamo a questo proposito il bellissimo dialogo, sintomatico, tra il re Milinda e il saggio Nagashena, dove il saggio cerca di far capire al re, con l’immagine del carro, che l’Io è un’illusione: Tu, o re, sei venuto qui su un carro, dove ci sono ruote, stanghe, assi, sedile… Ma, oltre alla somma di tutte le parti, c’è qualcosa d’altro? No. Quindi ciò che tu chiami carro non è una realtà in più né oltre le singole parti, che sono le uniche reali. Il carro non esiste, è un nome che tu usi per comodità, al fine di non elencare ogni volta tutti gli elementi. Reali sono le parti: la loro somma è un’illusione. Così, o re, è per l’essere umano: sono reali le sue parti, testa mani piedi…, ma quando ti illudi di esprimerne la somma con la parola io, tu non esprimi nulla di reale.

Nonostante siano passati duemilaseicento anni, in fondo l’Oriente è ancora in questa posizione spirituale. Là dove è stata superata, ciò non è avvenuto in base a una fedeltà al buddhismo ortodosso ma per contaminazioni dovute al contatto con l’Occidente. Io stesso ho avuto modo, negli anni passati nel Laos,[36] di parlare con tanti monaci buddhisti e ho constatato che per il buddhista ortodosso l’Io è un’illusione.

2. Diversamente dal buddhismo, l’ebraismo conosce la realtà dell’Io già secoli prima di Cristo, come testimonia il Vecchio Testamento: ma non è un Io individuale. È fondato sulla linea del sangue, sulle generazioni e la corrente di popolo. Il cammino del giudaismo è propedeutico all’esperienza dell’Io singolo vero e proprio, perché dal non-io iniziale (nel quale il buddhismo ancora si trova) comincia a cogliere la realtà dell’Io.

L’ebreo si sentiva un Io quando era in grado di dire: Io e il padre Abramo siamo una cosa sola («Il nostro padre è Abramo»);[37] nel percepirsi inserito nella corrente della discendenza e dell’ereditarietà, riconosceva in sé l’impulso dell’Io. La divinità dalla quale promana questa realtà di popolo, che è allo stesso tempo realtà di Io, è Jahvè. La parola Jahvè, in ebraico, significa Io Sono – e nel Vangelo di Giovanni Io Sono (’Egë e„m…, Egò eimí) e Lógos (LÒgoj) sono i due nomi con i quali è indicato il Cristo.

Ma nell’ebraismo questa parola non la pronuncia ancora l’individuo: nasce dall’essere membri di un popolo, guidati e compenetrati dall’impulso dell’Io Sono. Da qui comprendiamo quanto profonda ed essenziale sia la coscienza di popolo nell’ebraismo, e questo è importante anche per capire l’ebraismo moderno nella sua realtà oggettiva e più profonda, al di là di qualsiasi valutazione di tipo morale. Nella scienza dello spirito si tratta sempre di cogliere dapprima le realtà nella loro oggettività. Per l’ebraismo, nella misura in cui è ortodosso, la consanguineità, l’ininterrotta successione di genealogie e di sangue, è l’elemento portante per l’esperienza dell’Io.

Un altro esempio che Steiner cita a proposito dell’ebraismo è quello di Giobbe che, colpito da tante sventure, non sa più a chi ricorrere: nonostante tutto vuole restare fedele a Jahvè, perché sa che la connessione con quell’impulso gli permette di esistere. La moglie, disperata, gli dice: «Abiura Jahvè, e scompari!»:[38] se rinunci a questo Io di popolo e ti dichiari non più appartenente a Jahvè, ti dissolverai nel nulla e sarà meglio per te che sopportare tutte queste disgrazie. Steiner osserva come in questa espressione della moglie di Giobbe venga descritta la sostanza dell’esperienza dell’Io nel mondo ebraico: il sentirsi inseriti in una divinità di popolo, in un’anima di gruppo (Jahvè è un’anima di gruppo) che, attraverso il sangue, consente di vivere ben specifiche realtà.

3. Una terza via del tutto diversa è quella del paganesimo. Anche qui è sorta nell’umanità l’esperienza dell’Io, ma non ancora quale pura spiritualità individuale e libera, come poi sarà possibile grazie alle forze del Cristo: è un’esperienza essenzialmente legata all’inabitazione del corpo fisico. Il greco si vive come un Io umano e sovrano soltanto nella sua forma fisica: quando il greco lascia questa casa di carne e varca la soglia della morte vive un’esistenza terribile, si sente come una larva d’uomo, un’ombra, un essere incompleto. L’immane tragedia del mondo greco, che sperimenta l’umano proprio nell’apprezzamento della bellezza del corpo, è l’esperienza della morte, distruttrice della forma. In Aristotele stesso l’immortalità è possibile solo nella misura in cui il defunto guarda indietro, per tutta l’eternità, alla corporeità che aveva portato sulla Terra. Soltanto questo rapporto di memoria con la forma consente una qualche coscienza nel post mortem. Nel canto XI dell’Odissea Ulisse scende nel regno dei morti e incontra Achille che, a nome di tutti i greci, a nome di tutti noi che allora avevamo trascorso un’esistenza[39] nella civiltà greca, esprime l’esperienza degli inferi per la coscienza umana dopo la morte: «Meglio essere un mendicante sulla Terra, che un re nel mondo delle ombre». E Steiner insiste affinché oggi l’uomo moderno prenda molto seriamente queste indicazioni che Omero dà: non sono metafore. Veramente l’umanità, nell’epoca greca, viveva così dopo la morte: negli inferi di una coscienza oscurata.

Riassumendo potremmo dire: per il buddhismo l’Io è un’illusione, per l’ebraismo l’Io è un fatto della divinità che l’uomo sperimenta nel sangue, per il paganesimo l’Io è nell’esperienza della relazione con la corporeità. Abbiamo qui il mistero del corpo e del sangue come elementi dell’eucarestia che l’Essere solare, nella pienezza dell’individualità spirituale, ha poi dato all’umanità per indicare le vie di superamento delle dipendenze dell’Io.

La vita di Gesù dai dodici ai trent’anni

Nell’ebraismo, l’Io è ancora dipendente dalla realtà del popolo e del sangue, non è ancora sovrano: non ha portato il vanto della carne alla sua nullità per esprimersi nella piena libertà della creazione dal nulla. Gesù di Nazareth, dai dodici ai diciotto anni, fa l’esperienza del buio degli inferi nella coscienza ebraica che, interpretando come privilegio di popolo le profezie antiche, non ne conosce più la natura, non sa più che quelle profezie indicavano l’Io universale e individuale, al di là del sangue.

Ne Il quinto vangelo Steiner racconta l’infinito dolore che Gesù di Nazareth ha vissuto in sé scoprendo che Bath-Kol, la Figlia della Voce (quindi non più la voce profetica originaria, ispiratrice del popolo ebraico, ma un depotenziamento di essa), non parla più! Questo tacere in seno al mondo ebraico è l’ultima tappa dell’oscuramento di un Io poggiato sul sangue, che non si riconosce come preparazione all’Io vero: un Io di popolo che si ritiene finale e definitivo nell’evoluzione e non vuol farsi strumento dell’Io che non conosce nessun privilegio di genealogia. Da qui comprendiamo quanto fosse essenziale che Gesù di Nazareth, che riassumeva in sé tutto il cammino umano che andava incontro al Cristo, potesse dire di non avere sulla Terra nessun legame di sangue.[40]

Dai diciotto ai ventiquattro anni Gesù rivive in sé la via del paganesimo greco, dove l’incontro con l’Io è legato alla forma del corpo. Egli sperimenta che nel mondo pagano gli uomini erano ispirati all’inizio dalle Gerarchie superiori e poi, a mano a mano che si inserivano nella corporeità sempre più amata, perdevano quel contatto mantenendo soltanto la relazione col da…mwn (dàimon) socratico, col genio ispiratore dell’essere umano, quello che noi chiamiamo Angelo custode. Più tardi ancora, quando ormai il greco si era completamente identificato con la forma esteriore umana, smarriva anche il rapporto interiore col da…mwn buono e cominciava ad albergare dentro di sé i demoni negativi, gli spiriti impuri di cui ci parlano i vangeli.

Steiner descrive ne Il quinto vangelo l’esperienza compiuta da Gesù di Nazareth dell’uomo pagano, posseduto da demoni che lo tirano verso il basso: la descrive in termini sublimi, pieni di venerazione, e possiamo dire che non c’è ciclo di conferenze di Steiner nel quale si noti così fortemente la sua stessa tensione spirituale di fronte ai contenuti del Libro della vita, della Cronaca incancellabile. Proprio nella seconda conferenza dice:

«Mi è costato sforzo parlare di questi temi perché io, da fanciullo, non ho avuto una formazione religiosa: nella mia famiglia c’erano liberi pensatori. D’altro canto, la mia formazione scientifica mi permette di guardare a queste cose con maggiore oggettività di quanta ne possa avere una persona che fin dalla nascita sia stata nutrita di religiosità».

La discesa agli inferi del Cristo è il suo entrare luminoso nella coscienza dei trapassati per comunicare a coloro che erano morti come buddhisti, come pagani e come ebrei la novità assoluta dell’Io umano che riluce per propria forza individuale, interiore, libera e spirituale. Questa è la luce che il Cristo porta negli inferi: d’ora in poi l’Io non avrà più bisogno dell’appoggio del corpo o del sangue, non sarà più un’illusione. D’ora in poi potrà essere il centro più intimo e irradiante di ogni uomo che poggia su se stesso in virtù della forza del Cristo, per tutti i secoli e i millenni a venire. Sta a noi accogliere il Cristo negli inferi del nostro essere, sperimentandoci sempre di più come Io spirituali autonomi: nella stessa misura resteremo anche oltre la morte Io spirituali sovrani, fra altri Io spirituali.

A proposito degli incontri che Gesù di Nazareth ebbe con gli esseni dai ventiquattro ai trent’anni, Steiner descrive la realtà tragica di una comunità di uomini che, allontanandosi dagli altri, volevano purificarsi in un cammino di ascesi, nella noncuranza dell’evoluzione altrui.

Questo atteggiamento degli esseni è l’ultima propaggine dell’antica mentalità orientale, dove il singolo non prende su di sé la responsabilità nei confronti della Terra e di tutta l’umanità, ma cerca una purificazione personale, che lo faccia rifluire nel Tutto. È una forma di nostalgia degli inizi, dove ognuno anela a ritornare nel grembo universale senza occuparsi della salvezza di tutta l’umanità: manca la coscienza cristica dell’Io che non vuole trascurare il cammino di tutti.

L’atteggiamento degli esseni, che si appartavano gettando sempre di più gli altri nel gorgo della caduta, è un atteggiamento pre-cristico, non responsabile – ed è una delle grandi forme degli inferi, delle aree oscure della coscienza umana che il Cristo è venuto a illuminare con la sua morte e resurrezione.

Gli inferi nella natura

L’altra realtà degli inferi è quella presente nella natura, nel mondo che ci circonda. Il fatto che l’interiorità dell’uomo si andasse oscurando proveniva dall’influsso sempre più pesante e ottenebrante della natura che gli veniva incontro e lo riempiva a partire dal di sotto. Nella conoscenza umana sono così entrate le forze lunari del pensare materialistico e astratto che hanno oscurato il Sole, così come alla morte del Cristo, con l’eclissi di Sole, la Terra intera mostrò le sue tenebre.

La natura, come luogo degli inferi della coscienza umana, si esprime nei dodici sensi[41] dell’uomo: essi si sono oscurati – come il Sole stesso che li percorre tutti passando per i dodici segni dello Zodiaco – e hanno cominciato a percepire soltanto il fisico sensibile. E questo doveva accadere: nell’evoluzione bisognava portare tutto il cosmo al suo stato di morte per creare le condizioni della libertà.

Le trenta monete d’argento di Giuda sono i trenta volti della Luna, i trenta riflessi lunari dell’Essere solare che lo tradiscono e lo fanno morire, conservandone unicamente l’immagine morta che rappresenta il pensare astratto. Questa conoscenza lunare consente all’uomo di cogliere dell’universo soltanto il lato di morte, soltanto l’apparenza esterna. Come la Luna rispecchia la luce del Sole, così il pensare speculativo (da speculum, specchio) contiene solo immagini riflesse.

Un altro aspetto della natura antiumana, che trascina l’uomo sempre più in basso, possiamo coglierlo nel mito di Proserpina (o Persefone): Proserpina era la nostra capacità di chiaroveggenza atavica, figlia di Demetra, la dea Madre, la terrestrità del mondo in cui viviamo. Demetra entrava in noi soprattutto attraverso il nutrimento e generava sua figlia Proserpina: il cibarsi era anticamente il modo per far sorgere nell’uomo visioni spirituali. Proserpina fu rapita, fu strappata all’uomo e portata agli inferi: in altre parole, l’essere umano cominciò a nutrirsi in modo tale che i cibi non gli consentirono più la visione diretta del mondo spirituale. Proserpina rimase dentro la Terra e in noi sorse l’oscurità della coscienza, desta soltanto all’aspetto morto del cosmo circostante.

La discesa del Cristo agli inferi di natura, significa che la sua forza luminosa ci consentirà, nel corso dell’evoluzione, di compenetrare di nuovo con lo spirito delle nostre individualità libere il corpo della Terra, affinché il vivere grazie ai suoi frutti faccia sprigionare in noi, in modo rinnovato, la visione del mondo spirituale. In un certo senso, noi andremo a riprendere Proserpina dagli inferi e la faremo risalire: sarà una Proserpina mutata, non più una capacità di chiaroveggenza automatica, ma cosciente e spirituale, creata dalla forza cristica dell’Io.

Nel mistero della discesa dell’Essere dell’Amore agli inferi è dunque racchiusa una realtà molto vasta: tutto il cammino futuro dell’uomo e della Terra, il rischiaramento di ogni tenebra interiore dell’uomo e di ogni tenebra esteriore della Terra. In questa duplice realtà degli inferi il Cristo scende ogni giorno: in noi e attraverso di noi porta luce con le Sue forze di resurrezione. E c’è una sola resurrezione possibile per l’uomo: la resurrezione dell’Io, dell’individualità spirituale libera che regna sovrana al di sopra di tutte le cose create e che è in grado di servirsene per la propria evoluzione senza essere più schiava e soggetta a nessuna di esse. Sarà l’Io cristico in tutti noi, totale espressione dell’amore, a determinare la natura stessa della Terra e dell’umanità.

L’ascensione al cielo

In quale rapporto polare sta la discesa agli inferi con l’ascensione al cielo del Cristo, di cui ci parlano i vangeli? Se il Cristo è venuto a redimere la Terra e la Sua ascesa al cielo fosse un andar via di nuovo, come potrebbe affermare: «Io sarò con voi fino alla consumazione dei tempi»?[42] Il fatto che il Cristo scompaia nel giorno dell’ascensione agli sguardi degli apostoli, significa che questo evento è l’inizio dell’ubiquità del Cristo nella Terra, detto nei termini tecnici della teologia e del linguaggio esoterico. Il Cristo diventa onnipresente nel corpo della Terra, che viene così intrisa delle Sue forze di sapienza e di amore.

Gli inferi e il cielo (i superi) sono due realtà che si richiamano a vicenda: e il cielo non è un luogo, ma uno stato di coscienza. In cielo si trova ogni essere umano che cominci ad abitare spiritualmente nel Cristo che opera nella Terra con sapienza e amore – quale Logos e quale Io Sono, secondo i nomi che gli dà l’evangelista Giovanni.

Dove il Cristo è, lì è il cielo nostro: da duemila anni, da quando ha fatto della Terra il suo corpo, non c’è altro cielo per gli esseri umani che la Terra! La negazione della reincarnazione secondo la quale si vive in questa valle di lacrime una sola volta per non tornarvi mai più, questo modo di pensare, rappresenta una profondissima infedeltà alla realtà del Cristo che ha fatto del nostro pianeta il suo corpo. Grazie alla nuova e cristica consapevolezza della reincarnazione, si accende nell’uomo la certezza che il ritorno sulla Terra è un gesto di responsabilità e di gratitudine, è la risposta libera e cosciente del nostro Io che solo in questo cielo terrestre può operare con il Cristo alle mete dell’evoluzione, alla Terra Nuova.

Il karma umano

Steiner afferma che la morte e la resurrezione del Cristo sono un mistero senza karma: la venuta del Cristo in Terra non presuppone nessun karma da parte Sua e non crea karma. Questo è detto nelle conferenze su Il quinto vangelo. È un’affermazione di portata così vasta che comprenderemo le sue profondità solo nel corso del cammino evolutivo: inoltre essa appare strana a chi non lavori alla scienza dello spirito, e perciò merita di essere affrontata. Forse possiamo partire dalla realtà del karma umano per poi comprendere in che senso l’evento del Cristo non ha nulla a che fare col karma.

Il karma è la legge di connessione tra causa ed effetto nelle azioni umane: Steiner stesso mostra come sia difficile voler definire questa realtà così complessa, la cui essenza è che le conseguenze delle azioni ritornano su colui che ne ha posto le cause.[43] Se così non fosse, se le conseguenze delle nostre azioni non tornassero a cercarci, noi non saremmo liberi: dovremmo dire che il nostro agire non causa nulla.

Una delle prospettive più vaste per avvicinare la realtà del karma è quella del rapporto tra peccato e malattia.[44]

Apro una parentesi: il termine “peccato”, secondo il Vecchio Testamento, indica una trasgressione della Legge divina, codificata per la salvezza dell’uomo. Da questa stessa Legge esterna si intende delineato per l’umanità il confine tra bene e male. Conservare immutata questa accezione del peccato dopo l’evento del Cristo è puro moralismo. La scienza dello spirito riconduce il significato di questa parola al concetto sostanziale e individuale di bene e male.[45]

Il bene e il male sono due fenomeni di natura spirituale che si manifestano nel visibile: bene è conseguire consapevolmente le dimensioni umane rese possibili dall’evoluzione; male, quale grande tragedia dello spirito, è invece omettere i gradini del divenire. La somma del bene umano è l’uomo stesso nella sua pienezza, e la pienezza dell’uomo – la sua dimensione distintiva nell’universo – è la libertà. Perché l’uomo è l’essere della libertà.

Il bene morale è dunque la realizzazione della libertà, il male morale è la sua omissione, fino alla perdita della potenzialità stessa di libertà. La libertà dell’uomo è il suo autonomo pensare e il suo autonomo volere: più un uomo è libero e più sceglierà di promuovere l’umano, la libertà, in ogni situazione, in ogni relazione. E questo è l’amore. La libertà è sempre, contemporaneamente, gratuità d’amore.

Il peccato è dunque da intendersi come scivolamento verso la non-libertà, verso il male, verso la carenza dell’umano. La libertà umana, quale pienezza dell’umano, è per noi il solo criterio del bene e del male. Bene è tutto ciò che rende l’essere umano più libero (più umano), male è tutto ciò che lo rende meno libero (meno umano). Altri criteri del bene e del male umani non ve ne sono. Chiusa parentesi.

Negli antichi testi sacri ogni evento di disfunzione nell’organismo corporeo era considerato conseguenza del peccato: noi stessi quindi, in tempi passati, abbiamo ritenuto la malattia una diretta derivazione del peccato.

Steiner mostra come l’evento del Cristo rappresenti, anche da questo punto di vista, una grande svolta nell’evoluzione: se è vero che come conseguenza del cosiddetto peccato originale (evento dell’anima umana che coincide con la nascita in noi dell’egoismo) è iniziata la degenerazione della corporeità, è altrettanto vero che già da duemila anni questo rapporto si sta invertendo.

Nel passato, in base all’egoismo morale del corpo astrale (cioè dell’anima), è sorta la malattia corporea; a partire dall’evento del Cristo, poiché abbiamo una corporeità in cui gli istinti e le brame inferiori parlano un linguaggio troppo virulento, troppo pesante per lo spirito, proprio per questo dobbiamo capovolgere la chiave di lettura e imparare che d’ora in poi sarà il peccato a essere conseguenza della malattia. La scienza dello spirito non ci rende facili le cose dandoci soltanto una chiave di lettura!

Inoltre, non si tratta del fatto che questa nuova fase evolutiva relativa al karma abbia sostituito del tutto l’altra: ciò avverrà soltanto verso la fine dell’evoluzione. Ora siamo nel mezzo di un trapasso dal peccato come causa della malattia, alla malattia come causa del peccato, e quindi abbiamo sia l’uno sia l’altro aspetto. Nella misura in cui l’uomo ometterà il libero affrancarsi dal determinismo di natura, sempre di più la realtà corporea malata gli genererà nell’anima, per forza propria, una compagine di impurità, di peccaminosità.

L’uomo antico forgiava il corpo a partire dall’anima, l’uomo moderno determina maggiormente l’anima a partire dal corpo: questo significa che oggi siamo meno liberi? No, è esattamente il contrario: anticamente la spiritualità umana non coincideva con l’Io libero, era mossa dalla necessità evolutiva che, attraverso la degenerazione animica, doveva arrivare alla caduta del corpo umano stesso. Ma da duemila anni l’impulso del Cristo conferisce sempre di più all’uomo che lo fa suo una forza tale che gli consente di trasformare il corpo: questo campo di esercizio della libertà è infinitamente superiore al poter esercitare la libertà soltanto sulla propria realtà animica.

In altre parole, l’impulso dell’Io ci consentirà una rigenerazione e un risanamento del corpo fisico che poi, come conseguenza, ci permetterà una conquista della pienezza interiore sempre più finale.

Il perdono karmico

La scienza dello spirito ci dà la possibilità di approfondire un altro grande mistero, quello del perdono karmico. In una prospettiva più generale, possiamo individuare tre grandi fasi nel rapporto di ogni uomo col suo karma, cioè col fardello di debito verso l’evoluzione e verso gli altri.

1. Una prima grande fase è quella in cui non si è ancora capaci di prendere su di sé la responsabilità di elaborare le conseguenze karmiche delle proprie azioni. È l’essere umano ancora bambino riguardo alla forza del suo Io spirituale: soggiace alla tentazione di scrollarsi di dosso le conseguenze delle sue azioni affinché siano altri esseri attorno a lui a portarle.

Non esistono gesti, parole, intenzioni, pensieri che non abbiano conseguenze da riprendere in mano: restano oggettivamente nel mondo e debbono consumare ogni loro negatività nel crogiolo dell’amore. Se un essere umano è incapace di questo, è necessario l’intervento di Esseri superiori il cui riflesso sull’uomo, in questo caso, parla il linguaggio della giustizia.

2. La seconda grande fase, espressa nei vangeli, è quella in cui ogni essere umano genera in sé tanta forza cristica da essere capace di piena responsabilità sulle conseguenze delle proprie azioni. È il livello della remissione dei peccati: questa parola, in tutte le lingue, anche in quelle antiche, ha un significato occulto che è diametralmente opposto a quello essoterico invalso nell’umanità, sotto molti aspetti ancora bambina. Rimettere i peccati non vuol dire togliere all’uomo il carico delle conseguenze delle sue azioni, ma significa proprio l’opposto: il Cristo ri-mette, riconsegna a noi i nostri peccati proprio perché ci ha portato la forza interiore di coscienza e di responsabilità amante.

Il Cristo rende l’uomo capace di riprendere la propria croce, il proprio fardello: il lettuccio. Lettuccio è un altro termine tecnico per designare realtà spirituali: indica il karma, inteso nel suo particolare aspetto di sostrato portante fatto di impulsi corporei e animici, sul quale posiamo e (al livello di coscienza) dormiamo. «Prendi il tuo lettuccio e vai»[46] dice il Cristo: trasporta con la forza del tuo Io ciò che prima ti portava. Così profondo e preciso è il linguaggio dei vangeli! Il fondamento karmico verso il quale l’essere umano era passivo diviene ora, grazie alle forze dell’Io Sono interiorizzate, capacità autonoma di impulsi volitivi per andare là dove il karma chiama. L’uomo comincia ad amare consapevolmente la necessità giusta del karma.

3. La remissione-assunzione dei peccati resa possibile dal Cristo, è la premessa per una terza grande fase evolutiva dove ciascuno di noi sarà così cristificato da essere in grado non solo di riconoscere e prendere in carico le conseguenze delle proprie azioni, ma anche di partecipare al gesto gratuito che il Cristo compie verso il karma dell’umanità. «Ecco l’agnello di Dio, che prende su di sé e porta il karma di tutta l’umanità», ”Ide Ð ¢mnÕj toà qeoà Ð a‡rwn t¾n ¢mart…an toà kósmou (íde o amnòs tu Theù o aíron tèn amartían tu kòsmu).[47]

Il verbo a‡rw non significa tolgo, ma levo in alto: questo compie il Cristo nei confronti del karma dell’umanità. Lo solleva con mani amorevoli e non lo lascia cadere. È un grande passaggio evolutivo che consentirà anche a noi, sempre di più, di portare liberamente e gratuitamente i pesi degli altri: ogni conseguenza avrà infinite mani che l’accoglieranno, e nell’evoluzione umana si passerà da una regia di giustizia a una regia di amore, perché la giustizia non basta in un cosmo che è stato fondato sull’amore.

La giustizia conosce la giusta misura e dà a ciascuno il suo: l’amore non misura, l’amore esubera sempre. Se il Cristo fosse entrato nella Terra e avesse voluto essere giusto con noi, saremmo rimasti ancorati al nostro karma, chiusi in noi stessi, divisi gli uni dagli altri. Perciò il Cristo non è venuto secondo giustizia, ma secondo sovrabbondanza d’amore. Quando un essere umano incomincia a dare senza calcolare più ciò che gli ritorna indietro, soltanto allora entra nella realtà specifica delle forze del Cristo e della nostra Terra. Il karma complessivo dell’umanità è il cammino della caduta. Cristo ne opera il pareggio karmico mediante la redenzione[48] dell’umanità intera.

Come si inserisce l’evento del Cristo in questo contesto delle cause e degli effetti, delle azioni e delle conseguenze? «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi»:[49] come è possibile che il Cristo venga perseguitato se non ha nessun karma? Questa persecuzione non è effetto di azioni pregresse, non è conseguenza di un karma. È conseguenza del karma umano che gli uomini perseguitino il Cristo, ma è al di là di ogni karma che il Cristo venga perseguitato.

Questo significa che se un uomo verrà perseguitato a causa dell’impulso dell’Io Sono che vive in lui, in quella stessa misura comincerà a travalicare la realtà del suo karma singolo. Noi tanto sciogliamo, superiamo e portiamo a termine il karma della Terra e dell’umanità per quanto cominciamo a partecipare al mistero del Cristo tramite la persecuzione nel suo nome. È questo il perdono karmico.

È un quesito importante e non facile da risolvere quello che dice: se da ogni azione nascono conseguenze, di vita in vita queste si moltiplicheranno, il karma diventerà sempre più enorme e complesso e sarà impossibile pareggiarlo. La scienza dello spirito risponde che il karma si esaurisce, il karma brucia e si consuma là dove trova negli uomini la risposta dell’immolazione di amore assoluta, che non oppone nessuna resistenza perché è pura gratuità, pura libertà. Ritornerò più avanti su questi argomenti.

Ciò che il Cristo ha compiuto sulla Terra è libero in senso assoluto perché la sua passione e morte non sono effetto di nessuna causa. Ma anche l’altro lato dell’evento è vero: tutto ciò che il Cristo ha compiuto non è causa di nessun effetto. Il Cristo non causa nulla, né in noi, né fuori di noi, perché se il Cristo causasse qualcosa creerebbe nel cosmo della Terra e dell’uomo degli spazi di non-libertà! Come Lui è libero, così lascia assolutamente liberi.

Il Cristo non opera né causa in noi la libertà, ma trasforma tutto il cosmo, tutta la Terra in una possibilità, in un’offerta, in una potenzialità che ci mette a disposizione: trasformare questa possibilità in realtà, dipende dalla nostra libertà. Questo è il significato del mistero del Cristo senza karma che lo precede e senza karma che lo segue.

Dibattito

Intervento: Che significato hanno le parole: «Molti sono i chiamati e pochi gli eletti»?

Archiati: Il testo greco dice: «Polloˆ g£r e„sin klhto…, Ñl…goi d ™klekto…» (Polloí gár eisìn kletoí, olígoi dè eklektòi).[50] Klhto… (kletòi), i chiamati, viene dal verbo kalen (kalein) che significa chiamare. Eklekto… (eklektoí), gli eletti, viene dal verbo ™k-kalen (ek-kalein) che significa chiamare fuori. È questo il concetto esoterico di molti e di pochi. Forse sapete che nella formula della consacrazione, nel rito cristiano della messa, è detto che il Cristo: «… ha dato la vita per molti». Queste parole sono oggetto di grandi discussioni teologiche: perché «per molti» e non per tutti?

Dobbiamo allora chiederci quale sia il significato di polloˆ (polloí) e quale il significato di Ñl…goi (olígoi): polloˆ (molti) sta a indicare gli esseri umani che vanno con la massa, mentre Ñl…goi (pochi) sono quelli che cominciano ad andare da soli.

La prima parte dell’evoluzione è un distacco automatico dalla comune matrice divina, avvenuto senza la nostra partecipazione individuale: questa “andata” dell’evoluzione è la chiamata. Nell’andata, cioè nella discesa, siamo stati chiamati tutti a diventare individui umani, e tutti, come umanità indistinta (polloˆ, i molti), abbiamo udito questa chiamata.

L’elezione, invece, la risposta cosciente alla chiamata, il percorso evolutivo del “ritorno”, è il diventare uomini per libertà individuale.

missing image filei chiamati e gli eletti

La chiamata è avvenuta per formare tutte le condizioni, tutte le basi affinché l’individualità diventasse possibile: sempre più giù nella materia siamo scesi tutti, era una direzione evolutiva valevole per ogni essere umano in quanto facente parte della massa (i molti). Ed è avvenuta automaticamente. L’elezione, il tirarsi fuori (™k) dalla materialità divenendone sovrani e facendo di essa il fondamento dell’esistenza dell’Io (e non ciò che determina l’esistenza dell’Io) è un fatto non del gruppo, ma dei pochi, Ñl…goi (olígoi), che cominciano ad andare avanti per forza interiore di libertà.

Intervento: Cosa significa, oggi, in termini pratici, essere perseguitati in nome di Cristo?

Archiati: Nel mio nome significa in nome dell’Io Sono. Significa che l’uomo che si adopera a far vivere il Cristo in sé è un essere dal carattere individuale. E cosa avrà, questo essere individuale, sempre contro di sé? L’essere di massa – e cioè gli interessi di un potere costituito, di una Chiesa, di un gruppo, di qualunque istituzione che resista all’impulso dell’assolutamente individuale.

La persecuzione è quella che nega in mille modi l’individualità: si attua attraverso i persuasori occulti. Dove non sono io a decidere neppure dei bisogni veri che ho, dove ci sono dei manipolatori che li inducono in me (le cose che devo comprare, per esempio), là vi è la persecuzione sistematica ed essenziale di chi vuole agire secondo l’Io cristico. Obnubila l’Io, lo annulla, lo perseguita al punto da abolirlo dalla faccia della Terra e fa di tutto affinché gli uomini non siano capaci di pensare in proprio. Come reagisce l’Io cristico di fronte a questa persecuzione? Rendendola vana, perché in Lui non opera nulla. Ecco il porgere l’altra guancia: là dove tu vieni percosso con l’impulso che annulla l’Io, rispondi con la forza dell’Io e farai cadere nel nulla questi tentativi contro la persona umana.

Intervento: Vorrei qualche chiarimento sulla trasformazione del Cristo da Essere solare a Essere terrestre.

Archiati: Come uomini che varcano la soglia del terzo millennio, dobbiamo familiarizzarci con il concetto realissimo che i corpi celesti non sono pezzi di materia inerte che veleggiano per il cielo. Ancora un Tommaso d’Aquino li chiamava Intelligenze, cioè sedi di Esseri spirituali pensanti. Il Sole è il centro del sistema planetario in cui la Terra è inserita. E che cos’è il Sole? Non è soltanto una luce che vediamo o un calore che sentiamo, è un Essere spirituale che irraggia luce di saggezza e calore di amore. Ma dicendo queste parole non si intende certo sostituire il cammino individuale di ognuno verso la riconquista spirituale del cielo: all’inizio restano parole astratte. L’evoluzione che accolga in sé le prospettive della scienza dello spirito, pone agli uomini anche il compito di riconoscere l’universo in quanto popolato di miriadi di Esseri spirituali. L’Entità attorno alla quale si centralizzano tutti gli Esseri solari è il Cristo-Sole.

Il Sole, cioè il Cristo, ai primordi della nostra evoluzione si è separato dalla Terra per permetterci di costruire un’individualità dapprima egoistica, secondo l’impulso luciferico.[51] È un po’ come “l’andata” della peripezia del Figliol prodigo (Lc 15,11), dove il padre dice al figlio: ecco la tua parte, vai! Il figlio sperpera tutto vivendo in un modo che i moralisti condannano troppo alla svelta: il padre sapeva che questo figlio sarebbe ritornato, ma per farlo se ne doveva andare.

L’andata è l’esperienza della sua indipendenza negativa, della necessaria acquisizione di una personalità egoistica prima di poter vincere l’egoismo stesso con la forza dell’amore. Il separarci gli uni dagli altri, il farci spazio da parte del Cristo che con la corporeità solare si ritira dalla Terra, è un gesto amante che lascia liberi di costruirsi un’individualità dapprima egoica. Ciò compiuto, il Cristo ritorna nella Terra e immette nel suo essere tutte le forze che ci consentiranno, se lo vorremo, di vincere ogni egoismo con la forza dell’amore.[52]

Dal mistero del Golgota in poi, il Sole, anche come corpo celeste, comincia a riavvicinarsi alla Terra, che è il corpo del Cristo, finché diventeranno di nuovo un corpo solo: il Cristo attira gli Esseri solari verso la Terra affinché quest’ultima possa trasformarsi, nel corso della sua evoluzione, nel nuovo Sole di un nuovo sistema planetario.

Ci sono molte cose da rivedere nel cristianesimo tradizionale: realtà profondissime del mistero cristiano, oscurate nel tempo, ora vanno riprese. Era previsto nell’evoluzione anche il fatto che i tesori della tradizione andassero perduti, per consentire al singolo uomo il privilegio assoluto della libertà di poter riconquistare il tutto a partire dalle forze spirituali del suo Io.

Dichiarare che la tradizione ha dovuto perdere tesori di sapienza non è un’accusa alla Chiesa o ad altri: è proprio il presupposto assoluto del cammino di libertà in ciascuno di noi. Puntare il dito su colpe di presunte autorità non coglie l’essenza della libertà, che doveva perdere ogni automatismo di tradizione e di anima di gruppo (Chiesa è gruppo, non è ancora il singolo autonomo), così che ogni uomo attuasse il supremo compito evolutivo di ricreare il tutto dal nulla. Bisognava, allora, che tutto si annullasse: e questo è successo. Chi comincia ad approfondire la scienza dello spirito si rende conto che oggi partiamo proprio dal nulla, dal punto morto dove tutto può ricominciare solo per volontà dell’individualità libera.

Quarta conferenza

L’enigma della morte

Firenze, 4 gennaio 1992

La morte è un evento della coscienza

Cari amici,

se vogliamo approfondire ulteriormente il mistero della morte e della resurrezione, dobbiamo comprendere che la morte non è un fatto oggettivo dell’essere ma è un fatto di coscienza. La cosiddetta morte esiste unicamente nella coscienza, nei pensieri degli esseri umani: altrove, nell’universo, non esiste.

Nessuno di noi sa veramente cosa sia: pensiamo sulla morte e ne parliamo sempre prima di averla sperimentata. E se fosse un’illusione? E se i nostri pensieri fossero errati? Argomentiamo sulla morte con la paura che sia la fine del nostro essere, ed è proprio questa paura che si pone alla base della più grande illusione umana.

Ciò che noi chiamiamo morte nella sua oggettività è un trapasso, è una metamorfosi: non è una creazione dal nulla nel senso che un essere sparisce e ne nasce un altro. Il nucleo del nostro essere, l’Io eterno e indistruttibile, non scompare ma si spoglia dell’abito terreno per rivestire una corporeità puramente animico-spirituale, adatta a vivere nei mondi celesti.

La morte è un passaggio a una vita molto più piena e consapevole, che valica i confini dello spazio e del tempo. Oltre la morte non saremo più sempre e solo in un luogo e in un momento, ma conquisteremo le dimensioni dell’ubiquità e dell’eternità che ci consentiranno una presenza nel cosmo di gran lunga più profonda e vivente rispetto a quella che abbiamo quando siamo congiunti al corpo.[53]

Ciò non deve valere a sminuire la centralità e l’essenzialità della vita terrena, perché se da un lato oltre la morte c’è un ampliamento infinito degli spazi di coscienza, dall’altro lato cessa l’esercizio della libertà. Dopo la morte l’essere umano non è più libero, non è più posto dinanzi alla scelta fondamentale fra il bene e il male e quindi non può fare nessun passo evolutivo, né avanti né indietro. C’è quindi un duplice mistero nel varcare la soglia della morte:

• da un lato c’è il grandioso rischiaramento della coscienza che ci permetterà addirittura di vedere squadernata davanti a noi l’interezza della vita passata, di penetrarla con una consapevolezza ben più profonda di quella che abbiamo avuto durante l’esistenza terrena; una coscienza così ampliata che potremo, in comunione con le Gerarchie, perfino architettare con la massima sapienza la successiva incarnazione;[54]

dall’altro lato c’è l’arrestarsi dell’esercizio della libertà, che per l’essere umano è possibile soltanto nello stato incarnato, in quell’oscuramento della coscienza che fa parte della vita terrena. Sulla Terra noi abbiamo il privilegio di non sapere quello che facciamo: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».[55] La nostra libertà specifica di esseri umani consiste proprio nel poter compiere scelte che ci sembrano libere, perché non sappiamo ancora quali sarebbero le vere necessità karmiche dell’amore.

Perverremo ad uno stadio molto più perfetto della libertà quando saremo in grado di fare liberamente, di volta in volta, ciò che è richiesto necessariamente dall’amore. Finché non raggiungeremo questi livelli evolutivi, ci è consentita la libertà della non conoscenza, la libertà delle tenebre, quel libero arbitrio, insomma, che ci permette di scegliere ciò che vogliamo perché non sappiamo ancora orientarci secondo le forze dell’amore.

Tre sono i grandi gradini della libertà, e quello specificamente umano, non perfetto, è il gradino intermedio: è la libertà di scelta fra il bene e il male.

C’è poi una libertà divina che è molto più perfetta: non comprende la libertà, o la capacità di fare il male, ma comporta soltanto una scelta fra il bene e il bene. Questo livello di libertà è per noi ancora molto lontano, ma verso questa meta siamo in cammino: la scelta fra il bene e il bene è la libertà dell’amore, la scelta fra il bene e il male è la libertà specifica dell’egoismo. Quando avremo forze cristiche sufficienti, faremo di volta in volta ciò che di necessità è il meglio nella situazione concreta: perché in ogni circostanza, se noi la conoscessimo in tutti i suoi risvolti infiniti, c’è sempre l’azione migliore da compiere, quella che in assoluta oggettività corrisponde alla costellazione dei nessi karmici,[56] la risposta più amante e più perfetta di tutte. Entreremo in quella necessità dell’amore che non deve più scegliere tra il bene e il male, ma soltanto fra il bene e il meglio.

Il terzo livello della libertà, quello infimo, è la libertà di scelta soltanto fra male e male: ci sono Esseri, ed è questo uno dei misteri più profondi dell’evoluzione, che per rendere possibile la nostra libertà di scelta fra il bene e il male, si sono ancorati sulla sponda del male. Sono gli Esseri “maligni” di cui parla anche il quinto vangelo: rendono possibile all’uomo l’oscillare tra le due rive del bene e del male.

L’uomo, nel corso dell’evoluzione, dovrà riuscire a contemplarli con l’occhio dell’amore, per percepire nel loro gesto un sacrificio abissale dell’evoluzione, compiuto per amore verso di noi. È stato chiesto a questi Esseri, dall’Essere solare e dalle Gerarchie amanti, di porsi sul lato tenebroso dell’evoluzione perché fosse possibile all’uomo conoscere e comprendere il mistero del male, e redimerlo, in chiave di amore. L’uomo capirà che gli stadi successivi dell’evoluzione consistono anche nel trovare interiormente la forza cristica di redenzione, capace di trasformare il male in bene.

Questo è un altro aspetto fondamentale del mistero della discesa agli inferi: il Cristo non ha gettato nell’abisso gli Esseri del male, lontano da sé, dicendo di non voler avere nulla a che fare con loro. La discesa agli inferi afferma che il Cristo è andato fra quelle tenebre per illuminarle e trasformarle. E l’essere umano che a grado a grado si evolverà passando dalla sfera della libertà intermedia alla sfera celeste della libertà dell’amore, redimerà in sé questi Esseri cosiddetti del male, che porteranno così a compimento la loro missione specifica: quella di creare per l’uomo l’area di libertà cosmica nella quale si muove.

i tre livelli della libertà

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L’uomo è immortale? Dipende

Se questo è il mistero della morte e della resurrezione, la conoscenza umana ha sempre cercato di considerare più a fondo anche un altro mistero: quello dell’immortalità dell’anima. Già il fatto di parlare di immortalità dell’anima e non di immortalità dell’Io spirituale complica le cose: perché non è l’anima ad essere immortale, ma l’Io spirituale. Da quando nel Concilio di Costantinopoli dell’anno 869 si è decretato che la compagine costitutiva dell’essere umano non è secondo la trinità di corpo anima e spirito (la cosiddetta tricotomia), ma secondo la dualità di corpo e anima, la possibilità di comprensione si è profondamente oscurata.

L’essere umano è o non è immortale?

Il mistero dell’immortalità è analogo al mistero della libertà: ha infiniti gradi. Non esiste una immortalità uguale per tutti: ci sono esseri umani più immortali ed esseri umani meno immortali. Esistono uomini che vivono tutt’oggi, oltre la soglia della morte, un’esistenza ottusa dove il loro Io spirituale quasi tace; e ce ne sono altri così radicati e individualizzati nello spirito già sulla Terra che quando trapassano nelle sfere celesti si manifestano come centri di luce irradiante.

Alla domanda se gli uomini siano o non siano liberi, dobbiamo rispondere: dipende. La libertà è un fatto di scelta, è una conquista individuale: si può essere liberi se e nella misura in cui lo si vuole. Ugualmente, si può essere immortali se e nella misura in cui lo si vuole.

Cosa resta di me dopo la morte?

• Resta di me un corpo eterico che si dissolve nell’etericità cosmica universale.

• Resta di me un fascio animico di nessi karmici, di rapporti di vita che viene bruciato e consumato nel crogiolo della purificazione, nel kamaloca (purgatorio), e poi si inserisce nell’astralità del cosmo.

Infine, quando tutto ciò si è di nuovo inserito nel cosmo fisico, eterico e astrale, resterà di me soltanto ciò che come coscienza dell’Io ho costruito sulla Terra. L’immortalità vera e propria, specifica dell’uomo, è la capacità di autocoscienza. Questo è importantissimo capirlo perché, ad esempio, l’Oriente parla di metempsicosi secondo la quale una corrente di astralità (di forze animiche) che permane dopo la morte è poi suscettibile di tornare in un’altra corporeità umana o addirittura in una corporeità animale: tutto questo non ha nulla a che fare con l’immortalità dell’Io spirituale umano individuale.

Non soltanto l’immortalità umana è relativa alla capacità di autocoscienza: la scienza dello spirito afferma, ed è questo uno dei suoi contributi più poderosi alla conoscenza, che alla libertà di ogni essere umano è concessa la possibilità di depotenziare il suo Io a un segno tale da scioglierlo del tutto nella complessità delle realtà cosmiche, fino a perderlo.

Uomini che invece di rafforzare l’Io spirituale lo indeboliscono sempre di più vivendo soltanto con pensieri pensati da altri, con volizioni generate da altri, uomini che lasciano agire in sé, per esempio, soltanto gli impulsi di popolo, o i pensieri del giornale o della televisione o dell’opinione pubblica, uomini che percorrono sistematicamente, di incarnazione in incarnazione, un cammino di depauperamento e svuotamento dell’Io, costoro possono arrivare a un punto d’involuzione dove il loro Io scompare in ogni suo contenuto. Allora non ci sarà più nulla di cui possano dire: questo è mio, qui sono Io e nessun altro.

La sostanza della nostra autocoscienza dopo la morte sarà forgiata dai pensieri, dagli impulsi volitivi e di amore che nella vita terrena sono sorti dal centro più intimo del nostro Io. In altre parole, resterà di noi soltanto ciò che è stato dell’Io, grazie all’Io, creato dall’Io. Questo è il concetto cristico dell’immortalità, e può essere riconquistato unicamente a partire dalla scienza dello spirito.

L’immortalità non è concepibile come un fatto automatico o necessario o di natura, perché significherebbe vanificare la libertà dell’uomo. Se non fossimo liberi di costruire o di distruggere il nostro stesso essere, in che cosa saremmo liberi? È chiaro che la somma della libertà è il nostro stesso essere: è concesso alla nostra libertà di plasmare noi stessi sempre di più nell’immortalità dell’Io spirituale, intriso delle forze cristico-solari, e le è altrettanto concesso di abdicare a quel «pinnacolo del tempio»[57] che è l’Io cosciente, e di precipitare nel baratro di tutto ciò che nel cosmo è non-Io, è natura, è fatto di necessità.

Il mistero dell’immortalità acquista un altro aspetto, in questa chiave di libertà: non è più tempo di sperare in un’immortalità che venga data comunque. O lavoriamo noi a diventare sempre più immortali, oppure moriremo realmente ed effettivamente al momento della morte fisica.

Pensieri morti e pensieri vivi

Possiamo chiederci ulteriormente: perché è sorta la morte nel cammino dell’umanità? Non sempre gli esseri umani hanno avuto coscienza della morte: se prendiamo l’epoca paleo-indiana,[58] vediamo come quegli antichi uomini dell’Oriente considerassero il nascere come un morire ai mondi spirituali, e il morire in Terra come il giorno della vera nascita. Un ultimo resto di questa concezione è rintracciabile anche in Occidente, nella tradizione che attribuisce al giorno della morte dei santi il nome di dies natalis: sono santi proprio perché sanno nascere là dove muoiono, perché in Terra si sono imbevuti dell’impulso dell’Io Sono e nei mondi spirituali comincia a rifulgere di luce la pienezza del loro Io.

Perché dunque è sorta nell’umanità la coscienza della morte? In una bellissima epopea babilonese si narra di Gilgamesh che, di fronte alla morte del suo amico Enkidu (o Eabani, in altre versioni) è posto a confronto per la prima volta con il mistero di un essere umano che scompare dalla scena terrena. In questa epopea si vede in modo chiarissimo come per gli uomini, prima di questa epoca, il trapasso dal mondo terreno a quello spirituale, e viceversa, avvenisse in modo sognante. Ma per l’evoluzione umana bisognava che tutto nel cosmo acquistasse forma di morte, bisognava che tutto attorno a noi si rivestisse delle forze di fissità, per concedere alla nostra libertà l’occasione evolutiva di ricreare tutto, di ravvivare la faccia della Terra.

La morte è un livello di coscienza.

Dov’è la morte? È dentro di noi, ed è duplice.

1. Innanzitutto, ciò che noi portiamo nella nostra interiorità ha acquisito la natura di morte perché si è ridotto a immagine: questo è il primo aspetto del mistero della morte dentro di noi. Che cosa portiamo nei nostri pensieri, nelle nostre rappresentazioni, nelle nostre memorie? Immagini vuote. Immagini morte, immagini incapaci di causare alcunché. Ancora il greco, quando pensava qualcosa, non aveva nella sua interiorità la rappresentazione di un’immagine astratta e inattiva: entravano dentro di lui correnti vitali, egli afferrava il pensiero nell’eterico, nel vitale, e lo riteneva in sé ancora pieno della sua forza peculiare.

Basta osservare le sculture o le pitture dei greci: come hanno fatto a delineare artisticamente le linee anatomiche del corpo in modo così perfetto e impareggiabile? Lo hanno potuto perché non guardavano queste forme dall’esterno, ma le vivevano come correnti vitali che percorrono il muscolo dal di dentro: la mano dell’artista si muoveva di necessità, con impulso interiore, secondo queste linee di forza e tratteggiava il corpo nella perfezione del gesto della creazione. Non era l’imitazione astratta di una forma fissa contemplata per sola percezione esteriore, ma era un compenetrarsi del processo vivente di metamorfosi. Il greco, però, non se ne rendeva conto. E allora, per consentire all’uomo il cammino verso la libertà, doveva andar perduto quel tipo di interiorità che dava sì impulsi reali, ma era ancora priva dell’attività autonoma della coscienza.

Cosa vuol dire, infatti, che noi oggi portiamo nell’anima immagini vuote? Vuol dire che la rappresentazione di una rosa, o anche di una qualunque azione che voglio compiere, sta alla realtà vera come l’immagine nello specchio sta alla realtà che si rispecchia.

Questo paragone dello specchio Steiner l’ha usato spessissimo: cosa c’è nell’immagine che è nello specchio? Che cosa rimane di colui che si rispecchia? Tutto e nulla. Rimane tutto di ciò che è forma morta e rimane nulla di ciò che è realtà operante, causante, dinamica. In altre parole, in questa immagine del mondo che c’è nella nostra interiorità, noi abbiamo del mondo soltanto ciò che non ha nessuna capacità di costringerci. È questo il significato della realtà che in noi diventa morta: non opera nulla e ci lascia liberi. Bisognava che tutte le nostre rappresentazioni mentali diventassero mere repliche speculari di quanto è fuori di noi, affinché ci lasciassero del tutto liberi. Il mistero del cosmo, diventato morto all’interno della coscienza umana, è il mistero dei presupposti, delle condizioni necessarie per la nostra libertà.

2. L’altro lato di questo mistero della morte del cosmo è che noi, attraverso le percezioni esterne, non incontriamo più le forze vitali e plasmanti (l’etericità) del mondo esterno, non percepiamo più le passioni e i sentimenti del cosmo (l’astralità, l’anima), non arriviamo più al livello degli Esseri spirituali: abbiamo di fronte soltanto le forme fisse, morte, immobili. L’aspirazione profondissima di Goethe è stata quella di liberarsi da questa visione così angusta: voleva procedere oltre la rosa che si presenta nella sua forma fissa – in quella sua apparente mobilità che è solo la somma di fotogrammi frantumati e fuggevoli – per entrare nella rosa vivente (eterica) che è in continua trasformazione e che metamorfosa ogni foglia, ogni stelo, ogni petalo cambiandoli in forme sempre nuove. Goethe partiva dal livello morto del cosmo per riconquistare, con la sua libera forza conoscitiva, il livello del vivente.

Sia chiaro, però, che quando noi cominceremo a riabitare direttamente nel vivente con i nostri pensieri, avremo finito di essere liberi come lo siamo ora che viviamo di immagini e vediamo soltanto forme morte. Saremo afferrati e trasportati dalla legge immanente del vivente che ci condurrà, metamorfosando noi stessi e i nostri pensieri: quella legge non sarà passibile di arbitrio e bisognerà confermarla e seguirla, consapevolmente, nella sua natura assoluta di amore e saggezza.

Azioni morte e azioni vive

Per questa nuova creazione dal nulla del nostro cosmo morto, però, non basta ridiventare viventi nel pensare: siamo chiamati anche a ridiventare viventi nelle azioni, nell’amore al karma. Sono due i cammini dell’uomo: quello conoscitivo, che ritrova il vivente nel pensiero, e quello dell’amore del cuore che comincia a donarsi al karma, smettendo di subire gli eventi della vita.

Che cosa cogliamo noi, normalmente, del mistero del karma a questo livello di coscienza? Percepiamo soltanto le forme fisse delle persone che incontriamo, le forme fisse degli eventi che viviamo, dei luoghi dove abitiamo, dei giorni, delle stagioni e dei tempi… Se cominciassimo a percepire i nessi karmici che ci legano veramente alle persone, se invece di vederle nella loro materialità potessimo osservare tutte le azioni che ci hanno portato incontro nella vita precedente, o due vite prima, cominceremmo a donarci alla sapienza infinita del karma, impareremmo a «fare di necessità virtù», ad amare e a volere ciò che è necessario.

Il compimento della libertà è volere, per convinzione interiore e autonoma, quel che è karmicamente necessario. La capacità di volere liberamente ciò che è necessario secondo il karma e che ci consente di uscire dall’arbitrarietà delle nostre azioni, dipende molto dall’esercizio di contemplazione della vita già trascorsa, di tutto ciò che ci è capitato – dal karma già avvenuto, insomma.

Il karma, la necessità, è in ciò che ci accade; la libertà è nel nostro modo di reagire. Queste sono le due grandi metà della vita:

• quel che ci viene incontro senza che noi possiamo farci nulla è il karma, è l’oggettività del nostro destino, è quanto ancor prima di nascere noi stessi abbiamo voluto con la sapienza amante dell’Io superiore;

• come reagiamo al karma è invece il mistero della nostra libertà.

Più penetriamo nella saggezza intrinseca di ciò che ci è capitato nella vita, imparando ad accoglierlo e amarlo, più avremo la possibilità di sapere cosa ci capiterà. Perché i gesti passati, le scelte passate dell’Io, ci dicono quali passi farà nell’avvenire, ci fanno capire la sua natura, in quale registro ha progettato la presente incarnazione – per esempio, se maggiormente col filo conduttore della mitezza o del coraggio, della ricettività o dell’attività… Per conoscere tutto questo dobbiamo guardare, con occhio di conferma assoluta, al karma già svolto.

A questo riguardo Steiner consiglia un esercizio di meditazione: dobbiamo innanzi tutto individuare un importante evento della nostra vita, magari proprio quello contro il quale il nostro io inferiore (la nostra normale coscienza) si è ribellato più visceralmente, imprecando e gridando alla sventura e all’ingiustizia – l’io inferiore, infatti, non ha alcuna nozione del karma, ed è libero proprio grazie a questa tenebra di coscienza.

L’esercizio prosegue così: bisogna immaginare di aver deciso noi stessi questo accadimento, già dalla nascita e con libertà interiore, e di averlo atteso con appassionato desiderio perché ne cogliamo la positività e la necessità assoluta per il nostro cammino evolutivo.

Steiner stesso porta questo esempio estremo (da non prendere, però, come esercizio per se stessi, perché per ognuno l’esercizio deve riferirsi a un evento realmente vissuto): un uomo, poniamo al suo trentesimo anno, mentre cammina per strada viene colpito da una tegola che gli cade in testa provocandogli lesioni tali da mutare profondamente il corso della sua vita. L’Io superiore di quest’uomo sa che soltanto con questa “disgrazia” gli si apriranno porte evolutive ben precise: perciò, fin dall’inizio della vita terrena, ha cominciato a contare gli anni e i mesi e i giorni che avrebbero portato, finalmente, al fausto evento della tegola in testa! L’Io superiore sa quali forze questo accadimento sarà in grado di evocare nell’io inferiore come reazione, forze che non si genererebbero mai senza questa enorme provocazione del karma.

E Steiner dice di considerare, sempre nel prosieguo dell’esercizio, l’Io superiore come l’uomo stesso che compone tutti i movimenti e i nessi karmici perché non sia mai che nel giorno fatidico non passi per quella città, non sia mai che non percorra quella strada, non sia mai che non colga proprio l’attimo giusto per prendersi la tegola in testa! E allora, quando mancano solo pochi minuti all’evento, l’uomo alza con ansia lo sguardo per controllare che la tegola sia predisposta bene in bilico: e anzi, addirittura sale su per le scale, arriva sul tetto e la tira ancora fuori di quel tanto che basti perché cada di lì a poco. Poi si precipita di nuovo giù per le scale, in modo da porsi sotto proprio nel momento in cui la tegola piomba!

Di fronte agli eventi, proprio questo è l’atteggiamento reale dell’Io superiore di ognuno di noi, proprio in questo modo ha preparato e vive ogni prova: con immenso amore, con immensa positività. E in sintonia con l’Io, ognuno di noi può cercare di attraversare le difficoltà dell’esistenza mai rifiutandole ma sempre accogliendole con gratitudine – perché se l’Io superiore avesse trovato un altro evento più adatto, capace di evocare maggiori forze evolutive, lo avrebbe scelto.

Quello che ci capita è sempre in modo sommo il meglio che c’è per la nostra evoluzione. Se ci potesse accadere qualcosa che non fosse, in assoluto, il meglio per noi, ma che fosse la seconda scelta, la seconda cosa migliore, ciò significherebbe che viviamo in un cosmo imperfetto. La perfezione del cosmo cristico nel quale viviamo ci consente di dire: siamo, oggi, in un mondo così intriso delle forze amanti del Cristo, che ad ogni uomo viene incontro sempre e soltanto l’assoluto meglio per la sua crescita.

«Io vado al Padre»

Un’ultima riflessione sul mistero della morte e resurrezione riguarda l’espressione misteriosa del Cristo che, approssimandosi il compimento del Golgota, dice: «Io vado al Padre».[59] Nelle meravigliose conferenze tenute da Steiner a Kassel: Il vangelo di Giovanni in rapporto con gli altri tre e specialmente col vangelo di Luca,[60] viene detto che il nome occulto del Padre è la morte. Il Padre significa la morte.

La parola Padre, in tutte le lingue antiche, è simile o addirittura sinonimo della parola pietra: pater – petra. L’esoterismo ha sempre saputo che le forze del Padre nella Trinità, quindi dell’Entità spirituale più alta nel nostro cosmo, sono quelle che compenetrano il livello più profondo nel quale viviamo, quello minerale: occorrono le forze più potenti per spiritualizzare la materia più refrattaria. «Andare al Padre» significa per il Figlio sprofondarsi negli abissi di morte del mondo fisico minerale, per illuminarlo di amore e coscienza. «Andare al Padre» per il Figlio significa discendere agli inferi, penetrare nei recessi profondi e tenebrosi della natura, dei regni minerale, vegetale e animale che ci circondano.

L’umanità, fino all’evento del Golgota, è andata al Padre senza le forze del Figlio: è discesa progressivamente nella mineralità del cosmo, perché soltanto inabitando un corpo fisico ogni uomo si è reso del tutto indipendente e separato dagli altri esseri. Steiner ha descritto diverse volte i gradini della discesa dell’uomo dai mondi spirituali:

1. al primo gradino eravamo in comunione intuitiva con gli Esseri spirituali gerarchici e avevamo esperienza di noi stessi come esseri spirituali;

2. al secondo gradino perdemmo la visione e l’esperienza intima del centro spirituale di ogni Essere, e cominciammo a viverne solo la rivelazione, la manifestazione per via ispirativa, come una comunicazione diretta da parte degli Esseri stessi;

3. al terzo gradino non ci fu più possibile nemmeno quel dialogo animico nell’interiorità, e scendemmo al livello del vivente – livello dell’immaginazione –, dove ci fu dato di osservare in immagini, nel mondo reale esteriore, soltanto le correnti operative di metamorfosi delle Gerarchie;

4. al quarto gradino siamo ormai da molti secoli: percepiamo e siamo in comunione soltanto con le forme fisse e incantate di ciò che le Gerarchie spirituali hanno creato. Nella percezione esteriore abbiamo unicamente l’opera morta del Padre cosmico creatore.

Siamo ora chiamati ad «andare al Padre» con le forze del Cristo, a compenetrare sempre di più la dimensione di morte che è dentro e fuori di noi con le forze di vita dell’Io, capaci di far risorgere tutto ciò che ha accettato di morire per dare a noi la libertà.

Dibattito

Intervento: Nel racconto della tegola si è evidenziato l’aspetto dell’accettare il destino, quale provocazione ottimale per la nostra evoluzione. Immaginando il caso in cui intervenga una seconda persona che spinga l’uomo del racconto facendogli evitare l’incidente, sembrerebbe un male questo interferire nel karma di un altro, quasi una lesione della sua libertà.

Archiati: Il fatto che arrivi una mano dietro la schiena a dare una spinta, è anch’esso qualcosa che capita! Vuol dire, allora, che è stato deciso a partire dall’Io superiore e dunque l’evento voluto non è che la tegola cada sulla testa, ma che quell’uomo venga salvato dalla mano di un altro. L’intervento della seconda persona, quindi, non impedisce ciò che è previsto karmicamente ma lo attua. Qual è il significato di una tegola che cade e non mi rompe la testa perché un altro mi salva? Un aspetto potrebbe essere, ad esempio, che Io ho deciso di vivere un evento che mi faccia comprendere l’assoluta e reciproca dipendenza che unisce gli uomini, per generare in me forze di gratitudine tali che, da quel momento della mia esistenza e della mia evoluzione, per sempre saprò che tutti dobbiamo tutto a tutti. Ho scelto un evento nel quale mi apparisse del tutto chiaro, anche al livello dell’io ordinario, che se non ci fossero mani umane a sostenermi io cadrei nel nulla. Se reagisco in questa chiave, ho colto la natura di ciò che il mio Io si era prefisso.

C’è poi un altro aspetto da considerare: è sempre importante aiutare chiunque a reagire positivamente di fronte a ciò che gli capita. Nessuno di noi è già alla fine dell’evoluzione, nessuno ha già acquisito tutte le forze necessarie per affrontare sempre nel modo migliore gli eventi: quindi tutti abbiamo un bisogno assoluto che gli altri ci aiutino a cogliere in ogni circostanza la potenzialità positiva di crescita. Un intervento di aiuto nel karma è sempre cristico, è sempre legittimo: i miracoli nei vangeli vanno interpretati proprio in questa chiave.

Quando l’intervenire nel karma altrui diventa un’interferenza negativa, un andare contro la libertà? Quando spingiamo l’altro a cogliere la negatività negli eventi, a sperimentarne soltanto la dimensione del colpo insensato del destino mentre il suo Io superiore ha visto solo aspetti evolutivi.

In altre parole, cosa significa essere liberi? Significa subire ciò che ci capita, lasciarci subissare, o significa afferrare tutte le porte che si aprono? È chiaro che siamo non-liberi quando ci lasciamo travolgere: perciò chi ci spinge a essere passivi, a commiserarci o a maledire i fatti, ci rende ancora meno liberi.

Invece, chi ci porge l’aiuto conoscitivo per cogliere tutte le possibilità evolutive – e Cristo è il primo a farlo! – ci accompagna verso la nostra libertà. Questo intervento nel karma è assolutamente cristico: non solo è legittimo, ma è il gesto dell’amore reciproco. Un gesto sano, però, soltanto quando va nella direzione della conoscenza: io non aiuto una persona quando le dico ciò che deve fare, anzi, la rendo dipendente e meno libera. Ecco la differenza: il vero aiuto karmico consiste sempre e soltanto nel dischiudere allo sguardo conoscitivo dell’altro gli orizzonti positivi del suo karma.

Prendiamo, per esempio, il cammino della Chiesa: più ha perso di vista la conoscenza oggettiva della realtà evolutiva, più ha cominciato a dire agli esseri umani ciò che devono fare. Ma nessuno di noi vuole che gli si dica ciò che deve fare! Tutti accogliamo invece volentieri un aiuto a conoscere la sostanza, il senso delle cose. Più le persone (uno Steiner, per esempio) ci offrono un orientamento conoscitivo dei fatti della vita, nella loro concretezza oggettiva, più ci sentiamo liberi. Ciò che non conosciamo ci possiede, ci manipola, ci condiziona: perché non siamo in grado di prendere posizione.

Possiamo ora chiederci: il medico che aiuta il paziente a guarire, e quindi non si limita soltanto a dire conoscitivamente come stanno le cose ma agisce, così facendo interferisce in modo indebito nel karma? Per rispondere, dobbiamo chiederci ulteriormente: un uomo che si è cercato una malattia, perché l’ha cercata? Per soccombervi o per superarla? Ma naturalmente per superarla! Noi non cerchiamo mai nulla con l’intento che ci schiacci: incontriamo sempre ogni ostacolo, ogni difficoltà, ogni incidente per uscirne fuori, con l’intento di trarne tutte le potenzialità evolutive. Dunque il medico che aiuta il malato a superare la malattia si pone nella direzione della libertà dell’Io del paziente, nella direzione di ciò che da sempre quell’Io ha voluto.

Intervento: Superare una malattia può voler dire guarire fisicamente, ma può anche voler dire imparare a viverla su un livello diverso. Penso ai casi di malattie incurabili, per esempio. Io so di persone che sono morte guarite, nel senso che hanno fatto un grande lavoro interiore: arrivare alla morte coscientemente è stata la vera guarigione. Lei non ritiene che un Io superiore non necessariamente debba proporsi il superamento della malattia?

Archiati: Il medico non è mai autorizzato a pensare: questa malattia non verrà superata, questo paziente morirà. Se morirà, morirà: ma lui deve fare di tutto perché il paziente vinca e superi la malattia. Infatti, in che cosa consiste la positività di una malattia che conduce alla morte? Consiste in tutte le forze che sono state generate nella lotta contro la malattia, fino alla morte. Quella è la sua positività. Quindi era importante lottare fino alla fine contro le forze negative per generare forze positive: che poi questa lotta vada avanti un anno o sei mesi o tre anni, che si risolva in guarigione o che termini nella cosiddetta morte, questo non è l’essenziale. Essenziali sono le facoltà nuove che lottando si generano in noi, perché restano nell’Io eterno. Il medico deve operare nella direzione di rendere il suo paziente sempre più sovrano nell’insieme dei fattori che costituiscono la sua esistenza. Poi avvenga ciò che deve avvenire: questo non ci riguarda, perché non è al livello della nostra coscienza ordinaria.[61]

Intervento: Quando la vita terrena è stata condotta in modo da soffocare l’impulso dell’Io, cosa succede nel dopo morte? Si ha comunque una coscienza ampliata rispetto al periodo dell’incarnazione?

Archiati: Quando l’essere umano è inserito nel corpo fisico ed è circondato dalla realtà spazio-temporale delle cose e degli altri esseri umani, alberga in sé l’io ordinario, o inferiore, il cui livello di coscienza noi ben conosciamo. Il rischiaramento di coscienza, l’illuminazione di consapevolezza che viene consentita deponendo i limiti imposti dal corpo è sempre infinitamente superiore a quella che abbiamo quando siamo incarnati, anche là dove l’Io sia stato coltivato in minima parte. Se però ci riferiamo a tempi evolutivi molto più lunghi, un uomo può arrivare, di vita in vita, al punto di avere nel post mortem una coscienza simile a quella ombratile dei greci: invece di evolvere, involve, finché perverrà a una coscienza dopo la morte che sarà inferiore alla luce della coscienza durante la vita. Questa eventualità evolutiva deve rimanere aperta, se prendiamo sul serio il cosmo della libertà.

Intervento: Perché, col forte aumento della popolazione mondiale, siamo di fronte a una grande massa di Io che si incarnano soprattutto in popolazioni (lo dico fra virgolette) “retrograde” rispetto al cammino evolutivo della libertà?

Archiati: Questa è una realtà molto complessa: l’umanità si trova da un lato di fronte all’impulso del Cristo che è un grande invito all’individualizzazione sempre più profonda, la sola capace di generare vera comunione; da un altro lato questa stessa umanità, come diceva lei giustamente, vede in sé la maggioranza degli Io incarnarsi in corporeità che sono oggettivamente, in quanto corporeità, retrograde rispetto alle possibilità evolutive.

Questo sta a significare che il cammino della libertà innanzitutto non è automatico e che perciò, se gli esseri umani, uno per uno, non costruiscono la propria individualità positiva, il cammino va a ritroso. In secondo luogo ci sta a dire che noi, riguardo all’impulso del Cristo, siamo veramente agli inizi, e che questi duemila anni per un verso hanno registrato l’operare oggettivo del Cristo nell’umanità e nella Terra, ma dall’altro vanno interpretati come una progressiva “decristificazione” degli esseri umani.

In altre parole, poiché l’impulso del Cristo non è stato accolto individualmente e coscientemente, l’umanità anziché andare avanti è andata indietro. Noi cominciamo appena ad afferrare realmente, con forze di libertà, l’impulso del Cristo: e questo inizio epocale è espresso dal comparire nell’umanità della scienza dello spirito. Negli ultimi duemila anni l’umanità è discesa – e doveva discendere – fino in fondo nel baratro del materialismo.

Ma intanto un numero enorme di esseri umani (e secondo me questa è la tragedia più tremenda fra quelle che viviamo) invece di servirsi degli strumenti fisici – i corpi – più adatti all’attuale livello evolutivo, quello dell’anima cosciente,[62] sceglie proprio quei tipi di corporeità che tutti noi abbiamo abitato in epoche passate della nostra evoluzione. Io ho fatto studi a Roma con persone che venivano da tutto il mondo e ho avuto modo di osservare l’umanità nelle sue varie razze, culture e popoli: poi, in mezzo ad altri spostamenti, ho vissuto cinque anni in Sudafrica. Che cosa si osserva vivendo con la razza nera non da turisti, ma giorno per giorno, anno per anno?

Non vorrei che interpretaste quello che dico in chiave di razzismo,[63] perché significherebbe fraintendermi terribilmente: non sto parlando di Io umani, ma di corporeità, di “case” che gli Io umani scelgono di inabitare. Una casa nera, generalmente parlando, è maggiormente intrisa di correnti e impulsi vitali rispetto a quella bianca. Uno spirito umano che abiti una casa con maggiori impulsi vitali sarà sottoposto a sforzi maggiori per esprimere processi di coscienza, perché i processi di coscienza sono polarmente opposti ai processi vitali. Quando la vitalità è nella sua esplicazione massima, per esempio dopo un pasto luculliano, sappiamo bene che, nel contempo, non si può lucidamente pensare. D’altra parte è anche vero che bisogna ricostituire sempre di nuovo le forze vitali perché i processi di coscienza le consumano. Quindi, come dobbiamo sempre ricostruirle, così, espletando processi di coscienza, dobbiamo consumarle. Siamo svegli di giorno e uccidiamo in noi forze vitali; di notte, nel sonno, tiriamo fuori la coscienza dal corpo lasciando che i processi vitali si rigenerino.

Questo è un fenomeno oggettivo e non ha nulla a che fare con pregiudizi di razza.[64] Se poi vogliamo ignorare queste dimensioni umane per dire che tutto è uguale, allora significa che non riusciamo a penetrare le cose nella loro realtà oggettiva. Siamo tutti uguali in dignità, in quanto siamo tutti esseri umani. Un essere umano dalla corporeità nera non è meno essere umano di uno con la corporeità bianca o gialla: l’Io umano è di dignità assolutamente pari. C’è però casa e casa, nell’umanità: e se fossero tutte uguali non avrebbero senso le configurazioni diverse, il colore diverso, le specificità che ben conosciamo.

La scienza dello spirito ci consente di essere più oggettivi anche in queste cose, di non confondere mai l’essere umano di cui stiamo parlando con la sua casa. Non esistono uomini neri! Non esistono uomini bianchi! Questo è un modo di pensare abissalmente errato. Esistono case nere, esistono case bianche, gialle e rosse. L’identificazione dell’uomo con il suo corpo è uno dei tratti più tragici del materialismo. Io ho visto in Sudafrica ragazze che nel corso degli anni si sono rovinate il volto con pomate e altri intrugli per apparire un pochino meno nere. Steiner afferma che se non riprenderemo la prospettiva della reincarnazione, secondo la quale io questa volta abito una casa e ne ho abitate tante altre e tante altre ne abiterò, saremo costretti a coincidere con la corporeità specifica di questa vita, perdendo di vista lo spirito eterno che l’inabita. E sprecheremo tragicamente tutta l’esistenza a cambiarci un po’ il naso, un po’ la bocca…

Su questo è importante riflettere perché ci fa capire che, se continuiamo a immergerci nel materialismo che ottenebra lo spirito, è chiaro che nelle prossime incarnazioni sempre più dovremo cercarci una casa che determinerà e impronterà il nostro spirito, perché questo non sarà in grado di illuminare e forgiare la casa a sua immagine. È un cammino che riguarda tutti noi, che riguarda tutta l’umanità.

Ciò non contraddice il fatto che l’Io superiore, come abbiamo già detto, nel tempo che intercorre tra la morte e una nuova nascita, scelga per la futura incarnazione le migliori condizioni possibili per l’evoluzione: perché questa scelta deve tenere conto del grado di libertà che durante le incarnazioni precedenti è stato conseguito dall’io inferiore. Questa è la serietà della libertà! Non è automatico che a tutti gli Io superiori sia possibile forgiare una corporeità sempre più evoluta. Però, all’interno di un percorso individualissimo e già tracciato, l’Io superiore sceglierà lo scenario di vita comunque più fecondo. Nel corso delle incarnazioni deve restare possibile che un Io spirituale non sia più in grado di lavorare in una casa fisica specifica, degenerata e involuta rispetto all’umano, e che sarà il corrispettivo visibile del non esercizio della libertà. È questo il mistero apocalittico della Bestia.[65] È questo il richiamo alla responsabilità reciproca tra esseri umani, al karma che ci intesse gli uni negli altri affinché le forze dell’amore agiscano oltre la giustizia, in ogni manifestazione di vita sociale sulla nostra Terra.

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le due vie aperte alla libertà

Intervento: C’è una frase evangelica che dice: «Per chi ascolta la mia dottrina e la mette in pratica, c’è la vita eterna».[66] Non le sembra che qui il Cristo ci tracci la strada, ci dica, cioè, proprio ciò che dobbiamo fare?

Archiati: Il vangelo non parla di dottrina, ma di parola. Il Cristo incoraggia l’essere umano nella duplice direzione di ascoltare la parola e di metterla in pratica perché lì vive il mistero dell’Io libero. Se il Cristo dicesse soltanto: «Metti in pratica ciò che io ti dico» non ci sarebbe la libertà, perché indicherebbe ciò che dobbiamo fare senza permetterci di arrivare al perché. Ascoltare le sue parole è invece il processo di conoscenza, dove ascoltare significa anche capire, riuscire a penetrare il significato della parola. Quindi l’impulso del Cristo passa attraverso la nostra conoscenza libera, parla a noi chiedendoci di consentire alle parole, di compenetrarcene – ecco l’ascoltare. In base alla loro interiorizzazione possiamo poi decidere di metterle in pratica, quelle parole.

Le parole vengono dal Cristo, e questo è il cammino conoscitivo.

Mettere in pratica le parole è compito della nostra libertà.

Il Cristo, con la Sua parola, pronuncia l’essere delle cose e noi, con la nostra decisione volitiva, attuiamo la libertà. Questo è il significato esoterico della duplice indicazione: colui che ascolta la mia parola (il Verbo) e si mette in comunicazione con l’essenza interiore di ogni cosa, diventa capace di un operare libero, compiuto in base alla conoscenza della realtà.

Il Verbo, il Logos, pronuncia sempre il nome delle cose, cioè la loro intima realtà: ascoltare il nome significa entrare nell’essere sostanziale delle cose, proferito al momento eterno della creazione.

Quinta conferenza

I tre anni
DI Incarnazione del cristo

Firenze, 4 gennaio 1992

L’incarnazione del Cristo nel Gesù

Cari amici,

il Cristo ha vissuto tre anni sulla Terra inabitando la corporeità di Gesù di Nazareth, l’uomo che racchiudeva in sé la somma totale del cammino umano che andava incontro al Cristo. E non può essere che così, se ci riflettiamo. Se è vero che tutta l’evoluzione precristica è una preparazione alla venuta dell’Essere solare, allora l’uomo che ci rappresenta tutti porta in sé la quintessenza dell’evoluzione, come un vaso di elezione che va verso il Dio per riceverlo e riempirsene.

Gesù di Nazareth porta nella sua esperienza di uomo il riassunto di ogni cammino di discesa nei mondi oscuri dell’individualizzazione, nei quali ciascuno di noi si è perduto cercando se stesso, nei quali ciascuno di noi è diventato egoico, ha vissuto la prima fase dell’odissea del figliol prodigo che va via dalla casa del Padre per perdersi e ritrovarsi da solo. E in fondo, siamo ancora in questo stadio medio dell’evoluzione, soli con noi stessi.

La comunione primigenia priva di individualità l’abbiamo perduta, la comunione finale, che sarà contemporaneamente pienezza di individualità, non l’abbiamo ancora conquistata. Stiamo nel mezzo dell’evoluzione, tra queste due comunioni, imprigionati in un’individuazione che ci isola, dapprima, gli uni dagli altri.

Questa esperienza universalmente umana di invocazione e speranza di redenzione, Gesù di Nazareth l’ha vissuta dentro di sé. Nell’incontro, che è di bellezza sublime, tra il Gesù di Nazareth e il Cristo durante il Battesimo nel Giordano, tutto il passato dell’umanità si congiunge con tutto l’avvenire: l’Essere solare, scendendo sulla Terra, anticipa e racchiude il cammino umano futuro fino alla consumazione dei secoli, fino al termine dell’evoluzione terrestre. Per questo l’evento del Cristo Gesù è la chiave di volta e di lettura di tutta l’evoluzione: l’avvenuto e il divenire s’innestano l’uno nell’altro, si illuminano e si donano a vicenda tutti i significati più profondi che sia mai possibile indagare.

È una vera sofferenza trovarsi a volte di fronte all’incapacità di cogliere la centralità assoluta del mistero del Cristo, dell’Essere solare. Sta di fatto che si comprende la realtà della scienza dello spirito e di qualunque altra scienza soltanto col penetrare l’evento del Cristo. Rudolf Steiner ha comunicato che verranno tempi (e speriamo che vengano presto, aggiungeva) in cui gli uomini impareranno a considerare tutte le scienze, perfino la fisica, la zoologia, la botanica, la chimica, come rami della cristologia: e soltanto allora le comprenderanno nel loro significato vero.

La cristologia, l’occuparsi dell’evento del Cristo, non è un aspetto marginale o specialistico, uno dei tanti che fanno parte della scienza dello spirito: ne è il cuore, per tutti. Io non conosco quasi nessuna conferenza di Rudolf Steiner, fra le seimila che ha tenuto, dove in un modo o nell’altro non ci sia un riferimento all’evento del Cristo come chiave di lettura per tutto ciò che esiste.

Al momento del Battesimo nel Giordano, il Cristo si è congiunto con Gesù di Nazareth che aveva allora trent’anni.

Passando per la porta stretta, per la cruna dell’ago della corporeità umana che è il punto più angusto dell’evoluzione – quello dove l’Io raggiunge la sua concentrazione massima – si è poi comunicato, dopo tre anni, all’intero Essere della Terra, facendone il suo corpo. E quei tre anni sono carichi di misteri e unici nella storia umana: perché sono il solo tempo di tutta l’evoluzione terrestre durante il quale l’Essere solare ha abitato la casa di un corpo fisico umano.

Un infinito dolore segna a fuoco il fulcro dell’evoluzione: l’uomo-Gesù sperimenta l’abisso dell’umanità, la necessità assoluta della sua redenzione, e il livello di questa sua pena è già per le nostre menti inconcepibile. Va poi moltiplicata all’infinito l’immane sofferenza del Cristo stesso che, da Essere solare cosmico, si costringe nello spazio limitatissimo di una corporeità umana, per esprimersi soltanto a misura d’uomo e dire e compiere sulla Terra unicamente ciò che è possibile all’umano.

Perché tutto questo dolore?

Qual è il senso del dolore del Cristo Gesù? È una domanda importante perché viviamo in tempi dove la cultura rifiuta profondamente la sofferenza: di qui l’insofferenza dell’uomo d’oggi. Che bella parola ha creato il linguaggio! L’uomo d’oggi è insofferente perché respinge la sofferenza, non la vuole, e in questo suo tratto si mostra la povertà spirituale. Non c’è povertà spirituale più grande dell’incapacità di soffrire: è un ottundimento che impedisce di cogliere l’esistenza nelle sue dimensioni più profonde. Di fronte a un’anima insensibile il Cristo stesso è inerme, non può nulla. La voragine di povertà che l’insensibilità scava, non consente di vivere per tutto ciò che è grande nel cammino dell’umanità.

Il dolore non è mai oggettivo: possiamo considerare due esseri umani che abbiano esteriormente la stessa misura di eventi difficili e tragici, e potremo vedere che l’uno li percorre del tutto insensibilmente e non soffre nulla, mentre l’altro è in grande travaglio. E inoltre, anche una vita che all’esterno appare del tutto liscia può venire attraversata soffrendo profondamente per tutto ciò che di drammatico avviene nell’umanità.

La capacità di sofferenza è la misura della maturità di ogni persona: e di eventi per i quali è possibile destare in noi il dolore sulla Terra ce ne sono all’infinito. Ma chi di noi li accoglie in sé? Rudolf Steiner ci ricorda che ogni uomo può essere tanto saggio solo per quanto ha sofferto. Le parole, il valore stesso di una persona, hanno il peso della sua capacità di dolore, perché dalla sofferenza vengono generate le forze di conoscenza. Non si può penetrare nella natura vera dei misteri dell’universo e della vita senza aver sofferto.

E nella stessa misura si diventa capaci di amore e di gioia. È una triade che parte dalla sofferenza, che genera saggezza, che genera amore e gioia. Ecco perché era necessario che l’uomo che ci ha rappresentati tutti e nel cui cuore si sono racchiusi i misteri e i tesori dei nostri cammini, fosse anche quello che più di ogni altro, in modi che non riusciamo neppure a immaginare, portava in sé il dolore di un’umanità caduta che anelava a ritornare verso le altezze originarie.

«Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue»

Tre anni è durato il processo lento di incarnazione, di inumanazione del Cristo in Gesù di Nazareth. L’Essere divino diventava a poco a poco sempre più uomo. Questa indicazione di Steiner è una chiave di lettura dei vangeli: perché se abbiamo in tre anni il lento processo di adattamento di un’Entità divina al modo di vivere umano, ciò significa che all’inizio, durante il primo anno, c’era ancora un’esuberanza, un traboccare delle forze cosmiche del Cristo che un po’ alla volta si comprimevano e si riducevano a dimensione umana. Verso la fine, quale risultato di questo cammino interiore del Verbo dentro il Gesù di Nazareth, si esprimeva la debolezza estrema, lo sfinimento del corpo fisico nell’orto del Getzemani. E addirittura, dice Steiner, il Cristo viveva la paura umana di fronte alla morte e l’incapacità di dare delle risposte a Pilato e al sommo sacerdote che gli chiedevano la sua identità. Paolo, dicevamo, parla di uno svuotarsi di sé da parte del Cristo.[67]

Fanno rabbrividire questi due termini estremi del divenire del Cristo dentro il Gesù di Nazareth: l’infinita potenza cosmica scende sulla Terra e nel dolore arriva all’impotenza assoluta della nostra debolezza umana, beve fino in fondo il calice amaro dell’umanità che ha perso tutto.

Nell’ultima cena, prima dell’agonia suprema del Getzemani dove il corpo ormai fragile suda sangue e minaccia di cedere prima ancora di arrivare al compimento sul Golgota, nell’ultima cena il Cristo prende il pane e il vino – rappresentanti della corporeità e dell’etericità terrestri – e dice: «D’ora in poi sulla Terra ogni pane è il mio corpo, ogni vino è il mio sangue».[68] Queste parole, dice Steiner, sono parole di consacrazione reale, sono l’inizio del defluire della divinità nel corpo della Terra stessa. A partire dall’ultima cena il Cristo comincia a separarsi da Gesù di Nazareth, che da quell’ora resta sempre più solo nella sua umanità e viene gradualmente abbandonato. L’iniziazione cristica della Terra, come quella di Lazzaro, si compie in tre giorni, dal giovedì santo alla domenica di resurrezione.

Lo scindersi della divinità dall’umanità di Gesù, che all’inizio dell’inumanazione del Cristo si erano andate unendo sempre di più, viene poi espressa sulla croce nella duplice esclamazione che ci tramandano i vangeli di Matteo e di Marco: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46) e l’altra: «Dio mio Dio mio, quanto mi hai esaltato!» (Mc 15,34). Matteo esprime la realtà fisica, l’esperienza di Gesù, e Marco esprime l’esperienza divina del Cristo.

Entrambi i vangeli citano il testo ebraico trasponendolo in lettere greche. Ma in ebraico basta cambiare due sole lettere per passare da abbandonato a esaltato. Nei manoscritti c’è un continuo oscillare tra l’una e l’altra versione: abbandonato (azabtanì) e esaltato (sabachtanì). Rudolf Steiner dice che le parole «Dio mio, Dio mio, quanto mi hai esaltato» rappresentano la formula tecnica dell’iniziazione, nella quale l’iniziando s’innalza (si esalta) nei mondi spirituali. Ritornando nel corpo fisico dopo i tre giorni pronunciava queste parole: «Dio mio, Dio mio, quanto mi hai esaltato».

Gesù resta indietro, viene abbandonato dal Cristo e come ogni uomo nel momento della morte esclama: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»

Il Cristo si libera dalla porta stretta, esce dalla corporeità e dice: «Dio mio, Dio mio, quanto mi hai esaltato!», dove l’esaltazione è l’inizio dell’intronizzazione del Cristo nella corporeità della Terra, per divenirne l’aura splendente, spirituale.

Nel corso dei secoli si è persa sempre di più la capacità di cogliere il mistero eucaristico nella sua realtà e si è cominciato a chiedersi: cosa significano le parole «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue»? Si è entrati nell’ottica che il Cristo intendesse parlare in termini simbolici: il pane significa il mio corpo, cioè è un segno che rimanda al mio corpo, il vino significa il mio sangue, cioè è un segno che rimanda al mio sangue.

Lutero ebbe ancora un sentore della realtà assoluta che esprimono queste parole, quando nella famosa discussione con Melantone batté il pugno sul tavolo e disse: «Sta scritto: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, e così resta scritto». Ma poi anche nella tradizione protestante è prevalsa l’altra interpretazione.

In altre parole, l’umanità non sa più che la Terra è il corpo reale del Cristo. Egli ha con la Terra lo stesso rapporto che ciascuno di noi ha con la sua corporeità: e quando noi indichiamo la porzione di materia nella quale abitiamo e che compenetriamo col nostro spirito, diciamo: questo è il mio corpo – e non: questo significa il mio corpo.

La Terra non significa il corpo del Cristo: la Terra è il corpo del Cristo. Che noi ce ne rendiamo conto o no, quando mangiamo il pane ci nutriamo realmente e sostanzialmente del corpo del Cristo, e la spiritualità Sua entra dentro di noi. E quando entra in noi e il nostro spirito cosciente è contro il suo spirito, allora il Cristo entra a nostra condanna, come dice Paolo: «Mangiamo del suo corpo a nostra condanna».[69] Le forze terrestri, nella loro stessa natura, ci comunicano forze cristiche e noi, magari, non soltanto non ci occupiamo del Cristo ma forse agiamo anche contro di Lui nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti e nelle nostre azioni.

Come ha parlato il Cristo

La vita dell’Essere solare nei suoi tre anni sulla Terra è sempre stata suddivisa nelle due dimensioni della Parola e delle Opere: ciò che il Cristo ha detto e ciò che il Cristo ha fatto.

La Parola, l’insegnamento del Cristo, è a sua volta duplice: un tipo di insegnamento è per la folla, un altro, ben diverso, è per i discepoli. I vangeli insistono sul fatto che il Cristo alle folle parlava in parabole, con un linguaggio di immagini; soltanto ai discepoli spiegava in concetti queste parabole, cioè ne comunicava il significato.

Che cos’è una parabola? È una storia perfetta di ciò che avviene sempre e ovunque. È come una fiaba, perché una fiaba avviene sempre e ovunque.[70] Se una fiaba è costruita in modo che si possa dire che in qualche luogo o tempo della Terra essa non è reale, allora non è una vera fiaba: in questo senso parabole, fiabe e leggende sono storie perfette.

Se qualcuno avesse chiesto al Cristo: chi era quell’uomo che scendeva da Gerusalemme verso Gerico, che è incappato nei ladroni, che è stato picchiato violentemente ed è rimasto lì mezzo morto? Chi era quel levìta che è passato senza curarsi di lui? Chi era quel samaritano che andava a cavallo, l’ha visto, si è mosso a compassione, è sceso e si è prodigato per lui? E quando e dove è successo questo fatto? [71] – il Cristo avrebbe risposto: Io raccontavo di te e di tutti e di quello che succede sempre e dappertutto.

Cominciamo a capire le parabole quando comprendiamo che noi tutti ne siamo i personaggi, perché i personaggi corrispondono a dimensioni che l’essere umano porta dentro di sé. Per tanti versi ciascuno di noi è colui che ignora la sorte del suo vicino, per tanti versi è colui che si ferma ad aiutare e per altri ancora è colui che incappa nei ladroni e resta lì mezzo morto. Mezzi morti, poi, siamo tutti perché abbiamo percorso la strada fino alla metà dell’evoluzione che ci ha portato alla coscienza di morte. E il Grande Samaritano è il Cristo. Il piccolo samaritano è ciascuno di noi nella misura in cui partecipa all’amore del Cristo che dà le forze per affrontare la seconda metà dell’evoluzione terrestre, verso la vita.

Se è vero che le parabole sono storie perfette di tutti e di sempre, ciò significa che le immagini che contengono hanno una forza immanente che opera in ogni essere umano e lo trasforma. La conoscenza concettuale, che ci piaccia o no, è l’unica forma di consapevolezza che siamo in grado di costruire da soli: perciò, quando essa manca nello stadio infantile, l’evoluzione aiuta con immagini che, per loro stessa natura, ci fanno crescere.

Prendiamo l’esempio della parabola di tutte le parabole: il seminatore.

Il seminatore è colui che narra tutte le parabole, colui che semina la parola di Dio. La spiegazione di questa parabola, data ai discepoli, è paradigmatica per ogni altra spiegazione, perché abbiamo qui, in nuce, il mistero dell’insegnamento del Cristo. La parola del Cristo mirava e mira sempre a suscitare in noi la forza dell’Io, ad aiutarci verso l’autonomia e la libertà.

La parabola del seminatore dice che l’essenziale della parola non è la parola stessa, ma è il tipo di terreno su cui cade: l’uomo che ascolta ha ben più importanza nell’evoluzione che non la parola che viene seminata.

«Ecco, il seminatore uscì a seminare. E mentre seminava una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c’era molta terra: subito germogliò perché il terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e dette frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi intenda».[72]

Ci sono quattro tipi di terreno e sono essi a decidere della sorte della parola. A determinare quel che la parola opera in noi non è il seminatore, non è il Cristo: siamo noi che ascoltiamo. Queste sono le grandiose immagini oggettive dell’evoluzione.

Un tipo di uomo nel quale il corpo fisico è l’elemento decisivo e dominante è la “strada”, la terra battuta, il sostrato materiale più duro e più refrattario: lì la parola non ha nessuna possibilità di portare frutto.

Un secondo tipo di uomo, nel quale il corpo eterico, cioè le funzioni vitali, sono preponderanti, accoglie in superficie la parola, ma non la può fondare e custodire.

Un terzo tipo di uomo, nel quale è preminente il corpo astrale (anima), soffocherà la parola con le spine della passione.

Il terreno buono, l’unico terreno buono, è quello dissodato e reso fertile dall’Io che si affaccia e comincia a operare. Là il seme cade e comincia a portare i frutti nell’individualità interiore: il trenta per cento (più precisamente il 33%) sono i pensieri, il sessanta per cento (66%) sono i pensieri più i sentimenti e il cento per cento (99%) sono i pensieri, i sentimenti e gli atti volitivi, tutti e tre insieme.

Se queste immagini operano nella folla che le accoglie e generano, pur nell’incoscienza, un sentore dell’importanza decisiva del terreno, quale sarà il livello dei discepoli? Ai discepoli viene spiegato come si diventa seminatori: ecco il passaggio. Ogni uomo passa nella sua evoluzione dal ricevere la parola al seminare la parola. La differenza fondamentale tra le folle, che sono il terreno sul quale il Cristo semina, e i discepoli ai quali il Cristo confida il mistero del seminatore, è il salto evolutivo dove tutti noi siamo chiamati a diventare da creature, creatori. Ci sono profondissime conferenze di Steiner in cui viene descritta l’evoluzione proprio in questa prospettiva: ogni essere inizia la sua evoluzione come creatura che accoglie, e la porta a compimento come creatore che dà, che crea mondi nuovi.

Come ha agito il Cristo: i “miracoli”

L’altro grande aspetto della presenza del Cristo durante i tre anni, sono le sue Opere, i cosiddetti miracoli, le cosiddette guarigioni. Anche qui si apre un mondo sconfinato. Le opere del Cristo dentro l’uomo vanno interpretate tutte in chiave di affrancamento, di liberazione dell’Io: non è mai una liberazione vicaria che compie al posto nostro, ma un aiuto affinché in noi si potenzi la forza autonoma e risanatrice dell’Io che armonizza il corpo astrale, rinfranca la vitalità del corpo eterico e ritrova la saldezza del corpo fisico.

C’è una frase misteriosa dei vangeli che ritorna sempre là dove nell’interpretazione tradizionale sembrerebbe che il Cristo abbia compiuto un miracolo: «La tua fede ti ha salvato». Questa espressione del Cristo è una necessaria chiave di lettura dei vangeli proprio perché fino ad oggi si sono interpretate le sue Opere come qualcosa che Egli fa all’essere umano, e non si è sufficientemente tenuto conto di ciò che richiede all’uomo stesso, come partecipazione attiva, per rendere operante la Sua presenza. ’H p…stij sou sšswkšn se (e pístis su sésokén se), la tua fede ti ha salvato.

Il significato della cosiddetta fede nel Nuovo Testamento è un mistero a sé stante, perché anche qui ci troviamo di fronte a una realtà che nel corso della tradizione ha assunto un contenuto quasi opposto. Dalla parola p…stij (pístis) deriva tutto ciò che ha a che fare con i piedi (podÒj, podós), con la fondatezza di un essere che è saldo, tetragono ai colpi di sventura, piantato sulla sua forza (cfr. in tedesco Felsen roccia e fest saldo, sicuro, solido). Questa è l’esperienza di p…stij nel Nuovo Testamento.

Nei secoli la fede è divenuta una realtà così vacillante e incerta che proprio ciò che si crede per fede è il contrario di ciò che si sa per comprovata e solida scienza. Si è opposta la vaghezza, l’opinabilità e la delega della fede all’oggettività indipendente della scienza! La p…stij esprime invece nel Nuovo Testamento l’autonomia interiore a tutti i livelli della persona umana.

Il verbo sšswkšn (sésokén) viene da sózw (sózo) che vuol dire io salvo, da cui deriva Swt»r (sotér) Salvatore: ciò che è da salvaguardare è la pienezza dell’essere umano, e chi la salva è la saldezza interiore della libertà che si fonda sul pensare autonomo, sulla presenza a se stessi, sull’emancipazione e la consapevolezza degli impulsi volitivi. Dove questa saldezza non c’è, là sparisce l’uomo. Così l’essere umano sta, si salva o cade.

«La tua fede ti ha salvato»: il Cristo pronuncia queste parole nei contesti più vari, per esempio in relazione al cosiddetto miracolo dei dieci lebbrosi.[73] Il Cristo dice loro di andare a presentarsi ai sacerdoti e, per strada, guariscono tutti. Soltanto uno, un samaritano (uno straniero), torna indietro a ringraziare e a lodare il Cristo. E a quest’uno Egli dice: «La tua fede ti ha salvato». Gli altri sono stati guariti, ma non salvati: sono ancora dipendenti da un aiuto che deve venire incontro dal di fuori, perché il loro Io non è in grado di originare per forza propria la salute totale. Costoro non ritornano perché non hanno capito l’impulso al quale si sono avvicinati. Soltanto uno ha compreso l’evento nel suo processo di pensiero ed è tornato per propria volontà a ringraziare l’Io Sono: ha intuito che la forza che cominciava a sprigionarsi dentro di lui non era una forza eteronoma, estranea ed esterna, ma era la forza più intima del suo essere, era la sua stessa forza. Dei dieci guariti fisicamente, uno solo si è salvato come uomo, come Io umano.

I quattro livelli di guarigione

Nei vangeli sono presenti quattro livelli di guarigione: guarigioni che si riferiscono maggiormente a malattie del corpo fisico; guarigioni che sanano disfunzioni del corpo eterico; eventi di guarigione che hanno a che fare chiaramente con l’immondezza, con l’inquinamento del corpo astrale, dell’anima; infine c’è la salvezza dell’Io, che può indebolirsi soltanto per mancanza di autocoscienza. I vangeli, esprimono in modo tecnico preciso questi quattro livelli:

1. quando si tratta di malattie del corpo fisico, i vangeli parlano sempre di ¢sqšneia (asthénéia): l’astenìa, la debolezza. È il latino infirmitas. Quando il corpo fisico è malato diventa in-fermo, non-fermo, poiché la sua caratteristica è proprio quella di mantenere forme stabili: quindi, quando la forma non è più capace di restare quella che è, diventa inferma. Un fenomeno di infermità vera e propria in senso tecnico è il cosiddetto nervosismo del mondo d’oggi. Cosa significa essere nervosi? Significa agitarsi in ogni direzione, avere tutti gli impulsi dentro di sé fuorché quello della fermezza. L’umanità, oggi, nella misura in cui è sempre sotto stress, sempre nervosa, è un’umanità tecnicamente inferma e ha bisogno dell’intervento curatore sempre nuovo e sempre a nostra disposizione dell’Io Sono;

2. quando i vangeli si riferiscono a malattie del corpo eterico è usato il termine tecnico par£lusij (parálusis), paralisi. È proprio il contrario del concetto di infermità. Ogni fenomeno di paralisi (in senso lato è il blocco del funzionamento di qualunque organo) è originato dal corpo eterico che si scioglie e fuoriesce dall’organo fisico, cioè gli si mette accanto impedendogli di funzionare, invece di compenetrarlo col movimento delle proprie correnti vitali: par£ (pará) vuol dire accanto e lÚw (lúo) vuol dire sciolgo. Con questa precisione i vangeli parlano dei fenomeni che vivono in ciascuno di noi;

3. nel corpo astrale, nel mondo pluriforme dell’anima, abbiamo a che fare con i molteplici impulsi delle passioni: gioia, dolore, simpatia, antipatia, invidia… La malattia del corpo astrale è sempre una forma di impurità: è l’¢kaqars…a (akatharsía), mentre la k£qarsij (kátharsis) è la purificazione.

Spesso nei vangeli si parla di demoni che posseggono l’uomo nel suo corpo astrale e lo rendono impuro: correnti astrali ottenebrano talmente la coscienza umana che essa cade in balìa di questi impulsi e non può più essere libera. Ogni cacciata dei demoni nei vangeli va letta in chiave di purificazione del corpo astrale, dell’anima. Naturalmente sappiamo bene che i più, oggi, ritengono che sia ormai superata la superstizione dell’esistenza dei demoni: Steiner, al contrario, dice che l’uomo moderno, proprio in senso tecnico, è un posseduto al livello massimo. Fra tutti gli impulsi della sua anima, infatti, pochissimi sono quelli generati e gestiti dal suo Io: il più delle volte viene posseduto da una mentalità, da uno spirito di popolo, dalle brame incontrollate, viene posseduto da quel che dicono i giornali, la televisione, la radio… Gli elementi di possessione si sono moltiplicati enormemente nell’umanità. La differenza è che ai tempi di Cristo si sapeva di che cosa si trattava, mentre l’uomo d’oggi non lo sa più. «Come ti chiami?» dice il Cristo al demone che possedeva l’indemoniato, «Il mio nome è Legione perché siamo in molti»,[74] è la risposta. Ciò vale per ciascuno di noi, perché sono molte le dimensioni del nostro essere che non siamo noi stessi a compenetrare con l’impulso dell’Io;

4. il decadimento riguarda l’Io quando mancano le forze di autocoscienza: qui la salvezza è nella p…stij (pístis), la fermezza interiore che porta alla salute totale. Qui la malattia specifica è la scarsa e debole fede, la mancanza di fede, la fede ancora non forte a sufficienza per «spostare le montagne». E dunque i tre livelli del corpo fisico, del corpo eterico e del corpo astrale si rivolgono sempre al quarto livello per trovare le forze di guarigione: solo l’Io può purificare il corpo astrale (l’anima), solo l’Io può riportare le correnti eteriche rivivificate dentro gli organi fisici, soltanto l’Io può ridare fermezza, compiutezza organica unitaria al corpo fisico.

L’insegnamento del Cristo mira dunque a incoraggiare e favorire in ogni uomo l’impulso dell’Io, l’impulso della libertà e dell’autonomia interiore: da un lato è un suo gesto di rinuncia, perché lascia fare a noi, ma dall’altro lato è un intervento terapeutico perché ci mette a disposizione tutte le forze, tutte le possibilità conoscitive e volitive affinché riusciamo a plasmarci sempre di più a Sua immagine.

I quattro sacrifici dell’Essere solare

Un capitolo importante della scienza dello spirito viene rappresentato dalla descrizione degli stadi preparatori al mistero del Golgota,[75] ai quali Rudolf Steiner fa riferimento anche ne Il quinto vangelo.

Si tratta di tre immolazioni cosmiche (noi conosciamo solo la quarta, quella avvenuta in Palestina) del Cristo e anche del suo portatore – il “Cristoforo” cosmico precursore del Gesù di Nazareth che sarà poi, all’occasione del quarto grande sacrificio, il “Cristoforo” terreno[76]cristoforo in greco significa letteralmente portatore del Cristo. Queste immolazioni ebbero come scopo l’armonizzazione dei dodici sensi (e dei dodici corrispondenti arti del corpo umano eretto), dei sette processi vitali e delle tre forze animiche, quali condizioni necessarie per lo sviluppo dell’Io cosciente e libero. Possiamo trarre paralleli tra il quadruplice operare terapeutico del Cristo, che abbiamo appena descritto, e questi quattro grandi sacrifici d’amore operati dal Salvatore dell’umanità – cioè dal Risanatore a tutti i livelli.

Ricordiamo che la scienza dello spirito scandisce nella misura del numero sette tutta l’evoluzione umana, e divide il tempo terrestre in sette grandi epoche (ognuna delle quali è a sua volta divisa in sette periodi ognuno della durata di 2160 anni, come abbiamo già visto in riferimento alla nostra epoca, che è la quinta).

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le sette grandi epoche della terra

1. Il primo grande sacrificio avvenne verso la metà dell’epoca lemurica, quando noi ci accingemmo a entrare col nostro Io dentro la materialità corporea. Ogni scienza dello spirito, in tutti i tempi, ha parlato dell’uomo quale microcosmo, quale immagine sintetica e fedele del macrocosmo, cioè dello Zodiaco e dei pianeti. Nel primo, seppur gradualissimo impatto con la materia,[77] il rischio che l’evoluzione correva era che i dodici sensi e i dodici arti costitutivi[78] dell’uomo divenissero così egoistici da non permettere la percezione oggettiva.

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i dodici arti costitutivi delluomo

missing image filei dodici sensi delluomo

L’occhio, per esempio, aveva la tendenza a godere lui stesso la qualità morale intrinseca dei colori: viveva la sofferenza che quasi punge davanti al rosso, si sentiva come risucchiato nel blu che avvolge…

Il Cristo intervenne a mettere armonia nei nostri dodici sensi, a togliere da essi l’egoismo di autogodimento e fece sì che diventassero così oggettivi e trasparenti da essere strumento silenzioso per la percezione umana. E noi, infatti, vediamo senza percepire l’occhio, udiamo senza notare la presenza dell’orecchio, e così via: quando i nostri organi di senso si fanno notare, vuol dire che in essi qualcosa non va. Accenno soltanto a questi misteri che, naturalmente, vanno approfonditi nel tessuto vivente della scienza dello spirito.

2. Il secondo grande sacrificio accompagna la seconda grande tappa evolutiva dell’umanità: nella prima metà dell’epoca atlantica, infatti, il rischio dell’evoluzione riguardò i sette processi vitali[79] (relativi al rapporto dell’essere umano col sistema planetario) che, come i dodici sensi, tendevano a manifestarsi in forma disordinata ed egoistica:

1. respirazione

2. termoregolazione

3. conservazione

4. secrezione

5. nutrizione

6. crescita

7. riproduzione

Il Cristo fece discendere fiumi di grazia su di noi e mise ordine nei nostri organi vitali (cuore, polmoni, reni, milza, fegato, bile ecc.). Perciò, oggi, non li notiamo: compiono il loro lavoro vitale senza che noi siamo presenti in essi con la nostra coscienza.

In questo mistero è racchiuso ciò che il Vecchio Testamento esprime nell’Albero della Vita, che fu sottratto all’arbitrio umano. Fu dato all’uomo l’Albero della Conoscenza del bene e del male e l’Albero della Vita fu trattenuto nel paradiso terrestre, custodito dalla spada fiammeggiante del Cherubino. È per questo che quando la nostra coscienza entra nel mistero dell’Albero della Vita, noi ci accorgiamo di essere malati, perché percepiamo l’organo: diciamo, infatti, che ci fa male.

Nell’Albero della Vita devono vigere e operare Esseri superiori, e non tocca a noi decidere direttamente e coscientemente ciò che là avviene. E per fortuna! Se ad esempio dovesse dipendere da noi, dal nostro agire cosciente, tutta la digestione, non basterebbe una vita intera per imparare come questo processo debba compiersi. Quindi possiamo essere grati che tutto avvenga senza la nostra presenza cosciente.

Tuttavia, potrebbe sembrare grottesca e quasi da fantascienza questa descrizione di un’antica voracità dei dodici sensi e dei sette processi vitali, che noi oggi consideriamo semplici parti assemblate di quella meravigliosa “macchina” che è il corpo umano. Ma questo può pensarlo solo la mentalità materialistica: nulla esiste nell’universo fisico che non sia guidato dalla coscienza di Esseri spirituali. Se l’uomo non era (e non è) in grado di provvedere da sé alla saggezza delle sue molteplici funzioni corporee, queste devono essere guidate dalla coscienza di altri Esseri – che noi, in termini vaghissimi, mettiamo nel grande calderone delle forze di natura. La scienza dello spirito è invece in grado di descrivere il Cristo che prende nelle sue mani amanti ciò che in quelle antiche epoche evolutive rischiava di diventare preda di Esseri spirituali non favorevoli al percorso umano verso la libertà.

3. Il terzo grande sacrificio avvenne poi verso la fine dell’epoca atlantica: a questa terza grande soglia dell’evoluzione la trinità animica, cioè le forze del pensiero del sentimento e della volontà, minacciavano di caotizzarsi a un punto tale da militare le une contro le altre.

pensare

sentire

volere

Nell’evoluzione non avviene nulla automaticamente, è tutto un dono di grazia: ciò che noi diamo per scontato è stato appunto “scontato” da qualcuno che è intervenuto per rendere fondamento della nostra evoluzione ciò che riceviamo senza nostro diretto contributo.

Non è da dare per scontato che i nostri occhi e i nostri organi vitali funzionino in modo non egoistico; non è da dare per scontato che troviamo in noi le forze perché il nostro pensiero non vada in direzione opposta al sentimento e la volontà non sia in contraddizione. Tutto questo è stato azione di grazia e di infinito amore.

Segno della maturazione spirituale di una persona è proprio la capacità di vedere nelle cose che si danno per ovvie le realtà più grandi e sconcertanti dell’esistenza. Quando noi riusciamo ad armonizzare il nostro pensiero, il nostro sentimento e la nostra volontà, quando riusciamo veramente a realizzare ciò che ci innamora nel cuore e ci convince nella mente, tutto questo è dovuto al terzo sacrificio del Cristo per l’umanità.

In tutte le mitologie, in modo particolare nella greca, invalsero echi profondi di questo evento: Steiner ricorda in particolare il mito greco di Apollo che a Delfi mette ordine nelle forze animiche della Pizia. Sul tripode (ecco la triplicità delle forze dell’anima) si innalzavano, esalando dalle viscere della Terra come serpi immonde, i fumi pestilenziali del Pitone (in latino puteo significa puzzo) che dava oracoli caotici e distorti. L’anima umana era nel caos. Apollo, signore dell’armonia e della musica, dell’accordo triade e della non dissonanza, trasforma allora questo disordine antiumano da espressione del Pitone a linguaggio della Pizia: la Pizia, ispirata e compenetrata dall’elemento cristico solare di concordia delle forze dell’anima, è ora in grado di pronunciare oracoli saggi, non più devianti e contraddittori.

4. Qual è il quarto grande sacrificio del Cristo? È avvenuto nella quinta epoca postatlantica, la nostra, nel quarto periodo di cultura, quello greco-romano: è il mistero del Golgota che noi crediamo di conoscere, ma che cominciamo appena ora a comprendere con gli strumenti della scienza dello spirito. Come il primo sacrificio mise ordine nel dodici fondamentale del corpo fisico, il secondo nel settenario del corpo eterico e il terzo nella trinità del corpo astrale, il mistero del Golgota pose le basi per l’ordine del rapporto dell’Io con se stesso, nella sua duplice realtà di io inferiore e di Io superiore. È il mistero della trasformazione in ciascuno di noi dell’io inferiore, rappresentato nella sua somma totale da Gesù, – trasformazione operata dal Cristo, Io superiore divino.

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» è l’io inferiore che parla.

«Dio mio, Dio mio, quanto mi hai esaltato!» è l’Io superiore che parla.

V. disegno nella pagina seguente

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i quattro sacrifici cosmici

nei quattro periodi delle rispettive epoche

Di questi quattro sacrifici, naturalmente, c’è traccia anche nei vangeli perché ciò che è sommamente importante per l’evoluzione umana non può mancare nei testi più altamente esoterici dell’umanità.[80]

Dibattito

Intervento: Qual è la differenza tra la comunione che, mi pare di capire, avviene ogni volta che si mangia, e la comunione sacramentale? Se è vero che quando noi normalmente ci nutriamo assumiamo già la corporeità del Cristo, a che serve la comunione sacramentale?

Archiati: Si tratta anche qui di cose che si possono comprendere rettamente solo nella prospettiva evolutiva. Questa prospettiva è la più fondamentale di tutte nella scienza dello spirito di Rudolf Steiner. Essa ci dice che nessuna cosa e nessuna verità sono assolute: il vero, il bello e il buono sono relativi al tempo. Ciò che è vero per un’epoca, non lo è più per la successiva, ciò che è buono per un tempo non lo è per un altro.

Anche il Cristo e il cristianesimo vanno compresi in questa ottica. Il Cristo inaugura e accompagna tutta la seconda metà dell’evoluzione, però ciò che vale per la fase mediana – i primi millenni del cristianesimo – non vale allo stesso modo per la parte compiuta e finale. Le condizioni e le possibilità evolutive sono di volta in volta diverse e nuove.

Il culto cristiano è stato istituito dal Cristo stesso, accompagnato dalle parole: «Fate questo in memoria di me».[81] Queste parole contengono infiniti significati. Nei duemila anni trascorsi se ne è compreso quasi solo il senso di ricordo-memoria rivolto al passato: facendo questo vi ricorderete di ciò che io, nel passato storico, ho compiuto. Nella scienza dello spirito sorge la consapevolezza di un’altra dimensione di queste stesse parole: fate questo al fine di non dimenticare l’Io (in memoria dell’Io Sono). Celebrare il culto cristiano vuol dire allora ricordarsi, cioè non perdere mai di vista che il senso dell’evoluzione sta proprio nel coltivare la forza dell’Io, la forza dell’autonomia interiore individuale, sia pensante sia volente.

Inteso in questo modo il sacramento non sostituisce affatto il cammino interiore individuale, ma ne richiama proprio la necessità, cioè ci fa ricordare della sua imprescindibilità.

Nella misura in cui l’individuo vivrà per forza propria ogni cosa e ogni evento come un sacramento cristico e reale di transustanziazione e di comunione, nella misura in cui non sarà più in grado di dimenticare la consacrazione dell’Io e della Terra operata dal Cristo perché la vive e la compie in ogni gesto e in ogni incontro, in quella stessa misura si renderà superfluo il monito rammemorativo del culto tradizionale.

Questo infatti porta un duplice carattere di aiuto esteriore sostitutivo e provvisorio:

in primo luogo c’è la mediazione esterna del sacerdote che celebra: l’intermediario è necessario quando ogni singolo non è ancora in grado di essere direttamente lui il sacerdote che celebra;

• in secondo luogo c’è la mediazione delle specie materiali del pane e del vino, che stanno a rappresentare – ecco la seconda rappresentanza sostitutiva – tutte le cose.

Cristo stesso ha dato all’umanità questa forma provvisoria ma necessaria del culto cristiano: ciò vuol dire che il Cristo ha compiuto la decisione d’amore di essere presente con il suo spirito in un modo del tutto specifico – che si chiama appunto sacramentale – là dove il culto cristiano viene celebrato nello spirito da lui indicato. Ha deciso di essere presente realmente nel pane e nel vino consacrati dal ricordo e dalla ravvivata memoria della Sua morte e resurrezione, avvenute per consentire a ogni Io umano di morire all’inerzia passiva e di risorgere all’autonomia spirituale creatrice.

Quando Rudolf Steiner parla del culto cristiano sottolinea sempre la tolleranza. Proprio perché il culto cristiano ha avuto e avrà ancora per tanti uomini una funzione necessaria, Rudolf Steiner lo ha risanato nella forma, consona ai nostri tempi, che si trova nella Comunità dei Cristiani. Chi partecipa al culto tradizionale esercita tolleranza cristiana verso chi cerca un rapporto col Cristo più diretto e individuale. E il cultore della scienza dello spirito esercita tolleranza – non commiserazione – nei confronti dell’altro, conscio del fatto che spesso ci si ritiene più autonomi di quanto di fatto si sia. Questa tolleranza sgorga dalla consapevolezza dell’evoluzione e dalla legittimità dello stadio evolutivo in cui ognuno si trova.[82]

Intervento: Nelle conferenze su Il vangelo di Giovanni in rapporto con gli altri tre e specialmente col vangelo di Luca,[83] Steiner parla di un potenziarsi, di segno in segno e per sette segni, della capacità del Cristo di investire aree sempre più vaste e profonde dell’essere umano, durante i tre anni della vita terrena. Ne Il quinto vangelo sembra che ci venga detto l’opposto: il Cristo all’inizio esprime un’esuberanza divina e cosmica che fa fatica a comprimersi nel Gesù e quindi i miracoli sono inizialmente più spettacolari e poi sempre più modesti. Qui abbiamo la visuale di un decrescere della forza del Cristo, mentre in altre conferenze c’è quella di un aumentare. Come si conciliano queste due prospettive di Steiner?

Archiati: Si conciliano in un modo molto semplice: c’è da un lato un decrescere dell’esprimersi del Cristo al modo divino e dall’altro un aumentare del suo esprimersi al modo umano, attraverso il Gesù di Nazareth. La prospettiva del modo umano è specifica del Vangelo di Giovanni: è il vangelo incarnatorio per eccellenza, perché coglie il mistero del Verbo che fin dall’inizio ha deciso di inserirsi nella realtà umana, inabitandola, e descrive il potenziamento dell’efficacia umana del Verbo.

Gli altri vangeli, soprattutto quello di Matteo, esprimono di più la prospettiva opposta, quella che Steiner enuncia ne Il quinto vangelo: il Cristo, in quanto Essere divino, all’inizio manifesta inevitabilmente l’esuberare della Sua gloria e della Sua potenza, e soltanto un po’ alla volta impara cosa vuol dire essere uomo e solo un po’ alla volta riesce a ridursi, a confinarsi entro l’umano. In questo modo si conciliano, senza alcuna forzatura, tutte e due le prospettive.

Intervento: Chi muore sulla croce? Gesù o Cristo?

Archiati: Si tratta di un processo graduale e di una realtà molto complessa: durante l’ultima cena il Cristo inizia a lasciare il Gesù di Nazareth ma non definitivamente, perché altrimenti non sarebbe più il Cristo a sperimentare la morte. D’altra parte questa morte non sarebbe possibile se il Cristo fosse ancora del tutto identificato con Gesù, perché un Essere divino non può morire. Ci troviamo di fronte a grandi misteri, che si comprendono un po’ alla volta soprattutto se non cerchiamo di definirli, ma li concepiamo nella loro processualità, straordinariamente articolata. Il rapporto tra Gesù e Cristo è un rapporto come quello tra patire e com-patire. Le forze di compassione del Cristo sono così perfette nell’amore, che Egli si sa immedesimare in tutto ciò che l’uomo-Gesù vive e sperimenta. In questo modo il Cristo diviene solidale con tutto ciò che è umano, soprattutto l’umano più radicale che è la paura della morte («Padre, perché mi hai abbandonato?»). Anche a livello umano noi sappiamo che è possibile che soffra di più il com-paziente che il paziente: tutto dipende dalla forza dell’amore.

Intervento: Gli gnostici partivano proprio da questa difficoltà: il Cristo non può morire.

Archiati: Sì, lo abbiamo già detto. In particolare, i docetisti – da doken (dokein) che significa sembrare – erano coloro che dicevano: la morte del Cristo in croce è apparente, perché un Essere divino non può morire. Ecco la difficoltà di capire come sia possibile il processo graduale di riduzione di un Dio a essere umano (domani approfondiremo proprio questo problema). È chiaro che non può avvenire in un momento: per tre anni il Cristo è in un continuo e sempre rinnovato sforzo di decisione, lavora a spogliarsi delle Sue forze divine. Sono decisioni di amore, di incarnazione.

La scienza dello spirito mette a disposizione gli strumenti per superare la concezione miracolistica del farsi uomo da parte di Dio, come se fosse una cosa da nulla. Come fa Dio a farsi uomo? Capiamo le parole che stiamo dicendo? Siamo coscienti che c’è a tutta prima un’incommensurabilità assoluta fra un Essere divino e un uomo? Quali passi concreti, quali decisioni di infinito amore vanno operate per passare da una realtà divina a una realtà umana? L’antroposofia è una scienza concreta perché entra nel vivo delle realtà umane e cosmiche e non fa grandi e approssimative astrazioni.

Ancora: come è possibile che un Essere divino entri e si esprima nella corporeità umana di un bambino appena nato, che non può parlare, non può pensare, non può decidere in proprio? Steiner ci indica, allora, come sia stata necessaria tutta l’evoluzione umana per preparare e rendere compatibile col Verbo la corporeità del Gesù di Nazareth: ed è chiaro che anche questo essere umano, somma dell’umanità, poteva raggiungere la Sua perfezione massima soltanto dopo aver ripetuto, nell’infanzia, nell’adolescenza, nella giovinezza e nella maturità, tutta l’evoluzione umana (come ogni uomo fa). A quei tempi erano necessari trent’anni per compiere questo percorso. Allora e soltanto allora si sono attuate le condizioni massime per l’incarnazione del Cristo. All’età di trent’anni Gesù di Nazareth era un uomo che in se stesso aveva riassunto e ripetuto tutta l’evoluzione per portarla fino al punto più perfetto: era un uomo pensante, senziente e volente in proprio. La religione tradizionale non fa alcuna distinzione fra la nascita del Bambino Gesù e l’incarnazione del Cristo durante il Battesimo nel Giordano, perché ha perso i contenuti reali degli eventi e ne porge una visione astratta.[84]

Intervento: Vorrei che si approfondisse concretamente il concetto di fede, di p…stij (pístis), intesa come saldezza interiore.

Archiati: Tutto quello che stiamo dicendo contribuisce a descrivere in che modo ritroviamo sempre di più in noi la saldezza interiore e l’autonomia di chi si fonda su se stesso. La vera fede consiste nella capacità propria di pensiero e nella capacità propria di volontà. Ecco le due colonne della realtà cristica nell’uomo. Non ci sono altre strade: finché deleghiamo il pensare e acquisiamo i risultati del pensare altrui, finché permettiamo che ci si dica cosa dobbiamo fare, non siamo interiormente autonomi. Ecco perché la scienza dello spirito non vende pensieri fatti, da imparare a memoria, da accogliere con comoda acquiescenza, ma è una continua provocazione a pensare col nostro stesso pensiero. Se lo vogliamo.

In questo senso la scienza dello spirito è l’elemento cristico più profondo dei tempi moderni perché ci sprona ad attivare dentro di noi quella sorgente cristallina che sgorga dal di dentro – come dice il Vangelo di Giovanni: «Dall’intimo di chi crede in me, scaturiranno fiumi d’acqua viva».[85] Quest’acqua è la forza più intima del nostro essere, ci rende capaci di conoscere noi stessi in quanto esseri pensanti, e di volere noi stessi in quanto esseri amanti.

Colui che fa ciò che vuole è libero, colui che fa ciò che deve non è libero, perché non lo vuole.

Colui che fa ciò che sa è libero, colui che fa ciò che non sa non è libero.

Sesta conferenza

Il padre nostro

Firenze, 5 gennaio 1992

Il culto della messa

Cari amici,

il Battesimo nel Giordano è l’incontro fra l’anelito di riascendere dell’uomo caduto, e l’amore divino che discende per ricondurlo nelle sfere celesti.

Oggi è domenica: dies dominica, il giorno del Signore. Il significato della domenica nel cristianesimo è quello del giorno dedicato al Dominus dentro di noi, all’Io, Signore di tutte le forze dell’anima perché tutte le padroneggia. La messa domenicale è la missione signorile, è la summa del culto cristiano ed entra proprio nel mistero dell’incontro fra il divino e l’umano. Questo cammino sacramentale dell’uomo che si imbeve della realtà del Cristo ha sempre avuto, in tutte le sue forme iniziatiche, quattro gradini fondamentali: il primo è quello dell’annuncio, del vangelo; il secondo è l’offerta; il terzo è la transustanziazione, cioè il mutamento di sostanza; il culmine è la comunione.

1. Il vangelo è la buona novella (eÙaggšlion, euanghélion) che le Gerarchie angeliche ci portano. Annuncia, attraverso la parola, il significato della nostra esistenza in tutte le sue molteplici manifestazioni. Il vangelo è la capacità pensante di scoprire la buona novella in ogni cosa, e la buona novella di tutte le buone novelle è che il Cristo è venuto, è con noi, cammina con la Terra e con l’umanità. Noi celebriamo allora il vangelo ogni volta che cogliamo l’aspetto cristico delle cose.

2. A questa lettura degli eventi umani e cosmici, segue sempre un desiderio di offerta, perché il significato di ogni cosa è proprio che l’uomo impari a riportare verso il divino tutto ciò che ha raccolto nella sua evoluzione.

3. Al movimento di desiderio e di offerta la realtà divina risponde trasformando l’uomo: il mistero della transustanziazione, negli infiniti aspetti che ci riguardano, è il mistero della sostanza umana che trapassa, nel corso dell’evoluzione, in sostanza divina. L’essere umano diviene divino. Cosa significa transustanziare qualcosa? L’esperienza umana considera dapprima sostanziale ciò che è materiale e percepibile con i sensi fisici: è reale ciò che si tocca, ciò che si vede, si mangia, si ode… La transustanziazione consiste in questo: lo spirituale diventa per noi, a poco a poco, così assolutamente vero che cominciamo a vivere nello spirito sperimentandolo più reale della materia, più operante, vivente e causante. L’uomo transustanzia così la sua coscienza, il suo essere, e inizia a vivere nello spirito del cosmo, come Entità spirituale in comunione con Entità spirituali. La transustanziazione è lo sforzo immane non soltanto di una vita, ma di tutte le vite che verranno: attuandola a grado a grado, noi riconquisteremo la comunione con tutti gli Esseri spirituali.

4. La transustanziazione è dunque il presupposto essenziale della comunione: comunione col nostro essere spirituale, l’Io, prima di tutto, perché viviamo da alienati a noi stessi, e poi con ogni altro essere spirituale della Terra e del cosmo che la nostra coscienza oscurata oggi non percepisce più.

Se questa è l’essenza del cammino di ogni uomo, allora il culto cristiano non è avulso dalla vita: lo è divenuto nel corso dei secoli perdendo la sua sostanza vera. Il rito della messa esprime, a livello di coscienza elevata e a livello di magia spirituale cultica, ciò che è sempre vero ed essenziale, ciò che è sempre dentro di noi, nelle nostre aspirazioni e anche nelle nostre realizzazioni.

Riprendendo in questa luce il Battesimo nel Giordano, abbiamo l’annuncio (il vangelo) del significato universale dell’evoluzione quale incontro del divino e dell’umano; abbiamo l’offerta di tutte le offerte in Gesù di Nazareth che raccoglie l’intera nostra umanità e la porta incontro al Cristo, facendo di sé un calice che attende di venire colmato; abbiamo la discesa del Cristo che si inumana in Gesù di Nazareth e avvera il paradigma di tutte le transustanziazioni passate e future; e abbiamo la comunione ultima, la più perfetta che noi possiamo immaginare, nell’uomo-Gesù che si indìa, che diventa divino nel Cristo, il quale gli porta incontro l’Io vero, spirituale, amante, verso il quale tutti camminiamo. L’evento mistico (cioè indagato in modo scientifico-spirituale: questo è il significato che Rudolf Steiner dà alla parola mistico per non evocare vaghezze animiche)[86] e storico del Cristo, che esprime la totalità del cammino umano, è la messa oggettiva, è il culto cristiano fatto evento storico.

Il mistero dei due bambini Gesù

Continuando il percorso a ritroso della vita del Cristo e di Gesù, veniamo ora al mistero di quel che è avvenuto poco prima, durante e dopo il Battesimo nel Giordano. Dalle conferenze di Steiner su Il quinto vangelo sappiamo che gli avvenimenti più importanti sono: il colloquio con la madre, avvenuto pochi giorni prima del Battesimo, che è un passaggio centrale nell’evoluzione di Gesù di Nazareth. Seguono poi tre incontri che egli fa lungo la strada verso il Giordano. Questi eventi sono specifici dell’indagine spirituale di Rudolf Steiner, e non li troviamo nei vangeli canonici. Poi Gesù arriva da Giovanni il Battista e nel Battesimo abbiamo la discesa del Cristo; seguono infine le tre tentazioni.

Prima di descrivere il dialogo di Gesù di Nazareth con la madre, dove Steiner comunica grandi misteri letti direttamente nel Libro della vita, è forse opportuno riprendere le fila di precedenti comunicazioni che Steiner fece commentando il Vangelo di Luca riguardo al mistero dei due bambini Gesù.[87]

Se noi leggiamo con attenzione i vangeli di Luca e di Matteo, gli unici che narrino la vita di Gesù dalla nascita, troveremo delle sostanziali differenze e discrepanze, quelle stesse che hanno indotto l’esegesi moderna a dichiarali storicamente inaffidabili. La scienza dello spirito ci parla, invece, a conferma dei vangeli, dell’esistenza di due bambini Gesù: uno descritto da Matteo, l’altro da Luca.

Perché ci fossero le condizioni terrene necessarie all’incarnazione del Cristo, occorreva offrire all’Entità solare un corpo umano che rappresentasse la somma totale dell’evoluzione sia nella direzione della conoscenza del mondo esterno, del cosmo, sia nella direzione della conoscenza del mondo interiore animico. Ciò significava riunire in un unico essere umano le due più grandi correnti evolutive dell’umanità che, dice Steiner, non attraversano la storia come vie astratte che poi finiscono per incontrarsi, ma sono percorsi incarnati in individualità ben precise.

Zarathustra, considerato in tutte le sue poderose incarnazioni, rappresentava la somma della sapienza umana volta al mondo esterno;

Buddha, visto anche in tutte le sue incarnazioni da Bodhisattva,[88] era l’individualità che aveva raggiunto, nel suo ultimo passaggio sulla Terra seicento anni prima del Cristo, il massimo dell’attività di purificazione interiore mostrando all’umanità la consapevolezza della compassione e dell’amore, fondamento della vera moralità.

Il fatto che l’immenso succo dell’evoluzione umana, riversato nei millenni, potesse confluire in un unico portatore del Cristo, è già qualcosa che alle nostre deboli forze del pensare e del sentire appare come un’immane impresa. Inoltre, aggiunge Steiner, perché si compisse la svolta dei tempi, occorreva che lo zarathustrismo e in particolare il buddhismo, fossero “ringiovaniti”, che potessero cioè essere accolti da un’anima totalmente innocente, intrisa di forze infantili intatte.

Ciò comportava due opposte e reali esigenze:

che l’Io di questo essere umano fosse il più ricco di incarnazioni, di esperienze terrene legate all’Albero della Conoscenza (quello che Lucifero avvicinò all’uomo provocandone la caduta nella materia e il distacco dalla matrice astrale primigenia);

• e che nello stesso tempo questo essere umano portasse in sé un’anima preservata proprio da quel peccato originale della conoscenza, un’anima ancora paradisiaca cui non fosse stato interdetto l’Albero della Vita.

Dovevano essere compresenti nel portatore del Cristo le radici e i frutti dell’umano. Questi enormi misteri che Steiner offre al nostro pensare sono la premessa per comprendere i due bambini Gesù:

1. la via dell’esperienza incarnatoria terrestre ci è descritta da Matteo, e conduce a un bambino Gesù nato a Betlemme, dove i suoi genitori, Giuseppe e Maria, già dimoravano. La genealogia di questo bambino risale ad Abramo, lungo la via regale di Salomone. Ai suoi piedi, guidati dalla stella, giunsero i magi dall’Oriente. Perché? Perché essi andavano a inchinarsi dinanzi alla reincarnazione del loro maestro Zarathustra, individualità massima, la più matura dell’intera umanità;

2. la via dell’innocenza, dell’amore e della compassione, descritta da Luca, conduce a un bambino di nome Gesù, i cui genitori si chiamavano anch’essi Maria e Giuseppe, che vivevano a Nazareth ma si trovavano a Betlemme al momento della nascita, per via del censimento. La genealogia di questo bambino, ripercorsa da Luca, passando per la linea sacerdotale di Nathan, arriva ad Adamo, arriva a Dio. «Figlio di Adamo, figlio di Dio».[89]

In questo bambino Gesù è presente la matrice dell’anima adamitica paradisiaca, estratta e preservata dalla caduta (descrivere come ci porterebbe troppo lontano), affinché Lucifero e poi Arimane[90] non vi si potessero insediare nel corso delle incarnazioni. Era l’Anima Candida che più di ogni altra aveva aspettato ad incarnarsi e dunque il corpo eterico che le era collegato rifulgeva di straordinarie e purissime forze plasmatrici. Era quel Cristoforo cosmico che abbiamo già incontrato nei quattro sacrifici del Cristo. A venerare questo bambino arrivano i pastori, semplici nel cuore, ai quali appare un coro d’Angeli che glorifica l’evento: quel coro di Angeli, descrive Rudolf Steiner, era il nirmanakaya (o corpo delle trasformazioni) del Buddha, cioè il corpo spirituale che ha raggiunto il massimo della perfezione e può agire sulla Terra soltanto al livello eterico-astrale. Il nirmanakaya del Buddha comincia ad adombrare questo bambino Gesù, fino a potersi esprimere nella sua anima intorno al dodicesimo anno d’età, quando, come in ogni altro adolescente in età puberale, l’involucro astrale presente alla nascita si stacca, liberando da ogni lato il corpo astrale individuale.[91]

Si inseriscono a questo punto (stiamo parlando sempre del testo Buddha e CristoLe religioni dell’umanità alla luce del Vangelo di Luca dove Rudolf Steiner parla dei due bambini Gesù) altre complesse comunicazioni di Rudolf Steiner, accompagnate da queste parole:

«I fatti narrati dall’occultista, che gli sono dati dai mondi superiori, egli li trasmette in pegno all’umanità; se li attinge alle giuste fonti può perciò dire: esaminateli pure con severità, ma se lo farete nel modo giusto troverete che essi sono sempre confermati dalle testimonianze dei documenti scritti o dei fatti scientifici».

La famiglia del Gesù salomonico si trasferisce a Nazareth dove stringe legami d’amicizia con la famiglia del Gesù natanico.

Il bambino Gesù che albergava in sé l’Io di Zarathustra (il Gesù salomonico) cresceva con stupefacenti forze di intelligenza.

Il bambino Gesù inondato di innocenza adamitica e avvolto dal nirmanakaya del Buddha (il Gesù natanico) emanava immense forze di amore e compassione e non brillava affatto per capacità intellettuali. Finché, al dodicesimo anno d’età, accadde in lui un’improvvisa trasformazione che Luca narra nell’episodio di Gesù fra i dottori del tempio di Gerusalemme: il nirmanakaya del Buddha prende possesso della sua matrice astrale e contemporaneamente l’Io di Zarathustra entra in lui. Ciò significa che, mentre il Gesù natanico improvvisamente comincia a mostrare una tale penetrante intelligenza da divenire irriconoscibile agli occhi dei suoi stessi genitori, nello stesso tempo il bambino Gesù salomonico rimane senza un Io e, difatti, poco dopo muore.

Quasi nello stesso periodo muore anche Maria, la Maria Vergine purissima, giovane madre del Gesù natanico, nella cui anima si era mostrata al massimo grado quella parte verginale che ogni essere umano porta in sé, impenetrabile per Lucifero e per Arimane, sigillo dell’appartenenza umana ai mondi spirituali. Ella ascende al cielo e annette a sé ciò che di eterno era stato elaborato nel corpo eterico del defunto bambino Gesù salomonico grazie alla forza dell’Io di Zarathustra, che lo aveva abitato per dodici anni. Poi, invia alla madre salomonica nuove forze verginali.[92] Intanto, poiché anche il padre del Gesù salomonico era da tempo morto lasciando moglie e figli,[93] le due famiglie si uniscono: l’unico Gesù rimasto (il Gesù della linea natanica) racchiude ora in sé sia la via sapienziale che la via d’amore e di compassione, e inizia il suo cammino di immenso dolore e di profonda conoscenza verso il Cristo.

Il dialogo fra Gesù e la madre adottiva

Quanto abbiamo detto in sintesi, e che spero faccia nascere il desiderio di approfondire attraverso la scienza dello spirito questi enigmi infiniti del divino e dell’umano, vorrei ora metterlo in rapporto con il racconto che Steiner fa, sempre dal Libro della vita, del colloquio fra Gesù e la madre adottiva, prima del Battesimo nel Giordano.

Steiner descrive questo dialogo come una sorta di confessione generale: in toni di profonda commozione, Gesù, a trent’anni, riassume e comunica a lei tutto quel che ha vissuto e portato nel cuore, fin dalla giovinezza, nella sofferenza infinita del suo cammino umano. Attraverso queste parole viventi, l’Io stesso di Gesù di Nazareth, cioè l’Io di Zarathustra, esce da lui.

Di questo Io si comunica alla madre adottiva una certa sostanzialità che le permette di unirsi, così come Gesù di Nazareth sta per unirsi col Cristo, con la madre celeste e carnale di lui, la Maria Vergine già morta. Anche la duplicità dell’anima, nel cammino dell’evoluzione, trova qui la sua sintesi: l’anima celeste viene incontro all’anima umana e quindi la verginità, la purezza immacolata del paradiso che si era espressa nella madre del Vangelo di Luca, compenetra ora l’altra madre, che aveva avuto ben sei figli, oltre al Gesù salomonico. Nella nuova armonia della totalità delle forze animiche è preannunciato tutto il cammino futuro dell’anima umana, così come in Gesù di Nazareth che accoglie il Cristo è preannunciato tutto il cammino dello spirito umano.

In questo colloquio importantissimo Gesù di Nazareth narra alla madre adottiva le tre tappe, lunghe ogni volta sei anni, delle sue esperienze col mondo ebraico, col mondo del paganesimo e col mondo dell’esoterismo esseno – esperienze alle quali abbiamo già accennato all’inizio del nostro incontro. Questa trinità di esperienze è di nuovo l’archetipo di tutta la dolorosa via umana che va incontro al Cristo anelando alla redenzione. Gesù dice alla madre:

«Io ho camminato per la Palestina lungo le strade degli ebrei, e ho visto la morte della tradizione dei profeti. La voce che una volta parlava, o madre mia, ora tace, la fonte di cristallo puro d’ogni ispirazione, s’è intorbidita. La figlia della voce, Bath-Kol, non parla più».

«No, figlio mio caro, tu stesso hai ampliato il mio cuore con le parole dell’antica saggezza rinate in te! Quante volte ho visto il tesoro delle nostre sentenze vibrare nuovamente nella luce dei tuoi gesti buoni! E Hillel, il saggio rabbino Hillel, non ti risana il cuore con quella sua mitezza che riconcilia il nostro popolo con la voce di Dio?».

«O madre che accogli il mio dolore, c’è qualcosa di ancora più tragico di questo silenzio: anche se la voce parlasse, anche se la profezia risuonasse ancora, non ci sarebbero uomini in grado di accoglierla. L’abisso vero dell’umanità è che essa non è più in grado di lasciarsi compenetrare e trasformare dalla Parola, dal Verbo divino. Non serve più a niente dire agli uomini ciò che è vero, ciò che è bello, ciò che è buono».

Gesù di Nazareth non può, nel modo più assoluto, temperare l’esperienza squassante del decadimento umano che attraversa il suo essere: l’uomo che porta su di sé tutto lo strazio della Terra incontro al Cristo, non può che esserne intriso per offrirlo alla redenzione. L’umanità ha bisogno di un evento di trasformazione, ma non ne ha essa stessa le forze!

Il Padre Nostro rovesciato

E ancora Gesù racconta alla madre, così totalmente permeabile al suo smisurato dolore, l’altra grande esperienza, la seconda, quella che riguarda il mondo pagano, soprattutto il greco ellenistico. Gesù di Nazareth, Zarathustra reincarnato, ha visto nei culti di Mitra la degenerazione di ciò che lui stesso aveva seminato nell’umanità durante l’epoca paleo-persiana. Ha visto gli altari, dai quali i sacerdoti si sono ormai allontanati, circondati da demoni che assalgono e depredano l’uomo.

«E io, madre, ho sperimentato le folle dei pagani che speravano di vedere in me il nuovo sacerdote, colui che riportava lo splendore degli antichi culti solari: le ho viste, queste folle, possedute da schiere di demoni e sui loro altari sono caduto tramortito! E allora è sorta in me la voce trasformata del Bath-Kol:

Amen

Dominano i maligni

testimoni d’egoità che si affranca,

per colpa altrui d’egoismo,

vissuta nel pane quotidiano,

in cui non domina la volontà del cielo

da quando l’uomo si separò dal vostro regno

e obliò il vostro nome,

o voi, Padri nei cieli.

O madre! Se portassi agli uomini queste parole esse si trasformerebbero in demoni, perché risuonerebbero in anime incapaci di ascoltare quello che un tempo fu annunciato!».

È questa la visione ispirativa del Padre Nostro rovesciato dal quale, poi, è stato dato all’umanità il Padre Nostro positivo, di riascesa, tramandato nei vangeli.

Prima di commentare la versione italiana di questo Padre Nostro cosmico, ascoltiamolo in tedesco, la lingua in cui Steiner ce l’ha dato dai mondi spirituali, e la cui forza non può che affievolirsi in ogni traduzione:

Amen

Es walten die Übel

Zeugen sich lösender Ichheit

Von andern erschuldete Selbstheitschuld

Erlebet im täglichen Brote

In dem nicht waltet der Himmel Wille

Da der Mensch sich schied von Eurem Reich

Und vergass Euren Namen

Ihr Väter in den Himmeln

Questo Padre Nostro negativo racchiude il senso di tutto il cammino dell’umanità a partire dal paradiso terrestre fin nell’abisso.

Il Padre Nostro cosmico è il tratto evolutivo in discesa (a sinistra) e il Padre Nostro dei vangeli esprime la seconda metà dell’evoluzione (a destra), quella in cui siamo, di riascesa. Abbiamo a tutti i livelli dei rispecchiamenti evolutivi e perciò ogni frase del Padre Nostro che noi conosciamo è l’inversione di quanto è stato comunicato in ispirazione a Gesù di Nazareth, in quella visione che riassumeva il cammino dei culti pagani.

V. disegno nella pagina seguente

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il padre nostro della discesail padre nostro della risalita

Amen

non significa così sia: è una parola ebraica che viene da un verbo che vuol dire costruire sulla roccia. Colui che parla intende dire: ciò che ora affermerò è saldo come una roccia. È una verità che non cambia mai, che non passa mai. Questo è. Così è. Amen è una formula mantrica che esprimeva nei tempi antichi le verità più assolute, irremovibili, eterne. Non è una specie di ammennicolo inutile, ma sta a dire: Attenti!, ché così è. Attenti!, ché nelle frasi che seguono è espressa la realtà, la verità totale dell’evoluzione umana.

Dominano i maligni

Questa è la prima affermazione sulla realtà dell’umanità decaduta. Regnano le forze del male, regnano i malanni. Cosa vuol dire? Vuol dire che la prima metà dell’evoluzione, dove l’uomo si allontana gradualmente dal divino, è all’insegna del male, affinché poi la forza del bene trasformi il male, lo vinca e lo metamorfosi in un bene ancora più grande. Prevalgono nella prima metà le forze del male, dominano gli Esseri che trascinano l’uomo verso il basso;

testimoni d'egoità che si affranca:

Queste sono le forze del male. In che cosa consiste il lavoro del cosiddetto male, l’andamento al negativo della prima parte dell’evoluzione? Consiste nell’affrancare ogni essere da ogni altro essere. È una libertà di emancipazione egoistica che instaura, in un certo senso, la controforza dell’amore: ma è una necessità evolutiva, bisogna che ci sia l’egoismo se l’amore consiste nel vincerlo. La cosa più importante per poter vincere l’egoismo è che l’egoismo ci sia! Questo pensiero che sembra così ovvio, fa sparire tutti i moralismi di cui siamo pieni, visto che abbiamo imparato soltanto a condannare l’egoismo senza capire che è stato una conquista evolutiva al negativo, la resistenza più forte posta nel cosmo affinché l’uomo potesse attuare il bene senza automatismi;

per colpa altrui d'egoismo

Per una colpa di cui è responsabile qualcun altro. Il discendere nell’egoismo, la cosiddetta caduta quale premessa della libertà, naturalmente non l’ha voluta l’essere umano. La conduzione dell’umanità, le Gerarchie celesti, hanno permesso alla serpe del paradiso – a Lucifero – di immettere nell’uomo l’impulso a gettarsi nella corrente discensionale dell’egoismo. E abbiamo, allora, in un certo senso, il diritto evolutivo di dire che questa colpa di egoità è una colpa di cui altri sono responsabili: la cacciata dal paradiso, strumento del divenire, ci ha gettati nella frammentazione propria delle individualità che, in un primo momento, necessariamente sono le une contro le altre, e non le une per le altre, le une dentro le altre;

vissuta nel pane quotidiano

Quali sono le realtà sperimentate nel pane quotidiano? La colpa d’egoità di cui altri sono colpevoli e l’egoità che si affranca. Nel Padre Nostro alla rovescia il pane quotidiano ha un significato opposto al pane di cui parla il Padre Nostro dei vangeli, che troviamo tradotto con lo stesso aggettivo: dacci oggi il nostro pane “quotidiano”. È quest’ultima una parola misteriosa che nell’esegesi si approfondisce in tante lezioni universitarie poiché, tra l’altro, i testi greci e i manoscritti oscillano. Il testo greco dice ™pioÚsion (epiúsion), e la scienza dello spirito ci mette nelle condizioni di aggiungere un’altra i: ™pi-ioÚsion (epi-iúsion); ™pi-oÚsion (epiúsion) vuol dire quotidiano (da ™pi-oÙs…a, epi-usía), mentre ™pi-ioÚsion (epi-iúsion) vuol dire sostanziale, che viene giù dall’alto (da ™p…hmi, epíemi).

Dacci oggi il nostro pane che viene dal cielo, dacci oggi il nostro pane spirituale, transustanziaci da esseri che pensano di venire costituiti e costruiti dal basso, in esseri che sanno di venire forgiati sempre di nuovo dall’alto, dagli Esseri gerarchici del cosmo. Nel Padre Nostro dei vangeli il pane cosiddetto quotidiano è il pane celeste, sono le forze spirituali conoscitive, volitive e amanti che discendono dal cielo. In questo Padre Nostro di discesa, invece, è il pane materiale nel quale vengono sperimentate la colpa di egoità e l’individualità che si affranca.

Quand’è che l’uomo vive la sua egoità, quel tipo di individualità che lo separa dagli altri? Quando si sente edificato dal pane fisico, quando sperimenta l’inserimento nella materia. Il pane è diventato terrestre, fa ora parte della materialità quotidiana, è il testimone dell’essere divenuti egoici: la volontà, cioè le intenzioni nutrienti delle Gerarchie celesti, si sono ritratte da questo pane che perciò è diventato soltanto materiale. Tutto questo per consentirci il cammino della libertà. Le Gerarchie hanno sottratto la loro stessa operatività vivente da tutto ciò che ci circonda, affinché il creato non operi più dentro di noi e ci lasci liberi, diventando morto per la nostra esperienza. Nella materia di questo pane che noi assumiamonon opera automaticamente e divinamente il volere dei cieli, così come era all’inizio dell’evoluzione, quando eravamo ancora inseriti nel “grembo divino” e, perciò, non eravamo liberi. Alla base della nostra libertà c’è il mistero del sacrificio, della rinuncia delle Gerarchie che ritraggono dal mondo nel quale viviamo la loro stessa azione volitiva, che sarebbe per noi un impulso ineludibile e trascinante;

in cui non domina la volontà del cielo – da quando l’uomo si separò dal vostro regno – e obliò il vostro nome

In una conferenza sul Padre Nostro[94] Rudolf Steiner fa una descrizione sublime del significato esoterico delle parole volontà, regno e nome. Nel Padre Nostro dei vangeli questi tre misteri vengono dati all’inizio: «Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà».

Il mistero della volontà, dice Steiner, è il sorgere di un punto, di un centro irraggiante nell’universo che è talmente intriso di volontà di offerta e donazione da essere l’inizio di una nuova creazione. Sorge nel cosmo l’impulso di ciò che nel linguaggio esoterico si chiama la grande offerta. All’inizio del nostro cosmo questo irradiare della volontà è avvenuto quando la Gerarchia dei Troni decise di far defluire dal suo essere la sostanza di volontà cosmica, base dell’evoluzione saturnia, e che poi consentì l’evoluzione solare, lunare e terrestre.[95]

La volontà in senso esoterico è un centro cosmico, un impulso di offerta assoluta, è una creazione di mondi per emanazione, un dono totale di sé capace di far fluire la propria sostanza fin nella dimensione fisica. L’uomo sarà al livello evolutivo di questa volontà che crea mondi nello spirito dell’offerta, quando avrà compiuto dentro di sé l’evoluzione dell’Uomo-spirito (o Atma, secondo la sapienza orientale).[96] Il regno è un secondo mistero: in un certo senso si potrebbe dire che mentre la volontà è un centro che irradia in tutte le direzioni, il regno è la totalità degli esseri che vengono investiti e compenetrati da questo impulso d’immolazione e ne rifulgono. È un uni-verso, un’unità che si riversa e che riverbera in tutte le direzioni, come rispecchiamento infinito della Divinità che ne è il centro propulsore. Nella stessa parola universo è espresso il mistero del regno: l’universo è animato da una volontà centrale che viene rifratta in una multiforme varietà. I regni della natura – minerale, vegetale, animale e umano – sono immagini impregnate della sostanza amante, pura, volitiva dell’autoimmolazione divina. L’umanità raggiungerà in proprio il livello evolutivo del regno, quando avrà sviluppato dentro di sé lo Spirito vitale (o Budhi).

Il terzo aspetto di questa triade è il nome: nel mistero del nome abbiamo il sorgere di esseri individuali all’interno del regno, esseri che non sono più soltanto un rispecchiamento della volontà della grande offerta, ma che diventano autonomi. L’essere individuale ha un nome suo che ne pronuncia l’essenza. Dare il nome nel linguaggio esoterico significa creare concetti che colgono l’essenza, la natura di ogni essere particolare. Dove un cosmo raggiunge il livello evolutivo del nome, sorgono esseri singoli: e il sorgere di esseri singoli è il mistero del Sé spirituale (o Manas).

O voi, Padri nei cieli

perché nel Padre Nostro rovesciato c’è l’invocazione ai Padri e nel Padre Nostro a noi noto ci si rivolge al Padre? Per far uscire fuori l’umanità dal grembo paradisiaco primigenio – dove in Adamo essa era un’unica sostanzialità animica – e precipitarla nel cammino di individuazione, bisognava che gli impulsi spirituali si differenziassero e si distinguessero l’uno dall’altro, bisognava creare una molteplicità di conduzioni, di guide spirituali che portassero ogni razza, ogni popolo, verso vie diverse. Quindi il primo atto di articolazione dentro l’umanità ancora indistinta fu quello di creare dei primi raggruppamenti: i Padri dei cieli sono gli ispiratori delle diverse religioni che nacquero nell’umanità, sono i grandi eroi delle culture, delle civiltà, delle città…[97]

Il plurale sta proprio ad indicare che si trattava di sgretolare sempre di più l’umanità fino alla frantumazione ultima, che è l’individualità di ciascuno di noi. Oltre non si può: là dove un essere comincia a dire io a se stesso, là siamo alla fine dell’individuazione. Raggiunto il frammento indivisibile dell’io umano, si tratta di ricondurre l’umanità di nuovo verso l’unità, che però non sarà più quella indistinta del paradiso, ma un’unità all’interno della quale sarà possibile conservare l’individualità autocosciente. Anzi, sarà un’unità possibile soltanto in base alla piena esplicazione dell’individualità di tutti. Questo è il mistero, nel Padre Nostro, del passaggio dai Padri al Padre.

Gesù racconta la visione del Buddha

E ancora parlando alla madre, Gesù racconta la sua terza grande esperienza, quella vissuta dai ventiquattro ai trent’anni: l’incontro con gli esseni. Questa comunità esoterica, dedita a un’alta vita di purificazione e sapienza, si era isolata dal resto dell’umanità per proteggere la propria ascesa ai mondi superiori dal peso della decadenza umana. I demoni, con Lucifero e Arimane in testa, rimanevano ringhianti fuori delle case degli esseni e si scagliavano allora con maggiore violenza sugli esseri umani dalla coscienza ottusa, dall’anima appesantita. E Steiner, dichiarando la sua grande responsabilità di iniziato che deve comunicare al mondo moderno verità evolutive sconvolgenti, getta altra luce sul colloquio tra Gesù e la madre:

«E ho avuto, madre, la visione del Buddha. E in spirito diceva che gli esseni, veri figli della sua sapienza, gli mostravano il limite e l’errore della sua

stessa dottrina. Una via di alta evoluzione, ma percorsa tutta a spese dell’umanità ignara: una via di salvazione che per natura sua non può essere percorsa da tutti perché verrebbe a mancare l’umanità dannata da cui segregarsi. Neanche gli esseni, madre, dai quali molto ho imparato in quegli anni della mia vita, possono arrestare lo sfacelo umano, come non possono arrestarlo gli altari pagani assediati dai demoni, né la Figlia della Voce della nostra sapienza ebraica che non parla più perché nessuno può ascoltarla».

«O madre che prendi il mio dolore, l’umanità ha bisogno di trasformazione, ma non ne ha le forze. L’umano e il divino sono divenuti infinitamente incommensurabili, il baratro che li separa non è

a misura d’uomo e l’uomo è allora senza speranza di ascesa. E può il divino scendere fino alla pena umana? Può il divino andare all’umano? Come può avvenire che l’uomo si rigeneri secondo il divino se il divino stesso non penetra in lui così che la parola cosmica sia pronunciata dall’uomo stesso?».

Dibattito

Intervento: Non ho ben capito come sia possibile che, alla fine dell’evoluzione, ogni Io umano sia dentro gli altri Io nell’unico corpo del Cristo.

Intervento: È l’eterno quesito del rapporto tra trascendenza e immanenza. La trascendenza è un’immagine dell’estrinsecità (separazione) degli esseri gli uni rispetto agli altri e l’immanenza è un’immagine dell’intrinsecità (compenetrazione) degli esseri gli uni rispetto agli altri. Una prima riflessione che si può fare è questa: se contemplo una foglia o una pianta con sguardo goethiano, mi rendo conto che è un’immagine spaziale e materialistica quella che mi fa dire: la pianta è lì e io sono qui. Io, infatti, sono qui soltanto in quanto pezzo di materia, ma questo pezzo di materia non sono Io, non è il mio Io. Nell’atto conoscitivo, che è un processo spirituale, io sono dentro la pianta: divento pianta. Questa immanenza di compenetrazione degli esseri nella realtà spirituale (il pensare è l’essenza dello spirito) è proprio il punto supremo della comunione di cui parlavamo. Quando io entro conoscitivamente nelle correnti vitali che fanno crescere e metamorfosare una pianta di rose, quando io sono compenetrato spiritualmente dell’intuito rosa, io sono rosa, spiritualmente. Nel processo conoscitivo mi sostanzio della legge immanente alla rosa che metamorfosa la materia in modo antigravitazionale e proprio in quel particolare modo che io chiamo rosa. L’essere rosa diventa essere del mio essere grazie al pensare.[98]

Riguardo alla comunione nel Cristo il mistero è ancora più arduo, perché da un lato il Cristo non è il mio Io, quindi non posso identificare il Cristo con me: il Cristo è sempre qualcosa d’altro oltre a ciò che io sono. D’altro canto il mio Io vero è un frammento dell’Io del Cristo. Certo, l’immagine frammento, come paragone, è presa dal mondo materiale: rimanda, per esempio, ai cocci di un vaso frantumato. Il nostro grande problema è che abbiamo il linguaggio tipico di una umanità che vive solo nel materiale: in tal senso tutto il linguaggio andrà rinnovato e spiritualizzato sempre di più. In questo contesto, allora, possiamo dire che l’Io di ciascuno di noi è un membro, un arto dell’Io totale del Cristo – e già questi termini si discostano dalla materia morta avvicinandosi di più all’organicità unitaria e vivente del mondo spirituale.

Nelle Scritture ci sono due immagini fondamentali dell’immanenza, della comunione e compenetrazione degli esseri: l’immagine paolina e quella giovannea.

Paolo parla del corpo umano di cui il Cristo è il capo e noi siamo le membra:[99] c’è qui un’unità, ma anche una distinzione.

Giovanni, che è il discepolo più spirituale, capace di cogliere la perfezione ultima dove l’immanenza più profonda è al contempo l’esperienza dell’individualità suprema, parla della vite di cui noi siamo i singoli tralci.[100] Non dice che Cristo è lo stelo o il gambo o la radice: è l’intera vite. Lui è il tutto, ma noi siamo i tralci viventi, non parti morte. Che rapporto c’è tra la vite e i tralci? Non è semplice, perché abbiamo nello stesso tempo un mistero di immanenza, cioè di identificazione assoluta fra vite e tralci, e un mistero di distinzione precisissima, perché un tralcio non è la vite.

È il duplice aspetto di un paradosso: se noi prendiamo soltanto un lato, quello luciferico di crederci noi stessi Dio, il Cristo, allora perdiamo il senso della nostra creaturalità; se prendiamo soltanto l’altro lato, quello della distinzione, il Cristo ci resta sempre fuori, non cogliamo la Sua reale inabitazione in noi, quella che gli consente di diventare l’essere del nostro essere. Tra queste due unilateralità c’è la realtà della reciproca compenetrazione, della trascendenza e dell’immanenza: il Cristo è trascendente il nostro essere in quanto gli è immanente più di noi stessi; ed è più immanente, più intimo al nostro essere in quanto lo trascende.

Perciò l’essere umano trova se stesso ed entra in se stesso nella misura in cui si trascende, si supera. Quando noi cogliamo la realtà dell’umano a questi livelli così profondi, dobbiamo esprimerci in paradossi, articolando gli aspetti uno dentro l’altro; soltanto ai livelli più superficiali possiamo considerare un aspetto a sé stante, lasciando da parte l’altro. Segno di una conoscenza sempre più sostanziale è proprio la capacità di percepire l’una nell’altra le grandi polarità dell’esistenza, invece di continuare a contrapporle.[101]

Un altro esempio è la polarità tra comunione e individualità, oppure comunione e libertà: normalmente si pensa che più c’è comunione e meno c’è libertà individuale e più c’è libertà individuale e meno c’è comunione. Ma se si penetra conoscitivamente nella profondità delle cose, queste polarità arrivano talmente a coincidere che appare chiaro come la vera comunione esista soltanto fra individualità libere, e l’individualità veramente libera si manifesti soltanto nella sua capacità di comunione. Libertà individuale e comunione sono un mistero unico: o crescono insieme o decrescono insieme. In questo senso il mistero dei misteri è la trascendenza dell’Io del Cristo rispetto al nostro Io e al contempo l’immanenza dell’Io del Cristo rispetto al nostro Io. In altre parole, noi siamo ancora molto estranei al nostro essere stesso e dunque siamo estranei al Cristo.

Intervento: Steiner ci parla dei due bambini Gesù e di una loro ben precisa genealogia: come è possibile, allora, dire che il Cristo Gesù non avesse maturato nessun karma?

Archiati: Quando Steiner parla dell’operato del Cristo che non proviene da nessun karma e non genera nessun karma, non si riferisce a Gesù di Nazareth, cioè all’essere umano portatore del Cristo. Il nostro grande problema è quello di fare del Gesù e del Cristo un unico essere: invece quello che nasce a Betlemme è Gesù (un essere umano) e quello che nasce-discende nel Gesù trentenne, durante il Battesimo nel Giordano, è il Cristo, l’Essere solare. Nei vangeli troviamo quasi sempre questa traduzione delle parole che accompagnano il Battesimo nel Giordano: «Tu sei il mio Figlio diletto, in te mi sono compiaciuto».[102] I Padri della Chiesa Diogneto, Giustino, Clemente, Origene, Ilario, Agostino e altri invece leggono: UƒÒj mou ™gë s»meron gegšnnhk£ se (uiós mu ei sú egò sémeron gheghénneká se): «Tu sei il mio Figlio diletto, oggi io ti ho generato».

La figura di Gesù di Nazareth, come abbiamo visto, è molto complessa: se consideriamo il suo Io dai dodici ai trent’anni, è l’Io di Zarathustra dentro la corporeità del Gesù descritto nel Vangelo di Luca, lo stesso Io che dalla nascita fino ai dodici anni era dentro la corporeità del Gesù di cui ci parla il Vangelo di Matteo. Zarathustra è l’essere umano che ha più incarnazioni dietro di sé e che, in un certo senso, ha costruito proprio il karma più vasto e complesso che si possa immaginare: e questo suo karma si svilupperà in tempi successivi. Quindi il riferimento all’assenza di karma ha a che fare col Cristo, non con Gesù di Nazareth.

Intervento: La caduta dell’umanità è un fatto pensato dalle Gerarchie: a questo proposito, se mi convince la gratuità dell’intervento libero del Cristo nel mistero del Golgota, non capisco l’assenza totale di karma da parte del mondo divino nei confronti dell’umanità. L’evento del Golgota non è conseguenza di un altro fatto (la caduta umana) che era stato precedentemente voluto dalle Gerarchie?

Archiati: Se la caduta richiamasse di necessità la redenzione, il cammino di redenzione non potrebbe essere un cammino di libertà, perché sarebbe esso stesso necessitato. Ora, poiché l’essenza della caduta è proprio il costruire gradualmente la libertà, bisogna che la redenzione sia un fatto libero, né dovuto, né necessitato. Tant’è vero che la redenzione non c’è automaticamente per tutti: per coloro che non vogliono non ci sarà. Quindi il fatto di spostare unilateralmente l’accento sulla necessità, sul dovuto della redenzione, vanifica tutto il mistero della libertà, fondamento della prima parte dell’evoluzione. In questo senso è importante sottolineare il fatto che il Cristo poteva anche non venire, che la Sua scelta è stata libera, e che se non fosse venuto la possibilità di redenzione non ci sarebbe stata.

Ritenere, inoltre, che il Cristo abbia semplicemente compiuto ciò che altri Esseri spirituali avrebbero avuto la necessità karmica di compiere, significa procedere per astrazioni, significa interpretare la seconda parte dell’evoluzione nella stessa chiave della prima. La prima metà dell’evoluzione, quella sì!, era sotto il registro della necessità, anche se al suo interno sono sorti i fondamenti della libertà. Ma a partire dall’evento del Golgota siamo alla svolta dei tempi, siamo al metanoete (metanoeite) «mutate mente!» di Giovanni il Battista:[103] metanoete (metanoeite) non significa, come spesso leggiamo nelle traduzioni, convertitevi, ma significa invertite il vostro modo di pensare, mutate mente!. Qui siamo all’ingresso nell’umanità dell’Io Sono e della libertà. E qui si innesta un’altra verità evolutiva: dove non c’è nessuno da ringraziare non c’è nessuna gratuità, perché tutto è dovuto, tutto è avvenuto per necessità. E dove non c’è la gratuità non c’è la libertà: così si vanifica l’intera evoluzione. Il Cristo ha visto e ha capito che per far risalire l’umanità era necessaria l’incarnazione e per immettere le forze di riascesa era necessaria la redenzione. Ma tutto questo non era dovuto. La necessità oggettiva è stata fatta propria dal Cristo che ha deciso liberamente di essere colui che avrebbe messo a disposizione le forze di redenzione.

Intervento: Ma allora la libertà è stata creata? Prima non c’era?

Archiati: È stata creata, cioè conferita all’uomo, la possibilità della libertà, perché se gli Esseri spirituali avessero creato la libertà e ce l’avessero data già fatta noi l’avremmo sperimentata come un dato di natura. La libertà è una realtà complessa: nella prima parte dell’evoluzione sono state create le condizioni necessarie della libertà, non la libertà. La libertà stessa bisogna che ciascuno la costruisca liberamente. La libertà non viene da sola: o la faccio venire io o non viene mai. Se interpretiamo la seconda parte dell’evoluzione nella stessa chiave della prima, non vediamo più l’inversione (metanoete, metanoeite) della legge fondamentale dell’evoluzione, la svolta dalla legge di necessità alla legge di libertà.

Intervento: Se l’uomo non sarà capace di costruire la libertà, allora tutta l’evoluzione potrebbe andare a finire nell’abisso?

Archiati: Un’altra differenza fondamentale tra la prima parte dell’evoluzione e la seconda, è che nella prima parte abbiamo sempre il diritto di parlare dell’uomo in senso generale – perché questa prima via, in fondo, era uguale per tutti. Nella seconda parte, invece, dobbiamo parlare degli uomini singoli e individuali che diventano del tutto diversi gli uni dagli altri. Ne consegue che quando lei, riferendosi alla seconda parte evolutiva, parla dell’uomo, io devo ulteriormente chiederle: di chi parla?, perché qui diventiamo individuali e dobbiamo parlare di chi sale e di chi scende. Non si può parlare in generale. Uno diventa sempre più libero, un altro si irretisce sempre di più in meccanismi di non libertà.

Premesso questo, la sua domanda è molto importante: è possibile che esseri umani vadano verso l’abisso così da far fallire l’evoluzione terrestre? Steiner dice: se noi escludessimo, per principio e in partenza, questa eventualità, non prenderemmo sul serio il grande rischio delle Gerarchie, che è quello della libertà dell’uomo. Ciò significa che dobbiamo sempre mantenere vivo dentro di noi il senso tragico dell’evoluzione. Perché? Perché quando noi escludiamo in modo assoluto questa possibilità, per forza d’inerzia dobbiamo dire: in fondo, non importa in che modo ci si comporti, tanto andrà tutto a finire bene. E la libertà è di nuovo sparita!

La voce tragica della serietà e dell’urgenza dice: stiamo attenti!, perché si potrebbe sprofondare a livelli in cui diventa impossibile risalire. Questo è un discorso eminentemente cristico, di responsabilità: se non vigiliamo, si apre la tenebra della nostra libertà, e le Gerarchie non ci possono impedire di precipitarvi dentro, perché se lo facessero vanificherebbero la nostra libertà. Un essere umano superficiale che dica: ma tanto Dio è buono, e tutto andrà a finire bene – non ha capito l’evento del Cristo. La libertà è una cosa seria: è l’alea, il rischio assoluto di tutte le Gerarchie spirituali, soprattutto se guardiamo cosa l’umanità sta facendo. Non ci è concesso di cullarci sui cuscini: o l’evoluzione la facciamo andare a finire bene noi, oppure precipiteremo a ritornare esseri di natura.

Qual è la prospettiva ultima che i vangeli ci danno? Non dico che sia l’ultimissima e poi nulla sia più possibile, ma l’ultima dei vangeli non è una prospettiva di salvazione generale: parla di quelli che sono alla destra e quelli che sono alla sinistra del Cristo. Leggete Matteo 25. Il Vangelo ci dice: attenti!, non va tutto automaticamente bene nell’evoluzione, altrimenti non sareste liberi! Coltivare la scienza dello spirito aiuta a conoscere la natura dell’evoluzione e quindi anche la responsabilità dell’uomo, a cui non è più concesso di dormire. Immani processi di distruzione sono in atto, per chi li sa vedere, e non sono segni di evoluzione positiva; dobbiamo cambiare radicalmente il nostro modo di trattare la Terra, per esempio, non sfruttarla soltanto senza mai arrivare a capire che è il corpo del Cristo.[104]

Aggiungiamo un’altra riflessione: il cammino verso le tenebre e il cammino verso la luce (tanto per usare metafore) non sono una questione di quantità ma di qualità. Il bene non è quantitativamente diverso dal male, ma qualitativamente: se ci fossero soltanto tre esseri umani a compiere veramente e fino in fondo l’evoluzione, questo bene sarà, qualitativamente, infinitamente più forte di quell’assoluta debolezza che è il male. Un essere umano che conosca la differenza infinita tra la forza radicale del bene e la debolezza radicale del male, sa che il male, per natura sua, non potrà mai vincere sul bene. Il male è di per sé la sconfitta. Come potrebbe prevalere? Questo è l’ottimismo cristiano, l’altro lato della medaglia. Non è questione di numeri: quanti saranno di qua e quanti di là. No! Basta che ce ne sia uno! E quest’Uno già c’è: il Cristo. Quindi la Terra è già salva.

Ma c’è anche la serietà assoluta della possibilità per ogni essere umano della caduta ultima. Queste polarità vanno messe insieme: e allora sarà possibile dire che tutto andrà a finire bene perché il Cristo non va mai nell’abisso, ma anche che ognuno può procedere verso un’evoluzione negativa.

Abbiamo già visto che un altro aspetto importante va considerato: l’evoluzione umana in senso negativo consiste nella vanificazione, nella perdita graduale della propria umanità, nel decadere al livello della Bestia, come dice l’Apocalisse. Ciò vuol dire che nessun essere umano verrà escluso dalla salvezza, proprio perché gli esseri che verranno esclusi avranno cessato di essere umani.

Settima conferenza

LE TRE GRANDI TENTAZIONI

Firenze, 5 gennaio 1992

Perché i vangeli non parlano della vita di Gesù
dai dodici ai trent’anni?

Cari amici,

nelle conferenze raccolte sotto il titolo Il quinto vangelo, Rudolf Steiner afferma che i quattro vangeli tradizionali non parlano del triplice cammino di Gesù di Nazareth dai dodici ai trent’anni per motivi facilmente comprensibili. Forse alcuni di voi, soffermandosi su questa frase, si saranno detti che poi tanto facilmente comprensibili non sono, questi motivi. E allora, se vogliamo stabilire sempre di nuovo un dialogo con la cultura tradizionale – dialogo che io ritengo importantissimo, perché la tradizione dei secoli è il passato di tutti noi, è il terreno dove noi stessi affondiamo le nostre radici evolutive –, dobbiamo essere in grado di giustificare perché i vangeli tradizionali, dati all’umanità all’inizio del cristianesimo, non potessero parlare delle esperienze fatte da Gesù di Nazareth dal dodicesimo al trentesimo anno.

Quali sono questi motivi facilmente comprensibili che hanno indotto gli evangelisti a tacere? L’esperienza di immenso dolore sorta in Gesù di Nazareth di fronte alla cecità cui erano pervenuti l’ebraismo, il paganesimo e la via esoterica (l’essenismo), trova eco nella frase evangelica: «Ebbe misericordia delle folle».[105] L’aver accolto nel cuore la tragedia umana aveva fatto crescere in Lui le forze della misericordia, della compassione. Se gli evangelisti, però, avessero parlato esplicitamente del triplice decadimento umano che ben conoscevano, avrebbero gettato nella disperazione gli uomini che erano inseriti in quelle tre correnti di tradizione. Li avrebbero resi consapevoli prematuramente del fatto che l’umanità era giunta a un punto infimo dell’evoluzione, e che non aveva oggettivamente le forze per riascendere. Bisognava, invece, che prima avvenisse il fatto mistico reale di trasformazione della Terra, bisognava che si inserisse l’evento terapeutico dell’operare positivo del Cristo: soltanto dopo secoli e secoli si sarebbe potuto parlare della spaventosa rovina umana.

E ne parla la scienza dello spirito, per prima. Ora è possibile conoscere i misteri dell’evoluzione senza restarne schiacciati perché noi sappiamo, al contempo, che l’Essere del Sole ha già operato per duemila anni così da porci in grado di invertire l’evoluzione, di vivere la svolta, perché le Sue forze reali sono con noi. E se lo vogliamo saranno dentro di noi.

Nella pedagogia cosmica di conduzione dell’umanità non sarebbe stato saggio rivelare duemila anni fa la negatività assoluta di ogni tradizione, quando le forze nuove di trasformazione della Terra avevano appena cominciato a operare, e non sarebbero ancora state sperimentabili. L’Essere dell’Amore non si è incarnato per evidenziare la malattia mortale degli uomini: è venuto per portare le forze di guarigione.

Il segreto della negatività umana l’ha preso per sé, l’ha conservato nel suo cuore, l’ha vissuto e patito come Gesù di Nazareth, ma non l’ha comunicato. Con l’unica eccezione della madre, che per questo si è trasformata a un segno tale da poter accogliere in sé la totalità delle forze virginee, immacolate, che provenivano dall’altra madre, ascesa nei mondi spirituali. Ora, dopo duemila anni, abbiamo Il quinto vangelo di Rudolf Steiner che narra questi cammini di infinito dolore: è un inizio per gli esseri umani, affinché comprendano il mistero del Golgota e possano togliere il velo che ancora nasconde la realtà vera dell’evoluzione umana.

Gesù verso il Giordano: l’incontro con gli esseni

Dopo il dialogo con la madre, Gesù di Nazareth sentì come se, insieme alle sue parole, si fosse effusa tutta la sua esperienza di vita, dai dodici ai trent’anni: la madre adottiva piena d’amore ora la custodiva. Trascorsero giorni, ci descrive Steiner, in cui Gesù visse come in uno stato di sogno, fra lo sgomento dei fratelli e degli altri parenti che lo credevano uscito di senno: l’Io di Zarathustra lo stava abbandonando perché ormai l’evento del Cristo era prossimo. Spinto da un impulso interiore, Gesù prese un’ultima decisione: uscì di casa e si avviò verso il Giordano.

Narra Steiner:

«Dopo che terminò il colloquio con la madre, si sentì spinto dallo spirito verso il Giordano per andare da Giovanni. Sulla via incontrò due esseni con i quali Egli spesso aveva avuto dei colloqui. Egli non li riconosceva, ma essi lo riconobbero molto bene:

‹Dove porta la tua via?›, gli chiesero.

‹Là dove anime del vostro tipo non vogliono ancora guardare, là dove il dolore dell’umanità può trovare i raggi della luce dimenticata›, rispose Gesù. I suoi occhi erano pieni di amore, ma il suo amore operava su di essi come se venissero colti in fallo. ‹Che anime siete, voi? Dov’è il vostro mondo? Perché vi avvolgete in manti di illusione, perché brucia nel vostro animo un fuoco che non è stato acceso nella casa del Padre mio?›.

Essi non compresero le sue parole, e notarono che egli non li riconosceva. «Gesù di Nazareth» gli dissero «non ci conosci?»

«Voi siete come pecore smarrite: io, invece, ero il figlio del pastore dal quale voi siete fuggiti via. Se voi mi conosceste veramente, voi scappereste di nuovo via da me. È passato tanto tempo da quando voi siete fuggiti via da me nel mondo».

Essi non sapevano che cosa dovessero pensare di lui, ed egli disse:

«Voi portate il marchio del Tentatore dentro di voi. Col suo fuoco egli ha reso luminosa e lucente la vostra lana, e i peli di questa lana pungono il mio sguardo. Il Tentatore vi ha raggiunti nella vostra fuga e ha intriso le vostre anime di superbia».

Uno degli esseni prese a parlare e disse: «Non abbiamo noi forse cacciato via il Tentatore dalle nostre porte? Egli non ha più nessuna parte in noi».

E Gesù disse: «Sì, voi lo avete cacciato via dalle vostre porte e perciò egli è corso via ed è venuto verso gli altri uomini. Egli vi guarda beffardo da tutte le parti. Voi non innalzate voi stessi quando abbassate gli altri. Avete l’impressione di essere in alto soltanto per il fatto che avete reso più piccoli tutti gli altri».

Essi furono presi da spavento, Gesù sembrava sparire dal loro sguardo e da lontano videro il suo volto ingrandirsi all’infinito e udirono le sue parole:

«Vana è la vostra ascesi perché il vostro cuore è vuoto: il cuore che avete riempito con lo spirito che alberga in sé l’orgoglio sotto la parvenza ingannevole dell’umiltà».

Per lungo tempo non videro nulla: quando furono rientrati in sé, Gesù di Nazareth era andato molto più avanti – via da loro. Non parlarono mai agli altri esseni di ciò che avevano visto, ma tacquero su questo evento per tutta la loro vita».

Queste sono rivelazioni dal mondo spirituale di illimitata importanza: dicono che o c’è salvezza per tutti o non c’è per nessuno. Riandiamo al colloquio di Gesù con la madre, quando racconta la visione del Buddha: questa individualità così altamente evoluta, vera ispiratrice della dottrina degli esseni, nei cinquecento anni intercorsi tra la vita in cui da Bodhisattva divenne Buddha fino all’evento del Golgota, cominciava la sua via di avvicinamento al Cristo, accompagnando dai cieli la profonda sofferenza del Gesù. E gli esseni, nei sei anni in cui ebbero molti incontri con Gesù di Nazareth benché non appartenesse alla loro comunità, riconoscevano in lui un essere del tutto particolare e perciò gli confidarono i segreti più profondi del loro ordine.

Cosa vuol dire che non esiste una salvezza privata, di esclusione? Non basta a questo proposito dire che noi siamo membri gli uni degli altri, non basta dire che siamo articolati gli uni negli altri, che siamo un corpo solo, che siamo una umanità sola, perché questi enunciati, che già conosciamo, sono diventati troppo astratti. Bisogna riprenderli attraverso una nuova scienza dello spirito.

Partiamo dal fatto che Cristo non è venuto per i sani ma per i malati, non per i giusti ma per i peccatori, cioè per coloro che nell’evoluzione sono rimasti indietro. È fondamentale nei vangeli la prospettiva che l’Essere più evoluto del nostro cosmo viene per gli ultimi e fa degli ultimi i primi, ponendosi là dove essi sono e colmandoli del suo stesso splendore.

Qual è il debito di colui che è andato avanti nell’evoluzione? Qual è il karma di colui che è più progredito di altri? Si può andare avanti soltanto per prestito, soltanto per donazione: e la donazione la fa colui che accetta di restare indietro. In ogni restare indietro, che sia consapevole o no, c’è il mistero della rinuncia, c’è il mistero del sacrificio e dell’offerta.

Se è vero che noi siamo una umanità sola, ciò che viene dato a uno viene tolto a un altro. Non c’è nulla di quel che noi abbiamo che non sia stato tolto. Non c’è nulla di ciò che noi siamo che non ci sia stato dato dalle potenzialità presenti in tutta l’umanità: invece di ritenerle per sé, altri esseri umani le hanno messe a disposizione degli altri. Ciò significa che ciascuno di noi deve tutto a tutti. E colui che è più progredito, poiché ha ricevuto di più, deve di più. Ecco il mistero della lavanda dei piedi:[106] essere più avanti corrisponde all’avere più responsabilità, all’avere un debito più grande. E il lato positivo di questo debito è la gratitudine. È questo il gesto del Cristo: la Terra, in tempi molto antichi,[107] ha accettato il sacrificio di restare indietro e di lasciare che l’Essere del Sole, il Cristo stesso, si distaccasse da lei. La Terra con la sua rinuncia ha permesso all’Essere solare di procedere secondo le sue proprie leggi evolutive. Il Cristo non ha considerato questo Suo ascendere come un vanto ma come un debito, una realtà di gratitudine: è tornato a rendere amore a noi che abbiamo accettato di restare sulla Terra. Il Suo non era un debito karmico in senso umano ma un debito cosmico, che è di tutt’altra natura.

Il mistero dell’offerta è centrale nello spirito del Cristo perché ci fa capire che nessun essere umano è migliore o maggiore di un altro. Ciò che noi siamo, lo siamo tutti insieme. È assurdo pensare che la mano, nel corpo, sia di più del piede, è assurdo pensare che la testa sia di più del cuore: o tutto l’organismo è di più, o tutto l’organismo è di meno. O noi ci eleviamo tutti insieme, o cadiamo tutti insieme. Non è possibile che un essere umano evolva abbassando altri esseri umani.

Ricorderete quel bellissimo episodio del Vangelo dove, di fronte alla donna colta in flagrante adulterio, gli scribi e i farisei stanno con le pietre in mano, pronti a lapidare. L’elemento impietrito del cuore che non conosce amore, che non conosce gratitudine, che invece di costruire l’umano è pronto a distruggerlo secondo la Legge, dice al Cristo: «Ma Mosè ci ha detto che questo tipo di donna va lapidata!». E l’Essere dell’Amore risponde: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra».[108] Ciò vuol dire che ciascuno di noi è direttamente responsabile del cammino di tutti: siamo responsabili del cammino di coloro ai quali abbiamo permesso di andare avanti, perché questa è stata la nostra rinuncia, ma siamo responsabili anche del cammino di chi abbiamo lasciato indietro. Ogni azione umana è un’azione compiuta da ciascuno di noi. Non possiamo mai dire: io non c’entro. Non possiamo mai tirarci fuori dalla comunanza umana, che è la comunanza nel Cristo. Chi è rimasto indietro, anche l’omicida, è un frammento di noi, e ci ha permesso di procedere nella speranza che la nostra gratitudine fosse così forte da tornare indietro per accoglierlo nel cuore e camminare insieme.

Nel Vangelo di Giovanni il Cristo dice: voi ebrei vi fate forti della fede giudaica che dice: «Io e il padre Abramo siamo una cosa sola», ma ora viene il tempo nell’umanità in cui questo detto muta nell’altro: «Io e il Padre siamo una cosa sola».[109] Che differenza c’è?

«Io e il padre Abramo siamo una cosa sola» è il vanto di un popolo prediletto che si riconosce nel suo capostipite, e allora pochi sono i privilegiati per destino e gli altri vengono esclusi. È l’orgoglio della carne, è la presunzione illusoria di una redenzione che non comprende tutta l’umanità.

«Io e il Padre siamo una cosa sola», fa riferimento non al padre Abramo, ma al Padre dei cieli che è Padre di tutti gli uomini. Quando noi stabiliamo la comunanza non col padre Abramo, non con un egoismo di gruppo o di sangue, ma con la realtà del Padre universale, allora sappiamo che o lavoriamo alla salvezza di tutti o lavoriamo alla rovina di tutti. Non è possibile, nell’amore del Cristo, che un essere umano faccia anche un solo passo avanti respingendo indietro un altro. Se accade, questo passo avanti è un’illusione, è un doppio passo indietro. Nell’amore del Cristo si cresce soltanto facendo crescere gli altri, si progredisce soltanto facendo progredire tutti.

Le conseguenze di questi pensieri possiamo immaginarle: quanti progetti sociali si attuano, oggi, nella tentazione di creare una qualche area di salvezza che non ci comprende tutti! No, questa salvezza non esiste, non esiste economicamente, giuridicamente e nemmeno culturalmente![110] O facciamo progetti veri che ci portino tutti in avanti, oppure regrediamo sull’intera faccia della Terra.

Nella prima metà dell’evoluzione abbiamo cercato di procedere lasciando indietro gli altri: ciascuno di noi ha arraffato, ha preso a piene mani per sé, e proprio questo ci ha reso egoisti, come era necessario che fosse. Finora non ci siamo mai resi conto della bellezza di gioire delle qualità altrui come se fossero nostre: finora le abbiamo invidiate. Sappiamo godere soltanto di ciò che ci illudiamo di possedere in esclusiva.

Andare avanti senza curarsi dell’evoluzione altrui è la libertà negativa di cui ho spesso parlato, è la base per la vera evoluzione positiva, è il presupposto per la libertà. L’evoluzione positiva vera comincia quando si ritorna indietro per riportare con sé tutti gli altri, a partire dall’ultimo. Ecco perché c’è più festa in cielo per una pecorella smarrita che è stata ritrovata, che non per le novantanove che sono ancora nell’illusione di non essersi mai smarrite.

In questa visione di salvezza universale, qual è il vero volto del perdono? È un grande mistero sul quale dobbiamo sempre di nuovo meditare. Cosa vuol dire perdonare? Vuol dire comprendere che la nostra gratitudine può essere senza confini. Perdonare significa assumersi per l’avvenire una responsabilità universalmente umana. Il vero perdono si compie quando io vedo l’azione dell’altro e capisco che è la mia: perché soltanto delle mie azioni io conosco il fondamento e soltanto a me stesso io posso perdonare veramente.

Tu sei io e io sono tu: questo è il perdono universale, dove noi siamo tutti in tutti.

Sul tema della salvazione privata si potrebbero fare tante considerazioni, anche di carattere storico: ci potremmo riferire, ad esempio, alla mentalità dell’ascesi monastica, dove ancora in un certo senso mancava la consapevolezza del carattere assolutamente unitario dell’umanità in Cristo. Nel Cristo non ci sono zone riservate: è di tutti ed è in tutti. Entrare dentro di Lui è entrare dentro l’essere di ogni uomo.

In questa luce, l’incontro di Gesù con gli esseni sulla via del Giordano può essere messo in rapporto con una delle tre tentazioni del Cristo: quella operata da Lucifero e Arimane congiunti. L’atteggiamento interiore luciferico degli esseni, fatto di orgoglio e presunzione, scatena Arimane sul resto dell’umanità, rendendola sempre più schiava dei determinismi di materia. Arimane è sempre il karma di Lucifero: quanto più noi siamo preda di Lucifero, tanto più attiriamo attorno a noi, sugli uomini attorno a noi, la violenza potente di Arimane.

Gesù verso il Giordano:
l’incontro col disperato e col lebbroso

Il secondo incontro di Gesù di Nazareth sulla via del Giordano, di cui ci parla Il quinto vangelo, è quello con un essere umano disperato nel profondo della sua anima: alla vista di Gesù che avanzava come rapito fuori dalla realtà terrena, quell’uomo si impressionò molto, tanto da suscitare in Gesù stesso queste parole:

«A che cosa ti ha condotto la tua anima? Ti vidi già migliaia di anni fa: allora eri diverso».

E l’uomo rispose:

«Io una volta ero pieno di onori e depositario di cariche importanti e dicevo con orgoglio a me stesso: ‹come sono diverso da tutti gli altri!, come mi sono innalzato al di sopra di tutti!› Ma un giorno mi apparve in sogno un Essere che mi diceva: ‹Io ti ho innalzato, non tu. Tutte le tue qualità non vengono da te, te le ho date io›. Io ne ebbi una tale vergogna che da allora vado errando disperato».

In quel momento, narra Steiner, la figura del sogno si elevò tra Gesù e il disperato, per poi di nuovo scomparire. Era Lucifero. Qui si annuncia la seconda grande tentazione del Cristo, la tentazione luciferica, illusione di tutte le illusioni: innalzare se stessi sopra gli altri esseri.

Infine Gesù, sempre nel suo incedere abbandonato dall’Io, incontrò un lebbroso, in preda a tali atroci sofferenze da richiamare di nuovo la Sua parola:

«A che cosa ti ha condotto la tua anima? Ti vidi già molte migliaia di anni fa: allora eri diverso».

E il lebbroso rispose: «La malattia mi prese un po’ alla volta e gli uomini non mi tollerarono più tra loro. Ai margini di un bosco fitto, una notte vidi un albero luminoso attirarmi: da quella luce

uscì uno scheletro e io capivo che era la morte. ‹Perché ti spaventi? Non ti accorgi che io sono quell’Arcangelo che tu credevi di amare?›. E allora al suo posto mi apparve l’Arcangelo bellissimo che io avevo sempre amato. Quando mi risvegliai al mattino sotto quell’albero, capii che tutti i piaceri della vita che avevo adorato erano connessi con quell’Essere».

Tra Gesù e il lebbroso si stagliarono allora lo scheletro e poi l’Arcangelo: e Gesù scomparve alla vista del lebbroso.

La lebbra è lo sfigurarsi della forma del corpo fisico, è entrare da vivi nella morte che scioglie la figura del corpo fisico: questa è l’opera dell’Arcangelo Arimane, che vuole l’uomo inserito come uno schiavo nelle leggi della materia, affinché dissolva in esse ogni possibilità di libertà.

Gesù di Nazareth riassume dunque nel suo essere, in questi tre incontri, la vicenda del corpo fisico, del corpo eterico e del corpo astrale dell’umanità: e queste tre realtà porta incontro al Cristo, sulle rive del Giordano.

«Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: – Tu sei il mio Figlio prediletto: oggi io ti ho generato».[111]

Le tre grandi tentazioni

L’Essere cosmico divino che per la prima volta entra in un corpo umano, risultato di tutto il cammino dell’evoluzione terrestre, è esposto immediatamente alle tre tentazioni[112] – nonostante i tre corpi di Gesù di Nazareth fossero i più purificati che si possano immaginare.

Qual è la tentazione del corpo astrale, la tentazione di Lucifero nell’anima umana? È quella che dice: «Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo». È la tentazione dell’anima umana che vuol rilucere perché altri poi ripetano il gesto di inginocchiarsi davanti a lei. È l’illusione, la stessa che incatena Lucifero, di innalzarsi avvilendo gli altri.

Lucifero è vinto dal Cristo che risponde: «Sta scritto: solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai». E il Signore di ogni uomo è la scintilla dell’Io divino che irradia nell’interiorità e parla il linguaggio della comunanza, della reciproca appartenenza nello spirito. La vera forza di luce sovrana è quella dell’Io, mentre Lucifero abbaglia, acceca.

Vengono poi all’attacco del Cristo Lucifero e Arimane, tutti e due insieme, e lo pongono di fronte all’esaltazione, da un lato, e alla paura dall’altro:

«Buttati giù dal pinnacolo del tempio, sta scritto infatti: ‹Ai suoi Angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano› », dice Lucifero che spinge a sfidare le leggi di gravità, le leggi dell’incarnazione.

E Arimane, che tenta dal lato della paura, dice: «Sta scritto: ‹Essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra› ».

«Buttati giù» significa: il tuo spirito è così forte da poter vincere tutto.

«I suoi Angeli ti sosterranno» significa: la caduta nella materia non è un vero cadere, si resta sostenuti.

Il tempio è la corporeità umana, il pinnacolo è il polo della testa, del pensiero, dove noi cominciamo ad essere coscienti. Il senso delle parole di Lucifero e Arimane congiunti è allora questo: «Abdica alla coscienza desta e sprofondati negli istinti e nelle passioni di natura, nel buio dell’inconscio che è giù in fondo. Tu, vivendo in questi istinti, non decadrai, ma troverai il tuo vero essere».

Queste parole di Lucifero e di Arimane il darwinismo ce le ha ripetute in tanti modi, cercando di convincerci che l’uomo è solo un animale superiore. «L’uomo è un animale superiore» è la traduzione esatta, in chiave moderna, dell’espressione «Buttati giù, che tu non decadrai». Ignora ciò che è umano in te, ritorna a un’animalità di puri istinti, buttati giù nel polo inferiore del vitale, abdica al polo della coscienza e troverai il tuo vero essere, perché tu sei un magnifico animale!

Se comprendiamo il carattere preciso e tecnico di queste espressioni dei vangeli, le ritroviamo in tutte le grandi tentazioni dell’umanità: e l’ultima è stata proprio quella di interpretare l’evoluzione senza lo specifico umano, quello che va ben oltre l’animalità in noi (che pure c’è). In aggiunta a questo è invalsa anche una falsa interpretazione della spontaneità, dove ci si dice reciprocamente: «Ma lasciati andare! Sii spontaneo!». «Buttati giù» è diventato «lasciati andare!». In altre parole, lascia l’animalità esprimersi dentro di te e così va bene perché manifesterai te stesso.

Questa è la tentazione del corpo eterico, perché le forze eteriche, costruttrici di vita, sono le stesse che ci consentono di conoscere com’è fatto il mondo e come siamo fatti noi stessi. Se l’uomo interpreta l’uomo senza verità, se l’uomo interpreta l’evoluzione secondo l’errore va contro l’uomo, snatura il suo corpo eterico, lo fa decadere.

Il Cristo risponde ai due demoni congiunti: «Sta scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo», sta scritto che non si potrà ingannare la forza conoscitiva e morale dell’Io che scorgerà l’errore e la menzogna.

Ma la terza tentazione, quella che riguarda il corpo fisico, è la più ingannevole: nel mondo della materia in cui di necessità tutti siamo discesi, in questa fisicità con la quale tutti dobbiamo fare i conti, qui Arimane si sente forte e dice al Cristo: «Di’ a questa pietra che diventi pane». Fa’ delle pietre il tuo pane. Nessun essere umano può vivere senza fare i conti col mondo minerale, col mondo visibile e morto: questo è il tuo pane (l’abbiamo già visto nel Padre Nostro rovesciato), questa è la tua casa, senza la materia tu stesso non puoi vivere sulla Terra solida. Cambia le pietre in pane: fa’ del mondo fisico il tuo unico nutrimento. Il regno della morte è qui sulla Terra la vita vera, e devi fare della materia il tuo pane di vita. Neanche tu, o Cristo, se dici di esserti incarnato a misura d’uomo, neanche tu potrai vivere senza fare di ciò che è pietra la tua vita.

La risposta del Cristo a questa tentazione non può essere totale. Egli non può dire: «Io non ho bisogno del regno della materia» perché questo vorrebbe dire disincarnarsi di nuovo. E allora deve rispondere: «Non di solo pane vivrà l’uomo» e, quindi, anche di pane. È vero, dice il Cristo ad Arimane, che l’uomo deve inserirsi nella materia perché senza materia non può vivere umanamente, però questo pane, questa materialità, non è il tutto del suo essere: ne è il come, ne è il modo. L’uomo vive veramente di ogni parola che esce dal divino e dal divino entra nell’umano: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».[113]

Il modo del tutto umano di incontrare la materia dal suo interno implica un’altra necessità: la morte. Il Cristo, per compiere fino in fondo la redenzione umana, deve acconsentire alla materia, a quella stessa materia che, trasformata in monete d’argento, sarà il pane di Giuda, colui che tradisce e apre al Cristo la via del Golgota. Soltanto tre anni dopo questa tentazione, passando Egli stesso attraverso l’esperienza della morte umana, il Cristo potrà vincerla e dire ad Arimane che la morte è una grande illusione, che materia e morte non sono una condanna, ma sono le condizioni per la libertà umana.

Come il Cristo anche noi, se lo vogliamo, abbiamo ora le forze resurrezionali e di redenzione da opporre a Lucifero e ad Arimane quando tentano di svilire e mortificare il nostro corpo astrale, il nostro corpo eterico e il nostro corpo fisico.

Dibattito

Intervento: Si è detto che se anche un solo essere umano compisse l’evoluzione, basterebbe, perché in lui la compirebbe tutta l’umanità. In seguito si è affermato che la salvezza privata è un’illusione, perché o ci salviamo tutti o non si salva nessuno. Come conciliare queste due prospettive?

Archiati: Facciamo qualche altra considerazione sulla dimensione del debito: cosa significa essere più evoluti? Supponiamo di andare avanti qualche migliaio di anni: l’essere umano A è progredito, ha percorso una serie di incarnazioni tutte positive, mentre l’essere umano B ha avuto un paio di incarnazioni in chiave negativa. Che rapporto hanno tra di loro? A ha un debito verso B: gli deve la sua evoluzione. Ma se diciamo che l’evoluzione di A è dovuta a B, allora dove va a finire la libertà di A?! Ogni volta che qualcuno regredisce è perché qualcun altro, liberamente, tralascia di aiutarlo. Perché? Per aiutarlo più tardi. Questo è il mistero. Non esiste salvezza privata perché se fosse anche uno solo a raggiungere la pienezza dell’evoluzione, questa pienezza non gli apparterrebbe in esclusiva ma sarebbe sostanza dell’umanità intera.

Consideriamo la cosa dal lato della vita di tutti i giorni, e prendiamo un papà o una mamma che dicono: da una lato ci sarebbe la famiglia, dall’altro c’è un convegno dove mi piacerebbe andare. È chiaro che scegliendo di andare a fare qualcosa che piace a me, do la preferenza al mio essere in quanto distinto dal resto della famiglia, che in questo caso pongo in secondo piano. Che tipo di fenomeno è quello, frequentissimo!, di dare a se stessi opportunità di crescita, tralasciando di occuparsi degli altri?

Il modo umano di evolversi deve fare i conti con le due dimensioni dello spazio e del tempo: le dimensioni della compresenza e della durata appartengono al mondo spirituale, non al mondo umano. Dunque, quando siamo incarnati, il nostro essere si manifesta e si squaderna nella progressione del suo cammino in modo necessariamente unilaterale e limitato: se sono qui non sono là, se faccio questo adesso, farò quest’altro dopo. Ma ciò non toglie che, al di là dello spazio corporeo, noi siamo gli uni negli altri, e al di là del tempo ciò che io posticipo già è.

Allora, nel quotidiano, il fondamento della questione non sta tanto in quello che facciamo, qui e adesso, ma sta nel come. C’è un modo di pensare a me stesso che ignora il fatto che io sono membro degli altri, e ce n’è un altro che permane nella consapevolezza che ciò che io faccio per me è dovuto direttamente agli altri ed è fatto anche per loro. A seconda che ci sia o non ci sia questa coscienza di appartenenza, l’essere umano è egoista o è cristico.

Vi racconto un fatto che mi è accaduto quando ero missionario in Laos:[114] noi missionari credevamo di essere dei veri eroi perché ci sovraccaricavamo di lavoro. Mi ricordo molto bene che avevamo a disposizione, nel pomeriggio, sì e no un’oretta di tempo, essenziale per riposare un poco (dopo questa pausa io avevo i bambini più piccoli, prima, seconda e terza elementare). Un giorno venne il papà di un bambino, un buddhista, che aveva dei problemi con il figlioletto e me ne voleva parlare. Io sapevo che se avessi cominciato la conversazione, sarebbe trascorsa l’intera ora. Mi venne un’ispirazione e dissi a questo genitore: io adesso sono veramente stanco; se ti dedicassi questo tempo (e magari lo farei anche volentieri dimostrando a me stesso di essere generoso, cosa che mi piace molto) andrei poi davanti ai bambini in condizioni da rovinare le attività di scuola. Questa ora di riposo non è mia, non mi appartiene: appartiene a quei bambini davanti ai quali io ho il dovere di presentarmi fresco e disponibile. Quindi il mio essere riposato non è cosa che appartiene a me: appartiene a loro.

Glielo spiegai nel mio laotiano tutto rotto, ma capì molto bene. Alla fine pianse e mi disse: nessuno mai mi ha insegnato ad amare in questo modo. E se ne andò via. Da quel momento io capii qualcosa che fino ad allora era vissuta in me solo come teoria: apparteniamo veramente tutti gli uni agli altri, nessuno appartiene solo a se stesso. E per me quell’ora divenne sacra. Non avevo più il coraggio di fare di quel tempo ciò che mi pareva, perché avevo sperimentato davvero che non mi apparteneva. Dopo diversi giorni quel papà ritornò in un contesto tutto diverso e mi raccontò come l’episodio l’avesse così colpito che da quel giorno aveva cominciato a capire cosa fosse il cristianesimo.

Sto cercando di dire che anche ciò che apparentemente dedichiamo solo a noi stessi, può essere vissuto in due modi fondamentalmente diversi: posso riservarmi un paio d’ore di studio al giorno con un cuore che dice: adesso non me ne frega niente di nessuno, non voglio essere disturbato! – e posso fare la stessa attività con un cuore che dice: queste due ore le devo agli altri, appartengono agli altri, perché se io mi svuoto sempre di più porterò agli altri solo il vuoto. E non ho il diritto di farlo, perché la mia pienezza è dovuta a loro. Io devo agli altri la pienezza umana che cercano in me. Allora in quelle due ore potrà squillare il telefono, potrà arrivare l’amico o l’amica, potranno chiamarmi da destra e da sinistra: io sarò immerso in un tempo che non mi appartiene.

A noi manca il coraggio di difendere in modo assoluto i tempi di cui abbisogniamo per crescere individualmente, perché non abbiamo ancora imparato che ci apparteniamo a vicenda e che non abbiamo il diritto di portare agli altri la povertà interiore. E allora quelle due ore non saranno egoismo: potranno essere vero amore. Creare e ricreare sempre di nuovo in me un minimo di ricchezza interiore non è un fatto privato, non ha lo scopo di farmi bello: corrisponde, invece, proprio a quello che gli altri vogliono trovare quando mi incontrano. Se non abbiamo niente da darci perché siamo sempre occupati a frullare qua e là dietro alle cose, ci impoveriamo vicendevolmente. E questo, che amore è?

Ottava conferenza

IL RITORNO DEL CRISTO

Firenze, 6 gennaio 1992

La responsabilità di conoscere
la scienza dello spirito

Cari amici,

nell’individuo che coltiva in modo sano la scienza dello spirito di Rudolf Steiner si sviluppa col tempo un sentimento di forte responsabilità nei confronti della cultura ufficiale e dei milioni di esseri umani che domandano e cercano il senso della vita. La mentalità che dice: noi antroposofi siamo pochi ma belli, e più pochi siamo e più siamo belli, non è degna della scienza dello spirito.

Vediamo gli estremi: uno è quello del proselitismo di setta, impaziente, che vuole imporre per forza e convertire. È l’estremo di chi ha bisogno dei numeri grandi per sperimentare la forza, di chi invade e ingloba l’altro perché vuole prolungare se stesso.

L’altro estremo è quello di non fare niente, è quello di dire: incontrare la scienza dello spirito è un fatto del karma, non c’è bisogno della divulgazione. «Sono forse io il custode di mio fratello?»[115] risponde Caino a Jahvè che gli chiede dove sia Abele. È l’atteggiamento di chi si isola dall’altro: l’altro è altro e non mi interessa. O, più sottilmente: non ho il diritto di interferire nel karma altrui, soprattutto in materia di scienza dello spirito. Ma questa è un’astrazione, perché il karma di ciascuno sono tutti gli altri!

La vera realtà è quella che ci chiede di essere individuali e al contempo di essere gli uni negli altri, membri gli uni degli altri. Perciò tra i due estremi che abbiamo caratterizzato c’è la responsabilità attiva di far sì che tutte le persone che cercano veramente (ecco rispettata la loro iniziativa autonoma!) abbiano la possibilità di venire informati, di sapere che esiste la scienza dello spirito, il tesoro di gran lunga più prezioso che abbiamo oggi nell’umanità. Quando chi cerca trova la possibilità di mettersi in contatto con questa realtà, da quel momento in poi sarà la sua interiorità a decidere, perché dovrà confrontarsi lui stesso con questi contenuti: chi però glieli ha portati incontro ha contribuito a che si mettesse in moto un cammino interiore, di accettazione o di rifiuto. E questo è essenziale che avvenga per ogni essere umano.

Chi conosce la scienza dello spirito ha la responsabilità di mettere il resto dell’umanità in condizione di prendere posizione nei confronti di essa, così come il Cristo chiede a tutti di prendere posizione nei suoi confronti. Decidere o pro o contro i contenuti della scienza dello spirito è l’evento più fondamentale per ogni essere umano in questa vita, o nella prossima o al massimo fra tre vite, come dice Steiner: ma non passeranno queste vite senza che il confronto avvenga, così come non possono passare vite umane senza che ognuno, prima o poi, prenda posizione nei confronti dell’Io Sono, del Cristo.

Se riteniamo possibile che un’individualità umana possa evolversi senza incontrare l’Io Sono, allora dobbiamo anche concedere all’uomo la possibilità di procedere verso la pienezza del suo essere senza conoscersi. E questo è assurdo.

Il mistero del Golgota è l’evento compiuto dal Cristo.

La scienza dello spirito è questo stesso evento interiorizzato dall’uomo in chiave di conoscenza. L’evento del Golgota diventa individuale nella conoscenza. Perciò la scienza dello spirito è altrettanto essenziale quanto il mistero del Golgota.

Uno è oggettivo, universale, per tutta l’umanità.

L’altra è la sostanza di questo mistero nell’interiorità cosciente e pensante di ciascuno di noi.

La scienza dello spirito di Rudolf Steiner non è uno degli impulsi dell’umanità: è l’impulso centrale dei nostri tempi che consente ad ogni individuo che lo afferri di conoscere il mistero del Cristo come chiave di lettura di tutta la realtà umana.

Quando si lavora in pubblici convegni, come questo, bisogna riuscire a ricostituire sempre un equilibrio, perché siamo tanti e tutti diversi: c’è chi si sente subito assalito dalla sostanza di questi contenuti e se ne ritrae, c’è chi avrebbe bisogno di un linguaggio ancora più incisivo per non rimanere indifferente. È chiaro allora che bisogna appellarsi alla reciproca tolleranza e benevolenza. La forza del Cristo non è mai comoda.

Il nostro ritorno all’Io Sono

Questa mattina vorrei incentrare le mie riflessioni sul mistero del ritorno del Cristo. Il termine usato nel Nuovo Testamento è parous…a (parusía), parola che non significa ritorno ma presenza: para (para) vuol dire accanto e oÙs…a (usía), dal verbo e„m… (eimí: io sono), significa essere. Quindi l’essere accanto è la presenza.

Come mai, allora, si è giunti a parlare di ritorno, di seconda venuta del Cristo, intendendo per prima venuta l’evento del Golgota di duemila anni fa e per seconda venuta il ritorno del Cristo alla fine del mondo? Storicamente questo passaggio si è compiuto, e si doveva compiere, per il cammino di progressiva materializzazione dell’umanità: l’ascensione al cielo, come già abbiamo visto, è stata interpretata come un allontanarsi del Cristo, e il suo ritorno come un ridiscendere per il giudizio finale.

La vera presenza apocalittica del Cristo consegue alla retta comprensione dell’ascensione, e l’ascensione significa che il Cristo diventa onnipresente nel corpo terrestre per costituirne l’aura spirituale, il cielo che compenetra tutta l’umanità.

Ma allora, se il Cristo non è mai andato via, da dove è sparito? È sparito dalla coscienza umana: e quindi se c’è un suo ritorno, questo avviene nella coscienza umana. Ciò che chiamiamo il suo ritorno in verità significa che saremo noi a tornare a Lui: si tratterà di un cammino di coscienza, di conoscenza e di purificazione interiore che consentirà una connaturalità tale tra il nostro essere animico-spirituale e il suo Essere, da poterlo contemplare spiritualmente.

Il ritorno del Cristo è il ritorno all’Io Sono di ogni essere umano che abbia generato in sé, nelle sue forze di coscienza, la capacità di vederlo spiritualmente. Quando un essere umano verrà confrontato direttamente, nella percezione spirituale, con la presenza luminosa del Cristo, possiamo star certi che per lui sarà proprio una fine del mondo: non c’è fine del mondo più grande di questa! Quando il Cristo ritorna, l’incontro è molto più diretto rispetto a quello piuttosto teorico che abbiamo con Lui adesso: l’incontro col Cristo nella percezione spirituale inaugura lo stadio finale dell’evoluzione di ogni uomo, cambia radicalmente in chiave apocalittica tutto il suo futuro.

Rudolf Steiner parla di un parallelo che esiste tra ciò che è avvenuto agli apostoli dopo la resurrezione e ciò che può avvenire a ciascuno di noi a partire dal ventesimo secolo, in questa vita che stiamo trascorrendo. L’ascensione al cielo, lo scomparire del Cristo dal loro sguardo, fu per gli apostoli un evento di infinito dolore, di infinita privazione: essi, che lo avevano contemplato per quaranta giorni dopo la Pasqua, si sentirono come orfani, sperduti sulla Terra, svuotati di tutto il contenuto spirituale del loro essere. Furono di nuovo gettati quasi nella disperazione, perché non sapevano che questa ascesa al cielo era il presupposto della Pentecoste. Non conoscendo la positività di questa prova, vivevano soltanto la desolazione di un vuoto incolmabile.

Steiner descrive con parole bellissime, e che toccano il cuore profondamente, quei dieci giorni di immenso dolore degli apostoli: ma fu proprio l’esperienza di quel terribile vuoto, fu proprio il vivere nell’anima cosa avviene quando si perde il Cristo, a generare le forze interiori spirituali per la visione e la rivelazione di Pentecoste. L’evento delle forze conoscitive di Pentecoste è il frutto diretto del travaglio interiore che solo un dolore inesauribile può maturare nell’uomo: è una reale trasformazione. E il fuoco pentecostale non rimane unico, comune a tutti come era stato il dolore, ma si posa in lingue distinte e individuali sul capo di ciascuno. Quando il karma dell’intera umanità sarà sofferto in ciascuno di noi, questa solidarietà si metamorfoserà nelle massime forze di conoscenza individuale.

Colui che ci ha preceduto nel far sua la pena di tutta l’umanità è stato Gesù di Nazareth, e più ancora il Cristo: e se così è, il Cristo stesso ha trasformato questa pena in forze di sapienza e conoscenza che sono ora a nostra disposizione. E infatti Steiner afferma che oggi grazie alla scienza dello spirito abbiamo la possibilità di ripetere per la prima volta, e in un modo altrettanto forte, sia l’evento del dolore per l’ascensione al cielo, sia l’evento della gioia per l’illuminazione pentecostale.

Qual è la privazione che possiamo far nostra tanto da sentirne l’anima scavata? È quella di ritrovarci svuotati e diseredati nel cosmo che ci circonda, vivendo nel cuore la tragedia del materialismo assoluto in cui l’umanità è imprigionata. È come se avessimo perso tutto. La possibilità di generare le forze di conoscenza proprie della scienza dello spirito dipenderà dalla nostra capacità di vivere la condizione umana attuale come una cocente mutilazione. Accostarsi alla scienza dello spirito non è una questione intellettuale, non si tratta di imparare qualcosa di nuovo: si tratta di diventare nuovi noi stessi.

La prima venuta del Cristo si è compiuta senza la nostra comprensione e senza la nostra gratitudine, ma questo gesto infinito ha operato nei cuori creando i presupposti perché noi, oggi, cominciamo a essere in grado di rispondere. Dopo duemila anni sorge un cristianesimo del tutto illuminato dalla conoscenza, possibile solo a partire da un’indagine scientifica delle realtà spirituali, data all’umanità nel ventesimo secolo. Abbiamo visto che in fondo tutto il cristianesimo tradizionale va compreso come una propedeutica voluta per giungere al vero scopo: far nascere in noi una capacità di cooperazione cosciente.

Il Cristo è come un maestro il cui fine non è di mantenerci dipendenti, ma di renderci autonomi: dove noi cominciamo a diventare liberi, là inizia il compimento della sua opera dentro di noi. «È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado non verrà a voi lo Spirito Santo; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò».[116] Deve cessare in voi il mio lavoro che prescinde dalla corrispondenza delle vostre forze coscienti, e dovrà nascere la vostra consapevolezza individualissima e libera: essa nascerà se accoglierete liberamente lo Spirito Santo, che è il mio spirito.

In questo modo la seconda venuta del Cristo non si attua senza la nostra partecipazione cosciente, anzi, dipende direttamente dal nostro cammino individuale.

• La prima venuta si è verificata per tutti nel mondo fisico visibile, nello stesso tempo e nello stesso luogo.

• La seconda venuta avviene a partire dal ventesimo secolo, nel mondo eterico, in tempi del tutto diversi che dipendono da ciascuno. Il singolo essere umano diventa l’elemento decisivo per la seconda venuta del Cristo.

Ma questa non è la totalità del ritorno del Cristo nell’uomo: è soltanto l’inizio. In tempi successivi saremo chiamati a contemplarlo nella Sua realtà animica (astrale) che compenetra di amore e scioglie le antipatie cosmiche dei nostri karma.

L’ultima visione, poi, per noi oggi la più vertiginosa che si possa immaginare, sarà quella dell’Io del Cristo nella comunione spirituale conoscitiva e amante: l’Io del Cristo porta in sé tutti i misteri dell’umanità che è una e al contempo individualizzata nei singoli uomini, tutti i misteri della Terra e degli spiriti dei regni elementari.

La seconda venuta del Cristo, dunque, è nel mondo eterico, e la Sua manifestazione è duplice: una riguarda i modi in cui l’uomo sperimenterà la visione del Cristo, l’altra è relativa a un’ulteriore e complessa comunicazione di Rudolf Steiner. Essa dice: con la Sua seconda venuta il Cristo diviene il Signore del karma.

Come si percepisce il Cristo nel mondo eterico

Occupiamoci ora del primo aspetto: come appare e come si percepisce il Cristo nell’eterico? «Allora si vedrà il Figlio dell’uomo venire nelle nubi del cielo con grande potenza e gloria»:[117] le nubi del cielo è l’espressione usata dai vangeli per indicare che il ritorno del Cristo non ha a che fare con la sfera del fisico minerale la quale fu, invece, il luogo della prima venuta.

Eterico è il termine tecnico esoterico che indica il vivente, cioè la sfera immediatamente successiva al fisico visibile. Sulla Terra il vivente impregna di sé ogni essere capace di nascita, crescita e morte, e la Sua manifestazione prima e più pura è il mondo vegetale. Per questo i vangeli narrano che mentre Maria Maddalena piange accanto al sepolcro vuoto, il Cristo risorto le si rivolge e lei lo vede come un “giardiniere”: è chiaro che la Maddalena vede il Cristo immerso nelle correnti vitali che ci circondano ed è altrettanto evidente che il livello di coscienza che consente questa percezione non è quello normale. Dunque siamo di fronte a una metamorfosi della coscienza stessa.

La scienza dello spirito di Rudolf Steiner, considerando l’evoluzione umana in vasti cicli, parla di tre modi fondamentali (andando indietro nel tempo se ne incontrerebbero ancora altri) che l’essere umano ha vissuto, vive e vivrà per avere coscienza delle sue azioni. Tutto questo è in relazione anche al fenomeno della memoria, perché la coscienza è il rammemorare ciò che è stato compiuto nella sua qualità morale.

1. La cosiddetta voce della coscienza è il nostro modo attuale di rammemorazione morale: è una specie di tribunale interiore nei confronti di ciò che abbiamo compiuto, una voce che ci dice se abbiamo fatto bene o se abbiamo fatto male. Prima di girare un po’ per il mondo, io avevo fatto delle generalizzazioni troppo grosse sul mistero della coscienza: pensavo che questa voce parlasse in modo più o meno uguale nell’anima di ogni essere umano. Ma poi, vivendo in altre culture e con altre razze, mi sono reso conto che questa voce risuona diversa sulla faccia della Terra. Esistono uomini convinti che se si compie un’azione malvagia contro un altro l’importante sia farla franca: poi tutto è a posto. Anche uccidere una persona: basta non essere visti. Non è vero che la coscienza parli in modo uguale in ogni cuore umano: gli stadi diversi di evoluzione sono una realtà molto importante di cui tener conto.

2. Riferendoci invece a epoche trascorse, consideriamo ora il mondo greco. In relazione alla nascita della tragedia, Steiner dice che la parola coscienza in Eschilo ancora non esiste e compare in Euripide (sun-e…desij, sun-eídesis).[118] Che cosa svolgeva, allora, prima di Eschilo la funzione della coscienza? Nei tempi più antichi c’era in tutti noi la capacità, dopo aver compiuto un’azione, di veder sorgere dinanzi, in immagini reali, le forze animiche che avevamo posto nell’azione stessa. In altre parole, quando un essere umano aveva commesso, per esempio, un omicidio, quell’intorbidamento, quelle correnti di passionalità estrema e di egoismo che si erano generate nella sua anima (o corpo astrale) per consentire il gesto dell’uccidere, si trasformavano in visioni astrali.

È il caso di Oreste: gli comparivano dinanzi le Erinni, figure vendicatrici minacciose che lo rendevano così prigioniero da farlo quasi impazzire. Queste tragedie antiche (e ne abbiamo una reminiscenza anche in Shakespeare, nell’ombra di Macbeth che perseguita i suoi assassini) vanno prese molto sul serio, non sono invenzioni: era proprio un venir circondati da figure terrificanti che rappresentavano la vendetta, il pareggio karmico. Erano immagini realissime che facevano capire in modo raccapricciante che tipo di pareggio karmico sarebbe dovuto sopravvenire. E quando la purificazione interiore rimetteva le cose a posto, le Erinni si trasformavano in Eumenidi, immagini positive e benevole nei confronti dell’uomo.

Se noi fossimo rimasti a questo stadio di assoluta pressione interiore dovuta alla visione oggettiva delle conseguenze delle nostre azioni, non avremmo potuto conseguire la libertà. Per diventare liberi nei confronti della valutazione morale delle azioni compiute, bisognava che ne sparisse la comparsa oggettiva così spaventosa da costringerci a compiere ciò che bisognava pur di far sparire quelle visioni che non davano pace. Eschilo (siamo già nel quinto secolo a.C.) è stata una delle ultime voci a parlare della realtà oggettiva della coscienza; già in Euripide se ne annuncia l’interiorizzazione perché comincia a sorgere il giudizio interiore che vige ancor oggi e che, se pur fiacco in tanti esseri umani, ci lascia comunque liberi. In questo fenomeno particolare della metamorfosi della coscienza e della memoria, vediamo un aspetto del cammino umano verso la libertà.

3. Riguardo alle future metamorfosi della coscienza (e Steiner ci dice che i primi casi si manifestano già dalla prima metà del ventesimo secolo), andiamo incontro a una nuova oggettivazione della coscienza morale: non più a livello di immagini astrali coartanti, ma a livello spirituale libero. È in questo passaggio che ci ricongiungiamo a quanto esponevo prima sulla visione del Cristo nell’eterico, ponendo la domanda: quali sono i modi nei quali l’uomo sperimenterà il Cristo nella dimensione eterica?

Steiner parla di tre forme fondamentali di visione del Cristo, che sono intrecciate l’una nell’altra:[119]

1. avremo davanti a noi una visione di luce e chi avrà fatto un cammino di purificazione interiore, cioè un cammino di libertà, la riconoscerà come la figura del Cristo. Ci saranno, però, anche persone davanti alle quali sorgerà questa visione e che vivranno la tragedia di non capirne l’essenza. La visione del Cristo eterico, infatti, non sarà soltanto una conseguenza del cammino individuale, ma anche una soglia evolutiva che tutti dovremo passare, così come è stato naturale per tutti noi perdere la visione oggettiva delle Erinni e passare alla voce interiore della coscienza. E come ancor oggi molti non riconoscono e non hanno relazione alcuna con la voce della coscienza, così l’apparire del Cristo nel mondo eterico verrà riconosciuto per quello che è soltanto da coloro che porteranno incontro a questa visione le forze conoscitive e amanti, connaturali con la realtà del Cristo;

2. all’interno di questa realtà splendente del Cristo eterico cominceremo a vedere il corpo eterico degli esseri umani: passeremo a vedere i corpi fisici dei nostri simili avvolti da un’aura cristica che, da un lato, è la luce delle loro stesse correnti vitali (perché il mondo eterico è fatto di pura luce), e dall’altro è la presenza in ogni essere umano del Cristo che intesse il mistero del suo karma di amore con il karma di tutti;

3. un terzo aspetto di questa visione (e naturalmente non è facile pensare queste realtà le une dentro le altre) è che nelle correnti di luce del corpo eterico delle persone all’interno della figura del Cristo, comparirà – per chi avrà le capacità conoscitive di distinguere, altrimenti la luce apparirà uniforme – l’immagine del pareggio karmico di ciò che ha appena compiuto. In altre parole, Steiner dice che a un numero sempre maggiore di esseri umani sarà possibile, nel procinto di compiere un’azione o subito dopo averla compiuta – anche un’azione molto semplice – di soffermarsi un momento e veder sorgere la visione spirituale di se stessi nell’atto di compiere un’altra azione, che ne è il pareggio.

Lascio a voi immaginare cosa significherà, in termini di nuova coscienza, il poter cogliere in immagine spirituale il pareggio karmico oggettivo delle nostre azioni; quali forze di responsabilità morale verranno immesse nell’umanità grazie al fatto che si cominceranno a conoscere le conseguenze oggettive delle nostre azioni. Questo è importante perché noi, normalmente, viviamo nell’illusione più assoluta rispetto al karma: crediamo che una nostra azione appena compiuta sia di una certa natura, sia dovuta a precisi motivi, mentre la realtà karmica è tutt’altra.

Questo va detto fuori di ogni moralismo e scavalcando le infinite giustificazioni con cui assolviamo noi stessi: perché se è vero che ci vuole un profondissimo e spregiudicato lavoro per arrivare a percepire almeno l’atmosfera animica che realmente ci ha mossi in un’azione, è altrettanto vero che spesso ci illudiamo anche su azioni che non presentano particolari valenze morali. Possiamo illuderci che compiamo un’azione per generosità, invece ci muove la voglia di essere stimati; riteniamo di far soffrire qualcuno, e invece gli stiamo dando l’occasione per crescere che proprio lui cercava; e ci illudiamo anche che l’aver deciso di fare una passeggiata sia dovuto alla voglia di prendere una boccata d’aria, mentre il karma ci sta portando a incontrare una persona. E così via, potremmo fare migliaia di esempi.

Il nostro ingannarci sulla realtà del karma è pressoché totale, riguarda anche le azioni più modeste. Pensiamo allora quale passo evolutivo è già in atto nelle nostre coscienze, attraverso queste visioni che ci mostrano, a partire dalle nostre stesse forze di consapevolezza, il pareggio karmico: qui bruciamo ogni illusione, qui ci reinseriamo nel karma oggettivo di tutta l’umanità.

Il Signore del karma

All’interno del mistero della seconda venuta del Cristo, si pone l’altra grande affermazione di Rudolf Steiner: il Cristo stesso diventa a partire dal ventesimo secolo Signore del karma.[120] Ci ricongiungiamo qui all’evoluzione del rapporto umano col karma, di cui abbiamo già parlato: quanto più gli uomini afferrano la scienza dello spirito e diventano individualmente responsabili, tanto più il registro dei pareggi delle azioni umane, il registro del karma, passa dalle mani di Mosè a quelle del Cristo.

Steiner descrive in termini molto pittorici questa realtà evolutiva: ciascuno di noi, nelle vite passate, dopo la morte si trovava di fronte alla visione spirituale di Mosè con le tavole della Legge, col decalogo propedeutico alla libertà. Infatti la Legge e i Comandamenti sono stati l’accompagnamento pedagogico per gli esseri umani verso la libertà: là dove non ci sono ancora le forze della libertà, là dove non si è ancora in grado di muoversi secondo decisioni interiori autonome, è importante e necessario che vengano dati orientamenti dal di fuori. Come si fa con i bambini piccoli: bisogna dir loro quello che devono fare. Mosè come Signore del karma è dunque nel registro della giustizia: a ogni uomo viene mostrata la responsabilità relativa alle sue azioni.

Il passaggio epocale, la soglia più grande di tutte, vede il Cristo reggere le sorti del karma umano secondo l’amore, e indica il trapasso da una mentalità che vuol dare a ognuno il suo, perché nessuno è custode del suo fratello, a un modo di vivere gli uni con gli altri dove ognuno è custode di tutti. Nel karma dell’amore nessuno di noi può più dire che la vita di un altro non lo riguarda, perché tutto è di tutti. Nessuno di noi può più prendere le pietre in mano e scagliarle, nessuno di noi può più puntare il dito, perché ogni dito puntato contro un altro essere umano è un dito puntato contro di sé. «Ama il prossimo tuo perché è te stesso».

Nella vita fra morte e nuova nascita esiste una differenza abissale tra l’architettare un karma futuro, una vita intera secondo pareggi che riguardano solo noi stessi – quindi con un atteggiamento che si preoccupa soltanto di trovare le situazioni karmiche giovevoli alla propria evoluzione – e il plasmare in tutt’altro modo la vita futura, dove ciascuno di noi vuole e desidera anche ciò che più promuove il cammino di tutti. Lo abbiamo anche visto in relazione al perdono karmico.

Immaginiamo come diventano infinitamente complessi i tessuti e i nodi del karma che tutti ci avvolge quando, nell’amore universale del Cristo, cominciamo a progettare tutta una vita non secondo la salvazione privata, il bilancio egoico per il nostro risanamento, ma secondo una prospettiva che intreccia ogni nostra realizzazione con quella degli altri. Nel mistero del Cristo che fa di noi, in senso realissimo, un cuore solo e un’anima sola, o siamo a posto tutti o non è a posto nessuno.

L’Agnello di Dio prende su di sé il peccato del cosmo, prende nelle mani e consuma nel fuoco del suo amore infinito tutte le conseguenze cosmiche delle nostre azioni. È fondamentale la distinzione che Steiner fa tra le conseguenze karmiche soggettive delle nostre azioni e le loro conseguenze cosmiche oggettive.

Ogni azione egoistica ha delle conseguenze dirette nella nostra compagine interiore, provoca uno scombussolamento enorme nelle correnti astrali, eteriche e anche fisiche che l’hanno preparata: tutti i pensieri e i sentimenti di odio o di rabbia o di invidia o di vendetta che hanno accompagnato le decisioni prese, determinano reali rivolgimenti nella nostra interiorità. Il corpo astrale diventa più offuscato, più immondo e il corpo eterico è sempre più paralizzato nelle sue forze vitali: queste sono conseguenze karmiche individuali e personali che non possono venire toccate da nessuno, perché appartengono al mistero della nostra libertà, alla misura assoluta e sacra della nostra individualità. Il peccato contro lo Spirito Santo, contro la libertà individuale, non può venir perdonato dal di fuori.

Ma, d’altro canto, è altrettanto vero che tutto ciò che compiamo ha delle conseguenze oggettive, cosmiche, per tutta l’umanità e per la Terra: conseguenze reali di fronte alle quali non possiamo più far nulla. Ricordiamo l’esempio citato da Steiner: quanti processi reali nel mondo saranno di tutt’altra natura se un essere umano cava gli occhi a un altro?[121] Quante cose avverranno sulla Terra oggettivamente in altro modo perché quest’uomo è senza occhi e non ci vede? E che cosa potrà fare, in merito a questo, colui che l’ha accecato? Nulla. E allora, chi si prenderà cura delle conseguenze cosmiche delle azioni degli uomini? L’elemento specifico della sostanza amante del Cristo è di accogliere in sé, di considerare vicenda profondamente intima e propria, tutte le conseguenze oggettive del karma umano.

Cristificarsi nel proprio essere significa cominciare a generare dentro di noi un’eccedenza di forze che ci metta in grado di assumere non soltanto le conseguenze personali delle nostre azioni, perché quelle ci spettano comunque, ma anche di passare dalla realtà di giustizia alla realtà d’amore. Cominciamo a prendere in mano le conseguenze oggettive del karma altrui. Ecco la differenza fra una vita progettata e vissuta nella prospettiva del pareggio delle conseguenze mie personali, e una vita vissuta in vista di un pareggio universale del karma oggettivo di tutta l’umanità.

Essere gli uni negli altri, ben radicati nel proprio Io

Stando così le cose, nella visione del Cristo eterico ciascuno di noi troverà da un lato ciò che è assolutamente individuale e dall’altro ciò che è universale. In altre parole, la visione del Cristo eterico è l’inaugurazione dello stadio finale dell’evoluzione in duplice senso: ciascuno di noi verrà confrontato sia con l’Io individuale del suo essere e dell’essere altrui, sia con la realtà universale del karma che tutti ci abbraccia.

Ogni altro cammino che si fermi a metà strada non coglie né l’unicità dell’individualità di ciascuno di noi, né l’universalità che tutti ci avvolge in modo uguale: e dove non si procede fino in fondo c’è sempre qualche egoismo di gruppo che lo impedisce. Il Cristo è colui che ci porta tutte le forze per radicalizzare questi due cammini che conducono al compimento dell’evoluzione umana: essere totalmente gli uni negli altri e totalmente radicati nel proprio Io spirituale.

Come duemila anni fa c’è stato il passaggio dalla Pasqua all’Ascensione e alla Pentecoste – dalla presenza del Cristo, alla Sua scomparsa, all’illuminazione della Pentecoste –, così direi che anche l’umanità, in questi duemila anni, è passata da una presenza forte del Cristo nei primi secoli del cristianesimo al Suo oscurarsi nel materialismo e all’aprirsi, ora, di nuovi varchi sulla soglia grande del divenire.

Auguriamoci, allora, che la scienza dello spirito possa diventare in noi la Pentecoste della conoscenza, e la visione del Cristo eterico possa celebrare la Pentecoste dell’amore universale, che ci intesse gli uni negli altri nel karma dell’umanità e della Terra.

Dibattito

Intervento: Sono riferibili alla visione del Cristo eterico fenomeni come quelli delle stigmate?

Archiati: È fondamentale distinguere ciò che è cristico da ciò che è pre-cristico. Qual è il criterio fondamentale di distinzione?

È cristico tutto ciò che favorisce nell’uomo la crescita dell’individualità secondo amore e conoscenza, perché senza conoscenza non c’è autonomia. È cristico e va nella direzione positiva dell’evoluzione ciò che potenzia la pienezza della persona umana nelle sue dimensioni fondamentali. Tutto ciò che, invece, è fenomeno di dipendenza interiore, va piuttosto indietro, si riferisce al passato pre-cristico.

Quindi, parlando di fenomeni simili a quelli delle stigmate che compaiono sul corpo di alcuni, bisognerebbe vedere, di volta in volta e direttamente, se ciò che avviene in queste individualità consente loro di diventare interiormente sempre più autonome o se, invece, in esse si verifichino fenomeni di natura. Fenomeni di natura che avvengono da sé, senza intervento umano, ce ne sono tanti: di essi è piena tutta l’evoluzione passata.

Intervento: Mi pare di capire che tanto più si è testimoni del Cristo, quanto più si è liberi. Questo mi preoccupa, da un certo punto di vista, e mi chiedo: si può essere testimoni anche prima della libertà? E in che modo?

Archiati: Naturalmente prima della libertà si è testimoni in senso negativo: la testimonianza dei disastri che avvengono dove non c’è il Cristo serve a farci capire la necessità del Cristo stesso. Qual è la testimonianza del cammino negativo? È quella del figliol prodigo che alla fine arriva a dire: «Peggio di così non può essere! I salariati dal padre mio hanno da mangiare e da bere e io, che sono il figlio, non ho neanche le ghiande da mangiare!». È una testimonianza? Sì, fortissima: in chiave negativa. È la testimonianza di reazione al negativo, importantissima. Ma se ci si ferma lì, non basta.

Intervento: Rispetto al karma vorrei chiedere se anche la costituzione del nostro corpo fisico è il risultato di ciò che abbiamo compiuto nelle vite precedenti.

Archiati: Le cose più importanti per rispondere a questa domanda sono nel primo[122] dei sei volumi sui nessi karmici, dove viene descritta una delle leggi fondamentali del karma: ciò che in una vita è la strutturazione degli eventi esterni che mi accadono – la natura di pena o di levità di una vita, per esempio – nell’incarnazione successiva diventa il principio strutturale della fisiologia del corpo stesso, la base più intima dell’essere che ci portiamo dietro.

È chiaro che la costituzione corporea di un’esistenza è un elemento fondamentale che decide moltissime cose, perché già in partenza ne rende possibili alcune e impossibili tante altre. Queste grandi leggi del karma da una vita all’altra costituiscono le comunicazioni più importanti della scienza dello spirito. Sono contenuti che vanno elaborati con un serio lavoro conoscitivo. Certo, sono cose destinate nel tempo a entrare nel cuore e a trasformare la vita, ma debbono prima passare per la mente. La via più breve per arrivare al cuore è la mente! Oggi chi vuol arrivare al cuore senza passare per la mente, va a finire nei visceri – nella manipolazione, nei fenomeni di natura, in elementi che non promanano dalla libertà dell’uomo.

Questa prospettiva riguarda anche la fede: è chiaro che nei tempi futuri ci sarà una fede del cuore molto più profonda, ma sarà una fede reale proprio perché sarà passata per la conoscenza. Una fede di tipo tradizionale, che si opponga al conoscere, perderà sempre di più la sua forza positiva nell’umanità. Un numero sempre minore di esseri umani sarà in grado di venire sostenuto da una forza del cuore che non abbia bisogno della mente: nel passato era possibile ma oggi non più, perché questo tipo di fede mina le forze stesse del cuore. Il primo passo, oggi, è sempre quello che compie la mente, ma bisogna essere consapevoli, però, che non c’è da fermarsi lì.

Intervento: A proposito dell’incontro col Cristo nell’eterico, Steiner ha comunicato anche delle date precise sull’apparire delle prime manifestazioni. Vorrei chiedere come mai non se ne sa nulla.

Archiati: Steiner ha detto che i primi eventi di incontro col Cristo nell’eterico sarebbero avvenuti a cominciare dagli anni trenta del ventesimo secolo. Molte persone hanno messo in rapporto questo mistero con l’orrore del nazismo, e anche con la tragedia umana di milioni di persone che hanno incontrato la morte nelle camere a gas: nessuno di noi può escludere che in quelle ore terribili, prima di varcare la soglia della morte, molti uomini possano aver visto il Cristo vivente. Dire semplicemente che questi incontri non sono avvenuti perché nessuno li ha mai raccontati è troppo facile, oltre al fatto che Steiner ci ha messo in guardia sulla possibilità che ciò avvenga senza che gli uomini comprendano di cosa si tratti, o pensino, magari, di avere allucinazioni. Infine, può accadere che molte persone tacciano della loro esperienza per proteggerla dall’irrisione e dall’incomprensione.

Sotto certi aspetti, anche le crisi di panico possono essere viste come la reazione scomposta e angosciosa di chi sente sopravvenire la realtà sovrasensibile ed è impreparato, gli mancano le forze conoscitive e morali per confrontarsi con essa.

Intervento: Cosa rappresentano nella scienza dello spirito l’evento del Natale e quello dell’Epifania?

Archiati: L’evento del Natale è il mistero della nascita, duplice, dell’essere umano Gesù di Nazareth che diventerà il portatore del Cristo. L’Epifania, da ™pi-fanen (epi-fanein) rilucere dall’alto verso il basso è la nascita del Cristo nel trentenne Gesù di Nazareth. L’Epifania, il cui significato è poi andato perso, celebrava il discendere del Cristo in Gesù, l’inabitazione del Cristo in Gesù a partire dal Battesimo nel Giordano. L’umanità futura diventerà sempre più cosciente del fatto che nelle dodici notti sante, le più lunghe dell’anno, quelle che vanno dal Natale all’Epifania, viene celebrato il mistero della nascita dell’uomo che va incontro al divino (Natale) e il mistero della nascita del divino che viene incontro all’umano (Epifania).

Oggi è il giorno dell’Epifania, e auguro a tutti di festeggiarlo.

[1]R. Steiner, Introduzione alla scienza dello spirito – Ed. Archiati

[2]R. Steiner, Vivere con gli Angeli e gli spiriti della natura – Ed. Archiati

Sugli Esseri delle Gerarchie angeliche, V. schema a p. 226

[3]L’argomento viene trattato più avanti, nella conf. 6

V. anche: R. Steiner, Teosofia Ed. Antroposofica

P. Archiati, «Voi siete dèi!» L’uomo in cammino. Le chiavi di lettura dei vangeli, vol. 2, conf. 3 – Ed. Archiati

[4]Ed. Antroposofica

[5]R. Steiner, Il bene c’è per tutti – Ed. Archiati

[6]R. Steiner, La filosofia della libertà – Ed. Antroposofica

P. Archiati, Libertà senza frontiere – Ed. Archiati

[7]Fil 2,7 (Normalmente viene tradotto con spogliò se stesso)

[8]Su questo argomento, V. più avanti la conf. 5

V. anche: P. Archiati, «Voi siete dèi» L’uomo in cammino. Le chiavi di lettura dei vangeli, vol. 2, conf. 1 – Ed.Archiati

[9]Gal 2,20

[10]Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23

[11]P. Archiati, La percezione, un inganno da superare – Ed. Archiati

[12]R. Steiner, Tra destino e libertà – Ed. Archiati

P. Archiati, Creare e vivere una nuova vita – Ed. Archiati

P. Archiati, Nati per diventare liberi – Ed. Archiati

[13]Gv 6,63

[14]Su questo tema, V. P. Archiati, Io Sono il pane della vita Ed. Archiati

[15]R. Steiner, Il pensiero nell’uomo e nel mondo. Dodici modi di pensare, sette modi di vivere – Ed. Archiati

[16]Sui tre anni dell’incarnazione del Cristo, V. più avanti la conf. 5

[17]R. Steiner, Teosofia – Ed. Antroposofica

P. Archiati, La vita dopo la morte – Ed. Archiati

[18]Mt 18,3

[19]Mt 28,13-15

[20]P. Archiati, Mi ami tu più di costoro? – Ed. Archiati

[21]R. Steiner, Il fenomeno uomo. Da Gesù a Cristo – Ed. Archiati

[22]P. Archiati, Equilibrio interiore – Ed. Archiati

[23]Gv 12,24

[24]Mt 21,1-7

[25]Mt 21,1-7

[26]P. Archiati, Guarire ogni giorno – Ed. Archiati

[27]Mt 21,9

[28]Mt 11,4-5

[29]Gv 20,25

[30]Gv 20,15

[31]Il miglior testo interlineare è: Nestle-Aland, Nuovo Testamento interlineare, a cura di P. Beretta – Ed. San Paolo [NdR]

[32]Col 3,3: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio».

[33]R. Steiner, Il fenomeno uomo. Da Gesù a Cristo – Ed. Archiati

[34]P. Archiati, Maschere di Dio, volti dell’uomo – Ed. Archiati

[35]R. Steiner, Buddha e Cristo – Ed. Archiati

[36]P. Archiati, Dalla mia vita – Ed. Archiati

[37]Gv 8,39. V. anche: P. Archiati, vol 4 degli Atti dei seminari sul Vangelo di Giovanni – Ed. Archiati

[38]Gb 2,9

[39]Sulla reincarnazione, V. P. Archiati, Arrivederci alla prossima vita – Ed. Archiati

[40]Lc 8,21

[41]La scienza dello spirito distingue dodici sensi: del tatto, della vita, del movimento, dell’equilibrio, dell’olfatto, del gusto, della vista, del calore, dell’udito, della parola, del pensiero, dell’io (conf. 5 di questo vol.).

V. R. Steiner, L’enigma dell’uomo – Ed. Antroposofica

R. Steiner, Arte dell’educazione 1 – Ed. Antroposofica

[42]Mt 28,20

[43]R. Steiner, Tra destino e libertà – Ed. Archiati

[44]P. Archiati, Guarire ogni giorno – Ed. Archiati

[45]P. Archiati, L’uomo e il male, un mistero di libertà – Ed. Archiati

[46]Mc 2,11 e Lc 5,24

[47]Gv 1,29

[48]R. Steiner, Il bene c’è per tutti – Ed. Archiati

[49]Gv 15,20

[50]Mt. 22,14

[51]Sui demoni luciferici e arimanici, V. P. Archiati, L’uomo e il male, un mistero di libertà – Ed. Archiati

[52]P. Archiati, Il mistero dell’amore – Ed. Archiati

[53]P. Archiati, La vita dopo la morte – Ed. Archiati

[54]R. Steiner, L’uomo soprasensibile alla luce dell’antroposofia – Ed. Antroposofica

[55]Lc 23,34

[56]P. Archiati, Il grande gioco della vita – Ed. Archiati

P. Archiati, L’arte dell’incontro – Ed. Archiati

[57]Lc 4,9

[58]Sulle sette grandi epoche evolutive della Terra si parlerà diffusamente più avanti, nella conf. 5

[59]Gv 14,12

[60]Ed. Antroposofica

[61]R. Steiner, Le manifestazioni del karma – Ed. Antroposofica

P. Archiati, Guarire ogni giorno – Ed. Archiati

[62]R. Steiner, Metamorfosi della vita dell’anima – Tilopa

[63]R. Steiner, Angeli all’opera – Ed.Archiati

[64]P. Archiati, L’umanità, una sola famiglia – Ed. Archiati

[65]R. Steiner, L’Apocalisse – Ed. Antroposofica

P. Archiati, L’Apocalisse di Giovanni. Presente e futuro dell’umanità, voll 1 e 2 – Ed. Archiati

[66]Mt 7,24 – Lc 6,47

[67]Fil 2,7 (Normalmente viene tradotto con spogliò se stesso)

[68]Mt 26,26 – Mc 14,22 – Lc 22,19

[69]1Cor 11,29

[70]P. Archiati, Il mondo della fiaba; Rosaspina; La signora Holle – Ed. Archiati

[71]Lc 10,30-37

[72]Mt 13,3-9 – Mc 4,3 – Lc 8,5

[73]Lc 17,11

[74]Lc 8,30

[75]Rudolf Steiner, Cristo e il mondo spirituale La ricerca del santo Gral – Ed. Antroposofica

[76]Sul cristoforo dell’umanità, o Anima Candida, V. più avanti la conf. 6 e V. anche: P. Archiati, «Voi siete dèi L’uomo in cammino. Le chiavi di lettura dei vangeli, vol 2, conf. 2 – Ed. Archiati

[77]R. Steiner, La scienza occulta – Ed. Antroposofica

[78]Un esempio di come queste grandi verità siano custodite nelle fiabe è in: P. Archiati, Rosaspina – Ed. Archiati

[79]R. Steiner, Cosmosofia II Ed. Antroposofica

R. Steiner, Una fisiologia occulta – Ed. Antroposofica

[80]Sui quattro sacrifici del Cristo presenti nei vangeli, V. P. Archiati, «Voi siete dèi!» L’uomo in cammino. Le chiavi di lettura dei vangeli, vol 2, conf. 3 – Ed. Archiati

[81]Lc 22,19

[82]R. Steiner, Il fenomeno uomo, conf. 9 – Ed. Archiati

R. Steiner, Cristo e l’anima umana, conf. 3 e 4 – Ed. Archiati

[83]Ed. Antroposofica

[84]R. Steiner, Buddha e Cristo – Ed. Archiati

[85]Gv 7,38

[86]R. Steiner, Il cristianesimo come fatto mistico – Ed. Antroposofica

[87]R. Steiner, Buddha e Cristo, conf. 5 – Ed. Archiati

[88]Bodhisattva vuol dire essere illuminato, Buddha vuol dire il risvegliato alla verità. Alla fine del suo percorso di guida dell’umanità, il Bodhisattva diventa Buddha e pone termine alla serie delle sue incarnazioni.

[89]Luca 3,38

[90]P. Archiati, L’uomo e il male, un mistero di libertà – Ed. Archiati

[91]R. Steiner, L’educazione del bambino dal punto di vista della scienza dello spirito pubblicato in Educazione del bambino e preparazione degli educatori – Ed. Antroposofica

V. anche: P. Archiati, La tua biografia – Ed. Archiati

[92]Sulla possibilità, dopo la morte, di mettere a disposizione di altri esseri le proprie conquiste spirituali, V. anche le leggi della cosiddetta economia spirituale in: P. Archiati, «Voi siete dèi!» L’uomo in cammino. Il mio regno non è di questo mondo, vol 3, cap. 2 – Ed. Archiati

[93]Mc 6,3

[94]R. Steiner, Il Padre Nostro – Ed. Antroposofica

Sul Padre Nostro dei vangeli, V. anche: P. Archiati, «Voi siete dèi!» L’uomo in cammino. Le chiavi di lettura dei vangeli, vol. 2, conf. 3 – Ed. Archiati

[95]R. Steiner, L’evoluzione secondo verità – Ed. Antroposofica

[96]R. Steiner, Teosofia – Ed. Antroposofica

P. Archiati, «Voi siete dèi!» L’uomo in cammino. Le chiavi di lettura dei vangeli, vol 2 – Ed. Archiati

[97]R. Steiner, La guida spirituale dell’uomo e dell’umanità – Ed. Antroposofica

[98]Su questo tema, V. P. Archiati, La percezione, un inganno da superare – Ed. Archiati

[99]Rm 12,5; 1Cor 6,15; 1Cor 11,3; 1Cor 12,12-27;

[100]Gv 15

[101]P. Archiati, Equilibrio interiore – Archiati Edizioni

[102]Lc 3,22

[103]Mt 3,2; Mt 4,17; Mc 1,15

[104]P. Archiati, L’uomo e la Terra – Ed. Archiati

[105]Mt 9,36

[106]Gv 13

[107]R. Steiner, La scienza occulta – Ed. Antroposofica

[108]Gv 8,7

[109]Gv 10,30

[110]Sulla questione sociale vedi:

R. Steiner, Cultura, politica, economia – Ed. Archiati

P. Archiati, Economia e vita – Ed. Archiati

R. Steiner, Il bello di essere uomini – Ed. Archiati

R. Steiner, Il coraggio della libertà nella vita sociale Ed. Archiati

[111]Lc 3,21-22

[112]Lc 4,1-13

[113]Mt 4,4

[114]P. Archiati, Dalla mia vita – Ed. Archiati

[115]Gen 4,9

[116]Gv 16,7

[117]Mc 13,26

[118]R. Steiner, L’oriente alla luce dell’occidente – Ed. Antroposofica

R. Steiner, L’impulso-Cristo e la coscienza dell’Io – Tilopa

[119]R. Steiner, Sulla via di Damasco – Tilopa

[120]R. Steiner, Il fenomeno uomo. Da Gesù a Cristo – Ed. Archiati

[121]R. Steiner, Buddha e Cristo – Ed. Archiati

[122]R. Steiner, Tra destino e libertà Ed. Archiati

Prefazione

La scienza dello spirito di Rudolf Steiner (o antroposofia) riprende e approfondisce in chiave di conoscenza ciò che nel passato era stato fatto oggetto di fede. In questo modo essa dà una risposta a tante domande che l’uomo moderno si pone.

Il quinto vangelo è il vangelo eterno, fonte di tutti i vangeli che vengono scritti sulla Terra: è scritto a caratteri indelebili nel cosiddetto Libro della Vita, o cronaca spirituale, di cui parlano anche le Scritture. Tutto ciò che avviene sulla Terra è infatti effimero solo nel suo aspetto fisico: la dimensione spirituale non si cancella mai e può essere percepita e descritta dall’occhio spirituale dell’iniziato. Questo vale anche e soprattutto per ciò che è avvenuto in Palestina duemila anni fa.

Rudolf Steiner ha posto l’evento del Cristo al centro dell’evoluzione umana e terrestre. Ha descritto aspetti sempre nuovi di questo inesauribile mistero.

Il lettore vedrà da sé che è difficile dare un giudizio teorico sui contenuti qui esposti. Dovrà concedersi del tempo per vedere i frutti concreti di vita che sorgono grazie alle forze interiori della meraviglia, del pensare e della venerazione.

Queste conferenze hanno l’intento di suscitare nel lettore l’interesse ad approfondire i temi toccati, tramite la lettura delle opere di Rudolf Steiner.

Pietro Archiati

Letture correlate

Archiati Edizioni

Pietro Archiati

Creare e vivere una nuova vita

Equilibrio interiore

Guarire ogni giorno

La vita dopo la morte

Libertà senza frontiere

L’umanità una sola famiglia

Maschere di Dio, volti dell’uomo

«Voi siete dèi!» L’uomo in cammino, voll 2, 3

Rudolf Steiner

Angeli all’opera nell’evoluzione dell’uomo tra la Terra e il Cosmo

Buddha e Cristo

Il bello di essere uomini

Il bene c’è per tutti

Il fenomeno uomo

Il pensiero nell’uomo e nel mondo

A proposito di Pietro Archiati

Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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