Questo libro tratta
della responsabilità crescente
che tutti abbiamo
nei confronti della Terra,
se vogliamo salvaguardare i fondamenti
della nostra stessa coesistenza umana.
Non solo:
un rinato amore per la Terra
potrà più di ogni altra cosa
affratellare tutti gli uomini
al di là di ogni razza,
popolo e religione.
Pietro Archiati
Estate, 2004
Primo capitolo
UOMO E NATURA:
una simbiosi da far rivivere
Nascita e morte: due chiusure o due aperture?
Viviamo in un tempo in cui la cultura occidentale, che si riconosce di matrice cristiana, comincia a interrogarsi in modo più cosciente sui due limiti rigidi e fatali in cui si è rinserrata per quasi duemila anni: la «nascita» e la «morte». Un grande compito culturale che oggi si pone davanti alla coscienza dell’uomo moderno è quello di rendersi conto sia delle chiusure mentali che questi confini comportano, sia dell’aspirazione insita in lui ad abbatterli per poter guardare oltre.
Che cosa significa per l’Occidente cosiddetto cristiano l’aver racchiuso l’orizzonte della coscienza tra la «nascita» e la «morte»? È convinzione comune che l’uomo inizi ad esistere solo a partire dal momento in cui si forma il suo «pezzo di materia», cioè la corporeità. Prima della nascita del corpo si pensa che l’uomo semplicemente non esista. È questo il primo limite assoluto della coscienza moderna: la negazione della «prenatalità» o, per usare un termine tradizionale, della «preesistenza», cioè di ogni esistenza dell’uomo che preceda il formarsi del suo corpo.
Poi, trascorsi gli anni della vita, la coscienza si trova di fronte alla seconda barriera, la morte, che s’impone col venir meno del pezzo di materia. La corporeità nasce, cresce, giunge al culmine delle sue forze vitali; sopravviene poi un’inversione di marcia, le forze cominciano a scemare, invale un processo di sgretolamento e la somma totale di questa distruzione del vitale è la morte vera e propria, nella quale l’organismo fisico viene deposto.
La cultura cristiana afferma l’«immortalità» dell’anima, e questa affermazione non è meno problematica della negazione della prenatalità. Pur rassicurando l’uomo sul sopravvivere della sua anima dopo la morte, la religione tradizionale non sa però fornire alcuna conoscenza oggettiva e scientifica di questa stessa vita dopo la morte.
Intellettualmente più onesti dei teologi sono in fondo quegli scienziati che si chiedono: se è vero che la corporeità è in tutto e per tutto determinante al fine dell’esperienza di sé che l’essere umano ha, tanto determinante che prima del suo formarsi l’uomo neppure esiste, quando essa viene meno non scompare anche l’uomo stesso? Che cosa potrà mai sopravvivere alla morte, se tutte le esperienze che viviamo sono dovute al corpo?
È vero allora che per l’umanità occidentale degli ultimi secoli l’esperienza e la coscienza di sé ― cioè la realtà stessa dell’esistere ― sono racchiusi fra due confini: tra un primo inizio dovuto al comparire della corporeità, e una fine, come conseguenza del decadimento e della cessazione delle funzioni vitali di quella stessa corporeità.
Tutte le religioni orientali, invece, partono dal presupposto fondamentale che l’uomo, in quanto essere puramente spirituale, esista già prima del suo congiungersi col corpo. L’incarnazione, ben lungi dal conferirgli l’essere, glielo diminuisce e offusca: inserendosi nel corpo, lo spirito umano si ottenebra e dimentica quel che ha vissuto nel puro mondo spirituale. Perciò nella cultura orientale la morte è vista come la liberazione dello spirito dalla prigione del corpo.
Il primo grande pensatore occidentale che non parla più di questa preesistenza è Aristotele; per Platone, il suo maestro, è ancora scontato che l’uomo esista anche prima di immergersi nel corpo. Conoscere significa per lui ricordarsi di ciò che si sapeva già prima della nascita, quando si era nel mondo spirituale. L’uomo, secondo Platone, è un essere puramente spirituale e l’unione con la corporeità comporta un tragico obnubilamento della coscienza; con la morte l’essere umano si libera dall’elemento estraneo che è il corpo e ritorna nella sua vera patria, quella spirituale.
È importante rilevare che Aristotele non nega espressamente che ci sia per l’uomo una realtà di vita indipendente dal corpo e preesistente alla nascita fìsica: egli semplicemente non ne parla. Nel suo Trattato sull’anima si limita a descrivere in quale modo noi sperimentiamo il rapporto dell’anima col nostro corpo durante la vita tra nascita e morte. L’anima porta al corpo unità organica e coerenza funzionale, realizza ciò che nella natura corporea è solo «in potenza», ne avvera cioè gli scopi secondo le leggi del divenire. Aristotele si limita dunque a riflettere su quell’esperienza di sé che l’essere umano deve al legame con la materia del suo corpo. La sua opera è stata così una vera e propria preparazione all’incarnazione definitiva dell’umano, con una conseguente attenzione rivolta sempre di più al mondo fisico.
Il cristianesimo nascente ha ben volentieri accolto l’idea aristotelica della materia intrisa di spirito: il fulcro del cristianesimo è infatti proprio l’incarnazione graduale e reale dello spirito umano-divino dentro la materia. Il fatto di aver seguito la linea aristotelica piuttosto che la platonica ha portato in seguito a negare quella preesistenza che Aristotele aveva semplicemente sottaciuto. E proprio questa negazione ha poi condotto il cristianesimo stesso a fare i conti col materialismo.
Alla concezione aristotelica il cristianesimo ha aggiunto l’affermazione che l’entità spirituale, cioè incorporea dell’uomo (chiamata genericamente «anima»), viene creata da Dio al momento del concepimento. Si dichiara così implicitamente che l’uomo non ha realtà senza corpo, e in questo modo si attribuisce al sostrato materiale un’enorme valenza di causa. Se l’essere umano, infatti, non esiste prima della corporeità, il passo successivo (un passo davvero molto corto) porterà a dire che è la corporeità stessa a conferire essere all’uomo.
Il cammino che va dall’aristotelismo cristiano, quello della Scolastica medievale, al materialismo dell’era moderna è dunque un cammino dritto e conseguente. Il risultato reale di questo processo evolutivo è che tante persone oggi vivono effettivamente la corporeità come l’origine e la causa di ogni cosa, e l’anima e lo spirito (ammesso che se ne abbia ancora un sentore) come effetti di ciò che avviene nel corpo, nel dato di natura.
Lasciando da parte rare eccezioni, l’uomo occidentale non può certo dire di viversi come un essere spirituale, in grado di decidere le sorti del proprio corpo; né può dire di considerare il corpo come una somma di effetti che derivano dall’operare del suo spirito. Se siamo sinceri, l’esperienza che abbiamo di noi stessi, qui in Occidente, è proprio quella opposta: viviamo il dominio della materia sullo spirito e l’impotenza dello spirito, del nostro spirito, sulla materia. Il materialismo non è una teoria errata: è il testimone fedele della reale esperienza di sé dell’uomo moderno. Le forze della materia le viviamo nei nostri istinti, nelle nostre brame, di fronte ai quali ci sentiamo ben poco liberi.
Attribuire alla materia forza causante nei confronti dello spirito non è allora una questione teorica di verità o di errore: che in un uomo sia maggiormente il corpo a decidere le sorti dell’anima e dello spirito, o siano maggiormente l’anima e lo spirito a determinare le sorti del corpo, sono due esperienze interiori ugualmente possibili; anzi, sono proprio i due modi fondamentali di avere esperienza di sé, entrambi aperti alla libertà.
Ci occuperà allora in questi giorni a livelli sempre diversi l’enigma quanto mai misterioso del rapporto fra quelle due realtà che, per ora molto astrattamente, possiamo chiamare spirito e materia, e che dovremo rendere più concrete affrontandole da sempre nuovi punti di vista. Cercheremo d’indagare il legame oscuro ma umanissimo del nostro spirito e della nostra anima con l’elemento della natura, quello che noi riassumiamo nella parola terra, o nell’espressione i regni della natura, a indicare le piante, gli animali, i minerali.
Come la tecnica cerca di infrangere
i confini della vita e della morte
Riprendendo l’immagine della nostra esistenza imprigionata tra due limiti assoluti ― nascita e morte ―, osserviamo che da un lato l’ingegneria genetica concede all’uomo capacità sempre maggiori di entrare nei misteri della nascita, penetrando le alchimie della genesi degli organismi viventi, e dall’altro l’ingegneria nucleare riesce a far sprigionare energia atomica, consentendo all’uomo di partecipare sempre più paurosamente ai misteri della morte, della disgregazione e distruzione della materia.
Produrre energia atomica significa mettere in moto processi irreversibili di disgregazione della materia: a-tomòs significa in greco non spaccabile, non più tagliabile; nel pensare antico l’atomo era l’ultimo approdo della divisibilità, l’ultima unità della materia. Il fatto che l’umanità moderna sia riuscita a spaccare l’atomo significa che l’essere umano comincia a decidere delle sorti della creazione, diviene capace di mettere in moto processi di distruzione della materia che non sono più reversibili.
Con l’ingegneria genetica, d’altro canto, l’uomo si sente chiamato a diventare co-creatore della sua esistenza biologica, e vuole carpirne le leggi per sovrintendere alla nascita, per prolungare la vita all’infinito e sconfiggere la morte.
In tutto ciò vive l’aspirazione semiconscia ― ma destinata a divenire sempre più conscia ― a infrangere i due limiti estremi della coscienza moderna: l’uomo vuole scoprire da dove nasce la vita e come si vive oltre la porta della morte. Su queste due soglie è in corso nell’umanità una gigantesca lotta tra il materialismo, che vorrebbe usare queste due capacità crescenti della tecnologia per rendere l’essere umano ancor più vincolato alla materia, e la coscienza dello spirito, appena agli inizi, che vorrebbe volgerle verso la visione oggettiva dei fondamenti spirituali della nascita e della morte.
Riguardo all’ingegneria genetica e ai quesiti che l’accompagnano è interessante il fatto che in Germania, soprattutto negli ultimi anni, la chiesa cattolica si veda in grave difficoltà nell’accompagnare le decisioni della comunità statale sulla questione dell’aborto. La donna che decide di abortire deve esibire un attestato dal quale risulti che si è fatta in precedenza consigliare presso uno dei consultori approvati dallo stato: il certificato di avvenuta consulenza consente l’aborto senza conseguenze penali. La chiesa cattolica ha rilasciato per un certo tempo tali attestati, finché il Vaticano vi ha di fatto posto il veto.
Questa problematica, estremamente complessa, è indice del fatto che la cultura cristiana non conosce il modo concreto in cui avviene il congiungersi di uno spirito umano con il corpo, e nemmeno sa come proceda il graduale formarsi della materia corporea stessa. Secondo la normale convinzione del cattolico, prima della fecondazione l’essere umano ancora non esiste. Ora, se l’uomo è un essere spirituale, se è uno spirito, non può cominciare a esistere, perché ciò che è spirito non è mai senza esistenza, esiste per natura eternamente. Solo ciò che è perituro può cominciare a esistere, nel senso che prima non c’era. Proprio questo intendevano dire i migliori pensatori cristiani nell’affermare che la creazione degli Esseri spirituali – Angeli, Arcangeli, Principati… – non avviene «nel tempo», non conosce un tempo in cui non c’era, ma è una creazione che avviene sempre, eternamente, così come è eterno lo Spirito Creatore.
Se si parte dall’assunto fondamentale che l’essere umano non esiste senza la corporeità, tutti i tentativi di risolvere il problema dell’aborto – a livello politico, giuridico e religioso – andranno a incagliarsi in capriole interpretative. Si pretenderà da una parte di far perno sulla libertà della donna (che è di sicuro un essere umano completo e in grado di decidere), e dall’altra si ignorerà la seconda grande alternativa che ingarbuglia la questione e crea il dibattimento morale: cioè che il nascituro, per quanto a livello corporeo sia ancora un embrione, possa essere anch’egli, in quanto spirito, un essere umano completo, la cui libertà vada altrettanto rispettata. Uno spirito non può morire né può venire all’essere solo gradualmente: egli è, da sempre e per sempre.
Una moderna scienza dello spirituale pone in modo reale un’alternativa alla visione corrente del concepimento: nel grembo della madre la formazione dell’embrione comincia per opera di uno spirito umano che la Divinità ha creato ai primordi della creazione, cioè da quando la Divinità stessa esiste. Questo spirito non è un bambino ma è ben «adulto», e consapevole di quello che fa: vuole incarnarsi e lavora a costruire un corpo adatto all’espressione di sé, quale prezioso strumento per vivere sulla terra. Solo considerando seriamente questa prospettiva, avremmo due matrici fondamentali fra le quali davvero scegliere quando si tratta di aborto: una che interpreta l’essere umano in chiave di non preesistenza, e un’altra in chiave di preesistenza.
Portandoci sull’altro confine della vita umana, la morte, ci viene incontro la grossa paura (conseguenza inevitabile dell’onesto materialismo) di dover ammettere che con la morte termini di esistere l’uomo stesso. Anche qui è importante chiederci – come primo gesto di liberazione interiore dal materialismo, e senza voler creare un altro dogma – se c’è un’alternativa all’affermazione che col dissolversi del corpo scompaia tutto l’uomo.
Supponiamo di essere convinti che allungare la vita di una persona sia per lei oggettivamente il meglio. Quale potrebbe essere la controaffermazione? Goethe dice: «Ogni affermazione fa pensare al suo opposto». Perciò, se si fosse bravi nel pensare, bisognerebbe approfondire un senso cercando ogni volta il senso opposto, il suo controsenso, in modo da creare la tensione polare. Il polo opposto della precedente affermazione sta nel supporre che in ogni corpo fisico viva incarnato uno spirito umano con a disposizione tutti i millenni della terra per la propria evoluzione. Essendo uno spirito libero, l’uomo sceglie liberamente non solo il momento della nascita, ma anche la durata della sua vita.
La nostra coscienza ordinaria (il nostro «io» di tutti i giorni, per intenderci) non sa quando sia previsto il momento della morte. Ma supponiamo che in ognuno di noi esista un Io dalla coscienza più vasta, un vero Io spirituale di cui il nostro io più piccolo non è consapevole (sovraconscio, dunque), e che questo Io sappia quando è bene per lui lasciare la corporeità. Se così fosse, far di tutto affinché viva il più a lungo possibile, anche oltre il giorno da lui stesso fissato per la sua morte terrena, gli recherebbe solo danno, perché sarebbe contro la sua volontà.
L’affermazione che in un primo tempo appariva scontata – è bene far di tutto per prolungare la vita di una persona –, merita allora di essere messa in questione. Ciò avviene quando prendiamo in considerazione l’alternativa or ora proposta e che, se approfondita con mente spassionata, ci porterebbe ad aprirci sempre di più alle ispirazioni dell’Io spirituale. Questo tipo di riflessione potrebbe liberarci dal desiderio tutto egoistico che una persona muoia troppo presto (il tema dell’eutanasia), o troppo tardi (l’accanimento terapeutico nelle sue molteplici forme, e gli studi genetici che mirano al prolungamento della vita tramite interventi sul DNA).
Liberandoci un po’ alla volta dalle pretese miopi del nostro io più piccolo, l’occhio diventa più sereno e noi acquistiamo maggiore capacità di ascoltare dall’Io vero nostro e dell’altro in quale momento è prevista la morte, in quale giorno l’Io desidera ritornare nel mondo spirituale.
È tempo che l’uomo sappia quello che fa
Nel lavorio frenetico dell’ingegneria genetica e delle sperimentazioni atomiche, emergono due realtà che meritano di venir considerate attentamente.
La prima è la disparità, il divario sempre più minaccioso tra il fare e il conoscere: il fare non dipende necessariamente dalla conoscenza, perché si può agire anche senza sapere quel che si fa. Il carattere di minaccia dell’ingegneria genetica e atomica risiede proprio nel fatto che la sperimentazione si intensifica sempre più, mentre l’uomo conosce sempre di meno le possibili conseguenze del suo operare. Sperimentare, nella nostra cultura, ha preso il sopravvento sul capire: prima proviamo, si dice, e poi stiamo a vedere quello che succede.
Le possibilità tecniche di trasformare il mondo compiono passi da gigante grazie a sperimentazioni sempre nuove: ogni volta la natura reagisce, e reagisce secondo le sue leggi. E noi, in base a quelle reazioni, inneschiamo nuovi esperimenti che a loro volta daranno nuovi risultati.
Quanto al pensiero le cose stanno in altro modo. Il cammino della conoscenza non ha l’appoggio comodo della natura che dà sempre riscontri: gli esperimenti in campo conoscitivo si svolgono secondo le leggi dello spirito, cioè secondo libertà, e perciò non comportano né automatismi né necessità. Proprio per questo motivo, nulla viene oggi più trascurato dell’impegno conoscitivo. Anche perché per conoscere sempre meglio la natura non basta «sapere» tante cose. La conoscenza vera indaga l’essere delle cose, la natura eterna e spirituale di ogni realtà. L’umanità di oggi compie portenti sempre più strepitosi, ma «conosce» meno che mai quello che fa.
Fino a che punto, per esempio, possiamo dire di conoscere l’essere vero di una pianta? Un’osservazione che consideri soltanto la materia del vegetale, coglie la pianta nella sua completezza? E che cosa sappiamo, noi, degli animali e dell’uomo stesso stando alla medicina che li tratta come pezzi di materia più o meno complessi, e non trova nulla di strano nel trapiantare l’organo di un animale in un uomo? Conosce davvero l’uomo una scienza che considera i fenomeni di pensiero e di sentimento come prodotti della materia, come fenomeni derivati? Sa qualcosa dello spirito umano chi dice: come la pelle esala certi profumi, così il cervello esala pensieri?
Dobbiamo allora dirci con tutta onestà che il potere dell’uomo di trasformare la natura aumenta, mentre diminuisce la sua capacità di conoscerla e di capirla. Il fattibile s’ingrandisce a dismisura, anche grazie a strumenti tecnici sempre più perfetti e complessi, e invece la conoscenza viene sempre più trascurata e mortificata. L’uomo è sempre più occupato a «fare» e ha sempre meno tempo ed energie per pensare.
La seconda verità sulla quale vorrei soffermarmi è che il distruggere è più facile del costruire. Rovinare una vita è più facile che edificarla, lo sappiamo tutti. Si fa prima a buttar giù una parete che a costruirla mattone su mattone. Lo stesso vale per l’equilibrio ecologico della nostra terra, quale unità biologica che abbraccia la natura e l’uomo: per far sorgere questa grandiosa armonia sono stati necessari millenni e millenni; per distruggerla basta, al confronto, una misura di tempo infinitesimale.
Questo pensiero è molto importante se riusciamo a mantenerlo vivo quando consideriamo le vicende della terra e dell’umanità: esso induce un reale senso di responsabilità individuale che, se andasse perso, potrebbe diventare troppo tardi ripensarlo. Con la nostra cecità di fronte alla distruzione in parte irreversibile operata contro la terra, possiamo gettare noi stessi nello stesso vortice di devastazione. Questi pensieri vengono spesso liquidati col fastidio di chi vi annusa moralismi o facili profetismi iettatori: invece, come per tutte le cose che riguardano l’evoluzione dell’uomo e del suo pianeta, la cosa più importante è la ferma volontà di conoscere l’oggettività dei fenomeni. Se l’irresponsabilità nasce dalla mancata conoscenza, per superarla non servono le condanne morali: bisogna coltivare la conoscenza.
Duemila anni fa, colui che i cristiani chiamano «il Cristo» invocò presso il Padre universale il perdono per l’umanità dicendo: «Perdona loro perché non sanno quello che fanno». Ma dobbiamo chiederci: questa affermazione vale forse per sempre? Se così fosse gli esseri umani sarebbero destinati a soccombere alla loro ignoranza, rimanendo in una condizione d’infanzia eterna.
La svolta dell’evoluzione, invece, se compresa con le forze conoscitive che abbiamo oggi a disposizione, appare proprio come il passaggio che l’uomo fa dalla posizione di minorità di una creatura che non sa quello che fa, alla posizione di un creatore che sempre meglio sa quello che fa. Il motivo del perdono valido duemila anni fa, vale oggi tanto meno quanto più capaci di conoscenza sono diventati nel frattempo gli uomini. Con l’incremento della facoltà conoscitiva aumenta anche la responsabilità morale nei confronti della conoscenza stessa. La capacità di conoscere diventa sempre più un dovere morale: è il dovere di non restare schiavi quando ci sono tutte le condizioni per essere liberi.
Se esiste un vero «peccato» morale è oggi più che mai quello di omissione: l’omissione di coscienza di fronte a quello che stiamo facendo in tutti i campi della vita, e in misura massima nel nostro modo di trattare la terra.
Possiamo chiederci ancora: chi ha deciso che dobbiamo sapere sempre meglio quello che facciamo? Chi ha deciso che abbiamo una responsabilità morale nei confronti della conoscenza? Possiamo rispondere che lo decide la nostra stessa natura d’uomini, la nostra dignità: un essere umano che non coltivi la conoscenza si svuota d’essere, perde sostanza umana perché cade in balia di poteri a lui esterni. L’alternativa concessa alla libertà umana sta nella scelta tra l’approfondire e coltivare la coscienza, come fondamento e fulcro della propria sovranità, e il restare bambini incoscienti e dipendenti da altri.
Nell’evoluzione non tutto è riparabile, non tutto è reversibile e riciclabile: se lo fosse avremmo un’evoluzione eternamente ciclica, che si ripete sempre uguale, senza libertà. Il sorgere della libertà porta invece con sé elementi di irreversibilità. La libertà è la forza di portare su di sé le conseguenze di ciò che si fa, ed essere liberi significa che non ci si può più appellare a un Padreterno che venga a rimettere tutte le cose a posto. Non esiste una libertà umana senza abissi da cui non sia più possibile risalire.
Ciò che il materialismo dà per scontato
Imperano nel materialismo odierno due dogmi fondamentali che guidano le scelte dell’ingegneria genetica e il modo di usare l’energia atomica. Sono dogmi in quanto non vengono sufficientemente vagliati dalla coscienza: si sono come insediati nella nostra interiorità e sono d’acciaio perché, favorendo i poteri costituiti, non vengono volutamente esplicitati o messi in questione.
Il primo dogma lo abbiamo già incontrato, e si tratta ora di formularlo con precisione: esso dice che la materia è causa e lo spirito è effetto. Tutto ciò che è di natura non materiale, non percepibile, è considerato effetto di una realtà materiale che lo origina. Si pensa: se noi riuscissimo a penetrare tutti i recessi della materia, a decodificare tutti gli elementi costitutivi del DNA, verremmo a conoscere di un uomo tutte le cause che ne determinano l’essere e l’agire. Potremmo spiegarci il suo specifico pensare, il suo sentire, il suo volere. Nella misura in cui la scienza riuscirà a intervenire là dove i processi materiali (le cause) sono appena agli inizi, essa potrà predeterminare completamente il risultato (l’effetto), cioè il nascituro, con specifiche qualità del cervello e degli altri organi, improntando così il suo comportamento e la sua stessa vita.
Per esempio, prima di impiantare un seme umano nell’utero (finché non si riuscirà a fare a meno anche dell’utero), in base a una diagnosi delle sue componenti genetiche, si potranno eliminare determinati elementi indesiderati e se ne potranno creare di nuovi. L’uomo spera di potere un giorno fabbricare l’uomo – l’altro uomo! – come vuole lui, facendo così all’altro ciò che mai egli vorrebbe fosse fatto a sé. Anzi sarebbe più giusto dire, stando a questo assunto, che la materia più raffinata dell’uomo, cioè il suo cervello, spera di riuscire un giorno a fabbricare l’uomo.
Se il primo dogma del materialismo agisce piuttosto al livello del pensiero, il secondo investe più direttamente la sfera morale. È il dogma che dice: la vita è bella nella misura in cui è comoda e tutto va liscio. Supponiamo adesso che ogni Io umano, prima ancora d’incarnarsi, pianifichi tutti gli eventi della vita come tante sfide da superare, come una gagliarda palestra per evolversi ulteriormente. Supponiamo che questo Io dalla coscienza più vasta voglia affrontare le situazioni difficili e gravose non meno volentieri di quelle liete, ben sapendo di esporsi, così, a tutte le tempestose reazioni di rigetto da parte del suo «io normale» – cioè di quel tipo di coscienza che avrà a disposizione nello stato incarnato e che, l’abbiamo già detto, di solito non sa quello che fa e per natura cerca una vita comoda.
Poniamo il caso concreto che un dato spirito umano voglia vivere una malattia, che se la sia scelta con grande desiderio e gratitudine proprio per ciò che la lotta per superarla gli consentirà di vivere e di diventare. A questo Io spirituale non interessa tanto il fatto che questa malattia sia anche l’effetto karmico di tutto il suo passato, che in essa parlino le leggi ineluttabili del destino; per lui sono importanti unicamente le facoltà e le forze tutte positive che questa malattia gli darà di conseguire in vista dell’avvenire, della sua ulteriore evoluzione,
Stiamo dunque ipotizzando un Io che vuole intensamente una certa malattia e concentra i suoi pensieri sulla positività del potersi confrontare con quel tipo specifico di patologia, lottando per la guarigione. A questo punto sopraggiunge lo scienziato moderno e gli dice: «No, la tua vita è migliore se questa malattia non c’è. La medicina fa progressi proprio perché riesce ad abolire più malattie possibili: perciò la tua tubercolosi scordatela!». E magari l’Io superiore si vede costretto a «ripiegare» su un cancro al polmone.
Mi rendo conto che un discorso del genere in prima battuta possa suscitare perfino indignazione: io non intendo però affatto dar voce a una volontà retriva, tesa a bloccare le scoperte farmacologiche con tutti i benefici che comportano. La mia è una provocazione a riflettere sul fatto che non è per niente scontato che le difficoltà della vita, malattie comprese, siano delle «disgrazie». E c’è una bella differenza tra il subire i cosiddetti guai a denti stretti e l’affrontarli come occasioni reali e positive di evoluzione, volute dal nostro stesso essere spirituale. Ed è un fatto che le individualità più grandi della storia debbano la loro grandezza a una vita tutt’altro che comoda. Basti pensare a un Dante...
La fatica che facciamo per seguire queste controi-potesi di pensiero che interpretano in modo nuovo la vita, indica che esse si affacciano appena appena in un’umanità sempre più prigioniera di argomentazioni dal carattere apodittico: «non c’è altra scelta», «bisogna far così», «purtroppo la vita è dura e le sventure ci rendono infelici», «le malattie vanno stroncate perché sono un assoluto male»... Un pensare che vada più a fondo non trova ascolto.
Premessi questi due assiomi del materialismo, direi che alla base dell’ingegneria genetica e dell’uso dell’energia atomica c’è lo scopo fondamentale, non dichiarato ma sottinteso, di usare la natura al servizio dell’uomo. Si dirà: ma non è fatta apposta, la natura, per essere al nostro servizio? Che cosa c’è di male? Spesso ci sfugge che in questa affermazione ce n’è un’altra implicita, essa pure non portata a coscienza, che dice: la natura e l’uomo sono due realtà a sé stanti. L’uomo è separato dalla natura e ciò gli consente di metterla al proprio servizio.
Qual è l’alternativa, l’altra possibilità a cui l’umanità di oggi non pensa neanche? È che l’uomo sia integrato in tutto e per tutto nell’organismo unitario della natura. Se così fosse non potrebbe mai sfruttarla a proprio vantaggio perché, essendone parte integrale, sfrutterebbe se stesso. Un’assurdità. Questa alternativa di pensiero getta luce sull’ottenebramento della coscienza moderna intrisa di materialismo, che ha portato alla convinzione che l’essere umano sia un essere altro dalla natura e dalla terra tutta.
Il mio intento sarà quello di fondare, da angolature diverse, il pensiero che dice: tutto ciò che l’uomo fa alla terra e alla natura, lo fa direttamente a sé. Asservire e sfruttare la natura vuol dire asservire e sfruttare l’umanità. Solo amando la terra si può amare l’uomo, che è un tutt’uno con essa.
Effetti sull’uomo dell’eliminazione delle specie
Una delle grandi polarità della vita umana, che ne riassume tante altre, è quella tra il molteplice e l’uno: l’umanità stessa racchiude in sé un mistero sia di unità, sia di molteplicità. La sua unità abbraccia non soltanto tutti gli uomini, ma la natura intera: è una realtà di universale compaginazione, di «organicità» totale, dove tutti diventiamo membri gli uni degli altri a mano a mano che riusciamo a percepire l’uomo e la terra come destinati a organizzarsi sempre meglio in un unico organismo. L’altro polo è la diversità, la molteplicità che è data da un lato dall’unicità e singolarità assoluta di ogni essere umano, e dall’altro dalle leggi «specifiche» che reggono il formarsi di tutte le varie specie di pietre, di piante, di animali.
In relazione a questa realtà dell’uomo e della terra incombe la grande minaccia – o la grande tristezza – della sperimentazione di ingegneria genetica che elimina giornalmente decine di specie naturali: ogni anno vengono fatte scomparire per sempre migliaia di specie di insetti e di piante. Non è stato il cieco caso a far sorgere la pluralità infinita delle specie e delle sottospecie. Esiste una regìa unitaria, e noi siamo immersi in una sinfonia cosmica che fa sviluppare temi e variazioni infinite.
Se c’è un’armonia di pensieri alla base dell’infinita molteplicità della natura, che cosa avviene all’equilibrio ecologico della terra e dell’uomo se noi distruggiamo la metà, i due terzi o i tre quarti delle sue specie? Si mette in moto un processo di appiattimento e di omologazione degli spiriti umani stessi. Tutte le specie di piante e di animali, insetti compresi, sono infatti pensieri divini, sono intuizioni di quell’architetto creatore che ha voluto squadernare davanti allo spirito umano una dovizia senza fine di creature – affinché il pensare umano non perdesse mai d’intensità, ma avesse la possibilità di cesellare lui stesso pensieri all’infinito, sollecitato da queste infinite percezioni.
Una pittura è resa bella non dall’esiguo numero di colori usati, ma dalle infinite sfumature che il loro incontrarsi genera: la molteplicità è nell’universo l’arte somma delle infinite sfumature. L’ingegneria genetica moderna sta cancellando a una a una proprio queste sfumature e impoverisce così la percezione umana, inaridendo e disseccando le sorgenti stesse del pensare. La distruzione di tante specie di piante e di animali, vista con la consapevolezza della connessione intima tra l’uomo e i regni della terra, appare come un vero e proprio immiserimento dello spirito umano.
Se questo risulta all’indagine del pensiero, è legittimo aggiungere che la distruzione delle specie naturali è un male anche in senso morale: perché viene in questo modo diminuito l’essere stesso dell’uomo che, nel mondo umano, è l’unico criterio del bene e del male. Male è infatti tutto ciò che danneggia e mortifica l’umano, bene è ciò che ne edifica e ne promuove la pienezza. Se è vero che le formazioni naturali, nelle loro infinite variazioni, rappresentano le possibilità evolutive del pensare umano, è lo spirito umano a venir mutilato quando esse vengono soppresse.
L’energia atomica agisce nella realtà al polo dell’unità, opposto della molteplicità. La natura si fonda su unità di forma che sono costanti e non soggette a repentine metamorfosi, unità fondate a loro volta su ciò che chiamiamo «atomo», l’ultimo argine alla distruttibilità della materia. L’atomo è la controparte naturale di quel che negli esseri spirituali chiamiamo «individuazione».
L’individualità dell’uomo è l’ultima unità dello spirito umano, come dice la stessa parola individuum, che significa non divisibile e non diviso. Come l’Io umano è l’ultimo approdo della divisibilità dello spirito, così nella materia l’atomo è il fondamento ultimo della nostra esistenza, e la sua divisione comporta l’irreversibile distruzione della materia e di ogni esistenza in essa incarnata.
Se la grande minaccia dell’ingegneria genetica sta nella sua capacità di cancellare la molteplicità, la minaccia dell’energia atomica è, all’opposto, quella di distruggere l’unità di coesione della materia, che nella sua durevolezza ci offre il sostrato fisico permanente per la nostra stessa evoluzione. La tecnica moderna ha la possibilità reale di distruggere la terra intera, e l’umanità si ritrova per la prima volta nelle condizioni di decidere delle sorti della sua stessa evoluzione, avendo appena una vaga consapevolezza del suo vero significato.
Ma davvero la natura è fuori di noi?
Il bello della vita non consiste nel non avere problemi ma nel lavorarci sopra. Quando poi si ha l’impressione di aver risolto un quesito, l’orizzonte si amplia e veniamo posti di fronte a nuovi enigmi. Le risposte che diamo suscitano, in un panorama diventato più vasto, altre domande e fanno sorgere altri quesiti.
L’impulso più bello della mente umana è l’anelito all’unità nella molteplicità. Se il cosmo in cui viviamo non è sorto per caso, se ogni sua manifestazione ci rimanda a una regìa unitaria piena di saggezza e di amore, allora l’intenzionalità impressa nella mente umana dev’essere quella di reintegrare in una visione organica ogni singolo elemento del mondo. La sconfinata molteplicità delle creature dell’universo, quest’immenso habitat tellurico e cosmico, ci è allora dato per viverci organicamente in simbiosi con gli animali, con le piante e con le pietre, cioè con la totalità della natura.
Consideriamo in questo contesto i quattro classici elementi: terra, il solido; acqua, il liquido; aria, il gassoso; fuoco, il calorico. Volendo affrontare questa quadruplicità in chiave di evoluzione, di cosmogenesi, le cose da dire sarebbero infinite: penso ad esempio a Goethe che non scrive quasi nulla senza riferirsi nei modi più svariati ai quattro elementi, che sono come il compendio del mondo in cui viviamo.
Nel contesto del nostro lavoro possiamo prendere l’avvio da un «fenomeno italiano», che vive però profondamente anche nella coscienza di altre culture: Francesco d’Assisi. Il modo in cui Francesco d’Assisi si pone di fronte alle creature della terra, dell’acqua, dell’aria e del fuoco, chiamandole fratelli e sorelle, è davvero esemplare, è umanissimo, e perciò ha tanto da dire, anche se l’espressione esteriore del rapporto con l’ambiente varia di epoca in epoca.
Il fatto fondamentale dal quale dobbiamo partire è che per Francesco d’Assisi non esiste separazione alcuna tra l’uomo e gli elementi della natura. Francesco non vede sé «fuori» dalla natura e non può guardare alla natura come se fosse «fuori» di lui. Frate sole, sora luna, sor’aqua, sora terra, frate vento, frate focu: così Francesco chiama tutti gli elementi terrestri e in questo modo li vive dentro l’umano. Facendo di loro tanti fratelli e sorelle gli dà un’anima, li immette nella comunanza dell’amore umano. Uno dei suoi motti dice: non in libris, sed in silvis – non nei libri, ma in mezzo ai boschi si incontrano le creature.
La condizione tutta nuova dell’umanità attuale, il suo punto di partenza nell’esperienza della natura è proprio quello che possiamo chiamare «la distanza»: noi non sentiamo più l’aria e il fuoco come parte di noi, non sentiamo più fratello il sole e sorella l’acqua. Con la nostra tecnica, e con la nostra scienza siamo intenti a dominare la natura, la sfruttiamo e pensiamo addirittura di farlo impunemente. Eccezioni non mancano, certo, tuttavia la tendenza di fondo dell’uomo d’oggi è quella di soggiogare la natura per metterla al proprio servizio. Il rapporto che aveva con lei un Francesco d’Assisi risulta anacronistico, bello per quei tempi, sì, ma oggi del tutto impraticabile.
Eppure l’amore di Francesco d’Assisi per tutte le creature è puro amore cristiano, e il cristianesimo si manifesta in lui per quello che veramente è: l’universalmente umano – l’umano che è comune a tutti gli uomini, che si riversa in tutto l’universo e trova la sua eco in ogni singola persona.
Non è facile oggi parlare di cristianesimo, soprattutto qui in Italia, perché subito si va con la mente ai risvolti storici e politici di un cattolicesimo spesso discutibile, che ha ingenerato nella cultura laica una profonda disaffezione nei confronti del cristianesimo vero e proprio. Ciò rende ancora più urgente il recupero di quelle verità cristiane che finalmente, oggi, possono essere comprese per quello che oggettivamente sono: un vero umanesimo. L’essenza del cristianesimo risiede nell’affermazione che duemila anni fa gli Esseri del cosmo intero hanno consacrato l’umano, e la terra che lo sostiene, segnando una svolta grandiosa per l’evoluzione di tutti gli uomini, accomunandoli in una destinazione unitaria.
Una mente e un cuore come quelli di Francesco d’Assisi sono stati forgiati dal cristianesimo. Il suo apprezzamento profondo per le creature della terra sarebbe stato impensabile nel buddismo, ad esempio. Se vediamo il buddismo – e le religioni orientali precristiane in genere – come uno stadio specifico nell’evoluzione complessiva dell’umanità, constatiamo che cinquecento anni prima del sorgere del cristianesimo gli uomini facevano fatica ad accettare l’incarnazione, a vederne il risvolto tutto positivo. Il congiungimento con la materia veniva vissuto come un elemento di essenziale impurità, di contaminazione dello spirito umano. L’intento del buddista era allora quello di ritrarsi, di abbandonare la terra, l’aria, l’acqua, il fuoco per ritornare ai mondi del puro spirituale. Ai tempi del Buddha, l’uomo desiderava salvarsi scappando via dalla terra. Le creature della terra non venivano viste come fratelli e sorelle, ma come maya, come pura illusione.
L’avvento dell’Essere chiamato «Cristo» ha inaugurato per tutti gli uomini un vero umanesimo integrale, in duplice modo: da un lato Egli fece della Terra il suo Corpo, unificandone tutte le creature in un’unica tensione verso la resurrezione; dall’altro fece dell’Umanità la sua Anima, affratellando tutti gli uomini in un’unica famiglia. La buona novella da allora annunciata ad ogni uomo dice: guarda, ti sono messe a disposizione tutte le possibilità per conquistare, nel corso del tempo, la pienezza del tuo essere facendo tue le sorti della terra e dell’umanità. La buona novella di un umanesimo davvero universale annuncia che non c’è redenzione del singolo senza redenzione dell’umanità e della terra.
Un malinteso «progresso» che rovini la terra rovina l’uomo stesso, e la sola salvezza è quella che salva con l’uomo tutte le creature della terra. L’amore di Francesco d’Assisi nasce da un cuore che ha accolto in sé l’amore del Cristo, anche se non ancora accompagnato da una piena conoscenza di questo vissuto. Le intuizioni del cuore precedono sempre quelle della mente: ognuno capisce davvero solo ciò che ha a lungo amato.
La dimensione cosmica dell’evento di duemila anni fa – quell’evento di Palestina che l’umanità odierna può riscoprire con gli strumenti di una vera e propria scienza dello spirituale – è la conseguenza del fatto che l’Essere dell’Amore, l’Essere che raccoglie in sé tutte le forze del nostro sistema solare, ai primordi dell’evoluzione terrestre si è distanziato dalla Terra portando fuori le forze evolutivamente più sublimi e irraggianti fino a costituire l’attuale Sole. Questa separazione (della quale ritornerò a parlare più estesamente) consentì alla Terra e agli esseri che rimasero ad abitarla di «indurirsi», solidificandosi sempre di più, e di sperimentare così la fase evolutiva della frammentazione – ci riferiamo a tempi in cui tutta la natura e la costituzione degli uomini differivano profondamente dalle attuali.
Tutti i miti dell’antichità ne parlarono: Osiride e Dioniso che vengono smembrati ne sono la più chiara testimonianza. Ciò che allora non era dato di comprendere era che quella disgregazione dell’essere cosmico, originariamente uno, segnava l’ingresso dell’egoismo nell’umanità, necessaria preparazione all’amore: perché l’amore è possibile solo in esseri autonomi, e si nutre proprio del superamento dell’egoismo. La frammentazione era ed è la condizione necessaria di ogni riunione che venga costruita dalla libertà.
Una volta acquisita l’egoità individuale (e altroché se l’abbiamo acquisita!), si tratta ora di compiere sempre e dovunque nella coscienza umana la svolta evolutiva che ci fa smettere di vivere gli uni contro gli altri, per cominciare a ricostruire membro a membro il corpo dell’umanità smembrata. Questa è la seconda tappa dell’evoluzione, tutta fatta di amore. Volendo superare la solitudine dell’egoismo, ci si apre sempre più all’amore verso gli altri. È questa la grande rivoluzione evolutiva che viene inaugurata dal ritorno nella Terra dell’Essere del Sole che duemila anni fa ne ha fatto di nuovo il suo corpo inabitandola, come il cristianesimo ha sempre affermato. Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, dice l’Essere dell’Amore alla terra, all’acqua, all’aria, al fuoco. Nulla affratella gli uomini più di quanto può farlo il più profondo amore comune: l’amore per la Terra.
Madre terra, sorelle aria e acqua, fratello sole
Riascoltiamo quelle righe del Cantico delle creature (le Laudes) che riguardano gli elementi. Dopo aver detto Altissimu, onnipotente, bon Signore Francesco parla del sole:
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo quale è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore::
de Te, Altissimo, porta significatione.
Per Francesco d’Assisi il sole non è una realtà puramente fisica, un mero pezzo di materia o un concentrato di gas: egli guarda il sole come noi siamo abituati a guardare il corpo di una persona. Quando incontro un amico che cosa ho davanti a me? Un pezzo di materia? Sì, anche quello, ma non soltanto: questo pezzo di materia è inabitato, è tutto compenetrato dall’anima del mio amico, ne è vivificato, è «animato»... La sua fisionomia è come una grafia: segni che vanno decifrati, che manifestano l’invisibile. Partendo dal suo corpo mi vengono incontro i suoi pensieri, che non sono dei pezzi di materia; mi vengono incontro i suoi sentimenti, che sono ben altra cosa che il suo corpo. L’amicizia che ci lega non la posso fotografare, però la vivo più intimamente di ciò che è materiale. Francesco d’Assisi vive tutti gli elementi della natura (e il sole li accomuna tutti proprio perché li rende visibili tutti) come corporeità di esseri spirituali. Per lui non esiste nulla di visibile che non sia intriso di spirito, che non sia acceso e illuminato dall’Essere spirituale del Sole.
Guardando il mio amico mi chiedo: chi ha plasmato la sua fisionomia, chi l’ha architettata? È spuntata fuori così a caso, una delle tante sintesi possibili operata dalle cellule di suo padre e di sua madre? Aristotele vedeva nella fisionomia di un uomo la scrittura del suo Io, della sua Entelechia, come la chiamava. Se noi recuperassimo questa capacità di lettura sapremmo risalire – in base ai tratti del volto e della corporeità tutta, anche solo partendo dagli occhi o dalla forma del naso – all’architettura spirituale dell’essere che ci è di fronte. Siamo più di sei miliardi d’uomini sulla terra, e ancora non se ne trovano due con lo stesso volto. Come possono sorgere due corpi uguali se non esistono due spiriti umani in tutto e per tutto uguali? Se ciò fosse, non sarebbero due, ma uno.
Francesco sa che il sole porta significatione del Cristo, del Signore, come lui lo chiama: il comportamento del sole, ciò che ognuno di noi vive in compagnia di questo sovrano astro del cielo, manifesta il modo di vivere di un Essere spirituale che regge le sorti di tutte le creature della terra. Con le forze d’amore del suo cuore Francesco d’Assisi incontra nelle leggi della natura il modo di operare e le intenzioni di infiniti Esseri spirituali. L’essere della rosa appare in un modo tutto suo, ha una maniera propria di formare e disporre le foglie sullo stelo, ha ritmi suoi basati sul pentagramma, così che non si troverà mai una rosa con sette, o quattro, o sei sepali verdi sotto il calice, ma saranno sempre cinque... Ogni elemento visibile porta significatione di come è fatto l’essere spirituale che lo forma, e che in esso si manifesta.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Seguono, uno dopo l’altro, i quattro elementi: quattro, e non di più; prima ha parlato del sole e delle stelle, adesso si rivolge agli elementi della terra. E da buon italiano Francesco d’Assisi comincia con il vento, con l’aria: la lingua italiana, fatta tutta di musicalità, gode particolarmente dell’elemento dell’aria:
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
In poche parole è contenuta tutta la meteorologia, tutte le possibili fisionomie del tempo che non conosce la pesantezza di ciò che poggia sulla terra, ma che sostenta le creature accarezzandole col soffio dell’anima. Che tempo fa?, chiediamo noi per sapere in quali «temperie» siamo immersi in un dato giorno.
Poi Francesco si rivolge all’acqua:
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Mi sono sempre chiesto se qui, forse, non sia andato perso un verso, perché a tutti gli altri elementi sono dedicati tre versi, mentre per l’acqua ce sono soltanto due: mi vien da pensare che forse c’era un verso che diceva: «e per la quale ne dai la vita nostra», o qualcosa del genere. Per gli altri elementi c’è un verso che ne caratterizza l’essere e un altro che ne esprime l’operare a favore dell’uomo.
Segue l’elemento del calore: dall’aria siamo scesi all’acqua, ora ritorniamo in su in compagnia del fuoco per poi scendere fino in fondo, sulla terra:
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Il fuoco è l’elemento che fa sprigionare la luce imprigionata nella terra, che dà calore terrestre. Il fuoco è sempre stato visto come immagine dello spirito umano, così come l’aria e il vento rendono visibili i moti dell’anima. E lo spirito umano è il riflesso dello spirito divino, allo stesso modo in cui la luce e il calore del fuoco sono il riflesso terrestre della luce e del calore del sole.
E da ultimo viene la terra, sorella e madre di tutti noi:
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Alcuni confratelli di Francesco faticavano a capire come lui potesse sentirsi così a casa fra gli elementi della terra: se ne stava per mesi interi nel bosco, e così non prendeva la comunione e non andava a visitare il Cristo nella cappellina! Ma il problema era dei confratelli, non di Francesco: erano loro a pensare che il Cristo fosse presente più nella chiesetta e nell’ostia consacrata che non nel sole e nel vento, nell’acqua e nel fuoco e in tutte le creature della terra. Con l’intuizione del cuore Francesco sentiva l’onnipresenza del Cristo che consacra la terra facendone il suo corpo sacro. Egli precorreva i tempi: per percepire la presenza reale dello spirito in tutti gli esseri della natura, la nostra coscienza moderna deve ancora farne di strada!
Più tardi Francesco d’Assisi aggiunse al suo canto una strofa sulla sorella morte, ringraziandola e apprezzandola in modo particolare perché ci fa entrare nello spirituale vero e proprio, ci porta in dono la vita suprema. C’è forse una contraddizione tra l’intuizione del cuore che vede nella terra la casa dell’uomo, la casa dei suoi fratelli e sorelle, e il pensiero che anche la morte ci sia sorella, quella morte che sembra portarci fuori dalla realtà della terra? Francesco intuiva che l’amore rivolto alle creature della terra continua a vivere dentro di noi anche dopo la morte. L’amore che si accende sulla terra, e che è rivolto alla terra, ci mantiene congiunti anche dopo la morte con l’Essere spirituale che la intride, e non può che accendere in noi il desiderio di tornare a visitarla. Solo l’uomo può redimere dalla caducità la sua parvenza effimera. E poiché la terra è il grembo in cui si compie la millenaria rinascita dell’umanità, la terra divenne sommamente amabile agli occhi dell’Essere del Sole, che in lei si è fatto carne.
L’uomo moderno e la libertà di agire contro natura
Guardiamo ora il modo in cui l’uomo moderno si pone di fronte alla terra, all’aria, all’acqua e al fuoco. Non possiamo contare sulle forze di partenza infuse da un rapporto di venerazione e d’amore verso la natura, com’era quello di Francesco: non le viviamo più, quelle forze, la cultura moderna ce le ha portate via. Possiamo però partire da altri presupposti, senza rimpiangere i tempi di Francesco perché sarebbe un inutile anacronismo: quei tempi sono ormai per sempre tramontati. Chi si volesse comportare oggi come Francesco d’Assisi, si metterebbe in contraddizione con tutta la realtà che lo circonda, diversa da quella di allora: vivere di pura elemosina, tanto per fare un esempio, poteva andare bene a quei tempi, oggi non sarebbe più possibile.
L’intento che hanno molti di imitare Francesco nasconde altri aspetti di contraddizione, perché Francesco è stato un grande originale, non ha copiato mai nessuno: seguiva l’intuizione del cuore che gli diceva come affrontare le situazioni e come trattare le persone in modi sempre nuovi. L’unica possibilità di imitare davvero Francesco d’Assisi consisterebbe nello smettere d’imitarlo, visto che lui non si è mai orientato secondo modelli esterni. Attingeva a una sorgente intima al suo essere, ad una forza d’amore genuina ed esuberante che di volta in volta gli svelava il senso degli uomini e delle cose, una forza che era tutta sua e che nessuna nostalgia di rimpianto o d’imitazione potrebbe far risorgere oggi nell’interiorità di qualcun altro.
Va quindi accettato positivamente il fatto che l’uomo moderno debba riconquistare maggiormente in chiave di libertà quelle forze che a Francesco furono date prevalentemente dalla grazia divina.
Che cosa è infatti più importante per l’evoluzione dell’uomo? Avere a disposizione le forze del cuore per grazia ricevuta, oppure conquistarsele con le fatiche della libertà e della responsabilità individuali? Il secondo stadio ci avvia verso la pienezza dell’umano; nella fase infantile riceviamo ancora tutto passivamente da mamma natura, e perciò è una fase di preparazione, destinata a venir superata.
L’uomo moderno non ha da lamentare la mancanza di un rapporto naturalmente armonico con gli esseri della terra. La sfida che oggi gli si offre consiste proprio in una posizione di partenza fatta di discrepanze e di disarmonie. Dove c’è la libertà dev’essere anche possibile omettere tutto il bene che va compiuto liberamente: una libertà non omissibile non sarebbe libera.
I nostri grandi peccati contro la natura, contro l’acqua, l’aria, il fuoco e la terra saranno sempre meno peccati di commissione e sempre più peccati di omissione. Se il dato di partenza è un estraniamento dell’uomo dalla natura, il compito della libertà sarà quello del ricongiungimento tramite le forze di conoscenza e di amore. E il grande peccato di omissione di ogni uomo consiste nel fare troppo poco per amare e conoscere la terra.
Se l’uomo omette il cammino di conoscenza della terra, se omette le azioni d’amore rivolte agli esseri della natura, allora si affacciano gli abissi dell’evoluzione, quelli che la libertà umana spalanca con le sue omissioni. Al giudizio universale, come è descritto nel vangelo, non viene citato alcun peccato di commissione in riferimento ai «cattivi». Non vengono rimproverati per aver compiuto qualcosa di male, qualcosa che sarebbe stato meglio non fare. Il loro male consiste tutto nel bene che non hanno fatto. Viene loro detto: «Avevo fame e non mi avete dato da mangiare; avevo sete e non mi avete dato da bere...». Vengono citati unicamente peccati di omissione.
La prima grande omissione nei confronti degli elementi dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco è quella relativa alla conoscenza della loro vera natura: questa conoscenza viene offerta alla nostra libertà, non ci può venire imposta. Possiamo instaurare un rapporto conoscitivo libero con la natura: essa non si mostra più per quello che spiritualmente è, ma offre solo la sua parvenza esteriore che unicamente il pensare umano è capace di comprendere nella sua vera essenza. E questo lavorio del pensiero viene compiuto nella libertà dell’amore.
La seconda grande omissione della nostra libertà è conseguenza della prima: trascurando il cammino di conoscenza della realtà oggettiva della natura, si omette anche di trattare la natura secondo natura e la si comincia a trattare contro natura. L’uomo può snaturare il suo rapporto con il mondo, può agire nei confronti degli elementi della terra, dell’acqua, dell’aria e del fuoco in maniera contraria al loro intimo essere.
Per la prima volta nella storia dell’evoluzione è data all’uomo la possibilità di volere o non volere l’armonia con gli elementi della terra. Quando egli agisce contro la natura – sfruttandola a scopi puramente egoistici –, essa gli si rivolge contro per richiamarlo al suo compito d’amore. Mai prima del nostro tempo era stata possibile una reale inimicizia tra l’uomo e la natura, e mai prima era stata possibile un’amicizia che scaturisse dalla libertà dell’uomo, piena di dedizione. La nostra è la prima era dell’evoluzione in cui il rapporto sia conoscitivo sia morale con la natura è messo nelle mani della libertà dell’uomo.
C’è stato un primo e antico rapporto con la natura, basato sulla veggenza spontanea del suo essere spirituale e sulla conoscenza degli iniziati. È seguito poi un secondo stadio, di cui Francesco d’Assisi è l’esempio più squisito, fondato sull’intuizione del cuore e sulla certezza della fede, senza più una conoscenza spirituale dei segreti della natura: gli iniziati babilonesi sapevano sulla natura molte più cose che non Francesco d’Assisi, ma erano conoscenze che agivano direttamente sulla volontà umana, guidandone dall’esterno i comportamenti.
L’umanità attuale sta instaurando un terzo modo di entrare in relazione con la natura: esso vuole fondarsi su una conoscenza conquistata individualmente, con le forze del pensiero, a partire dalla libertà di ognuno. Questo cammino di conoscenza è destinato a far sorgere un rinnovato atteggiamento d’amore e di venerazione di fronte alla sacralità di tutti gli esseri della terra.
Secondo capitolo
I REGNI DELLA NATURA
nell’alimentazione umana
Le illusioni della coscienza umana
Voglio prendere le mosse da un’affermazione che potrà sembrare a tutta prima paradossale: l’uomo è un essere fra altri della Terra, e accanto ad altri, solo nella sua fisicità materiale. L’essere spirituale dell’uomo, invece, comprende il tutto della Terra. La lunga evoluzione ha portato l’uomo a ridurre, a «rimpicciolire» sempre di più la coscienza che ha del suo spirito per poterla immergere in quel frammento di materia che chiamiamo «corpo». Tutto questo avvenne per dare all’uomo l’autocoscienza, la possibilità di distinguersi, di «separarsi» dagli altri esseri, di sentirsi qualcuno «a sé stante» capace di dire: io sono un io, sono un essere autonomo che sa pensare e agire per conto proprio.
Anche il bambino cresce passando da una totale identificazione con il grembo materno a una sempre più piena autonomia interiore. Il grembo materno dell’uomo dei primordi era il cosmo intero: l’Umanità era tutt’una, ed era un tutt’uno con i regni della natura. Il senso complessivo dell’evoluzione è allora la graduale individuazione di ogni essere umano.
Nel corso dell’evoluzione l’uomo ha dunque estromesso da sé – in base a lunghi e complessi processi di «autoriduzione» – i tre regni della natura, ma questa estromissione non è oggettiva, non è un fatto di «natura». Essa rappresenta il sorgere nello spirito umano di uno stato di coscienza non solo individuale e autonomo, ma anche, di conseguenza, illusoriamente estraniato dalla natura. L’uomo d’oggi, come ho già detto più volte, non ha più coscienza di quanto intimamente egli sia immesso nell’essere della natura.
L’estraniamento dell’uomo dalla natura è dunque un fatto che riguarda l’evoluzione della coscienza umana, non è un fatto che riguarda l’essere vero dell’uomo e della natura. L’essere umano non è mai, nella sua realtà spirituale, al di fuori della natura e la natura non è mai, nel suo essere vero, al di fuori di lui.
L’uomo, così considerato, è il tutto della creazione terrestre: l’essere primordiale degli animali, delle piante e delle pietre era integrato nella natura spirituale dell’uomo stesso; lo scindersi progressivo dell’uomo dalla cosiddetta natura presuppone il lento condensarsi di ciò che chiamiamo «la materialità», in quanto sostrato e condizione della separazione degli esseri. Quando la coscienza umana cominciò a percepire la creazione a livello di materia, come realtà a lei estrinseca, lo spirito dell’uomo iniziò a lavorare sulla frammentazione, sull’interno e sull’esterno, e pose la natura fuori di sé, smembrata.
Il creato non è materiale nel suo vero essere, è la nostra coscienza che lo «materializza». Lo stesso vale anche per il rapporto dei singoli uomini fra di loro: quando erano più «spirituali» avevano maggiore coscienza della loro unità – nello spirito non esistono separazioni! –, della loro reciproca appartenenza. Più scesero dentro al corpo fisico, fino al punto da identificarsi con esso, come molti oggi fanno, più dovettero sentirsi separati gli uni dagli altri, estranei, se non addirittura in lotta o in concorrenza gli uni con gli altri.
Il senso evolutivo di questo processo che ha frantumato una realtà dapprima unitaria è, come dicevo, l’acquisizione della libertà individuale da parte dell’uomo. Se ognuno di noi, al livello di coscienza attualmente raggiunto, non fosse in grado di porsi di fronte agli elementi di natura vivendoli come estranei a sé, continuerebbe a sentirsi identificato col tutto, non potrebbe acquisire una vera autonomia interiore.
La scissione evolutiva tra uomo e natura è allora quel varco solcato dalla coscienza umana attraverso il quale è potuta sorgere la libertà individuale. È la grande «ferita» della cosiddetta «caduta» che ha lacerato l’essere unitario originario in un «dentro» (l’io) e un «fuori» (il mondo).
In quale misura, poi, questa libertà fondata sull’illusione della separatezza abbia per natura un carattere di arbitrio, lo vedremo ulteriormente; ora ci basta riflettere sul fatto che noi siamo liberi proprio grazie a una coscienza illusoria che ci fa sentire separati gli uni dagli altri, ed estraniati dalla natura, perché ne cogliamo solo la parvenza esteriore e ne ignoriamo il profondo essere spirituale.
Non è facile intendersi sul carattere di illusorietà della nostra coscienza ordinaria, perché i nostri sensi sembrano mostrarci un mondo ben concreto, verificabile al tatto – «tangibile», appunto – così presente alla vista, all’udito, che sembra una follia mettere in discussione che questa sia una realtà oggettiva, altra da noi. Tentando un paragone (che, come tutti i paragoni, va preso dal verso in cui calza e non da quello in cui zoppica) potremmo dire che questo tipo di illusione è la stessa alla quale si esporrebbe l’acqua del mare – immaginiamocela capace di pensare! – di fronte a un iceberg: quella montagna bianca è senz’altro diversa da me, direbbe il mare, è di altra natura! Io ci giro intorno, la tocco, vedo che ci camminano sopra animali e uomini senza dover nuotare... dunque quel ghiaccio non ha nulla a che fare col mio essere! Così lo spirito umano, racchiuso nella sua unità organica (il corpo), oggi non riconosce più l’intera natura visibile come sua corporeità ampliata, che lo provoca a revocare la grande illusione dell’estraniamento grazie all’esperienza spirituale della comunione universale.
L’affrancamento dalla natura rappresenta allora l’illusione a noi necessaria per prendere posizione, per sperimentare quell’autonomia dell’io che ricostruisce, a partire dalla libertà, l’armonia fra l’uomo e la natura. In ultima analisi, il motivo tutto positivo per cui è sorto nella coscienza umana l’inganno della separazione dalla natura è che la coscienza possa dare a se stessa il compito di superarlo, comprendendolo e vivendolo appunto come ingannevole illusione. Questo è il grande travaglio conoscitivo e morale nel quale versa l’umanità in questo nuovo avvio di millennio.
Dobbiamo però anche considerare le possibili conseguenze negative che insorgono quando l’uomo non è in grado di vincere la grande illusione, quando non gli riesce neppure di rendersene conto. Anzi, proprio in base all’assunto erroneo che l’uomo sia davvero un essere a sé stante rispetto alle piante, agli animali e alle pietre, egli può aggiungere alla prima una seconda illusione. Ciò avviene quando ritiene di poter sfruttare impunemente i tre regni della natura stravolgendone le leggi e danneggiandone gli esseri a proprio vantaggio. I danni che l’uomo reca alla natura, usandola come se fosse un puro strumento a lui esterno, ritornano invece tutti su di lui, proprio perché non esiste alcuna separazione tra sfruttato e sfruttatore.
Una natura piena di esseri spirituali
In questo inizio di millennio urge che la nostra coscienza trovi in sé il coraggio di rescindere il disumano antagonismo tra uomo e natura, movendo dal desiderio più umano che possa esistere: quello di una conoscenza amorevole e oggettiva dell’essere vero della natura.
La generazione dei giovani d’oggi, la prima a crescere a contatto più con le macchine che non con la natura, aggiunge al senso di estraniamento un senso di paura nei confronti della natura: paura di fronte alle possibilità minacciose che la tecnica ha di distruggerla. Il puro senso di estraniamento poteva essere superato con l’amore di un Francesco d’Assisi; per vincere la paura, invece, non bastano le forze del cuore: essa può venir bandita unicamente dalla luce della conoscenza.
Il senso vero della paura, dell’apprensione angosciosa che l’uomo moderno sente riguardo alle sorti del suo mondo, si manifesta nel suo desiderio profondissimo – un desiderio che vorrebbe sollevarsi sempre più al livello cosciente – di conoscerlo nel suo essere vero. Quell’essere-Terra che non si mostra nella parvenza esterna materiale, bensì nelle miriadi di esseri spirituali che la inabitano, amorevolmente accompagnando l’evoluzione dell’uomo. E come al buio abbiamo paura perché non vediamo le cose, mentre al chiarore della luce possiamo orientarci e stiamo tranquilli, così la paura verso i destini della natura ci assale quando c’è il buio della conoscenza: se accendiamo la luce dello spirito che ci fa «vedere» l’essere sovrasensibile delle cose, allora siamo in grado di orientarci anche nella realtà spirituale, e la paura scompare.
Quando l’uomo prende sul serio il suo intimo desiderio di penetrare i segreti della natura, si interroga sulla concezione materialistica oggi dominante e la mette in questione chiedendosi: corrisponde a verità l’assunto della scienza degli ultimi secoli che considera il mondo e tutta la realtà come fatti di sola materia? Può accadere allora che la sua mente e il suo cuore si aprano all’altra affermazione non meno fondamentale, quella che l’umanità, prima di vivere con le idee del materialismo, dava per scontata in tutte le sue mitologie, culture e religioni: la certezza cioè che una materia priva di spirito non esiste, non è mai esistita né potrà mai esistere.
Ciò non significa che l’uomo debba ritornare indietro nel tempo: la sfida che gli si offre è quella di riconquistare liberamente l’unità profonda che accomuna uomo e natura, valendosi di un pensare che ormai ha fatto proprio, in quanto Io individuale. L’occhio della sua percezione si posa sulle pietre mute e immobili, sulle piante piene di vita, sugli animali capaci di sensazione e di dolore... e l’occhio spirituale del suo pensiero vede tutto intriso di spirito, vede tutte le creature protese verso l’umano nel loro desiderio millenario di poter un giorno camminare con lui, di poter con lui parlare e pensare...
Nel nostro vocabolario non ci sono ancora le parole adatte per descrivere i mille modi in cui spirito e materia operano fra di loro: parlare semplicemente di «interazione», di reciproca appartenenza, infatti, è fare una grande astrazione. Andrebbe visto ad esempio in quale modo specifico lo spirituale, il sovrasensibile, è all’opera nei sassi, come lavorano nei minerali le forze formanti che creano i cristalli e le pietre preziose; oppure in che modo pulsano nelle piante le correnti di vita, quelle forze antigravitazionali che le fanno crescere, plasmando mille forme e metamorfosi. La forza di gravità agisce nel non-vivente, in ciò che è minerale e morto, mentre negli esseri viventi l’occhio dello spirito vede le forze cosmiche dei pianeti che realmente «attirano» la materia della terra verso di loro, in un movimento ascensionale e centrifugo che noi chiamiamo «crescita».
Solo pensieri nuovi, creati da una coscienza umana che si rinnova, possono farci comprendere in che modo la materia, che per sua natura tende sempre verso il basso, nella pianta invece s’espanda e ascenda verso l’alto. Il più piccolo fiorellino che «spunta» sulla nostra terra contraddice l’assunto di quella scienza che vorrebbe esaurire ogni realtà nella materia inerte e morta, e che tende a spiegare tutto secondo le leggi del minerale.
Con lo stesso rigore con cui negli ultimi secoli si è indagato il visibile, l’uomo anela oggi inconsciamente a indagare anche il sovrasensibile. Solo una moderna conoscenza scientifica della realtà spirituale sarà in grado di spiegare in quale modo i pianeti del sistema solare e le costellazioni delle stelle fisse effondano le loro forze antigravitazionali nel seme della pianta, e come queste poi si sprigionino dalla terra volgendosi verso l’alto.
L’estraniamento dalla natura e la paura di fronte all’Essere della Terra fanno sorgere nel cuore dell’uomo un’intuizione tutta nuova, intrisa di una certezza assoluta, che dice: esistono esseri sovrasensibili che agiscono negli elementi della natura e attendono di venir conosciuti e riconosciuti da te. Essi furono sempre «visti» dall’innocenza dell’anima che si esprime in ogni antica tradizione popolare, un’anima ancora incapace di pensiero e che ti parla col cuore in mano nelle sue fiabe, nelle sue leggende. Sono questi esseri invisibili a svolgere tutte le straordinarie funzioni di «tessitura» che uniscono cielo e terra, eco visibile della liturgia celeste.
Le antiche tradizioni avevano un nome per ognuno di questi esseri elementari, nomi che vanno ripresi nel contesto di una vera e propria conoscenza scientifica dello spirituale. Anche in italiano, nell’italiano antico, troviamo tanti appellativi: coboldi, elfì, folletti, diavoletti, spiritelli, demonietti, fauni, sirene, gorgoni, arpie, ceraste, grifoni, manticore, maculi, scitali, ypnali, draghi, basilischi, silfi, nani... fino ai quattro più noti che ancor oggi chiamiamo gnomi, ondine, silfidi e salamandre..
Gli gnomi, che lavorano nell’elemento minerale, sono quegli esseri preposti al mantenimento della forma fissa, pesante, intrisa di gravità: essi vorrebbero che l’uomo sciogliesse, finalmente!, quest’incantesimo, e li liberasse. Gli gnomi vivono nella parte più minerale della pianta, nella radice, e da lì risospingono verso l’alto le forze cosmiche imprigionate, fanno spazio alle forze vitali, antigravitazionali. Spuntano così nella pianta lo stelo e le foglie, e le forze cosmiche passano dalla regìa degli gnomi a quella delle ondine, quegli esseri della natura che vivono e tessono nell’elemento liquido; le silfidi poi, la cui casa è l’aere e il vento et onne tempo, direbbe Francesco d’Assisi, intrecciano l’aria con la luce ed ecco schiudersi il fiore con la sua corolla piena di colori. E quando si forma il frutto, quando la crescita giunge a compimento e raccoglie tutte le sue forze nel seme – come in un concentrato di fuoco da cui nascerà una nuova pianta – ecco mettersi all’opera le salamandre, gli esseri invisibili del calore.
Possiamo immaginare questi esseri della natura quali esecutori degli ordini delle Gerarchie spirituali superiori, quelle che la terminologia cristiana chiama Potestà, Virtù e Dominazioni e che reggono appunto le sorti della natura.
La natura era percepita in modo diverso dal nostro al tempo dei greci e dei romani, e in modo ancora diverso se andiamo più indietro nella storia, perché sempre diverse sono state le sfide offerte alla coscienza umana. Esiste una regìa di corrispondenze tra le qualità fondamentali della natura e le conquiste conoscitive che l’uomo va facendo di era in era: questa regìa divina chiama l’uomo a comprendere sempre meglio il senso dell’evoluzione e a decidere sempre più intimamente delle sorti della natura.
Gli esseri degli elementi, gli spiriti della natura, non sono costituiti di corpo, di anima e di spirito come l’uomo, né sono costituiti di anima e di spirito, come gli Esseri gerarchici puramente spirituali. Essi sono costituiti di un corpo e di un’anima: in questo risiede la natura specifica di tutti gli esseri spirituali che vivono e operano nei quattro elementi della terra. Gli gnomi, le ondine, le silfidi e le salamandre sono rivestiti di corporeità: gli gnomi di quella minerale, le ondine hanno un corpo fatto d’acqua; le silfidi s’incorporano nell’aria e le salamandre vivono in corpi fatti di fuoco, cioè ovunque si trovi l’elemento igneo.
Tutti questi esseri hanno un corpo ma sono anima: hanno esperienze interiori simili a quelle della nostra anima. Gli gnomi sentono gioia in sé quando gli riesce di affidare il frutto del loro lavoro alle ondine, così da far sprigionare le forze antigravitazionali che vincono ogni pesantezza; quella pesantezza minerale nella quale si sacrificano diventando, in senso realissimo, la crosta dura su cui si fondano l’esistenza e il camminare dell’uomo. C’è gioia nell’anima delle ondine quando vedono l’elemento acqueo evaporare e farsi aereo; potremmo anche dire che le ondine sono fatte di quelle forze di crescita, e della gioia che sentono nel poterle esplicare. E di nuovo gioia investe le silfidi quando, andando ancora di più verso lo spirituale, trasformano i vapori in aria pura e l’aria trapassa nel fuoco diffondendo calore, là dove le forze cosmiche operano tramite le salamandre, che vivono tutte nell’elemento del fuoco, dove la gioia si trasforma in vero e proprio entusiasmo. Possiamo così distinguere tre tipi fondamentali di esseri nel nostro mondo:
• al centro si pone l’uomo, costituito di corpo (quale «riassunto» di tutta la natura), di anima (il mondo interiore e soggettivo dell’emozionalità, della ricettività, della capacità di reazione…) e di spirito (il mondo oggettivo e universale della conoscenza e dell’amore;
• la terra è poi abitata da esseri di natura o elementari, di cui or ora abbiamo parlato, costituiti di corpo e di anima. Il loro spirito (poiché nulla esiste senza spirito) non abita nella loro interiorità, non sono cioè esseri coscienti di sé: è lo spirito delle gerarchie angeliche che li guida dal di fuori;
• infine abbiamo gli esseri delle gerarchie spirituali – nella terminologia cristiana essi vengono chiamati Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini – che sono costituiti di anima e di spirito. Essi non vivono dentro una corporeità dotata di sensi materiali, non hanno un’esperienza diretta dell’estraniazione fra gli esseri e della conseguente gravità, non partecipano cioè all’evoluzione dentro la materia, che è specifica dello spirito umano.
La nutrizione umana,
ovvero l’umanizzazione della natura
Affrontando in campo ecologico il mistero della nutrizione umana, abbiamo modo di conoscere nel suo significato più profondo quel che intercorre fra uomo e natura, fra la corporeità umana e l’essere spirituale delle pietre, delle piante e degli animali.
Ci siamo già detti che la natura non è qualcosa di esterno all’essere umano: il corpo della terra è il corpo dell’uomo ampliato. Nulla di quanto è fisico, percepibile ai nostri sensi, è in realtà estraneo al nostro corpo. La corporeità minerale, quella vegetale e animale rappresentano i tre strati della corporeità umana stessa, in un certo senso squadernati sul palcoscenico del visibile, con il compito affidato all’uomo di riportarli in sé, di «riassimilarli» al suo stesso essere. Il significato della triplice corporeità della natura risiede allora nell’anelito della sua triplice anima verso lo spirito dell’uomo.
L’aspirazione di tutti gli esseri della natura, di tutti i minerali, di tutte le piante, di tutti gli animali è di diventare corpo dello spirito umano. Paolo di Tarso scrive del gemito, del desiderio intenso di tutta la creazione a sublimarsi nella sua espressione più alta dentro l’essere umano. Quindi non solo verso lo spirito dell’uomo anela la natura, ma anche – essendo essa corporeità animata – verso il suo corpo. La corporeità umana è l’abitacolo più perfetto dello spirito incarnato! Tutto il creato visibile converge verso l’uomo perché gli è innato il desiderio di sperimentare nel corpo umano l’incarnazione dello spirito universale.
Ciò vuol dire anche che il minerale, il vegetale e l’animale conseguono la perfezione del loro essere nella misura in cui vengono «assimilati» dall’uomo. Potremmo anzi dire che, prima di venire assimilati dall’uomo, i minerali, le piante e gli animali non sono ancora nulla, in un certo senso si ritengono ancora nulla: essi avvertono nella loro «anima» (certo ai livelli dell’inconscio più profondo, ma in modo chiarissimo nel loro spirito che dimora presso le gerarchie angeliche) di diventare ciò cui aspirano ogni volta che vengono assunti nell’uomo. In termini filosofici potremmo dire che la nutrizione umana fa venire all’essere le creature della terra.
L’alimentazione rappresenta allora l’appartenenza più intima, l’osmosi più profonda tra la natura e l’essere umano. Quando gli elementi di natura vengono assunti dalla corporeità umana, diventano un tutt’uno con lo strumento privilegiato di tutte le esperienze dello spirito umanizzato. Il corpo dell’uomo, che viene nutrito dagli esseri della natura, diventa il tabernacolo più prezioso di tutte le esperienze dell’amore universale.
Nell’amore gli esseri sono gli uni dentro gli altri, sono gli uni per gli altri, mai gli uni fuori o contro gli altri; l’amore umano opera non solo un’osmosi fra gli esseri, ma più ancora quell’ organazione universale che si compie quando l’amore diventa conoscenza. Il corpo dell’uomo è il capolavoro operato dagli esseri della natura che si fanno cibo per l’uomo; l’amore umano è il compimento di tutti i desideri dell’anima degli esseri elementari; e nello spirito umano trova la sua resurrezione la realtà corporea e animica dell’intero universo creato.
Ciò non vuol dire che l’uomo sia destinato, in senso materialistico, a «mangiarsi» tutto il mondo! Assimilare il nutrimento vuol dire renderlo simile a sé. questo mistero esprime il genio della lingua! L’assimilazione della natura che avviene tramite l’alimentazione appartiene primariamente all’evoluzione della coscienza umana, che assurge alla consapevolezza dell’unitarietà profonda di tutto il visibile, vedendolo «simile a sé». L’esperienza stessa di questo balzo conoscitivo opera – poiché il pensare è l’elemento massimamente spirituale e dunque massimamente reale dell’essere umano – una reale assimilazione dei regni di natura dentro lo spirito umano, un oggettivo ampliamento dell’umano grazie alla conoscenza e all’amore.
Veniamo qui posti di fronte a una sfida conoscitiva e morale che è al contempo la scelta di tutte le scelte: o l’uomo continua a ritenere se stesso uno spettatore passivo posto di fronte a una realtà che è fuori di lui e che pensa di poter sfruttare arbitrariamente, oppure comprende che la sua presenza nel creato – quale essere dotato di un pensare che spiritualizza tutte le percezioni – fa parte integrante e attiva di una creazione che non è mai conclusa, ma che è sempre in corso. In quest’ultimo senso, l’uomo è responsabile del cammino evolutivo di tutti gli esseri della natura: egli ne trasforma la condizione d’esistenza a seconda di come li assume in sé, partecipando in modo sempre più intimo alla creazione divina.
La croce dei cereali
Possiamo tracciare una croce sul corpo della terra, dal nord al sud, dall’est all’ovest, ponendo al centro i luoghi in cui ha cominciato a irradiare nell’umanità quel cristianesimo che è ancora all’inizio della sua evoluzione. Le culture del passato si sono nutrite di una quadruplicità fondamentale di elementi-base, dai quali hanno recepito quattro tipi diversi di riverbero nella loro anima:
• in Oriente troviamo come elemento nutrizionale di base il riso;
• in Occidente, soprattutto nelle culture dell’America centrale, il nutrimento fondamentale è stato il mais, il granturco.
Riso e mais formano il braccio orizzontale della croce dell’alimentazione umana. Tracciamo ora quello verticale:
• al Nord predomina il consumo dell’avena;
• al Sud, nel continente africano, prevale il miglio.
Se cerchiamo il centro di questa croce dei cereali, sulla quale si sono sostenute culture intere, troviamo il frumento che ha rappresentato il nutrimento principale della cultura greco-romana. I testi sacri del cristianesimo riferiscono che colui che fu poi chiamato «il Cristo», volendo esprimere la natura del suo rapporto con la Terra e con l’Umanità, lo fece ricorrendo a quel mistero di assimilazione che avviene con la nutrizione. Consumò il frutto del frumento e della vite dicendo: questo è il corpo del mio corpo, questo è il sangue del mio sangue.
È un fatto culturale significativo che le religioni orientali – buddismo, induismo, taoismo, confucianesimo, ecc. – si siano espresse in spiriti umani il cui corpo si nutriva di riso. C’è un’intima connessione tra la spiritualità delle religioni orientali e il tipo di forze spirituali che si sprigionano dalla corporeità umana quando questa si nutre di riso. Da questa interazione è sorta una spiritualità di profonda nostalgia verso la patria celeste dell’uomo; una nostalgia che non consente di amare e volere la Terra, poiché tutto ciò che è materiale è visto come maya, come illusione. Però non si comprendeva ancora che questa illusione è nella coscienza dell’uomo, e che egli può vincerla solo restando nel mondo della materia. Invece, si desiderava lasciare la Terra, ci si voleva liberare da lei. Ed è anche significativo che la religiosità orientale sia tanto amata, oggi, proprio da quelle genti d’Occidente che, immerse nel materialismo, sono alla ricerca di uno spirito che continuano a immaginare «fuori» della materia, mentre lo spirito umano può evolversi solo nell’unione con la corporeità.
La polarità che c’è tra il riso e il mais da un lato, e l’avena e il miglio dall’altro, offre al nostro pensare il compito di fare una sintesi di questa quaterna alimentare armonizzandola dentro l’essere umano. E potremmo associare facilmente questi quattro cibi base ai quattro elementi dell’aria (miglio), del fuoco (avena), della terra (mais) e dell’acqua (riso).
L’armonia degli elementi nutritivi non consiste in una uniformità in cui tutto si appiattisce. Una vera sapienza di vita conosce le proprietà di questi fondamenti nutrizionali e sa che l’avena favorisce l’elemento calorico-collerico; sa che il miglio rafforza l’elemento aereo-sanguinico; sa quando giova mangiare il riso che agisce sull’elemento acqueo-flemmatico aiutando, all’occorrenza, ad allentare un’eccessiva incarnazione nella materia; o, viceversa, quando un bel piatto di polenta (granturco) – che agisce sull’elemento malinconico, quello che più avverte il peso della gravità – può favorire un più deciso inserimento nelle condizioni incarnatorie.
Nelle proprietà specifiche degli alimenti si esprimono le loro forze terapeutiche: nutrendo la corporeità in modo armonico, consentiamo all’anima, e quindi allo spirito, di muoversi al meglio dentro la quaterna degli elementi (aria, acqua, terra, fuoco), e possiamo così evitare tante malattie. Ci basterebbe la «malattia» della fame quotidiana, e la conseguente «terapia» del giusto nutrimento.
Il senso ultimo dell’alimentazione umana sta nel fatto che tutte le creature della terra aspettano di essere consumate dall’uomo, vogliono celebrare la loro comunione con lui. La transustanziazione cristiana (è questo che Francesco d’Assisi cercava di far capire ai suoi confratelli) non avviene solo in chiesa. Quella che avviene in chiesa è fatta per ricordarci quella che deve avvenire nella vita, anche proprio grazie alla nutrizione. E non a caso nella comunione l’uomo riceve un’ostia, un frammento di pane di frumento da mangiare, quale simbolo cultico che gli ricorda che ciò che sembra a lui esterno ridiventa sangue del suo sangue, carne della sua carne, qualora si adoperi a conoscere e amare tutte le creature della Terra.
La croce degli esseri della Terra
Osserviamo ora a ciò che avviene, grazie al nutrimento, nel mondo degli esseri della natura, nelle forze vitali dell’uomo, nella sua anima e nel suo spirito.
C’è in Platone un’affermazione che può sembrare a tutta prima enigmatica. Egli dice che l’anima del mondo è stata inchiodata al corpo della terra in forma di croce. Queste parole sono molto belle, se comprese rettamente: racchiudono una prefigurazione del mistero cristiano. L’anima del mondo è stata davvero congiunta col corpo terrestre in forma di croce: il braccio verticale è costituito dall’uomo e dalla pianta, dove l’uomo è come una «pianta rovesciata». Il braccio orizzontale è rappresentato dalle forze che formano l’animale, la cui spina dorsale scorre parallela alla terra. È proprio così: le forze di crescita della pianta tendono dal basso all’alto, le forze incarnatorie dell’uomo scendono dall’alto in basso, e la spina dorsale dell’animale è il risultato di forze che lavorano orizzontalmente. Nella pianta e nell’uomo – per quanto riguarda il formarsi della corporeità – prevalgono le forze centrifughe e centripete; nell’animale quelle radiali.
Che cosa intendiamo quando affermiamo che l’uomo è una «pianta rovesciata»? Come nella testa dell’uomo si accentra la capacità sensoria, percettiva e concettuale, così nella radice della pianta avviene lo stesso processo, naturalmente a livello elementare, cioè non autocosciente. Gli gnomi, ai quali già abbiamo accennato quali esseri delle radici, sentono e immediatamente afferrano e trattengono la sapienza e l’ordine del cosmo, che tramite le piante arriva nella terra direttamente dalla luce, dall’aria, dal calore, dall’acqua... Quando noi mangiamo le radici delle piante nutriamo e vivifichiamo particolarmente il sistema nervoso incentrato nella nostra testa.
Sul nostro sistema ritmico agiscono più direttamente le parti mediane della pianta, lo stelo e le foglie. Quando poi ci nutriamo di fiori, frutti e semi i processi che interessano queste parti superiori della pianta agiscono direttamente su tutto ciò che avviene nella sfera inferiore del nostro corpo: gli arti, il sistema metabolico o del ricambio, le forze della rigenerazione.
Il braccio orizzontale della croce terrestre è costituito dall’animale che «si è girato a metà». L’essere umano si è girato del tutto, ha cioè svincolato la sua ricettività sensoria dal grembo della terra e, conquistando la stazione eretta, ha volto il suo capo direttamente verso il cosmo rendendosi così adatto a percepire non solo la fisicità della natura, ma anche i pensieri dello spirito, quelli che creano e ordinano la natura.
L’animale, invece, pur avendo capacità di spostamento e di sensazione interiore (che la pianta non ha), con la sua schiena parallela alla terra rimane vincolato d’istinto alla vita della specie cui appartiene, che «lo traina» e non gli consente di innalzarsi alla comprensione individualizzata del suo essere.
La triplice anima del mondo – quella umana, animale e vegetale – si è davvero lasciata crocefiggere sul corpo minerale della terra, nel corso di una lunga evoluzione. Platone prefigurava così il fatto che, essendosi l’Anima della terra congiunta con il corpo terrestre in forma di croce, lo Spirito della terra si accingeva a congiungersi con il suo corpo e con la sua anima morendo su una croce, come in un abbraccio eterno.
Armonie fra uomo e cosmo
Possiamo considerare da un altro lato ancora quanto profonda e intima sia l’osmosi che avviene, proprio a livello corporeo, tra le forze universali del cosmo e quelle dell’uomo. Prendiamo la somma di 25.920 anni – il ben noto anno platonico. È il numero che esprime il tempo che il sole impiega, data la precessione degli equinozi, a percorrere tutti i segni dello zodiaco. I babilonesi, gli assiri e i caldei conoscevano con precisione questi ritmi, tant’è vero che la scienza moderna si chiede ancora come abbiano potuto fare questi calcoli senza avere a disposizione gli strumenti che abbiamo noi.
Il sole impiega 25.920 anni per percorrere tutti e dodici i segni dello zodiaco. Se contiamo i respiri compiuti in una giornata da un essere umano – stando a una media di 18 al minuto – ritroviamo lo stesso numero: 25.920. Se poi consideriamo la durata media della vita dell’uomo, o l’età canonica, come la si chiamava, che è di quasi 72 anni, otteniamo complessivamente 25.920 giorni.
E ancora per 25.920 volte nella vita noi compiamo un altro tipo di respiro, quello che avviene ogni volta che ci addormentiamo espirando, lasciando cioè scappar fuori dal corpo la nostra coscienza, e ogni volta che ci risvegliamo, richiamandola di nuovo dentro per essere ben desti. Quando ci addormentiamo noi perdiamo la coscienza dell’Io: solo la coscienza dell’Io, però, non l’Io stesso. Il nostro tipo di autocoscienza, infatti, è possibile soltanto quando l’Io è connesso con questa sorta di apparato di rispecchiamento, o di riflessione, che è il corpo. In altre parole l’Io umano – lo spirito individualizzato di ogni uomo – ha coscienza di sé quando è congiunto con il corpo, e la perde quando fuoriesce dal corpo, pur continuando ovviamente a esistere.
Con questi brevi accenni alle armonie tra l’uomo e il cosmo intendo sottolineare che ci sono infiniti modi, tutti profondissimi e meravigliosi, di osservare questa sostanziale reciprocità. Non c’è nulla nel macrocosmo che non abbia un’eco, una precisa corrispondenza all’interno del microcosmo-uomo, e non c’è alcun elemento nell’uomo che non si trovi in qualche modo metamorfosato, ma in relazione perfetta, nel macrocosmo.
Tutte le culture del passato hanno affermato che l’uomo non è un essere qualsiasi fra tanti altri, ma che è un vero e proprio compendio dell’universo. Ciò vuol dire: se vogliamo conoscere il mondo e ci rendiamo conto che è troppo complesso, che l’impresa è troppo ardua, ci può consolare il fatto che è possibile conoscere tutti i segreti del mondo approfondendo la conoscenza del microcosmo-uomo – e non solo viceversa.
Allora la massima di ogni cammino di conoscenza spirituale è: adoperati a conoscere il microcosmo-uomo conoscendo sempre meglio il macrocosmo, e sforzati di conoscere il macrocosmo, l’universo intero, conoscendo sempre meglio il microcosmo che è l’uomo. In altre parole, queste due conoscenze non possono che procedere di pari passo così da confermarsi a vicenda, perché soltanto questa consonanza è il termine di paragone che ci permette di restare dentro la realtà.
La legna che fa ardere lo spinto
Una delle polarità più fondamentali dell’esistenza umana è quella che s’instaura tra la vitalità e la coscienza. La ricostruzione continua delle forze vitali del corpo, grazie al nutrimento e al sonno, non è fine a se stessa ma avviene in vista dell’attività spirituale. Quando l’essere umano sta fisicamente bene, è ben nutrito e riposato, resta ancora tutto da fare rispetto a ciò che è specificamente umano.
Nella pianta, il generare forze vitali rappresenta il tutto del suo essere: essa si esaurisce nei processi di vita e non tende verso altri fini; ripete all’infinito il suo ciclo vitale. Nell’essere umano, invece, il ciclo della vita trova il suo senso unicamente quando si fa da sostrato, cioè da strumento, per l’altra esperienza fondamentale, polarmente opposta, che è la coscienza.
Ora, ciò che un pensiero di stampo materialistico fa fatica a capire è proprio questo: che il vitale, nell’uomo, vuol farsi strumento per le esperienze della coscienza. Perciò le forze di vita vengono sempre di nuovo consumate dai processi di coscienza.
Consideriamo anche solo per sommi capi le tre manifestazioni fondamentali della nostra coscienza: il pensare, il sentire e il volere. Noi siamo coscienti innanzi tutto dei pensieri; anche i sentimenti di amore, di odio, di rabbia, di paura, di dolore sono accompagnati almeno in parte dalla coscienza, altrimenti nemmeno sapremmo di averli; e infine, quando decidiamo di fare qualcosa, quando abbiamo degli intenti, degli scopi, dei progetti, viviamo in un elemento volitivo che pure ci è in qualche modo cosciente.
L’affermazione fondamentale che abbiamo appena proposto è che tutti gli atti di coscienza avvengono consumando il vitale. Un uomo nel quale il vitale continuasse a esuberare senza venir mai afferrato dalla coscienza, sarebbe, in quanto a coscienza, al livello di una pianta. Non farebbe altro che «vegetare». Proprio dall’occidente materialistico è sorto nell’umanità il mito strano dell’uomo-pianta, dell’uomo che vorrebbe «godere la vita» risparmiandosi tutte le fatiche che comporta lo sviluppo della coscienza.
Non c’è alcun dubbio che sia più facile e più comodo funzionare come una pianta anziché come un essere cosciente e creativamente pensante. Il fenomeno pianta è un fenomeno di natura; i processi di coscienza sono invece eminentemente frutto della libertà. Per vivere la dolce vita basta lasciarsi andare ai meccanismi di natura, basta omettere tutto ciò che richiede intraprendenza; e ci si ritrova immersi nel vitale. Molta dell’ingegneria genetica moderna, lo accennavo già all’inizio, tende a disumanizzare l’uomo perché viene condotta in base al mito che dice: più sarai vitale nel tuo organismo e più sarai felice.
Se è vero che le forze di vita fanno da strumento per l’esperienza della libertà dello spirito, è altrettanto vero che lo spirito incarnato può evolversi solo amando e rispettando le leggi del suo strumento indispensabile. L’umano autentico viene vissuto sempre in un giusto equilibrio fra polarità. Nessuno di noi può costruire più coscienza di quanto gli consentano le forze vitali che ha a disposizione, che può consumare.
E chi decide la misura del vitale da consumare? La coscienza! La coscienza di ogni individuo deve sapere quando e quanto necessiti di forze vitali rigenerate. Se la natura – il vitale – è strumento, e lo spirito – la libertà – è il fine, dev’essere la libertà a decidere delle sorti del suo strumento, non viceversa. Chi non conosce la libertà sarà schiavo del corpo. Chi gode delle conquiste dello spirito non può disprezzare il corpo, che ne è lo strumento indispensabile; lo tratterà così come il musicista tratta il suo strumento musicale: con cura, con amore, con profonda gratitudine.
Il giusto equilibrio tra l’esperienza del corpo e l’esperienza dello spirito varia da persona a persona, è del tutto individuale. Ognuno può sapere soltanto in riferimento a se stesso – in relazione alla propria missione nel mondo – qual è il giusto equilibrio tra la forza consumante del suo spirito e le risorse vitali che il suo corpo le offre. L’individualizzazione sempre ulteriore della volontà è proprio una delle conquiste più formidabili della libertà dello spinto.
Che cosa è più bello, vivere la vita o far sprigionare la coscienza? Per la pianta non c’è nulla di più bello che vivere la vita, non sa fare altro! Per l’essere umano, invece, se siamo coraggiosi nell’interpretare la nostra stessa esperienza, dobbiamo dire che il vitale ci si presenta col carattere di puro strumento, mentre i fenomeni della coscienza li viviamo come fine a se stessi. Ogni essere umano è ciò che crea dentro la sua coscienza. Il pulsare della vitalità, che abbiamo in comune con gli esseri della natura, è ciò che ci è messo a disposizione perché venga consumato dalla vita dello spirito. Le forze vitali sono come la cera della candela, e la luce dello spirito si alimenta consumando quella cera.
Nella coscienza desta e libera l’uomo si autorealizza, e lo fa consumando la corporeità umana e cosmica che aspira a sublimarsi tutta nello spinto dell’uomo. È questa la vera transustanziazione della natura: essa anela a risorgere nella coscienza umana, così come la cera di una candela è felice di trasformarsi in fiamma, di diventare pura luce e puro calore. Quale elemento materiale può mai essere contento di restare per sempre prigioniero della gravita?
Stiamo dicendo, allora, che tra il nutrimento del corpo e l’esplicazione della coscienza c’è un’inversione di marcia: esplicare la coscienza non è un continuare nella direzione del vitale, ma è l’esatto contrario, poiché brucia le forze vitali. Ogni aumento di coscienza comporta un maggior consumo di vitalità. E ogni aumento di vitalità comporta un maggiore o minore offuscamento della coscienza. I due fenomeni sono in tutto e per tutto polarmente corrispondenti.
Il fuoco non può ardere senza consumare legna, né si può aumentare la riserva di legna, bruciandola. Non si può bere un bicchier d’acqua senza vuotare il bicchiere: dissetarsi è vuotare il bicchiere. Sono i due lati di una sola medaglia. E se voglio riempire il bicchiere devo rinunciare a volerlo contemporaneamente vuotare. La vita del corpo e la vita dello spirito costituiscono allora il ritmo fondamentale dell’esistenza umana, ritmo fatto di infinite alternanze. Col sonno e con la nutrizione viene ogni volta di nuovo ricostituita la vita del corpo; e poi lo spirito la consuma e la «spiritualizza» nel calore della conoscenza e dell’amore.
Plenus venter non studet libenter, si diceva una volta: una pancia piena non studia volentieri. Reduci da un lauto pranzo innaffiato da buon vino, mentre nello stomaco sono in moto robusti processi vitali, riteniamo possibile esercitare al contempo una lucida concentrazione mentale? Non è possibile. Mentre l’intera corporeità è occupata nei processi vitali, non può mettersi a disposizione dei processi di coscienza. Quando poi, passata la digestione, passata la botta allo stomaco, si è smaltito il cibo, allora la mente è più libera per pensare. Il buon pranzo ricostituisce la cera, l’esercizio del pensiero la brucia. Fra i due vige la legge del ritmo, dell’alternanza, che è la legge fondamentale di tutto ciò che è vivente e che si evolve nel tempo.
Per «processi di coscienza», forse è bene sottolinearlo, non s’intende specialmente lo studiare alte filosofie o comunque il muoversi in ambiti culturali. Nella nostra vita quotidiana ogni più piccola attività viene accompagnata da processi di coscienza, perfino quando restano inconsci a noi stessi. C’è sempre qualche pensiero che ci frulla per la testa, il nostro cuore non è mai senza sentimenti, la nostra volontà non è mai del tutto vuota di intenti, di voglie, di desideri. Tutta questa realtà, che tradizionalmente viene chiamata anima e che io qui chiamo «coscienza», può esplicarsi soltanto consumando, letteralmente bruciando forze vitali, quelle energie che dobbiamo perciò sempre di nuovo ricaricare o ricostituire con l’alimentazione e col riposo.
Qual è allora il significato di ogni gioventù, di ogni nascere e accrescersi delle forze vitali? E quello di accumulare abbastanza legna per un fuoco che sia il più vigoroso possibile. Il frutto più bello delle forze di vita della gioventù lo si coglie nella saggezza degli anni maturi. Ma se la saggezza non viene mai, a che è mai servita la vita?
Una volta a New York, in una di quelle funeral homes (obitori) dove ti ritrovi davanti il morto camuffato da vivo, imbalsamato, bello colorito, magari seduto, che quasi quasi gli stringeresti la mano, qualcuno mi prese da parte e mi disse: «Sarebbe una bella cosa se nel suo discorsetto non ci fosse la parola morte...». La cultura occidentale tende sempre di più a reprimere, anzi sopprimere la parte più bella dell’umano che consiste proprio nel consumare le forze vitali per vivere la gioia infinita delle conquiste dello spirito.
Queste considerazioni non vanno però prese in chiave moralistica. Non stiamo indicando dei comandamenti per il comportamento morale, bensì delle leggi che reggono la natura umana. La decisione morale di rispettare o trasgredire queste leggi viene lasciata ad ognuno. Chi agisce contro le leggi della sua natura ne subirà lui stesso gli svantaggi e non potrà darne la colpa ad altri. Resta il fatto oggettivo che l’uomo può sentirsi felice e realizzato solo nella pienezza della sua anima e del suo spirito. Nella sua interiorità più profonda egli sa bene che può essere felice soltanto coltivando più che può la conoscenza e l’amore. Egli è spirito, è fatto per vivere la felicità in pensieri sempre più vasti e più belli, in sentimenti che vogliono abbracciare con la forza dell’amore il mondo intero, in ideali della volontà capaci di estendersi a tutta l’evoluzione.
Il materialismo visto in questa ottica è una miopia conoscitiva! Non conosce la parte più viva dell’essere umano! Pensa di capire la materia, ma non sa a che cosa serve, la materia. Ben venga il giorno in cui comprenderà che essa è la preziosissima legna per i fuochi non fatui ma eternamente ardenti dello spirito!
Pensiamo ancora una volta agli esseri spirituali degli elementi – gnomi, ondine, silfidi e salamandre – agli esseri che lavorano e sudano da millenni per donarci ciò che chiamiamo «natura». Essi sanno – lo sanno dalle ge-rarchie angeliche superiori – che il significato del loro lavoro non sta nel rigoglio fine a se stesso di belle forze di vita da far sorgere in eterno sulla terra, ma si manifesta quando dentro l’uomo il vitale viene non solo consumato ma sublimato, e acquisisce così il livello dell’autocoscienza e della responsabilità morale. E quale indicibile delusione noi procuriamo a tutti gli esseri della natura quando non esaudiamo il loro desiderio di aprirsi alle dimensioni dello spinto umano, capace di vivere dentro la materia! Tutte le creature della Terra si sentono diseredate, si sentono abbandonate dall’uomo quando questi le ignora e addirittura deride chi ne parla.
Mangiare per creare
Un’altra linea di riflessione che mi pare importante per approfondire la realtà della nutrizione è la polarità fondamentale che esiste tra le sostanze e le forze dei cibi di cui ci nutriamo.
La fisica chiama queste due realtà materia ed energia (o antimateria). Se poi si chiede al fisico di specificare meglio che cosa intenda per materia e che cosa per energia, si può aver l’impressione di ascoltare un mistico! Intendo dire che i concetti diventano quanto mai vaghi, cosa del resto comprensibile in un’epoca nella quale nulla è stato trascurato quanto il pensiero.
Come può essere di grande sorpresa per il materialista moderno sentire affermare che esiste una polarità inversa tra il pulsare delle forze vitali e le esperienze della coscienza, non meno stupefacente può essere per lui l’affermazione che tutta la materia che noi ingeriamo quale cibo non serve in alcun modo a costruire la materia del nostro corpo, eccetto per quel che riguarda la testa e il sistema neuroensoriale – e perciò la testa è capace di pensare soltanto cose morte, intrisa com’è essa stessa di materia terrestre morta. Esclusa allora la materia che dà corpo al sistema nervoso, la sostanza dei cibi – intesa proprio quale materia quantificabile e ponderabile – viene del tutto consumata e trasformata in pura energia, in forze energetiche di tipo vario. La digestione è un vero e proprio processo di combustione che trasforma in energia la materia dei cibi.
La materia corporea del sistema ritmico, e più ancora quella degli arti e del sistema metabolico, non proviene affatto dai cibi di cui ci nutriamo. E da dove viene, allora? Essa proviene dall’universo che ci circonda, attraverso le percezioni, attraverso la luce, attraverso la qualità dell’aria. Abbiamo visto prima che l’essere umano è un vero microcosmo, una sintesi di tutto il macrocosmo: come tale viene nutrito e quindi rigenerato nella sua componente materiale in minima parte dalle sostanze della terra e in massima parte dagli elementi materializzabili di cui è pieno il cosmo. Ciò spiega perché certuni mangiano, mangiano e restano magri come uno stecchino e altri ingrassano soltanto a guardarli, i cibi. Voglio dire: la quantità di materia del nostro corpo – a parte il sistema neurosensoriale – non proviene né dipende dalla quantità di materia che mangiamo. Essa viene decisa dal tipo di rapporto del tutto individuale che ognuno ha con le forze del mondo che lo circondano.
E se è vero che la sostanzialità del nostro corpo si costruisce per un’osmosi finissima che avviene attraverso la percezione dei sensi, attraverso l’udito, la pelle, le varie vibrazioni dell’aria e della luce, a che serve allora il nutrimento? Consideriamo innanzi tutto che i cibi vengono per lo più cotti prima di essere mangiati. Il processo della digestione è una continuazione della cottura già iniziata. La digestione consuma, annienta materia e fa sprigionare energie. Ci può servire anche qui il paragone con la candela. La cera è un elemento materiale, è materia inerte, e la luce che irraggia dal suo consumarsi non può dirsi materia o sostanza: è un’energia nel senso che si comporta in modo antigravitazionale, cioè opposto a quello della materia. Semplificando potremmo anche dire: materia è tutto ciò che ha un peso e tende verso il basso, energia o forza è tutto ciò che è imponderabile e che si muove liberamente verso l’alto. Quando alzo un braccio ho bisogno di un’energia – l’atto della volontà – che imprima alla materia del braccio, che di per sé tende al basso, un moto ascensionale.
Tutto ciò che mangiamo viene dunque «bruciato» in quanto materia e trasformato in energia, in pura forza. Ciò che non può venir così «consumato» viene estromesso dall’organismo. L’anima e lo spirito umani possono intervenire soltanto in ciò che si trasforma in forza, possono agire sulla materia morta solo «annientandola» e transustanziandola in energia.
È ben più che una mera immagine, allora, dire che tutti i cibi che mangiamo li trasformiamo in fiamma e che questa fiamma è l’elemento di forza di cui si avvale lo spirito per manifestarsi sulla terra. La materia dei cibi viene letteralmente distrutta dal nostro spirito che da essa fa generare le forze del pensiero, dell’amore e della volontà. La corporeità umana è fatta allora apposta per distruggere tramite combustione tutto ciò che ingerisce. Nel nostro corpo lo spirito traduce in dinamismo la materia inerte della terra, la trasforma in energia di pensiero, in forza d’amore.
Come la cera consumandosi si tramuta in luce e da una materia opaca e cieca si effonde un’energia in grado di illuminare le cose, così l’uomo nutrendosi delle sostanze della terra trasforma la materia terrestre in energia di luce e di amore, che gli dà la possibilità di pensare e di dedicarsi agli altri. Tutto ciò va inteso in senso del tutto reale. Quello che dei cibi non trasformiamo in attività animico-spirituale viene estromesso dall’organismo. Ciò avviene a seconda della diversità fra i vari nutrimenti, che sono diversi nel loro aprirsi o nel loro resistere alla trasformazione che ne fa l’uomo.
L’alimentazione umana è in altre parole un riflesso terrestre della creazione divina «dal nulla». Nessun elemento della terra resta immutato dentro l’uomo: tutto ciò che noi ingeriamo viene «annullato» in quanto sostanza e trasformato in forza, per consentire all’essere umano di avvalersi di questa forza per immettervi l’attività creatrice del proprio spirito pensante e amante.
Se dentro il nostro corpo la materia ingerita restasse come è fuori, se non fosse trasformata ma rimanesse impregnata di determinismo e d’inerzia, l’uomo stesso resterebbe un essere di natura, non potrebbe operare una creazione ex nihilo, cioè dal nulla, che avviene ogni volta che la materia viene riportata al caos primordiale, cioè al nulla delle leggi sue fisse di funzionamento. La materia che noi mangiamo viene riportata allo stato primordiale di potenzialità pura – di «materia prima», come direbbero Aristotele e Tommaso d’Aquino – e questa potenzialità pura dei primordi (il caos) consente una nuova creazione che avviene in tutto e per tutto a immagine dello spirito umano individualizzato. L’uomo fu creato, nella prima creazione, a immagine di Dio; nella seconda creazione la materia distrutta dalla digestione umana viene ricreata, anche stavolta a partire dal caos, a immagine dell’uomo.
Le leggi della prima creazione divina sono universali: sono quelle, valide per tutti, iscritte negli elementi di natura. L’«assimilazione» che avviene grazie al nutrimento e alla digestione consiste nell’annullare ogni carattere deterministico e generale, per imprimere alla materia caotizzata un’energia formante e trasformante, un dinamismo di pensiero e di amore del tutto libero e individuale.
Il significato, quindi, della morte degli elementi della terra in seno all’uomo è la loro trasformazione in energia, è la loro resurrezione in quella creazione rinnovata che configura la terra a immagine della fantasia intellettuale e morale degli spiriti umani, che sono da un lato individualmente unici, dall’altro organizzati in un corpo spirituale, o mistico, che ha un suo Spirito, o Io unitario – del quale ci occuperemo in seguito.
L’uomo fa allora l’esperienza della libertà proprio grazie alla nutrizione. Assimilando al suo corpo le sostanze della terra, trasformando ogni realtà corporea nel suo stesso sangue, dice anche lui alle creature della terra: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.
Ecco, di nuovo, l’assimilare, il rendere simile a sé. L’uomo innalza al suo livello le pesantezze della natura presenti negli alimenti, e così facendo annulla queste leggi, trasforma in levità ogni gravità, trasforma le sostanze prese dai regni di natura in pura energia del suo spirito, e così facendo le umanizza. Egli scioglie l’incantesimo della creazione nel perenne canto dell’amore umano.
Per ora, tutto ciò avviene nell’uomo in modo ancora poco cosciente. Le funzioni metaboliche che si svolgono nel nostro stomaco e nelle nostre viscere sono governate dalla sapienza divina che vi agisce a nostra insaputa. Ma il cammino della nostra mente vuole sempre più sviscerare quella «viscerale» sapienza, e la nostra volontà vuol sempre più liberamente collaborare a quella creazione che avviene solo in noi, solo per noi e con noi.
Terzo capitolo
LA FRATELLANZA UMANA
nella religione della Terra
Fedeltà affidabile della natura,
creatività innovatrice dell’uomo
L’evoluzione dell’uomo lungo la storia si svolge in due modi fondamentali: la continuità e l’innovazione. Si alternano fra di loro in un rapporto di polarità, in un gioco sempre nuovo di reciproca tensione.
La continuità prevale in quei tratti di cammino che hanno maggiormente il carattere del consolidamento dell’esistente. Sono i periodi storici in cui viene sottolineata la fedeltà alla tradizione, in cui non accadono grandi rivolgimenti perché si è intenti a interiorizzare e ad approfondire ulteriormente ciò che è già stato conseguito nel passato.
Polarmente opposti a questo scorrere più tranquillo del tempo sono i periodi storici di vero e proprio rinnovamento: sono i tempi in cui scoppiano rivoluzioni, in cui si verificano profondi cambiamenti sociali e culturali. Ciò avviene grazie a individualità geniali che, nell’arco forse di pochi decenni, con le loro invenzioni e scoperte in campo culturale o scientifico imprimono alla società un andamento del tutto nuovo.
La vita umana, che è una miniatura dell’evoluzione nel suo insieme, alterna anch’essa queste due dimensioni: anche in essa s’intrecciano in mille modi la tradizione e l’innovazione. Consideriamo una comune famiglia che viva di giorno in giorno con una certa regolarità; e osserviamo poi che cosa avviene quando nasce un figlio. Il comparire di una nuova individualità viene ad alterare delle consuetudini da lungo invalse, rappresenta quasi un nuovo inizio, la vita viene riordinata per far fronte a questa nuova realtà.
Questa antitesi fondamentale che conferisce al tempo il suo ritmo e le sue alternanze più feconde, è presente anche dentro gli animi umani. Ci sono uomini che vivono l’esistenza con un’intonazione di continua rivoluzione e altri che preferiscono la regolarità del quieto vivere, la fedeltà a ciò che da sempre si è rivelato come giusto e buono. E la vita è resa bella proprio dall’intrecciarsi continuo tra questi due modi di vivere, dallo sforzo del singolo di vincere la sua unilateralità naturale – del rivoluzionano o del conservatore – per accogliere in sé anche la saggezza e la bontà insite nel modo di vedere e di vivere opposto al suo.
L’arte della vita sta allora nel tendere al giusto equilibrio tra le forze che ci consentono flessibilità interiore – quella pronta a lasciare anche cose care, e a ricominciare da capo –, e le forze della perseveranza tenace, della fedeltà a ciò che non può cambiare dall’oggi al domani – i valori morali, gli ideali che sono veri e buoni oggi proprio perché lo erano anche ieri e lo saranno domani.
L’Umanità nel suo insieme mi pare affrontare, all’inizio del nuovo millennio, una sfida evolutiva simile a quella che viene offerta a ogni singolo nel trapasso dalla gioventù alla maturità: quella di instaurare un equilibrio sempre più conscio fra il rinnovarsi continuo della mente e del cuore di fronte alle situazioni nuove, e l’eterno avverarsi di quella pienezza dell’umano che è vecchia come la storia e non tramonta mai.
L’Umanità avverte oggi più che mai la necessità di stabilire la giusta armonia tra il sostrato costante dell’evoluzione – fondato sull’affidabilità sempre fedele della natura, ivi compresa la natura umana – e le infinite possibilità di nuove conquiste interiori, di «conversioni» che ci fanno vedere il mondo ogni giorno con occhi nuovi, dandogli forme sempre nuove.
Ogni conversione autentica è solo esteriormente repentina. Vista più in profondità, essa viene preceduta da una lunga, lenta trasformazione e maturazione. Però, quando emerge a coscienza, è di straordinaria incisività, come un intuito del pensiero. Ogni intuizione vera squarcia in un attimo le tenebre dell’ignoranza, con l’intensità improvvisa della folgore; ma è nell’elaborazione graduale e faticosa dei dati via via percepiti che la mente si è a poco a poco resa capace di quell’attimo di creazione assoluta. Questo successe ad Archimede quando esclamò: eureka, ho trovato!, e succede a chiunque afferri all’improvviso la soluzione di un enigma al quale lungamente ha dedicato sforzo e attenzione. Nella nostra vita ci sono sia cambiamenti e inizi repentini, sia tante cose che rimangono più o meno uguali nel corso del tempo.
Questa altalena universale e interiore, questa eterna palestra dell’anima e dello spirito, vive anche nel respiro che c’è tra l’unità e la molteplicità. Il grande salto qualitativo proposto alla coscienza umana nel nostro tempo mi pare proprio quello di assurgere alla più alta triade di unità nella molteplicità, quella che abbraccia il tutto dell’evoluzione, ad un tempo una e ricchissima, e che rappresenta perciò stesso la sfida più poderosa che si possa offrire allo spirito umano. Le tre grandi unità nella molteplicità nelle quali siamo immessi sono: l’Umanità, la Terra, l’Evoluzione. Questa sfida offerta alla coscienza umana doveva venire, perché la salvezza o la rovina dell’Umanità, della Terra e dell’Evoluzione passano sempre più nelle mani dell’uomo, senza per questo lasciare le mani della divinità.
La prima sfida per la coscienza moderna:
l’unità dell’Umanità
La prima impresa che oggi si staglia davanti a noi è quella di avverare, nella coscienza e nella vita, l’unità dell’Umanità. Nel nostro tempo diventa sempre più anacronistico guardare l’umanità come se fosse davvero frammentata. La scienza e la tecnica moderne, i mezzi di trasporto, di comunicazione e d’informazione hanno fatto dell’umanità una realtà unica, ma nella nostra mente e nel nostro cuore questa unità non può crearla la tecnica, può crearla solo la nostra libertà.
L’unificazione che la tecnica compie è esteriore, è fatta di contatti esterni fra esseri che rimangono separati; l’unità che la mente è chiamata a intuire è di natura spirituale, è tutta interiore. Nel cuore di chi ama l’uomo, l’Umanità diviene un vero e proprio Essere spirituale, un organismo soprasensibile realissimo – un vero «corpo mistico», come dice il cristianesimo –, che ha un suo Io, un suo Spirito unitario, di cui ogni singolo spirito umano è come un organo vivente.
La globalizzazione dell’economia, gli sforzi del diritto internazionale per tutelare la pari dignità fra gli uomini, testimoniano delle doglie di questo parto millenario che vuol dar vita a un’Umanità una e indivisa. Ciononostante nella coscienza umana manca ancora, e in modo tragico e minaccioso, la percezione dell’Essere spirituale unitario della nostra Umanità.
Ma dobbiamo ripeterci che se la scienza e la tecnologia moderne hanno fatto dell’umanità un tutt’uno, volgendo i talenti di milioni d’inventori, operatori e costruttori a collegare gli uomini fra di loro in tutti i modi; se l’economia ha fatto anch’essa dell’umanità una cosa sola, abbattendo una dopo l’altra le frontiere che dividono i popoli, con risvolti anche di sfruttamento reciproco che non fanno che confermare, seppur in chiave negativa, l’unità dell’umanità; se la legislazione internazionale s’è accorta che esistono diritti e doveri validi per l’umanità intera – se tutto ciò è in corso nell’umanità, allora la coscienza dei singoli è davvero chiamata con forza a fare l’esperienza spirituale di quell’organismo sovrasensibile che chiamiamo Umanità e di cui ogni spirito umano è un membro vivente.
Se l’umanità non fosse un’unità organica, dovrebbe essere possibile a individui singoli o a porzioni di umanità – singoli popoli, lobby economiche, élites politiche, aristocrazie culturali, bande mafiose, ecc. – di conseguire vantaggi propri a svantaggio altrui. Se invece l’Umanità è in realtà un organismo unico, allora non è possibile che alcuni possano avvantaggiarsi a scapito di altri, come nessun organo del nostro corpo può godere la salute facendone ammalare altri.
Voglio dire con questo che non è possibile «dimostrare» in teoria la verità di questo primo enunciato – l’Umanità è un unico organismo – e della sfida evolutiva che esso comporta. Gli uomini possono solo «mostrare» i due modi opposti di percepire e vivere l’umanità dentro la loro coscienza: ognuno decide, tramite il proprio vissuto, quale dei due gli corrisponde. Ognuno di noi porta nella sua mente e nel suo cuore o un’Umanità resa una – in quanto così intuita dalla mente e amata dal cuore –, oppure un’umanità in frantumi.
Il compito evolutivo di ognuno è proprio quello di trasformare in esperienza vissuta l’affermazione astratta e di principio, comune a tutte le religioni, che l’umanità è un organismo spirituale unico, uno e unitario. Ognuno di noi sa per esperienza diretta come vive l’umano dentro di sé. Più faccio mio ciò che vive nell’umanità, più il mio cuore s’innamora di tutti gli uomini e di ogni singolo uomo, più coltivo in me un vivo interessamento per le sorti comuni dell’umanità, più so per esperienza vera e concreta che l’Umanità è un’unica famiglia. Lo so perché lo vivo, lo so perché ho fatto di lei la mia famiglia.
L’Umanità non è una realtà che esiste fuori delle menti e dei cuori degli uomini. Gli uomini vengono unificati sempre e solo dalla verità che riluce in ognuno di loro, vengono radunati sempre e solo dall’amore che si accende in ognuno di loro. Verità e amore non esistono fuori dell’uomo o senza l’uomo: essi sono la creazione sempre nuova del suo spirito. L’unità dell’Umanità è allora l’eterna creazione della nostra mente e la gioia eterna del nostro cuore.
Solo vedendo le cose in questo modo posso cogliere la differenza profonda che c’è tra il sentire me stesso come membro dell’organismo dell’Umanità, e il mio sentirmi separato perché disinteressato, con tutte le conseguenze conoscitive e pratiche che questi due modi di vivere comportano.
Il salto qualitativo offerto alla coscienza umana moderna non è di proporre un’ennesima teoria che dimostri l’unità dell’umanità. La sfida è di tutt’altra natura: è quella rivolta al singolo, affinché generi e coltivi giorno dopo giorno quelle forze di pensiero e d’amore che s’incentrano nel mistero dell’uomo, e che gli possono far dire con sincerità, per esperienza vissuta: l’Umanità nella sua unità è ciò che più mi sta a cuore. «Stare a cuore» è un’espressione bellissima del linguaggio italiano: l’Umanità diventa per me davvero una, quando vivo nel mio cuore la sua stessa vita, quando faccio mie le sue sofferenze e le sue gioie.
Prendere a cuore la famiglia umana, condividerne intimamente le sorti è una faccenda della libertà individuale: non può sorgere in me senza il mio sforzo, non può essere un puro dato di natura. Vivremmo in un’attesa vana se ci illudessimo che le forze dell’amore che fanno dell’Umanità un unico organismo spirituale possano spuntare da sole, o venir regalate dall’alto.
Vive in modo degno dell’era della libertà solo colui che si adopera instancabilmente per accendere in sé l’amore universale, quello che abbraccia tutti perché non può lasciare fuori nessuno. È una bellissima ed entusiasmante creazione dal nulla, che la nostra libertà è sempre più in grado di compiere. Nel cuore umano che ancora non conosce e ama quell’organismo unico e ricchissimo che unifica tutti gli uomini, l’umanità è ancora il nulla, perché in lui essa ancora non c’è. E da questo nulla viene creata l’Umanità, nel cuore di chi la vuol conoscere e la vuole amare.
Com’è saggia la vita: da piccoli si ama senza ancora conoscere, e da adulti si può amare davvero solo ciò che si conosce. Amore e conoscenza si cercano e si rafforzano a vicenda. La via più corta che porta al cuore è quella che passa per la mente: questo sa un uomo davvero moderno. Il primo passo per accettare la grande sfida evolutiva del nuovo millennio è allora quello di approfondire la conoscenza oggettiva di quell’Essere spirituale vivente che chiamiamo Umanità. La luce della mente farà inevitabilmente accendere in noi anche il calore del cuore.
La seconda sfida: l’unità della Terra
La seconda grande sfida che ci viene offerta, la seconda grande unità che siamo chiamati a creare dentro di noi è l’unità della Terra, della natura. L’uomo moderno è posto di fronte al compito evolutivo di abbracciare con la sua coscienza la totalità dell’Essere della Terra, di cogliere la complessissima eppur delicata armonia ecologica di questo immenso organismo vivente, che ha una sua anima e un suo spirito, proprio come l’Umanità che l’abita.
Ciò che avviene in un luogo particolare della Terra si ripercuote sull’insieme del corpo terrestre, perché la Terra è un organismo vivente! Non risento in tutto il mio essere il dolore della spina che ha trafitto un millimetro del mio piede? Questo avviene perché sono vivo, perché ho un’anima, perché io sono un tutt’uno! Eppure quanti uomini guardano oggi alla Terra come se fosse fatta di sola materia morta, inerte, inorganica. Ancora non sanno che la Terra è un essere vivente, con un’anima piena d’amore, con uno spirito pieno di saggezza. Non se ne sono accorti. E dunque anche di fronte a questa seconda sfida è necessario attivare innanzi tutto il pensare, è necessario un cammino di conoscenza rivolta a comprendere sempre più profondamente il mistero della Terra, il suo essere vero, spirituale ed eterno.
Cominciamo col paragonare fra loro il corpo umano e quello della Terra. Noi sappiamo ben distinguere tra un corpo umano vivente e uno morto – cioè un cadavere. Se punzecchio una persona e le faccio male, lei reagisce difendendosi; se punzecchio un cadavere non succede nulla. La differenza fra un corpo vivo e uno morto è enorme! Ogni corpo umano vivente è tutto intriso di forze vitali, come lo sono le piante, è animato da un anima come nel caso degli animali, ed è governato da uno spirito umano, da una persona che chiama se stessa: «Io». Anche se la punzecchiatura è localizzata, le correnti vitali e le sensazioni animiche si comunicano a tutto il corpo facendone un’assoluta unità vivente e animata, e lo spirito dotato di autocoscienza dice: «Ahi, mi fai male, smettila!».
La tecnica moderna tratta il corpo della Terra come se fosse un cadavere. Ha potuto farlo, finora, perché la Terra non reagisce in modo così evidente e immediato alle nostre punzecchiature. L’Essere della Terra è più vasto, i suoi ritmi sono più lunghi, più misteriosi; le reazioni della sua anima sono più profonde e più nascoste, più difficili da capire. Ma se la Terra non è un enorme pezzo di materia morta, un test atomico effettuato nel Pacifico crea dolore in tutto il suo essere.
La vita della Terra pulsa in tutte le piante; i segreti della sua anima sono nascosti nel regno degli animali; gli uomini sono i ricettacoli del suo spirito. Come il nostro spirito, il nostro Io, abita il nostro corpo plasmandolo a sua immagine, cosicché gli occhi, le mani, la laringe, tutto di questo corpo che possediamo vibra a sua immagine e somiglianza, così fa lo Spirito della Terra nei confronti del suo corpo.
Ci siamo già detti che il regno minerale, il regno vegetale e quello animale non sono, nel loro essere spirituale, qualcosa di esterno all’uomo: proviamo a comprendere meglio questa affermazione. Prima di tutto vediamo chiaramente che esiste un’osmosi continua di forze tra l’uomo e la natura nel respiro e nella nutrizione, per esempio, nelle forze di luce e di calore, nei suoni, nella pressione diretta sulla pelle dei nostri piedi quando camminiamo, e che ci offre di continuo la percezione del contatto, della reciproca appartenenza... E allora possiamo intuire che non soltanto l’Umanità è un’unità, non soltanto la Terra intera è un’unità, ma che Terra e Umanità sono, a uno sguardo più vasto e più profondo, un unico essere.
Le pietre, tutte le forme fìsse dei minerali sono il fondamento per la vita comune della Terra e dell’Umanità; le piante contengono tutte le forze vitali, tutte le energie di metamorfosi che vengono scambiate fra la Terra e l’Umanità; gli animali esprimono l’anima della Terra che anela a farsi anima dell’Umanità, e dall’Uomo la Terra attende la spiritualizzazione liberatrice del suo corpo dentro lo spirito umano. Le creature della Terra sono come sepolte, come incantate, in attesa del Principe della creazione terrestre – l’Uomo – che risvegli la sua Principessa addormentata – la Terra – per vivere eternamente nei mondi dello spirito, riunifìcati e felici.
Il nostro modo attuale di guardare alla Terra è del tutto profano, è quanto mai frammentario: cogliamo solo singoli aspetti della sua realtà, non ne vediamo l’Essere integro. Il cammino che ci porta a conoscere e ad amare l’Essere della Terra è un cammino di unificazione: la Terra abbraccia tutte le sue creature, e nel suo grembo di madre fa di esse un’unità vivente e animata. La verità della Terra è la reciproca appartenenza delle sue creature, sono gli infiniti modi in cui pietre piante e animali si fanno membra gli uni degli altri nel pulsare dell’unica vita, nel sentire di un’anima universale. Non esiste una verità astratta sulla Terra: esiste il realissimo accordo organico e animato di tutte le sue creature. La realtà della Terra è rigogliosa nelle sue forme, nella sua vita, nella sua anima, e solo lo sguardo della mente umana ne può cogliere l’Essere spirituale unitario. Ciò che noi chiamiamo «Terra» è quell’amore universale che dà modo a tutte le creature di essere le une dentro le altre, le une per le altre, come le membra viventi di un unico organismo.
Anche la medicina fa sempre i conti con la polarità che vige fra la molteplicità e l’unità dell’organismo corporeo dell’uomo. E ognuno di noi sa bene, quando un organo s’ammala, a quali difficoltà va incontro se la diagnosi e la terapia tendono a isolare l’evento da tutto il resto del corpo, trascurando l’unità inscindibile dell’intero organismo. Ognuno di noi fa l’esperienza reale della sua corporeità in quanto unità, anche se non conosce tutti i particolari noti all’anatomia, alla fisiologia, alla biochimica... Partendo da questa esperienza ben reale, la nostra coscienza può aprirsi anche all’esperienza dell’Umanità in quanto unità, della Terra in quanto unità, e di quell’unità suprema dell’Evoluzione, che abbraccia tutte le forme di interdipendenza fra Terra e Umanità.
La terza sfida: l’unità dell’intera evoluzione
La terza grande unità con la quale la nostra coscienza è in questo tempo chiamata a confrontarsi è allora l’unità dell’intera evoluzione. Lo spirito umano è destinato a comprendere sempre meglio sia l’origine che il fine della creazione in cui vive. Solo lo sguardo che abbraccia l’interezza dell’evoluzione, dal suo inizio fino al suo compimento, ne può capire il senso unitario, ponendosi così nella condizione di partecipare consapevolmente e attivamente al suo svolgersi, al suo divenire. Da creatura che è, l’uomo è chiamato a diventare sempre più un creatore in seno all’universo.
Il primo compito offerto al pensiero è quello di riflettere sulle origini della Terra e dell’Umanità. La scienza moderna fa delle pure illazioni astratte sul modo in cui è nato l’universo nella sua realtà fisica (il big bang, ecc.). Un atteggiamento davvero scientifico, come accennavamo, deve occuparsi della realtà spirituale della Terra non meno di quella materiale.
Il darwinismo si è limitato allo studio dell’evoluzione del sostrato materiale della Terra e dell’uomo, della loro corporeità. È ben reale, senza dubbio, l’evoluzione progressiva delle forme corporee, che va dalle meno complesse a quelle più complesse, fino al sorgere di una corporeità eretta, capace di linguaggio, con un cervello fatto per pensare. Eppure lo stesso Charles Darwin, lungi dal negare che parallelamente a questa evoluzione materiale ce ne fosse anche una spirituale, ha espressamente affermato che la divinità, a un certo punto dell’evoluzione delle forme corporee, ha infuso lo spirito umano in quella corporeità che si era evoluta fino al punto da poterlo accogliere. Solo più tardi il darwinismo è stato interpretato in modo del tutto materialistico, negando cioè l’esistenza di una realtà spirituale, identificando l’evoluzione del corporeo con l’evoluzione complessiva dell’uomo.
Questa «interpretazione» del darwinismo non è però del tutto illogica perché Darwin, pur affermando la presenza di un elemento spirituale, non gli dà alcuna importanza nell’essere e nel divenire dell’uomo. L’anima umana è vista più come un effetto laterale dell’evoluzione corporea che come la sua causa. In questa visione, l’evoluzione avviene secondo leggi naturali, materialisticamente intese: viene attribuito alla materia un dinamismo immanente che le consente di evolversi e di produrre «da sé» anche tutti i fenomeni dell’anima.
La scienza moderna conosce allora l’evoluzione del corpo dell’uomo, ma non sa nulla dell’evoluzione dell’uomo in quanto essere spirituale. Si tratta dunque di capire che la totalità dell’evoluzione comprende due dimensioni fondamentali. La prima è quella del sostrato materiale, visibile, sensibile – e in questo campo la scienza moderna ha compiuto interessantissime e preziose indagini. L’altra dimensione evolutiva è quella che riguarda l’anima e lo spirito sia degli esseri umani, sia di tutti gli altri esseri della Terra.
Se è vero che la scienza degli ultimi secoli si è limitata a indagare il mondo della materia, è oggi più che mai urgente instaurare una scienza che si occupi della realtà spirituale del mondo in cui viviamo. È un pregiudizio del materialismo – spesso avallato dal tornaconto della chiesa – quello che dice che non è possibile conoscere scientificamente, cioè oggettivamente, lo spirituale e che ci si può solo «credere». Le persone a cui il semplice credere non basta più diventano sempre più numerose, e nessuno può proibire loro di andare oltre i credenti nella conoscenza dell’invisibile.
La prima cosa che ci si trova ad appurare, in questo campo, è che lo spirito umano è stato creato fin dall’inizio dell’evoluzione terrestre, ma che dovette aspettare ad incarnarsi nella materia. Questa doveva infatti conseguire un certo grado di complessità per diventare compatibile con lo spirito, e offrirsi a lui come perfetto strumento per il suo cammino sulla Terra. Nella Bibbia, i sette cosiddetti «giorni» della creazione rappresentano gli stadi che l’intero creato ha percorso per scendere fin sul piano materiale. L’uomo è stato l’ultimo a «scendere» – nel sesto giorno –, prima che il creatore si riposasse a opera compiuta, nel settimo giorno. Il fatto che lo spirito umano abbia aspettato fino alla fine a scendere nella materia, sta proprio a indicare che questa doveva raggiungere il gradino di evoluzione più alto per diventare l’abitacolo e lo strumento adatto per la più perfetta delle creature: l’uomo.
Quando il sostrato materiale, la corporeità, raggiunse un’organizzazione tale da presentare un cervello modellabile dal pensiero umano, un sistema ritmico con organi di fonazione pronti a vibrare secondo suoni articolati e pieni di significato, uno scheletro e una muscolatura capaci di conquistare e mantenere la posizione eretta, indispensabile per dirigersi in libertà dove la volontà indica e dove il destino chiama... quando tutto ciò fu raggiunto lo spirito umano scese a plasmare la materia del suo corpo dal di dentro, facendone il meraviglioso tempio del suo pensare, del suo parlare, del suo incedere.
Queste due grandi linee evolutive convergono verso lo stesso punto: l’evoluzione della corporeità non è progredita da sola fino alla perfezione che noi ben conosciamo, grazie a chissà quale casuale miracolosità insita nella materia stessa. A dirigere l’evoluzione della materia è stato da sempre lo spirito, sono stati gli Esseri delle gerarchie divine che hanno presieduto sia alle metamorfosi del corpo dell’uomo – organizzando la materia nel modo più adatto ad accogliere lo spirito umano –, sia all’evoluzione dello spirito umano stesso che, imitando gli Esseri divini, divenne a mano a mano sempre più abile nel plasmare la materia del suo corpo.
Se da un lato la corporeità si è evoluta «dal basso in alto» per diventare compatibile con l’essere umano, dall’altro lato anche lo spirito umano si è non meno evoluto «dall’alto in basso», diventando capace di forgiare e compenetrare sempre più intimamente la sua casa terrena, per iniziare l’evoluzione quale spirito incarnato.
Come la materia è stata lungo i millenni plasmata dallo spirito divino in vista dell’incarnazione dell’uomo, così, grazie allo stesso aiuto divino, lo spirito umano si è trasformato in modo da diventare capace di operare creativamente nella materia. E sono trasformazioni davvero immani, queste! Gli spiriti angelici non abitano un corpo di materia terrestre: questa esperienza non fa parte della loro evoluzione. È una cosa meravigliosa, allora, e unica nell’universo, la capacità dello spirito umano di penetrare fin nelle fibre più sottili della carne, facendola vibrare in tutte le sue cellule secondo i ritmi del cosmo.
Considerando congiuntamente i due grandi movimenti dell’evoluzione – quello dall’alto e quello dal basso – la scienza integrale dell’evoluzione diviene davvero appassionante. Non ci accontentiamo più di una scienza che ignori o neghi la parte più bella del nostro cammino umano. Eppure l’Umanità moderna è arrivata ad accettare l’idea che sia la materia stessa a determinare la differenza tra me e un sasso, tra me e una rosa, tra me e un cane: non si è ancora accorta che «l’evoluzione di sotto» si ferma alla scimmia e che l’uomo, preso nella sua interezza, deve il suo essere «all’evoluzione di sopra», quando il suo spirito scende per dare al corpo della scimmia quell’ultimo tocco magico che da sghembo lo rende ben eretto, da muto lo fa parlante, da «scimunito» lo rende capace di pensare.
L’inversione di marcia dell’evoluzione
In campo di ecologia gli ambientalisti hanno coniato negli ultimi tempi l’espressione «sviluppo compatibile» o «sviluppo sostenibile». Che cosa si vuole significare? Che nessuna generazione umana, nessuna epoca evolutiva, ha il diritto di considerarsi esclusiva, di pensare cioè solo a se stessa accaparrandosi vantaggi a danno delle generazioni successive. Se questo accadesse, si incorrerebbe nella forma più radicale e disumana di discriminazione.
Non è forse questo pensiero un altro indizio dell’aspirazione insita nell’uomo a diventare consapevole, e responsabile, dell’evoluzione nella sua totalità e unità indivisibile? È illusorio pensare che una parte degli uomini possa avere dei reali vantaggi a svantaggio degli altri. È un errore pensare di vivere bene fino a tarda età se si esauriscono tutte le energie in gioventù, maltrattando il corpo; non meno illusorio è pensare che nell’evoluzione ci possa essere un’epoca che fiorisce saccheggiando i beni e le forze che sono destinate a quella successiva.
Certo, è necessario avere lungimiranza e longanimità per accorgersi di queste illusioni. Se è vero l’assunto fondamentale di tutte le religioni che gli uomini rappresentano un unico organismo e costituiscono spiritualmente un solo Essere, allora c’è da chiedersi: se oggi, nella nostra corsa all’arraffare, guastiamo la Terra in modo che fra cinquecento o mille anni essa diverrà ostile agli uomini, per quali uomini sarà ostile? Se è vero che l’Umanità è un organismo indivisibile, dobbiamo rispondere: per noi stessi sarà ostile quella Terra!
La misura di libertà che oggi siamo in grado di vivere si è costruita un po’ alla volta nel corso dell’evoluzione: il suo emergere è stato preceduto da una lunga fase preparatoria. La pedagogia divina che conduce l’uomo verso l’autonomia interiore è all’opera sin dai primordi della Terra. La grande svolta dell’evoluzione è segnata proprio dal fatto che l’Umanità esce dall’età bambina e diventa sempre più responsabile delle proprie sorti evolutive.
Avviene nei nostri tempi un’inversione di marcia che non può mancare, come non può mancare in ogni vita singola: la vita inizia con una conduzione dal di fuori, operata da altri – i genitori, i maestri ecc. – per sfociare in quella capacità di pensare e di agire secondo la propria testa, che chiamiamo libertà. Il passaggio dalla sottomissione a un’autorità, o a una legge esterna, alla legge tutta interiorizzata della libertà, non indica un proseguire nella stessa direzione, ma rappresenta una vera e propria «inversione di marcia».
L’essenza del cristianesimo risiede proprio nel convincimento che l’entrata nella Terra dell’Essere chiamato «Cristo» ha completato le condizioni necessarie per la grande «svolta», che si compie nell’interiorità degli uomini, e individualmente per ognuno, passando dalla sottomissione a una legge esterna all’autodeterminazione. Nei duemila anni che sono trascorsi gli uomini hanno appena appena cominciato, molto timidamente, ad avvalersi di queste forze d’autonomia.
L’affermazione fondamentale del cristianesimo è quindi che l’Umanità, da duemila anni ormai, vive oltre la grande svolta dell’evoluzione, vive nell’èra della libertà. Ogni uomo ha a disposizione tutte quelle forze che gli consentono di trasformarsi sempre di più da creatura a creatore, di divenire coautore responsabile dei destini dell’Umanità e della Terra. Il concetto di svolta evolutiva comprende dunque due realtà diverse, tra loro complementari: da un lato c’è la svolta in quanto fatto storico, oggettivo e universalmente valido, avvenuto in un dato momento del tempo, e che è consistito nel fatto che l’Essere chiamato Cristo ha instaurato nella Terra tutte le condizioni necessarie per l’esercizio della libertà umana; dall’altro c’è la presa di posizione individuale – conoscitiva e volitiva – nei confronti di quel fatto e di quelle condizioni. Questo cammino del tutto individuale non può che variare profondamente, quanto a ritmi e intensità, da uomo a uomo. È diverso in ognuno proprio perché avviene per libertà.
Nei vangeli il Cristo incontra il paralitico costretto nel suo lettuccio: è l’uomo ancora incapace di decidere delle proprie sorti e dunque ancora adagiato sul «lettuccio» della grazia divina e del destino che lo trasporta. La grande svolta evolutiva a cui egli è chiamato viene espressa dalle parole del Cristo: «Alzati, e d’ora in poi porta tu il tuo lettuccio e cammina con i tuoi piedi». Non farti più trasportare dalla vita e dai suoi eventi, prendila tu in mano e decidi tu del tuo destino.
Sono immagini, queste, che indicano qual è l’appello nuovo che la svolta dell’evoluzione rivolge all’essere umano. Tu, uomo, puoi ora cominciare a portare dentro di te, nella tua mente e nel tuo cuore, ciò che finora ha portato te: l’Umanità intera di cui sei membro e la Terra che ti dà vita. Sei in grado di assumerti sempre più la tua responsabilità morale nei confronti degli uomini e della natura: ad essi appartieni ed essi ti appartengono. Tu puoi comprendere con la tua mente il senso dell’evoluzione, hai un cuore per amarlo e hai tutte le forze necessarie per realizzarlo.
La religione della Terra
Abbiamo parlato di unità nell’Umanità: eppure la nostra esperienza quotidiana ci dice che siamo divisi in popoli diversi, che parlano lingue diverse, che professano religioni diverse. Non solo: l’Umanità è divisa in ricchi e poveri, in potenti e diseredati, in fazioni che si osteggiano e si odiano... Non è forse una frase vuota quella che afferma l’unità dell’Umanità?
L’umano universale, ciò che è comune a tutti gli uomini, va cercato al di là delle singole religioni, oltre la diversità delle razze e dei popoli. Non c’è una lingua comune a tutti gli uomini, non c’è un colore unico della pelle, non c’è una sola cultura, un sola civiltà per tutti. Intenti come siamo a sottolineare le differenze, fieri come siamo per quel che ci distingue gli uni dagli altri, abbiamo dimenticato la realtà più profonda e più vasta di tutte, quella che tutti ci accomuna: la madre Terra. La religione del futuro, se vorrà affratellare tutti gli uomini, dovrà diventare una religione che rende sacra la Terra nel cuore di ogni uomo.
Nell’amore per la Terra, che è di tutti e per tutti, è racchiusa l’evoluzione futura che può riconciliare fra loro tutte le religioni e tutti gli uomini. Nella comune responsabilità morale verso l’essere della Terra gli uomini ritroveranno la loro vera fratellanza, e faranno delle tante religioni la religione dell’Uomo. Questa madre non fa distinzione fra razze e lingue, fra cristiani e musulmani; lei ama ugualmente tutti i suoi figli e a tutti prodiga le sue forze, anche a coloro che non vivono la gratitudine.
Le religioni al plurale vanno viste come una preparazione a quella grande conversione che avviene nelle nostre menti e nei nostri cuori quando ciò che ci accomuna risuona in noi più bello e più caro di tutto quel che ci divide. E che cosa può unificarci più profondamente che avere un’unica madre comune? Per chi cerca davvero la fratellanza degli uomini, e non si accontenta di sentimentalismi a buon mercato, nulla può essere più sacro della Terra. La prima e unica religione comune a tutti sorgerà nella misura in cui comprenderemo che possiamo amare l’Umanità nella sua unità solo amando la Terra che è il suo corpo indivisibile.
Se comprendiamo il cristianesimo nella sua natura vera di umanesimo universale, arriviamo a dire: il cristianesimo tradizionale, religione accanto ad altre e diversa dalle altre, è stato poco più che una preparazione, un primo inizio. Non il cristianesimo manca di universalità, ma i cosiddetti «cristiani». Non esistono in realtà uomini cristiani e uomini non cristiani. Esistono solo uomini più o meno cristiani a seconda che siano divenuti più o meno umani. Quanto «umano» un uomo è divenuto – in qualsiasi cultura religiosa egli viva – altrettanto è divenuto «cristiano».
All’inizio di questo millennio è forte nell’umanità l’esperienza di essere frammentati, sparsi all’ombra buia di altissimi confini eretti fra popoli, razze e religioni – mura carcerarie intorno alle nostre menti ancora troppo grette, ceppi imposti alla nostra libertà e che ci impediscono di vedere le sofferenze della Terra. Ogni divisione che lacera l’Umanità è al contempo una ferita mortale inflitta al corpo della Terra.
Niente è più universale e più fondamentale per il nostro cammino di ciò che riguarda la Terra; e solo la Terra potrà farci aprire gli occhi sui danni che ogni giorno le rechiamo: acque inquinate, aria appestata, specie animali che si estinguono... tutti crimini perpetrati contro l’uomo stesso.
Se è vero che la nostra comunanza più autentica è quella della «caduta», quella del peccato originale, allora l’abisso più profondo nel quale tutti siamo precipitati è il disamore per la Terra. Da un Cielo tutto spirituale siamo caduti sulla Terra, e la nostra libertà può fare della Terra sia un inferno, sia un paradiso – un nuovo Cielo.
Se la nostra prima grande comunanza è stata la «caduta» sulla Terra, la seconda non potrà essere che una comune «redenzione», che risolleva la Terra e l’uomo liberandoli da ogni pesantezza. E questa comunanza può essere operata solo dall’amore degli uomini per la loro madre.
Sarà una solidarietà più che mai avvincente, e invincibile, quella che nascerà lungo il cammino che ci porta a sondare sempre più a fondo i sacri misteri della Terra, che conosciamo ancora così poco. Una coscienza ecologica a misura d’uomo non può nascere in ambito politico o economico, ma solo in quella sfera dell’umano che ho voluto chiamare «religiosa», usando intenzionalmente una parola divenuta oggi problematica. Nel passato la religione è stata spesso una caricatura del sacro, proprio perché ha relegato il sacro fuori della Terra e fuori dell’Uomo: nell’altro mondo.
Ma la Terra non è mai stata profana; profano è diventato il nostro modo di guardarla – quando la riteniamo un ammasso di materia da sfruttare o quando fuggiamo da lei, ingannati da vuoti spiritualismi. Ciò che noi chiamiamo «Dio» risente troppo dell’astrazione umana, ognuno se lo fa a sua immagine. Ciò che chiamiamo «spirito» ognuno lo intende a modo suo. Invece i fiori, i tramonti, le bufere e il cielo stellato, il cibo che mangiamo e l’acqua che beviamo costituiscono un mondo che è oggettivo per tutti, perché parlano il linguaggio universale della Terra. Il linguaggio che Francesco d’Assisi sapeva ascoltare e capire quando cantava: Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.
La Terra è il cuore del mondo in cui viviamo, è a lei che ci volgiamo quando il nostro spirito si vuol rivestire di un corpo, è lei la nostra stella da amare, corona della creazione divina dedicata a noi. Nel suo grembo il Verbo universale si è fatto carne e lì ci attende per le nozze eterne di una nuova creazione.
La madre comune svela i suoi segreti soltanto ai figli che le si accostano con pensieri di gratitudine: a questi figli lei benedirà gli occhi perché sappiano ritrovare le orme impresse dalla vicenda del loro destino, lungo quanto il tempo della terra.
La Terra, centro del nostro universo
Ma allora, la Terra è il centro del nostro mondo oppure è un piccolo granellino di polvere, sperduto nell’immensità d’infinite galassie? La rivoluzione copernicana ha voluto convincerci che la Terra è un pianeta da nulla nelle va-stità dell’universo. Eppure, questa Terra così mortificata e relegata ai margini di ben più potenti astri, esiste soltanto nel regno delle illusioni umane: quella Terra lì, piccola e insignificante, compare solo dove ancora non si è conquistato il senso del sacro, dove ancora non si riconosce la grandezza e il peso morale della Terra.
La Terra non è un granellino di polvere che si può spazzar vie dalle mappe del firmamento, la Terra è un pianeta vivo che custodisce e sostiene l’evoluzione dello spirito umano, e in questa impresa promuove l’evoluzione di tutto l’universo.
Il pensiero astratto che si pone su una galassia lontana e guarda alla Terra vedendola irrimediabilmente piccola, documenta la caduta morale dell’uomo. Gli esseri umani cadono moralmente quando considerano la Terra di poco conto o non la considerano affatto. Essi decadono moralmente quando si allontanano da lei col loro spirito, quando la dimenticano.
Quando un essere umano muore, si distacca dalle forze della Terra e fa un bilancio della vita trascorsa: si rende conto, allora, che solo sulla Terra può diventare uomo, può portare a compimento il suo compito nel cosmo. Dopo la morte ogni uomo è in grado di capire il valore morale della Terra. Quando gli vengono a mancare si accorge degli infiniti doni ricevuti dalla madre, e nasce in lui il desiderio di ricambiarli, nasce la decisione di restarle fedele fino alla fine della sua evoluzione, e di ritornare, di rinascere ancora.
La vita nei mondi spirituali dopo la morte è un viaggio del nostro spirito, del nostro Io, fatto in compagnia degli Esseri delle stelle, tutti splendenti di saggezza e fiammeggianti d’amore. E in mezzo a tante meraviglie non dovrà nascere nel cuore dell’uomo la nostalgia per la Terra? Non sorgerà in lui l’ardente desiderio di renderla radiosa come tutte quelle stelle? Gli Esseri delle stelle sono già pieni di saggezza e di amore: l’uomo ha appena cominciato a divenirlo, e può continuare a farlo solo in comunione con tutti gli esseri della Terra.
Colui che disse alla Terra: questo è corpo del mio corpo, questo è sangue del mio sangue, l’ha amata di un amore perfetto, unendosi a lei in una comunione indissolubile. Facendo del corpo della Terra il corpo suo, Egli vinse la morte togliendole il potere di separarlo dalla Terra. La nostra morte, invece, ci porta lontano dalla Terra perché il nostro amore per lei è ancora imperfetto, e la nostra fedeltà è una promessa che dobbiamo ancora imparare a mantenere.
La Terra e l’Umanità nuove saranno una Terra e un’Umanità che non potranno più vivere l’una senza l’altra. L’allontanamento dalla Terra dopo la morte è lo scotto che il nostro spirito paga per essere ancora troppo debole: quando si riveste di materia, invece di redimerla si perde, invece di spiritualizzare lei si materializza lui, invece di immettere nella materia quelle forze di resurrezione e di luce che veniva a donarle dai mondi celesti, cede alla pesantezza, si tuffa lui nei determinismi della natura e ci muore dentro. Ma la madre non cessa di attendere da noi la sua umanizzazione, vive nella speranza di risorgere un giorno dentro al nostro spirito.
Quarto capitolo
LO SPIRITO DELLA TERRA
nel destino evolutivo dell’umanità
La responsabilità evolutiva dell’uomo
Sarebbe facile fare un elenco dei disastri ecologici e degli attentati veri e propri che oggi colpiscono l’ambiente naturale, soprattutto in campo di sperimentazione biogenetica e di ingegneria atomica. Una tale accusa mi sembra però destinata a restare sterile: servirebbe più al compiacimento di chi voglia esimersi dalle proprie responsabilità, puntando il dito contro gli altri.
Né serve a nulla presagire catastrofi in generale, senza poter dire con esattezza quali caratteristiche presenteranno, per esempio, fra trent’anni quei corpi umani che oggi cominciano a nutrirsi di vegetali transgenici, e di tutti quei frutti della Terra che per la prima volta – questo è il salto nel buio – non sono più come li ha voluti la natura, ma cominciano a essere come li vuole l’uomo. Gli effetti sono in fondo ancora tutti da vedere ed è nella natura dell’evoluzione che l’uomo impari anche in base a ciò che di negativo scaturisce dalle sue azioni: una certa misura di sperimentazione a rischio non si può evitare, è insita nella natura umana e fa parte della libertà.
Un’altra cosa da evitare è la distribuzione di facili ricette operative, come se quello che c’è da fare fosse del tutto semplice e scontato, come se fosse già bell’e pronta un’alternativa all’attuale ricerca scientifica e alla sperimentazione in corso, e si potessero ordinare dall’esterno i comportamenti da seguire.
Mi sembra invece urgente approfondire la conoscenza sia dell’essere della Terra, sia dell’essere dell’Uomo, così da non restare sempre nella posizione di chi conosce in modo troppo approssimativo le leggi di funzionamento della natura, ed è costretto a sperimentare quasi del tutto alla cieca. Occorre un’umanità i cui laboratori vengano sempre più illuminati dalla luce della conoscenza. È questa che manca. Ci vuole un impegno che non sarà gratificante nei tempi brevi ma in quelli lunghi, un impegno privo di scorciatoie e che ci conduca a sondare sempre più a fondo il mistero della Terra. Dobbiamo trovare il coraggio morale di approfondire l’intima scambievolezza che intercorre fra l’uomo e la natura.
Vista in questo modo l’ecologia può diventare, come dicevo, il fulcro di un nuovo tipo di religione, tutto moderno e universale: una religione che ha cura dei fondamenti naturali dell’esistenza umana e celebra la sacra responsabilità di ogni individuo nei confronti dei regni della natura.
Non si può amare la Terra senza amare l’uomo, dicevamo, e non si può amare l’uomo senza amare la Terra: o l’uomo profana del tutto il suo essere continuando a dissacrare e distruggere la Terra oppure, se recupera il religioso, lo potrà fare solo abbracciando il destino della Terra. L’innamoramento di Francesco d’Assisi per tutti i fratelli e le sorelle della natura è oggi possibile viverlo solo se rinnovato e riacceso dalle forze di conoscenza dell’Essere spirituale della Terra, e di tutte le sue creature.
Conoscere lo spirito nella natura, però, è un’impresa che richiede sforzo e costanza, è un’impresa che dura a lungo: stiamo appena appena cominciando, e siamo già molto in ritardo. La Terra è fin troppo esposta ai danni che le rechiamo perché non sappiamo quello che facciamo. Fa parte della libertà umana che l’esito dell’evoluzione non sia di necessità positivo. È proprio la natura che ci circonda a richiamarci, nel suo patire, alla possibilità sempre aperta della tragedia e dell’abisso.
C’è anche un elemento di drammaticità insito nel rapporto Uomo-Terra: esso fa parte dello spessore morale della libertà, fa parte dell’evoluzione della coscienza umana che sa fare i conti col suo destino. Lo spirito umano è intessuto di libertà e sarà lui a decidere le sorti della Terra, conducendola o verso l’involuzione o verso la resurrezione.
Sovranatura o sottonatura?
Il destino della Terra nelle mani dell’uomo
La domanda su quale sia la meta finale dell’evoluzione, ci porta a cercare, e a trovare, il concetto ecologico di paradiso e di inferno. La libertà nell’evoluzione dell’uomo apre da un lato la possibilità di sollevare la natura a livello di sovranatura, umanizzandola tutta in seno allo spirito umano, oppure apre la possibilità, anch’essa insita nella libertà, di farla degradare biologicamente e moralmente al livello di sottonatura. L’uomo compie nel suo essere la sintesi tra la realtà morale-religiosa del creato e quella naturale, che si esprime nel biologico-corporeo.
L’interazione fra l’uomo e la natura è per eccellenza il frutto della moralità. Nulla è moralmente «neutro» di ciò che l’uomo fa sulla Terra: ogni pur minima azione è buona o cattiva, in quanto contribuisce o all’umanizzazione o alla disumanizzazione dell’Uomo e della Terra. Conoscere sempre meglio che cosa ci umanizza e che cosa ci disumanizza è proprio il compito più gigantesco e anche più urgente per ogni uomo del terzo millennio.
L’uomo è quel nodo dell’universo in cui il morale si ricongiunge con il naturale. Se noi consideriamo l’uomo soltanto come un essere morale – cioè spirituale – abbiamo una metà astratta, un uomo monco, perché trascuriamo la natura in lui, il suo corpo, il suo habitat terrestre. La parola ecologia viene dal greco oikòs, che significa casa. Un uomo senza la sua casa terrena non è un essere completo, qui sulla Terra. E se consideriamo solo la sua corporeità egli è più monco ancora, perché allora viene ignorato lo spirito che crea a ricrea quella casa per abitarla.
Che cosa s’intende con i termini «sovranatura» e «sottonatura»? La natura è il sostrato di partenza che la divinità – ma possiamo anche più modestamente dire: l’evoluzione – finora ci ha messo a disposizione. Essa è neutrale nel senso che, prima dell’intervento della libertà umana, non è moralmente né buona né cattiva: si mostra così com’è stata concepita e vive secondo quelle leggi che lo spirito divino le ha incantato dentro. Negli esseri dei tre regni di natura – minerali, vegetali e animali – non c’è né libertà né autocoscienza. Senza l’uomo, essi sono un puro fatto di natura, appunto, non ancora un fatto morale.
Col sopravvenire della libertà umana, la natura viene o «innalzata» o «degradata», viene cioè integrata nell’evoluzione dell’uomo stesso, nel dinamismo spirituale della sua libertà. Nel rapporto con l’uomo la natura diviene un fatto morale: i loro destini dapprima distinti si uniscono in un unico destino. L’uomo ha la possibilità di liberare la natura trasformandola in spirito, il suo spirito, ma può anche rendere se stesso schiavo di lei e far precipitare entrambi nell’involuzione che non conosce libertà.
Per comprendere meglio in che modo la natura viene innalzata o degradata, possiamo considerare tre dei suoi fenomeni fondamentali: il fenomeno della luce, il fenomeno chimico – cioè il comporsi e lo scomporsi di atomi e molecole, che è la base di tutte le formazioni della materia, nonché della compatibilità e incompatibilità dei suoi elementi – e infine il fenomeno dell’unità organica dei singoli esseri viventi.
La luce ci permette la percezione visiva: nella luce la rosa mi appare come un essere fuori di me, che mi sta di fronte. Grazie alla luce io posso distinguermi dalle cose e contemplarle dal di fuori. È l’elemento nel quale io vivo in libertà proprio perché ciò che io vedo non ha modo di agire direttamente su di me: l’immagine riflessa che mi investe è priva di vita e mi lascia perciò libero. Quel che vale in modo esemplare per la luce, vale anche per ogni altro tipo di percezione: uditiva, olfattiva, ecc. In sintesi, per «fenomeno luce» intendo tutto ciò che noi viviamo come una realtà che ci appare fuori di noi e perciò ci lascia del tutto liberi.
Il fenomeno chimico, invece, crea uno scambio già più intimo fra gli esseri, una specie di osmosi che alterna il combinarsi e lo sciogliersi degli elementi. Mentre una percezione uditiva, o visiva, può essere liberamente tradotta in una rappresentazione, il fatto chimico vero e proprio, la digestione per esempio, crea invece una simbiosi reale tra il nostro corpo e i cibi che mangiamo. Il fenomeno chimico consiste negli influssi reciproci che vengono scambiati fra essere e essere a livello corporeo.
Il terzo fenomeno fondamentale della natura è quello dei singoli organismi in quanto unità biologiche, complesse e autonome, altamente indipendenti le une dalle altre. Intendo dire una pianta, un animale, un corpo umano: ognuno di questi organismi è conchiuso in se stesso, è un’unità a sé stante. Il nostro fegato, invece, il nostro cuore, i polmoni non sono organismi a sé stanti, ma sono appunto organi, membri interni di quell’organismo unico che è il corpo umano.
Vediamo ora in che modo questi tre elementi naturali – percezione luminosa, interazioni chimiche e vita organica unitaria – possano venire elevati o degradati dalla libertà dell’uomo.
La luce «si innalza» liberandosi dal determinismo delle leggi di natura quando risorge nella capacità umana di percepire e di pensare il puro spirituale, cioè quella luce pura e originaria che è di natura sovrasensibile. In tempi antichi c’era in tutti gli uomini la capacità di «chiaroveggenza», di «visione spirituale»: l’idea di Platone e il video (vedo) latino sono la stessa parola. Vedere le idee era un vero e proprio vedere gli Esseri spirituali alla luce accesa dallo spirito. Però non era libera, quella percezione, non era gestita dalla coscienza desta dell’Io. E perciò dovette andar persa, così da darci la possibilità di riconquistarla a partire dalla nostra libertà.
A questo scopo, la luce spirituale s’incarnò nell’elemento dell’aria. In questa luce divenuta «naturale» noi viviamo la percezione degli oggetti in quanto esterni a noi e perciò «materiali»: ma la percezione sensibile è un grande enigma. In essa lo spirito ci si presenta come materia, come qualcosa che esiste senza di noi e fuori di noi, per provocarci quella sana ribellione che dice: no, lo spirito che si presenta come materia è un inganno, è una pura parvenza, non esiste realtà fuori dello spirito umano! Io devo vincere l’inganno per «vedere» l’essere spirituale vero delle cose che «mi paiono» materiali, ma sono in realtà spirituali.
La luce fisica risorge allora nella luce spirituale quando l’uomo intraprende il suo cammino di conoscenza della realtà spirituale e giunge a vedere, sovrasensibilmente, il pulsare della vita cosmica. Come la luce fisica ci permette di percepire uomini e cose su questa Terra, così la luce «risorta» in noi ci pone faccia a faccia con gli Esseri spirituali di cui l’universo è pieno. L’uomo consegue così la «vista» spirituale, e questa conquista lo riempie di gratitudine per la luce fisica, di cui solo ora comprende il senso. La visione spirituale non consente libertà perché è oltre la libertà: si ha a che fare con Esseri veri. La vista sensibile ci consente la libertà, l’arbitrio, proprio perché ci presenta un mondo di «parvenze», di apparenze, un mondo privo di realtà, fatto apposta per lasciarci del tutto liberi nel nostro cammino evolutivo. Solo dopo aver conquistato la libertà nella percezione sensibile, l’uomo è capace di conservarla anche nella visione spirituale.
La luce degradata a sottonatura è l’elettricità: luce fatta prigioniera, meccanizzata, strumentalizzata, estratta dal basso e accumulata, non effusa dall’alto com’è quella del sole. L’elettricità è la luce asservita all’uso e consumo delle brame del materialismo umano. Viene raggiunta con pensieri di sfruttamento della natura, è una luce alla quale non ci rivolgiamo col cuore grato, e non sentiamo che ci illumina la mente. È la luce fredda, costretta a rischiararci la notte come un falso sole, o come una luna appesa al soffitto di casa.
Anche il secondo elemento di natura può sprofondare di un gradino: l’alchimia universale, il lavorio incessante di composizione e scomposizione degli elementi e dei loro atomi, le infinite affinità o incompatibilità degli esseri naturali, se afferrate dalla brama e dall’egoismo umani si pervertono in puro magnetismo. Il magnetismo è alchimia costretta, è forzata coesione e attrazione degli elementi, è imposizione di orientamenti direzionali, conosce solo sistemi di rapporti «indotti».
L’innalzamento del chimismo, la sua resurrezione, si compie invece quando l’uomo fa un ulteriore passo nella conoscenza dei mondi dello spirito e alla visione dello spirituale aggiunge la capacità d’ascolto di quegli Esseri spirituali che prima «percepiva» ancora come fuori di sé. Ora comincia a comprenderne il dialogare, afferra il senso del loro comune operare di Esseri creatori. E di nuovo si accende in lui la memoria e la gratitudine per l’alchimia terrestre incantata nell’elemento liquido. Si sente grato per quanto sulla Terra gli veniva offerto già sapientemente congiunto e intessuto, già orientato e ordinato secondo la natura di ogni elemento: e con questo moto d’amore e conoscenza l’uomo accoglie in sé il chimismo della natura e lo umanizza.
Il terzo degrado della natura riguarda l’unità degli organismi ed è quello più tragico verso il basso proprio perché, all’opposto, il suo elevarsi è il più sublime in alto. Gli organismi si degradano quando avviene un disfacimento della loro unità vitale. La natura viene qui abbassata al livello di sottonatura attraverso tutte le forze, sia fisiche che morali, con le quali l’uomo è in grado di distruggere la vita a tutti i livelli. Nel secolo ventesimo l’uomo per la prima volta ha scoperto e usato le forze nucleari. In tutti i secoli a venire un’umanità consapevole del proprio destino guarderà a questo secolo come a una grande svolta, allorquando, per la prima volta, gli esseri umani acquisirono la capacità di entrare con le loro forze di volontà dentro la vita stessa, nel suo stesso cuore.
Come, può, l’uomo far innalzare al gradino sommo l’elemento naturale dell’unità organica? Egli lo fa quando, oltre a conquistare la visione spirituale (che fa sorgere dapprima solo delle immagini di natura spirituale), oltre a cogliere i nessi in ciò che vede nei mondi dello spirito, raggiunge anche il culmine dell’esperienza reale dello spirito vivendo l’interiorità stessa delle singole Entità spirituali, la loro unicità, il nucleo sacro del loro essere.
Usando l’analogia dei gradi di profondità nel rapporto fra uomo e uomo possiamo distinguere anche qui tre livelli: io vedo l’altro; io ascolto l’altro; io conosco l’altro. All’inizio l’altro è come fuori di me, alla fine divento uno con lui. Il percorso di riunifìcazione degli esseri sulla Terra parte dalla percezione – nella quale essi vivono come distinti, altrimenti non ci sarebbe nulla da riunifìcare –, passa poi per la comunicazione e culmina nella comunione. Nel mondo spirituale, analogamente, si comincia con la visione – una percezione di immagini sovrasensibili che si possono chiamare anche immaginazioni –, si procede poi all’ispirazione comunicativa fra essere e essere, per culminare nell’intuizione, che significa «trovare rifugio sicuro nell’essere dell’altro», (dal latino in, dentro, e tueor, trovo rifugio, dimora). L’intuizione è quella forza pensante e amante che ci fa diventare uno con l’essere dell’altro, senza perdere noi stessi.
Questa esperienza intima degli Esseri spirituali, che ci fa uno con loro, viene vissuta alla sorgente stessa del loro individuale irraggiare, ed è per l’uomo l’immagine archetipica della sua stessa compiutezza. Vive la sua unicità e individualità dentro quella «dimora» che è il corpo di resurrezione della Terra e dell’Umanità, di cui si riconosce ora scintilla vivente. Quel corpo di materia gli ricorda l’unità degli organismi della Terra, quell’armonia conclusa alla quale è affidata anche la sua la corporeità: in gratitudine infinita l’accoglie allora in sé, e fa risorgere il più profondo degli elementi della Terra, quello solido-minerale, quello che la scienza chiama inorganico«, cioè morto.
La luce spirituale fa risorgere l’aria della Terra, l’alchimia celeste ne innalza l’elemento liquido, la comunione dell’amore universale opera la «resurrezione della carne», la transustanziazione della vita minerale terrena. La triplice resurrezione della luce, del chimismo e degli organismi è la perfezione della natura dentro l’uomo che ascende verso l’alto, ed è al contempo il raggiungimento della pienezza dell’umano.
La tensione evolutiva verso la conoscenza
dei mondi dello spirito
La conoscenza della natura non è andata di pari passo con le conquiste della tecnica moderna: anzi, la scienza ritiene che si possa imparare solo dopo aver fatto. L’uomo moderno si lascia trasportare dall’ebbrezza delle sue stesse scoperte e nella sua übris, nella sua frastornata temerarietà, dice a se stesso: io non ho bisogno di conoscere prima. Sperimento e poi vedo che cosa succede; è facendo così che sono andato di successo in successo! Eppure, più strabilianti sono i successi della tecnica e meno ricercato diventa un vero cammino di conoscenza. Però un operare che scredita la conoscenza è disumano, mentre sono davvero umane le azioni illuminate dalla conoscenza. Agire senza conoscere la natura e le conseguenze di ciò che si fa è, oggettivamente, l’essenza dell’irresponsabilità.
L’uomo moderno ha a disposizione tutte le forze che occorrono per agire in modo responsabile, e dovrà render conto di quella Terra che gli è stata affidata in custodia, e che non gli appartiene per diritto. Proprio nell’esercizio di questa responsabilità l’uomo può vivere la sua dignità, che sta tutta nel sapere quel che si fa e nell’essere disposto a portarne le conseguenze.
Fa parte del cammino conoscitivo sopperire alla parzialità della scienza naturale degli ultimi secoli che si è limitata a considerare l’aspetto materiale della Terra senza tener conto che ogni realtà vera è di natura spirituale. A una scienza del mondo materiale va ora affiancata una scienza del mondo spirituale: si avrà così una scienza completa, in grado di indagare sia il livello materiale che quello spirituale di ogni realtà.
Anche l’uomo è un essere spirituale, ma la scienza moderna ancora non lo riconosce come tale. La religione tradizionale si è limitata a tramandare i contenuti di una rivelazione divina, avvenuta in tempi remoti e che chiedeva di venir accolta con la fede, essendo allora la facoltà del pensare appena agli albori. Questo tipo di religione diventa sempre più anacronistico perché l’uomo moderno che vuol sapere ciò che fa, è anche destinato a conoscere sempre meglio ciò in cui crede. Nelle profondità dei cuori umani e nella tensione evolutiva di tutte le creature della Terra vive oggi più che mai l’aspirazione a una conoscenza dei mondi spirituali, che sia in grado di riconoscere l’Essere spirituale della Terra stessa.
La Terra è in crescita o in decadimento?
Sulla nascita e sui destini finali della materia la scienza moderna si è pronunciata in svariate ipotesi che possiamo leggere sui testi di astrofìsica, di geologia, di chimica, di matematica... Queste ipotesi hanno in comune l’assunto lasciato del tutto implicito, cioè dato per ovvio e scontato, che il mondo fisico sia sorto «da sé»: dunque, visto che già c’è, è sensato occuparsi solo del come esso continui ad evolversi, stando alle leggi fisiche che a tutt’oggi governano la natura. L’affermazione millenaria di tutte le culture passate che solo Esseri spirituali e creatori possono aver dato origine al mondo fisico, viene oggi per lo più sorvolata. E ciò in base all’altro assunto, esso pure implicito e dato per scontato, che se anche una realtà spirituale esistesse non sarebbe possibile all’uomo averne una conoscenza oggettiva e scientifica. Queste affermazioni sottintese rappresentano i dogmi fondamentali della coscienza moderna. Lo scienziato di oggi decreta ex cathedra – per lo più senza esserne conscio – che nessun uomo ha la capacità di andare, nel suo cammino conoscitivo, oltre i limiti che ha imposto a se stesso e che coincidono con i limiti del mondo fisico materiale.
Ora, per non speculare a vanvera, è necessario osservare le leggi del corporeo là dove ci sono percepibili: nella nostra vita, cioè. Da un punto di vista metodologico la cosa più importante è non tralasciare mai il lato di percezione della realtà, perché altrimenti andiamo a finire nella pura astrazione. Le affermazioni che si fanno devono essere tutte – almeno in linea di principio – verificabili in base alla percezione dei sensi.
La legge fondamentale dell’evoluzione del vivente si presenta alla nostra percezione divisa in due movimenti opposti, come già accennavo: crescita e declino. Si osserva dapprima un nascere, poi un graduale svilupparsi che raggiunge una culminazione; a questo punto avviene un’inversione vera e propria e il vitale decresce sempre, più fino alla morte. Dunque la linea evolutiva degli organismi che abbiamo ovunque sott’occhio non procede in una sola direzione, all’infinito. La stessa cosa vale anche per una montagna: anch’essa deve avere un giorno conseguito l’altitudine massima della sua vetta, poi, secolo dopo secolo, ha cominciato a subire l’erosione e con il passare del tempo anch’essa sparirà. Non c’è nessuna montagna che col trascorrere dei secoli diventi sempre più alta!
Se questa è la legge evolutiva fondamentale di tutto il mondo fisico-corporeo – nasce e muore –, essa deve valere anche per l’intero corpo della Terra. Deve esserci una prima fase in cui la Terra nasce, cresce fino a raggiungere il culmine delle sue forze vitali; poi deve subentrare la svolta, una vera e propria inversione evolutiva, e nella seconda metà geologica della sua vita anche la Terra, con tutte le sue creature, deve tendere lentamente verso la morte.
Poste queste premesse, la domanda importante che ci dobbiamo porre è: a quale punto della sua evoluzione complessiva si trova oggi la Terra, quale organismo vivente e unitario? Si trova prima o dopo la grande svolta del suo divenire? E ancora in fase di crescita o è già sulla via del decadimento?
I geologi più attenti nell’osservare lo stato attuale della Terra concordano nell’indicare che essa è già in fase di decadenza. Basti pensare ai fenomeni di erosione cui accennavo prima a proposito delle montagne: sarebbero impossibili se la Terra fosse geologicamente ancora nella fase ascendente della sua vitalità. Tutte le formazioni di pietre e di cristalli – il granito, il quarzo, la tormalina... – sono state formate dalla Terra, che le ha fatte nascere e sviluppare. Questo lavoro di «formazione» non si può oggi attribuire a puri fenomeni meteorologici, com’è nel caso delle stalattiti e delle stalagmiti. Le forze che conferiscono forme – forme così durature da permanere per tutta la vita della Terra – vanno sempre più scemando nella Terra d’oggi. Non «nascono» più nuove forme di cristalli perché la Terra, nell’arco della sua vita complessiva, ha già oltrepassato il culmine e sono subentrate le forze di morte, cioè di disgregazione e disfacimento di tutte le forme, che cominciano a prevalere sulle forze di vita. L’attività radioattiva odierna, destinata ad aumentare sempre di più, è uno dei fenomeni che meglio testimoniano il lento morire del corpo fisico della nostra Terra.
Che senso ha il fatto che tutto ciò che è di natura corporea nasca, cresca, diventi adulto, per poi invertire il suo corso e invecchiare e morire? Ce lo siamo già detto: tutto ciò che è corporeo non è fine a se stesso ma vuol essere uno strumento per l’evoluzione dello spirito. L’uomo è nell’universo uno spirito incarnato: può essere un libero creatore che conosce e ama soltanto «consumando» l’elemento materiale del cosmo. E la materia di quella Terra che ci è madre – mater e materia sono un tutt’uno! – è felice di venire consumata in questo modo, perché offrendosi alla consumazione trova la sua stessa liberazione. L’uomo le distrugge il corpo mortale per farne risorgere lo spirito.
Nella prima metà geologica della Terra il nascere e il crescere dell’uomo avveniva nel contesto di elementi materiali ben più vitali ed esuberanti che non ora: di questo è rimasta traccia nelle mitologie che parlano delle terre dei potenti giganti e degli invincibili titani. Nella seconda metà dell’evoluzione terrestre, invece, quella in cui ci troviamo ora, la fase di crescita si va facendo sempre più modesta, proprio perché la Terra va perdendo sempre di più le sue forze vitali per far posto alle crescenti conquiste della coscienza umana.
La vita umana è fatta di tanti giorni, e quotidianamente si svolge quel reciproco amore tra le energie vitali e i processi di coscienza. La coscienza umana cura le forze del corpo nutrendolo come si deve e concedendogli il riposo necessario; e il corpo volentieri mette le sue forze di vita al servizio della coscienza umana – dei pensieri, dei sentimenti, delle azioni – che si esplicano proprio consumando energie vitali. La vita di tutta la Terra non può essere che come quella dell’uomo, la cui prima metà – la gioventù – è segnata dal prevalere delle energie vitali sui processi di coscienza. Non per niente porta in sé anche quelle forze di esubero che consentono la procreazione per l’incarnazione di nuovi spiriti umani. Nella seconda metà della vita le forze fisiche a poco a poco perdono vigore e dovrebbero – dico «dovrebbero» perché i fatti della coscienza, a differenza di quelli della natura, sono liberi – diventare sempre più poderose le conquiste della coscienza e dello spirito dell’uomo.
Detto questo, c’è da chiedersi: può un elemento materiale – il corpo – invertire da sé le forze di crescita che gli sono innate per sostituirle con quelle opposte? No, e poi no! La causa delle forze di morte non possono essere le forze di vita; queste possono solo originare vita, mai morte! L’autore dell’inversione, l’«agente» che sostituisce alle forze di vita quelle di morte, non può essere il corpo stesso. Ci vuole un essere che infonda al corpo in un primo tempo forze di vita e in un secondo tempo forze di morte. Questo essere deve inoltre ben sapere quello che fa, visto che proprio «consumando» il corpo sa far sprigionare pensieri bellissimi, sentimenti di profondo amore, forze di volontà capaci di trasformare il mondo...
Il linguaggio ha da sempre dato a questo saggio «agente» il nome di spirito, e nel nostro caso si tratta dello spirito dell’uomo. E non fa lo stesso, l’uomo, quando costruisce uno strumento musicale? Lo costruisce vuol dire: lo forma, lo fa «nascere» portandolo alla sua configurazione perfetta. E poi lo usa, e usandolo lo consuma... Il senso tutto positivo e bello di quel consumarsi sono le melodie che si liberano nell’aria e allietano l’anima e lo spirito dell’uomo.
Nella vita della Terra esiste un rapporto simile tra le sue forze vitali e le coscienze degli spiriti umani che, consumandole, celebrano la loro resurrezione. Lo Spirito della Terra, che fa di tutti gli spiriti umani un unico organismo spirituale, ha in un primo tempo formato il suo strumento musicale cosmico, la nostra Terra. Terminata questa prima opera ne ha inaugurato il «compimento», ne ha realizzato il senso cominciando a far risuonare le sue armonie su questa magnifica creazione! Lo Spinto della Terra si è congiunto col grande strumento musicale dell’Umanità, e da Lui gli esseri umani possono imparare a creare musica nuova che allieti l’intero universo. Lo strumento musicale «Terra» viene usato e consumato dal suo artista, e la piena ricompensa per questa morte è il canto di resurrezione che lo accoglie e in cui rinasce.
Non può essere che così: un Grande Artista ha dato forma alla materia terrestre e vi si è poi effuso per farvi risuonare la musica delle sfere, la sua Parola, il suo stesso Essere. Quando noi imitiamo questo Artista divino, quando traiamo dalla Terra le melodie dell’umano, celebriamo l’appartenenza reciproca dell’uomo e della natura.
La resurrezione dello spirito di cui parla il cristianesimo viene celebrata consumando la vita della Terra. La madre di tutti gli uomini offre allo spirito umano le sue energie di vita perché queste, consumandosi nella conoscenza e nell’amore umani, risorgano riscattate da ogni pesantezza nel regno eterno della libertà dello spirito.
Se questo è vero, se la Terra sta davvero già morendo, allora non dovremmo preoccuparci delle forze di radioattività, allora l’energia atomica non farebbe che accelerare una decadenza già prevista e già in atto... Questo sarebbe giusto se il significato di ogni decadenza corporea fosse la morte: il significato è invece la resurrezione. Come può la Terra accettare che il suo corpo si consumi e muoia senza che il suo spirito possa risorgere?
Il dramma insito all’uso dell’energia atomica è che per suo mezzo noi possiamo, sì, accelerare i processi di distruzione della materia, ma possiamo anche farlo omettendo l’opera di resurrezione del nostro spirito, tralasciando cioè di produrre la «radioattività» spirituale corrispondente, che consiste in un irraggiare crescente di saggezza e di amore. Così facendo deludiamo tutte le creature della Terra che dai primordi aspettano di assurgere con noi all’umano. Il possibile male morale che accompagna la distruzione della materia non risiede dunque nella sua disgregazione: cieli e terra passeranno, dice lo stesso vangelo, questa è la legge evolutiva di tutto ciò che è materiale. Il male, ciò che davvero fa male all’uomo e alla Terra, è che si distrugga la vita della natura senza innalzare il suo spirito umanizzato a sempre nuove creazioni.
Ogni morte della Terra che sia causata direttamente dall’irradiare dello spirito umano in conoscenza e amore è una morte benedetta; ogni morte che le viene inflitta dalla cecità e dall’egoismo è una morte maledetta, una morte doppia: è la «morte seconda» di cui parla il testo sacro, perché in essa muoiono non solo il corpo della Terra e dell’uomo, ma anche il loro spirito.
Se la legge evolutiva complessiva del corporeo è di farsi sempre di più strumento dello spirito umano, la legge evolutiva dello spirito umano stesso sarà quella di prendere in mano le sorti della natura. L’uomo, quale spirito incarnato, dovrà transustanziare, dovrà far trapassare di sostanza tutta l’inerzia imprigionata nel corpo della Terra trasformando i meccanismi del determinismo nella fantasia morale dell’amore, nella creatività dello spirito.
Chi è, che cosa ha fatto e fa lo Spirito della Terra?
Solo poggiando sull’esperienza diretta che ognuno di noi può avere del proprio Io spirituale che abita il corpo, possiamo avvicinare il grande mistero dello Spirito della Terra, dello Spirito unitario dell’Umanità – la cui esistenza non è dimostrabile teoricamente.
Il corpo della Terra è inabitato da un grande Io, che è lo Spirito unitario di tutta la Terra. E come è vero che il corpo della Terra è al contempo il corpo dell’Umanità, così è vero che lo Spirito della Terra fa dell’Umanità un essere solo. E a che ci serve, in fondo, provare che esiste questo Essere? Forse una mamma ha bisogno di provare che quelle che ama non sono soltanto le carni del suo bambino? Il suo stesso amore le dà la certezza che quel figlio non si riduce alla sola manifestazione corporea.
L’essere della Terra è triplice. Come l’uomo, la Terra ha un corpo, ha un’anima e uno spirito, un Io. Il corpo della Terra sono i regni della natura; l’anima della Terra è l’umanità ancora frammentata e divisa; lo spirito della Terra è l’Umanità diventata una, sono gli spiriti umani riuniti nell’amore alla natura. Solo amando il corpo e l’anima della Terra – solo amando la Natura e l’Umanità – l’uomo può, da spirito incarnato, arrivare a comprendere e incontrare lo Spirito della Terra e dell’Umanità, nella visione spirituale più eccelsa che vi sia.
Cosa avviene quando vogliamo «dimostrare» l’esistenza di qualcosa? Ogni dimostrazione apodittica non può che soggiogare la mente e portarci via la libertà. Il raziocinio logico ci pone, sì, in grado di dire: posto che esista un essere fatto così e così, segue di necessità questo e quello... Ma per nostra fortuna la sola ragione non è in grado di dare l’essere alle cose, lo può solo presupporre. Nessun raziocinio astratto può conferire agli esseri esistenza concreta.
Per questo l’essere e l’esistere delle cose ci viene incontro nella percezione. Il mondo della Terra è il mondo delle nostre percezioni, e allora amare la Terra vuol dire amare tutti gli esseri che si rendono percepibili per noi. L’organo di percezione più vasto e più infallibile dato all’uomo è l’amore: l’amore «vede» ciò che nessuna logica può dimostrare che esista, perché l’amore stesso non si può dimostrare, ma solo mostrare. Dimmi chi ami, e ti dirò chi sei...
L’uomo deve comprendere che per lui esiste davvero solo ciò che conosce e ciò che ama. Lo Spirito della Terra non attende da noi che arriviamo a dimostrarne l’esistenza teorica, perché fino a quando non decideremo di amarlo Lui non esisterà affatto per noi! L’amore vero è una decisione libera della volontà, e solo quando decidiamo di amare qualcuno cominciamo a conoscerlo, solo allora il suo essere ci si svela, e il problema di dimostrarne l’esistenza scompare. Per l’uomo esiste davvero solo ciò che conosce e che ama.
A questo punto vanno bene tutti i nomi da dare a questo Essere, basta che siano i più belli di tutti: Essere dell’Amore, Spirito dell’Umanità, Io della Terra, Io dell’Umanità, Spinto del Sole... E va bene anche il nome Cristo, benché i cristiani l’abbiano reso quanto mai problematico, considerandolo una loro proprietà privata.
Lo Spirito della Terra e dell’Umanità è quell’Essere sublime del Sole che nella sua fantasia morale ha concepito l’arco intero dell’evoluzione terrestre e umana. Ha creato la Terra per farne il luogo risonante di tutte le armonie umane sparse nel tempo. Egli l’ha concepita perché la portava da sempre dentro di sé, nella sua mente, nel suo cuore: cominciò allora a darle corpo, a realizzarla fuori di sé, a «costruirla», come fa la madre quando partorisce la creatura che prima portava in grembo.
Terra e Sole erano, ai primordi dell’evoluzione, un tutt’uno, erano un corpo e un’anima sola. Poi venne un tempo, sempre lontanissimo, in cui questo Spirito si ritirò dalla Terra. I genitori sanno che viene per i figli il momento in cui s’affaccia in loro l’impulso della libertà: è il tempo degli egoismi, delle proteste, delle ribellioni... Che cosa fanno, allora, questi genitori? Se sono saggi e amano i loro figli li lasciano andare, si ritraggono a poco a poco dalla loro vita e gli permettono anche di sbagliare, perché nessuno ha mai imparato dagli sbagli altrui. Se prima li guidavano direttamente con la luce e il calore della loro maturità, orientandone le azioni, adesso sanno che per il bene dei figli, per la loro autonomia interiore, debbono consentire e favorire il distacco. E comprendono ora che il taglio ombelicale della separazione fisica, avvenuto alla nascita, era solo una prefigurazione dell’affrancamento vero, quello che avviene nella libertà dello spirito.
Così ha fatto l’Essere dell’Amore, lo Spirito dell’Umanità: per far spazio alla nostra giovanissima libertà si è ritirato dalla Terra, ci ha offerto le distanze per lasciarci percorrere il cammino dell’egoismo, delle divisioni e dei reciproci contrasti. Il Sole lasciò la Terra per permettere agli uomini di imparare anche attraverso i loro sbagli, attraverso l’acerba solitudine dell’egoismo.
Un certo moralismo umano non ha mai capito questo mistero e si è ostinato a condannare come peccato la prima fase della libertà, quella che ama sé senza essere ancora in grado di amare anche il prossimo. Eppure questa fase non si può scavalcare. I moralisti che vorrebbero pomparci dentro l’amore per gli altri a tutti i costi, rischiano ancora oggi di impedire a molti di apprezzare questa fase dell’amore di sé, che tutti abbiamo percorso con pieno successo (d’egoismo siamo pieni!), e di cominciare a chiedersi autonomamente se non è più bello ancora estendere l’amore che abbiamo per noi stessi anche agli altri. Solo chi conosce le lacrime della solitudine può cercare l’amore in libertà, e non per sottomissione a una legge.
La seconda metà dell’evoluzione, destinata a trasformare in amore tutto l’egoismo umano, venne inaugurata dalla decisione dell’Essere del Sole di ritornare nella Terra per intridere tutti i suoi elementi di forze di amore e di luce: e da quel momento davvero fatidico è possibile, per ogni essere umano che lo voglia, compiere nell’intimità del suo essere la stessa svolta evolutiva che lo conduce verso la libertà dell’amore universale.
La caduta nella frammentazione può ormai essere trasformata in un’ascesa di solidarietà dove ognuno di noi trova la sua pienezza contribuendo alla pienezza altrui, dove ogni scontro può essere trasformato in un incontro. La caduta nell’egoismo ha disperso le membra dell’Umanità, e la redenzione dell’amore le rimembra tutte dentro un solo corpo. Com’è bella la parola «rimembranza»... ci fa ricordare l’unione iniziale data per grazia e ci sprona a quella finale che vuol essere una conquista della libertà.
La mèta verso cui tendiamo consiste in una vera e propria riorganazione di membra troppo a lungo separate. Sarà il Corpo di resurrezione dell’Essere dell’Amore: in esso le sue membra, gli Io dei singoli uomini, sono destinati a operare in armonia gli uni con gli altri. La fantasia morale di Colui che ha fatto di tutti gli spiriti umani le membra del suo corpo mistico, ci viene incontro e ci aiuta quando anche noi cerchiamo di comprendere quel che siamo gli uni per gli altri, gli uni dentro gli altri.
La resurrezione della Terra
La svolta impressa alla nostra evoluzione dall’Essere del Sole ritornato nella Terra, sigilla anche la svolta geologica ed ecologica dell’evoluzione. Il nostro pianeta si avvia verso la disgregazione del suo corpo fisico, ad opera delle forze di resurrezione. La morte dell’Essere dell’Amore nel grembo della Terra, e la sua resurrezione nell’aura di luce, nell’atmosfera ora splendente che la circonda, sono il pegno e il traguardo del nuovo cammino offerto a ogni essere umano.
Anche il cristianesimo attende la sua resurrezione. Essa avverrà quando sempre più uomini vedranno nell’evento di duemila anni fa il fenomeno ecologico e geologico esemplare di tutta l’evoluzione terrestre, universalmente religioso e universalmente umano. Questa è la grande sfida che dovrebbe scuotere oggi ogni mente umana. L’evento del Golgota è la pietra di paragone del modo in cui l’essere umano dovrà trattare la Terra. Se ardesse in noi il desiderio di sapere come le pietre, le piante e gli animali desiderano venire trattati da noi, potremmo udire per tutta la Terra il loro richiamo: accoglieteci in voi come ci ha accolto l’Essere dell’Amore, che di noi ha fatto per sempre il suo corpo.
E chi di noi non ama il suo corpo, chi non ne ha cura? Riflettiamo su quanto intimamente ciascuno di noi ami il proprio corpo. E giustamente, perché le sue sorti decidono delle nostre stesse sorti. Immaginiamo allora di avere a cuore il corpo della Terra con tutte le sue creature come fosse il nostro! Questo ha fatto e fa l’Essere dell’Amore, che ci precede in questo cammino di amore ecologico.
Il desiderio della Terra di trasformarsi nel corpo risorto dell’Umanità verrà esaudito a mano a mano che i singoli uomini riconosceranno nel proprio spirito, nel proprio Io, un raggio dell’Essere spirituale del Sole. La fisionomia spirituale dell’Umanità è stata concepita a immagine del Sole, e un sole diverrà la Terra nella misura in cui l’Umanità vorrà farne il suo corpo. Lo dicevo già prima: l’uomo moderno ha una sola possibilità di essere religioso senza sentimentalismi, ed è quella di rendere sacra la Terra nella sua mente e nel suo cuore. Prima o poi resterà una chiesa sola per la liturgia umana, e questa chiesa è la Terra, con quella sua cupola azzurra che ci avvolge tutti, senza esclusione. Ogni uomo celebra la transustanziazione cristiana più alta e profonda quando vive il corpo della Terra come un tempio sacro, non meno sacro del corpo che accoglie il suo proprio spirito incarnato.
L’evento del Golgota inaugura la riconciliazione dell’elemento morale del Cielo con l’elemento naturale della Terra. Moralità e natura si erano scisse nella prima parte dell’evoluzione per dare all’uomo il compito di rifarne la sintesi con l’opera del suo libero amore. Nell’evento del Cristo non c’è nulla che sia soltanto morale: tutto è sempre, al contempo, anche un evento di natura. Cristico è tutto ciò che fa del morale e del naturale una cosa sola, e da quando il Cristo è ritornato nella Terra anche per noi non c’è fatto morale che non incida sulla natura. E tutti gli eventi della natura diventano eventi morali nella mente e nel cuore degli uomini.
Nei testi tradizionali del cristianesimo leggiamo che alla morte del Cristo, alla culminazione dell’evento morale d’amore che univa di nuovo l’Essere del Sole col suo corpo terrestre, dal Golgota si propagò un terremoto. Ma non viene detto che ci furono vittime in questo sisma: la Terra sussultava di gioia, e con tutti i suoi esseri accoglieva in sé Colui che le annunciava la sua resurrezione. E nei vangeli è anche scritto che il Sole si oscurò, segno reale, questo, che l’Essere del Sole non era ormai più là fuori, ma veniva ad abitare nella Terra per rimanere sempre con noi.
Noi uomini moderni ci sentiamo spesso a disagio di fronte a simili affermazioni dei vangeli dove appare normale che un fatto morale sia al contempo un evento di tura. Se ci riflettiamo, però, lo sappiamo bene che lo spirito umano, anche se a livelli molto più modesti, opera lui pure magicamente dentro il corporeo. Per citare solo un esempio: quando ci entusiasmiamo – e l’entusiasmo è un fatto morale – il nostro corpo fisico si riscalda e sopportiamo ogni fatica. Non è una cosa campata in aria dire che il compito del nostro millenario cammino è quello di far coincidere sempre di più la moralità con l’elemento di natura. È questo che il cristianesimo intende quando afferma che l’intera creazione e destinata a risorgere nella conoscenza e nell’amore degli uomini.
La separazione tra il fatto morale e il fatto naturale, la grande ferita della caduta, si manifesta forse nel modo più drammatico in quella schizofrenia culturale che ci ha portato a separare scienza e religione: da un lato abbiamo posto la religione che ha sempre teso a sottovalutare la materia, se non a disprezzarla; e dall’altro lato si pone la nostra scienza moderna, materialistica, che tende a sottovalutare lo spirito, procedendo come se non esistesse.
Da creature a creatori
Sono tanti oggi coloro che si chiedono preoccupati: potrà forse succedere che gli uomini, manipolando soprattutto le forze atomiche, butteranno per aria tutta la Terra? La risposta migliore che io conosca a questioni di questa portata rappresenta una specie di realismo cristico, o per meglio dire umano, e mi pare rappresenti un giusto equilibrio tra due estremi. L’un estremo mi pare la disperazione o la rassegnazione fatalistica che porta molte persone a considerare quasi inevitabile la catastrofe ultima. L’altro estremo è la leggerezza morale, che sottovaluta la responsabilità dell’uomo e la sua capacità di infliggere danni irreversibili alla Terra.
Veder tutto nero è senza senso perché l’Essere dell’Amore ha fatto della Terra il suo corpo proprio con l’intento di averne cura al posto nostro, finché non impareremo a farlo anche noi. Egli fa sì che non ci venga sottratto il corpo della Terra prima che sia trascorso il tempo di tutta la nostra evoluzione. Noi uomini siamo ancora lontani dall’aver conseguito una forza morale in grado di disporre del corpo terrestre nella sua totalità e unità. Per poterlo fare, gli uomini devono essi stessi ridiventare un’unità e una totalità: uno spirito solo e un’anima sola. Allo stato attuale dell’evoluzione noi possiamo fare solo danni parziali, siamo appena agli inizi del cammino che ci porta a decidere dei destini della Terra. È una grande saggezza, è un amore profondo quello che non consente alla libertà umana di gettare la Terra nell’abisso prematuramente!
Nei vangeli cristiani ciò è detto esplicitamente in riferimento al Cristo: «Ecco l’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo». Non è detto: i peccati degli uomini, bensì i peccati del mondo. L’Essere della Terra fa di lei il suo corpo non per assolverci dalla responsabilità di quello che avviene nella nostra interiorità e che dovremo mettere in ordine noi stessi, con le forze della libertà: dei nostri peccati egli prende su di sé le conseguenze sul mondo, sulla Terra. Il «peccato del mondo» è un’espressione tecnica che indica le conseguenze specificamente ecologiche – sul mondo naturale – dell’agire umano.
Mondo morale e mondo naturale sono un tutt’uno: e se non ci fosse lo Spirito della Terra a porre riparo nella natura ai danni che la nostra vita morale le arreca ogni giorno, la Terra e l’evoluzione umana sarebbero forse già da tempo andate in rovina. Noi compiamo tante azioni senza pensare a ciò che esse comportano per la Terra, eppure non ne esiste una che non la riguardi. Ogni minima goccia del nostro sudore, ogni pensiero giusto o sbagliato, ogni egoismo s’inserisce nel suo corpo, va a mutare i suoi elementi. Ma grazie all’Essere chiamato Cristo operano dentro la Terra forze d’amore e di saggezza che la rigenerano da quelle offese che noi le arrechiamo.
Questo sostegno incondizionato non ci dà però l’autorizzazione ad andare all’estremo opposto, a prendere cioè alla leggera «il peccato del mondo» che il Cristo prende su di sé. Seppure la Terra ci verrà conservata fino alla fine dei tempi, alla fine di quei tempi essa corrisponderà comunque alla nostra evoluzione interiore: è questo il grande peso morale della libertà umana. Che la Terra possa risorgere quale nuovo Sole, quale corpo irraggiante dell’Umanità riunita nel Cristo, o che possa recedere a scoria morta, vagante nell’universo: questa scelta viene sempre più rimessa nelle nostre mani.
Tra la disperazione che ignora il mistero pieno di speranza dell’Amore incarnato, e l’irresponsabilità che non conosce e non vuole compiti nei destini della Terra, c’è la tensione morale che porta ad aver fiducia nello spirito umano.
Concludo i miei pensieri con una poesia di Mario Luzi, ispirata dall’eclissi totale del sole avvenuta l’11 agosto 1999. In questi versi c’è molto di ciò che ha risuonato in me nel contesto dei pensieri che ho cercato di svolgere in questi giorni. All’inizio delle mie riflessioni ho fatto riferimento ai due grandi argini della cultura occidentale, la nascita e la morte. Questa poesia di Luzi infrange ogni frontiera di spazio e di tempo e ci trasporta a quel compimento di resurrezione così difficile da esprimere in parole, e che riecheggia i primordi dell’evoluzione.
UN MINUTO NEL TEMPO
Che ordine nell’universo
e nel pensiero che lo pensa.
Dopo l’affronto, dopo
la periodica contesa
vengono luce e tenebra
a una breve
tenebrosa, coincidenza.
Dura poco lo sgomento dei viventi,
poco però assai più a lungo
del letale anneramento.
Prendono nuovamente vita e luce
al rifulgere del loro
spaventoso zero. Tripudiano.
Pure com’è difficile cacciarlo
l’ipotetico pensiero
che l’ombra dell’umano
oscuri, luna nera,
la luminosità solare
dell’essere e che un giorno
una cimosa astrale
vi passi sopra definitivamente e splenda.
Difficile, ma spero
di tenerlo a bada, devo.
Tutti noi dobbiamo.
Mario Luzi,
Pienza, 11 agosto 1999
È una poesia bellissima! E come tutte le creazioni d’arte può essere letta a più livelli. Io l’ho intesa come un momento immaginativo che riesce a cogliere nell’intensità di un attimo l’intera evoluzione dell’uomo e della Terra, che va dai primordi fino alla fine dei tempi.
L’essere umano pensa e nell’ordine del suo pensare riflette, come un figlio lontano, l’ordine dell’universo che l’ha generato. E pensa alla sua caduta, all’affronto che l’ha separato e smembrato da quell’abbraccio di grembo sicuro, pensa al suo cammino fatto di lotte e di contese, nel tempo che scorre sulle storie dei popoli.
In quell’attimo l’uomo sa che verrà il tempo del compimento, e allora luce e tenebra, spirito e materia si riuniranno: e sarà terrore, nero sgomento perché nulla rimarrà di quel meraviglioso mondo che i suoi occhi hanno a lungo contemplato, e ciò che prima era luce fisica scomparirà. Sarà uno sgomento breve, però, perché con gli spazi del suo antico mondo finisce anche il tempo: tutto entra nell’eternità senza tramonto dei regni dello spirito. E allora dal nulla della sua madre Terra egli vede risorgere la Terra Nuova, la vita nuova di un nuovo Sole. Sì, è una novella buona, questa, il cuore dell’uomo lo sa: e tripudia di fronte ai suoi alti destini, e con lui tripudiano tutti i viventi, tutti gli esseri dei regni della natura, i suoi fratelli e le sue sorelle di sempre.
Eppure... eppure che farne di quell’ipotetico pensiero che la libertà dell’uomo possa non farcela a risorgere dalle tenebre della materia, che l’ombra arrivi a oscurare tutta la vicenda umana e che la mano divina, all’improvviso, decida di passarvi sopra avvampando, e la cancelli? Che farne di questo inquieto pensiero? Tenerlo a bada... sì, tenerlo a bada, perché è il pensiero della creatura che non è sicura di riuscire a risalire fino al suo creatore, che non sa se ce la farà davvero a risorgere con la sua madre Terra. Tenerlo a bada, perché non sia stata vana la fede e la speranza che il dio d’Amore ha riposto nel cuore e nella mente di ogni uomo.