Il grande gioco della vita (Pietro Archiati) - copertina

Il grande gioco della vita

Salute e malattia, gioie e dolori.
Tutte occasioni da non perdere

Pietro Archiati

Estratto dal convegno di Roma, 9-11 maggio 2008

Testo – NON rivisto dal relatore – scelto e curato da Federica Gho

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ISBN 978-88-96193-58-7

https://www.liberaconoscenza.it

Caro Lettore,

con la nuova collana AUDIO siamo lieti di offrirti l’opportunità di accostarti alla ricchezza e alla profondità di bei pensieri con cui vivere al meglio, giorno per giorno, il nostro tempo così difficile, ma anche ricco di grandi occasioni. AUDIO ti porge una conferenza di Pietro Archiati tratta da un convegno o da un seminario che, se suscita il tuo interesse, potrai ascoltare per intero tramite il Cd allegato, o potrai leggere per esteso negli Atti. Questa collana vuole essere per te, e per le persone con cui vuoi condividere questi pensieri, uno strumento per orientare in modo sempre più mirato la scelta nel vasto repertorio delle nostre pubblicazioni.

Buona lettura e buon ascolto!

Indice

Prefazione di Pietro Archiati 7

Salute e malattia, gioie e dolori.

Tutte occasioni da non perdere 9

La salute del corpo è per il cammino dell’anima e dello spirito 14

La ricerca dell’anima gemella 21

Le forze del karma lavorano a livello profondo e poi riaffiorano 25

L’incapacità di sofferenza morale genera sofferenza

fisica 28

Il corpo può, strutturalmente, essere sorgente di felicità? 32

Il pensare caduto è povero e dipende dalla riflessività speculare del cervello 35

Contenuti del Cd allegato 39

Prefazione

La vita nostra è quel che noi siamo fin dalla nascita, è tutto ciò che possiamo diventare fino alla nostra morte. Una corsa ad ostacoli che mozza il fiato, piena di sorprese, di occasioni di crescita all’infinito. Un gioco pieno di miracolosi enigmi tutti da risolvere.

Nasciamo in un popolo, in un luogo geografico, in un ambiente famigliare e sociale, ci viene incontro un certo tipo di educazione, viviamo rapporti di coppia (dall’anima gemella al nemico), costruiamo amicizie e scateniamo conflitti, ci confrontiamo con l’immigrazione e ci interroghiamo sui Rom, soffriamo per malattie, per rovesci, per guerre e ingiustizie, gioiamo per fortune, successi e talenti, siamo ricchi o poveri in canna, di robusta salute, malandati o così così… eppure la fantasia morale può trasformare questo patrimonio di eventi, che spesso sembrano solo “capitarci”, in un cammino tutto personale, in un’opera d’arte della nostra libertà.

Pietro Archiati

Salute e malattia, gioie e dolori

Tutte occasioni da non perdere

Cari amici,

questa sera alcuni pensieri sul cammino dell’indi­viduo umano, sulla sua evoluzione sulla falsariga di malattia e salute, gioie e dolori.

Se tracciamo una riga lunga lunga, fatta di diversi millenni, fatta di ripetute vite terrene, sorge la domanda: a che serve tutto questo? È un dovere l’evoluzione?

Quando una persona attraversa un periodo di depressione, è perché si chiede: ma, non sarebbe meglio che non ci fosse tutto questo?

Il nichilismo dei giovani, poi, sembra porre in questione l’esistenza in quanto tale.

Diciamo che il senso dell’evoluzione è il crescere liberamen­te, individualmente, in conoscenza – che è l’evoluzione della testa, della coscienza, del pensiero – e l’altro filone dell’evo­luzione, l’altro modo di realizzare l’umano è il crescere nelle forze morali dell’amore. Capire sempre di più il senso del tutto e attualizzarlo sempre di più nelle nostre azioni.

Supponiamo che sia questa la proposta, l’offerta di questo grande gioco dell’evoluzione. Se un individuo dice: ma chi me lo fa fare a dovermi arrabattare per capire sempre di più? Non ci trovo gusto a questo gioco! Chi me lo fa fare a dover vincere sempre di più l’egoismo, cercando di amare sempre di più gli altri? Non mi va di giocare a questo gioco!

Che facciamo? Persone che dicono questo gioco non mi pia­ce più di tanto ce ne sono, tante, crescono addirittura. Dicia­mo, però – questo è un motivo fondamentale – che non è che siano tantissime le persone che godono, che effettivamente fanno l’esperienza di giorno in giorno, di anno in anno di crescere, di approfondire, di am­pliare la loro coscienza in campo conoscitivo. Per esempio integrando le scienze naturali, che indagano il mondo visibile, con una scienza dello spirituale che indaga il mondo spiritua­le. Queste persone non sono tantissime, per cui è anche difficile avere attorno a noi degli esemplari, dei modelli umani per cui uno si dice: sì, in effetti, se facessi un po’ come quello lì, può darsi che sia una bella cosa vivere...

E d’altro lato viviamo in una fase di egoismo tale, dove uno sempre maggiormente pensa a se stesso, è costretto a pensare a se stesso. Gli assilli dell’esistenza: sbarcare il lunario, lavorare per guadagnarsi il pane, mantenere la famiglia… diventa sem­pre più complesso, sempre più difficile, per cui fare l’esperienza dell’amore nel senso più positivo e più bello della parola, diven­ta una cosa sempre più rara e sempre più difficile. Tirando le somme, molte persone dicono: ma non è mica vero che sia così bello vivere… dov’è bello vivere? E addirittura lo vuoi chiama­re “un gioco”? Ma è un gioco che non mi piace proprio!

Aggiungiamo che il numero delle persone che si tolgono la vita – o per lo meno il numero delle persone che hanno pensieri di suicidio, anche senza farlo – aumenta. Ci si può chiedere se sia giusto parlare di un gioco bello che val la pena di giocare e di ripetere di giocare, o se invece sia più intelligente vivere in un modo più modesto, più rassegnato, più realistico, terra terra, e dirsi: beh, cerchiamo di fare del nostro meglio, ma voli pinda­rici non sono concessi, non sono realistici.

A questo punto, secondo me, ci salva soltanto l’affermazione che dice: non è necessario che la vita sia bella, non è necessario che la vita sia piena di entusiasmo, non è necessario che la vita sia accattivante, perché sei libero. Essendo tu libero, essendo la forza fondamentale che porti dentro di te la libertà, la scelta fondamentale della libertà sta nella possibilità che abbiamo di fare della vita, di ogni vita che abbiamo, qualcosa che ci entu­siasma. E se la prendiamo, se la realizziamo, se la viviamo dal lato entusiasmante, ci viene detto – ed è vero – che può entusia­smare sempre di più. È possibile – ma non necessario, perché siamo liberi – vivere il cammino di conoscenza, la ricerca della verità oggettiva come qualcosa di meraviglioso. È possibile.

Per quanto mi riguarda vi garantisco, io sono sicuro, che è possibile. Mi pare di averlo sperimentato sempre di nuovo: è possibile vivere l’evoluzione della conoscenza, del pensiero, come una cosa assolutamente meravigliosa, ma non c’è nulla di meglio.

Se uno ci prova – per lo meno provaci! –, se uno ci prova e veramente fa l’esperienza di capire, salta fuori che il capire sempre meglio i fenomeni del mondo mi dà una gioia assoluta. Naturalmente questo non avviene sen­za sforzi, perché il cammino di conoscenza comporta sforzo, ma questo sforzo viene remunerato dal fatto che se mi sforzo veramente di capire sempre meglio - in un modo sempre più va­sto, in un modo sempre più complesso, in un modo sempre più fondato, sempre più scientifico - la realtà che mi circonda, dal capire salta fuori la gioia.

E se vivo senza gioia è perché ho scelto liberamente di omettere, di non fare questo cammino di conoscenza. Libe­rissimo di ometterlo, però non posso accusare l’esistenza, non posso accusare gli altri, non posso accusare la vita di non rendermi felice.

L’unico che è responsabile per il fatto che io non sia felice sono io stesso, perché avrei la possibilità, reale come ce l’ha ogni essere umano, di essere assolutamente felice. E non serve il cavillo che dice: sì, però l’altro è più bravo a pensare, l’altro è più avanti di me… Non importa nulla, tutti raggiri per poi di nuovo poltrire, perché la gioia della conoscenza non sta nell’ar­rivare al punto in cui si trova un altro. Questa è una pensata stupida. La gioia della conoscenza sta nel compiere, oggi, quel piccolo passo reale che è possibile a me, però lo devo compiere come decisione della mia libertà.

In chiave molto più concreta, non esiste un cammino di co­noscenza, di crescente approfondentesi conoscenza, senza un minimo di lettura, senza sostenere il processo di pensiero dell’individuo, senza il confronto con il pensiero soprattutto degli spiriti migliori che conosciamo – e perciò vi proponiamo soprattutto questo Rudolf Steiner che è una proposta di pensie­ri all’infinito. Se io ho capito, e ci vuole poco, che se cerco di fecondare quotidianamente il mio spirito, la mia conoscenza, il mio pensiero – e lo può chiunque, basta mezz’oretta – con pensieri di esseri umani che mi hanno preceduto, allora non si sgarra, non esiste che io non trovi gioia.

E non esiste che io, se cerco la conoscenza, non faccia passi in avanti. È nella natura del pensare umano, è nella natura della testa che se io mi concedo un’ora al giorno in cui coltivo dei pensieri, è nella natura dell’uomo che faccia dei passi in avanti. E se non faccio passi in avanti nella conoscenza, è perché io decido liberamente di poltrire, proprio di essere pigro, di non fare nulla.

Non è mai esistito un essere umano che, veramente, prenda in mano il cammino della conoscenza e non faccia passi in avanti. Bisognerebbe che fosse un essere umano senza testa, ma non esistono esseri umani senza testa. Esistono soltanto esseri uma­ni che fanno girare la loro testa vuota a ruota libera perché non la col­tivano. Ognuno di noi è responsabile in proprio, è responsabile in primo piano per l’evoluzione della sua conoscenza, e ognuno può fare dei passi reali ogni giorno, non soltanto ogni mese o ogni anno. Ogni giorno.

Diciamo allora che il nichilismo dell’esistenza, la depressività che sorge, è per il fatto che noi diamo importanza a tutte le cose possibili e immaginabili fuorché al nostro spirito, alla qualità del nostro pensiero. Però, la gioia della vita, cari amici, non viene da ciò che mangiamo. Ciò che mangiamo ha la funzione importantissima di metterci in mano un sostrato, uno strumen­to fisico che è il corpo fisico fondamentale. Però una volta che lo strumento fisico, che è il corpo, è sano, resta tutto da fare! Sarebbe come uno che ha un violino, lo mette tutto a posto, lo intona, lo accorda, però non suona… Il materialismo consiste nel far di tutto per mettere perfettamente a posto questo stru­mento che è il corpo fisico, senza farne nulla! Ma, il senso di una testa sana è che sia poi lo strumento per pensare, se non approda mai nel pensare a che ci serve la salute?

E se noi poltriamo, se noi omettiamo di camminare nel pensa­re, costringiamo l’Io superiore a mandarci una raffica di malat­tie per farci uscire dal poltrire. La salute non è fatta per essere goduta. Se una persona gode la salute, il suo Io superiore va in cerca di malattia, per dargli la possibilità di smettere di poltrire. La salute del corpo è fatta per usare il corpo per il cammino dell’anima e dello spirito, allora sì che va bene, allora sì che trova gioia! Ma una persona non potrà mai essere felice, vera­mente realizzarsi nell’umano, se gode soltanto il corpo fisico… ma allora godi soltanto ciò che la natura ti ha dato. E dove sta quello che puoi compiere tu con la tua libertà?

E insieme a questo cammino della conoscenza – il cammi­no dell’intelligenza – c’è il cammino morale, che è il cam­mino dell’amore, l’intento di vincere sempre di più l’egoismo la cui negatività non è il fatto che amiamo noi stessi, l’ho detto tante volte. L’amore di sé è la parte bella dell’egoismo, la parte brutta dell’egoismo non è l’amore di sé che c’è, è l’amore dell’altro che manca. Son due cose diverse. Quindi, se la parte brutta dell’egoismo è l’amore dell’altro che man­ca, vuol dire che il senso della vita è liberamente costruire, aggiungere l’amore all’altro.

Torno alla domanda che ho fatto all’inizio: chi me lo fa fare?

E la risposta è: non c’è nulla che dia più gioia, più soddisfaci­mento, più autorealizzazione all’essere umano, che non libera­mente e individualmente crescere in conoscenza e in amore.

Provaci! Ti meraviglierai tu stesso di quanta gioia salta fuori, e ti renderai conto che è piena di senso la cosa, che è bellissima. Una cosa migliore non c’è, perché è nella natura umana di go­dere sempre di più del cammino di conoscenza e del cammino dell’amore.

Se a questo punto ci fosse ancora una persona che dice: però no, a me non va! L’Io superiore lo aiuta dandogli una bella depressione… Quello dice: a me piace di più la depressione che non tutta questa sfacchinata… Goditi la depressione! Se poi dice: ma no… non mi piace neanche la depressione. Al­lora se non vuoi godere nulla, non godi nulla. Cioè, bisogna avere anche il coraggio, l’onestà, di identificare il punto in cui il discorso diventa assurdo, perché allora creala tu una natura umana alternativa che sia migliore di quella che c’è. E non c’è mai riuscito nessuno. Una natura umana migliore di quella che c’è, non è mai stata inventata, perché se ci fosse l’avrebbe già inventata il Padreterno. È quello che ha più esperienza di tutti, esercita il mestiere da molto più a lungo di noi, quindi è inutile che andiamo a dargli consigli.

Qui facciamo un’affermazione semplice: il senso dell’evoluzio­ne, il senso dell’esistenza è la gioia, la positività, la pienezza del vivere in una conoscenza, in un processo di pensiero sempre più forte, sempre più profondo, sempre più vasto. E che il bello della vita, ciò che dà gioia al cuore è di sentirsi sempre più pieni di forze di amore perché vorremmo che anche gli altri ci porti­no incontro forze di amore.

Ciò che noi cerchiamo di dire a chi ribatte questa affermazione così semplice, è: nella misura in cui ci provi, la cosa ti convince. Provaci! E man mano che ti convince sempre di più, la gioia che senti è talmente convincente che vorrai sem­pre di più crescere nella conoscenza e sempre di più crescere nell’amore.

Resterebbe soltanto il problemino: se fosse possibile che una persona umana ha raggiunto tutto il conoscibile e dicesse no, adesso sono disoccupato… e raggiungesse una tale perfezione nell’amore che più non si può… direi, aspettiamo un momen­tino prima di aver paura di essere arrivati a questi livelli stra­tosferici. Rendiamoci conto di quale povertà di conoscenza sia il materialismo che abbiamo, mettiamoci al punto di partenza reale della nostra cultura: siamo al punto zero, ignoriamo in tut­to e per tutto il mondo spirituale. C’è tutto da conoscere, quindi è inutile porci adesso il problemino di quello che sarà quando saremo arrivati alla fine. Ce n’è da fare. Questo quesito l’ho sol­tanto accennato, perché sarebbe proprio assurdo porsi il proble­ma di quando sarò arrivato alla fine e non avrò nulla da fare.

Se una persona gode a piene mani il cammino di conoscen­za, dell’evoluzione del pensiero, gode a piene mani il dedicarsi all’evoluzione anche degli altri… la somma della morale è di rendere possibile la libertà altrui. La creatività dello spirito è l’esercizio della propria libertà, e l’amore è rendere possibile all’altro l’esercizio della sua libertà. E libertà significa, nel mio linguaggio, la creatività dello spirito e dell’animo umano: esse­re creativi in campo di conoscenza e essere creativi, fantasiosi, artisti, nei gesti dell’amore che possono esprimersi all’infinito. E la domanda successiva potrebbe essere: nella misura in cui io godo sempre di più la conoscenza, sento sempre di più la gioia dell’amore, cosa posso fare per l’altro?

Per l’altro non puoi fare direttamente nulla, perché se tu po­tessi fare qualcosa direttamente per l’altro, l’altro sarebbe un tuo bambino piccolo, o sarebbe un’appendice del tuo essere.

L’altro va rispettato.

Ma, allora, non c’è nulla che possiamo fare gli uni per gli altri proprio direttamente?

Certo, l’amore sta nel mettere a disposizione dell’altro tutti gli strumenti necessari perché viva in libertà, però la gestione del suo cammino spetta in tutto e per tutto a lui.

E quando uno è preso dalla depressione, non posso far nulla per lui direttamente per aiutarlo? A questo punto io ho sempre detto: c’è una cosa che possiamo fare gli uni per gli altri, ed è di agire in un modo contagioso. Il contagio, non quello negativo del corpo fisico, ma il contagio in positivo di una gioia pro­rompente dell’esistenza, che è convincente in sé e per sé, non è lesivo della libertà. E in fondo, ognuno di noi è contento quan­do trova delle persone accanto a sé, nel suo karma, che sono talmente contagiose – e lo sono senza volerlo, perché il con­tagio avviene proprio per la gioia della conoscenza e la gioia dell’amore – che questa gioia irradia. È convincente in assoluto, non ha bisogno di dimostrazioni.

E nella misura in cui nel karma dell’umanità ci è concesso di avere con noi degli esseri umani – pensiamo a un Francesco d’Assisi per esempio – che ci presentano, ci rendono percepibile la gioia profondissima, bella, lo slancio del cammino di cono­scenza e del cammino del cuore, questo è talmente convincente che ci contagia, e ci diciamo: quello è il senso dell’esistenza! Se uno vive in quel modo lì, va tutto bene. Va bene anche la sofferenza, va bene anche il dolore perché serve da incentivo a camminare sempre di più, sempre ulteriormente.

In questo cammino dell’individuo c’è – molti di voi ne avran­no sentito parlare – ciò che si chiama l’anima gemella. Molte persone sono in cerca dell’anima gemella, e va bene, perché in fondo l’anima gemella c’è. Si rifà al mito di Giove, un mito bellissimo dei Greci.

C’era Giove che aveva creato gli esseri umani, Prometeo, eccetera. Poi ha visto che gli esseri umani crescevano sempre di più in conoscenza e in amore. Giove ha cominciato ad aver paura che gli esseri umani gli facessero concorrenza, al che ha detto: prima che diventino troppo forti fammeli tagliare in due. E questa tagliata in due è la scissione dei sessi, tant’è vero che sesso viene dal latino sexus, e sexus viene da secare: gli esseri umani sono stati segati in due. Da lì viene la parola.

Ora, se ognuno di noi all’inizio era maschile e femminile in­sieme ed è stato tagliato in due, vuol dire che ognuno di noi ha, da qualche parte nel mondo, la sua altra metà con la quale all’inizio era una cosa sola. Quindi il pensiero di cercare, vo­ler trovare l’anima gemella, è giusto. Si rifà, in fondo, a que­sta separazione dei sessi per cui il maschile cerca il femmi­nile, il femminile cerca il maschile. Però l’anima gemella non è necessario che sia dello stesso sesso.

Ora siamo a livelli di evoluzione dove la realtà del corpo diventa sempre più di fondamento e l’elemento di evoluzione vera e propria è quello dell’amore nell’anima. L’amore è la realtà più forte, più centrale dell’anima, e la conoscenza è la realtà centrale dello spirito. La realtà corporea, allora, e anche la realtà sessuale di una persona, recedono sempre di più in quanto elemento portante, e l’anima gemella deve essere quell’anima che corrisponde in modo particolare alla mia anima e al mio spirito.

L’anima gemella non è necessario che sia la persona di cui io mi innamoro, quella che poi fa sì che sorga una famiglia e che insieme diventiamo genitori di figli. Secondo me, nella no­stra cultura, c’è un certo materialismo anche in questa letargìa di questo privilegio dato al matrimonio che deve durare per tutta l’eternità. Per cui viene occultato, viene nascosto il fatto che può darsi benissimo che il compito comune di creare dei figli in senso biologico si esaurisca nel giro di venti o ventun anni. Quando poi il figlio si rende autonomo, questo compito comu­ne in questa vita è concluso, e a queste due persone, papà e mamma, resta la domanda: vogliamo continuare a vivere un rapporto privilegiato perché ravvisiamo l’uno nell’altro l’ani­ma gemella? Oppure si tratta di un compito circoscritto nel tempo che insieme abbiamo assolto, che ora viene a termina­re, e che ci consente di ritornare al punto di essere liberi l’uno nei confronti dell’altro, chiedendoci se ognuno può andare in cerca di altre persone?

Voglio dire che, benché tante persone partano dall’assunto spontaneo che il proprio marito o la propria moglie – probabil­mente o quasi certamente – sia la propria anima gemella, questa affermazione non per forza è vera. Perché la mia anima gemella non è, in fondo, l’essere umano col quale mi trovo meglio, non è l’essere umano con cui io mi sento più a casa, nel senso che mi sento più comodo. Perché se c’è un rapporto con una persona che mi piace, e questo ha la sua giustificazione, un rapporto che mi dà gioia, un rapporto dove ho l’impressione che questa persona di spicco – questa persona di eccezione nella mia vita – sia quella che mi capisce più di tutti, questa simbiosi, questo capirsi profondamente non basta per dire che questa persona è la mia anima gemella.

C’è un altro aspetto che deve sopravvenire, che è molto più importante che non sentirsi profondamente a casa propria, an­cora più importante che non creare insieme dei figli in senso biologico. Direi che l’elemento specifico più importante di tutti per capire se ho a che fare con la mia anima gemella, è il fatto che questa persona è quella che più di ogni altra mi aiuta ad aprirmi a tutti gli altri esseri umani.

Naturalmente bisogna vivere un po’ insieme, bisogna cono­scersi sempre più a fondo per poter fare questa affermazione, però sto dicendo: la mia anima gemella – e ognuno ce l’ha que­sta anima gemella, però è più difficile trovarla di quanto noi pensiamo – non è per forza mio marito o mia moglie. La mia anima gemella è quell’essere umano che, con esperienza fatta, mi aiuta più di ogni altro essere umano ad aprirmi, anche per­ché mi conosce più degli altri, e gode con me di questa apertura a sempre più esseri umani.

In altre parole, la mia anima gemella è quella persona che gode con me di ogni persona che io amo, e gode di un am­pliamento sempre crescente delle persone che io amo: io sono contento di stare con te soltanto nella misura in cui tu ami sem­pre più persone accanto a me, perché le voglio amare insieme con te, e più persone tu ami e più io sono contento di stare con te. Questa è l’anima gemella. Parla il linguaggio del mio Io superiore, perché il linguaggio, la sapienza del mio Io su­periore è che l’intento di incarnarsi, diciamo l’ideale di ogni incarnazione, è di scendere sulla Terra con l’intento dichiarato da parte dell’Io superiore di ampliare, di estendere le proprie forze di amore a sempre più persone possibili. In altre parole, la mia anima gemella è quell’essere umano che meno di ogni altro vuole possedermi. Lì riconosco il carattere fondamentale.

Ripeto, ci sono tanti aspetti dell’anima gemella, ma questo mi sembra quello fondamentale: è quella persona che non sopporta né per sé, né per me, l’esclusività. Mi vede nel contesto del cor­po mistico dell’umanità, di questo organismo spirituale, mi co­nosce per quello che io sono nell’organismo dell’umanità. Non basta alla mia anima gemella conoscermi per quello che sono per lei, perché questo è soltanto un frammento di me, ma quello che io sono come organo unico nell’organismo dell’umanità – questa è la mia vera identità –, la mia anima gemella è quella che mi conosce così a fondo da collocarmi, come prospettiva evolutiva del mio Io, nel contesto di tutto l’organismo animico e spirituale dell’umanità.

L’anima gemella è quella che più mi apre a tutti quelli che mi appartengono, e coloro che mi appartengono sono, in ultima analisi, tutti gli esseri umani. E in questo senso parla il linguag­gio del mio Io superiore.

Un altro aspetto in cui dimostra di essere la mia anima ge­mella è che sa di essere la prima di tante, perché un’anima ge­mella genuina ne fa saltar fuori una seconda, una terza, una quarta, una quinta. E nella prospettiva ultima del divenire, ogni essere umano è la mia anima gemella perché fa parte del mio organismo spirituale e animico.

Questo ci porta ad esprimere l’altro pensiero già accennato oggi, che non ci sono rapporti karmici che terminano. Nessun essere umano che fa parte del mio karma può terminare di farlo.

Quello che può avvenire è che esteriormente – cioè il modo di vedersi, di incontrarsi esteriore – possa terminare per un certo periodo di tempo, o anche qualcuno può decidere che non vuole più vedere una certa persona. Però pensare che questa persona termini di far parte, di operare, di ribussare alla porta del mio karma, è illusorio.

Quindi, e qui entriamo nel pieno del tema di questa sera, se c’è un rapporto tra due persone che si esprime a livello fisico e poi questo livello fisico termina, le forze del karma lavorano in queste due persone a livello profondo e poi magari riaffiorano nella prossima vita. E non importa la distanza fisica, magari queste due persone non si vedono per vent’anni, però le loro anime, il loro corpo astrale è sempre in relazione, i pensieri dell’uno influiscono sull’altro anche se a distanza di diecimila, ventimila chilometri. Se c’è un periodo in cui terminano il rappor­to fisico esteriore, si approfondisce addirittura l’appartenenza reale delle forze del karma e si riesprime, riaffiora in seguito.

Analogo a questo fatto c’è quell’altro molto più grosso, cultu­rale, dove uno Steiner in base alla sua osservazione nel mondo spirituale ci dice: c’era il terzo grande periodo di cultura con gli Egizi che hanno fatto le mummie, con il mito di Iside e Osiride. Quegli Egizi eravamo noi, tre, quattro mila anni prima di Cristo. Tutto quello che noi abbiamo vissuto quando seguivamo i comandamenti dei faraoni, tutta questa cultura, tutte queste forze, nel periodo seguìto dopo (dei Greci e dei Romani) è di­ventato sotterraneo. E nella cultura greco-romana si direbbe che non c’è nulla di quello che era stato instaurato al tempo degli Egizi.

Dopo dei millenni, nel nostro periodo di cultura che è il quinto, queste forze reali che sono diventate come sotterranee, che sono sparite dalla cultura ufficiale, riaffiorano e noi oggi vivia­mo nella cultura tantissimi fenomeni culturali che sono l’effetto diretto di cause che sono state poste al tempo degli Egizi.

Un esempio fondamentale: non sarebbe possibile il ma­terialismo di oggi, non sarebbe possibile ritenere la realtà materiale come unica realtà – cosa realissima nella nostra cultura –, se noi non avessimo vissuto la mummificazione. La mummia è una prima fissazione sull’ele­mento materiale dell’uomo, una prima paura nei confronti della morte, un primo ribellarsi di fronte al fatto che l’essere umano deve morire e diventa puramente spirituale. Quindi questo costringere il morto a fissarsi sul suo elemento ma­teriale perché è stato mummificato e resta lì addirittura per dei millenni, ha generato nell’anima umana (che è l’anima nostra), quella specie di compagine interiore, quel modo di sentire e di pensare che riaffiora come materialismo.

Quindi c’è un vissuto reale di fronte alla mummificazione del proprio corpo e queste stesse forze vengono trasforma­te, ma sono le stesse forze che riaffiorano come cultura del materialismo.

Analogamente quando due persone terminano di vedersi, di frequentarsi fisicamente, ciò che li avvolge come comunanza di forze animiche non è più visibile – perché non si vedono e non si parlano –, si tuffa nel subconscio dell’animo. È presente, però, lavora, si trasforma come realtà, e poi riaffiora più tardi, quando prima o poi, se non in questa vita nella prossima vita, dovranno di nuovo rincontrarsi, avere a che fare l’uno con l’altro a livello fisico.

Il concetto è che non ci sono rapporti che terminano. Una sosta che avviene a livello esteriore fa sorgere delle forze in­visibili, sotterranee, che continuano a lavorare all’interno delle due persone e poi riaffiorano e si esprimono di nuovo a livello di percezione fisica esterna.

Diciamo allora che il significato di tutto ciò che è esterno è l’evoluzione interiore dell’uomo, e torniamo a questa afferma­zione che ho fatto all’inizio, che il senso dell’evoluzione è il cammino di conoscenza, è il cammino dell’amore.

Se un individuo che gode la salute, non usa la sua salute come strumento necessario – bellissimo! – per crescere in conoscen­za e in amore, visto che non si avvale, che non si serve della sa­lute per crescere in conoscenza e in amore... proviamo a dargli la malattia!

A che serve la malattia? A evidenziare che c’è qualcosa che non va. E ciò che non va, il male se volete, non è mai qualcosa che esiste, non è mai un dovere che non viene assolto, ciò che non va è sempre il bene che l’Io superiore cerca e che viene omesso. Per la libertà ci sono soltanto peccati di omissione.

Finché l’essere umano fa qualcosa, tenta, cerca, prova, va avanti, perché ciò che combina fa saltar fuori dei risultati. Ma­gari deve rettificare la traiettoria, magari deve correggersi.., non fa nulla. Nessuno sa già in partenza quali risultati sortirà il suo modo di agire, bisogna avere il coraggio di agire e poi vedere che cosa salta fuori. Quindi il vero male morale è di omettere, di non fare, di non camminare in conoscenza e in amore. E la depressione, la sofferenza, non salta fuori quando l’essere umano fa degli sbagli, salta fuori quando omette di imparare in base agli sbagli.

Se uno prova in un modo e questo provare non va bene, non è uno sbaglio. Lo sbaglio vero e proprio è non imparare da ciò che si prova a fare, quindi se la prima forma di male è di non imparare dagli sbagli, la seconda forma del male morale è di non tentare neanche, cioè di non far nulla. L’unico vero male morale che esiste è di omettere il duplice bene umano che vie­ne offerto a ognuno. Nella misura in cui un essere umano non omette, fa tutto quello di cui è capace – e di più non c’è bisogno – in campo di conoscenza e in campo di amore, sarà felice, va tutto bene! E non c’è neanche bisogno di malattie più di tan­to, perché se fa un cammino di conoscenza e un cammino di amore, nel cammino di conoscenza e nel cammino di amore è compresa anche la lotta, la sofferenza.

La sofferenza fisica, la malattia fisica viene, cioè costringia­mo l’Io superiore a darci, a svegliarci attraverso una malattia fisica quando noi omettiamo nella nostra libertà di camminare in conoscenza e in amore, perché nella misura in cui uno cam­mina in conoscenza e in amore ha la libertà di soffrire tantissi­mo, per esempio, per il materialismo dell’umanità.

Non pensate voi che sia possibile sentire questa temperie cul­turale del materialismo come una grandissima sofferenza da parte dell’individuo? È possibile! Quindi la sofferenza non ha bisogno di essere fisica.

Costringiamo l’Io superiore ad acchiapparci dal lato della sofferenza fisica soltanto quando non siamo ancora capaci di sofferenza morale, ma nella misura in cui l’essere umano di­venta sempre più capace di sofferenza che si riferisce alle sorti dell’umanità, non c’è bisogno di aggiungerci per di più la soffe­renza fisica, perché la sofferenza morale è molto più forte.

Alcune volte ho ricordato le lacrime di mia mamma. Se chiu­do gli occhi me la vedo davanti con gli occhi pieni di lacrime, ma non piangeva perché pensava ai suoi dieci figli contadini – io sono nato subito dopo la guerra e non c’era quasi nulla da man­giare – no, pensava a tutti quei bambini in Africa, in Asia che, stando a quello che lei sentiva, non avevano neanche nulla da mangiare. Allora ero bambino, ma più tardi mi son detto: quella è sofferenza, perché se uno piange per queste sorti dell’uma­nità, per queste grandi ingiustizie che ci sono nell’umanità, è sofferenza. Quindi un essere del genere non ha bisogno ancora, per di più, di tante malattie. Se uno fa sue le sorti dell’umanità, ce n’è da soffrire!

Ci lascia indifferenti il fatto che il nostro materialismo ci porti a scannarci a vicenda, generi un dolore all’infinito nell’umanità? Staremmo tutti molto meglio se invece di scannarci a vicenda – ognuno per possedere sempre di più delle cose materiali – go­dessimo un po’ di più del cammino dello spirito e dell’anima. E ci basterebbe ciò che è necessario come strumento per fare questo cammino. Se uno resta indifferente nei confronti delle sorti dell’umanità – sono aspetti fondamentali del suo essere – è chiaro che il suo Io superiore desidera strapparlo fuori da questa indifferenza morale nei confronti delle sorti morali dell’umanità. Per strapparvelo fuori l’Io superiore è costretto ad acchiapparlo dalla parte del corpo fisico. Perché soffrire per le sorti morali dell’umanità, lì, non vi siamo costretti, è una cosa che si fa in libertà, però quando veniamo acchiappati dalla par­te del corpo siamo costretti a soffrire!

Avete mai trovato una persona che si è presa una brutta ma­lattia e dice: Sono indifferente, non m’importa nulla? La malattia fisica non lascia indiffe-renti. Quindi nella misura in cui una persona diventa indifferente nei confronti del fatto morale, nei confronti del fatto di evoluzione di coscienza, l’Io superiore viene costretto ad aiutarlo a fargli vincere l’indifferenza, dan­dogli quel tipo di malattia di fronte alla quale non può essere in­differente. Nessuno di noi può essere indifferente nei confronti del proprio corpo, perché se fossimo indifferenti di fronte alle sorti del nostro corpo allora non avremmo nessuna identità.

Il senso del congiungimento col corpo è proprio il fatto che ciascuno di noi si identifica di necessità col proprio corpo per cui non gli è concesso di essere indifferente di fronte alle sue sorti. E questo ci serve a capire che l’evoluzione sta proprio nel fatto di diventare sempre meno indifferenti nei confronti del cammino dell’umanità in senso di conoscenza, in senso di amore, e il corpo stesso diventa sempre di più lo strumento per questo cammino.

Se è vero che il senso dell’esistenza è il cammino interiore e tutto ciò che è esterno ha valore nella misura in cui diven­ta strumento per questo cammino interiore – anche tutto ciò che possediamo, tutto ciò che abbiamo, i soldi che abbiamo, gli strumenti che abbiamo in mano e quello che facciamo – se il senso vero dell’esistenza è il cammino interiore, allora diciamo che il corpo è la cosa più importante e la cosa meno importante che ci sia.

Il discorso sul corpo è importante, perché un aspetto fonda­mentale del materialismo è di sottolineare il corpo a un punto tale che tante persone non hanno più la più pallida idea che questo corpo è la casa in cui alberga un’anima e uno spirito. Allora il senso della vita è che attraverso le malattie, attraverso la sofferenza ci viene insegnato che il corpo è la cosa più im­portante della vita quando è malato, ed è la cosa meno impor­tante che ci sia quando è sano.

Perché il corpo è la cosa più importante quando è malato? Perché ci costringe a concentrarci sul corpo. E quando ci con­centriamo sul corpo per renderlo di nuovo sano, una volta che l’abbiamo reso sano, ci rendiamo conto – e questo sarebbe mol­to importante – che il corpo sano è la cosa meno importante che ci sia, perché è un puro strumento. Quando il violino si spacca, il violino diventa la cosa più importante perché sono costretto a concentrarmi sul violino, perché la musica non può più venir vissuta. Quindi, il violino spaccato mi costringe a concentrarmi su di lui, a rimetterlo in sesto, e allora il violino, lo strumento, diventa la cosa più importante. Ora ho rimesso in sesto il violino.., e diventa la cosa meno importante che ci sia. La cosa importante è la musica che voglio vivere col violino!

Analogamente col corpo: quando il corpo è sano, se io comin­cio a godere il corpo, senza usare il corpo come strumento per un cammino di conoscenza e di amore, costringo l’Io superiore a rendere malato questo corpo in modo che io mi costringo a concentrarmi sul corpo per riportarlo al punto in cui diventa uno strumento sano.., ma resta sano nella misura in cui lo uso come uno strumento per un cammino di conoscenza e un cam­mino di amore.

Questo vorrebbe dire, lasciatemelo esprimere in questo modo, che una persona sana con un minimo di salute, se vuol mante­nere la sua salute e se non vuol costringersi a pigliarsi un sacco di acciacchi, un sacco di malattie, dovrebbe, se usa il suo corpo come strumento per la conoscenza e per l’amore – lo dico ades­so in termini miei –, dovrebbe dedicare metà del tempo al corpo e l’altra metà all’anima allo spirito. Una volta assicuratosi il tempo giusto e sano per il sonno – otto ore per dormire – e il tempo giusto e sano per i pasti – quattro ore per mangiare – possiamo dedicare addirittura dodici ore al corpo (però di più è assoluta­mente insano, è assolutamente disumano, parlo del massimo in assoluto da dedicare al corpo come presupposto per tenerlo in forma). Il corpo resta sano nella misura in cui, come minimo, l’altra metà del tempo la dedichiamo al cammino dell’anima e al cammino dello spirito.

Naturalmente voi state pensando che allora la nostra cultu­ra è proprio bacata, malata nel modo più assoluto… Sì, io vi do subito ragione. E questo è il motivo per cui la depressività, le malattie non fanno altro che crescere. Questo è il motivo! Perché non abbiamo veramente ancora imparato, ma se voi mi dite: mamma mia, soltanto dodici ore per il corpo e poi le altre dodici all’anima e allo spirito? Ma che faccio? Mi annoio!

Certo, una persona che si annoia di fronte al cammino dello spirito e dell’anima vivrà di noia, perché il corpo, anche se io vi dedico venticinque ore al giorno, non basta mai per renderci felici. L’essere umano non è corpo, ha un corpo come strumento per l’evoluzione della sua anima e del suo spirito. Quindi chi gode la salute cerca la malattia. La salute non è fatta per goderla, la salute è fatta come strumento per godere la conoscenza e per godere l’amore.

La salute del corpo – permettetemi di nuovo di parlare per pa­radossi, ma non trovo altro modo di esprimere questa realtà paradossale del nostro materialismo – il corpo non è fatto per essere goduto, il corpo è fatto per venir usato come strumento. Godibile è la conoscenza e l’amore, non il corpo. E una persona che cerca di godere il corpo si espone a una delusione dopo l’altra, perché il corpo non è godibile, il corpo non è fatto per essere sorgente di godimento. Il corpo è come uno strumento musicale, godibile è il cammino di conoscenza e il cammino di amore, lì sente godimento, trova godimento l’essere umano. Ma la salute del corpo fisico non si può godere, è un’illusione, è un chiudersi in sé che ci rende sempre più depressivi e la vita sempre più noiosa. Ed è noiosa e diventiamo depressivi perché omettiamo ciò che veramente c’è da godere, che è il cammino di conoscenza e dell’amore. Quindi la fissazione sul godimento del corpo fisico, che è veramente un elemento spiccante della nostra cultura, è un condannarci già in partenza a essere sem­pre più infelici. Il corpo non può, strutturalmente non può, es­sere sorgente di felicità.

Il corpo è lo strumento per la duplice felicità che si gode nel cammino della conoscenza e dell’amore, ma il corpo in quanto tale non può essere un fine a se stesso. Ovviamente, questo tipo di affermazioni sono le cose che vi permetterete di mettere in forse o contraddire. A questo serve il dibattito.

Nel cammino dell’individuo, della sofferenza e della gioia, della salute e della malattia – tutte sfide da non perdersi – dicia­mo che il senso del materialismo culturale in cui viviamo è di arrivare al punto da trafiggere il cuore dell’individuo. Uso una metafora, un’immagine.

Il giorno in cui il materialismo, che condividiamo tutti, ar­rivasse al punto da trafiggermi il cuore (e me lo trafigge per­ché all’improvviso mi rendo conto di quanta sofferenza crea nell’umanità e di quanta gioia impedisce); il giorno in cui arrivasse a trafiggermi il cuore la pre­sa di coscienza di questo duplice mistero del materialismo:

allora questo cuore trafitto mi aiuterebbe a mettermi per strada, nella mia vita, nella mia biografia, nella mia libertà. Perché sento di amare questa umanità di cui io faccio parte. Aiuta l’individuo a mettersi per strada per vin­cere il materialismo coltivando l’evoluzione dello spirito, col­tivando il cammino della propria anima che si intride sempre di più, attraverso la sofferenza del cuore trafitto, di forze, di amore indomabile che abbraccia tutta l’umanità. Umanità che si trova in queste doglie del parto del materialismo e che attende di partorire una conoscenza altrettanto scientifica del mondo spirituale.

Ci sarebbe tutto un discorso da fare, ma lo accenno soltan­to: nell’essere umano c’è corpo, anima e spirito, e la dinamica dell’evoluzione è che, in effetti, sia il corpo sia l’anima sono strumento per il cammino dello spirito. Anche l’anima è uno strumento per il cammino dello spirito, perché l’anima umana cerca lo spirito. L’animico, il vissuto, non è scopo a se stesso, però è un discorso un po’ difficile nella nostra cultura, per­ché già non riusciamo più a distinguere tra corpo e anima, im­maginiamo se poi riusciamo, andando oltre una terminologia puramente astratta, a distinguere veramente tra anima e spi­rito. Quindi accenno soltanto questa triarticolazione dell’esse­re umano. Così come nei primi secoli questa triarticolazione è sparita e si è cominciato a dire che l’essere umano consta di anima e di corpo, così negli ultimi secoli sta andando a ramen­go anche l’anima e ormai l’uomo ordinario in questa cultura del materialismo ritiene che l’essere umano sia fatto di corpo, e tutti i fenomeni dell’anima, tutti i fenomeni interiori – i feno­meni cosiddetti di coscienza – siano un effetto di questa realtà originaria che è il corpo.

Stiamo pubblicando in Germania due testi fondamentali di Steiner sull’evoluzione, un corso fondamentale nell’evoluzio­ne, speriamo di poterlo tradurre anche in italiano nei prossimi anni. Nella prefazione cito il Dalai Lama il quale ha avuto, e tuttora ha, diversi incontri con scienziati in modo da portare a colloquio fra di loro il Buddismo, la religione, la spiritualità e la scienza. E lì viene detto ciò che il Dalai Lama propone di fronte all’affermazione di questi scienziati che dicono che nell’essere umano ci sono le strutture del cervello e a seconda di come esse funzionano, risultano tutti i fenomeni di coscienza, i pensieri, i sentimenti, la visione del mondo, eccetera. Quindi, la realtà causante è ciò che avviene nel cervello, che si può sperimental­mente osservare (realtà complessissima), e tutti i fenomeni di coscienza sono l’effetto di questa realtà biologica che consiste nella composizione del fattore genetico ereditario. E il Dalai Lama sempre di nuovo a dire: cari amici scienziati, perché non proviamo a capovolgere l’affermazione? Voi mi dite che ciò che avviene nel cervello causa ciò che avviene nella coscien­za. Proviamo a pensarla all’opposto! Ciò che avviene nella co­scienza determina ciò che avviene nel cervello. E racconta che questi bravi scienziati l’hanno guardato allibiti, pieni di bontà e di amore, però non avevano capito di che cosa stesse parlando! Allora lui lo ripete una volta, due volte, tre volte, e poi si rende conto che non capivano di che stesse parlando. Perché? Perché il materialismo sta nel fatto che è vero che per l’uomo d’oggi nella coscienza avviene quasi soltanto il risultato di ciò che av­viene nel cervello.

Questa affermazione non è sbagliata, è giusta per l’uomo d’oggi: il pensare umano è diventato così povero, così passi­vo, così dipendente dalla riflessività speculare del cervello che nell’essere umano ordinario di oggi, nella coscienza, c’è soltan­to ciò che avviene per riflesso. A seconda di quello che attraverso la percezione dall’occhio con il nervo ottico va al cervello – automaticamente, diciamo, per determinismo di natura –, quello che avviene nel cervello fa saltar fuo­ri delle rappresentazioni, delle immagini di rappresentazione.

Quindi il peccato originale, il pensare caduto, consiste nel fatto che è un’affermazione reale e oggettiva che, nell’uomo comu­ne di oggi, tutti i fenomeni di coscienza sono quasi o del tutto dipendenti da ciò che avviene nel cervello. Il Dalai Lama, in fondo, non ha il diritto di dire che è l’opposto perché per l’uomo d’oggi non è l’opposto.

Diversa è la cosa se il Dalai Lama dicesse: il senso di questa caduta, il senso di questa dipendenza, il senso del fatto che il pensare umano, la coscienza umana è diventata realmente in tutto e per tutto dipendente dal cervello, è che viene lasciato all’individuo per evoluzione propria di invertire il rapporto.

Però, per invertire di nuovo il rapporto, l’uomo deve lavorare nel suo pensiero, nei suoi fenomeni di coscienza, a brano a bra­no. Occorre che metta dentro al suo pensiero sempre più attività artistica, sempre più volontà, sempre più gioia in modo che un po’ alla volta – e questo è possibile, è il senso dell’evoluzione – quello che io chiamavo prima l’evoluzione della conoscenza, della co­scienza può immettere sempre più creatività direttamente nel suo pensiero. Così l’uomo entra nel modo di pensare dell’Io superiore che pensa non direttamente in dipendenza dal cervello, ma pensa in un modo puramente spirituale.

Allora l’essere umano capisce per esperienza propria che c’è un tipo di io umano, che ho chiamato l’Io superiore, che ancora prima di nascere decide quali materiali vuole usare, quale eredi­tarietà, ed è lui in quanto Io spirituale ad architettare, a formare il cervello a immagine del suo spirito. Però per la coscienza or­dinaria, che è una coscienza in partenza del tutto dipendente dal cervello, il cammino da fare – e quindi si tratta di un cammino da fare! – sta nel fatto di dirci onestamente che il punto di par­tenza è di una coscienza ordinaria effettivamente in tutto e per tutto dipendente dal cervello.

Se lo scienziato dicesse: no, non esiste, non è possibile rende­re il pensare sempre più indipendente dal cervello! A quel pun­to lì è non scientifico, perché un’affermazione sul non possibile non è scientifica, nessuno la può verificare. Lui può soltanto dire che non ha mai fatto questa esperienza, però non può dire che questo non è possibile neanche fra mille anni in nessun es­sere umano. Quindi, lasciamo aperte le cose, se uno ci vuol pro­vare, ci provi! E farà l’esperienza che è possibile immettere nei fenomeni di coscienza, nel pensare, sempre più attività, sempre più forza di volontà, sempre più creatività artistica, per cui io mi rendo conto che il mio pensare diventa – non di botto, ma di giorno in giorno, di mese in mese – sempre meno dipendente da ciò che avviene nel cervello. Cioè, mi accorgo che creo io nel pensare cose che non sono dipendenti soltanto dalla percezione sensibile che passa poi per il nervo ottico, il nervo sensoriale, e arriva fino al cervello. Ed è questo il senso dell’evoluzione interiore. È questo che potrebbe risparmiare all’individuo uma­no tante malattie che hanno lo scopo di evidenziargli peccati enormi di omissione, per aiutarlo a vedere e a capire quello che c’è da fare.

Se una persona arrivasse al punto che il materialismo, la di­pendenza dello spirito dal dato di materia, le trafigge il cuore, se veramente le trafigge il cuore, troverebbe la forza di dire: allora mi rimbocco le maniche! E non lo posso fare io per l’al­tro, ognuno lo deve fare per sé questo cammino, perché ognuno deve affrancare il suo pensare dal suo cervello – quindi è un cammino che può fare ognuno in proprio.

Nella misura in cui il materialismo, con tutta la sofferenza che comporta, mi trafigge il cuore, mi viene veramente la voglia – e non soltanto la voglia, lo faccio! – di lavorare a me stesso, al mio spirito, di lavorare alle forze del cuore, in modo da rendere il mio spirito sempre più indipendente dal dato biologico e ma­teriale, da renderlo sempre più puramente creatore, sempre più artistico. Allora questa artisticità, questa creatività nel pensare, che si riversa poi nelle intuizioni fantasiose dell’amore, dà gioia in assoluto, e convince in assoluto sul senso positivo dell’esi­stenza e dell’evoluzione.

La gioia è convincente, perché la gioia è la pienezza dell’es­sere. Nella misura in cui l’essere umano fa l’esperienza della pienezza del suo essere, sa che quello è il senso dell’evoluzione: vivere sempre di più in pienezza, perché la pienezza dà gioia e trasfonde gioia attorno a sé. E questo vorrebbe dire allora che anima e corpo si alleano fra di loro, e la gioia del cammino è lo strumento del cammino per fare evolvere sempre di più lo spirito umano.

Contenuti del Cd audio allegato:

Conferenza 1 – Nascita e famiglia.

Il bagaglio del cammino già percorso

Conferenza 2 – Scuola e gioventù.

Imparare ad inventare

Conferenza 3 – Incontri e scontri.

Di coppia, di lavoro, di società multirazziale

Conferenza 4 – Salute e malattie, gioie e dolori.

Tutte occasioni da non perdere

Conferenza 5 – Morte e rinascita.

Come costruire giorno dopo giorno il lieto fine

Il grande gioco della vita (Pietro Archiati) - quarta di copertina