IL PENSARE - una creazione dal nulla (Pietro Archiati) - Commento a LA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ vol. 3 - copertina fronte

Pietro Archiati

IL PENSARE

Una creazione dal nulla

Commento a LA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ di Rudolf Steiner

Volume III - dal Cap. III, par. 15 al Cap. IV, par. 6
Seminario tenuto a Rocca di Papa (Roma) dal dal 14 al 17 febbraio 2008

Redazione di Stefania Carosi non rivista dall’autore

Indice

Note introduttive

Giovedì 14 febbraio 2008, sera

Venerdì 15 febbraio 2008, mattina

Venerdì 15 febbraio 2008, pomeriggio

Venerdì 15 febbraio 2008, sera

Sabato 16 febbraio 2008, mattina

Sabato 16 febbraio 2008, pomeriggio

Sabato 16 febbraio 2008, sera

Domenica 17 febbraio 2008, mattina

Appendice

A proposito di Pietro Archiati

Note introduttive

Il testo La filosofia della libertà di Rudolf Steiner su cui Pietro Archiati svolge il suo seminario è quello tradotto in italiano da Dante Vigevani per l’Editrice Antroposofica – Milano 1966.

Le parti riportate in neretto si riferiscono al testo di Rudolf Steiner. Ogni corsivo in neretto è di Rudolf Steiner.

Può capitare che Pietro Archiati rilegga più volte uno stesso brano: in quel caso non viene di nuovo segnalato in neretto, ma tra virgolette.

I commenti di Pietro Archiati durante la lettura, se brevi, e le sue indicazioni di diversa traduzione sono riportati fra parentesi graffe.

Per facilitare la consultazione del testo, che i lettori potrebbero avere in altre edizioni e traduzioni, gli inizi di paragrafo sono stati numerati e visualizzati con rientro di capoverso, accompagnati sempre dal capitolo in numeri romani – es. III,15 ecc.

Gli stessi numeri sono riportati in parentesi, senza rientro, quando indicano la ripresa della lettura dello stesso paragrafo, sospesa dal commento del relatore.

Giovedì 14 febbraio 2008, sera

Benvenuti a tutti quanti, auguro una buona serata!

Riprendiamo il discorso da dove l’abbiamo lasciato l’ultima volta, e iniziamo con un piccolo avvio per rimetterci nel contesto. Ci sono nell’umanità di oggi due modi fondamentali di interpretare l’umano e ogni fenomeno:

1. un modo è quello di mettere l’accento su ciò che è costante, e non credo che siate contrari al fatto che ci sia qualcosa di costante;

2. un secondo modo fondamentale di pensare mette l’accento su ciò che è in cambiamento, in cangiamento, e mette l’accento su quel che si evolve, che cambia – è il concetto di evoluzione, di progresso, se volete.

Quello del progresso è però un brutto dogma, perché il concetto di progresso presuppone spesso alla base, senza che neanche ce ne accorgiamo, il dogma fondamentale che l’evoluzione deve essere per forza in positivo, perché di progresso si può parlare soltanto se si fa l’ipotesi di fondo che l’evoluzione va sempre in avanti.

Se invece si lascia aperto che, per esempio, in base alla libertà umana ci deve essere la possibilità sia di andare avanti sia di andare indietro, allora non si parla di progresso, ma si parla semplicemente di evoluzione. Evoluzione significa che le cose sono in cambiamento.

Il concetto di progresso è il dogma fondamentale della cultura laica, così come il concetto di creazione è stato il dogma fondamentale della cultura clericale.

Che cosa c’è di male in questi due modi di considerare il mondo?

Niente di male, c’è soltanto il fatto che sono tutti e due un po’ unilaterali, perché a ognuno manca l’altro.

Quindi diciamo che c’è un terzo modo di considerare il mondo, di considerare l’essere umano, di considerare gli eventi – e dicendo queste cose esprimo pensieri, faccio un minimo di esercizio di pensiero, perché è del pensiero che stiamo parlando.

3. Se è vero che si può mettere l’accento su ciò che è immutabile o su ciò che è mutabile, c’è un terzo modo di considerare la realtà ed è quello di vederli nella loro interazione. Cioè l’essenza dell’evoluzione, l’essenza dello scorrere del tempo, è nell’interazione tra ciò che resta uguale a se stesso e ciò che diventa sempre diverso.

1 2

ciò che è costante ciò che è in cambiamento

immutabile mutabile, in evoluzione

3

interazione fra immutabile e mutabile

L’essere umano è una realtà costante o una realtà sempre diversa? Tutti e due! Perché se diventasse una realtà sempre diversa, sparirebbe l’uomo di partenza, e se restasse sempre e solo uguale, non ci sarebbe evoluzione.

Il bambino di due anni a vent’anni è lo stesso essere umano o no?

Sì e no, e il sì e no rende le cose complesse. Dire di sì o di no è più facile, invece, quando li ho tutti e due, è più complesso.

La realtà è facile o è complessa? Lo dico in toscano: è facile per gli imbecilli ed è complessa per le persone un po’ più intelligenti.

Ho detto che lo dicevo in toscano, perché il concetto toscano di «imbecille» è più vicino alla sua origine latina: in-baculus, senza bastone. Imbecille è uno che non ha il bastone, quindi vacilla, senza appoggio.

Se ci accordiamo sul fatto che la realtà è complessa, la domanda successiva è: c’è un senso positivo della complessità?

Il senso positivo della complessità è il godimento.

I colori fondamentali sono solo sette, le note fondamentali sono solo sette: le combinazioni possibili sono semplici o complesse? Complessissime! E qual è il senso di questa complessità? Il godimento della musica, il godimento della pittura.

Lo spirito gode la complessità e non la penuria, la povertà.

Adesso rifaccio questi tre passi in chiave di evoluzione, e andiamo indietro a una umanità più antica di tremila, quattromila anni – eravamo noi, per chi ha fatto sua la prospettiva delle ripetute vite terrene, noi di tremila, quattromila anni più giovani, più bambini di quello che siamo adesso. Diventare più vecchi non significa per forza progredire, lo dicevo prima, si è solo più vecchi, c’è evoluzione.

Se andiamo indietro di millenni troviamo un modo di pensare – vedi Parmenide, vedi il Budda, vedi tutta la sapienza dei Veda, dei Vedanta, dei santi Rishi dell’India – che guardava e metteva in primo piano ciò che è costante, l’eterno.

Cos’è che è massimamente costante? Ditemi voi una realtà fondamentale dove la costanza è in primo piano. E poi ditemi una realtà fondamentale dove in primo piano si pone il cambiamento, l’evoluzione, il sempre diverso. Basta scrivere:

spirito materia

continuità cambiamento

Il mondo della materia, il mondo percepibile è per antonomasia, per eccellenza, quello del cambiamento. È sempre diverso. Di notte c’è buio, poi basta che passino un paio d’ore, ecco il sole, la luce, cambia tutto! Una pera bella matura, che uno se la gode, aspetti tre giorni… diamine che cambiamento! Da buttar via! Una giovane fanciulla avvenente, aspetti un paio di decenni… diamine che cambiamento!

Io naturalmente mi rivolgo al vostro pensatoio e, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, ognuno di voi si riserva di prendere posizione nei confronti dei miei pensieri, con la propria testa. Non serve che io tiri fuori oracoli: basta che io vi metta una pulce nell’orecchio cerebrale, in modo che si attivi qualcosa da parte vostra, e poi andiamo bene.

Allora, c’è stata una umanità primordiale che era talmente ancorata nella realtà dello spirito che viveva in primo piano ciò che è costante, eterno, immutabile, ciò che rimane uguale a se stesso.

Il senso, la direzione dell’evoluzione sono stati un inserimento sempre più profondo nell’elemento della materia, per cui adesso abbiamo una seconda grande fase dell’evoluzione dove in primo piano è posta la materia, e in secondo piano lo spirito – talmente in secondo piano che tanti benpensanti di oggi, dicono: lo spirito?, ma che roba è? Ah, è l’alcol! In inglese, in americano, quando uno dice spirit pensano all’alcol oppure aria fritta, nebbia in Val Padana. E ormai abbiamo America dappertutto. Mi hanno detto oggi, in aereo, che il discorso vale anche per l’Italia, non so se è vero, lascio a voi la questione…

Questo sentirsi sempre di più a casa propria nel mondo della materia lo chiamiamo materialismo – niente di male eh?, mica sto dicendo che l’uno è meglio dell’altro. Sono due fasi.

Nella prima fase l’essere umano era come un pensiero nel grembo dello spirito divino. Poi il cosiddetto peccato originale, la caduta, è stato il piombare sempre di più nella materia: c’è stato il taglio ombelicale dell’umanità.

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Fig. 1

Era ora!, se no non saremmo mai diventati esseri autonomi. La materia è l’elemento cosmico, l’elemento universale dell’individualizzazione.

Soltanto in quanto ognuno di noi è congiunto, inabita, attiva un pezzo di materia che è separato dal pezzo di materia dell’altro, fa l’esperienza dell’autonomia, della libertà individuale. Tutto questo è dovuto al congiungimento con la materia. Però nel rapporto tra spirito e materia ciò significa che, per l’umanità di oggi, il cosiddetto spirito viene vissuto molto meno direttamente che non la realtà della materia.

Lo scienziato, il neurobiologo ci dice: caro essere umano, esperimenti su esperimenti ci dicono che tutto ciò che avviene nella coscienza, tutti i fenomeni di coscienza, sono indotti, sono, psicologicamente parlando, effetto, risultato di ciò che avviene nel cervello. La realtà originante è ciò che avviene nel cervello.

Arriva l’antroposofo DOC e dice: no! no! no! non è così, è l’opposto. Lo spirito, la coscienza, determina ciò che avviene nel cervello. E lo scienziato dice: ma tu, gli esseri umani te li sei guardati o no?

La tentazione dello scienziato spirituale è di fare un’affermazione che valeva per l’essere umano quando lo spirito era congiunto col divino: lo spirito umano congiunto col divino lavorava nel mondo della materia ed era causante. Ma, entrando sempre di più nel mondo della materia, lo spirito ha perso questa forza causante, e per lo stato attuale dell’interazione tra spirito (coscienza) e materia (il cervello è un pezzo di materia), per l’uomo comune d’oggi, l’affermazione dello scienziato è vera: nella coscienza avvengono molte più cose come risultato di ciò che avviene nel cervello che non viceversa. È questo lo stato attuale dell’umanità.

Lo scientista diventa dogmatico quando di questa realtà fenomenologica, di questa descrizione sperimentale, fa una teoria e decreta che è sempre stata valida e sempre lo sarà.

Invece di attenersi a descrivere ciò che percepisce, ciò che rileva coi suoi esperimenti di oggi, fa illazioni di puro pensiero, che non hanno più il sostrato legittimante della percezione, fa illazioni sul modo di interagire tra coscienza e cervello e dice: diecimila anni fa doveva essere così come è oggi e così sarà fra diecimila anni.

Pensieri che ci siamo già detti diverse volte e che vanno sempre e di nuovo esercitati.

Ripeto: c’è un tipo di pensiero, quello della teologia, della religione, che privilegia la realtà dello spirito, c’è un tipo di pensiero, quello specifico di oggi, che privilegia il mondo della materia in continuo cambiamento, e c’è un modo di pensare specifico della scienza dello spirito di Steiner, un nuovo registro nell’evoluzione dell’umanità, per cui il senso dell’evoluzione è l’interazione tra spirito e materia.

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Fig. 2

Questa interazione tra spirito e materia è in evoluzione: era di un tipo all’inizio, di un secondo tipo nella fase mediana dell’evoluzione, e c’è poi un terzo tipo fondamentale, che è una prospettiva di evoluzione futura.

Io non voglio apoditticamente dimostrare la terza fase, il terzo stadio di questa interazione tra spirito e materia: lo faccio per via propositiva, per via di innamoramento, lo faccio dicendo che non sarebbe mica male se fosse così. E se l’uomo riesce a dirsi: sarebbe una gran bella cosa se la direzione del futuro fosse così, allora si rimbocca le maniche e ci prova!

Perché sono così cauto rispetto a questa terza fase?

Perché il fatto di essersi inseriti sempre di più nella materia, il fatto che ogni essere umano ha acquisito la sua autonomia, ha fatto sorgere in questa enorme evoluzione un fattore evolutivo di incalcolabile importanza: la libertà.

Autonomia dell’individuo e libertà significa: a partire da ora l’evoluzione può andare in una direzione e può andare in un’altra.

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Fig. 3

3 stadi di interazione fra spirito e materia

E sta a te scegliere. Ogni essere umano sceglie giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, anche se non se ne accorge. La libertà non è mai neutrale, non è mai neutra.

Allora, con la cautela per cercare di non essere dogmatico, dico: mah, se c’è questa terza possibilità in positivo, nel momento in cui la descrivi il cuore dice bello! sì! ci provo! E la libertà è possibile soltanto se io il proponibile lo posso anche omettere.

Nella libertà non ci sono «peccati» di commissione, ci sono solo peccati di omissione: «Avevo fame e non mi hai dato da mangiare, avevo sete e non mi hai dato da bere…»[1]. Nel giudizio universale del Logos, dello Spirito solare, non c’è neanche un minimo peccatuccio di qualcosa fatto male. Nulla, soltanto omissioni.

E quelli restano così meravigliati che dicono: ma quando? ma quando? ma quando è successo questo? Eh, eh!, non è successo, quello è il problema! Nella libertà l’unico male morale possibile è di omettere il bene, perché finché si fa qualcosa si può imparare da quello che si fa ed è tutto a posto. Ma quando io ometto un bene possibile, è una gran brutta cosa: vuoto, vuoto, vuoto… creo vuoti.

Allora, come all’inizio lo spirito umano era inserito nello spirito divino e questo spirito divino aveva una onnipotenza nei confronti del mondo della materia; come la seconda fase è lo spirito umano piombato nella materia, diventato quasi del tutto impotente nei confronti dei processi della materia tanto che nella coscienza ordinaria ci sono quasi solo riflessi dovuti a ciò che avviene nel cervello; così la terza fase sarà quella di ridare allo spirito, che però adesso è diventato spirito umano individualizzato e libero, sempre più forza.

Lo spirito umano è oltre la coscienza, perché la coscienza è fatta solo di riflessi. Questo spirito, prima della nascita, struttura, crea, architetta in tutto e per tutto il cervello a immagine di sé. Poi, nel corso della vita, il cervello, come uno specchio, fa nascere nella coscienza la coscienza di sé come spirito creatore. (Fig. 4)

Nella coscienza c’è la coscienza di sé come spirito creatore: quindi la coscienza è il riflesso dello spirito, non la realtà creante dello spirito. La coscienza riflessa della realtà creante dello spirito è stata da sempre chiamata anima, classicamente. Anima.

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Fig. 4

Lo spirito crea, lo spirito per natura architetta, struttura, forgia il mondo della materia. Nell’ambito dell’anima, nella coscienza, sorge un riflesso, un prendere coscienza di sé come spirito creatore nell’elemento della materia.

Questo è il terzo tipo di interazione tra spirito umano e materia, tutto da conquistare come proposta evolutiva, complessiva della libertà.

Qual è l’elemento portante di tutto quello che vi ho detto? Il pensare.

Di che cosa è fatto lo spirito? Di pensiero. L’essenza dello spirito è il pensare creatore.

Voi direte: ma allora lo spirito non ama? Dov’è l’amore, allora? Ditemi voi, in un artista – e tutti siamo artisti, perlomeno potenzialmente – che ha l’intuizione di un quadro, di una melodia, di una poesia, di un modo di riconciliarsi con l’altro dopo un litigio, in questo artista che architetta una creazione d’arte, una creazione nei rapporti, c’è soltanto lo spirito in quanto pensiero astratto, sobrio, freddo, razionale? No! Nello spirito in quanto pensiero creante c’è la forma suprema del calore dell’amore, al contempo.

Quindi l’essenza dello spirito è pensiero creante e amore pensante, pensiero amante e amore pensante. Amore che si illumina di saggezza e saggezza che si riscalda di entusiasmo d’amore.

Tanto è vero che – adesso ci rituffiamo nel testo, al terzo capitolo – Steiner cita l’inizio della Bibbia, la Genesi, l’inizio della creazione: il Creatore ha creato tutte le cose, da ultimo l’uomo, anzi da ultimissimo la donna, e soltanto dopo aver creato vide che tutto era bello e buono[2]. L’ebraico ·b/f tov significa bello e buono. Anche in greco la categoria del bello e del buono è la stessa: kalÕj kagaqÒj (kalòs kagathòs). Ciò che il pensiero, ciò che lo spirito pensante crea, è bello e buono e non si può che amare, non può che essere amato.

Riassumo dicendo: è dogmatico il pensare che sottolinea ciò che è costante, è dogmatico il pensare che sottolinea ciò che è in evoluzione, è meno dogmatico un tipo di pensiero che dice: l’essenza dell’evoluzione è l’evoluzione dell’interazione tra spirito e materia – «spirito» inteso maggiormente come mondo di costanza, «materia» maggiormente come mondo di variabilità.

Qual è il vantaggio di dire: spirito e materia sono in interazione fra loro? È che abbiamo due elementi costanti, per lo meno per parecchi millenni, che sono lo spirito e la materia, e abbiamo un elemento di continuo cambiamento che è il loro modo di rapportarsi uno all’altro.

Quindi il modo di interagire fra spirito e materia è in continuo cambiamento, però queste due realtà, questi due mondi, sono costanti, altrimenti non ci sarebbe nulla che si evolve.

Cos’è la materia? L’inesauribilità dell’autoespressione dello spirito.

Il mondo della materia è la prova che lo spirito è inesauribile nel suo modo di esprimersi. Però, questa inesauribilità dell’interiorità dello spirito che si esprime, noi non potremmo percepirla senza il mondo della materia – noi esseri umani, intendo: gli Angeli forse non hanno bisogno del mondo della materia per percepire, per vivere l’inesauribilità dello spirito.

Lo spirito umano è uno spirito incarnato, cioè vive l’inesauribilità dello spirito solo nella materia, evidenziato nella materia.

Allora, l’ultima volta avevamo affrontato il terzo capitolo, un capitolo importantissimo, fondamentale, perché, insieme col quinto, costituisce un’analisi sperimentale, fenomenologica basilare, una fenomenologia del pensare. Eravamo arrivati fino al capoverso 14. Vi riassumo per sommi capi due o tre affermazioni fondamentali che sono state fatte fino a questo punto.

Un primo pensiero era che la polarità originaria non è quella di io e mondo, non è quella di soggettivo e oggettivo, non è quella di fenomeno e noumeno, come diceva Kant, perché tutte queste categorie presuppongono un’altra realtà – che però non viene osservata perché viene esercitata – e cioè il processo di pensiero sull’io e sul mondo, il processo di pensiero sul soggettivo e sull’oggettivo, il processo di pensiero sul fenomeno e il noumeno…

In altre parole, tutte le altre categorie di polarità sono secondarie rispetto alla categoria primaria che è: da un lato il pensare e dall’altro tutto il resto.

Perché col pensare noi pensiamo su tutto ciò che esiste.

III,4 «I filosofi sono partiti da varie polarità {antitesi} originarie: idea e realtà, soggetto e oggetto, fenomeno e cosa in sé, io e non io, idea e volontà, concetto e materia, energia e materia, cosciente e incosciente» e disattendono il pensare che pensa sopra queste polarità.

Se si fa un passo ancora più indietro si dice: ah! la polarità originaria è il pensare, da una parte, e tutto il resto su cui si pensa, dall’altra.

E quindi si viene portati alla primissima domanda sul pensare: cos’è il pensare?

Cosa faccio io quando penso? Cosa avviene mentre penso?

Quella è l’origine! Ci potrebbe essere qualcosa ancora più indietro del pensare? Eh, lo potrei soltanto sapere pensandoci sopra!

In altre parole, il pensare è quell’elemento dal quale non si può uscire, e allora da lì devi partire. Perché se tu potessi uscirne allora saresti in un altro elemento e ti porresti di fronte al pensare. Non ci si può mai porre di fronte al pensare.

Però esiste il pensare sul pensare: una bella buggeratura, io posso pensare sul pensare.

Esco dal pensare quando penso sul pensare? No, poiché penso sul pensare, resto nello stesso elemento.

Allora diciamo che io posso pensare soltanto sul pensare che ho già pensato, e il pensare che ho già pensato è morto e seppellito.

C’è una differenza tra il pensare che ho esercitato cinque secondi fa, e il pensare che sto esercitando adesso?

È lo stesso pensare, ma è tutto diverso! Perché del pensare che ho pensato cinque secondi fa non posso cambiare più nulla, del pensare che sto esercitando adesso posso cambiare tutto, perché non c’è ancora. Voi però non mi acchiappate il pensare di un secondo fa eh!? non barate! Pensate al mio pensare in questo momento, quello che sta avvenendo in questo momento: ve lo dovete sentire, mi dispiace, non so neanch’io cosa salta fuori.

Il pensare è attività pura, originaria, e questa è la definizione dello spirito. Spirito è attività pensante pura, originaria, e quindi originante, origina tutto ciò che pensa.

Cos’è il mondo? La pensata dello spirito creatore.

Se poi voi pensate che sia stata una bella pensata o una cattiva pensata, affari vostri, però che altro è il mondo? Come potrebbe essere lì se nessuno l’avesse mai pensato? Come esisterebbe un orologio se nessuno l’avesse mai pensato?

Se tu dici: mah, questa pensata dello spirito creatore divino non mi piace più di tanto – niente di male, fai tu una pensata migliore. Provaci! Addirittura ti ha dato la cosa più alta che c’è: lo spirito creatore. Usalo!

Qual è la pensata più alta, più grande, più artistica del creatore divino?

Ci sono due tipi di pensate: una la chiamiamo natura, leggi che non perdono colpi; poi il creatore ha fatto, mi pare di aver capito, una seconda pensata: ha pensato uno spirito incarnato libero, dove la natura non ha nulla a che cercare.

In altre parole, lo spirito divino ha fatto due pensate fondamentali: una pensata è la natura, l’altra è la libertà.

Che significa libertà? Che tipo di pensata è? Aristotele direbbe: a te, spirito umano, do la potenzialità di diventare sempre di più tu stesso spirito creatore, sempre più divino, sempre più creatore. Però se lo vuoi, perché sei libero, non sei costretto. L’animale, la pianta, la pietra sono costretti per natura a essere come sono; tu, spirito umano, sei libero, fai quello che ti pare.

Cosa vuol dire essere liberi? Creare, creare, creare a ruota libera!

Tutto il dato di natura, tutte le leggi di natura si fanno strumento, conditio sine qua non, ma non decidono nulla di ciò che avviene nella libertà. Nella libertà lo spirito umano diventa creatore. Nessun dato di natura potrà dirci come sarà fatta la Nona sinfonia di Beethoven.

Un altro pensiero fondamentale è che il pensare è prodotto da me, il mio pensare è la mia creazione: se uno è poverello nel suo pensare crea da poverello, se uno è più ricco nel suo pensare crea maggiormente da ricco.

Però ognuno nel suo pensare è creatore, è la sua attività. Il pensare di cui noi stiamo parlando è l’attività propria, originaria dell’uomo. L’uomo è uno spirito pensante incarnato.

Io sto esprimendo dei pensieri e voi pensate, ognuno a modo suo, su ciò che sto dicendo: da dove vengono i pensieri che ognuno di noi pensa? Li produce lui.

Non il cervello, eh? Se fosse il cervello a produrre i nostri pensieri dovremmo sperimentalmente percepire i nostri pensieri come necessitati da leggi di natura; invece, se noi siamo sinceri nell’introspezione, nel guardarci mentre pensiamo, ci accorgiamo di gestire il processo di pensiero al di là del determinismo della natura.

Nel processo di pensiero non esiste determinismo, e se esiste è perché io abdico, è perché io ometto la creatività possibile che è immanente nel pensiero e allora ricado nei meccanismi di natura, che si evincono da ciò che il cervello produce nella coscienza.

Quando in un essere umano c’è soltanto ciò che il cervello produce nella coscienza, vuol dire che quell’essere umano omette di creare l’elemento che travalica, che va al di là di ogni determinismo di natura.

Un esempio qualsiasi: A e B hanno un rapporto fra di loro. A sta pensando: eh!, però B negli ultimi tempi si è occupato molto poco di me... Quindi A sta facendo pensieri di rimprovero a B che si è occupato troppo poco di A.

Sta di fatto che B ha un altro rapporto con la persona C, che negli ultimi tempi è stata talmente ammalata che B le ha dedicato un sacco di tempo e di pensieri.

Per una mezz’ora, per due ore, A ha soltanto fatto rimproveri a B ma adesso, all’improvviso, A si dice: però B, in effetti, negli ultimi tempi ha dovuto dedicarsi parecchio a C, e questo mi spiega il perché del suo trascurarmi: non per malavoglia, non perché l’amicizia si è raffreddata.

Adesso pongo la domanda: il fatto che A prima pensava pensieri di rimprovero verso B, e che adesso A pensa al rapporto tra B e C, questo cambio di registro nel pensiero è stato prodotto dal cervello?

Interventi: No. No.

Archiati: Vedete che è assurda l’ipotesi? È A che nel suo pensiero ha cominciato a pensare questi altri pensieri.

Intervento: Hai detto una cosa importante, adesso: che esistono dei pensieri prodotti dal cervello quando l’essere umano rinuncia alla sua creatività. E io mi chiedo: ma quali possono essere i pensieri prodotti dal cervello? Il cervello non può produrre dei pensieri, una pietra non può pensare, come fa? Forse lascio spazio a qualcuno che pensa al posto mio, ma non può essere che il cervello produce.

Archiati: Allora, ripetiamo l’esperimento complessificandolo un pochino, cioè svolgendolo in tutte e due le direzioni: nella direzione della libertà del pensiero, e nella direzione del determinismo del cervello. Naturalmente non è l’unico modo di farlo, lo semplifico un pochino, aggiungendo che le scienze naturali dovranno fare ancora un po’ di passi per inserire, per inglobare questa maggiore complessità.

• A sta pensando a B, sta pensando al loro rapporto che negli ultimi tempi è diventato più freddo: meno tempo dedicato da B a A, ecc. Ora noi parliamo di una sperimentalità dell’introspezione e supponiamo che A, appunto per introspezione, dica: voglio vedere come vanno le cose se io adesso decido di lasciar perdere un momentino quello che c’è soltanto tra me e B, e cerco di capire questo raffreddamento guardando al rapporto che B ha con C. Stando così le cose, A ha la percezione introspettiva di fare un passaggio libero dal tipo di considerazione rivolto solo a ciò che intercorre tra se stesso e B, a un tipo di riflessione rivolto a ciò che intercorre tra B e C.

• È un tipo di riflessione ben diverso da quello che segue al fatto che, magari dopo tre, quattro, cinque giorni che A fa una solfa a B – e mi stai trascurando, e perché non ti fai vedere, e, insomma!, non hai più tempo, non hai più voglia di stare con me ecc. –, B risponda bombardando a sua volta A: ma come?, ma non hai visto che C sta male… ecc. La percezione delle parole di spiegazione che dice B presuppongono l’operare del cervello fisico di A, proprio perché sono percezioni.

Quindi il rivolgersi al rapporto tra B e C, da parte di A, nel primo caso non avveniva per il tramite della percezione, che è connessa col cervello, mentre nel secondo caso avviene direttamente attraverso il tramite della percezione, che presuppone di necessità il cervello.

Ecco, ho riassunto all’osso le riflessioni sui due modi fondamentali della libertà, che possiamo cogliere se facciamo un lavoro pulito di introspezione: uno è quello che fa liberamente, senza la cogenza del dato di percezione del cervello, l’altro omette questo elemento puramente creatore e allora resta, subentra, ciò che c’è sempre, cioè il supporto della percezione. Percezione significa sempre interazione col cervello: attraverso i nervi sensori si va al cervello.

L’affermazione fondamentale di Steiner è: una persona che si esercita a un tipo di introspezione sempre più attenta, coglie questi due modi fondamentali del pensare. Un modo che è per natura passivo, perché si basa sulla percezione e quindi su ciò che avviene nel cervello, e l’altro modo, che l’essere umano può coltivare e rafforzare sempre di più, che non è dipendente dalla percezione sensoria e dal cervello.

Ripeto la considerazione che ho fatto all’inizio. Se A, senza che B si faccia sentire e gli parli del suo rapporto con C, di sua spontanea intuizione dice: un momento, adesso io voglio considerare il rapporto tra B e C e vedere se questo rapporto mi spiega meglio perché, negli ultimi tempi, c’è stata molta meno interazione tra B e me, se così è, A fa l’esperienza onesta del fatto che il suo pensare è essenzialmente meno dipendente dalla percezione e dal cervello fisico che non nell’altro caso. È chiaro che non stiamo parlando di realtà assolute – o 100% o 0%, –, ma stiamo parlando di fattori in evoluzione dove la prospettiva evolutiva è di rendere il pensare sempre più indipendente dal cervello.

Intervento: Per cui non è il cervello che produce il pensiero, ma più esattamente è un tipo di pensare che è dipendente dall’utilizzo dello strumento cervello.

Intervento: Per la percezione occorre il cervello.

Archiati: Si evidenzierà questo sempre meglio col terzo, quarto e quinto capitolo. Per il tipo di interazione tra coscienza e pensiero, dove il cervello è maggiormente implicato, parliamo di rappresentazioni e le rappresentazioni sono copie della percezione.

Quindi una rappresentazione è un automatismo cervellotico della percezione. La percezione passa per il nervo sensorio e per il cervello, e si trasforma in rappresentazione: però la rappresentazione dell’albero o del leone è tale e quale la percezione, è una copia. Questo è il carattere di passività, il carattere di dipendenza dall’elemento della natura.

Invece (naturalmente stiamo semplificando) il fenomeno originario di ciò che il pensiero produce indipendentemente dal cervello è il concetto. Un concetto puro è un frammento di creazione dello spirito pensante senza la partecipazione del cervello, perché se è con la partecipazione del cervello c’è subito un elemento di rappresentazione.

La rappresentazione è un’immagine, il concetto è spirito puro.

Abbiamo già fatto alcuni esercizi di concetti puri, e ne faremo altri, vanno fatti perché è lì che lo spirito va avanti. La rappresentazione è ciò che salta fuori dalla percezione: la percezione entra attraverso il nervo sensorio, il nervo ottico, va al cervello e viene trasformata nell’anima, nell’interiorità, in rappresentazione.

Tutto il sesto capitolo sarà dedicato al fenomeno rappresentazione.

Abbiamo detto che il pensare sul quale pensiamo deve prima essere stato prodotto, e che il pensare che pensa è un esercizio puro, mai oggettivabile perché è una pura creazione. Abbiamo poi aggiunto che il pensare è l’elemento inosservato che accompagna ogni mia osservazione: nel pensare ho l’attività originaria di me stesso in quanto spirito.

Il pensare è la mia attività originaria in quanto spirito, più indietro non si può andare, se non pensando. Non si va più indietro.

L’essere umano pensante disattende, di solito, il suo pensare perché è concentrato su ciò su cui pensa, e quindi questo ci aveva portato al capoverso 15:

III,15. Due cose non sono conciliabili: una produzione attiva e una contrapposizione riflessiva. Questo appare già nel primo libro di Mosè: Nei primi sei giorni della creazione Dio fa sorgere il mondo, e soltanto quando questo esiste vi è la possibilità di contemplarlo: «E Dio guardò tutto quello che aveva fatto: ed ecco era molto buono». Così accade anche col nostro pensare. Deve prima esistere se noi vogliamo osservarlo.

Vorrei richiamare la vostra attenzione sull’inizio di questo paragrafo: «Due cose non sono conciliabili»; il tedesco dice: due cose sono inconciliabili. C’è una differenza tra dire che due cose non sono conciliabili e dire che due cose sono inconciliabili?

Intervento: La seconda è più forte.

Archiati: Perché è più forte?

Replica: Perché indica che non diventeranno mai conciliabili.

Archiati: Esatto. Se due cose non sono conciliabili, possono non esserlo adesso, ma può darsi che più tardi lo diventeranno. Se invece sono inconciliabili, lo sono per natura.

E quali sono le due cose – e sono soltanto queste due – inconciliabili per natura? Quali sono?

Di nuovo la traduzione italiana ha ammollito un pochino, ha tradotto come sostantivi quelli che in tedesco sono verbi, cioè attività: «una produzione attiva e una contrapposizione riflessiva».

Il tedesco dice che due realtà, due cose sono inconciliabili, e la prima di queste è il produrre attivo – non una produzione: una produzione è un prodotto non è il produrre, non è l’attività pura del produrre, non è un creare!

Dovete perdonarmi, ma io mi sono pigliato una formazione aristotelico-tomistica, e se avessimo fatto sbagli di questo tipo al secondo semestre, o magari al primo, non saremmo andati avanti, non ci avrebbero permesso di andare avanti. E qui, dove Steiner dice «il produrre attivo», traduce «la produzione»: la produzione sta al produrre come il creato sta al creare!

Ci rendiamo conto che per tradurre questo tipo di testi di Steiner, testi fondamentali della scienza dello spirito, non basta saper bene il tedesco e l’italiano, bisogna capire le cose, i pensieri, anche nella loro precisione, altrimenti si va a spanne.

La seconda cosa inconciliabile con la prima è il contrapporre contemplativo, osservante. Ma poi, perché contrapporre? In tedesco beschauliches Gegenüberstellen non è un contrapporre. C’è una parola più bella in italiano, che ne dice il senso molto più precisamente: è il fronteggiare che osserva, il produrre attivo e il fronteggiare. Quindi non si tratta di qualcosa che mi si contrappone, ma di qualcosa che mi sta di fronte, che io osservo, contemplo, guardo, percepisco.

Due realtà sono inconciliabili: il produrre attivo e il fronteggiare osservante. O è l’uno o è l’altro, non può essere contemporaneamente la stessa cosa. O è qualcosa che produco io o è qualcosa che trovo, mi fronteggia, è già presente, già fatto, già creato, e perciò lo osservo, lo descrivo, lo percepisco, lo racconto ecc…

L’unica cosa che l’essere umano crea attivamente, che produce lui con la sua attività, è il pensare. Tutto il resto lo fronteggia, gli sta davanti.

Contrapposizione, o contrapporre, sono troppo moraleggianti perché presuppongono una inimicizia, una specie di antagonismo. No, non c’è bisogno di questi moraleggiamenti: è il fatto che mi sta di fronte, mi fronteggia.

Intervento: È su questa affermazione che Steiner dice che non esistono i nervi motori, è sulla base di questo che tu hai detto – o l’uno o l’altro – che Steiner afferma che l’attività motoria non è mediata dai nervi?

Archiati: Avremmo bisogno di almeno quattro o cinque ore per entrare nel merito di questa cosa così complessa. Ma sta’ attento, il discorso dei nervi che muovono gli arti è lo stesso discorso che ti dice: sono le sinapsi del cervello, sono i nodi cerebrali del cervello, sono i geni del cervello, chiamali come vuoi, che producono i contenuti di coscienza. Lo stesso scienziato ti dice: qui negli arti sono una certa realtà nel nervo che ti muove il piede. E tu che gli dici?

Intervento: Che non è vero.

Archiati: Piano, vai piano, quello che risponde così è l’antroposofo DOC. Guarda gli esseri umani come sono realmente: sono al 98% robot. Sono mossi, ma non si muovono! Sono mossi dalle percezioni, però le percezioni precipitano sul sistema nervoso: se io non immetto l’elemento di libertà e decido io cosa voglio e come mi muovo, sono le percezioni a muovermi.

Se tu dici che non c’è, che non esiste la possibilità che siano le percezioni a muovermi, allora dici che non c’è libertà. C’è libertà soltanto se tutte e due le cose sono possibili: se è possibile sia che mi muovano le percezioni – certo, tu dici non al 100%, diciamo pure al 98% – e quindi per via dei nervi, sia che sia io a rendere il mio spirito sempre più forte per cui sono io a comandare ai nervi come muoversi, come muovere i piedi.

Però tutte e due le cose sono possibili, se no non ci sarebbe libertà.

Lo scienziato naturale tende ad essere dogmatico da una parte, e lo scienziato incipiente, apprendista spirituale, tende ad essere dogmatico dall’altra parte. E Steiner ti dice: un momento, lasciamo via i dogmi, guardiamo la realtà. E la realtà dell’uomo normale, oggi, è che sono molto di più i nervi, il suo sistema nervoso, a decidere come si muove che non il suo spirito. Dove ce l’ha lo spirito?

Quando una mosca ti cade sulla pelata (visto che ce l’abbiamo in comune), sei tu a decidere che adesso metti in moto i tuoi nervi per togliere la mosca? Chiedi a Pavlov tutti i moti riflessi. Quindi l’affermazione fondamentale della libertà è che se l’essere umano è libero, deve avere la possibilità di viversi in una direzione, in un senso, e viversi in un altro senso.

III,16. La ragione {il motivo} che ci rende impossibile l’osservare il nostro pensare nel suo svolgimento attuale di ogni momento è la stessa che ce lo fa riconoscere come più immediato e intimo di ogni altro processo nel mondo.

Ciò che noi produciamo, ciò che noi creiamo non lo possiamo al contempo osservare perché non è stato ancora creato, non è stato ancora prodotto; è osservabile solo il pensato, è osservabile solo il prodotto, non è osservabile direttamente il pensare attuale, il produrre in azione. È osservabile il pensare che ha già pensato, il produrre che ha già prodotto: quindi è osservabile non soltanto il prodotto, ma anche il produrre che ha già prodotto – ma deve aver già prodotto.

Il pensare attuale non lo si può osservare perché lo si può solo creare. Osservare si può solo ciò che già c’è, ma il pensare attuale è in fieri, non è ancora identificabile in una percezione.

(III,16) Appunto perché lo produciamo noi stessi, conosciamo ciò che è caratteristico del suo svolgimento e il modo in cui arriva a compimento. Ciò che negli altri campi dell’osservazione può essere scoperto solo per via indiretta {cioè col pensare}, cioè il nesso causale e il mutuo rapporto dei singoli oggetti, per il pensare noi lo sappiamo in modo del tutto immediato.

Gli occhiali hanno qualcosa a che fare con gli occhi?

Intervento: No, con la miopia.

Archiati: Ah, con gli occhi no? Gli occhi col vedere non hanno nulla a che fare?! Oh, per una volta che faccio una domanda semplice, dove la risposta è così palese...

Intervento: Ma noi temiamo che tu chissà dove vuoi andare a parare!! (risate in sala, ndr)

Archiati: Non voglio andare a parare da nessuna parte! È chiaro che gli occhiali hanno qualcosa a che fare con gli occhi, hanno un rapporto con gli occhi, e la domanda successiva è: come fai a saperlo?

Intervento: Col pensare.

Archiati: Me lo dice il pensare.

Intervento: Lo so perché lo percepisco.

Archiati: No, questo è un errore di pensiero, perché un rapporto non è una percezione.

Replica: L’occhiale è uno strumento per vedere, non è legato alla percezione del vedere.

Archiati: Torna indietro, non far finta che la mia domanda sia stata così filosoficamente complessa. Io avevo soltanto chiesto: gli occhiali hanno o non hanno qualcosa a che fare con gli occhi?

Replica: Io ho risposto no!

Archiati: Di nuovo! Gli occhiali non hanno niente a che fare con gli occhi!? Perché ridono tutti? Perché son tutti scemi? Torna indietro: certo che gli occhiali hanno qualcosa a che fare con gli occhi! E adesso tu dicevi: lo so per percezione.

Intervento: Lo so per esperienza.

Archiati: No, l’esperienza è una percezione ripetuta.

Intervento: Gli occhiali sono un prodotto del pensare.

Archiati: Io ho chiesto: c’è o non c’è un rapporto tra gli occhi e gli occhiali?

Interventi: Sìììììì!!

Archiati: C’è un rapporto. La seconda domanda è: come lo so io che c’è un rapporto? Per percezione? No! Un rapporto non si può percepire lo si può solo pensare.

Quando questi esercizi fondamentali di pensiero diventano un pochino difficili (sono fatti così, eh?!), ci son degli sprazzi dove uno dice: adesso ce l’ho! ce l’ho, ce l’ho!, e poi il lampo scappa via e bisogna di nuovo riafferrarlo.

Una cosa che aiuta tantissimo è di rifare sempre di nuovo il paragone col bambino piccolo. Il bambino sa cos’è l’occhio, magari ha preso gli occhiali della nonna diverse volte, tante volte li ha dati alla nonna. Adesso chiediamo al bambino che già parla, ha due anni: dimmi, c’è o non c’è un rapporto tra occhi e occhiale? Lui mi guarda: che dici?

Le percezioni del rapporto ce le ha tutte, ma il rapporto è un concetto, e il concetto viene creato dal pensare, il rapporto non è una percezione.

Quando io dico: l’occhiale è lo strumento dell’occhio, «strumento» è un concetto non è una percezione, e questo concetto il bambino piccolo non lo può creare. Il pensare crea il concetto di strumento, quindi l’occhio e l’occhiale hanno un rapporto strumentale: l’occhiale serve all’occhio come strumento per vedere.

In altre parole, noi constatiamo sempre di nuovo che da quando abbiamo cominciato a pensare viviamo sempre nell’elemento del pensiero, e siccome ci viviamo dentro – perché è il nostro elemento, l’elemento della nostra creazione – lo disattendiamo, non gli diamo importanza più di tanto, e non ci accorgiamo che è la leva più importante di tutto, e che se noi ci lavorassimo per afferrarlo sempre di più, per renderlo sempre più profondo, sempre più fecondo, sarebbe la cosa più bella che esiste.

Il gradino di evoluzione di uno spirito è il gradino di evoluzione del suo pensare.

Pensare è l’arte di imbastire rapporti tra gli elementi del mondo, i nessi. Ripeto: il pensare è l’arte di creare all’infinito i rapporti, i nessi che ci sono fra tutti gli elementi che esistono nel mondo.

Gli elementi del mondo sono già infiniti, immaginiamo i rapporti possibili: infinito all’infinito, un godimento potenziale senza fine.

Intervento: Con questa logica, nel concetto di libero pensiero, fare ricorso anche alla menzogna, alla bugia, può servire a migliorare a fin di bene i rapporti anche tra me e gli altri, tra noi e gli altri? Non so se sono stato chiaro, perché ho un po’ di confusione. Di questo fatto non abbiamo mai parlato, della menzogna a fin di bene, ecco.

Archiati: La domanda è importante, e in aiuto ti viene subito Platone, coi suoi dialoghi, dove Socrate è il capo che ha sempre ragione. Nei dialoghi di Platone viene fatto proprio questo esercizio. Viene chiesto: qual è il medico migliore? Quello che ti può soltanto far guarire o anche quello che ti può far peggiorare?

E la risposta è: il medico che ti può anche far peggiorare, perché se un medico ti può soltanto far guarire, prima di tutto non è libero e non ti fa guarire per amore ma perché non sa far altro.

Se invece uno fosse capace di farti ammalare ancora di più, ma invece ti fa guarire, lo fa liberamente ed è un medico migliore.

La stessa argomentazione sulla verità e sulla menzogna: quale essere umano è più progredito? Quello che è capace di dire solo la verità, o l’essere umano che sarebbe capace di dire la menzogna però dice la verità? È più progredito l’essere umano che sarebbe capace di dire la menzogna, però dice la verità, perché la dice liberamente. L’altro non può far altro.

Perché si ricorre alla menzogna? Perché ognuno è libero di farlo.

Però tu volevi chiedere: che cosa è più interessante la menzogna o la verità?

Replica: Se era utile a fin di bene la menzogna.

Archiati: Certo che è utile, perché solo la possibilità della menzogna ci rende liberi. Ma come ci può essere la possibilità della menzogna se non si è mai mentito?

(III,16) «Ciò che negli altri campi dell’osservazione può essere scoperto solo per via indiretta, cioè il nesso causale e il mutuo rapporto dei singoli oggetti, per il pensare noi lo sappiamo in modo del tutto immediato».

(III,16) Dalla semplice osservazione io non so perché al lampo segua il tuono; ma perché il mio pensiero colleghi il concetto di tuono con quello di lampo, io lo so immediatamente dal contenuto dei due concetti. Naturalmente non ha in ciò alcuna importanza il fatto che io abbia dei giusti concetti di lampo e di tuono {scientificamente parlando}. Il nesso dei due concetti, quali li ho, mi è chiaro per se stesso.

Il bambino piccolo piccolo vede il lampo e vede il tuono, ma sa o non sa che al lampo segue il tuono?

Non lo sa. Non lo sa. Deve creare il concetto di lampo, il concetto di tuono. Nel pensiero io so che il mio concetto di lampo e il mio concetto di tuono sono connessi in modo che si susseguono nel tempo, e mai il tuono prima del lampo – tutte cose che il bambino piccolo non può neanche minimamente sognarsi.

Allora ripeto la domanda : da che cosa so, io, che il lampo viene prima del tuono?

Adesso tu, che prima sei intervenuto per la faccenda degli occhiali, sai di non dover dire: dalla percezione. Non lo so dalla percezione, non lo so dall’esperienza, lo so dal concetto! Perché il bambino piccolo può avere vissuto già cento volte, duecento volte, sia lampi, sia tuoni, ma non ha il concetto del loro rapporto temporale. Il concetto del rapporto temporale e del susseguirsi l’un l’altro del lampo e del tuono è un prodotto del pensare, non della percezione.

Intervento: Non viene dall’osservazione?

Archiati: No, no, l’osservazione ce l’ha anche il bambino piccolo, l’osservazione ce l’ha anche il cane. Sta’ attenta: tu sei in una stanza ermeticamente chiusa ai suoni, però c’è una finestrina: tu il lampo lo vedi e c’hai un cane accanto a te. Il lampo è di un fulgore tale che tu sai che il tuono non l’hai sentito, perché stai in un bunker, ma ci deve essere stato. Il cane?

Replica: Il cane non lo sa, non ha il concetto del lampo e del tuono.

Archiati: Articola il pensiero. Perché non lo sa?

Replica: Perché non può pensare, il cane.

Archiati: Però il cane ha già vissuto mille volte l’esperienza sia del lampo sia del tuono, quindi non viene né dalla percezione, né dall’esperienza. L’essere umano che è pensante sa che se anche non lo sente il tuono c’è, perché ha il concetto.

Intervento: Ma non lo può sapere per istinto di natura?

Archiati: No, stiamo parlando del concetto di rapporto. L’istinto ti fa vivere la percezione del lampo, quando lo percepisci, e la percezione del tuono, quando lo percepisci. Se il tuono non lo percepisce, per l’animale il tuono non c’è. Punto e basta. Per l’animale c’è soltanto ciò che vive nel suo corpo astrale, direbbe la scienza dello spirito, il resto non esiste.

L’essere umano ha – oltre al corpo fisico, al corpo eterico (o vitale) e al corpo astrale – un altro elemento che è quello dello spirito pensante per cui crea il concetto del rapporto. Siccome il tuono viene sempre dopo il lampo, il mio concetto del rapporto fra lampo e tuono mi dice che anche se io non lo sento ci deve essere il tuono. È tutto un processo di pensiero.

Intervento: Tutt’altra cosa sono invece i riflessi di Pavlov.

Archiati: Caso mai nei riflessi di Pavlov, i riflessi condizionati, ci entriamo un po’ domani, perché tutto il capitolo si rivolge a questa questione.

Auguro una buona notte, che sia non soltanto un concetto di una buona notte, ma anche la percezione, un vissuto. Domani ci troviamo alle 10,00.

Grazie a tutti!

Venerdì 15 febbraio 2008, mattina

Auguro una buona giornata a tutti quanti.

Entriamo subito nel merito del testo, anche perché ieri sera ho fatto un po’ di introduzione per entrare nell’argomento.

Il concetto fondamentale di ieri sera era in riferimento all’attività di pensiero, all’attività di riflessione, all’attività di raziocinio, e dicevamo che ci sono due modi fondamentali di attivare il pensiero.

Un modo fondamentale viene da fuori, attraverso le percezioni, – la scienza dello spirito di Steiner parla addirittura di dodici sensi, quindi la sensorialità è una realtà di estrema complessità.

Tornando all’esempio che facevo ieri sera: c’è un essere umano, lo chiamavo A, che è un po’ triste perché B negli ultimi giorni l’ha un po’ trascurato. Ora i pensieri di A circolano, si occupano della sua tristezza, della solitudine – mi sento triste, solo, perché mi lascia, come mai non viene a visitarmi? ecc…

Cos’è questo vissuto? È un dato di percezione: A percepisce in se stesso questi sentimenti. Dobbiamo quindi anche in questo caso partire dal presupposto che c’è un modo di percepire (di fare entrare nel sistema nervoso, per dirla in termini scientifici) anche il vissuto interiore – «mi sento solo» è una percezione interiore. Questa percezione attraverso il sistema nervoso va al cervello, e il cervello porta a coscienza la tristezza, la solitudine.

Quindi è esattamente lo stesso che con il lampo e il tuono: percepisco il lampo attraverso il nervo ottico e va al cervello, percepisco il tuono attraverso il nervo acustico, e va al cervello. Il sentimento, il vissuto di solitudine, di tristezza, può essere portato a coscienza soltanto allo stesso modo: attraverso il sistema nervoso (cose fisiologicamente complessissime) va al cervello, e attraverso il cervello io non soltanto sono triste, ma so di essere triste, ne cerco le cause (perché non viene a visitarmi ecc…).

Se poi A dice a B: ma senti un po’, perché tu negli ultimi giorni non ti sei fatto sentire?, B gli risponde: guarda che tu non sei l’unica persona nella mia vita. Io ho un altro amico, C, che negli ultimi giorni non soltanto è ammalato fisicamente, ma si è preso di nuovo una di quelle depressioni e io, poveretto, che voglio bene anche a lui, gli sto dedicando un sacco di tempo, e questo ti spiega la mia assenza.

Ora, nel momento in cui B sta dicendo tutte queste cose ad A, A le recepisce per percezione, in prima linea attraverso l’udito: il nervo acustico porta al cervello le parole di B e A capisce.

Tutto questo riguarda il primo modo fondamentale di far sorgere pensieri, contenuti di coscienza, attraverso la percezione sia dall’esterno che dall’interno. Questa modalità è la caratteristica fondamentale dello stadio di caduta della coscienza umana, stadio e stato in cui è diventata massimamente passiva, appunto dipendente dalla percezione, dallo stimolo che viene dal di fuori.

Il senso di questo peccato originale della coscienza che è diventata sempre meno attiva, sempre più dipendente dal mondo della percezione, il senso positivo, propositivo, propulsivo verso il futuro di questa passività, di questa dipendenza di partenza dell’uomo d’oggi (parliamo della situazione generale dell’umanità, una dipendenza quasi al 90% perché al 100% non è mai, altrimenti sarebbe un animale), il senso è di dare all’essere umano la possibilità di riconquistarsi, a brano a brano, la capacità di far sorgere pensieri senza bisogno dello stimolo della percezione, sia esterna che interna. Di riconquistarsela attraverso l’esercizio quotidiano, adesso individualmente, però, a partire dalla propria libertà interiore perché nessuno ti costringe a farlo.

Come avviene questo? Come sorge un tipo di pensiero che sia sempre meno dipendente dalla percezione?

Non essendo dipendente dalla percezione, adesso A è chiuso in se stesso, nel suo spirito, e dice: faccio sorgere i pensieri dal mio spirito, creo i pensieri dal mio spirito. (Fig. 5) Come si fa? Senza la percezione, come si fa?

Intervento: Si diventa attivi.

Archiati: Sì, ma come si fa a diventare attivi? È questa la domanda.

Intervento: A, senza aspettare le percezioni che gli vengono dall’esterno, è lui a interrogarsi, ancor prima di sentirsi triste. Si chiederà: ma per caso B è bloccato da qualche impedimento? E quindi sarà lui che va alla scoperta di...

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Fig. 5

Archiati: Detta così è una specie di riassunto di quello che dicevamo prima, di nuovo un piccolo dogma, se vogliamo.

Allora, dico qualcosa sulla cosiddetta e nota meditazione. Meditazione significa: la prima regola per attivare la propria sorgente spirituale di pensieri, indipendente dalla percezione, è di crearti dei momenti in cui le percezioni sono ridotte al minimo. Chiuditi in una stanzetta, soprattutto spegni la televisione, che è per natura un bombardamento di percezioni – l’occhio, l’orecchio –, un rimbambolamento che non finisce più. Chiudi la porta, stacca il telefono...

Tutto questo io l’ho indicato con il cerchio intorno alla testa nella Fig.5: la prima regola per rimettersi in connessione col proprio spirito pensante è di proteggersi almeno un po’ da questo mondo in cui viviamo oggi, la cui caratteristica è che dalla mattina alla sera l’individuo è bombardato da percezioni su tutti i dodici sensi. La nostra è una cultura fatta in modo sistematico per non far sorgere neanche la minima possibilità di creare i propri pensieri.

Si tratta allora di creare queste aree, come in fondo stiamo facendo noi adesso: escludiamo ogni tipo di percezione, e che cosa vi porto, io, come percezione? Dei pensieri, quindi siamo alla soglia, perché i pensieri che sentite da me ognuno se li gestisce subito in proprio: io vi rimando sempre a questa realtà pensante di ognuno di voi (il cerchio nel disegno).

Una volta capito che si tratta di rintuzzare, di ridurre al minimo questo venire bombardati, questo reagire, A, come tu dicevi, si può chiedere: un momento, c’è bisogno che io percepisca da B i motivi per cui negli ultimi giorni mi ha mandato un po’ a ramengo? Perché non posso chiedermi e trovare io stesso quali possono essere i motivi?

Questo tipo di riflessione, questi pensieri da dove vengono? Dallo spirito di A, lui li crea!

Nel primo caso li aveva sentiti da B (ma scusa A, non ti rendi conto, non hai visto che io sono stato un sacco di tempo con C?), adesso invece A dice: ma perché, io, i pensieri li devo sempre avere sulla falsariga della percezione? No, li posso pensare anch’io i pensieri! Sono capace.

E adesso che A, da solo, si chiede quali possono essere i motivi per cui B negli ultimi tempi lo ha trascurato, qual è la causa di questi suoi pensieri? Non è direttamente la percezione, è direttamente il suo spirito, anche se incipientemente.

Ieri vi sottolineavo il fatto che c’è una differenza enorme tra questi due modi. Però, a questo livello dell’evoluzione, non c’è un tipo di pensare umano che sia del tutto indipendente dal mondo della percezione, perché questo è il concetto dell’Angelo.

Il concetto dell’Angelo è un processo di pensiero, una creazione spirituale che è del tutto indipendente dal mondo della percezione, perché gli Angeli non hanno nulla del mondo della percezione.

Un tipo di coscienza che, invece, è del tutto dipendente dalla percezione, proprio al 100%, è quella dell’animale. Nell’animale sorgono immagini, come in noi le immagini di sogno, per esempio: l’animale ha astralità, quindi l’animale vive di immagini. Come fa il cane a riconoscere il suo padrone? Deve sorgere qualcosa nell’interiorità del cane per cui riconosce il padrone, e sono fenomeni che vanno al di là del puro vitale che noi constatiamo nella pianta. Ma tutte le immagini sognanti che sorgono nel cane, sono in tutto e per tutto dipendenti dal mondo della percezione. Questo è il concetto di animale.

L’umano va da questo 100% di dipendenza dalla percezione (l’animale) a questo 0% di dipendenza (l’Angelo), che è l’arco di evoluzione della libertà. Supponiamo che siamo adesso in media al 70% di dipendenza dalla percezione. La gestione della libertà sta nel fatto che ogni essere umano – e per questo ci vogliono dei millenni, non basta una vita sola – ha la possibilità, la duplice via della libertà di rendere il suo pensare (se vuole, perché nessuno lo costringe a farlo) sempre meno dipendente dalla percezione e sempre più creativo, sempre più creatore, originato nello spirito stesso, oppure di rendere il proprio pensare sempre più dipendente dalla percezione.

L’Apocalisse di Giovanni che è il testo fondamentale della prospettiva apocalittica, cioè della fine dei tempi, dice che l’abisso ultimo dell’evoluzione è il decadere al livello della bestia, dell’animale, è rendere il proprio pensare al 100% dipendente dalla percezione, quindi omettere la libertà, perdere la libertà su tutta la linea.

Per arrivare a questo punto di morte, la seconda morte viene chiamata nell’Apocalisse, non basta una vita sola. Nessun essere umano è capace di disfare in una vita la totalità della sua potenzialità di libertà, ci vogliono parecchie vite, così come non basta una vita sola per realizzare in positivo in toto questa potenzialità di creatività libera dello spirito umano.

Sono queste le riflessioni da cui si evince, ma ne abbiamo parlato diverse volte, che ragionevolmente parlando non è pensabile che all’essere umano, come spirito pensante, sia concessa una sola vita. Cos’è la vita? Decenni – se tutto va bene, perché si muore anche da bambini –, decenni di interazione col mondo della percezione per diventarne sempre più indipendenti. Questa è la vita.

Posso io diventare sempre più indipendente dal mondo della percezione senza esserne in contatto? No, se ne sono fuori non posso diventare sempre più indipendente, mi devo sempre di nuovo rituffare dentro.

Se poi voi mi dite: ma questa definizione dell’esistenza – decenni di interazione col mondo della percezione, per affrancarsene sempre di più – è un pochino diversa da quella che dà la Chiesa cattolica, allora io vi dico: è vero, la Chiesa cattolica dice che l’esistenza è fatta apposta per andare in paradiso. Questione di gusti, eh? Chi vuole andare in paradiso, ci vada!

Cos’è il paradiso? Il paradiso, come è immaginato dalla religione tradizionale, è pura poltroneria dello spirito, perché ci si tira fuori dal mondo dove c’è qualcosa da fare.

Se poi vi domandate com’è che mi fanno fare un seminario, dove dico queste cose, qui a Mondo Migliore, in ambiente cattolico, dovete chiedere a Padre Sergio, non a me. Lui vi darà la risposta, e se è onesto vi dirà: quello che voi dite non m’importa nulla, a me basta la percezione dei soldi – tant’è vero che il linguaggio dice «percepire dei soldi», vedete?, anche quello è il mondo della percezione!

Va tutto bene eh?, io non sto facendo polemica, le cose sono troppo serie. Però questo tipo di testo richiede pulizia di pensiero, è molto importante che non facciamo di ogni erba un fascio.

Il concetto di paradiso della scienza dello spirito, de La filosofia della libertà, è la conquista quotidiana della libertà, che consiste nella liberazione continua dall’asservimento al mondo della percezione. E per liberarsi sempre di più da questo asservimento dal mondo della percezione bisogna esserci dentro, sennò...

Il paradiso come è stato concepito tradizionalmente è da bambini, perché non si ha nulla da fare: nelle rappresentazioni del paradiso ci sono questi angioletti che suonano il violino, il mandolino – io da bambino suonavo il mandolino nell’orchestrina del seminario, e dicevo: vabbè, ‘sto concertino in cielo, in paradiso, per un paio d’ore lo capisco, ma poi? Accanto c’erano le rappresentazioni dell’inferno con i diavoli, con le forche, con i tridenti, e io dicevo: lì sì che succede qualcosa, vado più volentieri là!

III,17. Questa trasparente chiarezza riguardo al processo del pensare è del tutto indipendente dalla nostra conoscenza delle sue basi fisiologiche.

In questo paragrafo la domanda, sempre relativa ad A che si fa pensieri suoi sul silenzio di B, è: A, in questo momento, ha la percezione del fatto che i suoi pensieri vengono prodotti dal cervello, dalla fisiologia? Che dipendono da ciò che ha mangiato? Da come è stata la digestione? Da come ha dormito? Dal caffè che ha o non ha bevuto?

La domanda è: questo A ha l’impressione che i suoi pensieri dipendano in qualche modo dal DNA, dal cervello? No, il sostrato fisiologico non c’entra nulla. Altrimenti ci toccherebbe dire: un momento, tu non ci hai detto se A è un maschio o una femmina, perché se è una femmina ha un tipo di cervello del tutto diverso, una biologia del tutto diversa, saltano fuori pensieri del tutto diversi. Se invece A è un maschietto ha una biologia del tutto diversa, un cervello che si rispetta molto di più di quello femminile (giusto perché il relatore è un maschietto) e quindi saltano fuori tutt’altri pensieri! È giusto il discorso?

Interventi: No. No. No.

Archiati: Noi abbiamo tanti scientisti oggi, scienziati di scienze naturali, che vorrebbero convincerci che è proprio così! Quindi non dite troppo alla svelta: no! Non è semplice la cosa.

Intervento: Ma quella cerchiata nel disegno è l’anima o lo spirito? Perché allora il maschile e il femminile c’entrano...

Archiati: Io non ho detto che questa aureola qui (Fig. 5) è lo spirito di A, io non ho detto che se A è un maschio o una femmina non ci sono differenze nello spirito e nell’anima: la domanda è se i pensieri sono dipendenti dal cervello fisico e non se sono dipendenti dall’animo maschile o femminile, perché l’animo è spirituale non è un fattore biologico, sensibilmente percepibile.

Come si dirime questa questione?

Si tratta di fare un’introspezione, una autosservazione che sia la più oggettiva e spassionata, e soprattutto la più attenta possibile.

E per quanto mi riguarda io vi direi che molti scienziati, siccome l’umanità negli ultimi secoli ha coltivato troppo poco il pensiero, sono dozzinali nel modo di osservare come sorgono questi pensieri. Sono dozzinali perché non essendo abituati a osservare l’interiorità in un modo molto più attento di quanto fanno, loro hanno già in partenza il dogma feroce che tutto ciò che è invisibile deve avere una causa nel mondo sensibile, nel mondo percepibile e quindi per dogma fondamentale decretano che non ci può essere nulla nello spirito (o nell’anima, per prendere anche il tuo contributo), che non sia causato dal sostrato neurobiologico, neurosensoriale. È un dogma.

Che una persona si convinca che è così o così dipende da lei, dipende dalla sua capacità di introspezione, soprattutto dipende dal fatto che abbia più o meno sperimentato che ci sono dei pensieri che sono molto meno dipendenti dal sostrato biologico e altri che lo sono molto di più. Non ci sono, come dicevo prima, assolutezze: o del tutto indipendente, o del tutto dipendente. Si tratta di aver fatto l’esperienza proprio di queste percentuali di dipendenza o di affrancamento dalla realtà biologica.

Prendiamo adesso, concretamente, stati biologici del tutto diversi di A. Poniamo che a stomaco vuoto A stia facendo questi pensieri: adesso capisco perché B mi ha mandato a spasso, perché ha avuto a che fare con C. Dopo si fa una bella mangiata, con vino dei laghi romani: adesso che la sua biologia è ben diversa, che è tutto diverso nel corpo, avrà altri pensieri, la penserà in un modo diverso sul rapporto?

No, perché allora A dovrebbe dirsi: prima a stomaco vuoto ho pensato pensieri stupidi, adesso a stomaco pieno penso pensieri giusti. Penso che siate d’accordo con me che lo stomaco vuoto o lo stomaco pieno non c’entrano nulla. Casomai, lo stomaco troppo pieno non mi consente di pensare certi pensieri, ma non è che me ne fa pensare altri, o mi costringe a pensarne altri.

Che cosa vuol dire il fatto che siete tutti così perplessi? Che c’è un pensare qui in sala. È la prova di quello che stavamo dicendo prima: caro Pietro, noi non vogliamo essere dipendenti dalla percezione di quello che tu ci stai propinando.

Proprio questo sta avvenendo, una gran bella cosa!

Voi state pensando: mi convince o non mi convince? Quindi in questo modo date atto, date la prova del fatto che i pensieri non debbono essere dipendenti dalla percezione. Ognuno può riservarsi di farli passare per il suo pensatoio, però il pensatoio non è il cervello fisico, il pensatoio è lo spirito.

Il cervello fisico è fatto per prendere coscienza del proprio processo pensante. Di notte l’essere umano è uno spirito pensante, però siccome non si rispecchia nel cervello fisico – il cervello fisico svolge la funzione di specchio, è rispecchiante – non ne ha coscienza. Quindi risvegliarsi significa riconnettersi con lo specchio, e così mi vedo mentre penso.

Lo stato di veglia è connettersi col cervello fisico in modo da vedersi mentre si pensa: grazie al cervello fisico non soltanto penso, ma so di pensare. Mi tiro via da questo specchio, ne esco fuori, mi addormento: continuo a pensare, ma non lo so più!

Se addormentandomi dovessi sparire io stesso, dovrei essere ogni mattina ricreato dal nulla. Perciò l’interazione col cervello non ha nulla a che fare col pensare, ha a che fare con l’aver coscienza del pensare, porta a coscienza il pensare. Di notte penso, perché sono spirito pensante, di giorno non soltanto penso, in quanto spirito pensante, ma ne ho coscienza.

Voi entrate in una stanza, c’è una persona che dorme. Questa persona vi dice forse: io penso, io penso, io penso... Perché non dice: io penso? Perché dorme, e allora pensa senza saperlo. Si sveglia e dice: io penso. Che è successo? È successo che adesso lo sa. Si vede riflessa nel cervello fisico.

Immaginate che lì ci sia uno specchio: io cammino, guardo la mia immagine e dico: sono io. Adesso torno indietro, lo specchio sta là e io sto qua: perché non posso dire: sono io? Sono sempre io, no? È che sono io senza concentrarmi sul fatto che sono io! Sono io punto e basta.

Adesso vado avanti, mi vedo nello specchio: ah! quello sono io. È un raddoppiamento di me in quanto io e in quanto immagine. Lo stato di veglia è un raddoppiamento, uno sdoppiamento tra io pensante, che è sempre pensante, e la coscienza dell’immagine riflessa – ah, io sono pensante, sono un io che pensa!

Ma il fatto di dire: sono io che penso, aggiunge qualcosa al fatto che io penso sempre? Il fatto di saperlo aggiunge qualcosa?

Intervento: La consapevolezza.

Archiati: E la consapevolezza cosa aggiunge? La scoperta che sono io a pensare può essere per me l’incentivo a pensare sempre meglio. Se invece non fossi io a pensare, direi: beh, non ci posso far nulla, pensa un altro in me, lui gestisce il pensiero.

Nel momento in cui mi rendo conto, grazie al corpo, che sono io a pensare dico: ah, se sono io a pensare allora decido io del mio pensiero, sono io a decidere se è povero, se è ricco, se è profondo, se è superficiale…

Attraverso la coscienza diurna l’uomo si rende conto che il suo pensiero dipende in tutto e per tutto da lui. E se lo rende dipendente dalla percezione è lui a farlo, non un altro; e se lo rende sempre meno dipendente dalla percezione è lui a farlo. Tutto ciò che avviene nel mio pensiero è opera mia, sia le omissioni, sia le conquiste.

(III,17) «Questa trasparente chiarezza riguardo al processo del pensare è del tutto indipendente dalla nostra conoscenza delle sue basi fisiologiche», oggi diremmo neurobiologiche, del DNA.

(III,17) Io parlo qui del pensare in quanto esso ci si rileva dall’osservazione della nostra attività spirituale {osservazione introspettiva, come dicevo prima}. Non considero affatto il modo in cui un procedimento materiale del mio cervello può produrne o influenzarne un altro mentre io sto compiendo un’operazione di pensiero.

Mentre io sto riflettendo sul rapporto tra B e C, che è ammalato, depresso ecc., i pensieri che mi faccio son dipendenti da procedimenti che avvengono nel mio cervello? No, ma neanche minimamente io ho questa impressione: questa affermazione non ha nessuna base di percezione introspettiva, perché la mia attenta percezione introspettiva mi dice che in queste riflessioni sul rapporto tra B e C non c’entra nulla ciò che avviene nel mio cervello.

Ciò che avviene nel mio cervello mi concede di sapere che sto pensando questi pensieri, ma non è causante per il modo in cui io connetto questi pensieri o per quali pensieri penso. Mi consente soltanto, in aggiunta, di essere cosciente del fatto che sono io a pensarli. Perché un conto è pensare e un conto è pensare di pensare, sapere di pensare, essere coscienti di pensare.

La definizione di Aristotele dello spirito divino, non è soltanto lo spirito pensante nÒhsij (nòesis), ma lo spirito pensante che è assolutamente autocosciente nÒhsij no¾sewj (nòesis noèseos), il pensare del pensare, il pensare autocosciente, il pensare che sa i fatti suoi.

Il vangelo di Giovanni riduce questa definizione aristotelica a un concetto solo: il Logos. Il Logos è la creazione pensante – autocosciente naturalmente, perché se non è autocosciente non è Logos –, e l’essere umano, lo spirito umano, è creatura del Logos, potenzialmente uno spirito sempre più creatore.

(III,17) Ciò che io osservo nel pensare non consiste nel vedere quale processo entro il mio cervello colleghi il concetto di lampo con quello di tuono,

Non chiedo al mio cervello qual è la connessione tra lampo e tuono, dovrebbe essere un cervello molto intelligente per sapere che cosa il lampo ha a che fare col tuono, che cosa il tuono ha a che fare col lampo. Ma, scusate, il cervello come fa a saperlo? Come fa il cervello a sapere che cosa c’entra il lampo col tuono, e il tuono col lampo?

Detto in un modo ancora più paradossale: ma il cervello che cos’è? Un’enorme complessità di pensieri.

Se al cervello (vale per tutto il corpo, però il cervello è il sostrato della coscienza) tiriamo via il riempitivo di materia minerale, cosa resta? Strutture sovrasensibili.

Quando una persona muore tira fuori lo spirito dal cervello, tira fuori l’anima, tira fuori le forze vitali, tira fuori, cosa importantissima, le forze formanti: cosa resta? Polvere informe! Polvere.

Abbiamo fatto diverse volte l’esercizio in base alla domanda «cos’è la materia», vero Luciana? La materia è la più grande astrazione che ci sia, però lasciamo da parte questa considerazione.

Luciana dice: quando io sbatto contro il muro, tu non mi puoi dire che la materia non è una realtà! Il fatto è che non c’è mai stato nessuno che ha sbattuto contro il muro, non esiste proprio! È un modo del tutto rudimentale e infantile di esprimere il fenomeno: ci sono stati esseri umani che hanno vissuto il dolore di una protuberanza fisica, ma il dolore è una realtà, non il muro.

E Luciana dice: no, no, non ci siamo, perché senza muro la protuberanza non sorge.

E allora, cos’è il muro? La scienza dello spirito è un po’ più difficilina della scienza naturale perché complessifica le cose.

Steiner direbbe: ci sono Spiriti della Forma che sovrasensibilmente agiscono in certe direzioni, fanno una struttura, ma una struttura di forze – la materia non c’entra nulla. Supponiamo che sia una struttura stabile: tutto il fisico ha delle strutture e delle forme stabili altrimenti sarebbe in continua metamorfosi.

Allora, ci sono poi Spiriti del Movimento che portano un essere umano in movimento e impingono su queste forze. Forze stabili (Spiriti della Forma) che si scontrano con forze in movimento (Spiriti del Movimento) fanno sorgere il bernoccolo, il dolore, perché sono in contrasto fra loro: vogliamo una forma stabile o vogliamo scioglierla?

Questo dolore porta a coscienza il fatto che l’evoluzione è possibile soltanto in quanto interazione di forze opposte.

Cos’è il bernoccolo? Una forma che fino a poco fa era fissa e che adesso è entrata in movimento, però la realtà che c’è dietro è sempre lo spirito, non è la cosiddetta materia: questo è il concetto fondamentale della scienza dello spirito.

E senza questa interazione fra forza e controforza non ci sarebbe evoluzione, non ci sarebbe neanche coscienza, perché come faccio io a portare a coscienza che qui c’è un contrasto tra forma e movimento? Attraverso il dolore. Se io non sentissi nulla, non avvertirei nulla. Sento, col dolore, il contrasto tra forma (che, in quanto forma, deve stare un pochino ferma, sennò...) e movimento che scioglie la forma.

L’evoluzione è la morte continua delle forme che si arrogano il diritto di perpetuarsi, per godersi la resurrezione di infinite trasformazioni. Però prima ci vuol la morte, bisogna far morire quello che non vorrebbe morire.

Qualcuno dice: ma non sarebbe meglio se rimanessimo tutti allo stadio dell’infanzia dove è tutto così bello?

L’infanzia è una forma, è una forma di coscienza umana. Perché va sciolta questa forma? Perché va portata a morte? Perché la trasformazione di questa forma, il sorgere della coscienza adulta, è un tipo di risurrezione che ti dà un godimento infinitamente maggiore.

Però bisogna distruggere la forma precedente; e a chi vuol continuare a essere bambino a quarant’anni i conti non tornano, perché allora non gode né l’infanzia, né la maturità.

(III,17) «Ciò che io osservo nel pensare non consiste nel vedere quale processo entro il mio cervello colleghi il concetto di lampo con quello di tuono,»

(III,17) ma che cosa mi spinga a mettere i due concetti in un determinato rapporto fra loro. La mia osservazione {osservazione attenta, però, perché tanti scienziati materiali non hanno esercitato più di tanto l’osservazione veramente attenta: osservano soltanto i fenomeni esteriormente percepibili e l’osservazione introspettiva non la conoscono proprio} mi dice che nel connettere i pensieri io mi baso su nient’altro che sul loro contenuto, non sui processi materiali che hanno luogo nel mio cervello. Per un’epoca meno materialistica della nostra questa osservazione sarebbe naturalmente del tutto superflua. Ma al giorno d’oggi, in cui c’è chi crede che quando si sappia che cosa è la materia si sappia anche in qual modo la materia pensa, bisogna dire esplicitamente che si può ben parlare di pensiero senza invadere subito il campo della fisiologia del cervello. Per moltissimi uomini è oggi difficile afferrare il concetto del pensare nella sua purezza {Steiner scriveva nel 1894, la prima edizione, quindi più di un secolo dopo è ancora molto peggio la situazione: per moltissimi non solo è difficile, ma impossibile, quindi non andiamoci troppo veloci, dobbiamo accettare le cose come stanno}. Chi alla rappresentazione del pensare come qui l’ho sviluppata, contrappone subito la proposizione di Cabanis: «I pensieri sono la secrezione del cervello come il fiele è la secrezione del fegato, o la saliva quella delle glandole salivali, ecc.», semplicemente non sa di che cosa io parli. Egli cerca d’afferrare il pensare attraverso un semplice processo di osservazione, come fa per altri oggetti del mondo. Ma per tal via non potrà mai afferrarlo, perché come ho dimostrato {come ho mostrato, come ho esposto, non «come ho dimostrato» apoditticamente: non si possono dimostrare queste cose, e infatti Steiner non ha dimostrato proprio nulla! Qui è proprio il caso di dire: traduttori traditori, eh! Molti concetti in tedesco sono molto più precisi, ma sapete che questi risvolti sul linguaggio filosofico li faccio solo ogni tanto, altrimenti non la finiremmo più}, il pensare si sottrae propriamente all’osservazione normale. Chi non può superare il materialismo manca della facoltà di collocarsi in quello stato di eccezione sopra descritto, per cui egli diviene cosciente di ciò che rimane incosciente in ogni altra attività dello spirito. Con chi non abbia la buona volontà di collocarsi in quel punto di vista, è altrettanto impossibile discorrere del pensare, quanto il discorrere di colori con un cieco. Soltanto, egli non deve però credere che noi consideriamo il pensare come un insieme di processi fisiologici. Egli non spiega il pensare proprio perché non lo vede {questa traduzione italiana continua ad essere martellante, il tedesco lascia un pochino più liberi}.

Prendiamo l’assunto di Cabanis: il cervello produce pensieri come il fegato secerne il fiele. Il cervello produce pensieri. Perché no?

Intervento: Ma i pensieri mica si possono percepire come la bile.

Archiati: Certo che si possono percepire come la bile: i pensieri pensati sono oggetto di osservazione. E che l’osservazione sia introspettiva o estrospettiva non importa nulla: osservazione è osservazione.

I pensieri già pensati ci sono come c’è la bile, come c’è la pagnotta da mangiare, non c’è una differenzia essenziale. Però noi non stiamo parlando di ciò che il pensiero ha prodotto o produce, ma del pensare nella sua origine, e la domanda è: il pensare nella sua origine (il pensare, quindi, non il pensato, non i pensieri prodotti dal pensare) è dipendente dal cervello?

A questo punto qui, di fronte a questa domanda così fondamentale, La filosofia della libertà ci dice soltanto due cose: sta’ attento, se tu cerchi di confutare questa affermazione di Cabanis, che il cervello produce i pensieri, di fronte a un altro, e cerchi di dimostrargli che non è vero, l’esercizio non ti serve a nulla.

Lascia perdere! Ti conviene, sarà molto più proficuo per te, se lasci stare di dover dimostrare all’altro e cerchi invece di dimostrarlo a te stesso.

Adesso ognuno di noi si trova col compito di convincere se stesso, di dimostrare a se stesso che non è vero che i pensieri sono prodotti dal cervello, e a quel punto lì arriva la seconda ingiunzione, la seconda indicazione metodologica.

La seconda indicazione metodologica è: quando tu vuoi convincere te stesso che i pensieri non sono prodotti dal cervello, sta’ attento che non si tratta di una dimostrazione razionale, bensì di un’esperienza reale!

Come fai a dimostrare a te stesso che i pensieri non sono dipendenti dal cervello, se tu sei un essere umano per il quale i pensieri, di fatto, sono in gran parte dipendenti dal cervello, in quanto son dipendenti dalla percezione?

Tutti i pensieri dipendenti dalla percezione sono dipendenti dal cervello, perché la percezione attraverso il nervo ottico, il nervo acustico ecc… va al cervello.

Quindi, ciò che rende complessa la domanda è che per l’umanità di oggi, e questa è l’essenza del materialismo, i pensieri diventano sempre più dipendenti dal cervello, se non esercitiamo la direzione opposta.

Allora ritorno alla domanda: i pensieri sono prodotti dal cervello o no?

La risposta è: dipende.

Dipende da uomo a uomo, da donna a donna, dallo stadio evolutivo della coscienza. Dove c’è evoluzione non è concesso essere dogmatici, perché c’è chi è più avanti e chi è più indietro, ma ognuno ha la possibilità, in ogni momento, di rendere i suoi pensieri o più o meno dipendenti dalla percezione.

Mentre io parlo, ognuno di voi ha la possibilità di essere più o meno dipendente dalla percezione di ciò che sente, a seconda della concentrazione o meno del proprio spirito che prende posizione.

I miei pensieri sono per voi oggetto di percezione, fatto di percezione, ma la presa di posizione non lo è.

Nel capire i miei pensieri, siccome vi vengono attraverso la percezione, lì è concomitante, è coattivo il cervello. Ma adesso vi chiedo: il vostro cervello è ugualmente partecipe nel percepire i miei pensieri come nella presa di posizione da parte vostra?

La risposta è: no.

Mentre io cerco di capire quello che Pietro sta dicendo, mentre io sto percependo i suoi pensieri, siccome devono passare per l’udito, il nervo acustico li porta al cervello ecc.. per capire, per percepire, per recepire i pensieri di Pietro il ruolo del cervello è fondamentale; ma dove io, adesso, prendo posizione, penso io i miei pensieri sui pensieri di Pietro, posso lì dire che il cervello è altrettanto attivo?

No, perché allora non ci sarebbe nessuna distinzione tra i pensieri che percepisco da Pietro e quelli che penso io. E la differenza fondamentale sta nella maggiore o minore passività e attività. È logica e semplicissima la cosa, basta capirla.

Intervento: Torna ad essere attivo, il cervello, quando esprimo, quando manifesto i pensieri.

Archiati: Quando uno esprime i pensieri, che c’entra il cervello? No, è attiva la laringe, se vuoi. E io devo percepire col cervello che sto parlando, perché un essere umano che parla e non sa di parlare, cos’è? Un sonnambulo.

III,18. Ma per chiunque abbia la capacità di osservare {attentamente} il pensare –

Soprattutto nella sua origine, perché il pensare è all’origine. Se io mi scosto dall’origine è già subito il pensato. Pensare è creazione pura, sforna, crea pensieri. Lo spirito non prende i pensieri, li crea, non li percepisce, non li trova già fatti, li crea!

Il concetto di spirito è inventività pura, altrimenti non è spirito, e proprio questo concetto manca all’uomo materialistico perché quasi non ne fa l’esperienza, quindi gli manca il concetto dello spirito creatore e lo può riconquistare soltanto esercitando sempre di più questa attività propria, originaria, originante del pensare.

III,18 «Ma per chiunque abbia la capacità di osservare il pensare –»

(III,18) e con un po’ di buona volontà questa capacità può averla ogni uomo normalmente organizzato – tale osservazione è la più straordinariamente importante di quante egli ne possa fare. Poiché qui l’uomo osserva qualcosa che egli stesso produce:

Il pensare è la mia attività originaria, io osservo qualcosa che non è percezione, percepisco qualcosa che non è percezione, ma che è pura attività.

Lo acchiappo dal lato della percezione ma riflettendoci dico: no, in origine non è percezione, è pura attività! Quando lo osservo è già morto.

Ma come è nato l’osservabile del pensiero?

Dalla sua origine, e in origine è pura creazione, non è contemporaneamente osservabile, perché se fosse contemporaneamente osservabile sarebbe già fatto, ci sarebbe già.

(III,18) non si trova di fronte ad un oggetto a lui estraneo, ma alla sua stessa attività. Egli sa come sorge quello che osserva, vede i nessi e i rapporti.

Quando A sta pensando al rapporto che c’è tra B e C, e dice: si conoscono, si vogliono bene, B è pieno di amore verso C ecc..., tutti questi pensieri chi li provoca in A? Lui stesso, in quanto spirito pensante.

Qual è la causa dei pensieri in A? Il pensatore A. Essere uomini significa originare un processo di pensiero, se no non si è uomini. Pensare è pura creazione, non è un effetto prodotto da un’altra attività ancora più originaria.

Quindi, chi produce il pensare? Lo spirito. Ma lo spirito non produce il pensare, lo spirito è pensare! Lo spirito è pensare puro. Una gran bella cosa, di meglio non c’è. Basta rimboccarsi le maniche e godersela sempre di più, allora sì che funziona!

(III,18) Egli sa come sorge quello che osserva, vede i nessi e i rapporti.

Quindi A crea i concetti di amicizia, il concetto di depressione, il concetto di ascolto, il concetto di consolazione, per capire come mai B ha dedicato tanto tempo a C.

Tutti questi concetti di depressione, di consolazione, di amicizia, da dove li piglia A? Dal cervello? Se li prendesse dal cervello, il cervello sarebbe più intelligente di lui, cosa assurda, assolutamente assurda.

Sono originati dal suo spirito pensante, e quindi sono trasparenti. Sa benissimo, lui, cosa intende dire con amicizia, non ha bisogno di definire il concetto nei minimi particolari, sa cos’è l’amicizia, perché è un concetto che produce lui, sa benissimo cos’è il concetto di ascolto, di consolazione... E perché lo sa? Perché li produce lui questi concetti!

Ah, però il tuo concetto di amicizia, caro B, è diverso dal mio concetto di amicizia! Non importa nulla: il suo concetto l’ha prodotto lui.

Il discorso non è che tutti gli esseri umani, nel loro processo di pensiero, producono lo stessissimo concetto di amicizia. Il discorso è che il concetto di amicizia che ognuno ha è il suo, prodotto da lui, altrimenti non capirebbe di che cosa sta parlando, ognuno sa che cosa intende dire quando usa la parola amicizia, non c’è bisogno che intenda dire la stessissima cosa di un altro, lui lo sa! Perché lo sa? Perché è lui a produrre questo concetto e lo produce così come lo produce lui!

Il concetto di consolazione, una parola meno religiosa è psicoterapia, o meglio il conforto, il processo di consolare l’altro: è solo, e adesso viene consolato, la solitudine viene spazzata via, se no non si può godere più nulla, però viene convissuta dall’altro.

A sta pensando: certo, adesso capisco perché B non ha avuto tempo per me, perché ha bisogno di tanto tempo per consolare l’altro. Il suo concetto di consolazione lo produce lui, ed è esattamente così come lui lo pensa.

Essere spiriti pensanti, essere uomini, significa essere potenzialmente produttivi all’infinito, all’infinito, all’infinito... Il pensare può produrre tutti i pensieri che ci sono, e sempre più raffinati, sempre più sottili, sempre più distinti, sempre più cesellati. All’infinito.

(III,18) «Egli sa come sorge quello che osserva {sta osservando il suo pensare, eh?) vede i nessi e i rapporti»: il concetto di consolare ha qualcosa a che fare col concetto di amicizia?

Intervento: Sì e no.

Archiati: Io non ho chiesto se è lo stesso concetto di amicizia, ho chiesto se ha qualcosa a che fare. Un’altra domanda più facile: il concetto di amicizia ha qualcosa a che fare col concetto di rapporto?

Intervento: Certo, sì.

Archiati: Lo sapevo che avreste detto subito di sì, perché è una domanda molto più facile, ma andava risposto di sì anche all’altra domanda. Senza rapporto non c’è amicizia, e dove c’è amicizia c’è per forza un rapporto, quindi i due concetti hanno a che fare l’uno con l’altro.

Adesso chiediamo: chi ti dice che hanno a che fare l’uno con l’altro? Il cervello? Allora uno ha un tipo di cervello e dice che il concetto di rapporto e il concetto di amicizia hanno a che fare uno con l’altro; un altro ha un altro tipo di cervello e gli risulta che il concetto di rapporto e il concetto di amicizia non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. Andiamo bene? No.

Il pensare dice: indipendentemente dal cervello, il concetto di rapporto e il concetto di amicizia hanno intrinsecamente a che fare l’uno con l’altro. E me lo dice il pensare, cioè il pensare è evidenza assoluta – evidentia dicevano gli Scolastici –, cioè lampante.

Nella misura in cui uno pensa, capisce. E se non capisce non pensa. Il pensare è un tipo di illuminazione originaria. Quando c’è buio non vedo nulla, non distinguo nulla; accendo la luce, o sorge il sole, e vedo tutto! Quindi il pensare è la luce originaria dello spirito: vede tutto, capisce tutto, potenzialmente tutto.

Sono tutte immagini – luce, folgorazione, ecc… – prese naturalmente dal mondo della percezione, ma il pensare è puramente spirituale.

(III,18) «Egli sa come sorge quello che osserva, vede i nessi e i rapporti».

(III,18) Vien conquistato così un punto fisso,

Tradurrei «fermo», «saldo». È ben diverso, in un testo così rigoroso, tradurre «fisso» o «saldo». «Fisso» ha qualcosa di negativo, di inerte. Ripeto: abbiamo bisogno di una generazione di traduttori per la scienza dello spirito, dobbiamo avere il coraggio di investire capitali. La cosa più difficile per l’Italia, però, non sono tanto i capitali, quelli si trovano, sono le persone veramente ferrate sia in italiano che in tedesco, ma che capiscano anche le cose della scienza dello spirito. Non immaginate quanto tempo, che non ho, devo impiegare a correggere le traduzioni.

(III,18) «Vien conquistato così un punto saldo,»

(III,18) dal quale si può con fondata speranza muovere verso la spiegazione di tutti gli altri fenomeni del mondo.

III,19. Il sentimento di possedere questo punto fisso {saldo} indusse il fondatore della filosofia moderna, Renato Cartesio, a basare tutta la conoscenza umana sulla frase: «Io penso, dunque sono».

Cogito, ergo sum. Traduzione italiana: mi bevo un espresso, dunque sono. Quindi vi auguro una buona pausa, e chi beve un espresso dimostrerà a se stesso di esistere (in quanto italiano, naturalmente).

*******

Intervento: Vorrei ritornare all’esempio delle tre persone che relazionano, A B e C. Io sono A, sono in una stanza e mi accorgo che sto facendo pensieri arrabbiati nei confronti di B. Allora dico: va bene, questa cosa non mi piace, voglio rompere questo equilibrio per vedere se cambia qualcosa, mi vado a fare una passeggiata. Oppure per rimettermi in pace col mondo mi faccio una pastasciutta, mi mangio qualcosa, mi metto a posto la pancia – io lo so come sono fatto e per me funziona così.

Ritorno nella mia stanza e mi accorgo che, in pace col mondo, dopo la pastasciutta o la passeggiata comincio a fare dei pensieri diversi.

Archiati: No, no, no, non portare avanti alternative parallele. Resta con la pastasciutta, sennò l’esercizio non serve.

Replica: La pastasciutta è un esempio, nel senso che succede qualcosa che rompe quell’equilibrio. Cioè io, in un certo momento, faccio dei pensieri, partorisco dei pensieri che sono il risultato dell’equilibrio che io ho in questo preciso istante. Io rompo questo equilibrio, inserisco un altro elemento – mangio, o faccio qualcos’altro o mi arriva una telefonata – e in un momento successivo io osservo, faccio altri pensieri sulla stessa persona B, che sono pensieri meno arrabbiati.

Allora dico: un momento, come mai adesso faccio questi pensieri un po’ meno arrabbiati? Che cosa è successo?

È successo che un sostrato fisiologico si è modificato, ho mangiato, ho respirato dell’aria pulita, ho messo in moto dei muscoli, ho fatto movimento, ho modificato una realtà quindi ho creato un nuovo equilibrio, e mi ritrovo ad osservare che faccio pensieri diversi.

Allora lo scienziato dice: benissimo, guarda che i pensieri che tu fai adesso vengono...

Archiati: ...dalla pastasciutta!

Replica: ... no, vengono dal fatto di aver mangiato, da tutti i movimenti che hai fatto, dall’aria che hai respirato, e dall’apporto genetico.

Cioè, ognuno di noi in questo momento fa dei pensieri diversi perché obiettivamente ha alle spalle una storia diversa: Io, se capisco il pensiero dello scienziato, lo riassumerei così. E questo pensiero, questa idea, ha una logica.

Archiati: Certo che ce l’ha.

Replica: Cosa ci aggiungiamo noi?

Archiati: Ripeto il nocciolo del discorso, visto che ci riporti a un esercizio fondamentale che va rifatto sempre di nuovo.

Io ho individuato due posizioni un po’ unilaterali, perché sono dogmatiche, con la proposta di superarle tutte e due con un tipo di riflessione più scientifico, nel senso di meno dogmatico. Le due posizioni dogmatiche sono:

• il convincimento che lo stato fisiologico, la complessità del biologico è causante, non soltanto concausante, ed è la causa principale dei pensieri, dei sentimenti che sorgono in me;

• l’altra posizione, non meno dogmatica, dice: no, il biologico così com’è, o nelle sue trasformazioni ecc., non è la causa dei pensieri, ma è lo spirito che produce i pensieri.

Entrambe le posizioni sono dogmatiche perché disattendono il fattore evolutivo fondamentale della libertà.

L’uomo ha la possibilità di vivere il suo processo di pensiero o maggiormente dal lato della passività (può essere maggiormente passivo nel suo pensare, se lo vuole), o può diventare sempre più attivo nel suo pensare, se lo vuole. Tutto è lasciato alla sua libertà. Quindi sia lo scienziato naturale, materialista, sia lo scienziato spirituale, principiante, dilettante, peccano di dogmatismo perché non mettono al centro della riflessione la libertà.

Se io sono triste, o mi sento arrabbiato nei confronti di B, e dico: io sono fatto in modo tale che se mi faccio una bella mangiata di spaghetti la rabbia mi va via, padronissimo! Però devo dire: il fatto che in me la costellazione di pensieri e di sentimenti sia cambiata maggiormente, non dico metafisicamente in tutto per tutto, per il fatto che mi son fatto una bella mangiata, non significa che sia l’unico modo di cambiare i pensieri, la costellazione del vissuto. Altrimenti sarei di nuovo un dogmatico.

C’è l’altra possibilità ed è: io sono nella stanzetta, penso pensieri di peste e corna su B, io resto nella stanzetta, non mangio la pasta e dico: voglio pensare altri pensieri. Chi è adesso l’origine, la causa di questi pensieri? Sono io! Padronissimo! Ma non è necessario che sia così, perché sono libero, e posso lasciare agli spaghetti di partecipare maggiormente a quello che sorge dentro di me. Tutt’e due le cose sono possibili, altrimenti disattendiamo, sia da parte della scienza naturale sia dalla parte della scienza dello spirito, il fattore evolutivo fondamentale della libertà.

Quindi, se un individuo ha cambiato i suoi pensieri nei confronti di B, bisogna vedere, percepire nel caso concreto, la partecipazione più o meno forte del biologico. Va percepito, perché cambia da persona a persona, e cambia da stagione di vita a stagione di vita.

Non si possono far dogmi dove c’è la libertà.

Replica: Quando noi ci osserviamo a fare dei pensieri diciamo: ci sono delle forze che stanno agendo in me, tali per cui io, in questo momento, non riesco a partorire altro che questi pensieri.

Archiati: Liberissimo, però parli di te.

Replica: Tu stai dicendo che noi, in qualsiasi momento, potremmo dire: ah, va bene, adesso non voglio più essere arrabbiato. Ma nessuno riesce a fare questa cosa!

Archiati: Parla per te, non parlare per tutti gli esseri umani!

Replica: D’accordo, d’accordo.

Archiati: Stai assolutizzando, e proprio questo è il punto dove si diventa non scientifici, quando si comincia a generalizzare. Dove c’è la libertà è scientifico soltanto proibirsi di generalizzare e attenersi alla percezione concreta del caso singolo, altrimenti si diventa dogmatici.

Tu sei partito col «noi»: fuori strada, dogmatico. Parla di te, allora, dicci che cosa avviene in te e noi ascoltiamo, ma non parlare su di me, non dire a me qual è l’origine dei miei pensieri: che ne sai tu?

Replica: Giusto.

Archiati: Ma è questo il punto fondamentale del discorso, che il pensiero moderno è diventato così povero che continua a buttar lì dogmi, dogmi, dogmi, in tutti e due i campi, sia in quello scientifico delle scienze naturali, sia in quello teologico, pseudospirituale o di scienziati dello spirito. Nell’umanità di oggi ci sono quasi soltanto dogmatismi, generalizzazioni che disattendono la libertà dell’individuo.

Tu non mi dirai mica che i tuoi pensieri sono stati sempre allo stesso modo dipendenti, o non dipendenti, dalla pastasciutta che hai mangiato? O ci sono differenze in te? Nella forza di attività o meno che ci si mette, a seconda dei momenti ecc…

Che poi lo scienziato mi dica: sta’ attento, che il biologico è comunque sempre concomitante, è comunque sempre presente, è sempre una concausa, d’accordo! L’ho imparato nel primo semestre di filosofia che ci sono cause e concause, cause principali, cause secondarie ecc… Però, una causa concomitante che contribuisce al 10% è diversa da una causa che contribuisce al 90%.

Perciò, quando lo scienziato mi dice: no, il biologico è sempre, in tutto e per tutto, la causa al 100%, io gli dico: vacci piano, parla per te. Che il fattore biologico ci sia sempre e porti un minimo di concausazione è così ovvio! Ma da lì a tirar fuori il dogma che questa causazione è al 100% e lo spirito non causa nulla, vacci piano, non hai neanche il concetto dello spirito, non lo conosci neanche!

A Napoli la polizia va a indagare in un ospedale, trova il corpo del reato, il feto, e la povera donna che ancora non era venuta fuori dall’anestesia – un aborto terapeutico fuori tempo massimo. Abbiamo una umanità che fa una legislazione sull’aborto ignorando, proprio non sapendo nulla di uno spirito che vuole incarnarsi, che questo spirito ha un’anima (o corpo astrale, chiamatelo come volete), tutto un mondo complesso che ha millenni di evoluzione, poi ha un corpo eterico, forze vitali raccolte da tutto l’universo, e forze formanti del corpo fisico che sono sovrasensibili – dai genitori viene soltanto un mucchio di mattoni senza forme, perché nella fecondazione dell’ovulo lo sperma del maschio serve soltanto a buttar fuori dalla materia dell’ovulo tutte le forze formanti.

Vogliamo fare una legislazione sull’aborto senza avere la minima idea di cosa avviene nell’io, cioè nello spirito, a quali stadi, per esempio, l’io comincia a congiungersi con ciò che avviene nel corpo della madre (nella terza settimana) – fattori di una complessità enorme.

Siamo a livelli di ignoranza proprio astronomici, però è questa l’umanità, è questo il materialismo. Lo scienziato mi vuol dimostrare che questo io spirituale non esiste, ma come fa a saperlo? È un dogma feroce, ancora più feroce dei dogmi della Chiesa cattolica che almeno erano giusti, all’origine, perché non negano lo spirito. Invece il dogma che nega lo spirito è molto più dogmatico, perché oltretutto è sbagliato.

Il dogma che afferma lo spirito è meno dogmatico perché è giusto, dice una verità. Ti mette per dogma ciò che tu ti potresti conquistare per forza di pensiero, però il contenuto dei dogmi è vero (eccetto gli ultimi tre dogmi della Chiesa cattolica). Che lo spirito divino sia uno e trino non c’è bisogno di farne un dogma, il pensiero capisce che ogni realtà ben pensata deve essere una e triarticolata, te lo dice un Tommaso d’Aquino, omne trinum est perfectum, te lo dice Hegel – tesi, antitesi e sintesi.

Quando invece la scienza naturale ti viene col dogma che la materia è l’unica realtà è molto più micidiale perché è sbagliato, è un errore.

Perciò, se io devo scegliere tra i dogmi della scienza naturale e i dogmi della teologia, prendo quelli della teologia perché almeno erano giusti in origine; i dogmi della scienza naturale sono errori di pensiero, sono sbagliati. Perché l’affermazione che i pensieri sono prodotti dal cervello è un’affermazione errata, dice una cosa sbagliata: il cervello produce rappresentazioni, non pensieri, non concetti. Le rappresentazioni sono immagini riflesse, e le immagini vengono prodotte dall’elemento speculare che è il cervello, quello sì. Ma un cervello che produce un concetto – e il concetto è un frammento di spirito puro – non c’è mai stato!

Però tu prova a parlare allo scienziato della distinzione tra rappresentazione e concetto... non ci capisce nulla.

Intervento: Rifacendomi all’esempio di prima di A B e C, diciamo che A vive la prima esperienza interiormente, B gli fa presente il suo stato di disagio ecc. La seconda volta A stacca l’emotività da quello che sta vivendo e crea un pensiero proprio e interno.

La mia domanda è questa: A riesce a capire quello che sta succedendo perché già lo ha vissuto, ha vissuto l’amicizia, forse ha vissuto la solitudine o altro?

Archiati: Però, sta’ attenta, tu hai presupposto che è stato B a dirglielo.

Replica: La prima volta, non la seconda.

Archiati: Eh, la seconda volta se ne è già dimenticato?

Replica: No, la seconda volta si ferma a vedere com’è la situazione e dice: forse sta succedendo questo, se non ho capito male. Però lui dentro di sé rivive ciò che è l’amicizia, ciò che è la solitudine o il disagio.

La mia domanda è questa: un pensiero interiore può nascere senza che prima ci sia stato un pensiero, una concettualizzazione di qualcosa che viene dall’esterno?

Archiati: A questa domanda si può dare una rispostina, però una rispostina non sarebbe giusta perché allora la considereremmo una domandina. Invece la domanda è una domandona, una domanda fondamentale.

Allora, prendendo la tua domanda come fondamentale, bisogna considerare il tutto dell’evoluzione, quindi situare sia la tua domanda sia la risposta nel contesto reale dell’evoluzione, altrimenti diamo una rispostina astratta, che non si cala nel contesto attuale dell’evoluzione.

La tua domanda, però a livello più vasto, questo lo devo sottolineare, chiede: dopo che lo spirito umano, attraverso i millenni e millenni dell’evoluzione, si è sempre di più inserito nell’elemento della materia, è possibile (esprimo la tua domanda in un modo più complesso, più scientifico) avere un processo di pensiero indipendente dalla materia?

No!, altrimenti che sei calato a fare nella materia?

Quindi il pensiero umano, a questo punto dell’evoluzione, ha il compito non di essere libero dal percepibile, ma di liberarsi sempre di più dal percepibile.

E qual è il presupposto fondamentale per liberarsi sempre di più dalla materia? Di esserci dentro!

Per lo spirito umano, liberare il pensare dalla materia dà molta più gioia che non averlo già libero e non aver nulla da fare, perché la caratteristica fondamentale, specifica dello spirito umano, è di avere come punto di partenza, al nostro livello medio di evoluzione, uno spirito calato nel mondo della materia. Un compito evolutivo tutto diverso da quello degli Angeli, che volano sempre fuori dal mondo della materia – non capiscono nulla, loro, di un pensiero che parte dall’interazione col mondo della materia.

Quindi si può rispondere alla tua domanda soltanto nel contesto dell’evoluzione, non facendo teorie assolute.

Il punto di partenza del pensiero umano attuale è la percezione. E quando noi percepiamo il pensiero, il pensare, cosa percepiamo? Percepiamo qualcosa che è percezione perché lo percepiamo, però in origine non è una percezione ma una creazione.

Lì nasce il paradosso della libertà: qualcosa è diventato dipendente dalla percezione, qualcosa che, però, per natura non è dipendente dalla percezione. Allora sta a me renderlo di nuovo sempre più indipendente – però partendo dalla dipendenza.

Osservando il mio pensare osservo un pensare caduto nella materia: nel momento in cui mi rendo conto che è caduto, so che prima di cadere non era caduto, altrimenti non potrei avere il concetto di caduta. E quindi mi vedo immerso in una fiumana evolutiva che fa risalire il pensiero, e questa è la redenzione del pensiero.

La redenzione non è il Cristo che viene a metterti a posto le malefatte che tu hai combinato, quella è un’idea di redenzione da bambini. L’unica redenzione degna dello spirito umano è la redenzione del pensiero: se non c’è quella non c’è redenzione, e redimere il pensiero significa renderlo sempre meno dipendente dal mondo della percezione, dal mondo della materia, renderlo sempre più attivo, sempre più creatore, sempre più originario, sempre più artistico, sempre più libero, sempre più individuale.

Intervento: Per arrivare a percepire il pensare, di quale «organo di senso» mi servo? Mi viene in mente che siccome il pensare è una realtà spirituale, l’organo che è in grado di percepirlo deve essere a sua volta della stessa natura, quindi spirituale. Allora faccio ancora un passo avanti: il pensare stesso deve essere l’organo di senso in grado di percepire il pensare. Quando io riesco a percepire il pensare, il pensare coincide con il suo pensato, con l’oggetto della sua attività. Soggetto pensante e oggetto percepito coincidono.

Archiati: Vai bene, vai bene, hai anticipato quasi tutto quello che manca del terzo capitolo. Hai visto che andavi bene, vero?, perché andavi piano, soppesavi ogni parola. Adesso io dirò lo stesso concetto con parole mie.

Quando io percepisco il pensare, percepisco che questa percezione non è soltanto percezione ma è l’opposto della percezione, percepisco qualcosa che è una creazione.

Se io ho la capacità di percepire qualcosa che è una creazione, in opposizione alla percezione, devo essere io un essere che è capace di creare il concetto di creazione pura, quindi devo essere io stesso un essere pensante in quanto creatore puro, altrimenti non potrei creare questo concetto.

Se percepisco qualcosa che non è percezione, è perché sono capace di qualcosa che non è percezione, se no non lo potrei percepire.

In altre parole, l’essere umano può percepire soltanto ciò di cui può creare il concetto, se no non lo percepisce, non può dire di che si tratta.

Ci troviamo? Siamo d’accordo? Ho soltanto minimamente complessificato quello che tu dicevi. Se uno ritorna sempre a questo punto saldo, fermo, ritrova il centro di se stesso come spirito creatore, si percepisce come non percepibile, come creatore. Sono uno spirito creatore: ma allora, questo spirito creatore è una mia percezione o non è una percezione?

È una non-percezione camuffata da percezione, perché se io non giocassi a nascondino con me stesso non mi potrei scoprire!

L’evoluzione è lo spirito umano che gioca a nascondino con se stesso per godersi la riscoperta di se stesso. Si presenta come percezione ma è un camuffamento, un nascondino, per scoprire che no, non sono una percezione, sono un’origine, sono uno spirito puro che crea.

Se sono uno spirito puro che crea, ma mi presento a me stesso come percezione, vuol dire che sono uno spirito puro in potenza, mi devo riscoprire, riscoprire, riscoprire sempre di nuovo: questa è la potenzialità.

Però il nascondino è una metafora che usiamo per dire l’inenarrabile, perché narrare significa descrivere il percepibile invece lo spirito crea, non narra, crea dal nulla.

Intervento: Prima parlavi dell’originalità del pensiero, come dire che ognuno di noi quando...

Archiati: Sta’ attenta che va distinto tra originalità e originarietà: io intendevo maggiormente originarietà. È diverso dire che lo spirito è originale o dire che è originario.

Replica: Intendevo originale come pensare mio e non di un altro, originale nel senso di individuale. Non so se allora la domanda...

Archiati: Vai avanti.

Replica: Mi è venuto proprio chiaro anche guardando la manifestazione degli esseri in quanto individui uno diverso dall’altro: non c’è mai una persona con lo stesso naso, con lo stesso orecchio, non c’è una zebra uguale all’altra e così via, quindi di conseguenza è logico quasi che anche la produzione pensante sia una diversa dall’altra. Se la manifestazione materiale è così dissimile, anche la produzione del pensare lo è e lo sarà.

Ma rispetto a quello che è il pensiero oggettivo, o il pensiero universale, si arriverà mai, noi miliardi di persone, a toccare la stessa qualità di pensiero che ci unifichi? Ci sarà sempre, in questo pensare, una diversificazione, pur mantenendo lo stesso significato, peraltro, perché prima, quando parlavi dell’amicizia, hai detto: beh, uno lo può dire a parole sue, però si arriva sempre al concetto di amicizia.

Archiati: Cerco di rispondere alla tua domanda – cerco, perché la domanda è complessa e la risposta non vuole essere esauriente, ma costituire un avvio di pensieri successivi. Allora, se ho capito bene, tu dici: c’è lo spirito che è puro pensare e questa è una realtà, in un certo senso a sé stante, perché lo spirito divino, in quanto puro pensare, non ha nulla a che fare col mondo della materia; poi c’è lo spirito umano che è sempre in interazione col mondo della materia e della percezione.

E tu dici: siccome il modo di interagire con la materia, col mondo della percezione, è così complesso, non potremo mai accordarci o fare lo stesso tipo di discorso. Sarà sempre individuale.

Allora io ti dico che proprio per questo bisogna distinguere tra le affermazioni che facciamo sullo spirito umano in quanto è in interazione col mondo della materia – e queste non sono affermazioni sullo spirito, qui c’è l’elemento di individualizzazione –, e le affermazioni che invece facciamo sullo spirito, sul pensare puro in quanto tale – che sono assolutamente oggettive e valide per tutti oppure sono sbagliate. Qui non c’è nulla di individuale.

Nel modo di interazione con la materia, nella dipendenza maggiore o minore, nella passività o attività maggiore o minore nei confronti del mondo della materia, qui c’è l’individualizzazione. Ma le affermazioni sullo spirito in quanto tale o sono giuste o sono sbagliate, non hanno nulla di individuale, che varia da persona a persona.

Quindi ci troviamo di nuovo a dover distinguere due sfere del tutto diverse.

Le affermazioni sul pensare, le affermazioni sullo spirito pensante, non hanno nulla a che fare con ciò che è soggettivo – tu parlavi di individuale in senso di soggettivo, che varia da persona a persona: no, le affermazioni fatte sullo spirito non variano da persona a persona.

Varia da persona a persona il modo complessissimo di interagire dello spirito umano col mondo della materia. Lì è tutto diverso da un essere umano all’altro, ma l’interazione però, il modo di interazione, il modo di passività o di attività, di maggiore o minore liberazione dal dato della materia.

Perché se anche le affermazioni sullo spirito fossero soggettive, non avrebbe senso che noi discorriamo insieme, sarebbe escluso ogni tipo di accordo, sarebbe escluso ogni tipo di verità oggettiva.

Ciò che noi chiamiamo spirito è il livello della verità oggettiva, uguale per tutti: o lo si capisce o non lo si capisce, ma non varia da persona a persona.

Il relativismo in voga nel mondo d’oggi, in base al materialismo, è una specie di dogma feroce che dice: no, questo livello dell’oggettività dello spirito non esiste, esiste soltanto ciò che è dipendente dal mondo della materia.

Allora io dico a questo scienziato: come fai tu a sapere che qualcosa non esiste se non lo conosci? Sta’ zitto, non parlare di ciò che non conosci. Il relativismo è diventato molto feroce, in Germania fra un po’ non si potrà più affermare nulla perché t’arrivano i relativisti, t’arrivano «i tolleranti» e ti dicono: no, no, no, tu sei dogmatico se affermi una verità che deve essere oggettiva. Quindi non c’è più nulla di oggettivo, poveri noi!

Poveri noi perché se non c’è più nulla di oggettivo, ognuno può fare quello che vuole. Se non è oggettivo che con questo feto si congiunge uno spirito umano, che uno spirito umano ci sta lavorando, se questo non è oggettivo, allora del feto ognuno può fare quello che vuole, non c’è più nulla di oggettivo. Se invece è oggettivo il fatto che tu ledi la libertà di uno spirito umano che si vuole incarnare, allora è oggettiva la cosa.

Intervento: Guardano se il feto è sano o malato.

Archiati: No, lo spirito non si incarna in un feto sano o in un feto malato: se lo costruisce lui quel feto, che noi chiamiamo malato.

Replica: Certo, certo, ma è un aggravante per la scienza, o per chi altri, vedere che è malato, e per quello è sopprimibile.

Archiati: No, no, no, no, «malato» è un moralismo.

Replica: Sì, certo, ma questa è la legge.

Archiati: La legge è fatta da esseri umani che son diventati del tutto ciechi, che sono ignoranti – non ignoranti come insulto, ma oggettivamente, assolutamente ignoranti riguardo a tutto ciò che non è realtà materiale.

Un feto malato non esiste, esiste uno spirito umano che decide, siccome magari è più evoluto di tanti altri esseri umani, di avere certe malattie perché soltanto lottando con queste malattie può tirar fuori altre forze dal suo spirito, forze che altri non si possono permettere perché non sono così evoluti come lui. Quindi vuole avere un sostrato corporeo che gli dia molte più controforze che non esseri umani meno progrediti che non sono capaci di vivere con queste controforze.

E noi parliamo di feto malato! Ma siamo stupidi, siamo del tutto ignoranti, tecnicamente parlando, e una legislazione su realtà ignorate è disumana, perché se questo spirito lo vuole per sé, quel tipo di corpo, e tu gli proibisci di farselo qui, cercherà di costruirselo da un’altra parte. Quello spirito vuole questo tipo di corpo, e tu glielo proibisci.

Da questo tipo di riflessioni si evince l’urgenza assoluta, per questa umanità diventata materialistica, di riconquistare veramente la realtà dello spirito, ma non tramite dogmi ai quali dover credere, ma per cammino di pensiero. E il cammino del pensiero è individuale ed è libero, ognuno lo può compiere soltanto in se stesso, riguardo a se stesso.

Intervento: Io non posso produrre pensieri e nello stesso tempo contrappormi passivamente, cioè osservarli. In un capoverso de La filosofia della libertà che abbiamo letto ieri (III,15), lo Steiner dice che Dio dopo aver creato il mondo lo ha contemplato.

Allora il nostro modo di pensare e quello di Dio sono uguali, cioè Dio non può pensare il mondo e contemporaneamente aver coscienza di pensarlo, aver coscienza di quello che pensa.

Archiati: Sta’ attento: Dio crea il mondo, e il mondo che crea lo può contemplare soltanto quando c’è, perché finché non c’è non lo può contemplare. Adesso il mondo c’è, l’ha creato e lo contempla. L’ho creato io, questo mondo, dice Dio, ma allora io non sono soltanto un essere che percepisce ma anche un essere che crea.

Adesso io osservo me stesso e vedo dei pensieri che ho già pensato. Li osservo, e chiedo: ma chi li ha pensati? Chi li ha prodotti? Chi li ha creati? Beh, forse questi pensieri qui li ha creati maggiormente la pastasciutta, però, un momento, questi altri pensieri ero maggiormente io a crearli, li ho creati io.

Se io percepisco dei pensieri in me, dei quali posso dire che in fondo la causa principale sono stato io, allora so, percepisco me in quanto creatore, in quanto origine prima dei pensieri. Quindi io sono, oltre a tutto il resto, uno spirito che crea pensieri.

Però di volta in volta posso essere creatore a livelli maggiori o minori a seconda che mi rendo dipendente, più o meno, dalla pastasciutta che mangio.

Quindi sono uno spirito non puro, ma in interazione col mondo della percezione, col mondo della materia, uno spirito sempre nella scelta libera tra essere maggiormente creatore, maggiormente libero, maggiormente produttivo, oppure maggiormente passivo, maggiormente dipendente. Questa è la libertà.

Replica: Però nel mondo spirituale tutto è contemporaneità.

Archiati: Cos’è il mondo spirituale? Lascialo perdere, è un’astrazione! Il mondo spirituale puro non esiste per l’essere umano, per lo spirito umano incarnato, capito? È un’astrazione, proprio questo è il discorso.

L’essere umano incarnato è uno spirito in interazione col mondo della materia, e tu mi parli di spirito puro. Di che stai parlando? Sta’ attento però, tu in fondo vuoi dire: se io percepisco me stesso come spirito umano pensante in interazione col mondo della materia, e questa interazione soggiace all’elemento evolutivo della libertà per cui c’è la possibilità di rendere il mio spirito pensante sempre più indipendente dalla materia, creo il concetto di spirito puro come prospettiva evolutiva dello spirito umano, del tutto indipendente dalla materia.

Però questo è un concetto puro, non ho la percezione di questo spirito: è il concetto della spinta ultima dell’evoluzione. È un concetto astratto perché non c’è un sostrato di percezione. L’uomo ha realtà soltanto quando congiunge concetto e percezione.

Dove si percepisce l’essere umano come spirito puro? Nella libertà. E dice: io sono potenzialmente uno spirito puro.

Replica: Io credo di aver formulato male la mia domanda. Volevo dire se anche Dio ha lo stesso modo di procedere, come autocoscienza.

Archiati: Io ti devo chiedere scusa, a questo punto. Mi devi spiegare chi è Dio? Io non ci capisco nulla! Tu parli di Dio: di che parli? Cos’è Dio? Il massimo esercizio di potere sullo spirito umano, che gli proibisce di diventare Dio, perché un altro già lo è.

È una provocazione, naturalmente, è una provocazione, no?, e non mi dite: adesso ci fai sparire il nostro Dio e non resta più nulla!

Il concetto è questo: nella fase bambina ci sono le fiabe e in queste fiabe va bene anche il Dio, però è importante che c’abbia la barba, i capelli lunghi, che sia vecchio; il concetto del Padreterno è di uno che è all’opera già da parecchio tempo, quindi, caro bambino, quello lì, vedi la barba bianca, è il più vecchio di tutti, è quello che la sa più lunga di tutti, vedi la barba com’è lunga? La sa lunga!

Fin lì andiamo bene, finché ci sono le immagini su questo Dio. Adesso togliamo le immagini, il bambino cresce: ci vuole il concetto, adesso, di Dio. Spirito creatore.

Quando l’essere umano fa l’esperienza col proprio essere, per lo meno incipientemente, di un’attività creatrice di spirito che pensa e che crea, quando la percepisce in sé, allora la parola «Dio» comincia ad avere un contenuto. Altrimenti non ha nessun contenuto.

Il concetto di Dio è la prospettiva evolutiva dello spirito umano, oppure non è nulla! Perché lo spirito umano in quanto tale, lo dicevamo prima, è chiamato a diventare nella sua dinamica evolutiva sempre più creatore. Quindi lo spirito perfetto è perfettamente creatore.

Dov’è che le cose vanno male, vanno a rotoli? Dove questo spirito creatore lo si mette oltre l’uomo. E allora è fatto per soggiogare l’uomo, per proibirgli di diventare lui Dio, spirito creatore, e allora non è più Dio che ama l’uomo, ma è un contro-Dio.

Il concetto clericale di Dio, che è tale da proibire all’uomo di diventare sempre più come il divino, è il concetto puro del diavolo, del male per l’essere umano – perché la somma del male è proibire all’essere umano di diventare sempre più creatore come spirito. Il concetto clericale di Dio è un puro concetto di potere per schiacciare l’essere umano. Perché Dio o lo diventi sempre di più tu, oppure per te non esiste, non è nulla!

Tutta La filosofia della libertà è per far sparire questo fantòma che gli esseri umani chiamano Dio, fatto apposta per soggiogarli. La filosofia della libertà è fatta per liberare la via ad ogni spirito umano affinché diventi sempre più divino, sempre più creatore, sempre più creativamente pensante.

Però è importante non prendere questa considerazione come una polemica: qui non c’entra niente il risvolto psicologico, sono riflessioni che vogliono essere giuste a livello spirituale.

Allora ritorno alla domanda: chi è Dio?

Replica: Siamo noi che ci realizziamo.

Archiati: Allora perché parli di Dio?

Replica: Perché l’ha nominato Steiner ne La filosofia della libertà.

Archiati: No, no, no, una delle caratteristiche fondamentali de La filosofia della libertà è che il discorso su Dio non c’è (non è contestualizzato, ndr). Soltanto in un’Aggiunta alla fine, lo vedremo, dice: il vivere nel pensare puro è il vivere nel cosiddetto Dio, soltanto lì, una volta, come aggancio alla tradizione del passato.

Ma La filosofia della libertà è fatta apposta per fare sparire questo concetto fasullo e schiacciante che noi chiamiamo Dio, perché poi questo Dio diventa subito il giudice, diventa subito quello che sta lì a guardare quando tu sgarri per mandarti all’inferno!

Ho chiesto a mia sorella Fausta, che è suora: c’è l’inferno eterno? Se c’è, allora lì c’è Giuda – se non ci metti Giuda traditore, poi suicida, ce l’ha messo anche Dante! Al che mia sorella mi dice: non sono mica tanto sicura... Io le ho detto: guarda, Fausta, viviamo in tempi dove il fattore ecologico diventa sempre più importante, questo Dio che fa una calderuola che spreca energia per tutta l’eternità, per scaldare un inferno e non c’è dentro nessuno, è uno spreco di energia che proprio non si può perdonare, eh?! Allora, dimmi, c’è questa calderuola o non c’è?

E lei mi dice: ma proprio sicura non sono, come si concilia con l’amore divino? Quindi questo Dio che ti accende l’inferno per tutta l’eternità, con tutti i problemi ecologici che abbiamo, con l’inverno che è più estate che inverno, oh, ci deve pensare due volte a questo inferno eterno, perché è fuoco, fuoco, fuoco!

Mia sorella pensa che sono del tutto matto, e io dico che ha ragione! In questo mondo matto si può pensare giusto soltanto se si è del tutto matti.

Volevo dire che non soltanto è un Dio alienante, posto al di là dell’essere umano, ma per di più è lì soltanto per punirti per tutta l’eternità. Puro esercizio di potere di esseri umani su altri esseri umani, altro non c’è.

Riallacciamoci al discorso fatto in questa ora: per chi di voi volesse rendere i propri pensieri dipendenti dalla pastasciutta, auguro un buon appetito all’italiana.

Venerdì 15 febbraio 2008, pomeriggio

Un buon pomeriggio a tutti quanti.

Prima che dimentichi, questa volta abbiamo due testi nuovi, molto importanti. Ad uno abbiamo dato come titolo Budda e Cristo[3], e sono conferenze di Steiner che diversi di voi conosceranno: nell’Opera Omnia si chiamano Il vangelo di Luca, ma vedrete che in fondo è un’altra lettura, perché con la Archiati Edizioni, in Germania, abbiamo diverse fonti che ci mandano a sorgenti più vicine al dettato di Steiner. Alla fine del volume avete due o tre pagine che vi spiegano come nell’Opera Omnia, con la redazione, è stato aggiunto circa il 20% – 21% del testo, per commentare.

L’Archiati Edizioni ha in mano dei manoscritti che precedono la versione ufficiale, fatta un po’ sotto la regia di Marie Steiner, avvenuta un anno dopo, due anni dopo tenute le conferenze.

Per esempio, in questo caso, abbiamo i manoscritti di una persona che si chiamava Fritz Mitscher, morto giovane, di cui Steiner, alla sua morte, dice: era un essere umano che viveva del tutto nell’oggettivo, e quindi possiamo presupporre che il suo stenogramma e la sua trascrizione siano massimamente fedeli a quello che Steiner ha detto.

Inoltre, nella nostra edizione, in chiusura c’è una Risposta a Domande che nell’Opera Omnia non c’è. Quante sono le persone, qui in sala, a cui interessa questo discorso del paragone con i testi dell’Opera Omnia? Alzate la mano... siete in parecchi[4].

Quanto al contenuto, queste conferenze sono di una bellezza strabiliante: noi le rendiamo possibile pane per tutti gli esseri umani – 10 euro, non trovate dappertutto prezzi così bassi. Se voi chiedete a me: dove, nell’umanità, ci sono le cose più belle e più essenziali sul buddismo, vi rispondo subito: in queste conferenze di Steiner. Bastano le prime tre, quattro conferenze: la descrizione della vita del Budda e dei suoi insegnamenti, riassunta dal più grande iniziato dei tempi moderni, è una cosa straordinaria. E qui, spolverando via, tirando via quello che è stato aggiunto in via redazionale nell’Opera Omnia, si leggono cose di una bellezza veramente grandiosa.

E poi, il modo in cui il Budda diventa una cosa sola con il Cristo e lo aiuta a portare nell’umanità le forze reali dell’amore e della compassione: il Budda aveva portato l’insegnamento, la consapevolezza dell’importanza dell’amore e della compassione, e il Cristo, poi, ha portato le forze reali dell’amore e della compassione.

Questo Budda e Cristo vorrei raccomandarvelo in modo particolare proprio perché si tratta di un progetto editoriale del tutto nuovo.

Allora, eravamo arrivati al paragrafo 19 dove il nostro Cartesio dice: Io penso, dunque sono.

(III;19) «Il sentimento di possedere questo punto fisso {saldo, fermo} indusse il fondatore della filosofia moderna, Renato Cartesio, a basare tutta la conoscenza umana sulla frase: Io penso, dunque sono».

(III,19) Ogni altra cosa, ogni altro divenire è là senza di me, non so se come verità, o come illusione o sogno. Una sola cosa io so in modo del tutto sicuro, in quanto io stesso la porto a sicura esistenza: il mio pensare. Abbia la sua esistenza anche un’altra origine, venga da Dio o da qualche altra parte, io sono certo che esso esiste nel senso in cui io stesso lo produco. Per dare un altro significato alla sua frase Cartesio non aveva, a tutta prima, nessuna giustificazione. Egli poteva soltanto intendere che entro il contenuto del mondo io mi afferro nel mio pensare come nella mia più propria originaria attività.

Io penso, dunque sono, significa: io penso, dunque sono un essere pensante.

Essere un essere pensante non è un attributo di me, è la mia essenza. Tutto il resto che io faccio fa parte di me, ma non è il mio essere.

Io non sono i processi del mio corpo, io non sono la digestione, sono invece molto più intimamente congiunto col mio pensare, perché introspettivamente, osservando il mio pensare, vedo che in esso c’è unicamente ciò che io ci metto attivamente dentro.

Nella digestione ci sono un sacco di cose che non sono io a fare, invece nel mio pensare c’è dentro tutto e solo quello che ci metto io.

Uno va a far la spesa, questo pomeriggio, e prendiamo questo esempio come punto di riferimento del pensare: ci sono dei pensieri, avvengono dei pensieri riguardo al far la spesa?

Certo. Bisogna pensare che cosa mi serve, cosa voglio comprare ecc. Supponiamo che io faccia una lista delle cose da comprare: cosa ci sarà su questa lista? Soltanto ciò che viene in mente a me, a meno che la faccia insieme con un altro – ma adesso lasciamo stare che la faccia con un altro, altrimenti ci complica le cose, perché allora c’è il concorrere di due processi di pensiero.

Ci potrà essere sulla lista qualcosa a cui io non ho pensato? No, è escluso! Caso mai io penso qualcosa e dico no, questo qui non lo compro questa volta, quindi c’è una presa di posizione rispetto a tutto quello che penso, e quello che non penso non c’è.

In tutto il processo di pensiero rispetto alla domanda: che cosa voglio comprare?, c’è unicamente quello che ci metto io.

Cosa fa parte di questo pensiero? Dico: no, se voglio comprare tutte queste cose qui mi viene a costare tanto, e oggi però non ho voglia di spendere tanto. Il pensiero sul costo, chi lo produce? Io. E ci sono altri elementi sul fattore costo oltre a quelli che io penso? No.

Un altro pensiero sulla spesa è: quanto tempo mi ci vuole? Se faccio uno spesone mi ci vuole un’ora, supponiamo – penso alla distanza, vado in macchina, vado a piedi... tutti pensieri! Quindi in tutta questa pensata che riguarda la spesa, in questo processo di pensiero, c’è solo e unicamente ciò che ci metto io. Tutti i pensieri sulla spesa che io ho da fare vengono prodotti da me – e da chi se no?!

Allora non mi dite che il pensare sia una cosa stratosferica, no, il pensare è l’elemento in cui viviamo tutti sempre, eccetto quando dormiamo. È proprio questo il senso del dormire: dormire significa interrompere il pensiero. Parliamo del pensiero ordinario, eh?, quello è il punto di partenza. Perché il potenziamento del pensiero, il diventare sempre più attivi, sempre più creativi, più vasti, più profondi nel pensiero, parte dal pensiero ordinario che abbiamo.

Come faccio a evolvere i miei pensieri sulla spesa? Se comincio a includere nelle considerazioni, nei pensieri che io faccio sulla spesa, il fattore ecologico, per esempio. Allora ci sarà un essere umano che fa tutti i conti sulla spesa e non ci mette nessun pensiero di considerazione del fattore ecologico – ed è un tipo di pensiero, un gradino di evoluzione del pensiero –, e ce n’è un altro che tre anni fa magari non ci pensava neanche al fattore ecologico, ha poi fatto camminare, ha fatto evolvere il suo pensiero e adesso quando pensa alla lista, o al posto dove far la spesa (è importantissimo dove farò la spesa: da quello lì o da quello lì?, da McDonald oppure al negozio antroposofico?) crea pensieri nuovi che un anno fa, due anni fa, tre anni fa non sapeva pensare. Questa è l’evoluzione del pensiero!

L’evoluzione del pensiero non significa mai qualcosa di metafisico, campato per aria, ma parte sempre dai pensieri che uno ha, e si tratta di renderli più vasti, più profondi, più ricchi, più attivi, sempre più prodotti da se stessi, non indotti, non letti sul giornale, non dedotti dalla pubblicità. Se uno fa la spesa in base alla pubblicità sarà nei suoi pensieri sulla spesa massimamente passivo, massimamente automatico.

Se invece uno dice: non mi importa niente quello che la pubblicità dice sulle cose da comprare, voglio decidere io che cosa compro, è chiaro che ci metterà in questi pensieri sulla spesa molta più attività sua, anziché farsi dire dal rotocalco, dalla rivista, dal giornale o dalla televisione che cosa deve comprare.

Ognuno parte dai pensieri che ha, e farli evolvere significa gestirli sempre di più in proprio, e non mutuare pensieri dal di fuori, dalle percezioni ecc, che sono frammenti di passività, frammenti di automatismo – e ciò che è automatico non dà gioia perché non c’è creatività.

I pensieri che uno crea in proprio danno più gioia perché ci mette la sua attività artistica. Invece i pensieri che recepisco dal di fuori sono noiosi perché non ci metto nulla di attività mia.

(III;19) «Per dare un altro significato alla sua frase Cartesio non aveva a tutta prima nessuna giustificazione, egli poteva soltanto intendere che entro il contenuto del mondo io mi afferro nel mio pensare come nella mia più propria originaria attività».

Quindi il pensare sulla spesa, cosa comprare, dove comprare, se andare a piedi ecc., è un’attività mia! Che questa mia attività sia poi particolarmente passiva o no, questo non contraddice al fatto che sia la mia attività; perché il recepire le cose da comprare dalla televisione comunque lo decido io. Se mettere pensieri passivi o pensieri attivi nella lista delle cose da comprare, è una decisione mia. È la mia più propria originaria attività. Il pensiero è la mia più propria originaria attività.

(III,19) È stato molto discusso su quel che significasse la seconda parte della proposizione: dunque sono. Non può aver senso che sotto un unico aspetto. La più semplice affermazione che posso fare riguardo ad una cosa è che essa è, che esiste. Come questa esistenza si debba poi determinare più esattamente, al primo momento non posso dirlo per nessuna cosa che appaia all’orizzonte della mia esperienza.

Cioè, di me stesso la prima cosa che posso dire è: sono un essere pensante. Perché tutto il resto c’è senza di me: l’unica cosa che non c’è senza di me è il mio pensare, e allora io sono quell’essere che produce il proprio pensare, che produce il pensare.

(III,19) Bisogna prima, per ogni oggetto, esaminare i rapporti che esso ha con altri, per poter determinare in che senso si può parlare della sua esistenza. Un processo sperimentato può essere una somma di percezioni, ma può anche essere un sogno o una allucinazione. In breve, non posso dire in quale senso esso esista. Questo potrò anche non dedurlo dal processo, ma lo sperimenterò quando lo considererò in rapporto ad altre cose. Ma anche allora non potrò in fondo sapere se non in quale rapporto esso sta con queste cose. Il mio cercare arriva su terreno solido soltanto quando riesco a trovare un oggetto per il quale io possa ricavare il senso della sua esistenza dall’oggetto medesimo. Ma tale sono io stesso come essere pensante, in quanto do alla mia esistenza il contenuto preciso e poggiante in sé dell’attività pensante. Da qui posso ora partire e domandare: «Esistono le cose nello stesso senso o in un altro?».

Steiner vuol dire: quando io mi percepisco pensante, la cosa mi convince perché ho la percezione di toccare l’essenza di me. È qualcosa che io stesso produco, quindi so il fatto mio riguardo al pensiero.

Come faccio io a sapere di conoscere l’essenza delle mele che sto comprando? Comincio a dire: le mele le vedo in rapporto con lo stomaco, in rapporto con l’organismo, con la terra, quindi parlo di rapporti tra le cose, ma come faccio io a sapere se il mio concetto di mela coglie l’essenza della mela?

C’è una cosa, invece, una sola realtà della quale io so che colgo subito l’essenza: sono io in quanto essere pensante. Tutto il resto può darsi che non faccia parte di me, ma se tolgo da me il pensare non resta di me più nulla.

Quindi il pensare è la mia essenza, io sono un essere che pensa.

E la mela che cos’è? Ci devo pensare! La devo mettere in rapporto con altre cose, con lo stomaco, con l’organismo, con la natura, con la pianta da dove viene.

Quando invece dico: io penso, va tutto bene! Ho bisogno di una spiegazione? Ho bisogno di uscire dal pensare per dar ragione del pensare? No: «io sono un essere pensante» si regge su se stesso. Sono quell’essere che produce il pensare, e perciò penso anche sulla mela, anche sulle pere, anche sulle banane, dovunque mi giro mi ritrovo come essere che pensa.

Mi addormento e sono via, non ci sono problemi; mi risveglio, e subito mi ritrovo nel pensare. Qual è la mia essenza? Di produrre il pensare, di creare il pensare. Sono uno spirito (uso altre parole ma è sempre la stessa cosa) che origina il pensare creativamente, son fatto così – una gran bella cosa, ma son fatto così, non posso far altro che pensare, e nel mio pensare c’è sempre e soltanto quello che ci metto io.

Sì, però c’è anche dentro quello che la televisione ti ha detto!

Ma la decisione di recepire quello che dice la televisione è mia, sono io a mettere nel mio pensiero quello che c’è nella televisione. Uno lo fa, l’altro non lo fa, quindi è sempre l’essere umano che gestisce il suo pensiero.

Che poi certi contenuti del mio pensare siano maggiormente attivi, altri maggiormente passivi, questa è un’altra faccenda, ma sta di fatto che nel mio pensare c’è sempre e solo ciò che io ci metto.

Che poi lo faccia sgorgare direttamente da me o l’abbia recepito dal mondo, questa è un’altra questione. Sta di fatto che nel mio pensare c’è sempre e solo ciò che ci metto io, più o meno attivamente, più o meno passivamente, perché quando faccio la lista della spesa sta a me decidere se mando a ramengo la pubblicità della televisione o se ne tengo conto.

Con che cosa mando a ramengo la pubblicità della televisione? Col mio pensare. Con che cosa ne tengo conto? Col mio pensare. Quindi non posso mai uscire dal pensare. L’unica alternativa è di addormentarmi!

III, 20. Quando si prende il pensare come oggetto dell’osservazione

Noi stiamo osservando il pensare, stiamo facendo oggetto di percezione qualcosa che non viene percepito ma prodotto direttamente, creato direttamente, e quindi c’è un paradosso: il pensare sul pensare è un paradosso. Perché il pensare sul pensare ci presenta il pensare come percezione, però scopriamo che non è percezione: diventa percezione nel momento in cui è già pensato.

Però accorgendomi di questo ho la possibilità di tornare indietro un momentino e di sorprendermi mentre penso, e mentre penso il pensare non è una percezione ma è un puro creare.

(III, 20) «Quando si prende il pensare come oggetto dell’osservazione,»

(III,20) si aggiunge al restante contenuto osservato del mondo qualcosa che altrimenti sfugge all’attenzione; ma non si cambia il modo in cui l’uomo si contiene {si comporta, si rapporta} anche di fronte alle altre cose. Si aumenta il numero degli oggetti dell’osservazione ma non il metodo dell’osservare.

Quando io penso il pensare aggiungo un’altra percezione su cui penso, che è il pensare, ma il processo di pensarci sopra rimane sempre lo stesso.

Io non posso pensare sul pensare in altro modo che col mio modo di pensare su tutte le altre cose, perché non ci sono due modi di pensare. Lo stato di eccezione rispetto al pensare è che facciamo oggetto di osservazione ciò che di solito non facciamo oggetto di percezione; però, quando pensiamo sul pensare, il pensare sul pensare è un pensare diverso dal pensare che usiamo per tutte le altre cose? No! Non possiamo far altro che pensare sul pensare allo stesso modo in cui pensiamo sulle patate, sulle carote, su tutto il resto. Se no dovremmo diventare altri esseri per avere un altro modo di pensare.

Quindi il pensare è l’unico oggetto di pensiero sul quale possiamo rivolgere la stessa attività che lo produce. La digestione non la possiamo digerire, invece il pensare lo possiamo pensare.

(III,20) «Si aumenta il numero degli oggetti dell’osservazione, ma non il metodo dell’osservare {e il metodo dell’osservare è il pensarci sopra, è il pensare}».

(III,20) Quando si osservano le altre cose, si mescola nel divenire del mondo – in cui ora includo anche l’osservare – un processo che viene trascurato. È qualcosa di diverso da ogni altro divenire, qualcosa di cui non si tien conto.

Normalmente noi non osserviamo, non percepiamo il nostro pensare, perché rivolgiamo il pensare alle cose su cui pensiamo. Facciamo un’eccezione quando rivolgiamo il nostro pensare non alle cose ma al nostro pensare stesso – cioè quando ci chiediamo: che cosa faccio, io, continuamente, quando penso sulle cose?

E allora, in quel momento, invece di pensare sulle cose penso sul mio pensare sulle cose, però il mio modo di pensare sul pensare non può essere un altro, di natura diversa rispetto al mio modo di pensare su tutte le altre cose.

(III,20) Ma quando considero il mio pensare, non c’è più nessun elemento trascurato, poiché quello che ora rimane nello sfondo è a sua volta soltanto il pensare. L’oggetto osservato è qualitativamente uguale all’attività che su di lui si dirige.

In altre parole, quando io penso a una mela, e col pensiero voglio cogliere l’essenza della mela, ho un problemino, perché mi dico: ma come faccio, io, a sapere se un elemento puramente spirituale quale è il pensare (che non si può né mangiare, né tagliare a fette) può penetrare nella natura di qualcosa che è materiale come una mela?

Quindi il problema della conoscenza è la disparità, per lo meno apparente, tra un elemento puramente spirituale, che è il pensare, e le cose sulle quali pensiamo che invece sono materiali, o per lo meno ci appaiono materiali. Come posso io, con un processo puramente spirituale, capire la natura di qualcosa che è materiale? Come può il pensare capire la mela? Il pensare è spirituale, la mela è materiale: sono dispari l’uno verso l’altro.

Questo problema, questo grosso quesito, se il pensare sia lo strumento adatto per capire qualcosa che gli è del tutto estraneo, questo problema non ce l’ho quando penso sul pensare, perché resto nello stesso elemento.

Se il pensare non fosse competente sul pensare non sarebbe un pensare. Soltanto il pensare può essere competente in fatto di pensare, perché parla di se stesso. Quando pensiamo sul pensare è l’unica eccezione dove noi col pensare restiamo nello stesso elemento. In altre parole, quando pensiamo sul pensare andiamo a colpo sicuro.

Tutto quello che una persona dice sul suo pensare va benissimo! Non può essere sbagliato, perché non esiste il pensare in assoluto, ognuno parla del suo pensare, ci narra quello che sta tirando fuori.

Uno dice: sto pensando a una mela; ecco, qua c’è una mela, ed è bacata.

L’altro dice: no, ma non la vedi che è tutta sana?

Allora, pensate a una mela sana e all’altro che dice: io sto pensando che è una mela bacata. Se mi dice «io sto pensando che è una mela bacata» mi dice le cose giuste o le cose sbagliate? Mi dice le cose giuste, perché lui sta pensando che la mela è bacata.

Se poi il suo pensiero corrisponde all’oggettività della mela, questo è il problema della conoscenza di ogni cosa che sta al di fuori del pensiero. Ma non riguarda il processo di pensiero in quanto tale, perché se lui ha il pensiero di una mela bacata, ha il pensiero di una mela bacata, punto e basta!

In altre parole, ogni essere umano è nel suo pensiero a casa sua. Non sgarra, sa orientarsi in assoluto, perché per fare un’affermazione sbagliata dovrebbe dire: è una mela bacata, senza sapere cos’è una mela bacata. Ma se non sapesse cos’è una mela bacata non potrebbe parlare di mela bacata. Quindi se mi parla di mela bacata vuol dire che ha il concetto di mela bacata, e questo concetto è il contenuto del suo pensare in questo momento, e quindi va tutto bene.

Io magari gli dirò: guarda che tu stai parlando di un’altra mela, non di questa. E lui mi dice: affari miei. Benissimo.

Intervento: Ma se la mela non è bacata, perché il pensiero è sempre giusto?

Archiati: È sbagliato in riferimento alla mela, ma non in riferimento a quello che sta pensando. Lui questo sta pensando, e quindi riferito al suo pensare è sempre giusto!

Replica: Sarebbe giusto se lui dicesse che «sta pensando» a una mela bacata.

Archiati: Ma è questo che lui vuol dire: il contenuto del suo pensiero, in questo momento, è una mela bacata. Che poi il suo pensiero attuale non corrisponda a questa mela qui, è tutta un’altra questione – e stiamo proprio cercando di distinguere queste due questioni, altrimenti non torniamo indietro al pensiero in quanto tale, restiamo alle cose.

In altre parole, ognuno, quando pensa, in questo momento, pensa quel pensa, punto e basta. Non si può dire è giusto o sbagliato, è così com’è.

E perché è così com’è? Perché lo produce lui. O lei.

Quando poi cominciamo ad applicare i nostri pensieri, ciò che produciamo, agli oggetti del mondo, allora in questo rapporto con gli oggetti del mondo si pone la questione: calza o non calza? Ma non è di questo che stiamo parlando, stiamo parlando dei contenuti del pensare come prodotti dall’individuo pensante stesso, che son di volta in volta quelli che sono.

Adesso tu dicevi: no, questa mela non è bacata è sana. E se lui ti dice: sì, per te che sei abituata a mele che ormai veramente buone non sono più, per te è sana questa mela. Però io ti dico che conosco delle mele che sono tre volte più sane di questa mela qui, perciò in paragone a quelle che io di solito mangio questa mela qui è veramente bacata.

Tu che gli dici?

Replica: Che ha ragione.

Archiati: Vedi? Però così si entra nel merito del rapporto tra il processo di pensiero e l’oggetto su cui si pensa, e non è di questo che stiamo parlando: stiamo parlando del contenuto del pensare. E il contenuto del pensare è così come ognuno lo produce, tale e quale.

Intervento: Ma se uno mi dice: il tuo vestito è giallo, e invece è blu?

Archiati: Se quello ha una fisiologia, conosciamo i daltonici, per cui ai suoi occhi appare giallo, per lui è giallo.

Intervento: E se c’è un triangolo e mi dice che è un quadrato?

Archiati: E beh, che hai in contrario? Ciò che tu chiami triangolo lui lo chiama quadrato, e viceversa. Bisogna allora chiedere: cosa intendi tu per triangolo? Cosa intendi tu per quadrato? Ma questa, lo ripeto, è una disamina sul rapporto tra il pensare e i contenuti del mondo. Noi, invece, stiamo parlando del pensare.

Quindi, se qualcuno mi dice che un triangolo ha quattro lati, la domanda sul pensare non dice: è giusto? non è giusto?, perché questa è una domanda successiva. La domanda sul pensare è: un momento, che tipo di pensiero è un triangolo a quattro lati? A cosa stai pensando? Descrivimi un po’ meglio a cosa pensi. Cosa intendi, tu, per triangolo?

Vedi che allora lasci via questo dogmatismo che appiccica subito «giusto» o «sbagliato» e ti occupi di quello che lui sta elaborando nel suo pensiero – e son due questioni del tutto diverse. Perché allora gli posso dire: ah! adesso ho capito, quello che tu chiami triangolo io lo chiamo quadrato. E allora va tutto bene.

Perché deve lui chiamare triangolo ciò che tu chiami quadrato, anziché tu adattarti a lui e chiamare quadrato ciò che tu chiami triangolo? Perché devi imporre a lui i tuoi concetti anziché convincerti dei suoi concetti?

(III,20) L’oggetto osservato è qualitativamente uguale all’attività che su di lui si dirige, questa è un’altra proprietà caratteristica {cioè esclusiva} del pensare. Quando lo rendiamo oggetto dell’osservazione non ci vediamo obbligati {indotti} a ricorrere all’aiuto di qualcosa di qualitativamente diverso, ma possiamo rimanere nel medesimo elemento.

Siccome io, per pensare sul pensare, uso il pensare, non mi servo di nulla di estraneo al pensare e quindi non ho il problema di dire: ma io uso uno strumento non adatto, uno strumento non idoneo, uno strumento che non combacia con l’oggetto su cui penso. No, se uso il pensare per pensare sul pensare, vado a colpo sicuro, perché sul pensare penso col pensare.

Le affermazioni che il pensare fa sul pensare sono competenti per natura, perché parla di sé, è una autoespressione del pensare, non subentra nessun elemento di estraneità, di incommensurabilità.

Se invece io penso su una mela, dico: ma come sono commensurabili il pensare del tutto spirituale, che molti pensano sia addirittura soggettivo, e la mela, che è qualcosa di materiale? È uno strumento adatto, il pensare, per capire la mela?

Invece, quando io penso sul pensare so subito che il pensare è lo strumento più adatto per capire il pensare, perché è lo stesso elemento.

E cosa pensa il pensare sul pensare? Cosa ci dice il pensare sul pensare? Ci dice: è ciò che io stesso continuamente produco.

Cos’è il pensare? È ciò che io faccio continuamente, è l’attività che adopero pensando su tutte le cose che ci sono. Io sono pensante su tutto.

Sì, però io ho anche dei sentimenti! Eh bravo! Cosa stai facendo in questo momento? Stai pensando sui sentimenti e non te ne accorgi, perché è caratteristico del pensare che si rivolge alle cose su cui pensa e disattende se stesso.

E perché disattendiamo il pensare? Perché ci è troppo vicino, siamo noi stessi, è la nostra natura, non possiamo far altro! E siccome andiamo così a colpo sicuro non lo notiamo.

Quando va tutto bene non notiamo il violino, godiamo la musica: quand’è che si nota il violino? Quando si intoppa!

Come mai non notiamo il pensare? Perché va tutto bene.

Intervento: Ce ne accorgiamo quando ci intoppiamo.

Archiati: E quand’è?

Replica: Quando ci accorgiamo di un errore e diciamo: dove ho sbagliato?

Archiati: Quindi l’intoppo del pensare è l’errore. Ma prima dicevo che andiamo sempre a colpo sicuro sul pensare. Com’è l’errore?

Replica: Col pensare andiamo sempre a colpo sicuro, è con l’esercizio del pensare che puoi sbagliare...

Archiati: No, no, no. Il pensare come attività va sempre a colpo sicuro perché è così com’è. Invece il pensato, cioè gli oggetti su cui pensiamo, quindi le cose che dico sulla mela possono essere vere o sbagliate riguardo alla mela.

Replica: Eh, l’esercizio...

Archiati: No, no. L’oggetto del pensare, i concetti, i prodotti del pensare possono essere più o meno giusti, ma non il pensare, perché il pensare è un’attività. E qual è l’intoppo dove ci accorgiamo del pensare?

Il sonno.

Nello svegliarmi mi accorgo che c’è stato un intoppo, c’è stata un’interruzione, e questa attività assoluta ricomincia. Ma in quanto attività è senza intoppi, fino al prossimo addormentamento.

E l’errore non intoppa nulla, l’errore non è d’intoppo a questa attività: io ho la percezione di essere pensante quando mi sveglio, poi, fino ad addormentarmi, se non ci fosse il dormire, se non ci fosse l’interruzione della coscienza pensante, non potremmo avere la coscienza dell’io pensante.

Abbiamo la coscienza dell’io pensante soltanto perché c’è ogni notte l’intoppo: si ferma. Come la corda del violino che si spezza e lì ti accorgi del violino, prima non ci badavi: Il motivo per cui noi disattendiamo il pensare è che dalla mattina alla sera pensiamo senza intoppi, senza una minima interruzione del processo di pensiero, dell’attività pensante.

E gli errori di pensiero riguardano i contenuti, gli oggetti su cui pensiamo, ma non riguardano l’attività pensante. L’attività pensante resta illesa dal momento del risveglio fino all’addormentarsi, del tutto illesa, e ognuno ha l’attività pensante che ha, non c’è santi.

Nel momento in cui io, facendo questa attività pensante oggetto di osservazione, penso al mio essere un essere pensante, mi accorgo che è possibile prendere in mano questa attività pensante per renderla sempre più forte, più attiva, più profonda , più vasta ecc.., ma non posso uscire da me stesso come essere pensante.

Posso imparare a pensare meglio, più coerentemente, ecc., ma non posso uscire dal fatto di essere un essere pensante, dovrei smettere di essere un uomo, un essere umano.

Quindi nel pensare i pensieri possono essere errati, ma il pensare non può mai essere errato perché è un’attività.

Intervento: Il pensare non può sbagliare perché i contenuti sono infallibili...

Archiati: No, no, l’attività è sempre illesa.

Replica: Sì, però è l’uso che ne fa l’essere pensante che può essere sbagliato, cioè il prodotto, i pensieri che partorisce.

Archiati: Quindi se io dico nel mio processo pensante che questo oggetto qui (vedete bene che è un pezzo di gesso) è una mela, voi direte che sto pensando da matto, però non potrete mai dire che non sto pensando. Dire che sto pensando da matto è una conferma del fatto che sto pensando.

E se voi mi dite no, non è una mela è un pezzo di gesso, con che cosa me lo dite? Col vostro pensiero, col vostro processo di pensiero: quindi bisogna distinguere l’attività del pensare, in quanto attività, dai prodotti, dai contenuti che sortisce questa attività. Son due cose del tutto diverse.

E dall’attività pensante l’essere umano esce soltanto quando si addormenta, cioè quando interrompe la coscienza. Finché c’è la coscienza umana, è una coscienza pensante.

(III,20) «Quando lo rendiamo oggetto dell’osservazione, non ci vediamo obbligati a ricorrere all’aiuto di qualcosa di qualitativamente diverso, ma possiamo rimanere nel medesimo elemento».

Rivolgo la mia attività pensante sulla mia attività pensante, penso il mio pensare, ma non esco dalla stessa attività.

Intervento: Non si è mai soli.

Archiati: Non si è mai soli, se vuoi. Come risvolto psicologico, però, del pensare.

III,21. Quando un oggetto, dato al di fuori di qualsiasi mio intervento, viene da me preso entro la trama del mio pensare, io vado al di là dell’osservazione e vien fatto di domandare: «Che cosa mi autorizza a far ciò? perché non lascio l’oggetto agire semplicemente su di me?

Io osservo una mela, però, pensando sulla mela, creando il concetto di mela, vado al di là di quello che osservo: infatti osservo una mela e poi ci penso sopra. Ma allora, sono con la mela o sono col pensiero? La mela è una cosa, il mio pensiero è un’altra cosa, sono del tutto incommensurabili, no? Lo dicevo prima: come fa un elemento spirituale a cogliere la natura di qualcosa che è materiale? Non calza, no? Lì ho problemi grossi.

Perché non lascio decidere alla mela che cosa farmi? Perché impongo il mio pensare alla mela, e il pensare dice: questa è una mela? Ma vacci piano, lasciala fare ‘sta mela, e se quella è una pera? Se è un’allucinazione?

(III,21) in che modo è possibile che il mio pensare abbia un rapporto con l’oggetto?». Queste sono domande che si deve porre chiunque rifletta sui processi del suo proprio pensiero. Ma esse cadono quando si rifletta sul pensare stesso. Noi non aggiungiamo nulla di estraneo al pensare {quando pensiamo sul pensare}; quindi non c’è bisogno di giustificarsi di una simile aggiunta.

Quando io penso sulla mela aggiungo alla mela un elemento che le è, per lo meno apparentemente, del tutto estraneo. Quando io penso sul pensare non aggiungo al pensare un elemento estraneo, resto nello stesso elemento.

E allora cos’è il pensare?

Vedo una mela e mi chiedo: che cos’è? È una mela.

Vedo il pensare, osservo il pensare e mi chiedo: che cos’è? Risposta: è quello che faccio sempre!

È chiaro, no? Neanche quando penso sul pensare posso uscire dal pensare, perché soltanto col pensare posso pensare sul pensare.

Penso alla mela? Con che cosa mi riferisco alla mela? Col pensare.

Sì, però la mela ha un buon gusto, mi piace!

Cosa stai facendo? Stai pensando al piacere che la mela ti dà. Se tu al piacere che la mela ti dà non ci pensi, c’è lo stesso il gusto? È mezzo gusto, perché un gusto non portato a coscienza è un terzo di gusto, via!

Prendiamo un esempio: una persona è abituata a gustarsi tantissimo il tiramisù, e non l’ha mai mangiato senza portare a coscienza questo gusto. Una volta, come eccezione, è venuto l’amico più caro, e mangia il tiramisù senza notare il gusto. Sente il gusto? No. No.

Voi direte: ma il corpo lo vive il gusto! Sì, però non è quello che noi intendiamo quando diciamo mmmhh, come è buono! Questo mmmhh come è buono!, sopravviene soltanto quando io ci penso, lo porto a coscienza. Se il processo pensante proprio non c’è, perché quello che l’altro mi sta dicendo è così interessante che io neanche noto il tiramisù che sto mangiando, non lo sto gustando. E di fatto non lo sto gustando come al solito, lo sto mangiando ma non gustando.

Quindi il pensare è essenziale per tutti i fenomeni che l’essere umano vive, e in questo momento io sto pensando a quello che lui mi dice e non al tiramisù.

Se voglio godermi tutte e due le cose cosa devo pensare? Le posso pensare solo una dopo l’altra, e allora gli dico: aspetta, fermati un po’, è interessantissimo quello che tu dici... ma io adesso sto mangiando il tiramisù, e me lo voglio godere! Me lo son goduto, e adesso parla.

Cosa ho fatto? Prima le due cose erano parallele, quindi son stato costretto a pensare sull’uno e a mandare a ramengo l’altro; adesso invece coscientemente dico: no, prima fammi afferrare col pensiero la prima cosa, il tiramisù, e poi afferro con la coscienza la seconda cosa, e allora me le godo tutte e due – ma me le godo tutte e due soltanto perché sono presente a tutte e due con il processo di pensiero.

Intervento: Stai introducendo anche la categoria dell’attenzione.

Archiati: Eh certo, pensare è attenzione! Tu vorresti far attenzione a qualcosa senza pensare?

Intervento: Può l’esercizio del pensare sul pensare diventare nocivo per il pensiero?

Archiati: Devi dirmi cosa tu intendi per nocivo.

Replica: Un male.

Archiati: Un male! Abbiamo appena detto che non ci sono mali nel pensare.

Replica: Allora quando è nocivo?

Archiati: Mai! Detto in altro modo, nel pensare, tutto quello che c’è, va bene. Quindi le uniche cose nocive al pensare sono i buchi, cioè ciò a cui non si pensa. Ma ciò a cui si pensa va sempre bene, perché è un esercizio di pensiero, è un esercizio del pensare. Quindi nel pensare, per usare una categoria religiosa, ci son solo peccati di omissione, mai di commissione.

L’ho detto prima, neanche l’errore, perché l’errore è una faccenda del rapporto tra il pensare e l’oggetto, ma non del pensare in quanto tale.

Sul pensare si possono dire soltanto cose positive.

Io penso, dunque sono e sono nella misura in cui penso, con l’intensità che ci metto nel pensare. L’unico male del pensare sono i buchi, l’esercizio di pensiero che sarebbe stato possibile e che ho omesso – per pigrizia, per disattenzione, poltroneria, inerzia, quello che si vuole.

III, 22. Schelling dice: «Conoscere la natura significa creare la natura».

Erano spiriti energumeni, questi idealisti tedeschi, Fichte, Schelling, Hegel, questa triade. Io ho imparato il tedesco da studente, cominciando qui a Roma, perché volevo leggere questi signorini in tedesco, soprattutto Fichte, per quanto mi riguardava.

La natura è il mondo della percezione: ora Schelling, nella sua esuberanza, dice che conoscere la natura significa creare la natura, però noi la natura non la possiamo creare, è già creata. La natura la possiamo soltanto percepire.

C’è una cosa che noi creiamo senza che prima ci sia? Certo, è il pensare!

Viene introdotta un’altra categoria: il pensare, cioè il processo conoscitivo, la conoscenza, è la creazione specifica dell’uomo. Il pensare umano è creato dall’uomo, perché senza l’uomo non c’è il pensare umano, senza l’uomo non c’è la conoscenza umana.

Tutta la natura, invece, è oggetto del pensiero, ma l’elemento che pensa sulla natura lo crea dal nulla l’uomo, l’essere umano.

Il pensare umano è una creazione dal nulla compiuta dallo spirito dell’uomo, quindi la conoscenza è la creazione specifica dell’essere umano. L’essere umano crea nel mondo il pensare umano.

E come è fatto il pensare umano?

Il pensare umano ha la caratteristica specifica di congiungere la percezione col concetto, quindi la percezione viene presupposta. Il mondo della percezione, cioè il mondo della natura, viene presupposto.

L’essere umano percepisce, osserva, guarda il mondo della natura, il mondo della percezione, ci pensa sopra e dice col pensare: cos’è questo? cos’è quello? Questa è una mela, questa è una pera, questo è un essere umano, questa è una macchina, questo è un albero ecc….

E congiunge percezione con concetto.

Questa creazione del pensare, questa creazione della conoscenza umana che congiunge percezione con concetto è una creazione specifica dal nulla dell’essere umano, dello spirito umano.

Allora: (III,22) «Schelling dice: conoscere la natura significa creare la natura».

(III,22) Chi prendesse alla lettera queste parole dell’ardito filosofo della natura dovrebbe rinunziare per tutta la vita ad ogni conoscenza della natura stessa {perché per creare la natura bisognerebbe presupporre che la natura non c’è: soltanto una natura che non c’è può venir creata dall’uomo, ma se c’è già non la può creare l’uomo}. Infatti la natura già esiste, e per crearla una seconda volta bisognerebbe conoscere i principi secondo i quali è sorta. Per la natura che ora si volesse creare, bisognerebbe cercare le condizioni d’esistenza in quella che già esiste. Questa ricerca, che dovrebbe precedere il rifacimento, sarebbe però la conoscenza della natura persino nel caso che dopo la ricerca si rinunziasse completamente al rifacimento. Solo una natura non ancora esistente potrebbe essere creata senza precedentemente essere conosciuta.

In altre parole l’essere umano può conoscere solo ciò che c’è.

C’è una cosa sola che può conoscere senza che prima ci sia, ed è quello che crea lui, ed è il pensare.

Però il paradosso è che anche per conoscere il pensare, che creiamo spontaneamente, dobbiamo acchiapparlo dalla parte della percezione. Dobbiamo percepire il già pensato per avere la percezione del pensiero, e questo che percepiamo ci rimanda alla sua origine e dice: no, il pensato mi si presenta come percezione ma in origine era la creazione mia.

Anche per conoscere il pensare partiamo dalla percezione del pensare. E ci rendiamo conto che ciò che percepiamo nel pensare non è una realtà che già esiste senza di noi, ma è una realtà che continuamente noi creiamo. E un secondo dopo che la creiamo fa parte del creato, fa parte della natura creata.

È possibile una contemporaneità tra il pensiero che percepisco, quindi già pensato, e il pensiero che creo?

Questa velocità farebbe uscire lo spirito umano dal tempo, perché il concetto di tempo è quello scarto, quel passaggio che c’è tra il pensiero che produco e il pensiero già pensato.

Esuliamo dall’umano, esuliamo dal tempo, quando parliamo di contemporaneità assoluta: se vogliamo, è il concetto di coscienza divina, del modo di pensare divino – però non un Dio astratto, oltre l’umano, ma il pensiero divino in quanto conseguenza ultima del pensare percepibile e pensabile dall’uomo.

Se noi diciamo che c’è uno scarto, c’è un divario, c’è un lasso di tempo benché minimo tra ciò che ho già pensato e che percepisco, e il pensare attuale come attività pura, allora possiamo creare il concetto di un pensare perfetto che si percepisce e si guarda nel mentre crea.

È una velocità dello spirito, di autopresenza così vertiginosa che sorpassa ogni lasso di tempo! Ed è il concetto della perfezione dello spirito creatore. Però questo concetto lo creiamo partendo dal lasso di tempo che percepiamo, che abbiamo reale nell’auto-introspezione che ci dice: no, il pensiero su cui penso è già stato pensato e non posso essere così veloce d’acchiapparmi mentre penso. Per farlo dovrei essere puro spirito!

Intervento: Perché nella Bibbia i due momenti sono separati? «E Dio guardò quello che aveva creato», non mentre lo stava creando. Se Lui è puro spirito?

Archiati: Sì e no, perché si tratta della creazione dell’elemento materiale. Cioè la materia, il mondo della materia (qui son concetti un po’ difficilini, ve li butto lì), l’elemento della materia è il lasso di tempo che permette allo spirito umano di guardare la creatività dello spirito.

Finché la Divinità non ha condotto la creazione nell’elemento dello spazio e del tempo, c’era questa contemporaneità, è chiarissimo.

Quindi per chi è stato creato questo lasso di tempo dello spazio e del tempo? Per l’uomo.

Per amore dell’uomo la divinità ha creato un mondo che prima bisogna crearlo e soltanto dopo lo si può osservare. Perché l’uomo è quello spirito che diventa cosciente di sé soltanto nell’interazione tra percezione e concetto.

Quindi la Divinità ha creato il mondo della percezione, che non è la creazione in assoluto. Steiner ti squaderna una prima creazione saturnia, dove non c’era nulla di questo lasso di tempo tra la percezione e il concetto; poi una creazione solare, una creazione lunare, e soltanto quando la creazione diventa a misura d’uomo, ed è la creazione terrestre di cui parla la Bibbia, sorge questo lasso di tempo.

Intervento: Lo spazio sarebbe il tempo dilatato e rallentato.

Archiati: «Dilatato» è un concetto riferito allo spazio, «lento» è un concetto riferito al tempo. Quindi la dilatazione e la lentezza dello spirito divino sono amore verso lo spirito umano che deve andare un po’ più lento e un po’ più dilatato, altrimenti non sarebbe in evoluzione, sarebbe già spirito divino – e non ci sarebbe gusto!

Cos’è l’evoluzione?

Il lasso di tempo, concesso agli spiriti umani per diventare sempre più creatori. Il lasso, latum, di tempo: spazio e tempo. La creazione è il modo divino di dar spazio e tempo all’evoluzione dello spirito umano.

E quando lo spirito umano si è evoluto fino alla fine sparisce lo spazio, sparisce il tempo.

Replica: Quindi la teoria della relatività.

Archiati: Se vuoi. Però Einstein l’ha espressa in modo del tutto astratto, indipendente dallo spirito umano, mentre tutto è relativo allo spirito umano.

Replica. Einstein l’ha espressa tramite formule matematiche.

Archiati: Materiali, senza riferimento all’evoluzione dello spirito umano – il che non ha senso. Il mondo dello spazio e il mondo del tempo sono relativi all’evoluzione dello spirito umano: allora sì!

Intervento: Abbiamo uno spazio-tempo che varia in funzione dell’evoluzione e che quindi non è costante, diciamo che forse si accelera.

Archiati: Quanto tempo ci mette un essere umano a capire qualcosa?

Intervento: Quello che ci vuole.

Archiati: Uno fa più presto, l’altro ci mette più tempo. Il tempo cambia? È relativo?

Intervento: Un’ora è di sessanta minuti.

Archiati: Non esiste un’ora di sessanta minuti. Cioè, ogni ora ha sessanta minuti, però non esistono mai due minuti ugualmente lunghi, ugualmente corti. Se io sto aspettando una telefonata importantissima, che già aspetto da due o tre giorni, un minuto è un’eternità. Se sto mangiando il miglior gelato del mondo un minuto mi sembra tre secondi.

Cos’è il tempo?

A volte in Germania dico: facciamo una pausa di sette minuti e mezzo italiani. E loro mi chiedono: quanto durano sette minuti e mezzo italiani?

Intervento: Il doppio di quelli tedeschi.

Archiati: No. Io gli rispondo: quanto durano si sa sempre dopo!

Il discorso sullo spazio e sul tempo è altrettanto difficile quanto il discorso sulla materia.

Facciamo una pausa.

*******

Qualcuno voleva che io presentassi l’altro nuovo libro. Naturalmente sopra c’è scritto Rudolf Steiner, quindi posso permettermi di raccomandarlo in un modo tutto particolare.

Questo secondo libro nuovo è intitolato Tra destino e libertà - Fondamenti di scienza karmica[5]. Coloro che appartengono alla schiera eletta degli iniziati antroposofici, numerosi qui in sala, l’oratore escluso, ricorderanno che ci sono sei volumi sui Nessi karmici[6].

Il primo volume comincia con sei conferenze di fondazione che trattano le leggi fondamentali del karma: queste sei conferenze sono racchiuse in questo libro.

La prima conferenza è semifilosofica, anzi per tre quarti filosofica, e non bisogna lasciarsi scoraggiare: tratta aristotelicamente e tomisticamente i quattro tipi fondamentali di causalità: 1) la causalità dell’io che va da una vita all’altra, la causa è in una vita, gli effetti nella vita successiva; 2) la causalità nell’eterico che è contemporanea, le cause sono nel vivente e gli effetti sono nel fisico; 3) la causalità del corpo astrale che va dal pre-natale, da prima della vita, alla vita; 4) la causalità al livello fisico dove sia le cause sia gli effetti, sia la pedata, sia il sasso che si sposta, sono nel mondo fisico.

Stabilito questo, Steiner si immerge poi nelle leggi fondamentali del karma. Sono sei conferenze veramente bellissime e fondamentali, vanno studiate.

Per esempio, una conferenza è su come destino e libertà, karma e libertà, si richiamano a vicenda; un’altra conferenza è sul nesso che c’è fra tre vite successive (l’amore in una vita porta la corrispondente gioia nella seconda vita e poi nella terza l’apertura al mondo).

Così come nello studio della natura, nelle scienze naturali, ci sono delle leggi fondamentali (la gravità, ecc.), così ci sono leggi fondamentali nel modo di svilupparsi del destino e del karma. Costa 8 euro.

Intervento: Qual è la differenza con le stesse conferenze dei Nessi karmici?

Archiati: La differenza è che questo è un testo migliore.

Replica: In che senso?

Archiati: La differenza non è come quella cui accennavo tra Budda e Cristo e Il Vangelo di Luca dell’Opera Omnia. Queste son conferenze che Steiner ha tenuto verso la fine della sua vita, quindi c’era già la stenografa ufficiale che si chiamava Helene Finck, però noi avevamo in mano tre, per alcune conferenze addirittura quattro stenogrammi diversi. Una cosa particolare di questo volume è che nell’Opera Omnia non trovate tutti i disegnini che Steiner aveva fatto alla lavagna, qui invece ce li abbiamo messi tutti, per esempio un elefantino in riferimento al quale Steiner dice: in certi posti della Terra ci sono le forze che fanno crescere l’elefante, e queste forze lavorano anche sull’uomo, anche se l’uomo non se ne accorge.

Tutti i disegni che abbiamo qui sono un ricalco dei disegni fatti da Steiner: questo elefantino qui (a pag. 46 del libro) l’ha disegnato alla lavagna in un angolino, perché non aveva più posto, e siccome stava in un angolino, l’Opera Omnia l’ha lasciato via. Invece noi ce l’abbiamo messo, perché è tutto un altro modo di interagire con gli ascoltatori quando Steiner al contempo fa disegni alla lavagna.

Quindi, per chi legge queste conferenze e vuole ricostruire un pochino questa interazione vivace tra il conferenziere e il pubblico, è interessante sapere non soltanto che c’è stato un disegno, ma come l’ha fatto. Sono quattro o cinque i disegni che abbiamo inserito.

Però nel testo non troverete grosse differenze perché nell’Opera Omnia non è stato redatto come i primi volumi dove c’era una forte redazione.

Considerate poi il fatto che noi facciamo dei paragrafi più corti e consoni all’uomo d’oggi che non è capace di forte concentrazione. L’Opera Omnia ha pagine intere senza capoversi. Ora, l’oratore non fa capoversi, né pochi né molti, però il modo di fare una redazione è molto importante per l’uomo d’oggi.

Poi considerate il prezzo, la veste... tutti elementi che per l’umanità di oggi hanno una grande importanza.

Intervento: E poi ci sono le tue presentazioni.

Archiati: Ah, bravo! Considerate il lavoro del redattore, Pietro Archiati in questo caso, che vi ha fatto per ogni conferenza non soltanto dei bei titoli, ma proprio dei riassunti che permettono di orientarsi subito. E questo è molto importante. Diverse persone in Germania mi hanno detto: già solo l’Indice aumenta enormemente il valore di questi libri. Un piccolo sommario del contenuto della conferenza c’è anche nell’Opera Omnia, però non aiuta più di tanto: bisogna già sapere qual è il contenuto per poterne trarre vantaggio. Invece l’Indice che faccio io è proprio per orientare il lettore, anche per leggere selettivamente: mi interessa questo argomento, il resto lo leggerò magari dopo, ecc.

Questi son tutti tratti distintivi dell’Archiati Edizioni. Considerate che già il testo della quarta di copertina (normalmente noi prendiamo un paio di frasi di Steiner dette nelle conferenze) vuol dire moltissimo. Vi faccio un esempio: adesso stiamo stampando due testi fondamentali sull’evoluzione, due corsi di conferenze dove Steiner racconta vivacemente i contenuti della Scienza occulta – che è un tomo difficile da digerire.

Per ogni libro che ha scritto, Steiner ha fatto parallelamente dei corsi di conferenze dove esprime i contenuti dei libri in un modo che per l’uomo d’oggi è molto più facile. Nel secondo di questi cicli di conferenze a Lipsia, dice alla fine: coloro che coltivano la scienza dello spirito sono persone intelligenti soltanto se fanno un po’ come i primi cristiani, che non sono scesi a compromessi con lo spirito del potere di questo mondo, con lo spirito romano, e sono andati a finire a dover vivere nelle catacombe. Quindi uno è un bravo antroposofo soltanto se sa reggere l’ira e la derisione dei benpensanti di questo mondo, perché la cultura dei romani di allora derideva questi cristiani come una setta di stupidi. Immaginate voi che la Presidenza di Dornach, su un volume di Steiner, stampi queste poche frasi mettendole in rilievo, quando invece sta facendo tutto uno sforzo per rendersi appetibile sulla scena di questo mondo?

Noi, nell’Archiati Edizioni, ci siamo chiesti: lo mettiamo come quarta di copertina? Sono decisioni enormi, perché mettendo in quarta di copertina il fatto che un cultore di scienza dello spirito deve sapere che non può aspettarsi dal mondo accademico ufficiale che derisione, significa accettare che si può coltivare la scienza dello spirito soltanto avendo un po’ le spalle per un certo tipo di solitudine. D’altra parte, se non si ha il coraggio di mettere in rilievo queste cose, si annacqua un impulso a un punto tale che poi non resta più nulla.

Questo è un tentativo per dirvi che ci sono differenze sostanziali anche se i pensieri di Steiner più o meno sono gli stessi che trovate nell’Opera Omnia. Ma se considerate tutto lo spirito che c’è intorno, saltano fuori differenze fondamentali.

Il nostro pensiero non è che Archiati Edizioni è migliore dell’Antroposofica, o viceversa, non è questo il discorso. Il discorso è: ogni tipo di monopolio è contro le leggi della vita spirituale, della vita culturale veramente libera. Il monopolio non sopporta alcun tipo di variazione, di varietà. Per noi era importantissimo che nascesse almeno un’alternativa a questo monopolio di Dornach che dura da un secolo, per portare all’umanità questa scienza dello spirito, la cui legge è la libertà spirituale. E appena ci siamo presentati ci hanno fatto un processo! Cose allucinanti, soltanto perché il monopolio si rompeva. Per fortuna hanno perso subito il processo, e adesso ci lasciano in pace.

Tra l’altro, la Società Antroposofica Italiana, lo ripeto, ha calunniato l’Archiati Verlag (l’Archiati Edizioni) e me scrivendo che noi abbiamo perso il processo[7]. Questa è una menzogna, e non c’è stato nessun antroposofo che ha fatto presente alla Società Antroposofica che hanno scritto una menzogna. Non c’è stato nessun antroposofo che si sia presentato e abbia fatto correggere questa menzogna. E sono passati più di due anni. Questo per dire quanto siano settari e farisaici gli antroposofi italiani, compresa, soprattutto, la Società Antroposofica italiana. Questa calunnia l’hanno stampata sul bollettino della Società Antroposofica italiana. Il sito www.liberaconoscenza.it ha fatto presente questa menzogna, ha portato a conoscenza il verdetto del tribunale di Monaco: mica hanno cambiato nulla. Niente. Peggio della Chiesa cattolica, della Santa Sede che è per definizione infallibile.

C’è chi dice: ma se ‘sto Archiati lasciasse in pace la Società Antroposofica, sarebbe una gran bella cosa! Sì, ma loro stampano una calunnia, una menzogna nei miei confronti e io dovrei star zitto? Chi credono di essere questi signorini? Sono peggio dei vescovi e degli arcivescovi della Chiesa cattolica.

È una cosa orripilante, scusate! Facciamo scienza dello spirito e c’è una marea di antroposofi che dormono. Le pecorelle di Milano sono peggio delle pecorelle di Roma.

Venerdì 15 febbraio 2008, sera

Allora, riprendiamo subito la lettura:

III,23. Quello che con la natura è impossibile – il creare prima di conoscere – col pensare noi lo facciamo. Se volessimo aspettare di conoscere il pensare prima di pensare, non arriveremmo mai a pensare. Dobbiamo risolutamente pensare per poter poi, per mezzo dell’osservazione di ciò che noi stessi abbiamo fatto, arrivare alla conoscenza di esso. Per l’osservazione del pensare dobbiamo noi stessi creare prima un oggetto. Per l’esistenza di tutti gli altri oggetti è stato invece provveduto senza la nostra cooperazione.

III,24. A questa mia proposizione riguardante il pensare si potrebbe facilmente contrapporre come ugualmente giustificata la seguente altra: «Anche per digerire non si può aspettare di aver osservato il processo della digestione». Sarebbe però un’obiezione simile a quella che Pascal faceva a Cartesio contrapponendogli il detto: «Io vado a passeggio, dunque sono». Senza dubbio, devo ben digerire prima di studiare il processo fisiologico della digestione {devo ben andare a passeggio prima di studiare la passeggiata, perché prima di andare a passeggio la passeggiata non c’è e non posso pensarci sopra}, ma il paragone col pensare reggerebbe soltanto se io poi volessi non considerare col pensiero la digestione, ma mangiarla e digerirla {se io non volessi pensare sulla passeggiata, ma passeggiare la passeggiata}.

Come si fa a passeggiare la passeggiata? Non si può passeggiare la passeggiata, non si può digerire la digestione, son cose assurde. Quindi il pensare è l’unica cosa che fa di tutte le cose oggetto della propria riflessione, compreso il pensare. L’unica cosa: è questo lo statuto, la posizione unica, particolarissima del pensare.

(III,24) E non è senza ragione il fatto che la digestione non può divenire oggetto del digerire, mentre il pensare può benissimo divenire oggetto del pensare.

III,25. È dunque indubitato {indubbio} che col pensare noi teniamo il divenire del mondo per un lembo, dove noi dobbiamo essere presenti se qualcosa deve prodursi.

Cioè il pensare è un frammento di evento cosmico, di divenire del mondo, ed è l’unico frammento di divenire del mondo che creo io, tutto il resto lo trovo.

Pascal diceva: io vado a passeggio, dunque sono. Ma la differenza è che quando io dico «io penso» parlo di una cosa che c’è in tutto e per tutto tramite me, e non c’è per nulla senza di me. Questo è il mio pensare.

Invece, perché io possa andare a passeggio, debbono concorrere molti fattori che non dipendono da me: per esempio ci devono essere le gambe – io non posso identificare le mie gambe con me, perché le mie gambe non sono unicamente prodotto del mio spirito.

Invece il mio pensare è unicamente prodotto del mio spirito. Quindi il pensare è la sola creazione che è in tutto e per tutto mia. Il camminare non è un’attività al 100% mia.

Qualcuno dirà: però anche il pensare non è al 100% una mia attività. Invece non è vero: il pensare di una persona è al 100% la sua attività, e il pensare che manca è una mancanza della sua attività.

Al mio pensare non concorre nessun’altra causa, nemmeno al 2%, fuorché io stesso in quanto spirito pensante. Una gran bella cosa!

Il pensare è l’unica cosa che ho in mano in tutto e per tutto io, dove avviene unicamente quello che ci metto io, dove ci manca unicamente quello che non ci metto io. Nel mio pensare non ci può mettere mano nessun altro, neanche per un minimo, neanche per lo 0,5 %.

Dal di fuori mi possono venire percezioni su cui io penso, ma il processo pensante su queste percezioni è tutto mio. I pensieri di un altro per me son percezioni, ma non concorrono, non gestiscono, non fanno parte in nulla del mio processo pensante: sono percezioni, mi sono esterne.

Da questo risulta che uno può dire: nel mio pensare sono assolutamente libero, perché nessun altro essere ci può mettere dentro il becco, o le mani, o la grinfia, neanche minimamente.

Nel mio pensare avviene solo e unicamente quello che faccio io. Per tutte le altre cose ci sono concorsi, ci sono contributi da diverse parti, devo fare i conti col mondo; riguardo al pensare devo fare i conti unicamente con me stesso.

(III,25) «È dunque indubitato che col pensare noi teniamo il divenire del mondo per un lembo, dove noi dobbiamo essere presenti {attivi, produttivi} se qualcosa deve prodursi».

(III,25) E questo è proprio quel che importa. Questa è appunto la ragione per cui le cose stanno di fronte a me così enigmatiche: cioè che {il motivo è che} io non prendo alcuna parte al loro prodursi.

La differenza tra la mela e il mio pensare è che la mela è sorta senza di me. Come faccio, io, a essere competente in fatto di mela se è sorta senza di me? Chi l’ha fatta sorgere è molto più competente che non io.

Sommamente competente sono io rispetto al mio pensare perché sono io a crearlo. Invece le cose me le ritrovo.

(III,25) Me le trovo semplicemente davanti; del pensare, invece, io so come si produce. E perciò l’unico punto di partenza originario per la considerazione di tutto il divenire del mondo è proprio il pensare.

Prendiamo l’esempio concreto, semplice, della spesa quotidiana, ma stavolta un pochino più strutturato: la mamma, o l’adulto in generale, va a far la spesa col bambino piccolo e col cagnolino.

Noi non ci rendiamo conto di quanti pensieri accompagnano il far la spesa, perché siamo abituati a pensare. Un calcolo, un pensiero è: quanta gente ci sarà? E a seconda delle code uno calcola il tempo che ha a disposizione.

Allora uno dice: da come io conosco quel negozio lì, tra le quattro e le cinque del pomeriggio c’è meno gente che tra le sei e le sette. Però se voglio arrivare per le quattro del pomeriggio devo sbrigare certe cose un pochino più alla svelta, eccetera eccetera…

È chiara la cosa? Per chi la pensa è chiarissima. Sono pensieri, è un processo di pensiero. Il calcolo pensante del tempo giusto per non fare la coda fa parte di tutte le pensate, di tutti i pensieri del processo pensante che riguarda una spesa.

Adesso spiegate al bambino di un anno e mezzo il tempo migliore per guadagnare tempo e fare le code più corte. «Coda corta», «poca gente», «guadagno tempo» sono concetti che il pensiero mette in rapporto uno con l’altro, il pensiero sa. Spiegateli al bambino piccolo che non sa ancora pensare!

Passa un po’ di tempo, il bambino arriva a due anni e mezzo, tre anni, e comincio a spiegargli: guarda, Carletto, se andiamo alle sei torniamo indietro dopo due ore, invece il tempo migliore è alle quattro, quando c’è meno gente. Comincia a capirlo.

Due anni prima proprio non capiva nulla di queste riflessioni del pensiero che c’è un rapporto tra la lunghezza della coda e il tempo che devo impiegare per far la spesa: adesso un po’ alla volta lo capisce.

Supponiamo che la mamma abbia portato con sé il bambino da quando appena sapeva camminare, o anche prima: quindi, non dico la percezione, ma il vissuto delle code lunghe e delle code corte, del tempo maggiore o del tempo minore, il bambino l’ha avuto mille volte. Ma non è dall’esperienza che lui trae il concetto di abbreviazione di tempo rispetto alle code. Quindi non mancava l’esperienza, non mancava il vissuto delle code lunghe o corte, mancava la facoltà di pensare.

Tanto è vero che adesso il bambino ha quattro o cinque anni, comincia a capire molto bene che quando la coda è lunga succede che, mannaggia!, adesso io vorrei andare a giocare, però la coda è lunga ci devo mettere più tempo. Aspetta, fammi vedere quando le code sono più corte, in modo che io vado in quell’ora e posso giocare prima, e posso giocare dopo!

Adesso prendiamo il cagnolino, il cagnolino è sempre andato, c’era sempre insieme con la mamma e col bambino. Il bambino per un certo tempo non ci capiva e poi, un po’ alla volta, capisce. Il cagnolino l’esperienza l’ha fatta pure lui sempre, ha vissuto il tempo lungo e il tempo corto che si passa dietro alle code: quando arriva il tempo in cui anche il cagnolino capisce il rapporto che c’è fra la lunghezza della coda e il tempo che si impiega o che si risparmia? Questo tempo non arriva mai, perché il cane non sa pensare.

Il bambino è un pensatore in potenza, perché è un essere umano. La facoltà di pensare si traduce da potenzialità in attualità in base alla perfezione del sostrato organico: quindi il bambino sta ancora lavorando al suo cervello, il cervello deve ancora essere strutturato ulteriormente per poter poi cominciare ad essere strumento per il pensare. Invece il cane non ha nessuna possibilità di strutturare il cervello in modo tale che diventi il sostrato per un processo di pensiero.

E io dirò al cagnolino: ma tu, senti un po’, non hai ancora capito che quando le code sono lunghe ci vuole più tempo? E Bobi, il cagnolino, che mi dice?

Il problema è che quando si fa La filosofia della libertà tanti pensano che si tratti di qualcosa di stratosferico: no, il pensare va preso lì dove tutti ce l’abbiamo. Mettiamoci in mente quali processi di pensiero, ma di complessità enorme, avvengono quando uno va a far la spesa! È solo che siamo abituati perché lo sappiamo fare.

Io vedo la teca del formaggio, so benissimo che se la temperatura è sotto i 10° il formaggio si mantiene un paio di giorni in più, se invece quello lì vuol risparmiare e mette il frigo a 12°,13°, certi formaggi dopo due tre giorni sono andati... Li capite voi questi pensieri? Per un bambino piccolo sono di complessità astronomica, ma per noi...

Una persona che dice: ma io non so pensare più di tanto, è stupida. Non si è ancora resa conto che essere umano significa da sempre, da quando si è cominciato a pensare, essere abituato alla complessità. Un pensare non complesso non esiste.

Pensare è proprio la capacità di entrare nella complessità dei rapporti, e quando uno si rende conto sempre di più di quello che fa a livello quotidiano, gli viene la voglia di procedere nel pensare. Come spontaneamente so pensare in un modo complesso riguardo alla spesa – perché questa esperienza l’ho fatta tante volte, quindi sono entrato in rapporto pensante coi processi che ci sono –, così ho la potenzialità, la capacità, la facoltà, se la coltivo, di pensare complessamente, non solo in modo generalizzato ma sempre più sminuzzato, su tutti i fenomeni del mondo. Basta che mi ci applichi, basta che eserciti sempre di più il pensare.

Voglio dire che il pensare ce l’ha a disposizione ognuno, ogni adulto, eccetto chi ha deciso, ancora prima della nascita, di non afferrare lo strumento del cervello dal di dentro, cioè quelli che noi chiamiamo i malati mentali – ma è una definizione disumana, perché l’hanno scelto ancora prima della vita di aleggiare come spirito, come un’aura, intorno al corpo senza afferrarlo dal di dentro. Essi non si servono del cervello per pensare nel modo normale.

Dicevamo, poco fa, con alcune persone: che motivo può avere uno spirito umano di rinunciare al modo normale di pensare, comune alla maggior parte delle persone, servendosi del cervello fisico? Può essere solo la decisione piena di amore, di dare questa volta precedenza all’evoluzione dell’umanità, di dare un contributo per il superamento del materialismo e di mettere in secondo piano la propria evoluzione individuale. Tra l’altro, chi fa un sacrificio del genere, si evolve individualmente ancora di più proprio per le forze dell’amore.

Uno spirito umano, che invece di diventare così materializzato afferrando il cervello e creando una fetta di potere, come facciamo tutti noi con le nostre gomitate quando sappiamo ragionare e fare i conti dell’egoismo, uno spirito che rinuncia a tutto questo egoismo perché aleggia attorno al corpo anziché entrarci, non possiamo capirlo in altro senso che come un sacrificio, un’offerta di sé, per dimostrare a tutti noi, che di spirito non ci capiamo più nulla, che lo spirito è una realtà che non ha nulla a che fare col corpo.

E che, in fondo, uno spirito umano divenuto prigioniero del cervello fisico è uno spirito caduto, e ha un significato soltanto se lavoriamo a riaffrancare, a liberare sempre di più il processo di pensiero, lo spirito umano, da questa cattività di imprigionamento nelle leggi del cervello.

Tant’è vero che qualcuno di voi diceva che il processo di pensiero dipende dal fatto di aver mangiato o no la pastasciutta. E dicevamo che, certo, lo stadio attuale dell’umanità presenta un massimo di concausanza da parte del fisiologico, da parte del biologico, nei processi di pensiero. Ma non era così all’inizio, e non è necessario che resti così per tutta l’eternità.

Questa dipendenza dello spirito pensante dal sostrato del cervello, questa dipendenza attuale dei processi di coscienza dal biologico, ci dà proprio il compito evolutivo di liberare sempre di più il processo di pensiero da ciò che avviene nell’elemento fisico, nel sostrato biologico, nel DNA, ecc.

III,26. Voglio qui rilevare un errore molto diffuso, riguardante il pensare. Esso consiste nel dire: «Il pensare, quale è in se stesso, non ci è dato in nessun luogo. Quel pensare che collega le osservazioni delle nostre esperienze e vi innesta una rete di concetti, non è affatto uguale a quello che più tardi estraiamo dagli oggetti dell’osservazione e facciamo oggetto del nostro studio. Quello che in un primo tempo intessiamo incoscientemente nelle cose, è tutt’altro da quello che poi coscientemente ne tiriamo di nuovo fuori».

In altre parole, questa obiezione dice: come faccio io a sapere che il pensare che produco originariamente e il pensare che osservo dopo sia lo stesso pensare? Può darsi che siano due tipi diversi di pensare.

Se fossero due tipi diversi di pensare, io dovrei essere due esseri diversi, perché il pensare non è qualcosa che io ho, non è una caratteristica del mio essere, ma è l’essenza del mio essere.

Quindi, se ci fossero in me due essenze diverse, io dovrei essere due esseri diversi e allora non avrei più ragione di parlare di «io».

Intervento: E lo sdoppiamento della personalità?

Archiati: Descrivilo un po’, cosa intendi dire?

Replica: È una patologia. La mia domanda sorge per questo motivo: ho l’esperienza di una parente che soffre di sdoppiamento di personalità, e quindi in certi momenti pensa e agisce in un modo e in certi momenti pensa e agisce in un altro. Io la intendo come patologia della psiche.

Archiati: Partiamo dal fatto che tu dai per scontato che non è il caso normale, lo chiami patologico, quindi tu indirettamente dici che il caso normale è che l’io non è sdoppiato. Prima affermazione, che è già importante.

Allora, come avviene questo fenomeno patologico, cioè malato, non normale, di sdoppiamento dell’io? La psicologia, la filosofia, la religione, da sempre dicono che l’io è per natura sdoppiato, perché se non fosse sdoppiato – non al livello del pensiero ma, diciamo, al livello dell’anima – non ci sarebbe la libertà. C’è infatti l’Io superiore (si possono usare anche altre terminologie, naturalmente) pieno di amore, poi c’è un io inferiore la cui forza fondamentale è l’egoismo.

Questi due io, che però non sono due modi diversi di pensare ma sono due modi diversi di vivere, ci devono essere se no non ci sarebbe la libertà. Io, per essere libero devo avere la possibilità di amare l’altro e devo avere la possibilità di essere egoista, altrimenti non ho la scelta.

Questo sdoppiamento quand’è che diventa sdoppiamento di personalità? Questa sdoppiatura è normale, è il caso normale, ce l’abbiamo tutti: quand’è che diventa patologica?

Replica: Quando non è più in equilibrio.

Archiati: E quand’è che è in equilibrio?

Replica: Non è in equilibrio quando tutti e due non concorrono nello stesso modo alla formazione del pensiero.

Archiati: No, la risposta la dà quello che sta dietro: quando io non sono più libero nei confronti di tutti e due. Finché io resto libero sia di amare, sia di essere egoista, va tutto bene. E che cos’è che fa andare tutto bene? La libertà!

Quindi l’elemento patologico è l’elemento di cogenza, che non è più libero, è costretto, è determinato, in un certo senso. L’elemento di libertà è la capacità del pensare di prendere posizione su tutti e due gli «io». Questo è l’equilibrio, questo è l’elemento sano. Io so col pensiero cos’è l’amore e so cos’è l’egoismo.

Il cosiddetto sdoppiamento della personalità è un fenomeno del pensiero. E io dicevo, per una chiave di lettura, anche se non facile, ma che va a colpo sicuro: nel pensiero non ci sono mai cose sbagliate. Però nel pensiero si possono perdere colpi.

Replica: Possono esserci dei vuoti.

Archiati: Dei buchi. Quindi il cosiddetto sdoppiamento della personalità è un pensare pieno di buchi, dove il pensare è selettivo, pensa soltanto certe cose e altre non riesce più a pensarle.

E allora, quando pensa all’egoismo, vede solo l’egoismo e ha paura; quando pensa all’amore, vede solo l’amore e ha paura, perché non ce la fa. Da una parte si vede incapace di amore, e da un’altra parte si vede incapace di quel tipo di amore dove l’egoismo non c’è.

Lo sdoppiamento della personalità è una delle tante forme di povertà di pensiero, è un pensare che non coglie più il sano dinamismo, la sana tensione che ci deve essere tra amore e egoismo, non riesce più a capire che questa tensione è sana.

Ma può essere sana soltanto se il pensiero la interpreta nel modo giusto. E se il pensiero la capisce nel modo giusto, la può svolgere nella vita nel modo giusto. E allora dice: va bene che io in tante azioni pensi maggiormente a me, e poi sono però anche capace in altre azioni di dare precedenza all’altro. Però sono sempre io, non c’è uno sdoppiamento.

Sono io quando do precedenza a me stesso, e sono io quando do precedenza all’altro: però la possibilità di cogliermi come lo stesso «io» che dà precedenza a sé stesso e che dà precedenza all’altro è nel pensare, sennò…

Più il pensare si impoverisce nell’umanità e più avremo fenomeni di sdoppiamento della personalità.

I rimorsi di coscienza – un altro tipo di fenomeno, un fenomeno religioso che quando ero piccolo io era un grosso problema: adesso la coscienza è sparita, e quindi anche i rimorsi di coscienza! Finché la coscienza morde va tutto bene, perché vuol dire che c’è; adesso è andata a farsi benedire! –, i rimorsi di coscienza, dicevo, riguardano persone talmente fissate sul comandamento di dovere, dovere, dovere amare, che ogni preferenza data a se stesse gli crea problemi.

Cos’è? Povertà di pensiero. È il non aver capito che a nessuno si può chiedere più di quello che può. Neanche il Padreterno ti chiede più di quello che puoi!

Colui che ha rimorsi di coscienza si rende responsabile di ciò che di fatto non può, perché se può farlo, lo faccia! A che servono i rimorsi di coscienza? E se non l’ha fatto, può dire: vabbè, ho poltrito, cercherò la prossima volta di fare un po’ meglio.

Tutti i fenomeni di schizofrenia, di distrofia dell’anima, di scissione dell’anima, hanno sempre origine nel pensare.

Una depressione, un altro fenomeno fondamentale, cos’è? La povertà di pensieri positivi (come analisi fondamentale).

Terapia: metticeli, allora, i pensieri positivi! Io non sto dicendo che la terapia avviene dall’oggi al domani, non sto dicendo che i pensieri positivi si tirano fuori così, però come analisi del fenomeno è chiaro che l’origine è sempre nel pensare.

Perché un pensare che vede, che coglie in chiave pensante la positività, la capacità dell’essere umano di svolgere in positivo ogni situazione di vita, questo tipo di pensiero non può mai far sorgere la depressività. Casomai per un paio d’ore, vabbè, ma mai una vera e propria depressione.

Replica: E l’altro polo?

Archiati: L’euforia, la fase manica. Spesso vanno insieme, maniaco-depressivo. Spesso si richiamano a vicenda.

Io dicevo, i peccati del pensiero non sono mai peccati di commissione, ma peccati di omissione: qual è una delle forme fondamentali dell’omissione nel pensare?

È la unilateralità. Un pensiero unilaterale pensa a un lato della cosa e non pensa all’altro lato. Il depressivo è unilaterale perché pensa unilateralmente i pensieri negativi, e siccome è unilaterale nel suo pensare, quando se ne tira fuori perché non sopporta più questa unilateralità dove pensa unilateralmente i pensieri negativi, va a finire nell’altra e vede soltanto il lato roseo della realtà, cosa altrettanto unilaterale, e diventa maniaco, euforico. Va da una unilateralità all’altra.

Cos’è l’unilateralità? Il problema dell’unilateralità non è il lato che c’è, ma il buco, il lato che manca. Al depressivo mancano i pensieri positivi, all’euforico mancano, come contrappeso, i pensieri negativi, fa come se fosse tutto automaticamente roseo. No, no, no, il sano pensare è proprio l’equilibrio, il giusto rapporto tra il negativo e il positivo, con la libertà che li mette sempre di nuovo in relazione.

Naturalmente non sono risposte esaustive però sono piste di ricerca, orientamenti che sono molto importanti, sono fondamentali. Se non torniamo all’origine del pensare, non veniamo a capo di questi fenomeni; se li consideriamo soltanto nel vissuto psicologico, non ne veniamo a capo perché non cogliamo le cause. E le cause di ciò che avviene nell’animico sono sempre nello spirito, sono sempre nel pensiero.

Intervento: Io conosco una persona che soffre di depressione: gli fanno una serie di iniezioni e guarisce. Non piange più, ragiona normale, vede la vita rosa: ma che gli fanno un po’ di rammendi nel pensare?

Archiati: È una specie di lavaggio del cervello: quando tu il cervello lo lavi a un punto tale che non ci resta più niente, non c’è più nulla! I pensieri negativi che portano alla depressione, per lo meno sono qualcosa. Ci sono certi medicamenti, certe medicine, che hanno la capacità di aumentare il biologico a un punto tale che ti porta via tutti i pensieri: ma allora non è che hai risolto i problemi, sei ritornato nel tuo pensare al livello del bambino. Il bambino piccolo può essere depresso? No, perché i pensieri che ci rendono depressi non li può pensare. Allora cosa è successo?

Replica: Che gli hanno fatto un po’ di rammendi nel pensare.

Archiati: No, no, no, hanno tolto il pensare e hanno ributtato questo essere umano al livello del bambino dove il pensare non c’è. Drogato.

Intervento: Infatti non guariscono mai.

Archiati: Certo, drogati. Siccome il processo pensante è la causa della depressione, invece di aggiungerci l’altra metà che gli manca, gli tolgono anche quella che c’ha! E quando l’effetto del medicamento termina è molto peggio di prima – questo è il problema.

Quindi è un barare enorme per far soldi, ma non fa progredire l’essere umano, perché gli porta via anche l’altra metà che c’ha! I pensieri negativi ce li ha, tutti li devono avere: gli mancano quelli positivi che andrebbero aggiunti. Queste droghe fanno come una specie di anestesia: cosa avviene con l’anestesia? Tutto via! È una soluzione quella? No, no non è una soluzione, perché prima o poi la coscienza si ripresenta ed è peggio di prima, perché quel poco che c’era è diventato ancora di meno.

Intervento: Quindi per guarire o dalla depressione o dalla mania, non occorre uno psicologo ma un filosofo del pensiero.

Archiati: Che te ne fai del filosofo? Bisogna che diventi tu stesso un filosofo! Vuoi avere un altro che pensa al posto tuo? A che ti serve? Olio di gomito, tre litri di Filosofia della libertà al giorno, allora sì che funzionano le cose!

A che ti serve il filosofo che ti propina i pensieri che non sai pensare tu?

Tu vuoi dire che la soluzione vera di tutte le disfunzioni dell’anima è di camminare nello spirito, questo tu vuoi dire. Però questo cammino nello spirito lo deve fare ognuno per sé, ovviamente. E se non lo fa, pagherà di brutto nella sua anima perché l’anima cerca lo spirito, cerca la ricchezza, l’equilibrio, la tensione dello spirito.

La depressione è la mancanza della sana tensione tra amore di sé e amore del prossimo.

Siccome è rimasto soltanto amore di sé, manca la tensione e subentra la noia. La depressione è una forma di noia perché manca la tensione sana, giusta.

Intervento: E poi la domanda fondamentale è: come mai la depressione avviene in alcune persone? Siccome parlavi di buchi, si deve concludere che ciò avviene in quegli individui che non hanno esercitato il proprio pensare, cioè che hanno creato dei buchi, nei quali buchi, se non ricordo male, è anche possibile che si inserisca qualcun altro che pensa al posto tuo – e questo poi complica maggiormente le cose.

Archiati: Il fenomeno di possedimento lo vorrei lasciare da parte, adesso, ma la tua domanda, ridotta all’osso, è: come è sorta l’unilateralità di una persona che per giorni e giorni, per mesi e mesi pensa solo pensieri negativi e non ne sa pensare neanche uno positivo?

La risposta è che ci deve essere stato un periodo lungo, perché le cose non avvengono in un giorno, dove questa persona avrebbe avuto la possibilità, che hanno tutti, di esercitarsi di giorno in giorno a pensare, di conquistarsi anche tutti i pensieri negativi, di giorno in giorno, di settimana in settimana, di mese in mese, di anno in anno, e ha omesso...

Replica: Appunto, è un accumulo di omissioni.

Archiati: Un accumulo di omissioni è un grosso buco.

Replica: Allora la domanda successiva, per chi vive queste situazioni dolorosamente, è: ma quale può essere la terapia praticabile? Individualmente siamo convinti di queste verità, che c’è un accumulo di omissioni ecc…; ma uno che ha accumulato tutte queste omissioni, come fai ad aiutarlo quando non c’ha nemmeno la forza di pensare? Karma? Non puoi intervenire?

Archiati: No, no, no, questo aiutare è ancora da mamma Chiesa, diventa sempre più antiquato.

Replica: No, parliamo di terapie praticabili, al di là degli psicofarmaci.

Archiati: Sì, ho capito. Riguardo al terapeuta, l’unica cosa che è giusta è che vuol guadagnare i suoi soldi, ma oltre a quello non c’è più di tanto.

Replica: Io dico un terapeuta sano.

Archiati: No, perché il terapeuta laico ha recepito senza accorgersene tutti i moraleggiamenti del clero, che prima era il pastore d’anime. Non si rendono conto, gli psicoterapeuti, che, in quanto terapeuti illuminati, si sono presi tutti questi moraleggiamenti: che avere una depressione è una cosa che non va bene, che bisogna uscirne fuori, ecc.

Invece, nel vangelo, il Logos, l’Essere del pensiero ti dice: no, no, c’è un’unica terapia non moraleggiante, e usa una parabola.

Un bel giorno, il figlio più giovane – che poi siamo tutti noi, è l’umanità man mano che diventa sempre più giovane – dice al padre: oh, dammi la mia parte, io sono stufo di te! E questo padre gli dà la sua parte. Lui la sperpera (il fratello maggiore dirà: eh, con le donnine!, ma nella descrizione non c’erano le donnine, ce le mette il fratello moraleggiante) e diventa sempre più depresso, depresso, depresso: mannaggia, qua non mi danno neanche le ghiande dei porci, peggio di così!

Questa parabola è talmente moderna nel rispetto della libertà dell’essere umano che tutti i terapeuti che noi conosciamo sono solo moraleggianti, sono clericali all’infinito! Questa parabola dice: c’è soltanto una terapia che vale, quella per cui il figlio arriva al punto di non sopportare più la sua situazione, e decide di tornare. Un’altra terapia non c’è. Qualunque altra terapia che non gli permette di arrivare al punto che sia lui a decidere di tornare, non funziona, perché è una gestione dal di fuori.

La maggior parte delle terapie illuminate di tutti i laici che noi abbiamo sono gestioni dal di fuori, peggio ancora della gestione del clero. Quando invece noi abbiamo da duemila anni questi testi così puliti, così liberanti, dove il Logos ti dice: ma lascialo arrivare al punto che non sopporta più, e se lui la sopporta ancora la sua situazione, lascialo stare, no? Finché una persona la sua depressione se la gode, lascia che se la goda!

Intervento: Ma si uccidono!

Archiati: Embè! Il Cristo sapeva che Giuda stava per uccidersi con la cintola dei calzoni – no, a quei tempi non c’erano né i calzoni né la cintola! – che ha fatto? Giuda, Giuda, no, no, no, io sono il terapeuta e ti proibisco di ucciderti!

Ma sì, se ti togli la vita te la ridò, dai!

L’unica terapia veramente liberante di fronte al suicidio è la reincarnazione, oppure ci costringiamo a moraleggiare e a ledere la libertà. Ma scusate, sono cose importantissime, noi siamo retrivi, ci sono rigurgiti di restaurazione (non soltanto in Italia, eh?).... ma svegliamoci!

Siamo pieni di moralismi: se una persona è depressiva, che c’è di male? Lascia che se la goda: quando arriva al punto di non sopportare più la sua depressione, ne esce fuori da sola.

Il problema è che i terapeuti faranno un po’ meno soldi: e allora facciano qualcos’altro!

Questo tipo di pensare è stato espresso duemila anni fa: ditemi voi che cosa il clero ci ha capito? L’opposto. Ditemi voi che cosa la società laica illuminata ci ha capito? Nulla! Fa l’opposto, da sempre.

E il padre, il vero terapeuta, andava a guardare ogni giorno: torna o non torna? torna o non torna? Perché? Perché sapeva che quando hai il naso pieno (come si dice in tedesco, in italiano: quando hai pieni i coglioni) torni, eccome se torni.

E la parabola dice che è tornato, ed è tornato dicendo: mannaggia, ma è mai possibile? I salariati, in casa di mio padre, se la passano meglio di me che sono il figlio. Ma io torno! E torna.

E questo padre gli dice forse: tu, figlio degenere, sei andato via, mi hai sperperato tutto, e adesso ti metto all’inferno?! No, lo sapeva che sarebbe tornato, e gli fa una festa col vitello grasso. E il fratello maggiore che era stato bravino – per il mondo clericale bravo, per il mondo borghese bravo, bravo, bravo –, che non si era mai preso una festa, era talmente invidioso di questo fratello che dice al padre: ma tu sei matto! Io sono sempre stato al tuo servizio e non mi hai mai fatto una festa, e questo qua!?

Oh, questo ha fatto un cammino in base alla sua libertà, e tu la libertà non conosci nemmeno dove sta di casa, che c’è da festeggiare?

Testi di duemila anni fa! Siamo rimasti indietro, ma proprio indietro, è ora che ci svegliamo! Questa scienza dello spirito di Steiner è sorta per cominciare a far sorgere una scintilla di cristianesimo nell’umanità, perché finora c’è stato un oscuramento di questo spirito.

Intervento: Però il padre ha accettato di soffrire per questa perdita del figlio.

Archiati: Il padre ha accettato di soffrire? Oh, tu hai mai chiesto a questo padre se ha sofferto? Questo figlio l’ha creato lui, sapeva o non sapeva che ritornava, prima o poi?

Replica: Quindi è vissuto con la speranza.

Archiati: Con la sicurezza che ritorna!, se no ha fatto i conti sbagliati lui, e allora che Padreterno è? L’essere umano cerca la libertà, la vuole, e quando arriva al punto che dice no, qui non sono libero, esce fuori!

Il nostro problema è che noi non abbiamo mai imparato a dar fiducia alla natura umana, questo è il peccato originale nostro. Noi viviamo di paura della natura umana, perché sia la Chiesa sia lo Stato ci hanno messo in testa che l’impulso originario della natura umana è l’egoismo.

No, è la libertà che si svolge in positivo! Perché uno che si sente libero soltanto picchiando l’altro non esiste, si è liberi soltanto amando. Basterebbe un minimo di maggiore fiducia nella natura umana, ma abbiamo un cultura piena di paure.

Intervento: Però la persona umana a un certo punto può anche mancare di fiducia in se stessa, pensare di non farcela, e quindi può scegliere delle soluzioni che non sono adeguate.

Archiati: E siccome può pensare di non farcela ci vuole la madre Chiesa che lo aiuta, il papà Stato che lo aiuta perché altrimenti può pensare di non farcela. Dove sta scritto che questo figlio ha avuto mai paura di non farcela?

Replica: Ma tu pensi che tutti quanti riescano ad affrontare le situazioni della vita tranquillamente?

Archiati: No, io voglio dire che tutte le paure che ci sono, e ci sono!, sono indotte dal di fuori, non fanno mai parte della natura umana! Finiamola di indurle, queste paure, e non ci saranno! Non fanno parte della natura umana, perché un conto è dire che ci sono delle paure che fanno parte della natura umana, e allora sarebbero un bel problemino, ma se sono indotte, basta che terminiamo di indurle!

E la Chiesa e lo Stato sono fatti apposta per continuare a indurre paure, a indurre paure, e l’inferno e la prigione… È la natura umana che ha queste paure?

Replica: Ma a parte quelle indotte, una persona può avere anche la sensazione di non riuscire ad arrivare a farcela con certi problemi, e quindi sceglie una soluzione sbagliata.

Archiati: Ma di che cosa stai parlando? Una persona sana dice: se io un compito ce l’ho, allora ho la capacità di farlo, e se non sono capace di fare qualcosa vuol dire che non mi riguarda. Questo è il pensare sano.

Come può avere a che fare con me ciò che io non so fare? Se non lo so fare non ha a che fare con me, punto e basta. Lo faccia un altro.

Imbottiamo le persone di doveri, doveri, doveri e quelle si sentono il dovere di questo, di questo e di quest’altro che non ha niente a che fare con loro.

Ognuno deve solo ciò di cui è capace, e il resto lo lasci agli altri, abbiamo abbastanza gente al mondo. Ognuno deve solo ciò di cui è capace. Ma è un pensiero così semplice!

Come può mai una persona dovere qualcosa di cui non è capace? Se il Padreterno gliene facesse un dovere, sarebbe bacato lui, scusate. Il Padreterno ha il diritto soltanto di farmi un dovere delle cose che sono capace di fare, e le altre cose le facciano gli altri, siamo abbastanza quando ci mettiamo tutti insieme. Ma di che cosa stai parlando? Son tutte aberrazioni di pensiero quelle che dici, imbottite dalla Chiesa e dallo Stato.

A meno che adesso, con le prossime elezioni, in Italia arrivi lo Stato ideale...! Ho letto sui giornali che in Italia si sta aspettando il governo ideale! Ditemelo, eh?, quando arriva, che corro giù dalla Germania a vederlo!

Intervento: Molte persone ad esempio, scelgono di andare in terapia per solitudine, per avere qualcuno con cui parlare.

Archiati: Visto che una volta ogni tanto vengo in Italia e mi permettete di andare a ruota libera, adesso ti dico: oh, siamo sei miliardi di incarnati e c’è qualcuno che ha il problema di trovare qualcuno con cui parlare?! Me lo spieghi? Io non lo capisco! Siamo sei miliardi, e alcuni dicono che siamo in troppi, non troppo pochi!

No, è seria la cosa. Non è che lui non ha qualcuno con cui parlare, è che è diventato, a livelli forti, incapace di comunicazione. Allora è quello il problema, non è che mancano le persone con cui parlare.

Replica: O forse, Pietro, mancano persone che parlano e intridono le loro parole d’amore. Per una piccola esperienza personale, vedo che le persone soffrono di solitudine perché non trovano mai qualcuno che a loro si rivolga veramente con un senso d’amore. Il pensiero che esprimeva prima il signore, è un pensiero molto comune, e continua ad esistere proprio perché chi ha l’opportunità di ascoltare queste persone non lo fa mai con il cuore, ma soltanto pensando di imporre una terapia.

È giusto che una persona possa toccare il fondo, ma è anche giusto che una persona abbia almeno davanti, non dico un modello, ma un’alternativa, e questo non lede la sua libertà, perché può almeno pensarci.

Invece, curare le persone con psicofarmaci, oppure rifiutandosi di ascoltarle, ecco, credo che questo sia veramente il peggior male moderno: Le persone non sanno ascoltare e tante hanno bisogno di essere ascoltate. E se tutto vien messo in relazione al denaro, allora dico anch’io che cadremo veramente in un disastro, credo che il male sia lì.

Archiati: La terapia che tu proponi, quella di mettere accanto al depresso qualcuno che sa ascoltare...

Replica: che sa ascoltare con amore.

Archiati: Sì, sì, ho capito. La terapia che tu proponi è, nel migliore dei casi, una mezza terapia. Non è mai solo colui che non ha nessuno che lo ascolta, si è soli soltanto quando non si è capaci di ascoltare gli altri.

Quindi ciò che va creato è attivare la sua capacità di interessarsi agli altri, di ascoltare gli altri. Quello che gli manca, che lo rende solo, non è che gli altri non si occupano di lui è che lui non si occupa degli altri.

Replica: Certo, ma glielo si può insegnare.

Archiati: No, no, proprio no! Perché tu, mettendogli accanto qualcuno che lo ascolta, occulti l’altro problema che è quello più profondo, che è lui che non sa ascoltare, che non sa interessarsi.

Intervento: Bisogna mettergli vicino uno che parla.

Archiati: No!

Intervento: Uno che stia zitto!

Archiati: Che cosa ha fatto questo padre saggio del vangelo? Chi ha messo vicino a questo figlio? Nessuno!! In modo che impari lui a occuparsi degli altri, e che capisca che la solitudine non nasce quando gli altri non pensano a me, la solitudine nasce soltanto quando io cesso di pensare agli altri – e posso pensare agli altri anche quando sono solo fisicamente.

Io ho fatto per due anni l’eremita, in Sud Africa un altro anno in più: non sono mai stato così poco solo come quando ero eremita. E ho passato due anni a New York, alla Seventy Avenue, una strada grande come questa sala qui: quando c’erano fiumane di gente che ti facevano perdere i movimenti autonomi, che ti trascinavano, lì mi son sentito solo.

La solitudine non sorge per il fatto che non c’è nessuno che mi ascolta col cuore, è che io ho omesso troppo a lungo di ascoltare gli altri col cuore. Quella è la vittoria sulla solitudine, non l’altra. Perché se mi si mettono attorno persone che mi ascoltano con il cuore, io ometto ancora di più di diventare io colui che ascolta con il cuore, e la solitudine diventa maggiore perché son bravi gli altri ma non io. Sanno ascoltare gli altri ma non io, e mi sento ancora più solo.

Intervento: Ci si può rifare alla definizione che hai dato ieri del medico migliore, secondo Platone? Qual è il medico migliore? Quello che ti fa ammalare...

Archiati: No, no, il discorso era: è migliore il medico che sa soltanto farti guarire o quello che sa farti anche peggiorare?

Replica: Sì, quello che ti fa guarire...

Archiati: No, quello che sa farti guarire e sa farti anche ammalare ancora di più!

Replica: Bene, ecco, allora io credo che nella strada del farti ammalare ancora di più c’è...

Archiati: No, non lo fa. Però è capace.

Replica: No, aspetta, forse non mi sono spiegato. Riferendomi alla depressione e riallacciandomi al discorso del terapeuta che, secondo te, sta lì a prendere soldi...

Archiati: Non l’ho detta così cruda, la cosa, dai! Insomma. Già sono stato cattivello, e lui mi dipinge ancora peggio...

Replica: Va bene. Allora un buon terapeuta è colui che accelera il tempo della sofferenza, che ti fa arrivare prima possibile in fondo...

Archiati: No, no, no, tutto sbagliato! Il buon terapeuta è colui che sparisce, e che gli dice: tu non hai mai avuto bisogno di me! Quello è il buon terapeuta. Che ha fatto il padre di questo figlio? Sparito dalla sua vita! Vedi? Tu vieni da me a cercare il terapeuta, ma come ti permetti? O esci dalla porta da solo o ti do un calcio nel sedere! Quella è terapia.

Intervento: Pietro, scusa, siccome faccio questo mestiere del terapista...

Archiati: Oh poveri noi!

Replica: E siccome, oltre a tanti altri pazienti, ho i depressi tutti i giorni, allora tu capisci che, il primo pensiero che mi viene da fare è: cambio mestiere. Detto questo, prima di farlo, provo a difendermi, cerco dei pensieri...

Archiati: Naturalmente, le cose che io dico, sono provocazioni, eh? Sono intese seriamente, ma la realtà è complessa, questo è ovvio.

Replica: Ecco, nella complessità della realtà, se penso a molte di queste persone che mi pagano (ecco, mettiamola così: non dico che le aiuto, che mi pagano) e che decidono di venire da me, osservo, per esempio, che questa forza di poter dire «me la devo cavare da solo» non ce l’hanno, perché nella maggior parte dei casi sono destrutturati nel loro io fin dall’infanzia.

Il problema maggiore di queste persone è che hanno genitori che, nel tempo in cui dovevano educare l’io di questi bambini a crescere, ad avere pensieri sani – l’obiettivo dell’educazione è accompagnare i bambini in modo che da adulti abbiano un io ben centrato –, in realtà hanno operato in maniera tale per cui l’io di queste persone è talmente destrutturato che non riescono a trovare le forze per poter prendere una decisione di questo genere. Tant’è che, come diceva la signora, possono arrivare anche a uccidersi, e io li conosco bene, caspita!

Allora io dico, in questi casi, l’attività dello psichiatra e dello psicofarmaco non è vero che non è piena d’amore.

Dal suo punto di vista anche lo psichiatra – anche se io non do medicine, non è questo il mio campo –, se fosse qui in questo momento, si scandalizzerebbe perché direbbe: ma guardate che questi vanno ad ammazzarsi, perché non hanno le forze, io gli devo dare la medicina.

Tu dici: va bene, che si uccida! Rinascerà! Però se questo io non è stato accompagnato e non è stato strutturato, è una grande responsabilità dirgli: vai, ucciditi pure, tanto rinascerai!

Archiati: Allora, tiriamo le somme del tuo discorso, che è di una impotenza assoluta di fronte a questi fenomeni.

Tu ti rendi conto che le cose che stai dicendo son dei palliativi, in fondo, perché la vera soluzione non ce l’hai in mano. Allora, diciamo che il passo successivo del terapeuta – io non dico di tagliar la testa a tutti i terapeuti, a tutti gli psicoanalisti ecc… non ho detto questo, perché a ogni testa che sta su due spalle io auguro di restarci il più a lungo possibile, perché amo l’umano –, la vera soluzione, è una conoscenza scientifica dei fatti.

Se io gli dico: guarda che tu da bambino hai avuto dei genitori che interagendo con te invece di costruirti l’io, te l’hanno maggiormente distrutto, ecc., attento, questa è soltanto una serie di problematiche, ma tu la risposta neanche l’hai sfiorata.

Perché il pensiero successivo, che è l’inizio della terapia, è di dire: guarda che questi genitori li hai scelti tu, perché hai contribuito tu a che siano come sono. Certo, ognuno è il primo artefice di ciò che è divenuto, però i genitori appartengono alle persone che massimamente hanno contribuito a ciò che tu sei divenuto, e viceversa.

Quindi tu sei entrato in questa costellazione karmica perché ti appartiene. Se invece mi si dice che io sono inerme, che ho ricevuto un torto enorme dai miei genitori, questa non è una soluzione, non mi porta avanti, mi butta nel baratro ancora di più.

Se mi si dice: ci siamo riproposti, da quello che siamo diventati insieme, di diventare genitori e figlio, con l’intento del nostro Io superiore di coltivare sempre di più le forze positive, allora non mi serve a nulla scaricare i barili sui genitori. Prendo in mano la conoscenza oggettiva del karma, quindi cammino col mio pensiero, e prendendo in mano col pensiero le leggi oggettive del karma dico: tornerò dai miei genitori e gli dirò che qui c’è un nodo karmico, che abbiamo costruito insieme nel corso dei secoli, dei millenni addirittura, e lo possiamo risolvere soltanto insieme.

Allora fai un discorso propositivo. Ma quando dici a una persona: tu sei stato rovinato sin da bambino, che contributo gli dai? Lo getti ancora di più nel baratro.

Io non è che vi sto dando la soluzione, no! Sto dicendo che l’unica cosa che ci porta veramente avanti è una conoscenza delle realtà nella loro oggettività, realtà sulle quali l’umanità di oggi, sia in chiave clericale, sia in chiave laica, è del tutto ignorante.

Non si può risolvere il problema di un depresso che rischia di uccidersi senza una minima conoscenza delle leggi del karma. Non è possibile.

Intervento: Ma come fai a parlare a una persona così del karma? Ci deve credere?

Archiati: Il terapeuta gli parla di destrutturazione dell’io fin da quando era bambino: e se il aziente non ci crede? È la stessa cosa.

Tutti siamo chiamati ad essere terapeuti gli uni per gli altri, perché il karma è sempre una terapia comune. Questa è la terapia comune: il karma!

Però il karma va conosciuto nella sua oggettività, e così come il terapeuta può avere la capacità, in quanto forza di pensiero, di convincere (perché il pensiero è convincente nella misura in cui è pulito) presentandogli gli eventi dell’infanzia, se ha una certa forza e chiarezza di pensiero sarà ugualmente convincente dicendogli: guarda che i problemi dell’esistenza non si possono risolvere se partiamo dal presupposto che ognuno di noi prima della nascita non esisteva.

Se questi pensieri prima se li è chiariti lui, e ha vissuto tragicamente tutti i quesiti che non si possono risolvere se si pensa che noi prima della nascita non c’eravamo, i suoi pensieri saranno convincenti. E quello sì che porta avanti.

Quindi ciò che più urge in tutti i campi, e soprattutto nel campo terapeutico, è una scienza dello spirito, una conoscenza scientifica delle realtà non soltanto sensibili. Noi abbiamo le scienze naturali, bellissime, ci mancherebbe altro, ma siamo analfabeti nella conoscenza scientifica di tutto ciò che è sovrasensibile.

Come sono nati questi genitori che hanno distrutto il tuo io? Ci hai concorso tu per i secoli e per i millenni, li hai scelti perché ti appartengono, col compito, con l’intento dell’Io superiore di andare avanti tutti e tre. Se l’Io superiore ha l’intento di andare avanti, vuol dire che tutti e tre lo possono, perché l’Io superiore non si può mai proporre qualcosa che non è capace di fare. Questo sì che infonde forze, perché è convincente. Invece, quando tu, che fai il terapeuta, gli dici che è stato rovinato sin da bambino, cosa hai risolto?

Intervento: Tanto sono d’accordo con quello che dici, che infatti sono qua.

Archiati: Bene, allora diciamole giuste, le cose. Diciamo che il problema di fondo è l’ignoranza della realtà. Abbiamo un tipo di pensare che sa pensare soltanto su ciò che è materiale e non ha ancora cominciato a pensare pulitamente, scientificamente su ciò che è sovrasensibile, sui fenomeni del karma, dell’anima ecc…

Tutta la psicologia che c’è, ma tutta, è da bambini, non ha la minima idea delle realtà dell’anima, è una raffazzoneria di astrazioni.

I fenomeni dell’anima vanno osservati sovrasensibilmente, e solo allora si parla in base a percezione. Dove hanno, questi psicologi, la percezione?, di che cosa parlano? Parlano di qualcosa di astratto, che inventano: non c’è nessuna percezione.

Steiner si attiene a ciò che percepisce e perciò l’hanno ostracizzato, perché se andasse in auge Steiner tutti i nostri psicologi, tutti i nostri teologi, non avrebbero più nulla da dire.

Intervento: Volevo solo aggiungere – a proposito di quello che diceva la signora: se uno non ci crede, che gli vai a parlare di karma? – che comunque, anche di fronte al più bieco scetticismo, portare delle conoscenze su base scientifica, perché sono ragionamenti che poi si possono svolgere anche in maniera logica, è come mettere un seme e non è detto che prima o poi non germogli. Perché si è visto che, nel tempo, poi qualche cosa fiorisce. Non bisogna essere poi così pessimisti, di fronte allo scettico.

Archiati: Io il problema di convincere lo scettico non ce l’ho mai avuto.

Replica: Non è per convincerlo, è per donare una conoscenza...

Archiati: No, no, no, no, non si dona una conoscenza. Si esprime un processo di pensiero, e ognuno ne fa quello che vuole, quello che è capace di farne.

Replica: Esatto, forse non ci capiamo. Io non ho nessun intento di convincere. Ti sto dicendo che, esposto un processo di pensiero limpido e pulito, anche lo scettico più scettico, ad un certo punto lo può fare suo, lo può comprendere, lo può condividere.

Archiati: E io ti dico: metti pure che per tutta questa vita né lo capisce né lo convince, io glielo concedo perché gli concedo un’altra vita, un’altra ancora, e gli auguro prima o poi di capirlo, se è una cosa reale. Non lo vuol capire fino alla fine del mondo? Affari suoi!

Ma tu perché vuoi gestire il capire dell’altro, scusa? Goditi la tua conoscenza, il tuo pensiero. Siamo pieni di moralismi, il terapeuta è il grande missionario che vuol convincere di qualcosa: ma chi glielo fa fare?

Se sprigionasse da tutti i pori la gioia del pensare guarirebbe per contagio. L’unica guarigione che funziona è quella del contagio!

Buona notte arrivederci a domani.

Sabato 16 febbraio 2008, mattina

Buongiorno a tutti quanti, auguro una buona giornata!

Stavamo dicendo ieri che il pensare è una gran bella cosa, per chi non lo sapesse ancora!

L’amorevole sberla che io ho dato agli psicoterapeuti, ieri sera, era per il fatto che sono una genia di esseri umani così resistente che non la sente neanche, la sberla!

Il discorso, serio, era questo (alla mattina, naturalmente, vi prendo dal lato del pensatoio ancora desto perché poi, ma mano che passano le ore della giornata, le forze del pensiero diminuiscono sempre di più: perciò all’inizio della giornata cerco di dire le cose fondamentali): viviamo in una umanità che, per necessità evolutive – quindi non è una cosa cattiva, le cose dovevano andare così –, ha perso di vista la realtà dello spirito che viene colta nel pensare, anzi viene creata col pensare.

Avendo, allora, perso di vista ogni conoscenza, ogni barlume della realtà creante e ricreante dello spirito, ci resta soltanto da pescare nelle acque più o meno torbide, comunque mai del tutto pulite, dell’anima, del mondo dei sentimenti, delle emozioni.

Mondo bellissimo, quello dell’anima, ma ha un grande vantaggio e un grande svantaggio.

Il grande vantaggio è quello di essere soggettivo e il grande svantaggio è quello di essere, appunto, soggettivo.

È un vantaggio nel senso che il mondo dell’anima mi è più vicino, è quello che io vivo, è quello che sento, i problemi che ho, ecc., quindi mi muovo in ciò che mi è familiare.

Però, questo che da un lato, dal lato dell’egoismo, della fissazione su di sé, è un vantaggio, se vogliamo, dall’altro però è uno svantaggio perché quando nell’anima (uso la parola anima come riassunto di cose molto complesse) sorgono problemi è sempre perché l’anima non conosce, non si apre alla dimensione di ciò che è oggettivo.

Che c’è di male in ciò che è soggettivo? Perché crea problemi ciò che è soggettivo?

Perché può entrare in conflitto col mondo oggettivo. Perché il mondo circostante, il mondo oggettivo, non si orienta soltanto secondo i miei bisogni soggettivi.

La vita buona, la vita umana e non disumana, è una continua tensione, un sano compromesso tra il soggettivo e l’oggettivo.

Il mondo dice: sono disposto a venire incontro ai tuoi bisogni nella misura in cui tu sei disposto a venire incontro ai miei.

Ama il prossimo tuo come te stesso.

L’organo di percezione di ciò che è soggettivo, di ciò che è animico, è il sentimento: lo sento, lo vivo. Sentendolo ne ho la percezione, lo porto a coscienza.

L’organo di percezione di ciò che è oggettivo è il pensare: col pensare colgo, percepisco, ciò che è oggettivo.

Ieri tu ci dicevi: cosa faccio io, da psicoterapeuta, con un adulto in cui mi risulta, in chiave di pensiero, che le cause più profonde, le origini dei suoi problemi dell’anima, sono nell’infanzia? Già nell’infanzia, nei primi anni della vita, l’io non ha avuto nessuna possibilità di venire costruito, o non ha trovato quegli aiuti necessari per acquisire una certa autonomia.

Certo, rispetto al voler spiegare i fenomeni dell’anima di un trentenne considerando soltanto ciò che è avvenuto nel ventinovesimo anno, è un passo enorme tornare indietro fino all’infanzia. Ma perché ci si ferma lì?

E se ciò che è avvenuto nell’infanzia non fosse la causa prima ma la conseguenza, l’effetto di altre cause che sono molto più importanti? Spiegare un fenomeno significa trovare le cause prime, non quelle seconde, terze, quarte, quinte, perché quelle sono già conseguenze.

Io cosa sto facendo, adesso? Un processo di pensiero con la domanda: come stanno le cose oggettivamente? Cioè, se non fosse vero che gli eventi dell’infanzia di questo trentenne, di questo quarantenne, sono le cause prime dei suoi malanni, ma sono già cause seconde, terze e quarte, allora io non sono uno scienziato vero e proprio, perché non sono ancora arrivato al punto di conoscere le cause oggettive prime – non dico le primissime, ma almeno quelle che stanno un pochino prima, se queste dell’infanzia son già conseguenze.

Per una scienza dello spirito (accorcio adesso il discorso, naturalmente) salta fuori che lo psicologo che va indietro fino alla nascita resta nell’animico.

Lo spirito sta prima della nascita, e lo spirito ha preso le decisioni su quali genitori accalappiare, in quale ambiente sociale venire a nascere, in quale popolo, in quale lingua materna eccetera eccetera.….

Le decisioni prese da questo spirito ancora prima di nascere sono la causa.

Se io andassi indietro fino a prima della nascita, a prima che questo spirito si formasse un corpo fisico a immagine sua, se andassi indietro e cercassi di conoscere che tipo di spirito è questo che ha dovuto costruirsi un corpo fragile, magari, perché gli corrisponde, che ha voluto liberamente prendersi questi genitori difficili, perché gli corrispondono e gli appartengono, se riuscissi ad acquisire una conoscenza oggettiva dei tratti fondamentali di questo spirito umano, risalirei alle cause e allora capirei perché ha scelto questi genitori, perché ha scelto questo tipo di corpo. Così uscirei dall’animico, perché tutto ciò che un uomo ha vissuto nella sua infanzia, tutto il suo vissuto, è animico.

Invece lo spirito di quell’uomo, nei suoi tratti fondamentali, non è più un vissuto soggettivo animico, è una realtà oggettiva. E da questa realtà oggettiva causante si comprendono gli effetti che sono saltati fuori.

Quindi una terapia che resta nell’animico è per natura non guarente, non può guarire, perché l’unica guarigione del soggettivo, dell’animico, è conoscere le cause che sono nello spirito. Nell’anima ci sono solo effetti, conseguenze.

La conoscenza oggettiva dell’oggettivo la colgo col pensare. Per questo è così fondamentale questo testo sul pensiero, La filosofia della libertà. Ve lo dico sinceramente: arrabattandoci finché volete, i contenuti di cui stiamo parlando sono i più importanti che ci siano, perché stiamo parlando dell’organo, di quella facoltà spirituale che coglie la realtà oggettiva del mondo, e la realtà oggettiva è la causa prima.

Allora il pensare mi dice che la causa primissima di tutto quello che esiste, anche in questo paziente che io da psicoanalista ho davanti a me, la causa prima che non può a sua volta essere causata, è un essere spirituale, umano o divino non importa nulla, uno spirito che pensa e decide e vuole.

Quando uno spirito pensa qualcosa, e in base al suo pensiero decide qualcosa e fa qualcosa, quello è l’inizio del mondo. Non può a sua volta venir causato.

Ogni spirito è intriso, è intessuto di pensiero, di luce, è un illuminarsi immanente.

Un essere spirituale si illumina di pensiero, perché è pensiero che capisce qualcosa e decide di fare qualcosa. Questo capire intuitivo del pensare, e questo volere e fare qualcosa, non è causato da qualcosa d’altro, per cui io dovrei risalire a un’altra causa per capirlo, no! Il pensare dello spirito, il suo decidere, volere e agire, è un inizio del mondo, è causa prima.

L’essere umano, in quanto essere pensante, è capace, ha la facoltà di porsi ogni giorno, e viversi, come causa prima, in assoluto. Però deve diventare uno con sé in quanto spirito, in quanto essere spirituale. Io, come spirito, non ho cominciato ora a pensare e a volere. E da quando ho cominciato a pensare e volere è cominciata la causazione di tutto quello che ora mi ritrovo dentro.

Da dove viene tutto quello che ho in me?

Da tutto ciò che io ho pensato, da tutto ciò che io ho voluto come spirito.

La causa prima è lo spirito, però individuale, perché lo spirito non è un noi, lo spirito è sempre un Io, ha sempre il carattere di Io – che poi lo chiamiamo Dio, Padre, Figlio, Spirito Santo, io umano, spirito umano o quello che volete, non importa.

Spirito è facoltà assoluta di pensare, di illuminarsi di intuizioni conoscitive e di esprimerle all’esterno in un mondo percepibile.

La volontà rende i pensieri percepibili.

Lo spirito divino pensa il mondo e lo crea. Nel pensiero è luce: nel creare, nella volontà, diventa percezione esterna.

Quindi l’unica terapia sincera, che funziona, è la terapia del pensare.

Intervento: Sarebbe l’autoguarigione?

Archiati: Se vuoi, certo, un altro tipo di guarigione non esiste, non esiste una guarigione dal di fuori. È nel concetto di guarigione che può essere soltanto autoguarigione, perché colui che è malato deve guarire, non un altro. È un’affermazione ovvia quella che tu fai, però dietro c’è la complessità enorme della domanda: cosa si può fare per aiutare l’altro, se stessi, ogni essere umano, ad autoguarirsi?

Aiutarsi a vicenda a pensare sempre meglio, a diventare sempre di più uno spirito creatore!

È possibile aiutarsi a vicenda?

Certo che è possibile, perché è spirito in interazione con spirito.

Un fenomeno primigenio di questa terapia del pensare (che poi è autoterapia, è autoguarigione), dove ci si aiuta a vicenda sono i dialoghi di Platone. In essi c’è l’intento di ricercare la verità col pensare, cioè le cause prime.

E questo Socrate, se è vero che è un pochino più avanti, e nessuno glielo può proibire come spirito pensante, è in grado di dire al giovinetto sbarbatello (l’evoluzione va presa sul serio: a quei tempi erano solo i maschietti, adesso, dopo duemilatrecento anni ci sono anche le femminucce): no, no, no, ripeti il tuo ragionamento, sta’ attento che c’è uno sbaglio, hai dimenticato questo, hai lasciato fuori quest’altro, sei andato sulla falsariga di qualcosa di unilaterale, aggiungi quest’altro…

Questo tipo di maieutica è autoguarigione, che tira fuori e può tirar fuori soltanto quello che c’è dentro embrionalmente, che c’è dentro potenzialmente. È lo sforzo di cogliere la realtà nel pensare, di cogliere l’oggettivo in un modo sempre più complesso.

Intervento: Se lo spirito pensa, decide e poi non fa, cosa vuol dire?

Archiati: Uno spirito che pensa, decide e poi non fa non è uno spirito: in italiano si chiama un’animuccia!

Uno spirito che pensa, che decide e non fa, non c’è mai stato. Proprio quello dicevo all’inizio: ci manca addirittura il concetto dello spirito. Perché intuire qualcosa, vederla bella e volerla attuare e poi non farla, significa non aver capito nulla.

Lo vedremo nell’Aggiunta a questo terzo capitolo che è meravigliosa: Steiner l’ha scritta venticinque anni dopo la prima edizione de La filosofia della libertà, pubblicata nel 1894. Alcuni dicono che ha barato perché era già pronta nel dicembre del 1893. Nel 1918 fa la seconda edizione, quindi quasi venticinque anni più tardi, e lascia il testo più o meno uguale, cambiando qualcosa solo a livello di cosmesi perché Eduard von Hartmann, filosofo a Berlino e direttore dell’orchestra dei filosofi di allora, aveva apposto diverse critiche. Però ha fatto in diversi capitoli delle aggiunte interessantissime, venticinque anni più tardi, e lì ci tufferemo dentro.

Il pensare, dice Steiner in questa Aggiunta, è al contempo puro amore. Intuire una cosa significa amarla, intuire una cosa significa capire che è bella, che è intrinsecamente ben pensata. Cose non ben pensate non esistono, lo spirito divino non le avrebbe create.

Quindi intuire qualcosa significa vederla bella – bella sei!, e quindi non posso far altro che amarti.

Il pensare intuitivo è la voglia di imitazione del creatore divino, e il creatore divino non agisce in base a una luce fredda, che dice: sì, facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza però... il concetto di uomo c’è, lo spirito che pensa l’uomo c’è, la decisione di farlo ‘sto uomo ci sarebbe, ma.... lo faccio o non lo faccio?! E non lo fa!

Questa è la tua domanda.

Intervento: Quello che sta dicendo lei, mi ha fatto tornare in mente le parole di Enoch che va da Dio e gli dice che tutto è bello, in pratica. Noi conosciamo la bellezza delle stelle attraverso la notte, quindi non può esistere che la notte è brutta o il giorno è bello o viceversa, tutto è bello. Questo rientra un po’ in quello che sta dicendo lei?

Archiati: Tu adesso ci hai messo un risvolto femminile, che è molto bello, ci hai aggiunto l’anima, però lui, il maschietto, intendeva dire un’altra cosa.

Prendiamo la sua riflessione al punto estremo. Lo spirito di Giuda pensa al suicidio, è un pensiero. E dice: lo faccio o non lo faccio? Qui è il punto ultimo, la provocazione estrema del pensiero. E tu dici: se uno pensa e decide e poi non lo fa?!

Adesso vi faccio un processo di pensiero (tenetevi ben appoggiati alla sedia) che cerca di cogliere qualcosa di oggettivo: se Giuda ha soltanto momenti soggettivi – mi va o non mi va? ce la faccio o non ce la faccio? ho il coraggio o non ho il coraggio? cosa diranno gli altri e cosa non diranno? – non risolve il problemino, resta nella depressione assoluta con i patemi d’animo di chi gli sta intorno (se la toglie o non se la toglie, la vita?, fammi tornare a casa dal lavoro due ore prima per esser sicuro che...).

Ieri una donna mi ha raccontato che ha salvato suo padre «per caso», perché lei non doveva assolutamente tornare a casa, e quella sera il padre stava veramente togliendosi la vita. Per caso la figlia, che altrimenti non c’era mai a quell’ora lì, è tornata a casa e l’ha salvato.

Poveraccio, gli è andata male!

Gli è andata benissimo, lo so che voi pensate che gli è andata benissimo.

Allora, faccio questo discorso, però vi avverto che la scienza dello spirito, in questo intento di avere il coraggio fino in fondo di cogliere l’oggettività delle cose, ci consente di afferrare la domanda che lui ha posto (se uno spirito pensa, decide e poi non fa?) fino all’ultima conseguenza.

Giuda si sta dicendo: io penso che, in questa situazione, l’unica cosa che mi resta è costringere, tradendolo, questo «farabutto» di Cristo – abbiamo visto tutti le sue qualità taumaturgiche: una settimana fa ha tirato fuori dalla tomba Lazzaro che puzzava, come diceva sua sorella Marta – a mostrare i suoi poteri così ci sbarazziamo di tutti ‘sti romani, di tutti ‘sti proconsoli, e farisei e preti giudei! Oppure, qui, il giogo dei romani non ce lo togliamo. Io, oh?, da bravo Giuda penso questo.

E Giuda era il precursore della razionalità moderna, questo è il concetto di Giuda. Giuda era già duemila anni fa al punto in cui siamo noi, oggi, tutti. Un grande precursore, e i calcoli li aveva fatti. Col tradimento voleva forzare, calcare la mano del Cristo cosicché mostrasse la sua potenza e sbaragliasse tutti quanti.

Gli è andata male, perché quel tipo lì – l’ho descritto nel Giuda ricambia il bacio[8] –, il Cristo, per far bella figura col Padreterno invece di mostrare la sua potenza, s’è fatto ammazzare!

E Giuda dice: ma è matto?! Per farsi bello lui di fronte al Padreterno di cui ci ha parlato per tre anni, ha piantato in asso noi! E mo’ che faccio? Mi resta solo un’impiccata!

Si vede spiazzato a un punto tale, come gli mancasse l’aria! Che faccio? Non ho più prospettive, non ho più nulla!

Durante l’ultima cena, il Cristo sa che Giuda sta pensando questi pensieri, lo sa, perché poi li ha eseguiti, si è suicidato. Il Cristo, da grande terapeuta che aiuta nell’autoguarigione, gli dice[9]: “O poie‹j po…hson t£cion (o poièis poièson tàchion), «ciò che tu fai, fallo più veloce» anziché meno veloce. Trovate tradotto: «quel che devi fare, fallo presto», ma non è «presto» perché tacion (tàchion) è comparativo: più veloce, anziché meno veloce.

Che tipo di terapia è?

Il Giuda potrebbe dire: oh?, ma che mi stai dicendo?, non hai capito che io sto pensando al suicidio?

Certo che il Cristo l’ha capito.

Ripeto, ora, la tua domanda: cosa succede se lo spirito pensa e decide, e poi non lo fa?

Il Cristo aiuta Giuda ad assurgere al livello dello spirito, il Cristo l’aiuta a cogliere l’oggettivo dell’umano che, nel momento in cui lo cogli, è talmente convincente che ti dà sempre la forza di orientarti verso ciò che è oggettivo.

Giuda, con l’aiuto del Cristo, pensa il pensiero che lo salva, che gli dà la forza, questa volta, di terminare la sua vita: il suicidio.

Ha terminato la sua vita, lì. Lasciamo via tutti i moralismi borghesi, clericali, che ce ne facciamo? Ha terminato la sua vita lì! L’ha terminata lui, però! Ha il diritto l’essere umano di togliersi la vita? Tutti i moralismi di giudici, di preti ecc…, vengono da altri uomini, che sono uomini tanto quanto me.

Allora vi chiedo: qual è il pensiero fondamentale che il Cristo come terapeuta, come Logos terapeuta del pensiero, gli ha dato? Con questa frase, documentata nel vangelo di Giovanni, il Cristo dice: Giuda, un essere umano che non ha mai fatto l’esperienza, in qualche modo, di autodistruggersi, non vale nulla. E il tuo pensiero lo sa, lo capisce.

Perché se l’essere umano non fa in qualche modo, a qualche punto della sua evoluzione, l’esperienza di autodistruggersi e di cosa salta fuori dall’autodistruzione, se non lo sa in proprio, dovrai per comandamento, per ingiunzione morale, per paura dell’inferno comandargli di non autodistruggersi, e così non lo farà mai per libertà, lo farà costretto.

Ma una persona che ha fatto l’esperienza di autodistruggersi non lo vorrà liberamente mai più! E sarà libero. E Giuda dice: ma certo che lo faccio.

«Ciò che tu fai, non aspettare troppo a lungo».

Intervento: Perché non aspettare troppo a lungo?

Archiati: A capire. Cosa sta facendo Giuda? Sta capendo, sta esercitando il pensare!

Replica: Sta esercitando il pensare. Quindi fallo velocemente perché se no...

Archiati: No, no: se non impari dalla prima volta ti tocca ripeterlo dieci volte. Invece è molto meglio il pensare che gli basta una volta, perché capisce subito. Il pensare intuitivo è la cosa più veloce che ci sia, perché capire è come un baleno, è un attimo.

Intervento: Dunque dobbiamo passarci tutti?

Archiati: In un modo o in un altro, l’ho detto tre o quattro volte. E il modo individuale lo deve sapere ognuno per sé.

Intervento: Ma in ogni vita?

Archiati: Sta’ attenta, il suicidio è un’immagine. Qui stiamo facendo processi di pensiero di quelli grossi, eh? Restate concentrati: il suicidio è una metafora di autodistruzione su tutta la linea.

Replica: Io non parlavo del suicidio, parlavo del toccare il fondo.

Archiati: Toccare il fondo è un’immagine ancora più difficile, è troppo sfocata, significa tante cose e non significa nulla. Cosa vuol dire toccare il fondo? Non vuole dire nulla.

Il pensiero vuole non soltanto immagini, le immagini sono l’elemento dell’anima, i concetti sono l’elemento del pensiero.

Autodistruzione è un concetto, non è un’immagine, toccare il fondo è un’immagine che deve essere tradotta in concetti, altrimenti ti devo chiedere: cosa vuoi dire con «toccare il fondo»?

Il concetto di suicidio è un concetto di autodistruzione su tutta la linea.

Se una persona l’autodistruzione su tutta la linea la deve ripetere dieci volte, è perché la prima, la seconda, la terza volta non ha capito nulla, non ha imparato.

I tedeschi dicono: einmal verstanden, für immer verstanden, una volta capito, capito per sempre. Cioè il pensiero non perde colpi, o l’hai capita, una cosa, o non l’hai capita.

Quindi il recupero è sempre un segno di un pensare, di uno spirito in fieri.

Immaginate il Padreterno che crea qualcosa e la prima volta sgarra, la seconda volta fa un po’ meglio, la terza volta ancora meglio, e la decima volta, finalmente, gli piace, più o meno. No, di primo acchito disse: bello, bello, bello!

Il pensare coglie sempre il meglio altrimenti non è pensare, è anima, è sentire. Perché il pensare è intuire l’oggettivo. Ditemi voi cosa c’è di meglio dell’oggettivo?

Intervento: Tu stai dicendo che non basta fare l’esperienza del suicidio, non è quella che lui deve fare, se lui non la capisce...

Archiati: Un’esperienza non capita è una non esperienza.

Replica: Caspita, qui mi ingrippo un po’, perché dico: ma allora perché uno la capisce e uno no?! Mi manca un passaggio che faccio fatica a cogliere: che cos’è che mi fa capire un’esperienza e che cos’è che non me la fa capire? Perché uno la capisce e un altro no?

Archiati: Il pensiero illuminato, esercitato, il pensiero diventato sempre più puro te la fa capire, e le omissioni nel tuo pensiero fanno sì che tu, certe cose, non le capisci.

È così evidente la cosa! La potevi dire anche tu. Io sono qui un po’ il Socrate, ma ci hai detto ieri che fai il Socrate anche tu (facendo lo psicoterapeuta ndr).

Adesso facciamo un piccolo esercizio: dì, col tuo pensiero, con parole tue, quello che io ho cercato di dire. Soltanto allora posso dire sì, sì, sì, ci siamo. Perché io non so cosa hai capito.

Replica: Capisco che il buon pensare è qualcosa che io devo esercitare tutti i giorni e che non è che nasce in questo momento, insomma. Mi pare che qualcuno dica che sia anche sempre indispensabile la grazia divina.

Archiati: Adesso mi devi spiegare cos’è la grazia divina. Io ho studiato parecchi anni di filosofia, lì andavo bene, avevo dei voti abbastanza alti, poi ho studiato teologia e i miei voti sono andati giù, perché non ho mai capito cosa sia questa grazia divina. Me lo spieghi?

Replica: Penso a questa immagine: l’esercizio del pensare è come una forza che dal basso cresce verso l’alto...

Archiati: Cos’è il basso? La cantina? Lo so che ti stai arrabbiando. Dici: non mi lasci mai finire nulla, mi interrompi sempre...

Replica: No, cerco di trovare le parole giuste. Dicevo «dal basso» nel senso che l’esercizio del pensare è qualcosa che nasce da dentro di me, dal basso nel senso che mi nasce dalla pancia, ci deve essere una mia volontà, a un certo punto, di iniziare a fare qualcosa. La volontà, il movimento, l’agire.

Archiati: E queste forze di volontà te le sei create tu e non hanno nulla a che fare con la grazia divina?

Replica: Certo, sì.

Archiati: E allora? La capacità di pensare, la facoltà di diventare sempre di più uno spirito pensante è la somma della cosiddetta grazia divina. Più grazia divina di quella non c’è, e un’altra non c’è!

Perché una grazia divina che facesse le cose al posto mio, sarebbe una disgrazia per me, gli do un calcio nel sedere se sono stato fatto per diventare sempre più capace di gestirmi in proprio!

Che altro può essere la grazia divina, la grazia di Dio, se non avermi creato capace di diventare sempre di più come Lui, spirito creatore? Più grazia di questa non esiste.

È la capacità di diventare sempre più libero, sempre più autonomo e di prendermi le mie responsabilità.

Cosa ha capito la maggior parte dei teologi della grazia divina? Nulla! Nulla! Anzi, ha capito il contrario: la grazia divina è quello che fa Dio perché non lo so fare io. Ma allora mi vuol tenere come un bambino per tutta l’eternità, allora mi ha creato bambino, non uomo! Non dovrebbe permettersi di lasciarmi crescere, perché si contraddirebbe.

Beh?, mi guardi allucinato?

Replica: No, no, è chiaro, è chiaro.

Intervento: Si può riassumere la crescita dello spirito nel momento in cui c’è la consegna della spada?

Archiati: Dov’è la consegna della spada?

Replica: A un certo punto nel vangelo, Gesù parla di una spada.

Archiati: Lascia da parte il vangelo! Di’ un pensiero tuo, se no ci tocca andare a sfogliare il vangelo tra Matteo, Giovanni, Luca o Marco, e poi dire come è tradotto,... Di’ tu cosa ci vuoi dire.

Replica: Esattamente quello che ho detto.

Archiati: Ah, e devo andare a sfogliare il vangelo!? Dimmelo con parole tue.

Replica: Provo a dirlo con parole mie, vediamo se ci riesco meglio. Quello che ho imparato è che il nostro corpo è un veicolo...

Archiati: Hai imparato o ci dici pensieri tuoi?

Replica: Diciamo che il corpo è un veicolo, è la parte densa di un qualcosa di molto importante, e in questo «molto importante» naturalmente c’è uno spirito.

Archiati: Dentro il corpo?

Replica: Insomma, nascosto dentro al corpo non credo. Se parliamo di spirito parliamo di qualcosa che non è visibile e che ci circonda in qualche modo. Quindi, quando parlavo di consegna di spada parlavo di un qualcosa di preciso.

Archiati: No, no, no, proprio non ci capisco nulla, non mi dire che è preciso!

Replica: Io so soltanto riassumerlo così.

Archiati: Cosa intendi per consegna di spada?

Replica: Parlo di un’esperienza.

Archiati: Esiste soltanto un tipo di spada che è il pensare, che spacca in due e dice: questo è vero, e questo è erroneo, è falso. Spacca in due e dice: questo è bello e questo è brutto. Spacca in due e dice (il pensare dice, eh?, l’unica spada che esiste, perché soltanto col pensare dico che questo è vero e questo è erroneo) questo è buono, questo è cattivo.

vero / falso scienza

bello / brutto arte

buono / cattivo morale

La terza spaccatura è la morale, la prima è la scienza, la seconda è l’arte: questo è bello questo è brutto. Uno dice: la musica classica è bruttissima, la musica jazz è bellissima, per esempio – ma io ho una formazione classica e certe musiche non mi son mai convinto che siano belle; comunque il bello e il brutto son questione di gusti.

La terza fondamentale spada, per l’umanità di oggi che non la sa usare, è l’organo del pensiero che sa distinguere tra il bene e il male. Questo è bene per l’uomo e questo è male per l’uomo.

Cosa è bene per l’uomo?

Tutto ciò che lo rende più capace di pensare, questo è bene per l’uomo.

E cosa è male per l’uomo? Quello che lo rimbambolisce! Male peggiore non c’è che far devolvere la facoltà pensante.

Con quale spada spacco in due e decido, recido ciò che è bene e ciò che è male? Col pensare!

Replica: Però io ripenso sempre alle parole di Enoch, di quello che Dio disse a Enoch, in pratica che il bene e il male non esistono...

Archiati: Ma qui, o diamo per scontato che tutti sappiano di Enoch, oppure bisogna impiegare mezz’ora per creare il contesto.

Replica: Ma Dio dice due parole a Enoch!

Archiati: Due parole fuori contesto rovinano il pensiero. Il pensiero va giusto soltanto perché sa creare contesti, le cose hanno senso soltanto in un contesto. Lui ieri diceva: tu puoi capire quello che stai vivendo adesso, a quarant’anni, nel contesto di quello che hai vissuto da piccolo coi tuoi genitori, eccetera eccetera. E io gli dicevo: certo, il contesto è fondamentale, però hai preso un contestino, soltanto un pezzo del contesto, perché c’è un contesto molto più vasto che va oltre questa nascita, ecc.

Quindi una cosa la si capisce nella misura in cui il contesto è esaustivo. Io capisco il naso nel contesto della testa? Sì, ma non basta: lo capisco meglio, il naso, nel contesto di tutto l’organismo. L’organismo è un contesto globale? Sì, perché è una unità con una certa autonomia. Certo che un corpo umano non è pensabile senza tutto il mondo, però io non posso aspettare di conoscere tutto il mondo per capire il naso. Mi basta il contesto del corpo, però ci dev’essere.

Il primo contesto di Enoch sarebbe la Bibbia, perlomeno tutto il Vecchio Testamento, altrimenti non posso collocare Enoch: noi stiamo parlando de La filosofia della libertà.

Replica: Allora lasciamo stare.

Intervento: Volevo chiedere come si può intendere, come si deve intendere, la preghiera all’Angelo custode: ...illumina, custodisci... (mormorio in sala, ndr). Scusate, mi è venuto questo pensiero, forse per tanti sarà scontato, per me no.

Archiati: Proposta: eravamo arrivati al capoverso 26. Rileggiamolo. (III,26) «Voglio qui rilevare un errore molto diffuso riguardante il pensare. Esso consiste nel dire: “Il pensare qual è in se stesso {in sé e per sé} non ci è dato in nessun luogo. Quel pensare che collega le osservazioni delle nostre esperienze e vi innesta una rete di concetti, non è affatto uguale a quello che più tardi estraiamo dagli oggetti dell’osservazione e facciamo oggetto del nostro studio. Quello che in un primo tempo intessiamo incoscientemente nelle cose, è tutt’altro da quello che poi coscientemente ne tiriamo di nuovo fuori”».

Questa obiezione dice: e se ci fossero due tipi completamente diversi di pensiero? Se saltasse fuori che questo modo di pensare sul pensiero, siccome è a un gradino più cosciente, più sveglio, fosse di tutt’altra natura che l’altro pensiero?

Come si risolve questo quesito?

Se ci fossero due tipi fondamentali di pensiero, alternativi, diversi l’uno dall’altro, io li potrei cogliere e ci potrei pensare sopra soltanto col pensiero.

Quindi dal pensiero che pensa, e che ho a disposizione per pensare, non ne posso mai uscire, a meno che mi addormenti. Però quando mi addormento i problemi del pensiero per un po’ di tempo sono messi da parte.

In altre parole, il pensare è talmente originario che o lo ometto, mi addormento, sono semicosciente, vivo soltanto nell’animico, oppure, nel momento in cui mi risveglio, vivo in questo elemento, non ne posso uscire, è originario.

Il pensare è attività pura dello spirito e quindi è causa prima, non posso io trovare qualcos’altro, di altra natura, che produce questo tipo di pensare.

Il pensare non è mai effetto, è sempre causa prima, perché lo spirito pensante è l’inizio del tutto.

Qualcuno potrebbe chiedere: e se lo spirito umano pensante, o lo spirito divino pensante, fosse causato da un altro?

Se fosse causato da un altro, questo altro deve essere uno spirito che ha pensato questo spirito divino pensante e che lo ha creato.

Potrebbe, questa causa ancora più prima, aver creato questo spirito divino che crea senza averlo pensato? No. Quindi torniamo al fatto che l’inizio primo, il motore non mosso, diceva Aristotele, è lo spirito che pensa, che crea, che fa, e che squaderna mondi interi.

Se uno chiede: ma da dove viene questo spirito creatore?, bisogna rispondergli: non hai capito nulla! Lo spirito creatore non viene da qualche parte: è!!

In altre parole, una delle caratteristiche fondamentali dell’era poverella del materialismo è che si dà per scontato che ogni cosa è un effetto e deve avere una causa. Perché così è nel mondo materiale.

Il materialismo non conosce il primo inizio, perché non conosce lo spirito che pensa e crea – e una brutta pensata dello spirito creatore non esiste. Esistono solo belle pensate, e siccome sono tutte così belle non si può che volerle e attuarle, eseguirle, farle.

Giuda dice: se tu mi hai pensato come essere della libertà, creato per diventare io stesso spirito liberamente creatore, è intrinseco alla libertà che io non per coercizione di legge, ma liberamente, voglia costruirmi e mai distruggermi.

Ma il presupposto, la conditio sine qua non per non volere liberamente l’autodistruzione è averne fatto l’esperienza, è sapere che è qualcosa che non voglio.

Altrimenti ho bisogno del comandamento che me lo proibisce e allora non sono libero, e se non sono libero agisco contro il mio essere perché tu mi hai creato, mi hai pensato, sulla falsariga di te, a immagine di te: uno spirito che crea, liberamente, come un’artista.

E noi viviamo ancora con una morale così retriva, così restaurativa, così anacronistica, così antiquata, che continua a dire: non fare, non fare, non fare, altrimenti vai all’inferno!

Ce n’è da fare! E il da farsi è tutto fondato sul pensare.

III,27. Chi così conclude, non capisce che in tal modo non gli è proprio possibile di sfuggire al pensare. Io non posso affatto uscir fuori dal pensare, quando mi metto a considerare il pensare {perché è col pensare che considero il pensare, è col pensare che penso sul pensare, è pensando che esprimo pensieri sul pensare}. Se si vuol distinguere {col pensare} un pensare pre-cosciente da un successivo pensare cosciente, non si deve però dimenticare che questa è una distinzione completamente esteriore, che con la cosa in sé non ha nulla a che fare. Io non faccio di una cosa un’altra solo perché la considero col pensiero {il pensare non diventa una realtà diversa solo per il fatto che ci penso sopra, così come la pera che ho in mano non diventa una mela solo per il fatto che ci penso sopra}. Posso ben figurarmi che un essere dotato di organi di senso del tutto diversi dai miei e di un’intelligenza funzionante pure in modo diverso, abbia di un cavallo una rappresentazione del tutto diversa dalla mia, ma non posso figurarmi {non posso immaginarmi} che il mio proprio pensare divenga un altro solo perché lo osservo. Io stesso osservo ciò che io stesso produco {il pensare}.

Tessere una trama che congiunge fra loro, che contestualizza tutti gli elementi, tutte le fronde disperse – le fronne sparte,dice Dante – della percezione.

La percezione mi dà le fronde sparse dell’universo e il pensare crea una trama, mette tutto in un contesto, mette tutto al posto giusto: quella è una pietra, quella è una pianta, quello è un animale, e quello, se tutto va bene, è un essere umano – perché non si è costretti a essere umani: siamo liberi.

E chi mi aiuta a raccapezzarmi in tutti questi miliardi e miliardi di percezioni?

Il pensare.

La mamma dice al bambino di sei anni: guarda, nel negozio là c’è il formaggio, là compri il pane, là compri la verdura… Formaggio, pane e verdura non sono percezioni sono concetti formati dal pensiero.

C’è anche il cagnolino, non soltanto il bambino, e dico al cagnolino: guarda, là c’è il formaggio, là compri il pane e là compri la verdura. Cosa ci capisce il cagnolino? Nulla, perché non sa pensare, non ha la facoltà del pensiero.

L’animale vive, sente l’odore del pane, che è diverso dall’odore dei legumi, però il concetto non ce l’ha, perché il concetto lo forma il pensare.

(III,27) «Io stesso osservo ciò che io stesso produco».

(III,27) Qui non si sta parlando di come il mio pensare possa apparire ad un’intelligenza diversa dalla mia, ma di come esso appaia a me. In ogni modo, però, l’immagine del mio pensare non può essere più vera, in un’altra intelligenza, di quella che ne ho io stesso.

Riguardo al pensare che io stesso tiro fuori, riguardo al pensare mio, sono io la persona più competente.

Quando io dico formaggio, voglio dire formaggio: o vi è capitato di dire formaggio però intendevate la carota?

Intervento: Sì.

Archiati: No! Tu dici di sì perché vuoi fare il bastian contrario, che va bene come esercizio di pensiero. E adesso fallo! Adesso ti portano il microfono e tu dicci come sei stato capace di dire: voglio un pezzo di formaggio, però intendo la carota.

Replica: Perché per me, in quel momento, la coscienza del formaggio era l’essenza della carota, per cui ho detto quello che sentivo.

Mi capita spessissimo che persone si comportano verso di me dicendomi o dandomi cose che loro sostengono io avere chiesto, quando io ho coscienza che necessitavo di un’altra cosa, e quindi ho chiesto la cosa di cui necessitavo.

Chiedendo carota ma intendendo formaggio loro hanno preso il concetto della referenza del suono della mia parola, ma nella mia coscienza il formaggio che ho chiesto aveva tutte le connotazioni referenziali della carota, e quindi ho detto un qualcosa a cui io, in quel momento, davo una veste surreale.

Archiati: Stai barando, però ti devo dare un cinque e mezzo perché sei bravino a barare. Ci hai provato, ed è un esercizio molto bello, ci hai provato per vedere un pochino se funziona – si vedeva, questo è bello.

Però, con quello che io chiamo barare (e tu non la prendi sul personale, naturalmente), intendo dire che ti sei salvato soltanto oscillando tra ciò che avviene nel tuo pensare e ciò che avviene nel pensare altrui.

Lascia stare il pensare altrui, io questo non l’ho portato in campo. Io ho chiesto a te se, nel tuo pensare – sapendo ciò che dici, altrimenti è un vissuto non è un pensare – tu dici formaggio e intendi carota. Questo non è possibile. Perché allora non hai capito cos’è il formaggio, se intendi la carota.

Però questo esercizio che hai fatto è stato buono: gli esercizi bisogna farli aldilà del personale, lasciarsi anche un po’ ingiuriare…, e tu giustamente continuavi a dire: no, no, no, non è giusto quello che dici… e solo così si possono fare esercizi che servono.

Quello che Socrate tirerebbe, come somma di questo piccolo esercizio, che si può fare anche per un’ora, è che il pensare è quell’organo, quella facoltà che va a colpo sicuro oppure non è pensare. E che gli individui umani buttino fuori da sé tante cose che col pensare non hanno nulla a che fare, è un fatto che c’è, ci sono queste cose. Ma se è pensare va a colpo sicuro.

Questa affermazione è di una terapia infinita, perché se io trovo un elemento e so che, nella misura in cui io lo penetro, lo coltivo, lo rendo sempre più illuminato, sempre più limpido in me, questo elemento va a colpo sicuro, io sono salvo.

Pensare vuol dire capire, oppure non si pensa. E capire è capire.

O capisci che il formaggio è formaggio o non l’hai capito. E se l’hai capito non confondi il formaggio con la carota.

Intervento: Si usa dire, qualche volta, oh! ho avuto un lapsus, lapsus linguae.

Archiati: Sì dammi un esempio.

Replica: Non certo formaggio per carota, non credo, ma insomma il lapsus esiste, è una parola che esiste e viene usata. Qualche volta succede, pensavo solo a questo.

Archiati: Sì, adesso tu stai parlando di un fenomeno linguistico, di linguaggio, non di pensiero. Tant’è vero che noi diciamo lapsus linguae, e non lapsus pensatoii.

Replica: È vero, grazie!

Archiati: Perché un lapsus del pensatoio non esiste: o si pensa o non si pensa, e se si pensa si va dritti. Quindi gli errori di pensiero non sono pensieri, sono carenze di pensiero. Il pensiero, dove c’è, va a colpo sicuro.

Intervento: Cioè qua, in pratica, chiamiamo la carota formaggio, cioè chiamiamo pensiero ciò che non è pensiero.

Archiati: Sì. Siccome l’umanità moderna non sa più cos’è lo spirito, tratta come se fosse spirito tutto ciò che è dell’anima – e il linguaggio è un fatto dell’anima, non dello spirito.

Il linguaggio riguarda l’anima, tant’è vero che è un fenomeno comune. Lo spirito è sempre individuale, sempre individualmente libero, gestito dall’io, e il pensare è sempre individualizzato nell’individuo che pensa. E nella misura in cui c’è un processo di pensiero va a colpo sicuro, è quella spada a doppio taglio che va a colpo sicuro.

La libertà è un bene per l’uomo: come può essere sbagliato questo pensiero? Ditemi voi che la libertà non è un bene per l’uomo. Provateci.

E la non libertà è il male totale, perché uccide l’uomo in quanto spirito libero.

Intervento: Posso?

Archiati: Stamattina non mi fate andare avanti col testo. Allora oggi pomeriggio, mentre voi fate la siesta, porto alla fine il terzo capitolo, faccio metà del quarto…

Replica: Volevo un chiarimento tra il pensare a fondamento dell’io, dell’esistere, quindi il pensare che conosce, il pensare come attività libera dell’io, e invece il pensare che dà regole di comportamento e che viene preso in considerazione come momento di miglioramento del comportamento umano esclusivamente istintuale, ma che però, a volte, in quanto pensare che detta regole, è limitativo del pensare conoscitivo e della libertà dell’io.

Una differenza tra questi due tipi di pensare.

Archiati: Mentre tu parlavi mi venivano almeno cento, duecento pensieri, perché la tua riflessione si può svolgere in tante direzioni. Però di tutti questi elementi ne tiro fuori uno che, secondo me, nella tua riflessione, è quello più importante per noi nel contesto de La filosofia della libertà.

Tu hai parlato di tre fasi fondamentali nell’evoluzione dell’individuo: una l’hai chiamata istintualità, l’altra l’hai chiamata «darsi una regolata», e la terza non l’hai chiamata perché hai detto: speriamo che nel futuro arrivi.

Se traviso i tuoi pensieri devi farti sentire, è molto importante.

Replica: No, no, per il momento ci siamo.

Archiati: Per gli scolastici, per Tommaso d’Aquino (io ho fatto filosofia scolastica per sei semestri alla Gregoriana qui a Roma, i primi tre ancora in latino), una delle regole fondamentali prima di discutere (c’erano le quaestiones disputatae) era che nessuno aveva il diritto di cominciare ad argomentare contro ciò che diceva l’altro senza aver prima ripetuto ciò che l’altro diceva – e io sto cercando di farlo. L’altro, poi, doveva dire: sì, è quello che ho detto, l’hai recepito in un modo oggettivo. Soltanto allora quell’altro poteva cominciare a confutarlo.

Questa disciplina del pensiero che c’era, una volta, per grazia divina forse, è andata perduta per dare la possibilità all’individuo di riconquistarsela individualmente nella sua libertà. Però va riconquistata, altrimenti il mondo va a rotoli.

Quindi è importantissimo che tu mi dica che non sto travisando il tuo pensiero, se no non rispondo alla tua domanda, rispondo a una domanda che mi son fatto io, per comodo mio.

Allora, istintualità. Poi tu dicevi che per tirar fuori l’essere umano da questa istintualità, non puoi catapultarlo nella sfera stratosferica della libertà, così, di acchito. Allora c’è una sfera intermedia, quella della norma morale (io l’ho chiamata «darsi una regolata»), l’agire secondo norme. E, soltanto sulla falsariga di queste norme sagge e ben pensate, l’individuo, nella misura in cui le ha osservate e poi fatte sue, potrà agire liberamente – sempre secondo queste norme!

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Fin qui quello che hai detto tu. Potrei darti una risposta in quindici, venti direzioni diverse, però nel contesto che abbiamo qui direi: vabbè, se proprio vuoi… Però, posta così, la libertà non salta mai fuori. Perché questa matrice di pensiero è il pensiero decaduto, è il pensiero diventato disumano, è il pensiero che rimanda la libertà alle calende greche!

L’autorità, infatti, non ti dirà mai: adesso sei maturo abbastanza e le norme non ti servono più. La madre Chiesa non ha mai detto: adesso è ora che io finisca di essere madre, perché gli esseri umani son diventati adulti. No, no, no, per tutta l’eternità resta madre e significa che gli esseri umani per tutta l’eternità restano bambini.

Quindi questo schema è lo schema del moralismo disumano, antiumano, della mortificazione dell’uomo.

Soluzione? Adesso ti faccio io un salto mortale all’indietro, però prendete questi salti mortali che io sto facendo come provocazioni per il pensiero, eh?! Ci salviamo soltanto se abbiamo il coraggio di dire – il coraggio pensante, però, perché voi adesso state a sentire quello che io vi sto dicendo, ma il pensatoio ce l’avete, e dopo sì che qualcuno si deve far sentire –, ci salviamo soltanto se il pensare coglie un pensiero fondamentale e dice: il pensare è l’istintualità fondamentale dell’essere umano, è l’istinto primigenio, è la sua natura, e non c’è bisogno di mettere le redini a questa istintualità! Basterebbe darle fiducia, ma viene misconosciuta, non viene neanche veduta.

Noi stiamo parlando di un essere umano nel quale gli istinti, le forze corporee, sono più connaturali che non il pensare del suo spirito! Ma siamo scemi?!! Imbecilli, siamo diventati!! L’istintualità prima dell’essere umano è di essere un pensatore, uno spirito che pensa, un altro istinto non c’è mai stato!

Abbiamo soltanto una umanità che ha perso di vista il suo istinto primo, e si è snaturata! Perché se l’istinto primo è quello del corpo, quell’altro è un’alienazione.

O l’istinto primo è la libertà, oppure a che mi serve qualcosa che non fa parte della mia istintualità? Istintualità è natura, scusate, se ancora capisco qualcosa.

La natura dell’uomo è quella di essere uno spirito che pensa, che ama, che agisce, che crea!

In altre parole, questo modo di pensare è diventato così abissale, così bacato, che vorrebbe dirci che la corporeità fa parte più intrinsecamente della natura umana che non lo spirito che pensa. Più imbecilli di così non si può essere, perché le conseguenze sono micidiali, le vediamo dappertutto!

Tu giustamente dici: se travisiamo la natura umana, l’interpretazione pensante della natura umana, ci salva soltanto la norma, la norma, la norma…

Cos’è questa norma? L’addomesticamento dell’animale selvaggio. Il nostro pensiero bacato ha della natura umana il concetto dell’animale selvaggio che va addomesticato.

Non c’è aberrazione del pensare più abissale di questa, perché presenta il disumano, l’antiumano puro, come se fosse la natura dell’uomo.

Che poi Sigmund Freud chiami «libido» la natura primigenia dell’uomo, è sempre la stessa cosa: prendiamo la natura dell’uomo dalla parte del corpo anziché dalla parte dello spirito.

L’uomo ha un corpo, per qualche tempo, ma è spirito: il suo istinto di spirito pensatore gli è perciò molto più intimo, più naturale che non questa carcassa che si tira dietro per qualche decennio, se tutto va bene.

Quindi questa matrice è l’evidenza del pensare decaduto che va redento.

Adesso ti richiedo: ho capito bene la tua domanda?

Replica: Sì, molto bene. Un dettaglio: nel discorso del pensare decaduto rientra pure la dimensione del karma, che ci tiene all’interno di quel decadimento?

Archiati: Certo! Se non lo capiamo nel modo giusto come invito ad uscirne liberamente, individualmente.

Il senso della caduta, il senso dell’andata via dal padre da parte del figliol prodigo, è quello di ritornare per libertà, per scelta propria.

Però, come si fa a tornare, se non si va mai via?

Come si fa a redimere il pensiero, se non è mai caduto?

Un sancire moraleggiante il pensiero decaduto serve a tenerlo eternamente decaduto, a far piombare l’essere umano sempre di più nell’istintualità, perché un’istintualità di natura, che viene repressa dalle norme morali, diventa più forte.

Gli psicologi la sanno più lunga dei teologi. I teologi, i preti (in Germania li chiamano teologi), per esempio, con il loro celibato, col loro voto di castità dovrebbero aver già da lungo tempo imparato che questa fetta importante dell’istintualità che noi chiamiamo l’istinto della procreazione, l’istinto sessuale, nella misura in cui si reprime − perché non si deve pensare alla donna, non la si deve toccare, ecc. − diventa più forte. Se si è onesti, i fatti lo dimostrano.

E qui la psicologia potrebbe dare un aiuto alla teologia, perché il teologo i fenomeni dell’anima non li vuol neanche guardare, altrimenti i conti, poi, non gli tornerebbero più, salterebbe fuori che questa matrice di pensiero repressiva di fatto non fa altro che rendere l’istinto più irruente, più forte e quindi più fagocitante l’essere umano nella sua libertà.

La norma morale è il fenomeno primigenio della repressione, che non fa altro che aumentare la forza di ciò che si reprime. Quando tu una palla elastica la comprimi, la forza di ritorno diventa più forte.

Allora trovi il classico prete che a sessant’anni, a settant’anni, deve recuperare quello che normalmente si fa a sedici, diciassette, diciotto anni, e a quel momento lì è molto più irruente, molto più forte, perché è stato represso per tutta la vita.

Quindi la morale classica è per natura repressiva.

L’unica cosa che ci salva è di cogliere il pensiero come istinto assoluto della natura umana, e allora vado secondo il pensiero non secondo la morale.

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A che mi serve la morale, se posso pensare? A che mi serve qualcuno che mi dice cosa devo fare, se io so, nel mio pensiero, cosa mi fa bene? Lo so io, lo intuisco io nel mio pensiero, e lo voglio.

Una persona che fa qualcosa perché deve, non sa ciò che gli fa bene. Perché se conoscesse ciò che gli fa bene, lo farebbe liberamente, non perché deve.

Quindi chi agisce secondo dovere è un poveraccio in canna – nell’attesa che si dia una mossa e cominci a pensare.

È inutile che guardate tutti l’orologio… vabbè, facciamo una pausa.

Intervento: Volevo dire solo una cosa a rimarcare quanto è stato detto fino adesso: che la parola tedesca Mensch, uomo, viene dal sanscrito «mente», che in realtà è proprio la forza primigenia istintuale.

Archiati: Il pensatore.

Replica: Quindi, in realtà, proprio come dice Archiati, il genio della lingua aiuta specialmente in tedesco a capire meglio, a cogliere meglio l’essenzialità dell’uomo.

Archiati: In altre parole, dovete tutti quanti imparare il tedesco!, questo voleva dire lui.

*******

Visto che nella prima metà di questa mattina avete parlato quasi solo voi, qualcuno durante la pausa mi ha detto: siccome qui in sala c’è un’istintualità selvaggia che non permette all’oratore di esprimere un minimo di quello che ha da dire, per domarla devi instaurare una norma morale!! Che dice: non dovete interrompere il relatore, ne avete diritto soltanto nella seconda parte.

Io prima dicevo che dove c’è l’istinto del pensare non c’è bisogno della norma morale. Ma se qui io posso far valere i miei diritti soltanto con la norma morale, ben venga. In altre parole, c’era il desiderio da parte di qualcuno di andare avanti col testo.

Eravamo arrivati verso la fine del paragrafo 27: «Io stesso osservo ciò che io stesso produco. Qui non si sta parlando di come il mio pensare possa apparire ad una intelligenza diversa dalla mia, ma di come esso appare a me. In ogni modo, però, l’immagine del mio pensare non può essere più vera, in un’altra intelligenza, di quella che ne ho io stesso».

Un essere che pensa è competente in assoluto sul suo pensare, e vi avevo fatto il piccolo esempio che se uno pensa «formaggio» sa che pensa formaggio e non «carota», perché se pensasse formaggio e intendesse carota vorrebbe dire che non ha pensato formaggio. Il pensare va a colpo sicuro, o non è pensare.

(III,27) Solo quando non fossi io stesso l’essere pensante, e il pensare venisse a me come attività di un altro essere a me estraneo, potrei dire che la mia immagine del pensare risulterebbe, sì, in un determinato modo, ma non potrei però sapere che cosa sia in se stesso il pensare di quell’essere.

III,28. Ma per il momento io non ho il minimo motivo di guardare il mio proprio pensare da un altro punto di vista che non sia il mio stesso pensare {sul mio pensare posso soltanto pensarci con il mio pensare, resto nell’elemento del pensare; io non posso pensare sul mio pensare col pensiero di un Angelo, se no non sono più io}. Io considero tutto il resto del mondo per mezzo del pensare: Come potrei fare un’eccezione per il mio pensare? {nel considerare pensatamente il mio pensare?}

III,29. Con ciò ritengo sufficientemente giustificato se, nella considerazione del mondo, io parto dal pensare. Quando Archimede ebbe inventato la leva, credette di poter con essa sollevare dai cardini il cosmo intero, pur che gli si desse un punto su cui appoggiare il suo strumento. Aveva bisogno di qualcosa che si reggesse su di sé e non su un’altra cosa.

Prendiamo il braccio della leva, facciamolo lungo quanto questa sala. Con un minimo di energia posso sollevare un peso enorme e, se faccio il braccio ancora più lungo, con un solo dito posso sollevare un peso ancora maggiore.

Il pensare è quel tipo di leva in grado di sollevare il mondo intero!

Perché può capire tutto, può penetrare tutto, può conoscere tutto. Potenzialmente. Poi questa potenzialità va esplicata di giorno in giorno, di anno in anno, di vita in vita, ma il pensare non ha limiti. È come se questo braccio della leva fosse prolungabile all’infinito, e allora anche ciò che questa leva può sollevare aumenta all’infinito.

Detto in altro modo: c’è qualcosa che il pensare non può capire? No, perché terminerebbe di essere pensare. Il pensare può capire tutto, se no non è pensare.

(III,29) Nel pensare noi abbiamo un principio {un elemento cosmico} che sussiste per se stesso.

Prima dicevo: il pensare è un primo principio, un’origine assoluta. Il pensare non viene causato da qualcosa d’altro, lo spirito che pensa è causa primissima, origina tutto. Oltre non si può andare, non ci può essere qualcosa che è ancora più spirito, ancora più creatore, da saper creare lo spirito creatore. Perché per poter creare lo spirito creatore dovrebbe essere ancora più spirito e ancora più creatore − il che è una baggianata.

E alla domanda che chiede: ma da dove viene questo spirito creatore?, bisogna rispondere: la domanda è sbagliata, la domanda è stupida. Lo spirito creatore non viene da qualche parte, non viene da qualcosa: lo spirito creatore è!

È sempre, è oltre il tempo, perché ciò che viene da qualcosa presuppone un susseguirsi di processi nel tempo. Invece lo spirito creatore è al di là del tempo, è l’origine di tutto.

Questo spirito creatore noi lo afferriamo nel pensare.

Quando io capisco qualcosa, intuisco qualcosa, da dove mi viene questa intuizione?

Non mi viene da qualcosa, è un’illuminazione intrinseca al pensare.

Il pensare è un illuminarsi originario, che non ha un’altra causa che lo illumina, se no ci dovrebbe essere qualcosa, ancora più illuminato del pensiero, che illumina il pensiero, ma allora il pensiero non sarebbe pensiero, se avesse bisogno di essere illuminato.

Il pensiero è autoilluminazione per essenza, per eccellenza, per natura. Dove c’è, c’è luce. Oppure il pensiero manca, non c’è.

(III,29) «Nel pensare noi abbiamo un principio che sussiste per se stesso»: il tedesco dice besteht durch sich selbst, che sussiste attraverso se stesso, grazie a se stesso, grazie alla propria natura. La traduzione «per se stesso» diluisce un pochino il concetto, in italiano. Il senso è: per natura sua, non in virtù di qualcosa che viene di nuovo dal di fuori.

Quindi lo spirito è per natura luce e calore. Luce e calore sono due immagini, naturalmente: illuminazione che capisce, e calore che vuole, fa, crea, esegue! Perché lo sprazzo di luce che getta su ciò che sa ideare, crea delle realtà così belle che le deve realizzare anche a livello della percezione, per farle percepire all’essere umano: guarda cosa combina lo spirito! Impara anche tu, da ciò che ha creato lo spirito divino, a diventare tu stesso, sempre di più, uno spirito creatore!

E Dio guardò e vide, nella sua percezione del mondo percepibile, che era bello, bello, bello, buono per l’uomo, perché aiuta l’uomo, nell’imitazione della creazione divina, a ricreare il suo spirito creando, creando, creando luce e calore.

(III,29) Si parta dunque da qui, per tentare di comprendere il mondo. Col pensare noi possiamo afferrare il pensiero stesso. La questione è ora di vedere se per suo mezzo possiamo afferrare anche qualche altra cosa.

Cos’è il mondo della percezione? Il mondo della percezione ha qualcosa a che fare col pensiero? Noi stiamo pensando sul pensiero, stiamo cercando di percepire il nostro processo di pensiero, il nostro creare il pensiero, e diciamo: l’origine prima è il pensiero che crea, e lo vediamo in noi.

Ma allora la percezione è l’opposto del pensiero, perché è ciò che trovo. Il pensiero è ciò che creo, la percezione è ciò che trovo.

Se nel mio pensare colgo l’origine prima che è il pensare, la percezione deve essere il pensato di un altro pensatore. Perché, dove c’è spirito, esiste il pensare in attività, attuale, o il pensato già compiuto.

La creazione è l’insieme dei pensieri passati dello spirito creatore divino, dati all’uomo dalla parte della percezione: l’essere umano percepisce le pensate dello spirito divino, i pensieri dello spirito divino, e impara a pensare sempre meglio.

III,30. Finora ho parlato del pensare, senza tener conto del suo portatore, cioè della coscienza umana. La maggior parte dei filosofi contemporanei mi obietteranno: «Prima che ci sia un pensare, deve esserci una coscienza; quindi bisogna partire dalla coscienza e non dal pensare, non vi è pensare senza coscienza». A ciò io debbo ribattere: «Per riuscire a chiarire quale rapporto esista tra pensare e coscienza, devo cominciare col pensarci su. In tal modo metto prima il pensare». A questo si può rispondere: «Quando il filosofo vuole comprendere la coscienza, egli si serve del pensare, e in questo senso dunque lo presuppone; ma nel corso ordinario della vita il pensare sorge entro la coscienza, quindi presuppone questa» {prima del pensare umano ci deve essere la coscienza umana}. Se questa risposta venisse data al creatore del mondo {e dell’uomo} il quale volesse creare il pensare {dell’uomo}, essa sarebbe senza dubbio giustificata. Non si può naturalmente far nascere il pensare {umano} prima di aver fatto sorgere la coscienza {dell’uomo}. Ma per il filosofo {per noi che siamo pensatori} non si tratta di creare il mondo bensì di comprenderlo. Egli deve perciò cercare i punti di partenza non per la creazione, ma per la comprensione del mondo.

Il punto di partenza per la comprensione del mondo è il pensare, anche se il pensare presuppone la coscienza. Ma il fatto che il pensare presupponga la coscienza è una cosa che eruisco, che capisco, soltanto col pensare – quindi il punto di partenza resta sempre il pensare.

Noi non possiamo catapultarci all’inizio della creazione dell’uomo, metterci nella coscienza divina che dice: prima che l’uomo arrivi al pensare devo creargli la coscienza. No, non siamo all’inizio della creazione, siamo qui, e in quanto siamo qui ci troviamo nell’elemento originario del pensare.

E sul rapporto che c’è tra coscienza e pensare, noi possiamo soltanto pensare, possiamo solo farlo oggetto di pensiero. L’elemento primo, l’elemento di partenza è il pensare, non la coscienza, perché anche sulla coscienza possiamo soltanto esprimere pensieri, pensando.

(III,30) Mi sembra molto strano che si rimproveri al filosofo di preoccuparsi anzitutto della giustezza dei suoi principi e non contemporaneamente degli oggetti che egli vuole comprendere. Il creatore del mondo doveva anzitutto sapere come trovare un portatore per il pensiero, ma il filosofo deve cercare un fondamento sicuro su cui appoggiarsi per comprendere ciò che già esiste. Che cosa ci serve partire dalla coscienza e sottoporla all’analisi pensante se prima nulla sappiamo sulla possibilità di ottenere una spiegazione delle cose per mezzo dell’analisi pensante?

Il pensare è l’elemento di partenza in assoluto nel quale noi sempre siamo, non ne possiamo uscire e siccome ci siamo sempre dentro e non ne possiamo scappar fuori non lo notiamo.

Quando ci addormentiamo notiamo che usciamo dal pensare? No, perché uscendo dal pensare non notiamo più nulla e ci addormentiamo. Questo è il segno che finché siamo svegli non possiamo saltar fuori dal pensare.

Che poi questo pensare ordinario sia poco poco poco creativo e passibile di diventare sempre più creatore, queste sono questioni successive, sono pensieri che noi esprimiamo sul pensare; però l’elemento del pensare in quanto tale, della riflessione, del ragionamento, è l’elemento in cui viviamo sempre con la coscienza desta.

Essere uomo vuol dire pensare – con intensità diversa, livelli diversi, ma comunque pensare.

Il linguaggio ha diverse sfumature: per esempio, in italiano – e credo che non si potrebbe tradurre in tedesco, ci sono delle parole specifiche in ogni linguaggio che non si possono tradurre – si dice: ero un po’ sovrappensiero.

Che vuol dire «sovrappensiero»? Spiegate a uno straniero cosa vuol dire sovrappensiero! La parola «pensiero» c’è dentro, eh?!

Sovrappensiero è un’esperienza dell’anima in rapporto al pensare, ma di una sottilità, di una complessità tale che non si può spiegare a nessuno. La capisce soltanto chi ha ricevuto il linguaggio italiano come lingua materna, con la quale poi è cresciuto, è andato alla scuola elementare ecc., e allora sa cosa vuol dire, ma non la può spiegare. Però c’è dentro il pensiero.

Siete sovrappensiero, adesso?

Sovrappensiero sono le domande che l’anima fa allo spirito.

L’anima fa delle domande allo spirito e nelle domande l’anima è sovrappensiero. Poi lo spirito dà le risposte, è quello è il pensiero.

Il linguaggio ci aiuta a capire che i fenomeni del pensiero possono essere complessissimi, però tutto ci sta a dire che noi dall’elemento del pensare non possiamo mai uscire del tutto, perché l’unico modo di uscirne del tutto è di addormentarci. Ma allora la coscienza è via.

Un’altra parola interessantissima, che non si può tradurre in tedesco e neanche in inglese, è «perplesso» (qui non c’è la parola pensiero, però ha a che fare col pensiero). La cosa mi lascia un po’ perplesso. Che cosa vuol dire perplesso?

Intervento: Titubante.

Archiati: No, titubante è un’altra cosa.

Intervento: Dubbioso, non convinto.

Archiati: C’è il plexus, ci sono le falde che sono piegate. La cosa non è spiegata ma è complessa, e le cose complesse mi rendono perplesso, cioè devo seguire le ondulazioni, i plessi, devo andare per plessi.

Tutti cammini di pensiero! Si riferiscono al rovellìo di venire a capo della complessità. Ciò che è complesso mi rende perplesso, perché devo seguire tutti i meandri.

«Spiegare» qualcosa: qualcosa è piegato, è plesso, e spiegare significa togliere le pieghe. Quando uno spiega una cosa e toglie le pieghe, noi diciamo che non fa una piega, la cosa si è appianata.

Intervento: È lineare.

Archiati: Sì. Quindi il linguaggio è pieno di queste immagini. Son tutte immagini: il plesso, complesso, perplesso, spiegare. Anche «sviluppare» presuppone un avviluppare, perché io non posso sviluppare qualcosa che non sia avviluppato. E cos’è il viluppo?

Il viluppo è la piega rotonda. Una bobina è avviluppata e va sbobinata, sviluppata.

Cos’è lo sviluppo della creazione?

Lo sviluppo della creazione è la sbobinatura dei pensieri divini – che bella cosa! Nella mente divina sono un rotolo avvolto su se stesso, e nello sviluppo viene sviluppato.

«Evoluzione»: evoluzione. Evolvere presuppone una involuzione. Quindi la creazione è inviluppata, è involuta nella mente divina, è concentrata, e si evolve nella creazione, nel tempo, nell’evoluzione. Son tutte immagini in base alle quali il pensiero viene aiutato a creare i concetti.

III,31. Dobbiamo dapprima considerare il pensare in modo del tutto neutrale, senza una relazione con un soggetto pensante o con un oggetto pensato.

Che fenomeno è il pensare? Questa è la domanda fondamentale, perché lì è l’elemento in cui siamo sempre dentro. Quindi guardiamo a questo pensare: come è fatto? cosa avviene? che cos’è?

Il pensare, però, è il punto di partenza, perché il pensare non ha una causa ulteriore. La causa del pensare, infatti, cosa dovrebbe essere? Qualcuno che ha pensato il pensare, perché se non l’ha pensato non lo può creare, e qualcuno che pensa il pensare è il pensante, e allora restiamo nel pensare – cioè dal pensare non si può andar fuori!

Ripeto: se il pensare non fosse l’origine prima, ci sarebbe un’altra origine prima che ha creato il pensare. E come lo crea il pensare se non pensandolo? Si può creare solo ciò che si pensa.

Oppure detto in altro modo: si può creare qualcosa che non si pensa?

Cosa vi dice il pensare? No, no: qualcosa che non si pensa è aria fritta, non è nulla. Comincia a essere qualcosa quando lo pensi, quindi il pensare è l’origine prima, lo spirito pensatore è l’inizio primo, è l’eterno che non proviene da qualcosa d’altro, e crea il tempo squadernando i suoi pensieri, rendendoli percepibili.

Caro essere umano, siccome tu sei un pensatore in erba, toh, i miei pensieri te li metto lì al rallentatore.

La creazione è il rallentatore dei pensieri divini per aiutare l’essere umano, che dapprima va lento, a pensare, pensando i pensieri divini uno dopo l’altro. È così lento, il pensare umano! Deve imparare a pensare sempre più velocemente.

Il creato sono i pensieri divini al rallentatore, e il rallentatore li rende percepibili uno dopo l’altro, altrimenti ci toccherebbe arrancare, non capiremmo nulla se volessimo capire tutto in una volta.

Come fa il creatore ad avere tutto in una volta?

Chiedetelo a lui! Io non ci ho mai provato a essere il creatore del mondo.

Però tutta ‘sta bella pensata può averla tirata fuori solo se ce l’aveva dentro, e se ce l’aveva dentro tutto in una volta.

Intervento: I pensieri a Dio gli vengono uno dopo l’altro?

Archiati: È interessante la domanda. Se i pensieri gli venissero uno dopo l’altro sarebbe un pensatore umano, non un pensatore divino. Quindi la caratteristica del pensatore umano, dello spirito umano che pensa, è che i pensieri gli vengono uno dopo l’altro, poverello! Perciò vive nel tempo, per imparare sempre di più a farli venire a tre, a quattro, a cinque, a sei, a sette, tutti in una volta.

Si possono capire due cose insieme?

«Distinguere» significa capire due cose insieme, se no non le posso distinguere.

Se io non distinguo la carota dal formaggio, se io non li penso insieme non li posso distinguere, quindi ce li ho tutti e due nel pensare.

O forse mi tocca pensare prima il formaggio, e allora non ho il pensiero, il concetto della carota, e poi penso alla carota e ho dimenticato il formaggio? Mentre penso il formaggio la carota è andata a ramengo, poi penso alla carota e il formaggio è andato a ramengo? No, no, no, è immanente al pensare, allo spirito pensatore, di velocizzarsi sempre di più, fino a trascendere il tempo e avere tutto contemporaneamente.

Ludwig van Beethoven, la Nona sinfonia, ce l’ha tutta insieme o ha soltanto una nota dopo l’altra?

Intervento: Tutta insieme!

Archiati: È proprio questa la differenza tra Beethoven e uno come noi. Un poveraccio in canna c’ha una nota dopo l’altra, Beethoven ce l’ha tutta insieme, la sinfonia.

Michelangelo che fa I Prigioni, c’ha soltanto il naso del prigione? O del Mosè? No, o ce l’ha tutto o non c’ha nulla del prigione e del Mosè.

Il concetto è come un lampo che illumina e unifica un’infinità di percezioni.

Quante percezioni posso fare, io, su una carota? Se la guardo al microscopio, minutamente, posso fare cento, duecento percezioni. Il pensare le unifica tutte e dice: carota.

Un altro esempio più astronomico: vedo qua un capello, là un orecchio, un naso… un uomo! Quante percezioni ho riunito in questo lampo? Infinite. Infinite. Immaginiamo quante singole percezioni si possono fare su un uomo. All’infinito. Il concetto, cioè la creazione del pensare, è come un lampo che le vede in simultanea: uomo.

È soltanto perché ci siamo abituati, che noi non rimaniamo strabiliati di fronte a quello che il pensiero compie, ma è strabiliante!

Perché nella misura in cui ci lasciamo strabiliare, capiamo che abbiamo in mano una leva archimedica tale che possiamo capire, illuminare tutte le cose, e quindi averne in simultanea uno sguardo d’insieme.

E la vita diventa bella, bella, bella perché si capiscono le cose!

Fino al punto che non ti fermi all’infanzia per capire che cosa stai passando adesso che hai quarant’anni, ma c’è uno sguardo che abbraccia venti vite terrene e tu le vedi insieme, e il pensare ti spiega perché questa malattia, perché questa difficoltà coi tuoi genitori che hai scelto, prima di nascere, pensando che questa controforza sarebbe stata un’occasione per creare ulteriori forze per andare avanti nell’evoluzione...

La prospettiva delle ripetute vite terrene è un pensare ampliato che non soltanto vede tutta una vita come una unità, così come l’organismo umano è una unità, ma addirittura vede una vita singola come un membro in un organismo che ne abbraccia diverse.

È possibile! Vi sto esprimendo pensieri possibili! Tanto è vero che suppongo che per lo meno un poco li capiate.

Dove sono i limiti del pensare? Non ci sono, non ci sono. È assurdo parlare di limiti del pensare.

Pensare significa porre un particolare nel suo contesto, e porre un particolare nel suo contesto significa spiegare. Perché se io non vedo il naso nel contesto del corpo non posso dire naso, ma nel momento in cui dico naso dico corpo umano, e ho la spiegazione, perché del corpo umano fa parte il naso. Se no non è un corpo umano.

Malattia: il pensiero crea il concetto di «controforza necessaria per rafforzare la forza», e allora dico: bene, ben venga la malattia, ci vuole!

E una persona più evoluta si può permettere più malattie, più controforze, perché è più forte.

Non è una terapia quella di saper vedere una malattia come una fortuna, come un privilegio che un altro non si può permettere?

Voi mi dite che è un inganno? No, io vi dico che non è un inganno, perché il pensare dice: solo così ha un senso, la malattia. Solo così una malattia è per me, e una cosa ha senso soltanto se è per me. Io non sono per le cose, le cose sono per me. Se la malattia è per me, allora il pensiero dice che va tutto bene.

Se invece io ne devo scapitare, devo avere uno svantaggio a causa di una malattia, allora il mio pensare dice: qui c’è qualcosa che non funziona. Il pensiero dice: le cose funzionano soltanto quando tutto favorisce l’essere umano, che è l’elemento supremo della creazione.

Se questa malattia favorisce la mia evoluzione allora l’ho capita, nella sua essenza. Se invece non mi favorisce non l’ho capita! Ho capito il controsenso della malattia, ma non il senso, perché se la malattia fosse contro di me non avrebbe ragione di essere. Una malattia ha soltanto ragione di essere se è per me, non contro di me.

Un pensare sano rifiuta tutto ciò che è contro l’uomo, perché dice: ragionevole, ben pensato è soltanto ciò che favorisce l’uomo, che favorisce l’umano.

Intervento: Secondo te, è possibile dire che, nel momento in cui tu la comprendi, la malattia può terminare di agire? Proprio perché l’hai compresa, ha esaurito il suo scopo? Lo dico perché nel campo dello studio dei tumori, per esempio, ci sono delle interessanti teorie che riguardano il conflitto, e che ci dicono proprio che nella comprensione, nella risoluzione del conflitto, ciò che ha messo in atto il tumore ha anche la forza di farlo retrocedere.

Archiati: Una bella pensata! Una gran bella pensata! Perché chi è capace di volere il tumore deve essere capace anche di non volerlo, altrimenti non sarebbe un volere, sarebbe un istinto di natura. Quindi se il volere è libero, può liberamente volere una cosa e anche non volerla.

Torniamo indietro alla malattia in senso generale, perché il tumore rende più complessa la cosa. Tu hai chiesto, all’inizio: se io capisco la malattia, vuol dire che termina?

Nel momento in cui io penso la malattia come occasione, come controforza necessaria per rafforzare le mie forze, desidero che rimanga il più a lungo possibile! Perché allora divento il più forte possibile.

Cos’è l’incarnazione?

Una volontà di malattia dalla nascita alla morte, come occasione all’infinito di lottare con le controforze dell’elemento inerte della materia e della natura per fare passi da gigante, come spirito umano[10].

L’ho voluta questa malattia prima di nascere, e l’ho voluta lunga almeno tre anni: non sia mai che mi succeda la tragedia che gli anni siano soltanto due e mezzo! Perché il mio Io superiore sa di aver le forze necessarie per lottare con questa malattia per tre anni, non sia mai che siano di meno, altrimenti mi tocca rinunciare a delle forze bellissime che saltano fuori soltanto nella seconda metà del terzo anno.

È forte colui che ama la controforza, perché sa di dovere alla controforza il rafforzarsi della forza.

È forte l’amore che ama l’egoismo, perché senza l’egoismo l’amore non avrebbe quella controforza che lo rende sempre più forte.

È forte la salute che ama la malattia, perché senza la malattia la salute non potrebbe diventare sempre più forte. Una salute che non ha mai vinto nessuna malattia, è una mezza salute. Ma una salute che ha vinto una ventina di malattie, è molto più salubre, è molto più forte.

Quante malattie si può concedere un individuo, un Io superiore, che pianifica la sua vita?

È del tutto individuale, l’importante è che il terapeuta non gli porti via i doni più grandi della vita.

Qualcuno di voi forse ha studiato il Faust: qual è la cosa più bella che è capitata a Faust?

Il Mefisto! Il diavolo! Senza il Mefisto tutta l’evoluzione del Faust non sarebbe pensabile.

L’amore divino è così grande perché ama il diavolo, e la paura del diavolo è la debolezza dell’uomo, è la debolezza dell’amore. Si ama il diavolo perché soltanto lui mi dà la possibilità di superarlo, e per superarlo bisogna che ci sia la forza dell’amore.

È forte solo quell’amore che ama il diavolo come controforza necessaria per rendere l’amore sempre più forte. E il diavolo più diavolo, è l’egoismo!

Torniamo alla tua domanda.

Replica: Chiedevo se la comprensione della malattia esaurisce in sé il compito che la malattia aveva.

Archiati: Questo potrebbe essere se la malattia fosse un fattore puramente intellettuale, ma la malattia non è un fattore puramente intellettuale, è un interagire con forze di natura.

Quindi la presa di posizione del pensiero ha soltanto due possibilità fondamentali: o la penso in negativo – una malattia è una cosa brutta per me, mi fa male e sarebbe meglio se non ci fosse, però c’è! –, o la penso in positivo – è meglio che ci sia, se c’è. Perché se fosse meglio che non ci fosse, non ci sarebbe.

Il fatto che una malattia c’è, dimostra a un pensiero sano che è meglio che ci sia. Perché l’Io superiore, prima di nascere, sceglie soltanto le cose che sono meglio per lui, non quelle che non lo sono.

Nel momento in cui io entro in questa altra chiave di pensiero – vedo tutto, penso tutto dal suo lato positivo –, allora dico: se questa malattia c’è, è per farmi diventare più forte, però divento più forte non soltanto con i pensieri positivi, ma vivendo, lottando contro le controforze corporee di pesantezza ecc…

I passi in avanti vengono fatti lottando per superare la malattia. Però questi bei passi di lotta contro la malattia ho la gioia, ho la fortuna di farli soltanto finché sono possibili: quando la malattia finisce, eh!, è finito lo spasso!

Tu dirai: ma questo modo di vedere e di interagire con la malattia presuppone un tutt’altro tipo di coscienza pensante. Certo! Però non mi dirai mai che è meno intelligente. Perché colui che rifiuta la malattia, pensandola in negativo – sarebbe meglio che non ci fosse –, va indietro invece di andare avanti.

Adesso pensiamo quanti cosiddetti terapeuti, in fondo, se sono sinceri, hanno questo concetto della cosiddetta malattia: che sarebbe meglio che non ci fosse.

È un pensiero sbagliato, perché se fosse meglio che non ci fosse, non ci sarebbe!

È la versione laica del teologo che ti viene a dire: il peccato originale è un peccato, e perciò sarebbe meglio se non ci fosse stato. Pensiero bacato, perché se il peccato originale non ci fosse stato non ci sarebbe stata nessuna evoluzione. E questo sarebbe meglio?

Quindi un terapeuta comincia ad essere veramente terapeuta, ad aiutare a guarire, soltanto nella misura in cui si crea una struttura mentale che ha la convinzione assoluta che ogni malattia è un’occasione privilegiata di crescita. Altrimenti vada via, sparisca! Non è un terapeuta, è uno che gli rende la malattia ancora più terribile, perché la pensa in negativo, e così sono in due a pensarla in negativo. Una cosa terribile.

Intervento: Nulla viene per nuocere.

Intervento: Ma uno può pentirsi di aver scelto una malattia? Cioè, uno, queste cose, quando sta in terra, non le sa, non le ricorda.

Archiati: Certo, certo. Prima di nascere lo spirito umano è uno spirito puro: poi costruisce il corpo, e piombando dentro, tuffandosi dentro, inserendosi nel corpo, attraversa un oscuramento enorme di coscienza. L’Io superiore resta sovrasensibile, ha pensieri suoi, ma con l’incarnazione nasce un io inferiore, che è la coscienza ordinaria: lo specifico della coscienza ordinaria è l’interazione col corpo.

Questa coscienza che vive nell’interazione con l’elemento materiale non può mai essere così illuminata come l’Io superiore, che è spirito puro.

Quindi in questo io inferiore, in questa coscienza ottenebrata, può sorgere il pensiero che vede una malattia come qualcosa di negativo; ma soltanto l’io inferiore, soltanto la coscienza ottenebrata può vedere una malattia in negativo. L’Io superiore non può mai vedere una malattia in negativo, perché se fosse negativa non ci sarebbe.

Intervento: Tutte le malattie provengono dall’Io superiore? Oppure ci sono anche delle malattie che provengono da un livello più basso?

Archiati: No, un momento, un momento: malattie che vengono da un livello più basso? Cioè, la materia dovrebbe essere così intelligente da decidere lei di far saltar fuori una malattia?

Replica: Ma quando si parla di psicosomatica, non è l’individuo a un livello più basso che genera la malattia?

Archiati: No, no, no, sta’ attento! Il fatto che una malattia provenga da fattori corporei, presuppone un tipo di pensare così decaduto, un pensiero così corrotto, che addirittura pensa che la materia possa causare qualcosa. Come può la materia causare qualcosa? Per causare qualcosa devi pensarlo!

Replica: Esatto, ma è quello che sto dicendo. Psicosomatica: la malattia parte dalla mente, per esempio un pensiero ossessivo si va a riversare, a materializzare in una malattia.

Archiati: No, no, no: il pensiero si materializza? di che stai parlando? Il pensiero è spirito, lo spirito non si materializza mai.

Lo spirito si oscura interagendo con la materia, non diventa mai materia se no finisce di essere spirito. Teniamo conto del fatto che l’umanità di oggi, in chiave di materialismo, deve imparare le regole, gli elementi fondamentali del pensiero.

L’umanità di oggi, soprattutto nelle scienze naturali, ma anche in tutta la sfera della psicologia dell’anima, è piena di un pensiero del tutto corrotto.

Prova a ripeterci: un’origine della malattia è lo spirito individuale, che chiamiamo Io superiore, che l’ha pensata e l’ha voluta. Alternativa? Viene dalla materia. Dire che viene dalla materia significa proprio non capire nulla.

La materia che è capace di farsi il concetto di una malattia. Prendi un enfisema polmonare, che è un concetto estremamente complesso: adesso la materia dovrebbe essere così pensante, così intelligente, così intrisa di spirito da sapere esattamente cos’è un enfisema polmonare e causarlo! Lo pensa e lo realizza!

Replica: Scusa, ma è luogo comune che magari una persona che se la prende troppo potrebbe provocarsi un’ulcera allo stomaco. Non è così?

Archiati: Sì, ma allora la causa è un fattore spirituale e l’effetto è nella materia.

Replica: Sì, però tu parlavi di Io superiore che normalmente genera queste malattie.

Archiati: No, le vuole non le genera! Io non ti ho detto che l’Io superiore è la sola causa, anche l’io inferiore può causare una malattia.

Replica: È questo che volevo sapere.

Archiati: Ma l’io inferiore è anche spirito, per lo meno anima, non è fatto di materia. L’anima non è fatta di materia. Se vuoi, l’Io superiore è spirito, l’io inferiore è ciò che chiamiamo anima. Però l’anima ha pensieri, sentimenti e volontà – animici. Quindi è chiaro che l’anima può causare, ma mai la materia può causare.

Replica: Ma infatti, questo io non lo dico. Torno al discorso del terapeuta che diceva: se io riesco a capire la causa di questa malattia, che potrebbe in questo caso derivare dall’io inferiore, dall’anima, la malattia potrebbe sparire, se questa è l’origine.

Archiati: Lui la poneva in forma di domanda.

Replica: Può sparire, in questo caso, cioè se deriva dall’anima, se io capisco che me la sono causata a un livello inferiore?

Archiati: Ma tu hai parlato di un’ulcera allo stomaco, causata da certi pensieri, certi sentimenti che per anni e anni erano nell’anima. Ma tu lo sai che un’ulcera allo stomaco non sparisce dall’oggi al domani? Mica vogliamo dire delle baggianate, scusa?

Replica: Sì, ma un modo diverso di comportarsi potrebbe farla sparire. Se io capisco che ho la brutta abitudine di arrabbiarmi…

Archiati: Il corporeo, il dato di natura, ha delle leggi sue: c’è un certo livello di ulcera, dico per ipotesi, che è reversibile, poi ci può essere un certo livello di ulcera che non è più reversibile, ma questo lo devi studiare entrando nel merito delle forze del corporeo, e lì devi chiedere al medico.

Come il terapeuta o lo psicoanalista dovrebbe essere specializzato nelle leggi, nelle realtà dell’anima, così il medico dovrebbe essere specializzato nelle leggi, nelle realtà del corporeo.

E poi c’è una terza sfera fondamentale, quella dello scienziato spirituale, che dovrebbe avere una conoscenza sempre più scientifica delle realtà dello spirito.

Quindi l’unico modo vero, per una terapia totale, sarebbe un collaborare tra lo scienziato spirituale, lo psicologo che si specializza sui fenomeni dell’anima e il medico.

Una terapia dove c’è o soltanto lo scienziato spirituale, o soltanto lo psicanalista o soltanto il medico è parziale, manca l’uomo intero.

Quindi, per un futuro, vero aiuto all’essere umano – e l’essere umano è spirito, anima e corpo, e il corporeo ha leggi sue specifiche che richiedono tutto uno studio, non si può essere specializzati nel corporeo, e nell’animico e nello spirituale, se no si diventa dilettanti in tutto – lo scienziato spirituale, lo psicologo e il medico devono mettersi insieme. Questo è il futuro. E devono ascoltarsi a vicenda.

Quando stiamo parlando di ulcera deve parlare il medico, non lo psicologo. Se invece parliamo di una arrabbiatura stiano zitti sia il medico, sia lo scienziato spirituale e lasciamo parlare lo psicologo, perché l’arrabbiatura è un fenomeno specifico dell’anima.

Questo tipo di complessificazione della terapia, o comunque del modo di interagire fra esseri umani dove queste tre sfere sono veramente specifiche, è tutto da costruire, però è una bella prospettiva per il futuro.

Steiner ha tenuto corsi specifici dove c’erano medici, c’erano pastori d’anime, lui era lo scienziato spirituale e diceva che bisogna mettersi insieme.

Luciana dice che lo stomaco si fa sentire: è di competenza dello psicologo, dello scienziato dello spirito o del medico?

Io vi auguro buon appetito!

Sabato 16 febbraio 2008, pomeriggio

Vorrei attirare la vostra attenzione anche su quella scatoletta poco vistosa (cosa che mi ha preoccupato un pochino) del contributo per il relatore: sono certo che ciascuno di voi ci penserà, anche perché, questo mi preme dirvelo, quello che date a me va indirettamente alla casa editrice – io, in fondo, per campare da persona felice, ho bisogno di molto poco. Così, e soprattutto comprando i libri, ci permettete di continuare ad offrire questa scienza dello spirito come proposta di un nuovo stadio dell’evoluzione della coscienza umana, in un modo accessibile a tutti.

Con i prezzi che abbiamo, riusciamo bene o male a reinvestire nella stampa e in un minimo di pubblicità quello che riceviamo dai lettori, da voi; finora non c’è stato nessun margine di guadagno, e questi giovani, per esempio Monika Grimm, secondo lo Stato dovrebbero anche pensare alla terza età – può darsi che più in là sarà possibile anche questo.

In questi mesi la casa editrice sta attraversando un po’ di difficoltà anche economiche: se ci fosse qualcuno di voi che ha il portafoglio e la voglia di sostenere un po’...

Se vi interessa, abbiamo avuto dalla Germania dell’est una grossa donazione di 300.000 euro per comprare (in affitto non si trova quasi nulla) una piccola sede per la casa editrice. Però sulle donazioni c’è il 29% di tasse e quindi, dovendo dare allo Stato quasi 100.000, euro i soldi non ci bastano.

D’altra parte rifiutare una donazione è contro le leggi della vita spirituale, perciò, avendo una sede nostra, modesta però nostra, eviteremo di pagare ogni mese un affitto con nessi e connessi che ci costava finora, tra 1.500 e 2.000 euro al mese, e questo andrà a vantaggio dei lettori.

Quindi vi ringrazio già ora per ogni euro che ci date, perché proprio va direttamente agli esseri umani attraverso questa proposta della scienza dello spirito che noi riteniamo senza alcun dubbio la più valida, la più universale e anche la più necessaria per un sopravvivere spirituale e animico dell’umanità.

Io vedo delle volte con preoccupazione l’andamento dell’umanità: il potere stringe la morsa sempre di più, il quotidiano diventa sempre più pieno di aggressività da un lato e di depressione dall’altro. Se non ci diamo da fare, ed è questione dell’impegno di ogni individuo, per una rigenerazione spirituale dell’umanità, la convivenza sociale diventerà sempre più difficile, su questo non ho dubbi.

Sono certo che non vedete questa casa editrice come una specie di ubbia insignificante – si pone proprio nel cuore del cammino dell’umanità di oggi.

Stavamo agli sgoccioli del terzo capitolo, capitolo importantissimo perché insieme al quinto – il quarto, lo vedremo, fa una specie di riflessione sul mondo della percezione, poi il quinto capitolo ritorna di nuovo a mettere al centro il pensare –, incentrandosi sul pensare, ci fa riflettere sul fatto che la realtà operante, la realtà di massima forza, la realtà di massima travolgenza, non è un uragano ma è lo spirito che pensa.

Questo spirito che pensa è di una realtà tale, è di un’energia così energumena che ti sbatte lì tutto il mondo che abbiamo. La cosiddetta materia non è nulla di realtà rispetto allo spirito creatore, perché lo spirito l’ha creata e la materia non è capace di tirar fuori neanche un pensiero.

Un pensiero ben pensato, quello sì che è realtà, perché se è ben pensato muove gli arti, muove tutto il corpo e fa fare – proprio perché è ben pensato.

Il problema è: come si fa a convincere l’umanità di oggi che si è messa in testa che la materia è la realtà? Il legno di questo podio, di questo pulpito qui, deve essere una realtà: il pensiero è soltanto pensiero. Come fa il pensiero a essere realtà?

Ma chi l’ha fatto questo pulpito? Il pensiero!

Ed è capace, questo pulpito, di tirar fuori un pensiero? Tu, pulpito, dimmi qualcosa: ce sei o ce fai?

Lo spirito pensante è la forma suprema, l’energia più compressa che ci sia.

Tra i fisici, per tanti secoli, chi avrebbe mai pensato che dalla scissione dell’atomo, da qualcosa di piccolissimo e invisibile, potesse saltar fuori un’energia che ti distrugge una città intera? Così è il pensiero, il pensare.

La grande terapia del materialismo non può essere che il pensare. È una terapia che funziona, però il problema è che non lo facciamo abbastanza, anche perché tocca all’individuo pensare, non si può fare intruppati, da pecorelle che vanno col gregge.

Un’altra cosa del pensare, che abbiamo visto, è che non viene gestito in gruppo, ma dall’individuo. Cartesio non dice: noi pensiamo dunque siamo, perché il «noi pensiamo» non esiste. Io penso, dunque sono.

Quindi questa scienza dello spirito che riconquista la realtà creante dello spirito si rivolge all’individuo, e ogni cosa di gruppo – che ha la sua legittimità, naturalmente – diventa strumento necessario, conditio sine qua non: tutto ciò che è di comunità, di istituzione, di organizzazione ecc., diventa strumento per aiutare, per consentire all’individuo di camminare, di diventare sempre più creatore nel suo spirito che pensa.

Riprendiamo: (III,31) «Dobbiamo dapprima considerare il pensare in modo del tutto neutrale, senza una relazione con un soggetto pensante o con un oggetto pensato».

(III,31) In soggetto e oggetto abbiamo infatti già dei concetti formati {pensati dal pensare}. Non si può negare che prima che si possa comprendere ogni altra cosa, deve essere compreso il pensare. Chi nega ciò non si accorge che egli, come uomo, non è il primo anello della catena della creazione, ma l’ultimo {come uomo che pensa}. Perciò, in vista di una spiegazione del mondo per mezzo di concetti, non si può partire dagli elementi cronologicamente primi dell’esistenza, bensì da quello che ci è dato come il più prossimo ed intimo. Non possiamo trasportarci con un salto all’inizio del mondo per cominciare da lì la nostra osservazione, ma dobbiamo partire dal momento presente e vedere se possiamo risalire dal più recente al più antico.

Allora, rifacciamo il famosissimo esperimento di Beniamino Libet che, già a partire dal 1985, ha fatto degli esperimenti sul cervello. Adesso io sto facendo un processo di pensiero, svolgo una serie di pensieri su qualcosa che non si chiede come è sorta la coscienza umana in cui si svolge il pensare. Partiamo, e mentre io svolgo questi pensieri voi osservate al contempo che tipo di pensieri sto svolgendo.

Beniamino Libet dice: fammi vedere se c’è un modo sperimentale per sapere se quello che avviene nel cervello è la causa di ciò che avviene nella coscienza (adesso i colori li devo tenere ben distinti: la coscienza ve la faccio giallina: questa è la coscienza, questa calotta mentale.

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Fig. 6

Dice Libet: vediamo cosa avviene nel cervello. Ciò che avviene nel cervello io lo posso osservare sperimentalmente (perché il cervello è materiale e percepibile ai sensi) mettendo catodi, elettrodi ecc., e poi chiedendo alla persona: che cosa stai pensando?, quali immagini? Così vengo a sapere se prima c’è un evento, una sinapsi o comunque un qualcosa che cambia nel cervello, e dopo, un momento dopo, avviene qualcosa nella coscienza. In questo modo posso dedurre che ciò che avviene prima (nel cervello) è la causa, e ciò avviene dopo (nella coscienza) è l’effetto.

Se invece sperimento l’opposto, cioè che la persona mi dice: tac! ho avuto adesso l’immagine, e io vedo che un decimo di secondo dopo avviene qualcosa nel cervello, allora posso dire: prima c’è il fenomeno della coscienza e il fenomeno del cervello è l’effetto.

Libet dice: se riesco a vedere quello che viene prima, anche di un minimo lasso di tempo, quello è la causa, e quello che viene dopo è l’effetto.

Si è messo a sperimentare e sempre, senza eccezione, parecchie cose gli hanno dimostrato che ciò che avviene nel cervello è sempre prima, e ciò che avviene nella coscienza è sempre dopo – anche se di un minimo, ma mai all’opposto.

E Libet ha detto: guarda, adesso c’hai una prova sperimentale, scientificamente provata, che i fenomeni fisici, biologici, del cervello, del DNA, quello che volete, sono la causa, e i fenomeni di coscienza (pensieri, immagini, ecc.), siccome vengono dopo, sono l’effetto.

Quindi la materia è la causa e ciò che avviene nel cosiddetto spirito è l’effetto.

Intervento: C’era la coscienza di Libet che dava gli impulsi al cervello dell’altro, no? C’era comunque prima una coscienza.

Archiati: Lui, con dei fili elettrici, con delle spie elettromagnetiche finissime, rilevava quello che avveniva nel cervello, e ogni volta che succedeva qualcosa nel cervello ti diceva: ah!, subito dopo la persona ha pensato questo, ha visto quest’altro…

Replica: Credevo che li provocasse lui, gli impulsi.

Archiati: Non necessariamente. Comunque gli esperimenti li ha fatti in tutti i modi, per cui questa affermazione la si può lasciare così.

Intervento: Allora, questi sono studi che Libet ha fatto nell’ultimo libro Il fattore temporale della coscienza: da quello che ho capito, lui sperimenta che nel momento in cui io compio un atto volitivo, qualche millesimo dopo, valuta cento millisecondi, arriva la coscienza. Non dice che è il cervello che parte; dice: qualcosa decide e dopo mi arriva la coscienza, come rappresentazione di ciò che ho fatto. Chiaramente, essendo un neurofisiologo, non può dire che è lo spirito che prende la decisione. È limitato, lui, lo schema mentale da neurofisiologo gli impedisce di dire che è il pensiero spirituale che decide e dopo un millisecondo arriva la coscienza, come rappresentazione.

Archiati: No, un momento: cos’è che non può dire?

Replica: Essendo uno scienziato, un neurofisiologo, Libet parte dal presupposto che lo spirito non esiste.

Archiati: Ma è questo il punto!

Replica: Eh, infatti ! Però questo esperimento lascia proprio il dubbio che probabilmente lo spirito esista. Anche lui rimane costernato da questo fatto.

Archiati: Sì, perché pensava di dimostrare l’opposto.

Replica: Esatto. Quindi, secondo me, è un esperimento scientifico naturale che invece avalla quello che stiamo dicendo.

Archiati: Allora, diciamo che, finché si tratta di descrivere oggettivamente quello che lui ha rilevato, va tutto bene, perché o è oggettivo, o non è oggettivo. E fin lì va tutto bene. Adesso si tratta di cogliere, col pensiero però, la differenza che c’è tra descrivere le percezioni che uno ha – il lasso di tempo, i processi del cervello, per esempio la carica di volontà: perché quando ci sono pensieri senza carica di volontà, magari nel cervello non avviene nulla, questo era un problema di Libet – e poi passare il Rubicone quando si cominciano a interpretare i fenomeni.

Ora, il nesso di causa ed effetto è un’interpretazione, non ha nulla a che fare con la descrizione, perché la descrizione ti dice: in questo millesimo di secondo c’è stata questa realtà, un millesimo di secondo dopo c’è stata quest’altra realtà – questa è una descrizione, non è un’interpretazione.

Invece, dire che uno è la causa e l’altro è l’effetto è un’interpretazione, perché causa e effetto sono concetti, non sono percezioni, e qui è il punto!

Quello che io volevo dire è che un pensare proprio povero, in assoluto, non sa distinguere neanche tra il descrivere il dato di fatto e l’interpretarlo: non fa questa distinzione perché non la conosce.

Un pensare un pochino meno povero, ma pur sempre povero, pensa che ci sia soltanto una interpretazione: ciò che avviene prima è la causa e ciò che avviene dopo è l’effetto.

Un pensiero un pochino più evoluto dice: certo che se c’è sempre di nuovo una connessione infallibile tra l’uno e l’altro, e l’uno avviene prima, hanno un certo rapporto di causa e effetto.

Resta però l’altra possibilità per il pensiero, che tu invece non consideri perché non la conosci, che la causa, ciò che avviene prima nel cervello, sia a sua volta effetto di un’altra causa. Questo tu non lo consideri.

E può darsi che non lo consideri perché c’hai il tuo dogma di scienziato che prima di tutto dice: il cosiddetto spirito non esiste, e quindi non può causare nulla.

Un pensare pulito lascia aperta questa possibilità, perché dice: se io mi fermo a questa causa qui, dovrei dimostrare che gli eventi del cervello sono la causa prima. Se invece non sono la causa prima possono essere effetto di un’altra causa.

Faccio un piccolo salto ad Aristotele, che ti mette lì l’affermazione di evidenza assoluta, per lui un assioma: causa prima può essere soltanto lo spirito.

Se lo scienziato si rendesse conto di stare esprimendo, in fondo, l’assioma opposto – che ciò che avviene nel cervello è una specie di causa prima –, se se ne rendesse almeno conto, avremmo già la possibilità di colloquiare, di conversare a vicenda. Ma non se ne rende conto.

Il problema del pensiero è di capire che c’è una differenza tra una causa a metà, che è al contempo effetto di altre cause, e il concetto di causa prima.

Il pensare scientifico è diventato così povero che dove si tratta di causa prima, cioè di un inizio assoluto, diventa del tutto irrazionale. Il Big Bang dell’inizio è il miracolo in assoluto: all’inizio del mondo c’è stato il Big Bang, irrazionale, miracolo assoluto, e poi tutta la razionalità delle leggi di natura che conosciamo oggi.

Kant, peggio ancora, dice: in quanto alla causa prima, cioè al primo inizio del mondo, la ragione umana, poveretta, può dimostrare apoditticamente che il mondo ha avuto un inizio – e lo dimostra assolutamente – e dimostra altrettanto assolutamente che il mondo non può aver avuto un inizio. Sono le famose antinomie della ragion pura, da leggere ne La critica della ragion pura di Kant.

In altre parole, Kant dice: la ragione dell’uomo d’oggi non è capace, non può dirimere la questione della causa prima, del primo inizio, in un modo apodittico. Ti può dimostrare apoditticamente l’una cosa e altrettanto apoditticamente l’opposto.

La chiave di volta del pensiero è: qual è la causa prima ? Perché di cause seconde, che sono effetti e a loro volta cause di altri effetti, è pieno il mondo. Lì non c’è problema.

E così, come l’umanità antica dava per scontato che la causa prima può essere soltanto lo spirito pensante, così ci tocca onestamente dire che l’umanità pseudoscientifica degli ultimi secoli di fronte a questa domanda fondamentale fa assolutamente cilecca.

Beniamino Libet era convinto che il primo inizio dell’atto di volontà non fosse materiale, ma fosse direttamente nell’anima, nello spirito, chiamatelo come volete. Invece gli è toccato dimostrare che prima avviene qualcosa nel cervello e un millesimo di secondo dopo avviene qualcosa nella coscienza. E non ha saputo fare l’altra ipotesi, quella che io volevo aggiungere, sempre come ipotesi. Io, qui, non sto dimostrando nulla, ma bisognerebbe almeno rendersi conto degli assiomi fondamentali che si fanno. Nessun pensiero può compiersi senza assiomi.

Un assioma cos’è? Un primo inizio. Se tu il primo inizio lo dimostri, allora non è il primo inizio. Da qualche parte bisogna cominciare, e l’umanità antica partiva dallo spirito. Diceva: si parte dallo spirito. Era un assioma. Non si può dimostrare che lo spirito è creatore: o ti è evidente, e quindi è un assioma, oppure fai un altro assioma.

Praticamente l’umanità moderna dovrebbe dire onestamente che mette alla base l’assioma che la materia è il punto di origine. Però poi nasce la domanda: ma come è nata la materia? Col Big Bang!

Allora, l’altro assioma che era stato sempre dato per scontato nell’umanità, è che lo spirito pensa e vuole qualcosa. Questo spirito (e qui mi serve un altro colore Fig. 7), che spiritualmente pensa e vuole qualcosa, afferra direttamente il cervello, crea, cambia qualcosa nel cervello, e la coscienza è soltanto il sorgere dell’immagine.

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Fig. 7

Nella coscienza non ci sono realtà, nella coscienza ci sono immagini speculari: la coscienza è un riflesso che mi porta a coscienza ciò che avviene nel cervello, e ciò che avviene nel cervello è effetto, e la causa è lo spirito pensante e volente.

Perlomeno bisognerebbe concedere che è un’altra possibilità, ed è quella che è sempre data per scontata da tutta l’umanità antica.

Viste così le cose, il cervello è una specie di specchio, di sostrato speculare che fa sorgere immagini rispecchiate. Nella coscienza ordinaria non ci sono realtà, perché se ci fossero realtà non saremmo liberi. Quindi la libertà di cui parliamo nasce dal fatto che noi, nella coscienza ordinaria, abbiamo soltanto immagini vuote, che non ci danno calci, non ci danno pugni, perché se nella coscienza avessimo delle realtà che operano, che ci spingono ecc., non potremmo essere liberi.

Ed è questo il mistero dell’astrazione: nella coscienza ordinaria dell’uomo moderno ci sono soltanto astrazioni, immagini, come quelle dello specchio, che astraggono da ogni realtà dinamica, direbbe Kant, e quindi mi lasciano libero.

Il cervello fa sorgere immagini riflesse: questa è la coscienza. Ma la causa di ciò che avviene nel cervello è lo spirito, così come è la causa di ciò che avviene in tutto il sistema neurosensoriale.

Uno guarda fuori dalla finestra e vede un panorama, e questo gli provoca tanti effetti.

Ma chi è la causa dell’andare alla finestra e del vedere? Chi ha portato il corpo alla finestra?

Lo spirito dell’uomo, con le forze del karma. È nel suo karma, è nella volontà del suo spirito di andare alla finestra – alla coscienza ordinaria magari questo resta subconscio o sovraconscio, perché la coscienza ordinaria non si rende conto di tutte queste cose –, nessun corpo si può muovere e andare alla finestra senza che lo spirito, con la consapevolezza del karma, quindi dei passi evolutivi successivi che vuol compiere, dica: ora la cosa che voglio fare è andare alla finestra per espormi a tutto quello che vedrò dalla finestra.

Quindi, qual è la causa prima che muove il corpo che va alla finestra? È lo spirito dell’io, uno spirito individuale che pensa: questo adesso voglio fare, e lo fa.

Altrimenti l’alternativa è che la materia si muove da sola.

Se ci fosse qui un Aristotele e noi gli dicessimo: Aristotele, ma è il corpo che si muove e va alla finestra!, o non capirebbe cosa stiamo dicendo, oppure prenderebbe un infarto cardiaco.

Intervento: Chi muove il feto prima della nascita?

Archiati: C’è uno spirito umano che vuole costruirsi un corpo per andarci dentro, servirsene.

Replica: È già lì? Non si è ancora incarnato, ma lo muove dal di fuori, però.

Archiati: Il processo di incarnazione è molto complesso.

Replica: Dura nove mesi. E dopo nove mesi si incarna?

Archiati: No, la nascita è uno stadio. Tu prendi un bambino a un anno: è già al punto da poter afferrare il cervello dal di dentro in modo da pensare come pensi tu o penso io?

Replica: No.

Archiati: No, vedi che è un processo molto lungo, molto complesso. Però a sette anni, a dieci anni già si serve dal di dentro di questo corpo. È un processo molto lungo, molto complesso ciò che noi chiamiamo l’incarnazione, però tutto compiuto dallo spirito che si vuole incarnare. Si sta costruendo una casa per abitarci dentro: tu una casa la costruisci in cinque minuti? La casa corporea è ancora più complessa.

Ciò di cui stiamo parlando è l’invito a ritrovare il centro, il fulcro e l’origine della propria esistenza nel proprio pensiero, quindi di riviversi sempre di più come spirito creatore in quanto pensante, amante, volente e agente.

Allora l’essere umano dice: sono io la prima causa di quanto avviene nella mia vita, sono io la causa di quello che faccio, sono io che voglio, sono io che penso, sono io che capisco. La mia vita la gestisco io col pensare.

Stiamo parlando delle cose più fondamentali che ci siano, però ci diciamo anche che l’umanità di oggi, che noi riassumiamo con la parola «materialismo», fa fatica e quindi bisogna non mollare, esercitarsi finché a brano a brano la realtà dello spirito ce la riconquistiamo.

Però spero che, bene o male, anche se chi sta qui davanti sfarfuglia un pochino perché le cose non sono così semplici, ci venga da dire che non è tutto matto quello che stiamo dicendo. E cos’è che ci dice che sì, le cose vanno in questa direzione? Il pensare! È la testa, è il convincimento che è così.

E dove ci sono i poteri di questo mondo, cioè dove c’è l’interesse a dominare l’uomo per usarlo come strumento per i propri fini, cosa si fa? La prima cosa da fare è proibirgli di pensare, è far di tutto perché non diventi autonomo nel suo pensare, perché una persona autonoma nel suo pensare non è più gestibile dal di fuori, è chiaro.

Allora, eravamo al paragrafo 31: «Non possiamo trasportarci con un salto all’inizio del mondo per cominciare da lì la nostra osservazione, ma possiamo partire dal momento presente e vedere se possiamo risalire dal più recente al più antico».

(III,31) Fino a che la geologia ha parlato di immaginarie rivoluzioni per spiegare lo stato attuale della terra, non ha fatto che brancolare nel buio. Soltanto quando ha cominciato a prendere per punto di partenza lo studio dei fenomeni che si svolgono ancora oggi sulla terra e da essi è risalita a trarre conclusioni riguardo al passato, è entrata sopra un terreno solido.

Così nello psicologico dobbiamo partire da quello che abbiamo nella percezione attuale, e cos’è che abbiamo immediatamente nella percezione attuale? Il pensare. Da lì dobbiamo cominciare, perché il pensare è la cosa più immediata che ci è accessibile perché è quello che facciamo sempre.

E siccome è quello che facciamo sempre lo disattendiamo, non ci facciamo attenzione, e allora l’inizio della filosofia è fare attenzione al pensare, è rendersi conto sempre meglio di cosa faccio, io, continuamente, senza accorgermene.

E prende l’esempio della geologia, l’esempio della filosofia.

(III,31) Fino a che la filosofia accetterà tutti i possibili principi come atomo, moto, materia, volontà incosciente, resterà campata in aria.

Cos’è «atomo», cos’è «moto», cos’è «materia», cos’è «volontà»? Tutti prodotti del pensare! Di un pensare che si disattende. Si disquisisce sull’atomo, sul moto, sulla materia, ecc…. e si disattende il pensare: per disquisire sull’atomo, sul moto, sulla materia io presuppongo la capacità di disquisire, la capacità di pensare. E allora se voglio andare alla causa prima, devo andare al pensare.

Diciamo allora che il pensare è la causa prima della realtà presente, più indietro non si può andare. Volendo andare più indietro o più avanti si va nell’astrazione.

Quindi il pensare è l’origine.

No, ma forse c’è un’altra origine… Quest’altra origine la puoi dire soltanto pensandoci, e allora la causa prima è il pensare, non si scappa. Oppure non ci si accorge, oppure si fa una svista.

Vedi? La tua testa dice: eh, è vero!, non scappo dal pensare. Questo sta dicendo proprio la tua testa. Che bello! È convincente, perché nel momento in cui uno scappa dal pensare si addormenta, e allora non ci son problemi, si dorme.

Nel momento che non si dorme più si è nel pensare. La causa prima di tutti gli esperimenti che ha fatto questo Libet qual era? Il suo pensare. Col pensare ha deciso dove mettere gli elettrodi, col suo pensare ha deciso le domande da fare, ecc., tutto con il suo pensare.

«Fammi fare questi esperimenti»: cos’è? Una bella pensata, talmente accattivante che poi uno la traduce in azione, la fa.

L’esperimento cos’è? Un pensiero. Voglio fare questi esperimenti per vedere se, in un atto volitivo, avviene prima qualcosa nella coscienza e subito dopo qualcosa nel cervello, oppure è l’opposto.

Tra l’altro, sappiamo che Libet, di cultura classica, aveva il convincimento che prima ci deve essere qualcosa nella coscienza e dopo nel sostrato biologico: e invece gli esperimenti hanno fatto cilecca, gli hanno dato torto. Ma perché lui confondeva la coscienza con la realtà dello spirito, anzi non ne conosceva neanche la differenza.

La coscienza è ciò che classicamente si chiama l’anima, ma l’anima è il riflesso dello spirito, è l’immagine morta dello spirito. Lo spirito è creatore.

(III,31) Solo quando il filosofo considererà l’assolutamente ultimo come il suo primo, potrà arrivare alla meta. E l’assolutamente ultimo cui è pervenuta l’evoluzione del mondo è il pensare {per quanto riguarda l’uomo naturalmente, perché noi siamo uomini. Certo, il cane non può dire: l’assolutamente ultimo cui è pervenuta l’evoluzione del mondo è il pensare}.

III,32. Vi sono uomini che dicono: «Noi non possiamo stabilire con sicurezza se il nostro pensare sia in sé giusto o no, in conseguenza di questo fatto il nostro punto di partenza rimane in ogni caso malsicuro». Questo è proprio altrettanto ragionevole che il sollevare il dubbio se un albero sia in sé giusto o no.

Il melo o il pero sono giusti o no?

Intervento: Non pongo questa domanda.

Archiati: Bravo, se l’è cavata bene. Dice: io non pongo questa domanda, perché mi mangio le pere e le mele!

Cioè, porsi la domanda se il pero o il melo sono giusti o no, è una domanda sbagliata. Sono così come sono, è una realtà così com’è.

Porre la domanda se il pensare è giusto o no è una domanda sbagliata. Il pensare è così com’è, è un fatto, è un’azione, è un evento.

Un tramonto di sole è giusto o non è giusto? Figlio bello, goditelo così com’è! Altrimenti devi dire al sole: no, tu non sei giusto, spostati un pochino, sei fuori asse.

Quindi la domanda sul pensiero, se il pensiero sia giusto o no, non si pone, proprio non esiste. Il pensare è un’attività. Uno dà una sberla a un altro: è giusto o no? È una sberla. Posso chiedermi se è più o meno sonora, ma non se è giusta o no. Come sberla è sberla.

(III,32) Il pensare è un fatto; e non ha senso parlare della giustezza o della falsità di un fatto.

Un fatto è così com’è, il pensare è così com’è, è un tessere una trama all’infinito, trovare nessi e connessi, spiegare le cose, creare concetti, metterli in rapporto gli uni con gli altri È un fatto, un modo di essere, un modo di vivere.

(III,32) Io posso tutt’al più avere il dubbio se il pensare venga giustamente adoperato, come posso dubitare se un certo albero dia o no un legname adatto per un determinato uso.

Per un tipo di tavolo fatto così, il legno del pero, o del melo, è quello giusto o no? Ma allora il fatto del giusto o non giusto riguarda il melo o il pero in rapporto a qualcosa d’altro. Se ne faccio un uso giusto o no.

Quindi io posso chiedere se faccio del pensare un uso giusto o no, ma non posso chiedere se il pensare in quanto fatto sia giusto o no. È così com’è.

(III,32) Mostrare in che senso l’applicazione del pensare al mondo sia giusta o falsa, sarà appunto compito di questo libro. Posso comprendere che qualcuno dubiti che per mezzo del pensare si possa determinare qualcosa riguardo al mondo, ma mi riesce incomprensibile che qualcuno possa mettere in dubbio la giustezza del pensare in sé.

Perché il pensare è così com’è, non è né giusto, né sbagliato.

Esiste un naso giusto o sbagliato? Può essere dritto o storto, grosso o piccolo, ma non giusto o sbagliato, perché ogni naso è così com’è.

Quindi ogni critica al fatto del pensare, all’evento pensare, è fasulla, è stupida. Guardalo l’evento, investigalo, e poi vedi se è uno strumento adatto per capire il mondo – ma questa è un’altra cosa, questa è una questione di applicazione del pensiero, non del pensiero in sé.

L’Aggiunta a questo terzo capitolo è una delle cose più belle che Steiner abbia scritto, secondo me. In fondo, in questa Aggiunta dice che il pensare è al contempo la forma suprema dell’amare, del volere e dell’agire.

Un esempio: partiamo dal popolare

ti penso

Adesso saliamo un pochino, diamogli un bello spessore a questo «ti penso». Supponiamo che si intenda: cerco di cogliere nel mio pensiero l’essenza del tuo essere. Penso te. Penso te perché soltanto col pensare posso cogliere l’essenza del tuo essere, per capirti.

penso te

Cosa consegue? Nella misura in cui io capisco, penso veramente il tuo essere, mi trovo di fronte a un io, a uno spirito creatore individuale, che è in evoluzione insieme a me dall’inizio del cammino della fiumana umana, che ha fatto un sacco di passi nei millenni, però tutti individualizzati. Questo io umano, del tutto individualizzato, che sei tu e che io sto pensando, è la cosa più bella che ci sia, perché cos’è una pietra, cos’è una pianta, cos’è un animale in confronto all’io individuale di un uomo? Penso te significa:

penso il tuo io

Però io penso te, il tuo io, non penso l’uomo in generale, penso te, penso la tua individualità, perché t’ho percepito per tanti anni e quindi… chi sei tu?

Sei una creazione della fantasia pensante e amante del creatore che ti ha creato, e se ti ha creato, se ti ha reso reale, non soltanto deve averti pensato, ma deve averti visto così bello che non ha potuto fare a meno di crearti: lo devo realizzare! Non si può pensare qualcosa di così bello senza farlo, perché come fa a essere bello se non c’è?

Penso te significa amo te, all’infinito, con forza. E questo vuol dire: non posso far altro che concorrere, fare tutto ciò che posso per aiutarti a realizzare sempre di più questo essere individuale, unico, questo frammento dell’umano che tu sei.

Il pensare è al contempo amore e volontà, e azione. Il pensare puro è la forma suprema dell’amore puro e del volere puro; pensare te significa amarti e volerti nella purezza del tuo essere, così come ti ha pensato, ti ha amato, ti ha voluto e ti ha realizzato, potenzialmente, la fantasia morale del creatore che ti ha messo al mondo.

Penso te significa inevitabilmente amo te e voglio te. Se non ti amo e non ti voglio, non ti penso neanche, sto pensando qualcosa d’altro, a qualcosa che magari ti è marginale. Ma se io penso alla tua essenza, questa è talmente pura, talmente bella, talmente essenziale all’umano nella sua complessità che non posso che amarti e volerti, perché se io non ti amo e non ti voglio, non amo e non voglio un frammento di umanità che mi appartiene: il tuo io. Vorrei la mia povertà, e la mia povertà non la posso volere.

Pensare l’io umano individualizzato significa amarlo con lo stesso amore del creatore, e crearlo e ricrearlo con la stessa forza volitiva del creatore che l’ha pensato, amato, voluto e realizzato.

È ovvio no? Cose bellissime , accessibili a tutti, perché siamo tutti uomini.

Ora, io faccio delle divagazioni e poi ci rituffiamo nel testo che è un pochino filosofico: traduciamo da un testo tedesco filosofico di un secolo fa, insomma, può darsi che vi risulti meno interessante, meno accattivante di come io cerco, qui, di presentarvelo.

Aggiunta alla seconda edizione (1918)

III,A1. Nelle precedenti considerazioni si è indicata la significativa differenza esistente tra il pensare e tutte le altre attività dell’anima, come un fatto che risulta ad una osservazione realmente spregiudicata. Chi non voglia osservare così, spregiudicatamente, sarà tentato di opporre a questi ragionamenti delle obiezioni come le seguenti: «Se io penso su di una rosa esprimo con ciò unicamente un rapporto fra il mio «io» e la rosa, così come quando sento la bellezza di quella rosa. Nel pensare sorge un rapporto fra «io» e «oggetto» allo stesso modo che, per esempio, nel sentire o nel percepire». Chi solleva questa obiezione non tiene in considerazione che solamente nell’attività pensante l’«io» sa che, fin dentro in tutte le ramificazioni di quella attività, il suo essere è una cosa sola con l’elemento attivo. Assolutamente in nessun’altra attività dell’anima si verifica questo caso. Quando, per esempio, si ha un sentimento di piacere, un’osservazione sottile permette di distinguere benissimo fino a qual punto l’io si senta tutt’uno con un elemento attivo, e fino a qual punto vi sia in lui un elemento passivo, così che il piacere, per l’«io», sorge spontaneamente {comunque il sentimento di piacere non è qualcosa che fabbrico io, in tutto e per tutto, liberamente}. Lo stesso avviene per le altre attività dell’anima. Solo che non bisogna far confusione fra l’«avere immagini mentali» e l’elaborare pensieri mediante il pensare. Immagini mentali {rappresentazioni} possono sorgere nell’anima in modo sognante {dicevamo ieri, in modo automatico, semiautomatico}, come vaghi suggerimenti. Questo non è pensare.

Pensare è ciò che l’essere umano, per lo meno incipientemente, gestisce attivamente con un minimo di attenzione.

Facciamo insieme un piccolo esercizio, semplice come punto di partenza. Però, nella sua semplicità, questo esercizio, secondo me, se ripetuto sempre di nuovo può sortire degli effetti straordinari.

Qui abbiamo l’essere umano e prendiamo due affermazioni innocue, una dice:

sono d’accordo

Quando uno dice: sono d’accordo, qual è il punto centrale di riferimento in tutto il corpo?

Intervento: Il pensiero.

Intervento: Il cuore.

Archiati: Eh, qui comincia la differenza tra la lingua italiana e quella tedesca. La lingua italiana dice «sono d’accordo» (al livello del cuore, cor-cordis, in latino), la lingua tedesca dice Ich bin einverstanden, e Verständt è il comprendonio. Quindi l’italiano per essere d’accordo usa il cuore, il tedesco per essere d’accordo usa la testa.

Comunque, per dire sono d’accordo, ci deve essere un minimo di pensiero, via, me lo concedete? Se no su che siamo d’accordo?

Intervento: Condividere.

Archiati: Condivido significa divido, condivido il dolce, la torta. Qui è: sono d’accordo.

Adesso un’altra affermazione innocua:

sono stanco

C’è una differenza? Uno dice: no, non c’è nessuna differenza. Io sono d’accordo, io sono stanco: dov’è la differenza? Sono due stati miei.

No, no, no, no, no! «Io sono stanco», sono affari miei, ma «io sono d’accordo» non sono affari miei, è questione di oggettività, perché se io sono convinto che tu stai sgarrando nel tuo processo di pensiero ti dico no, non sono d’accordo.

Quando dico «sono d’accordo», esprimo un fatto mio personale? No, è una presa di posizione di fronte all’oggettività del mondo. Quando dico «io sono stanco», percepisco uno stato fisiologico del mio organismo.

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Quindi se io sono d’accordo sto pensando: l’affermazione «io penso» è di tutt’altra natura che non «io sento».

E qual è la differenza fondamentale fra «io penso» e «io sento»?

«Io penso»: io sono in tutto e per tutto l’autore attivo di quello che c’è nel mio pensare. Nel mio «io penso» non c’è nulla che qualcun altro ci mette dentro, perché nessun altro può pensare nel mio pensare.

Invece, se «io sento stanchezza», avverto che il concorrere a creare la stanchezza non è mio, ma è della fisiologia del corpo.

Quindi il pensare è l’unica attività in assoluto dove io sono in tutto e per tutto attivo. Nel mio pensare c’è sempre, solo e unicamente ciò che ci metto io; nel mio pensare non c’è nulla che ci possano mettere gli altri. Impossibile che gli altri mettano qualcosa nel mio pensare: lo pensano loro, non io.

E questo ci fa capire lo stato unico del pensare: è l’unica attività, l’unica realtà dove l’individuo pensante è il solo a decidere ciò che avviene o non avviene nel pensare.

Perché la frase non è «io penso bene», o «io penso profondamente», o «io penso vastamente», non è questa la frase. È «io penso». Quindi ognuno ha nel suo pensare unicamente ciò che lui ci mette, non di più non di meno.

Il mio pensare è l’unica attività che dipende unicamente da me, dal di fuori possono venirmi contributi, incentivi ecc… Ma ciò che io penso sul contributo di pensiero di un altro, lo penso io!

Posso io partecipare a ciò che voi pensate sui miei pensieri?

È assurdo, no?, perché allora non sarebbero i vostri pensieri sui miei pensieri.

Quindi il pensare è l’elemento assoluto della libertà individuale, della creatività individuale: nel pensare ogni io umano è creatore in assoluto, perché nel suo pensare avviene unicamente quello che ci mette lui, quello che fa lui, e non avviene quello che lui non fa.

(III,A1) Certo, qualcuno potrebbe dire: se si intende il pensare in tal modo, in questo pensare sta nascosto il volere, e non si ha allora a che fare soltanto col pensare ma anche con la volontà del pensare. Questa osservazione, tuttavia, autorizzerebbe solo a dire che il vero pensare deve sempre essere voluto. Ma ciò non ha nulla a che fare con la definizione del pensare, quale è stata data in queste nostre considerazioni. L’essenza del pensare rende pur sempre necessario che quest’ultimo sia voluto; quello che importa è che non sia voluto nulla che, mentre si compie, non appaia davanti all’«io» assolutamente come attività sua propria, da esso controllabile.

Il puro pensare, essendo attività dell’io, è al contempo un puro volere.

Si può pensare senza voler pensare?

No, non sarebbe un pensare. Sarebbe un fantasticare, un arzigogolare, un sognare a occhi aperti, ma non un pensare.

Qui si chiama pensare, in senso tecnico, l’attività pensante che è cosciente di sé. Essendo cosciente di sé, io non soltanto penso, ma so di pensare e sapendo di pensare osservo il pensare come attività mia.

E cos’è l’attività?

Pura volontà per agire. Pensare è un agire spirituale, e per agire ci vuole la volontà, l’azione del pensare. Il pensare è l’agire puro spirituale in assoluto. Il pensare è il puro agire dello spirito – ma è un agire, però!

Dio pensò la luce, e la luce fu.

Beh? Ha pensato, ha voluto o ha fatto qualcosa?

È la stessa cosa! Perché se pensa alla luce e la luce non c’è, a che pensa? Pensare significa creare, altrimenti non è pensare. Ciò che uno pensa lo crea.

Io penso «bontà»: cos’ho creato?

Il concetto di bontà. L’ho creato, prima non c’era, adesso c’è.

Voi direte: ma è solo il concetto di bontà. E che altro è la bontà se non un concetto?

Cos’è la bontà? Un pensiero che opera. La bontà è un pensiero che muove gli arti, le gambe, le mani.

C’è una nonnina ammalata a letto, io sono a 20 km di distanza, e voglio fare un atto di bontà. Cosa sto pensando? Il concetto di bontà. E se questo concetto di bontà non è una fantasticheria, ma ci metto veramente la forza del mio pensiero, allora le mie gambe si muovono, vado nel garage prendo la macchina o la bicicletta e vado a visitarla.

Questo atto di bontà dove ha la sua origine? Nel pensiero, nel pensare.

Il pensare è per natura un agire, oppure non è un pensare, è un fantasticare: sarebbe bello se andassi a visitarla, ma «sarebbe bello se andassi a visitarla» non è bontà. Un atto di bontà è quando vado.

Intervento: Si dice, qualche volta: mi è venuto in mente… I pensieri non vengono in mente?

Archiati: No, quelle son fantasticherie, sono indotte automaticamente dal passato, dalle percezioni, dalla biologia, ecc…

Tanto è vero che il linguaggio dice «mi viene in mente», contrapposto a «io penso».

(III,A1) Bisogna anzi dire che il pensare, proprio a cagione della sua essenza {proprio grazie alla sua essenza} che qui si è messa in valore, appare a chi lo osserva interamente voluto. Chi si dà la pena di compenetrare veramente tutto quello che va preso in considerazione nel giudicare il pensare, non può fare a meno di osservare che a questa attività dell’anima è peculiare la proprietà di cui si è qui parlato.

III,A2. Da una persona, di cui l’autore di questo libro ha grande stima come pensatore {si tratta di Eduard von Hartmann grande filosofo di quei tempi, a Berlino, al quale Steiner mandò la prima copia de La filosofia della libertà, e quello gliela rimandò indietro con un sacco di correzioni, che io una volta ho studiato in tutti i particolari}, gli è stato obiettato che non è possibile parlare del pensare come qui si è fatto, perché ciò che si crede di osservare come pensare attivo, non sarebbe che una parvenza. In realtà si osserverebbero soltanto i risultati di una attività non cosciente che sta a base del pensare.

È «la cosa in sé» del pensare. Eduard von Hartmann era un seguace di Kant, e uno dei dogmi di Kant è che «la cosa in sé» è inconoscibile: noi conosciamo soltanto gli effetti che la cosa in sé provoca nella coscienza.

È proprio il discorso di prima, quello di Libet: lui ti dice che la cosa in sé dello spirito, se magari esiste, non è conoscibile, noi abbiamo soltanto a disposizione gli effetti che la cosa in sé, in questo caso lo spirito, produce nella coscienza.

Eduard von Hartmann dice: no, il pensare come cosa in sé non è conoscibile, noi conosciamo soltanto i risultati nella coscienza del pensare. E i risultati nella coscienza del pensare, – cioè gli effetti che la cosa in sé inconoscibile del pensare produce nella coscienza – sono i pensieri, i concetti singoli.

Eduard von Hartmann dice: tu, caro Steiner, presupponi che il pensare sia un’attività continua, invece nella coscienza abbiamo atti e concetti discontinui, uno dopo l’altro.

Quando uno cammina fa un passo, un secondo passo, un terzo passo, un quarto passo… Il camminare è continuo o discontinuo? È un’attività continua o discontinua?

Intervento: I passi sono discontinui ma il camminare è continuo.

Archiati: Sì, il camminare è continuo e i passi sono discontinui. E cos’è il camminare? Il camminare è la cosa in sé, direbbe Kant, che non è conoscibile: ciò che tu conosci sono i passi. Cos’è il camminare? Di che parli?

Replica: Io conosco il camminare.

Archiati: Ah sì? Cos’è?

Replica: È quando tu ti muovi da una parte all’altra.

Archiati: Ma quelli sono i passi! La percezione è il discontinuo del mondo, la percezione ci dà la dimensione di discontinuità del mondo, perché ogni percezione è un frammento, poi un altro frammento, poi un altro frammento, poi un altro frammento…

Replica: Allora collego i passi.

Archiati: Ahh! Colleghi il discontinuo e lo rendi continuo!

Replica: In qualche modo, sì.

Archiati: Ah, ah! Non ti far sentire da Kant però, eh? Perché lui ti direbbe che stai cominciando a diventare matto. Kant ha chiamato «l’avventura della ragione» pensare di aver la capacità di trascendere il mondo percepibile per tornare indietro all’origine della cosa in sé! No, la cosa in sé non è conoscibile! Il camminare è la cosa in sé e tu, cervello umano, non la puoi conoscere, tu percepisci soltanto i passi discontinui.

Un altro esempio, scrivo sulla lavagna diverse lettere una dopo l’altra – distanti, sennò rischiamo di metterci la continuità –, e voi dovrete convenire che è un’attività discontinua.

C A S S

Adesso ho smesso. Cosa viene dopo?

Interventi: A. O. I… E...

Archiati: Aggiungo una A

C A S S A

È discontinua, la cosa. Vi ho dimostrato che è discontinua. Ho «discontinuato» ogni volta. Ho interrotto ogni volta. Lo scrivere è un’attività continua o discontinua?

Intervento: Per come l’hai presentata è discontinua, però la parola CASSA tu avevi intenzione di scriverla tutta, hai usato dei pezzi.

Intervento: Che ne sai?

Archiati: Io non sapevo se avrei scritto casa, caso, cassa o cassetto, l’ho deciso per strada, quindi non mi dire che l’unità c’era già all’inizio.

Replica: No, quando tu scrivi un pensiero l’hai deciso prima.

Intervento: È il pensare che fa diventare continuo lo scrivere discontinuo.

Intervento: L’attività dello scrivere.

Archiati: Quindi, al livello della percezione abbiamo elementi di discontinuità C A S S A… – tutte lettere separate – e il pensare è l’elemento di sintesi, è l’elemento che crea continuità perché connette queste lettere.

Il livello delle lettere singole è discontinuo, e se non ci fosse la possibilità di metterle insieme in un concetto unitario che è la «cassa», avremmo soltanto la percezione.

Il pensare è l’elemento di continuità assoluta, perché crea unità, crea contesti, crea nessi.

La percezione è la sconnessione del mondo, il pensare è il riconnettere il tutto. E allora capiamo perché il mondo è sconnesso nella percezione, perché è frammentato, discontinuo: per dare all’uomo la gioia di riunificarlo.

Riprendiamo il testo. Questa Aggiunta è un po’ difficilina, va masticata, eh? «…è stato obiettato che non è possibile parlare del pensare come qui si è fatto, perché ciò che si crede di osservare come pensare attivo non sarebbe che una parvenza. In realtà si osserverebbero soltanto i risultati di un’attività non cosciente che sta a base del pensare».

(III,A2) Solo per il fatto che questa attività non cosciente non verrebbe appunto osservata, sorgerebbe l’illusione che il pensiero osservato sorga di per sé, allo stesso modo in cui si crede di vedere del movimento nel rapido susseguirsi di luci date da scintille elettriche.

Il paragone che Eduard von Hartmann porta per dimostrare che la discontinuità è assoluta e che la dimensione di continuità non esiste (e se esistesse sarebbe la cosa in sé inconoscibile) è questo: voi provate a immaginare un filo elettrico, da là fino a qua, con appese venti lampadine. Queste lampadine si accendono una dopo l’altra, e quando si accende la seconda si spegne la prima, quando si accende la terza si spegne la seconda, e così via. È un movimento continuo o discontinuo?

Intervento: Discontinuo.

Intervento: Alla percezione è discontinuo…

Archiati: Stiamo facendo esercizi fondamentali, La filosofia della libertà è stata scritta per farci fare questi esercizi fondamentali, lui crede che sia una cosa facile, eh?!

Replica: È oggettivamente discontinuo, perché una l’accendo una la spengo.

Archiati: No, no, no, non è che una l’accendo e l’altra la spengo: le lampadine si accendono da sé e si spengono da sé.

Replica: Allora bisogna distinguere, tra gli elementi che compongono questa sequela e la percezione dell’insieme. La stessa cosa di un’onda quando c’è il vento che fa vibrare il grano per esempio, o nell’acqua: se io guardo i singoli elementi, uno per uno, fanno così, ma io ho una percezione dell’insieme che è tutta l’onda.

Archiati: No, tu non hai una percezione dell’insieme, questa è una pensata bacata che tu dici, perché quando tu guardi la luce che si accende qua, su questo lungo filo che abbiamo immaginato, non hai la percezione della ventesima lampadina che sta laggiù. Che mi stai a dire che hai una percezione dell’insieme?

Replica: Allora ho connesso tutti i singoli punti, tutti i singoli atti che ho percepito, in un quadro d’insieme, in una visione d’insieme.

Archiati: E questo non lo puoi fare con la percezione, lo puoi fare solo col pensiero. Quindi il percepire è per natura discontinuo, e il pensare è per natura continuo.

Intervento: Uno è analitico, l’altro è sintetico.

Archiati: La percezione è per natura analitica e il pensare è per natura sintetico.

C’è una corrente elettrica unica: naturalmente è un esempio un po’ difficile perché bisognerebbe entrare nel merito di come funziona l’elettricità, cosa non del tutto facile. Però è l’esempio che ha preso Eduard von Hartmann: «… si crede di vedere del movimento {un movimento unico} nel rapido susseguirsi di luci date da scintille elettriche».

Se qui si accende una luce, poi più in là se ne accende un’altra, poi un’altra, ecc., dov’è il movimento? Non c’è movimento, ognuna è ferma.

Intervento: Danno l’illusione del movimento.

Archiati: Danno l’illusione del movimento. Questa è l’argomentazione di Eduard von Hartmann. Siccome io ho una percezione dopo l’altra in continuazione, ho l’illusione del movimento continuo, ma è un’illusione.

Replica: Come al cinema.

Archiati: Come al cinema, certo. Sequenze. Al cinema non è che si vede una cosa in continuità, son tutti fotogrammi uno dopo l’altro, e tra l’uno e l’altro c’è sempre uno stacco netto. Quindi i fotogrammi sono discontinui, non continui. Siccome mi passano davanti in una specie di sequenza, ho l’illusione che siano in movimento.

L’attore prima sta qui, poi nel fotogramma successivo sta un po’ più in là, poi sta così, poi sta così… si è mosso? Ha fatto un passo? No, cinque foto statiche. Dov’è il movimento?

Adesso lasciamo stare il cinema, guardate me. Adesso mi vedete fermo. Vado più in qua, e sono fermo, qui sono fermo, qui sono fermo, qui sono fermo… dov’è il camminare come movimento? Non c’è. È un’illusione di movimento.

Quindi Eduard von Hartmann va preso sul serio, non credere di confutarlo così!

Torniamo ai greci – esercizi che abbiamo già fatto, magari, ma vanno sempre rifatti –, che sono stati i primi pensatori ma i migliori che ci siano mai stati, tant’è vero che Immanuel Kant stesso dice che dopo Aristotele non è stato creato nessun concetto nuovo.

Nella filosofia greca c’è un filosofo a voi tutti noto che si chiama Zenone e una delle sue pensate più geniali è la dimostrazione apodittica che il movimento non c’è. Ha tirato in ballo l’esempio classico dell’Achille piè veloce e della tartaruga lenta lenta, e dice: adesso ti dimostro che il movimento non c’è, è un’illusione (pensate al nostro bravo Albert Einstein che dice: quando io cammino è relativo, è illusorio il mio camminare, perché potrebbe essere il pavimento a scorrermi sotto, all’indietro. Tutto è relativo).

Allora, qui abbiamo Achille piè veloce (per questo Zenone prende Achille come esempio, perché è molto veloce nel movimento), e qui la tartaruga, alla quale dà dieci metri di vantaggio, e dimostra che, nonostante Achille sia il corridore più veloce che ci sia, non sarà mai in grado di raggiungere la tartaruga. Perché?

Perché Achille per poter percorrere questi dieci metri, prima ne deve fare cinque – non puoi fare dieci metri senza farne cinque –; ma prima di farne cinque ne deve fare due e mezzo, e così via. Quanti tratti di strada deve fare per arrivare qui? Nel frattempo la tartaruga è andata un pochino avanti. Quanti sono i tratti da attraversare prima di raggiungere la tartaruga?

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Fig.8

Lo spazio è divisibile all’infinito. Quindi il povero Achille, benché sia così veloce, deve percorrere un’infinità di spazi in un tempo finito, e non si può. Non si può percorrere in un tempo finito un’infinità di spazi, per quanto piccoli.

All’Achille piè veloce, tocca constatare che lui la tartaruga non la raggiungerà mai!

Beh, che ne dite?

Intervento: Che non è vero. È ovvio che non è vero, perché noi possiamo con l’esperienza mostrare che è esattamente il contrario. Quindi il pensiero, in questo caso, per la dimostrazione non fa i conti con la realtà che noi osserviamo.

Archiati: Se il camminare fosse una realtà discontinua, Achille dovrebbe di fatto percorrere singolarmente, discontinuamente, un’infinità di spazi.

Se invece il camminare è un’attività continua e non discontinua, con un salto raggiunge la tartaruga.

Replica: Ma in quel tempo il concetto di velocità c’era?

Archiati: Certo che c’era.

Intervento: Può spiegare meglio?

Intervento: Secondo me erano i primi esercizi di pensiero che facevano i greci. Questo è il paradosso di Zenone, famoso, e lui dimostra che percorrendo un’infinità di spazi, di piccoli tratti, di tratti che sono sempre più piccoli, proprio perché questi spazi sono infiniti, ci vuole un tempo infinito e quindi Achille non raggiungerà mai la tartaruga.

La realtà intanto dimostra che non è vero, come dice lui, perché Achille tranquillamente supera la tartaruga. Però anche matematicamente la somma di una serie infinita di segmenti, che però si riducono, che diventano sempre più piccoli, ha un valore finito.

Certo, questo di Zenone era solo un paradosso, era una provocazione e basta. Era solo un esercizio di pensiero – i greci cominciavano a esercitare i pensieri –, ma Zenone non si era accorto che la somma di infiniti termini che decrescono dà un risultato finito.

Archiati: Quindi la realtà è continua. Però, se io astraggo dalla realtà, posso frantumare una realtà che è continua in infiniti frammenti. Ma gli infiniti frammenti ce li ho nell’astrazione, non nella realtà.

È legittimo astrarre dalla realtà? Certo, perché soltanto astraendo dalla realtà sono libero di fare quello che mi pare.

Nella percezione ho un mondo non reale ma astratto, e perciò è frammentato all’infinito. Questa frammentazione è astratta, astrae dalla realtà, perché la realtà è il nodo che mette insieme tutto quanto.

Quindi la cosiddetta materia è l’astrazione dalla realtà dello spirito. Astraendo dalla realtà dello spirito, che è continua e non frammentata, ho l’illusione della materia.

La cosiddetta materia, il mondo della percezione, è l’astrazione più grande che ci sia perché astrae dalla realtà dello spirito. Nella percezione ho un’astrazione, non una realtà, e perciò è frammentata.

Se io astraggo dal salto reale che l’io, lo spirito di Achille, fa e considero astrattamente questo tratto di strada, lo posso dividere all’infinito. Però devo astrarre dal salto che fa Achille piè veloce.

Intervento: C’è un’illazione, qui. Cioè, qui si dice che io faccio un passo ogni piccolissimo segmento, ma non è così. Non è che Achille fa un passo ogni segmento infinitesimale, e quindi non raggiunge mai la tartaruga.

Archiati: Però i segmenti li deve percorrere, li deve passare.

Replica: Ma li passa con un salto, non è che fa un segmento alla volta. Quando fa un passo comprende una serie di segmenti.

Archiati: Chi lo fa il salto? Chi fa la sintesi, chi fa di questi infiniti frammenti una sintesi unitaria? Lo spirito di Achille, il suo pensiero e la sua volontà. Il suo pensiero che dice: cara tartaruga, con un salto t’arrivo. È il suo pensare! Perché se Achille dice: non mi muovo – campa cavallo che l’erba cresce, non la raggiungerà mai la tartaruga!

Intervento: Tant’è vero che la somma di queste infinite parti, frammenti, si chiama anche, in termine matematico, «integrale».

Archiati: Sì. Calcolo infinitesimale e calcolo integrale – vedi Leibniz.

Replica: In questa parola c’è proprio quello che dicevi, cioè il riportare a integrità quello che invece la percezione ha frammentato, ha disintegrato in infinite parti astraendo però dalla sua vera realtà, che è integra e quindi reintegrabile soltanto dal pensare.

Archiati: Allora ritorno alla domanda: il camminare è un’attività continua o discontinua?

Replica: Camminare è integrare una realtà, che io posso però percepire astrattamente soltanto fatta da innumerevoli passi.

Archiati: Bene, bene. Quindi si capisce sempre di più il binomio fondamentale di percezione e concetto, percepire e pensare.

Nel percepire ho il mondo frammentato, discontinuo, spezzettato.

Nel pensare faccio il calcolo integrale.

Facciamo una pausa continua, e poi continuiamo coi pensieri e portiamo a termine il terzo capitolo.

*******

Io volevo chiedere se l’intento di portare a termine il terzo capitolo con l’Aggiunta, è una questione di continuità o discontinuità. Si tratta di infinite parole che io devo passare una per una o è un atto di continuità? A seconda. Se io mi oriento stando ai partecipanti, è una discontinuità assoluta perché vengo fermato a ogni parola. Se invece l’assemblea sta zitta è una continuità, e arrivo subito alla fine!

Allora, eravamo rimasti all’obiezione fatta da Eduard von Hartmann che il pensare sarebbe la cosa in sé non conoscibile.

(III,A2) «Solo per il fatto che questa attività non cosciente non verrebbe appunto osservata, sorgerebbe l’illusione che il pensiero osservato sorga di per sé, allo stesso modo in cui si crede di vedere del movimento nel rapido susseguirsi di luci date da scintille elettriche», mentre invece non c’è movimento, sono singole accensioni. Non c’è nulla che passa da una all’altra, non c’è un nesso di continuità.

Intervento: E il filo della corrente?

Archiati: Non lo vedi il filo, è nascosto. Il filo è la cosa in sé.

Replica: Ma lo posso vedere.

Archiati: No. Lui ti dice: nella percezione cos’hai?, e ti parla della percezione delle lampadine, non del filo. Tu come fai a sapere che il filo è la continuità? Il filo è filo qui e filo là: nel filo c’è movimento?

Replica: Nel filo non c’è movimento, ma c’è la continuità della corrente elettrica.

Archiati: Lo dici tu! Noi qui stiamo dicendo: dov’è il movimento continuo nella percezione? Non c’è nella percezione, è inutile. Era questo il discorso: nella percezione non ce l’hai il movimento continuo.

(III,A2) Anche questa obiezione poggia {adesso parla Steiner} solamente sopra una visione imprecisa dello stato di fatto.

Sta’ attento, caro Eduard von Hartmann, tu hai osservato il pensare in un modo impreciso, perché tu hai osservato soltanto i risultati singoli e frammentati del pensare, ma i risultati non sono il pensare, sono il pensato, sono i concetti, i pensieri singoli. Qui stiamo parlando del pensare, non dei pensieri singoli.

(III,A2) Chi la muove non considera che è l’«io» stesso che, stando nel pensare, osserva la propria attività.

Come Achille che dice: io, Achille, penso di camminare, di muovermi e metto in atto il movimento e raggiungo subito la tartaruga. Quindi Achille è la continuità in quanto spirito che pensa e vuole e agisce.

La camminata di Achille è un’azione o un’infinità di azioni?

Intervento: Una.

Archiati: Una, se no non è una camminata, non è una corsa. Qualcuno diceva, durante la pausa, che Zenone ha preso l’esempio di Achille perché Achille corre, non cammina. Nel correre c’è una velocizzazione degli elementi singoli per cui il movimento continuo ti è reso più evidente.

Se uno c’ha una flemma, comincia a camminare qui e poi si ferma, fa un passettino e poi si ferma, fa un altro passettino e poi si ferma…, questo non è un camminare. Uno gli dice: stai camminando o non stai camminando? Vuoi o non vuoi? Muoviti, o se no sta fermo!

La percezione è il rallentatore e perciò frammenta.

Il pensiero è l’elemento della velocità, di cento frammenti fa un’unità perché li percorre tutti.

Prendiamo il corpo umano: lo studio di anatomia ti fa un tomo con un sacco di conoscenze singole. Il pensare ti fa un concetto: il corpo. Veloce.

(III,A2) «…è l’«io» stesso che stando nel pensare osserva la propria attività». Tant’è vero che diciamo io penso, non diciamo: mi percepisco pensante. Io penso, sono il movimento del pensare. Io penso significa: mi metto in una posizione dopo l’altra? No, significa: sono nel movimento del pensare, sono movimento pensante. Quindi il pensare è puro movimento, non c’è frammentazione nel pensare.

Nel momento in cui comincio a frammentare ho la percezione, casco fuori dal pensare.

(III,A2) Per poter essere ingannato, come nel caso del rapido susseguirsi di luci date da scintille elettriche, l’«io» dovrebbe trovarsi fuori dal pensare. Si potrebbe piuttosto dire: chi fa un simile paragone si inganna grandemente, come chi, vedendo una luce in movimento, volesse senz’altro dire che in ogni punto dove appare essa viene riaccesa da mano ignota.

Una pensata geniale, da parte di Steiner! È una cosa straordinaria, però ci ha messo venticinque anni, eh?! È dovuto passare il tempo dalla prima alla seconda edizione per metterci un’Aggiunta, e nel frattempo ha fatto un sacco di conferenze antroposofiche.

Eduard von Hartmann dice: quando tu hai una serie di lampadine, venti lampadine, son tutte distinte, son tutte separate, non c’è un movimento continuo, le accendi una dopo l’altra e, siccome l’accensione è veloce, tu hai l’illusione di un movimento continuo, unitario. Però non c’è questo movimento continuo, è discontinua la cosa.

Steiner dice, eh caro Eduard von Hartmann, tu sei nel tuo pensare così poverello, che è come se l’Olimpiade stesse per cominciare e chi porta la fiaccola da Tebe ad Atene o a Sparta, non fosse in un movimento continuo, ma la fiaccola si dovesse accendere di nuovo, ad ogni tratto, come faceva Zenone.

Quante volte deve accendersi per restare accesa in tutti i frammenti di spazio? Infinite volte, e la devo spegnere infinite volte in modo che si riaccenda.

Allora, questa fiaccola che si muove, e l’uomo la porta, è un movimento continuo, o il movimento è un’illusione, la fiaccola si accende ogni volta, si spegne e si accende, si spegne e si accende, e stiamo ancora aspettando che arrivi ad Atene?

Interessante questo tipo di colloquio tra Eduard von Hartmann e Steiner, che gli dice

«(III,A2) …chi fa un simile paragone si inganna grandemente come chi, vedendo una luce in movimento {la fiaccola, perché quella è proprio una luce in movimento, la lampadina non è in movimento ma la fiaccola portata dall’atleta è in movimento}, volesse senz’altro dire che in ogni punto dove appare, essa viene riaccesa da mano ignota.»

(III,A2) No, chi nel pensare vuol vedere qualcosa di diverso da ciò che viene prodotto nell’«io» stesso come attività osservabile, deve anzitutto rendersi cieco di fronte al semplice dato di fatto, evidente all’osservazione, per poter poi mettere a base del pensare un’attività ipotetica.

Quindi il pensare è un’attività che si spegne ogni momento e viene riaccesa ogni momento, non è un’attività continua – dice Eduard von Hartmann.

Lo spegnersi del pensare si chiama percezione, quindi cos’è la percezione? Il momentaneo spegnersi del pensare, per riaccenderlo! Però, ogni lampadina che si riaccende nel pensare è un pensato, è un concetto. I concetti sono singoli, ma il pensare è un’attività sempre in azione.

Il pensare è un agire che non ha nulla a che fare con i risultati che questo agire sortisce. È un’attività, e un’attività è per natura continua.

Un individuo sta suonando uno strumento musicale: è un’attività continua o discontinua?

Intervento: Le note sono singole…

Archiati: Va bene che suona singole note, quindi le note sono discontinue, se si vuole, soprattutto nella partitura, però l’attività del suonare è continua. Non è che smette e riattacca, smette e riattacca, smette e riattacca, smette e riattacca…

Il materialismo, che vede la realtà soltanto nella percezione, è l’umanità che è diventata matta, proprio matta, matta. Pensa che sia reale soltanto il discontinuo, e quindi di questa bella suonata sono reali soltanto le note una accanto all’altra, perché tra nota e nota ci deve essere un po’ di spazio, se no non sai che note sono.

Il mondo della percezione è la partitura: però a che ci serve la partitura se non suoniamo?

Il pensare è il suonare.

Se un direttore d’orchestra non sa neanche mettere insieme tutte le note di una battuta e farne un’unità – no, no, questa battuta non è un’unità, sono quattro note distinte… questa sinfonia non è un’unità è un’infinità di frammenti tutti distinti –, gli danno uno schiaffo….

Il medico di oggi, per conoscere il corpo fisico, fa un calcolo infinitesimale perché il corpo fisico è fatto di infinite realtà. C’è un calcolo integrale? Il calcolo integrale, la scienza dello spirito lo chiama corpo eterico: il corpo eterico le tiene insieme tutte e ne fa un’unità.

Quando il corpo eterico si tira fuori – noi chiamiamo questo fenomeno «la morte» –, abbiamo soltanto il calcolo infinitesimale, una disgregazione del corpo. Quindi il fatto che il corpo, oltre a essere un’infinità di particolari percepibili, sia un’unità, non è dovuto al corpo fisico è dovuto al corpo eterico.

Le forze eteriche fanno di infiniti frammenti un’unità. Quando questo corpo eterico – che è una realtà, la realtà integrante di tutti questi infiniti frammenti – si tira fuori, hai la disgregazione.

La percezione è un muoversi nel mondo fisico, e il pensare, proprio oggettivamente, è un muoversi nell’eterico, nell’elemento di integrazione, di sintesi, dove si supera la frammentazione e si creano unità.

Che differenza c’è tra un cadavere e un corpo vivente?

Il cadavere ha solo la dimensione dell’infinitesimale, e la forza dell’integrazione, dell’integrale, è sparita. Questo dimostra che deve essere reale, in vita, perché quando questa forza non c’è più, si disgrega tutto.

Detto in chiave di scienza dello spirito – visto che stiamo commentando un’Aggiunta che Steiner ha scritto venticinque anni più tardi –, il pensare è muoversi nell’eterico, e l’eterico non è la dimensione frammentata del mondo, dove ci sono i passi singoli, le luci una accanto all’altra, ma è il movimento puro, pura continuità, senza intoppi.

È come la melodia, che non si ferma una nota dopo l’altra: ho fatto una nota, mo’ aspetta, eh?, adesso arriva l’altra nota, poi l’altra nota, poi arriva l’altra nota… e il musicista si spegne e si riaccende ogni volta che c’è una nota.

Il materialismo è il pensare umano diventato del tutto matto, proprio è sparito ogni barlume di pensiero. È come dire, secondo l’esempio che porta Steiner: questo atleta che porta la fiaccola non è una realtà continua, no, la fiaccola si spegne ogni volta, poi si deve riaccendere, riaccendere, riaccendere…

(III,A2) «No, chi nel pensare vuol vedere qualcosa di diverso da ciò che vien prodotto nell’«io» stesso come attività {attività continua, quindi, non frammentata, attività di sintesi} osservabile, deve anzitutto rendersi cieco di fronte al semplice dato di fatto evidente all’osservazione, per poter poi mettere a base del pensare un’attività ipotetica», frammentata che riaccende il pensare a ogni piè sospinto.

(III,A2) Chi non si rende cieco in questo modo, deve riconoscere che tutto quanto così egli «pensa in aggiunta» al pensiero, conduce lontano dalla vera essenza di esso. L’osservazione spregiudicata constata che all’essenza del pensare non si può attribuire nulla che non si trovi nel pensare stesso.

Il pensare è attività pura, creazione pura, anzi: creare puro.

Trasformare le note – quelle macchie rotonde o ovali sul foglio – in una melodia, che cos’è? Un’attività creatrice. Le devo ricreare a un tutt’altro livello, e questo fa il musicista.

Trasformare le percezioni in una sinfonia, in una melodia di pensiero, è un’attività creatrice.

Le percezioni stanno al pensare, come le macchie nere d’inchiostro stanno alla musica. Nella percezione ho le macchie nere. Se guardo la partitura prima di suonare, cosa ho nella percezione? Macchie nere.

Intervento: Chi non sa suonare vede macchie nere.

Archiati: Certo.

Replica: È come l’esempio della scrittura di prima (C A S S): lì sapevamo riconoscere quei segni, ma se ci fossero stati dei geroglifici, o lettere sanscrite o ebraiche, chi avrebbe potuto intuire la lettera che veniva dopo?

Archiati: Già.

(III,A2) Non è possibile arrivare a qualcosa che produca il pensare, se si esce dalla sfera del pensare.

Eduard von Hartmann dice: ciò che produce il pensare è la cosa in sé non conoscibile, ma se il prodotto è il pensare, il pensare lo può produrre soltanto un’attività pensante.

Può mai il mangiare produrre il pensare? No, il mangiare produce il mangiare.

Se il pensare fosse un effetto, quale causa può avere il pensare? Quale causa può sortire l’effetto del pensare?

Intervento: Il pensante.

Archiati: Il pensante, quindi lo spirito pensante. Il pensare è autoesplicazione, è automanifestazione, non è un effetto diverso della sua causa.

Il pensare è l’attività essenziale originaria dello spirito.

Essere spirito significa pensare.

In altre parole, il pensare non può essere prodotto da nessun’altra causa che il pensare, cioè il pensare è un primo inizio.

Ripeto la domanda: ci può essere qualcosa d’altro, diverso dal pensare, che può produrre il pensare? No, solo il pensare può tirar fuori il pensare.

Voi direte, forse: però c’è una differenza tra il pensante e il pensare.

No, no: c’è una differenza tra il digerente e la digestione, ma non tra il pensante e il pensare. Il pensante e il suo pensare sono la stessa cosa, si identificano in assoluto.

Il pensare non è una attività dello spirito che pensa, è la sua essenza, e perciò in questo pensare c’è al contempo il sentire, il volere e il creare.

Intervento: Il pensante non ha il pensare: è il pensare.

Archiati: Esatto! E perché?

Replica: Il digerente ha il digerire perché è altro da sé, non è la sua essenzialità, è un attributo che gli si aggiunge, mentre il pensante non ha il pensare, proprio perché è la sua stessa essenza.

Archiati: È la sua essenza. Il che significa che l’amare e l’agire, il creare, non possono essere aggiuntivi al pensare, sono immanenti nel pensare. Quindi il pensare è al contempo creazione pura.

Replica: Ecco perché qualche paragrafo prima parlava di volontà nel pensare, di volere nel pensare. Quindi se si può parlare di volere nel pensare, si può parlare anche del pensare nel volere, è un po’ la stessa cosa.

Archiati: Sì.

Replica: Però il pensare puro è anche volere puro e sentire puro.

Archiati: Dio pensò luce, e la luce fu. Un pensiero che compie, crea. È talmente volitivo che è creatore – altrimenti la luce non la pensa.

Il pensare caduto è un pensare che sa pensare anche senza fare.

Replica: Quindi al nostro livello decaduto, finché siamo l’io inferiore, diciamo così, le attività del pensare, del sentire e del volere sono separate.

Archiati: Esatto.

Replica: Via via che noi, con queste attività, con questi esercizi della libertà, facendo questi esercizi di pensiero, questo studio, risaliamo la china per arrivare a un pensare puro, riuniamo questa frammentazione.

Archiati: Ritorniamo all’esercizio di prima, al contesto di quello che tu dicevi. Prima avevo detto: penso te. Adesso dico: penso il tuo io.

Supponiamo che ci sia una persona di un intuito di pensiero, di un amore tale che riesce a pensare l’essenza dell’io altrui. Cosa è compreso in questo «penso il tuo io»?

Intervento: Amore e volontà.

Archiati: Basta che voi mettete da parte che sia l’amico a dire: penso il tuo io. Chi è stato il primo a pensare il tuo io? Colui che l’ha creato, se no non ci saresti, tu! Allora, il creatore una volta deve aver detto: penso il tuo io. Cosa c’era in quel pensiero?

Replica: Amore e volontà.

Archiati: Se ha pensato veramente il tuo io, è un pensiero divino, e pensieri divini non amabili, non belli, non sono mai esistiti se no non sarebbero pensieri divini.

Quindi se il tuo io è un pensiero divino è bello, è divino.

Il tuo creatore che ti ha pensato ti ha amato, non poteva far altro! E ti ha voluto, e ti ha creato!

E la ricreazione del pensiero, dell’amore, della volontà è di pensare io, come tuo amico, il tuo io, così come l’ha pensato colui che ti ha creato. Un frammento di verità, un frammento di bellezza, un frammento di volontà divina e di creazione divina.

«Penso il tuo io»: se è vera, questa affermazione significa «amo il tuo io e lo voglio realizzare il più possibile» – il tuo Io vero, naturalmente, se no penso il tuo io inferiore.

Il creatore divino pensa il diavolo. Un bel giorno dice: il diavolo sia, e il diavolo fu.

L’ha amato? E per forza, perché gli ha detto: caro Mefisto, senza di te gli esseri umani poltriranno all’infinito, non sia mai! Dai, abbiamo bisogno di te!

La perfezione dell’amore è l’amore al diavolo, un amore che ama non soltanto la forza ma per di più la controforza, che la rende ancora più forte.

Capire qualcosa significa amarla, perché significa pensarla come il creatore l’ha pensata, è così evidente. Oppure non l’ho capita. Se io capisco il diavolo solo in negativo, non ho capito nulla del diavolo.

Intervento: L’io di un altro mi è facile pensarlo perché riesco a oggettivarlo, mi sembra più comprensibile. Però io posso pensare anche il mio io, e come faccio a oggettivarlo? Com’è il processo?

Archiati: Perché l’io è sdoppiato.

Replica: Questo mi è difficile capire.

Archiati: Perciò c’è la coscienza ordinaria: col mio io ordinario penso il mio Io superiore.

Replica: Ho capito.

Archiati: Cioè penso al mio essere come il creatore mi ha pensato. E la regola dell’amore non è: ama il prossimo tuo soltanto, ama solo l’io dell’altro, ma è: ama l’io dell’altro come ami il tuo io.

Quindi vale ugualmente pensare il mio io, così come il creatore del mio essere mi ha pensato. E pensarlo significa amarlo, perché lui può averlo pensato e creato soltanto avendolo visto bello, bello, bello!

Intervento: Ma quando Dio ha pensato il mio io, l’ha pensato perfetto?

Archiati: Tu pensi che ci potrebbero essere dei pensieri divini imperfetti? Eh no, se no finisce di essere Dio!

Replica: E allora perché per alcune persone poi ci sono le malattie, all’improvviso?

Archiati: Diciamo che il Creatore – son tutte immagini, però, perché questo Creatore è come se fosse fuori ma non è fuori: nella misura in cui noi lo pensiamo diventa parte del nostro spirito – che ha creato l’uomo, lo ha creato non già tutto fatto, perché se l’avesse creato già tutto fatto non gli avrebbe dato la soddisfazione della libertà. La soddisfazione della libertà è il più bello, è la cosa che più godiamo.

Come si fa a creare l’uomo, però senza crearlo, in modo da lasciare a lui la creazione migliore?

L’ha creato in potenza, non gli ha dato il pensare, perché se no continuava a pensare lui: gli ha dato la facoltà di pensare. E l’attivare questa facoltà l’ha lasciato a lui, alla sua libertà, e questo complica le cose.

Quindi lo spirito divino è spirito pensante perfetto; lo spirito umano è uno spirito pensante in via di diventare sempre più perfetto.

Replica: E quando il Cristo ha detto: «Farete cose più grandi di me», significa: diventerete più perfetti di me?

Archiati: Nel vangelo di Giovanni, nei discorsi dell’ultima cena, c’è questa frase del Cristo che dice: farete cose più grandi di quelle che ho fatto io[11]. Però non aveva ancora compiuto la cosa più grande di tutte che è quella della morte e della resurrezione.

Per l’uomo, morire nel mondo della percezione per risorgere liberamente nell’elemento del pensare, è una cosa molto più grande. Questa creazione libera dell’uomo, di un pensare che risorge dalla morte della percezione, è molto più importante che non essere rimasto nel grembo divino, perché quella è un’opera più grande per Dio, ma non per l’uomo.

Ed è questo che non ha capito il figlio maggiore dei due: il figlio minore, il figliol prodigo, è andato via dalla casa paterna, il figlio maggiore è rimasto perché non ha capito che, per l’uomo, l’opera maggiore è quella di morire, di perdersi nel mondo della percezione, per darsi la possibilità di risorgere per attività libera, propria, individuale, nel mondo del pensare.

Buon appetito.

Ricominceremo col quarto capitolo, che mi propongo di condurre a termine non stasera, eh?, ma domani mattina (!).

Sabato 16 febbraio 2008, sera

Cominciamo il quarto capitolo: Il mondo come percezione è il titolo, però, come risvolto, ci saranno di nuovo sempre tanti pensieri sul pensare in quanto tale.

IV

Il mondo come percezione

IV,1. Attraverso il pensare sorgono concetti e idee. Che cosa sia un concetto non può essere detto con parole {perché il concetto non è una parola, una parola è un fatto di linguaggio mentre il concetto è un prodotto del pensare}. Le parole possono soltanto rendere attento l’uomo al fatto che egli ha dei concetti. Quando qualcuno vede un albero, il suo pensare reagisce sulla sua osservazione: all’oggetto si aggiunge una controparte ideale, e l’uomo considera l’oggetto e la controparte ideale come appartenentesi reciprocamente.

L’uomo vede l’albero? Percepisce l’albero?

No, l’albero non si può percepire, perché l’albero non è una percezione.

Che cosa ho, allora, nella percezione?

Intervento: L’immagine.

Archiati: «Immagine» è un concetto. La percezione pura (esercizi che abbiamo già fatto e che vanno rifatti sempre di nuovo) senza l’apporto del pensiero sarebbe ciò che avrei se riuscissi a lasciar via il pensiero. Ma se lascio via il pensiero, dormo.

Intervento: Tranne che nei bambini.

Archiati: Che non hanno, perciò, la percezione, ma vivono l’albero (come è per l’animale): l’albero vige, vive, opera nell’animo del bambino.

La cosiddetta percezione è l’autopercezione di essere sempre pensante – e dico: un albero! Ma dicendo «un albero» non ho una percezione, ma un concetto.

Intervento: Hai già riunito percezione e concetto.

Archiati: Quindi non sono scindibili.

Replica: Per questo è difficile per noi dire che cos’è la percezione pura, perché il nostro processo è quasi immediato, contemporaneo. Percezione e concetto per noi sono un lampo, un tutt’uno, e allora non riusciamo a definire la percezione.

Archiati: L’intreccio di percezione e concetto non è discontinuo, ma è continuo, non si possono separare, non si può dire: prima c’è la percezione e dopo c’è il concetto, non si può.

Io percepisco dunque penso, si potrebbe dire, perché se percepisco l’albero sono già nel pensiero, altrimenti non potrei dire «albero».

(IV,1) «Quando qualcuno vede un albero il suo pensare reagisce {subito, non dopo} sulla sua osservazione: all’oggetto si aggiunge una controparte ideale, e l’uomo considera l’oggetto e la controparte ideale come appartenentesi reciprocamente.»

(IV,1) Quando l’oggetto sparisce dal suo campo d’osservazione, sopravvive solo la sua controparte ideale. Quest’ultima è il concetto dell’oggetto. Quanto più la nostra esperienza si allarga, tanto più cresce la somma dei nostri concetti. I concetti non rimangono però isolati: si riuniscono a formare un insieme secondo certe leggi. Ad esempio, il concetto «organismo» si unisce con quelli di «evoluzione, crescita». Altri concetti derivanti da cose singole si fondono completamente in uno: tutti i concetti che io mi formo di singoli leoni, si fondono, per esempio, nel concetto generale di «leone». In tal modo i singoli concetti si collegano fra loro in un sistema concettuale chiuso, nel quale ciascuno ha il suo posto particolare. Qualitativamente le idee non sono diverse dai concetti; sono concetti più ricchi di contenuto, più saturi, che abbracciano di più.

«Libertà», per esempio, è un concetto o un’idea?

Intervento: È un’idea.

Archiati: Quando io dico «albero», è un concetto. Perché è un concetto? Perché è maggiormente circoscritto che non «libertà».

«Libertà» è un concetto talmente complesso che il linguaggio preferisce creare un altro concetto, un sub concetto, e lo chiama «idea». Un’idea è un tipo di concetto più complesso, più vasto, ma viene creato dal pensare.

(IV,1) Debbo attribuire particolare valore al fatto che qui, a questo punto, si faccia attenzione che io ho preso come punto di partenza il pensare, e non i concetti e le idee, che soltanto mediante il pensare possono essere conquistati {conseguiti}, e quindi presuppongono già il pensare. Perciò non si può applicare senz’altro ai concetti quello che ho detto riguardo alla natura del pensare, il quale non poggia che su se stesso, non è determinato da nulla. (Faccio espressamente questa osservazione perché in ciò consiste la mia differenza da Hegel: egli pone infatti il concetto come elemento primo ed originario).

Più precisamente bisognerebbe dire che Hegel pone come realtà originaria l’idea, non il concetto.

Presso Hegel le idee sono di tipo platonico, se vogliamo, sono come delle entità originarie da cui viene strutturato tutto il mondo che conosciamo.

Invece il punto di partenza di Steiner non sono le idee – né quelle di Platone, né quelle di Hegel – ma è il pensare, il pensare in quanto realtà, in quanto attività fondata su se stessa.

Cosa vuol dire il pensare come attività fondata su se stessa?

Che io mi percepisca come spirito che pensa, come sempre immerso nel pensare, è un fatto originario, è un dato di fatto. Ed è il primo dato di fatto, perché poi da lì deriva tutto il resto.

Io sono all’inizio un essere che produce il pensare, quindi la prima realtà da cui partire è il pensare. Ed è talmente originaria, ci son dentro talmente inscindibilmente, che non me ne accorgo neanche.

Nel mondo visibile l’uomo è l’essere che pensa, pensa, pensa, produce il pensare. Questo produrre il pensare o, detto più semplicemente, questo pensare, è un fatto originario. Sta di fatto che ogni essere umano produce il pensare. Sta di fatto.

Cos’è allora il pensare?

Un fatto originario, sta all’origine, non si può andare oltre – perché posso andare oltre soltanto pensandoci, a ciò che c’è oltre.

Il materialista di oggi potrebbe dire: ma è possibile che all’origine ci sia una realtà così esile, così sottile, così volatile come il pensare?

È perché pensa che la materia sia una realtà maggiore che non ciò che è spirituale.

Un bulldozer è anche un fatto, una cosa, una realtà: è originaria? È fondata su se stessa? No, il suo venire all’essere è dipeso in tutto e per tutto dal pensare che ha prodotto i pensieri, è questo che vogliamo dire.

Quindi il bulldozer non è una realtà originaria, è stata originata dal pensare umano, senza il pensare umano non ci sarebbe nessun bulldozer, e per quanto sia bello massiccio, pesante eccetera, è una mezza realtà paragonata al pensare che l’ha creato. Perché il pensare c’è senza il bulldozer, ma il bulldozer non c’è senza il pensare. Una bella differenza!

Il pensare si regge su se stesso, il bulldozer si regge sul pensare.

E perché il pensare si regge su se stesso? Perché la realtà del mondo sono pensieri. La realtà di una macchina sono i pensieri che l’hanno creata.

Il saggio Nagasena cercava di dimostrare al re Milinda, poco prima dell’evento dell’Essere solare, l’evento cristico, che il carro non esiste come carro.

E dice: tu cosa hai nel carro? Reali sono il timone, la cassetta, le ruote, la stanga ecc…: quando tu hai tutte le parti non manca nulla.

Adesso provate voi a immaginare di avere tutte le parti del carro, una accanto all’altra: non ci manca nulla, però il carro non c’è. Perché mai più vi mettereste ad andare da un luogo all’altro su queste parti del carro belle esposte una accanto all’altra!

Qual è la realtà del carro?

Le parti tutte insieme non sono la realtà del carro. Il pensiero strutturante è la realtà del carro, e le parti, anche tutte insieme, sono il nulla del carro – perché con tutte le parti, senza l’idea strutturante, il carro non c’è.

Sono tutti esercizi, questi, per farci capire quanto reale sia il pensare che crea i concetti, che crea il concetto del carro, ma il concetto è il modo specifico di strutturare queste parti, perché finché ce le ho non strutturate, discontinue, una accanto all’altra, non salta fuori il carro, e non ci posso andare sopra e spostarmi da un posto all’altro.

La realtà del carro è un concetto, o, se volete, è un’idea: quella è la realtà del carro.

Intervento: Però è anche vero che se hai il concetto, l’idea, il progetto del carro e non hai le parti non ti sposti lo stesso da una parte all’altra.

Archiati: Ah sì? Tu vorresti avere l’idea del carro senza le parti?

Replica: Eh, appunto non è possibile! Sono legate le due cose, perché, come tu hai detto, se io ho le parti lì ma non ho l’idea del carro io non mi posso spostare. Alla stessa maniera, se io ho l’idea…

Archiati: No, la seconda cosa non è possibile! È possibile avere le parti senza il concetto, ma non è possibile avere il concetto senza le parti – questa è la differenza.

Replica: Ok.

Archiati: Questo è importante perché ti raddoppia il convincimento che il concetto è una realtà. Tu volevi fare come se fosse possibile avere il concetto senza avere le parti: no, se non hai le parti non hai il concetto di carro.

Intervento: Ma l’invenzione della ruota? All’inizio non c’era la ruota…

Archiati: Sì, all’inizio non c’era la ruota…

Replica: …ma c’era il concetto.

Archiati: No, non c’era il concetto. Nel momento in cui hai creato il concetto, c’è la ruota.

Replica: Sì, ma la devi costruire la ruota. C’è prima il concetto e poi la costruzione della ruota.

Archiati: La ruota ha i raggi, il mozzo, ecc…

Replica: Io parlo della prima ruota, eh?

Archiati: Sta’ attento, è lo stesso di quando si diceva: io posso pensare qualcosa, però senza farla. L’umanità ha passato millenni, non aveva scoperto la ruota. Adesso immaginiamo la prima persona che dice: un momento, pezzi di legno li conosciamo, un legno, forse in due pezzi, arrotondato, già ce l’ho… aspetta, se io faccio, magari mettendoci un pezzo di ferro, una cosa rotonda, poi la tengo insieme con dei raggi, trovo il modo di farla girare, questa si muove e può trasportare qualcosa!

Una rivoluzione tecnica, un passo in avanti enorme. Tu dici: ha avuto un’idea del genere e non la realizza. Ma di cosa stai parlando? Non aspetta neanche un’ora, neanche mezz’ora a mettersi all’opera!

Replica: È venuta prima l’idea e poi…

Archiati: E mi pare, scusa eh?

Replica: Allora bisogna avere i pezzi prima dell’idea. Tu hai detto no, no.

Archiati: No, tu dicevi: e se poi non la fa? Subito la vuole realizzare, perché da quel momento in poi l’evoluzione dell’umanità è stata tutta diversa: prima spostavano tutto sulle spalle, adesso sulle ruote. Tutta un’altra civiltà.

Intervento: Anche perché uno partorisce delle idee, concepisce delle idee anche in rapporto a un fine che vuol conseguire. Le idee non sono mai sterili, per cui sarebbe proprio cretino se si mettesse a partorire per conseguire quel fine e poi dicesse no, mi son stufato, basta! C’è questo impulso, questa finalità.

Archiati: Certo, certo. Però torniamo indietro all’invenzione della ruota: gli elementi singoli c’erano già, in fondo, elementi curvati c’erano, elementi dritti c’erano, buchi c’erano. Cos’è la cosa nuova?

Un modo nuovo di strutturare elementi singoli, discontinui, che già c’erano. Un nuovo modo di strutturazione, quello fa il pensare. Dice: aspetta, se io combino dei bastoni…, perché non si schiacci il cerchio devono essere un certo numero, magari ne bastano sei, un certo numero, insomma, in modo che il cerchio resti più o meno rotondo, è importante se no, se poi si schiaccia, non va avanti bene, qui deve poter ruotare, e deve ruotare bene se no mi ci vogliono dieci bovi o venti bovi: devo ridurre la frizione al minimo – quindi già presuppone il concetto di frizione –, ci metto dell’olio… Comunque è tutto un processo di pensiero: prima la ruota non c’era, adesso t’arriva la ruota.

Certo che il primo aereo che è stato inventato non era perfetto, però il concetto era quello decisivo: poi si è sempre più perfezionato.

Già Leonardo, Galileo Galilei, pensavano a strumenti aerei per volare nell’aria, e il loro pensare a che cosa si rivolgeva per creare un aereo? Alle ali più meccanizzate che ci sono in natura – meccanizzate, eh?, non viventi come quelle del gabbiano –, che sono le ali del pipistrello. Quindi i primi studi sulla possibilità di un’ala meccanica, di un’ala metallica che vibra – deve poter vibrare, perché se non vibra si spezza o cade giù –, che vibra meccanicamente, sono stati fatti sul pipistrello.

Hanno fatto studi sulle membrane del pipistrello e dicevano: dobbiamo trovare un elemento metallico che sa vibrare non troppo e non troppo poco, ma abbastanza da tenersi per aria.

Tutto processo di pensiero! Pensiero.

IV,2. Il concetto non può venir ricavato dall’osservazione.

L’osservazione mi dà tutti i pezzi, uno accanto all’altro. Il carro non c’è ancora, eh?

Io osservo un timone, osservo una cassetta, osservo due ruote (la ruota è già stata inventata ma non ancora il carro); l’osservazione di tutti i pezzi mi dà, da sé, il concetto del carro?

No, no, no.

(IV,2) Questo si rileva già dalla circostanza che l’uomo, durante la sua crescita, non si forma che lentamente e gradatamente i concetti degli oggetti che lo circondano. I concetti si aggiungono all’osservazione.

Il bambino piccolo ha avuto già tante volte l’osservazione della mucca, del cavallo, della stalla ecc., ma questo non vuol dire che l’osservazione, che la percezione, automaticamente creino il concetto.

No, è il pensiero, il pensare che crea i concetti. E il pensare sopraggiunge in un secondo tempo. Se fossero le osservazioni a creare i concetti, due persone che hanno le stesse osservazioni dovrebbero avere gli stessi concetti. Il che non è vero. Date le stesse osservazioni, due individui diversi possono crearsi una serie di concetti più o meno ricchi, comunque del tutto diversi.

IV,3. Un filosofo contemporaneo molto letto, Herbert Spencer, descrive il processo spirituale che noi compiamo di fronte all’osservazione con le seguenti parole {adesso leggiamo alcune frasi di un pensatore, anzi di un non-pensatore inglese, che si distingue proprio per il fatto di non saper pensare}: «Se, camminando attraverso i campi in un giorno di settembre, udiamo un fruscìo a qualche passo davanti a noi, e sulla sponda del fossato, da cui ci è sembrato che il fruscìo provenisse, vediamo che l’erba si muove {quindi Spencer mette insieme due sensi, l’udito e la vista}, noi probabilmente marciamo diritti su quel punto per vedere che cosa produceva il fruscìo e l’agitarsi dell’erba. Al nostro avvicinarsi, una pernice si alza a volo dal fosso, e la nostra curiosità è allora appagata: noi abbiamo quella che chiamiamo una spiegazione dei fenomeni. Se riflettiamo bene {è sempre Spencer che parla}, tale spiegazione deriva dal fatto che in vita nostra abbiamo già infinite volte notato {osservato, percepito} come un’alterazione dello stato di riposo di piccoli corpi è spesso accompagnato dal moto di altri corpi che vi si trovano in mezzo, e poiché abbiamo poi generalizzato i rapporti fra tali alterazioni e tali moti, noi riteniamo una particolare alterazione come spiegata, non appena troviamo che essa costituisce un esempio di detti rapporti».

Siccome ho visto, ho percepito, ho fatto tante volte l’osservazione che il muoversi dei fili d’erba è accompagnato da qualcosa che ci passa in mezzo, adesso ho visto la pernice e dico: eh, ci è passata dentro e perciò si sono mossi i fili d’erba. E ho la spiegazione.

Quindi la spiegazione me la dà l’osservazione ripetuta, la percezione ripetuta, non il pensare, secondo Spencer. Basta che io ripeta un numero sufficiente di volte un’osservazione, poi so, generalizzando, come le cose funzionano. E il pensiero non c’entra nulla!

Steiner commenta:

(IV,3) Tale fenomeno, però, guardato in modo più preciso si presenta in maniera assolutamente diversa da quella qui descritta. Quando io sento un fruscìo, cerco anzitutto il concetto per questa osservazione.

E non mi accorgo che io sto cercando il concetto, perché il pensare è l’elemento in cui vivo sempre. Se io non formassi, nel sentire il fruscìo, il concetto, che per il pensiero è spontaneo, che un fruscìo è un effetto e che quindi deve avere una causa, se io non creassi spontaneamente il concetto di effetto, non cercherei la causa!

Ho accanto a me un cane e il cane sente il fruscìo, perché non va a cercare la causa?

Perché non ha fatto abbastanza esperienze di fruscii? Ma no, mi è sempre stato accanto quando sono andato a caccia, ha sentito tanti fruscii quanti ne ho sentiti io: perché non va a vedere che cosa ha causato il fruscìo?

Perché non pensa, e quindi non può creare il concetto di effetto. Fruscìo è effetto: deve avere una causa. Voglio cercar la causa: chi ha mosso i fili d’erba?, chi ci è passato in mezzo?

(IV,3) «Quando io sento un fruscìo cerco anzitutto il concetto per questa osservazione».

(IV,3) Soltanto questo concetto mi apre la strada al di là del fruscìo.

Il cane non va oltre il fruscìo. Sente il fruscìo, punto e basta: non ha domande.

Intervento: Non è che voglio contestare, adesso, io ho già letto questo esempio di Spencer, ci sono andato dentro, l’ho sviscerato e l’obiezione di Steiner mi sembra perfetta. Però, visto che noi adesso ci facciamo su un raccontino, il cane, sentendo il fruscìo, va a verificare, altroché se va a verificare! Corre prima di me! Sicuramente. Qualsiasi animale lo fa.

Archiati: Calma, calma. Questa era solo la prima parte. Certo che l’animale reagisce così, certo, mica lo sto negando.

Replica: Che dopo non ci sia il pensare nell’animale, questo è un altro fatto, ma c’è un istinto che lo porta senz’altro ad andare a verificare.

Archiati: Sì, quindi la differenza non si mostra subito nella prima parte. Io non ho detto che l’animale non reagisce. Certo che il cane reagisce.

Intervento: Sì, ma soprattutto perché è stato educato a reagire.

Archiati: No, no, lui dice giustamente: lo fa per istinto, è abituato, è istintivo.

Sia il cane, sia l’uomo vanno a vedere. Supponiamo che la pernice non ci sia: l’elemento che ha causato il fruscìo e che ha mosso i fili d’erba s’è reso impercepibile, è sparito, è scappato via. D’accordo? Facciamo questo caso, che è possibile.

Allora, sia il cane, sia l’uomo vanno e non c’è nulla. Come reagisce il cane?

Per il cane la faccenda è finita lì, il cane non cerca una spiegazione, non cerca una causa. È abituato ad andare a vedere, per istinto, ma non esiste che cerca una spiegazione.

Invece l’essere umano, siccome pensa, cerca una spiegazione, cerca la causa. Perché ha il concetto di effetto e di causa, e non si dà pace finché non trova la causa. Questa è la differenza, non nel fatto che nell’animale non c’è nessuna reazione. Certo che c’è una reazione.

Si evidenzia il pensiero dove l’effetto non trova la sua causa, lì l’uomo non si dà pace, perché ha il concetto di effetto e dice: l’effetto può venire sortito soltanto se c’è la causa, e quindi la causa ci deve essere.

Come fa l’animale a pensare che la causa ci deve essere perché il movimento dei fili dell’erba è un effetto? No, tutto questo non esiste nell’animale.

Casomai il cane sente astralmente, nella sua anima, il rovellìo, l’insoddisfazione dell’uomo: lo sente, però, non è che lo capisce.

Invece l’uomo può pensare: oh, non sia mai che un serpente velenoso, che è scappato da qualche parte, ora mi salta fuori… E perché? Perché l’uomo, in quanto essere pensante, sa che la causa ci deve essere.

A quel punto lì il cane è rimasto per strada, perché non pensa. L’uomo vuol trovar la causa, perché sa col suo pensiero che sia il fruscìo che ode, sia il movimento dei fili d’erba che vede, sono effetti e la causa ci deve essere, se no non ci sarebbe l’effetto.

E se non la trova, si allarma ancora di più, perché dice: allora qui la causa si è occultata, la cosa diventa più pericolosa. La pernice la conosco, so che non è un pericolo, ma se è una serpe velenosa ancora di più vorrei sapere dove sta.

Tutte queste riflessioni sono faccende del pensare.

Steiner sta evidenziando ciò che nell’uomo è dovuto al pensare (e che nell’animale proprio non c’è): il fatto di concepire spontaneamente nel pensare che il fruscìo e il movimento dei fili d’erba sono un effetto che deve avere una causa.

Un altro esempio: c’è una mensola, e sulla mensola ci sono delle ciotole e in una di queste ciotole c’è il mangiare per il cane. Il padrone, d’abitudine, la prende dalla mensola, una volta, due volte al giorno, e la mette giù al cane. Un pomeriggio entra, sa di aver messo la ciotola al suo posto, ma non c’è.

Cosa pensa l’uomo? Qualcuno deve averla presa.

E il cane cosa pensa? Nulla, nulla. Il cane, se gliela metti lì, va a mangiare, e se non c’è lì…

L’esempio classico: c’è una mandria di mucche e non si vuole cha vada da un posto all’altro. Si fa allora uno steccato e per uscire fuori dall’altra parte basta che ti giri, fai così e vai via. (Fig. 9)

Supponiamo che il passaggio sia abbastanza grosso e che una mucca, se si girasse, ce la farebbe ad uscire e andrebbe là dove c’è un sacco di erba, mentre qui l’ha mangiata tutta. La mucca va e si ferma! Non c’è mai stata una mucca in grado di dire: eh, se mi giro esco fuori. Proprio, ve lo garantisco, non c’è mai stata! Perché questa riflessione è un pensiero, e la mucca non sa pensare. Si ferma lì, e poi, tra l’altro, non sa tornare neanche indietro, perché non è abituata, non ha fatto mai marcia indietro, non ha il concetto della marcia indietro, e se tu non vai a tirarla fuori ti sta lì fino a domani e dopodomani. Più evidente di così che non sa pensare! Perché bisogna essere ben stupidi per arrivare lì e star lì per due giorni.

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Fig. 9

Intervento: Non è detto, dati di percezione ci mostrano che altre razze animali conoscono la marcia indietro.

Archiati: Quindi si è inserita nel loro istinto, d’accordo? Perciò io ho preso la mucca, che non lo fa. Se tutti gli animali sapessero pensare, non avrebbero bisogno dell’istinto che fa fare marcia indietro a certi animali e ad altri no. Avrebbero tutti il concetto di marcia indietro.

Formulata dall’altro lato, la domanda dice: un uomo adulto (adesso, però, non mi tirate fuori la faccenda dell’uomo primitivo ecc…), un uomo adulto normale che arriva lì e sta lì per un giorno intero perché non sa cosa fare, esiste? No, no, no, non esiste, perché sa pensare.

Butto una banana aldilà di un muro e ho una scimmia accanto: non mi dite che la scimmia, poi, va dietro il muro a trovare la banana – a meno che non si sia abituata a farlo perché ha visto farlo all’uomo. Ma se prendete una scimmia che non ha mai avuto la percezione dell’uomo che va dietro il muro, non ci va dietro. Nel momento in cui la banana scompare è sparita, non c’è più la banana. Finita la percezione, finito tutto.

Il bambino, se è piccolo piccolo, un anno, non va dietro, non c’è verso che ci vada. Un anno dopo: dov’è, dov’è la banana? Un anno prima sta lì: la banana è sparita. A quel punto lì aveva soltanto la percezione senza il pensare. È il pensare che mi dice: io non la vedo più, però è caduta là dietro, c’è ancora la banana, fammela andare a prendere.

Tutti processi di pensiero, e l’animale non li può fare.

Certo che l’animale, accanto all’uomo, acquisisce comportamenti che poi entrano a far parte del suo istinto, ma questo non vuol dire che questi comportamenti siano fondati sul pensiero. Sono comportamenti, se vogliamo, indotti dall’accompagnamento dell’uomo, che in seguito entrano a far parte dell’istinto dell’animale e che si possono trasmettere alle generazioni successive per eredità. Però ci vuole il fattore uomo per introdurli, e l’origine è sempre il pensare.

Dire che, quando termina di essere percepibile, la banana non sparisce, è un pensiero, un pensiero tra l’altro abbastanza complicato.

Intervento: Nel caso del cane che ho, se la palla va sotto il divano la va a cercare.

Archiati: No, no, dire che la va a cercare è sbagliato: gli va dietro. Il cercare è un concetto molto complesso, mentre questo andargli dietro fa parte dell’istinto dell’animale. Il cane rincorre la palla non perché pensa, ma perché non sa far altro.

(IV,3) «Quando io sento un fruscìo cerco anzitutto il concetto per questa osservazione. Soltanto questo concetto mi apre la strada al di là del fruscìo».

(IV,3) Chi non pensi oltre sente solo il fruscìo e se ne sta contento {come il bambino piccolo}. Attraverso il mio riflettere, mi riesce però chiaro che debbo considerare il fruscìo come effetto {siccome lo facciamo spontaneamente non ce ne accorgiamo, ma lo facciamo!}. Dunque soltanto quando ho congiunto il concetto di effetto con la percezione del fruscìo, sono spinto ad oltrepassare la singola osservazione e a cercare una causa. Il concetto di effetto chiama {richiama} quello di causa, e io mi metto a cercare l’oggetto-causa che scopro sotto l’aspetto della pernice. Ma questi concetti di causa ed effetto io non posso mai ottenerli dalla semplice osservazione, per quanto estesa a numerosissimi casi. L’osservazione suscita il pensare {provoca il pensare}, e questo soltanto mi indica la via per collegare la singola esperienza con un’altra.

Una persona sta scendendo le scale per andare nel garage, scende col bambino piccolo e col cagnolino, e all’improvviso pensa che ha dimenticato la chiave della macchina.

Come spieghi al bambino piccolo e al cane che devono tornare indietro tutti e tre? Il bambino lo prendi per mano, il cagnolino ti segue, ma né l’uno né l’altro capiscono il concetto di «dimenticare», il concetto di «chiave», il concetto di «tornare a prendere», il concetto che «senza la chiave la macchina non si mette in moto»...

Oppure, quando il bambino è piccolo, cosa gli dico? Gli dico: ho dimenticato la chiave, o gli dico: aspettami qui? Magari un anno prima dovevo dirgli: aspettami qui, se no non capiva nulla, ma un anno dopo gli posso dire: ho dimenticato la chiave, e lui comincia a capire, e ciò mi dimostra che subentra il pensare.

Perché capisce «aspettami qui»? Che differenza c’è tra la comunicazione «aspettami qui», e la comunicazione «ho dimenticato la chiave»?

Intervento: «Aspettami qui» ha meno concetti.

Intervento: «Aspettami qui» è immediato, mentre «ho dimenticato la chiave» presuppone tutto un processo di coscienza.

Intervento: Per «aspettami qui» deve avere solo il concetto dell’attesa.

Archiati: No, il concetto dell’attesa è un concetto molto complesso. Non è mica detto che il bambino si fermi. Supponiamo che il bambino, spontaneamente, ti corra dietro. Tu gli dici: no, fermati! no fermati! e intanto gli calchi la mano – lui non è che capisce, ma percepisce che lo blocchi. E dopo un paio di mesi, quando gli dici «aspetta qui», capisce. Ancora un pochino prima non c’era verso di farlo aspettare, perché non era capace di stare mezzo minuto senza la mamma, e le correva dietro. Lascialo correre dietro, no?, non c’è verso di farlo aspettare.

Un paio di mesi dopo riesci a farlo fermare, ancora mesi dopo capisce l’aspettare.

Il pensare è un mistero complessissimo, noi adulti ci siamo dentro, ci viviamo dentro, ma è complesso. L’animale non ha nulla di questo, il bambino ha la potenzialità assoluta a tutto questo, però questa potenzialità si attua un po’ alla volta.

Intervento: Questo succede nelle varie lingue?

Archiati: Certo. La mamma parla la lingua materna, però quando tu lo fermi con la mano non è che stai parlando, è al livello corporeo il linguaggio, lo fermi con la mano. Però può darsi che lui non capisce e ti segue lo stesso.

IV,4. Se si pretende che una «scienza rigorosamente oggettiva» ricavi il suo contenuto soltanto dall’osservazione, si deve nello stesso tempo pretendere che essa rinunzi del tutto al pensare. Questo, infatti, per sua natura va sempre al di là dell’osservato.

Si potrebbe dire, come commento a questo breve paragrafo, che la scienza moderna, in un certo senso, è diventata povera di pensiero perché si è concentrata sempre di più sul catalogare, elencare e sistematizzare le osservazioni, le percezioni. Di pensiero che capisce, che interpreta, che approfondisce, che crea dei nessi, ne ha messo sempre di meno perché sempre più tempo, sempre più energie dovevano venire investite nell’accumulare percezioni su percezioni.

Quindi una caratteristica fondamentale della scienza moderna è un aumentare all’infinito le percezioni, le osservazioni, gli esperimenti – gli esperimenti raddoppiano l’osservabile –, e un rattrappirsi quasi all’infinito del pensare che interpreta, che fa dei nessi, che capisce, che vuole trovare cause e effetti, che spiega.

Abbiamo una scienza che descrive al massimo e che spiega al minimo.

Herbert Spencer, quando l’abbiamo letto, cosa ha fatto? Ha descritto, descritto, descritto: fruscìo, movimento dell’erba, pernice. E ha detto: siccome questi eventi li ho percepiti tante volte, li metto nel novero, nel catalogo delle cose già avvenute e ho la spiegazione.

La scienza naturale è una descrizione del mondo della percezione, senza aggiungerci la spiegazione che può dare solo il pensare.

Torniamo a Libet: lui fa delle osservazioni sul cervello, poi chiede al paziente: che cosa c’è nella tua coscienza? e quello gli dice che cosa avviene nella sua coscienza, e anche questo viene osservato attraverso l’organo dell’udito. Descrive, elenca tutte le osservazioni che ha fatto.

Che cosa ho? Una serie di osservazioni, e insieme alle osservazioni che ha fatto ci mette anche il rapporto di tempo, così come l’ha osservato, e dice: di volta in volta, ciò che avveniva nel cervello era un millesimo di secondo prima di ciò che avveniva nella coscienza.

Che cosa mi dà, Libet? Elementi di osservazione. Avendo tutti questi elementi di osservazione, cosa ho capito, io, dei fenomeni? Nulla! So soltanto che cosa avviene, ma non perché avviene.

Non conosco cosa è causa e cosa è effetto.

Supponiamo, un altro esempio, che ci sia un muro di mattoni in fabbricazione, e supponiamo che il muratore sia dietro e noi non lo vediamo. Guardando da questa parte vediamo soltanto i mattoni che si aggiungono uno all’altro. (Fig.10)

Adesso supponiamo di descrivere ciò che vediamo da questa parte, ma il muratore non lo vediamo.

Intervento: Vediamo un muro che cresce da solo.

Archiati: Vi allarma la cosa?

Intervento: No, ci sarà qualcuno. L’uomo cerca la causa.

Intervento: Basta andare a vedere dietro.

Archiati: Allora ti allarma, la cosa, se il muro cresce da solo?

Intervento: Certo. Ma non ci credo che cresce da solo.

Archiati: Perché? Hai un bambino accanto a te: il bambino ci crede?

Replica: Sì.

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Fig. 10

Archiati: No, no, non ha il concetto del muro che cresce da solo, che è un concetto impossibile. Quindi non ha problemi, e ancora meno il cagnolino.

Intervento: Ma noi ce l’abbiamo il concetto del muro che cresce da solo?

Archiati: Certo che ce l’hai il concetto, se no non capiresti cosa intendo dire. Tu dici: è il concetto di una cosa impossibile. Però è un concetto. «Il muro» è un concetto, «crescere» è un concetto, «da solo» è un concetto: questi tre messi insieme non funzionano.

IV,5. Ma ora è il momento di passare dal pensare all’essere pensante {adesso passiamo dal pensare all’uomo che pensa}, perché attraverso l’essere pensante il pensare viene collegato con l’osservazione.

È l’uomo che collega il pensare con l’osservazione. L’osservazione mi dà un muro che diventa sempre più alto, e il pensare cosa fa? Chiede: e il muratore dov’è?

Perché se quello si nasconde dietro e ogni volta mette sopra il mattone in modo tale che neanche le dita si vedono, è possibile!

Che i mattoni vadano su da soli non è possibile, però che il muratore lo faccia senza farsi vedere è possibile.

(IV,5) La coscienza umana è il palcoscenico dove concetto e osservazione si incontrano e vengono collegati fra loro.

Adesso vi introduco una chiarificazione di terminologia: una volta Steiner parla di percezione, una volta di osservazione.

Interventi: È diverso! È diverso!

Archiati: Eh già. Il pensare è una facoltà, una attività che produce di volta in volta concetti. C’è un’altra facoltà opposta, polare, che è la facoltà dell’osservare in quanto attività, e l’osservare in quanto attività non sortisce osservazioni singole, perché le osservazioni singole, in un italiano un po’ più preciso, si chiamano percezioni.

Quindi i singoli atti di osservazione sono percezioni, e qui la traduzione avrebbe potuto essere un pochino più precisa: però la stessa difficoltà c’è anche in tedesco, simile a quella italiana. Un Rosmini sarebbe stato molto più rigoroso, non avrebbe confuso o usato in modo uguale «osservazione» e «percezione».

Allora diciamo che c’è la facoltà del pensare che si attualizza di volta in volta nei concetti, e c’è la facoltà dell’osservare che si attualizza di volta in volta nelle singole percezioni.

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Ogni singola percezione è un’attualizzazione particolare della facoltà dell’osservare, e un concetto è un’attualizzazione particolare della facoltà del pensare.

Quindi il pensare è la facoltà di creare concetti all’infinito, l’osservare è la facoltà di creare percezioni all’infinito.

Intervento: Sarebbe corretto dire che l’osservare è già un primo pensare?

Archiati: Una bella domanda, la tua.

Replica: Lo sai perché te lo domando? Perché altrimenti non so in quale categoria mettere l’osservare.

Archiati: Certo, perché l’osservare non è il vedere, non è un puro vedere. Tu stai chiedendo: qual è la differenza tra osservare e vedere?

Vedere è un osservare neutro, tant’è vero che c’è la categoria del sopravvedere. Invece, quanto all’osservare, non si può sopraosservare: quindi l’osservare è un vedere attento.

Intervento: Pensando a Prometeo e a Epimeteo, il vedere è più uno scorrere su quello che già c’è (come fa Epimeteo), e invece l’osservare è più prospettivo, più prometeico.

Archiati: No, lui sta parlando dell’osservare. Osservare è percezione, eh?, non lo sta paragonando col pensare.

Replica: Non ha chiesto se l’osservare è anche già un pensare? Io ho capito questo.

Archiati: Un inizio, intendeva dire.

Replica: L’osservare è un pensare che si appoggia.

Intervento: Lo sai perché mi sono permesso di fare questa domanda ? Perché al III,8 (pag. 33 del Vigevani) abbiamo letto: «Il pensare, come oggetto dell’osservazione, si differenzia essenzialmente da tutte le altre cose». Il pensare come oggetto dell’osservazione. E allora chi è il soggetto? L’osservazione. Allora l’osservazione è un pensare.

Archiati: No, no, no. Significa semplicemente che tutto quello che noi cogliamo nel pensare lo cogliamo dalla porta dell’osservazione, della percezione.

Quindi per poter pensare anche sul pensare dobbiamo percepire il pensare, dobbiamo osservare il pensare, perché noi possiamo pensare soltanto su ciò che osserviamo, su ciò che percepiamo.

Io direi – ma è una proposta, un avvio di pensieri –: il bambino piccolo vede ma non osserva, l’adulto osserva. Il bambino piccolo non sa osservare.

Intervento: Tutt’al più guarda. Guardare è già più di vedere.

Archiati: Guardare è a metà strada tra vedere e osservare. Guardare è l’inizio dell’osservare.

Replica: Esatto.

Archiati: Adesso, però, per spiegare le cose un pochino più a fondo, dobbiamo aggiungere elementi concreti, scientifici, di scienza del sovrasensibile.

L’adulto osserva perché il suo Io superiore, il suo spirito, dirige gli occhi verso le cose su cui è chiamato a pensare, e quindi l’osservare è una provocazione a pensare.

Ogni essere umano osserva solo le cose che fanno parte del suo karma e che sono per lui la provocazione a pensare. Le altre non le osserva, le vede senza osservarle.

Quindi nell’osservare è inclusa la provocazione a pensare, altrimenti vedo, semplicemente. Sento il fruscìo, i fili d’erba si muovono: fammi vedere meglio!

Cosa vuol dire: fammi vedere meglio? Vuol dire: voglio osservare, voglio guardare attentamente – perché vedere ha già visto, no? e ha sentito.

Intervento: Si può dire che l’osservare collega il vedere col pensare.

Archiati: Certo, fa da tramite. Quindi l’osservare è un tipo di vedere che richiede il pensare.

Replica: Perché c’è la volontà di capire.

Archiati: C’è la volontà di capire. Fammi osservare meglio. Quindi non sarebbe giusto dire: fammi vedere meglio – perché visto, hai visto. Fammi osservare meglio – e questo osservare meglio è in vista di spiegare il fenomeno attraverso il pensare.

L’osservare è la facoltà della percezione, in quanto la percezione è diretta verso il concetto, perché non c’è percezione senza capacità di creare il concetto. L’animale non ha percezioni.

Ci sono piccoli gruppi che studiano La filosofia della libertà a livelli un pochino più rigorosi, e perciò, in chiave di terminologia, io farei la proposta (ci si può accordare anche in altri modi) che è meglio, per il pensare più rigoroso e più pulito, usare «osservare» come attività, quindi non «osservazione». Un’osservazione singola è meglio chiamarla percezione, e allora la cosa diventa più pulita.

C’è la facoltà dell’osservare e quando questa facoltà si attualizza in un’osservazione concreta, questa osservazione concreta la chiamiamo tecnicamente percezione. Altrimenti si fa confusione. Già il testo è di una certa esigenza di pensiero, se poi andiamo a spanne con la terminologia diventa difficile.

Quindi qui io non userei «il pensiero», perché un pensiero singolo è un concetto, userei «il pensare», la facoltà del pensare come attività.

L’attività del pensare crea pensieri singoli che noi chiamiamo concetti.

L’attività dell’osservare evidenzia, nel campo dell’osservabile, contenuti singoli dell’osservabile che chiamiamo percezioni.

Ogni testo rigoroso deve avere un minimo di terminologia a cui ci si attiene. Già in tedesco è un pochino difficile – perché Steiner si muove un po’ sovrano su questa terminologia, non avendo scritto il libro solo per i filosofi, ma un po’ per tutti –, in italiano rischia di diventare ancora più sfocato e alla fine si va un po’ a spanne.

(IV,5) «Ma ora è il momento di passare dal pensare all’essere pensante, perché attraverso l’essere pensante il pensare viene collegato con l’osservare {e non «con l’osservazione». Quindi i concetti che produce il pensare vengono collegati con le percezioni che sono prodotte dall’osservare}. La coscienza umana è il palcoscenico dove concetto e percezione {qui «percezione» è meglio che «osservazione»} si incontrano e vengono collegati fra loro».

(IV,5) Una tale coscienza (umana) viene però con questo già caratterizzata. Essa è l’intermediario fra pensiero e osservazione {tra pensare e osservare, quindi tra concetti prodotti dal pensare e percezioni prodotte dall’osservare}. In quanto l’uomo osserva un oggetto, questo gli appare come dato: in quanto pensa, egli appare a se stesso come attivo.

Quindi, di fronte a una percezione mi sento passivo, nel senso che la percezione mi si presenta come qualcosa che ho di fronte. Invece nel pensare sono attivo, sono io a creare il concetto di albero, dico: è un albero.

Ma questa decisione conoscitiva che dice «questo è un albero», è un’attività mia. Quindi la percezione pura non c’è, è il negativo dell’attività del pensiero.

Un negativo è una cosa autonoma, a sé stante? No, è un negativo, e il negativo lo capisco soltanto col positivo.

Intervento: È la percezione che dovrebbe precedere il pensiero, o no? Perché altrimenti può esistere un pensiero senza percezione?

Archiati: No. Certo che la percezione precede il pensiero.

Replica: E allora è la percezione che esiste primariamente.

Archiati: È lo stesso dire che la percezione precede il pensiero e dire che la percezione viene prima?

Replica: No, non è la stessa cosa.

Archiati: No, non è la stessa cosa, vedi? La percezione precede il pensiero, ma non viene prima. Non c’è un prima e un dopo.

Replica: Cioè, tu vuoi dire che il pensiero è sempre alla base di tutto, nonostante abbia bisogno della percezione? Ha bisogno o no?

Archiati: La percezione è un pensare non conscio di sé, quindi non è che non c’è, il pensare. Il diventare conscio di sé viene dopo, ma non il pensare.

Intervento: Un po’ come il positivo e il negativo, che sono contemporanei e non possono esistere uno senza l’altro.

Replica: Altrimenti dovremmo dire: percepisco dunque sono.

Archiati: E già! Allora diciamo che ci sono due livelli di pensiero: un pensiero subliminale, che c’è sempre, e un pensiero che è conscio a se stesso.

La percezione è la provocazione che fa sì che il pensiero che c’è sempre si noti: ah, albero! Ma lo sapevo prima che quello è un albero? Certo che lo sapevo, il pensiero c’era già, però era subliminale, se posso usare questa metafora.

Replica: Nel bambino c’è in potenza il pensare, la percezione c’è sempre, precede il pensare.

Archiati: C’è un pensare subliminale, che è un pensare più in potenza che in atto.

Tu intendi dire: il pensare in atto viene dopo la percezione. Ma c’è un pensare potenziale che è sempre parallelo alla percezione.

Quindi una percezione senza il pensare in assoluto non c’è, non potrebbe esserci. Perché altrimenti anche l’animale, che non ha in assoluto il pensare, dovrebbe poter percepire, ma percepire significa poter dire cos’è ciò che percepisco.

Faccio un altro tentativo: una percezione è un concetto implicito, e il pensiero lo esplicita. La percezione è un concetto implicito, altrimenti non posso avere la percezione dell’albero. Se non è implicito il concetto di albero, non vedo nulla!

Il cane non vede l’albero, non può percepire l’albero, soltanto il pensiero ne fa una unità, unisce insieme questa infinità di cose che impingono su di me e ne fa un concetto di albero.

Quindi c’è un pensare implicito (subliminale, l’ho chiamato), che è concomitante la percezione, e la formazione del concetto è una esplicitazione di questo pensare.

(IV,5) «In quanto l’uomo osserva un oggetto, questo gli appare come dato, in quanto pensa egli appare a se stesso come attivo». Io, in quanto essere pensante, creo il concetto di albero.

(IV,5) Considera la cosa come oggetto, e se stesso come soggetto pensante {ob-iectum significa: viene proiettato davanti a me – la percezione mi sta di fronte, è oggettiva, invece io, in quanto pensante, sono soggetto attivo, produco io il pensare}. In quanto dirige il suo pensare sull’osservazione {sul percepito, sulla percezione}, ha coscienza degli oggetti; in quanto dirige il pensare su se stesso, ha coscienza di sé o autocoscienza {quindi, osservando se stesso, l’uomo dice: io sono l’essere che pensa, e pensa di fronte a ogni osservazione, a ogni percezione, a ogni cosa che vede, a ogni cosa che percepisce}. La coscienza umana deve necessariamente essere sempre anche autocoscienza, poiché è coscienza pensante. Infatti se il pensare rivolge lo sguardo sulla sua propria attività ha, come oggetto, la sua originaria essenza, dunque il suo soggetto.

Si può dire «io penso» senza autocoscienza?

No. «Io penso» significa: sono cosciente di me come pensante. E su che cosa penso? Su tutte le cose che compaiono sull’orizzonte della mia osservazione, penso su tutto ciò che mi diventa percepibile, e dico: questa è una casa, questa è una ruota, questo è un carro, questo è il mio amico, questa è una borsa ecc…

Intervento: Possiamo dire che la coscienza umana è il luogo dove si incontrano l’oggettività e la soggettività.

Archiati: Del mondo. E la soggettività cos’è’?

Replica: È la coscienza di pensare se stesso.

Archiati: È paradossale, la cosa: soggettiva è la percezione, oggettivo è il concetto. È paradossale perché si potrebbe pensare anche all’opposto, eh? Invece pensato all’opposto è più sbagliato. Prendiamo il concetto di cane: il concetto di cane è uno, non ci sono due o tre concetti di cane. Però, le percezioni dei cani che ci sono son tantissime.

Noi, dove siamo soggettivi? Nelle percezioni che abbiamo dei tanti cani che ci sono, o nel concetto di cane?

Nel concetto di cane siamo oggettivi perché ce n’è uno solo, e nella percezione siamo tutti soggettivi perché ognuno ha le sue percezioni particolari del cane.

Quindi, paradossalmente, va detto che il campo della percezione è il campo della soggettività, e il pensare, il creare concetti, è il campo dell’oggettivo.

Il soggetto pensante è il luogo dove si rivela l’oggettività del mondo, perché il soggetto è pensante. Quindi la qualità di soggetto non sta a dire che è soggettivo, ma sta a dire che è agente, che è attivo, che lo gestisce lui, il pensiero. Non è soggetto nel senso di soggettivo, cioè non oggettivo, non valido per tutti.

Intervento: Il concetto di cane è oggettivo perché riguarda tutti i cani, però non è un cane ben definito. Non è nessun cane, insomma.

Archiati: Quindi la percezione è soggettiva e il concetto è oggettivo. Il pensare non è per nulla un’attività soggettiva, è un’attività oggettiva. Si esprime nel soggetto umano, ma è oggettiva.

Intervento: Vorrei una piccolissima delucidazione su una persona adulta che ha per la prima volta una percezione nuova. Per esempio, si trova all’improvviso di fronte al mare che non ha mai visto prima. Se ne farà un concetto oggettivo da solo, autonomamente, in forza del suo pensiero?

Archiati: Lo guarda e non sa cos’è. Non l’ha mai visto! Penso di avervelo raccontato, a me questo fatto è successo: ero nel Laos, nella provincia più piccola, dove avevo degli alunni (insegnavo dalla prima elementare fino alla maturità, tutto in francese, tra l’altro – no, al secondo anno insegnavo in laotiano), e in questi libri francesi c’era il concetto di ascensore, però non c’erano immagini, e in quel paesino non c’erano ascensori.

Replica: Sì, ci dicevi che non conoscevano nemmeno la scala.

Archiati: Sì. Una volta abbiamo avuto la possibilità di andare nella capitale, dove c’erano due o tre ascensori. Lì i ragazzini vedono un ascensore. Noi sappiamo cos’è un ascensore, ma loro cosa vedono?

Intervento: Una camera piccola.

Intervento: Una scatola.

Intervento: No, hanno la percezione di un ascensore.

Archiati: No! Per loro c’è un muro spaccato, un muro rotto. No, vieni a vedere che non è un muro rotto: guarda, premi qui, e vedi che succede. Ah! pensavo fosse un muro rotto, ma questo non è un muro rotto. Si apre la porta! Cos’è? Dice: ma c’è la scala vicino, si fa più presto con la scala!

Vieni dentro, vieni dentro, hai paura? No, vieni, vieni, dai non succede nulla, vieni dentro – si chiude bzzzzz, si apre bzzzzz, usciamo fuori, beh, che è successo?

Sta’ attento: tu hai dieci anni non hai bisogno di questo ascensore, ma pensa alla tua nonnina che non ce la fa a camminare: se abitasse in città e dovesse salire quassù, sarebbe bella una cosa del genere.

Riproviamo! Andiamo giù, bzzzzz, esco fuori: non è successo nulla? Proviamo di nuovo, andiamo dentro, andiamo su: tu pensa che hai la tua nonnina qui accanto. Non sarebbe bello per la tua nonnina se deve salir sopra e non ce la fa a camminare?

Questo è quello che gli europei chiamano ascenseur: adesso sai cos’è l’ascensore? Sì, è quella roba lì!

Come si crea un concetto? Sulla falsariga della percezione. Però vedere l’ascensore non significa ancora averlo percepito: la percezione dell’ascensore risulta dall’osservarlo come essere a sé stante, non come una spaccatura nel muro ma come qualcosa che funziona indipendentemente dalla casa, che si muove da su a giù ecc… Quindi devo osservare tutti i particolari della percezione. Ciò che noi chiamiamo ascensore non è una cosa sola, ma è un insieme funzionante di elementi e movimenti: soltanto quando ho insieme tutti gli elementi fondamentali, ho il concetto di ascensore.

Ogni concetto è una complessità di elementi che vanno strutturati insieme. Nella misura in cui faccio l’esperienza di tutti questi vari elementi e posso osservare che sono connessi insieme, strutturati insieme, e che appartengono a ciò che chiamo ascensore, comincio a capire cos’è l’ascensore.

Però devo avere in mano gli elementi essenziali dell’ascensore, che sono strutturati. L’ascensore non è fatto soltanto della porta: se io dell’ascensore osservo solo la porta, non ho ancora l’ascensore, perché è essenziale all’ascensore il movimento ascensionale e discensionale, la sua funzione.

La formazione di concetti sulla falsariga della percezione è di una complessità astronomica.

Intervento: Il fatto che una persona non abbia mai visto un ascensore, e non ne conosca il nome, non gli impedisce di svolgere tutto quel processo di osservazione e di connessione delle singole percezioni che lo possono poi portare a produrre il concetto relativo di ascensore. E poi, probabilmente, il suo concetto di ascensore sarà diverso da quello che avevi tu, che lo conoscevi da trent’anni, l’ascensore. Di fronte all’ignoto non conosce il nome, ma l’ignoto non gli impedisce di espletare quel processo che hai descritto.

Archiati: No, stai tagliando via un po’ troppo l’aspetto esperienziale.

Replica: Beh, il processo dell’osservare fa il nesso delle singole percezioni.

Archiati: Certo, certo. Il problema è che noi sappiamo cos’è un ascensore, ma lo sappiamo per percezione, per esperienza ripetuta, e l’esperienza ripetuta ci ha già da tanto tempo aiutato a formare il concetto complessivo e completo dell’ascensore.

Per esempio, fa parte del concetto di ascensore la velocità, e la velocità deve essere tra un massimo e un minimo: se oltrepassa il massimo non è più un ascensore, è un missile, e se oltrepassa il minimo non è più un ascensore, ma è un montacarichi. Quindi vedi che è complessa, la cosa. Tu devi fare anche l’esperienza di una certa velocità che è contenuta entro certi limiti, superiori e inferiori, e questo fa parte del concetto di ascensore.

Replica: Certo, l’esperienza favorisce. Però nell’osservazione sono comprese tutte queste fasi. Io ho sintetizzato.

Archiati: Sì, però posso io osservare una velocità senza percepirla? La devo percepire.

Replica: Certo, è l’osservare che produce le percezioni. Il prodotto dell’«osservare» sono le singole percezioni e poi ci sono i nessi fra tutte queste osservazioni – e qui va bene anche «osservazioni». Voglio dire che una persona che non abbia mai visto una cosa, non è detto che non abbia poi la possibilità di formarsene un concetto, seguendo tutto quello che abbiamo detto.

Intervento: Scusami, è necessario il nome per creare il concetto? Se tu non fossi stato lì, insieme a quei fanciulli, e loro avessero avuto il tempo comunque di scoprire piano piano come funzionava quel «coso», il concetto potevano crearlo o meno? L’avrebbero chiamato in un altro modo.

Archiati: Il problema è che tu sai che cosa fa parte dell’ascensore e che cosa non fa parte, ma questo sceverare è un processo molto complesso. Per esempio, tu hai un tipo di ascensore con due porte. Fa parte del concetto aver due porte? Non è essenziale, quindi tutto ciò che non è essenziale non fa parte del concetto. Un ascensore con una porta resta un ascensore, non finisce di essere ascensore perché è essenziale all’ascensore di avere due porte. Tu come glielo spieghi? È complessa la cosa.

Intervento: Il concetto è allora una convenzione per poter parlare con un’altra persona.

Archiati: Ma tutti i concetti sono convenzioni. Prendi il concetto di sedia: qual è il minimo di gambe?

Intervento: Una.

Archiati: Con una gamba è uno sgabello e non è più una sedia. Il fatto che noi ci siamo accordati che quando c’è una gamba sola terminiamo di chiamarla sedia e lo chiamiamo sgabello è un fatto di convenzione, se vuoi.

Però un pensare è più ricco, cesella di più, è più preciso se, invece di andare a spanne e avere un solo concetto per oggetti con quattro, tre, due o una gamba, crea dei concetti diversi.

Quindi, col progredire del pensare si complessifica il linguaggio.

Il linguaggio scientifico in che si caratterizza? Nel fatto che crea più termini tecnici, perché distingue, sottodistingue, sottodistingue. Per esempio, nelle cose fisiche materiali, la lingua inglese è molto più ricca che non quella italiana, quella tedesca ecc.. Perché? Perché creano per ogni cosa diversa un concetto nuovo, una parola nuova.

I tedeschi lo fanno per lo spirituale: nel mondo spirituale salta fuori una cosa un pochino diversa, ed ecco subito un’altra parola!

Un esempio, l’ho raccontato diverse volte, è la sudata che mi son fatto una volta a Roma: dovevo fare una conferenza sull’evoluzione della coscienza, e avevo nella mente il filo della conferenza in tedesco. Comincio a parlare in italiano e dico: ah che bello che ci ritroviamo dopo tanto tempo, e come sono contento, … alla fine della conferenza mi hanno chiesto: ma perché stavolta ci hai messo sei sette minuti per venire al sodo quando invece, da tedesco, cominci subito? Ho risposto: ho sudato, e non metafisicamente, perché in tedesco «coscienza» ha due parole, due concetti del tutto diversi: Bewüssein è la coscienza intellettuale, e la coscienza morale è Gewissen.

E mi dicevo: ma devo parlare in una lingua che non distingue?! Un annientamento interiore! Mi dicevo: devo aggiungere, quasi ogni volta, alla parola coscienza l’aggettivo morale, perché la conferenza era sull’evoluzione della coscienza morale e non della coscienza intellettuale.

In questo caso, dove un’altra lingua ha un concetto solo, il tedesco ha due concetti diversi: abbiamo a che fare con una lingua che è più scientifica.

Per quanto riguarda i fenomeni dell’anima è più scientifico l’italiano che non il tedesco, perché l’italiano ha molti più vocaboli, molti più concetti, molte più parole per i fenomeni dell’anima che non il tedesco. Ogni linguaggio si specializza, in un certo senso.

Un linguaggio non può essere specializzato a tutti i livelli. Il linguaggio inglese è specializzato, quindi diventa scientifico, nel mondo fisico, l’italiano è specializzato, diventa più scientifico nel mondo animico, e il tedesco è specializzato, diventa più scientifico, nel mondo spirituale, nei processi spirituali.

Buona notte a tutti!

Domenica 17 febbraio 2008, mattina

Una buona domenica a tutti quanti!

Mi congratulo con voi che ce l’avete fatta ad arrivare fino a questa mattina, bene o male... Non è che finiremo il quarto capitolo, però vogliamo fare ulteriori passi in avanti.

Ci troviamo al paragrafo 5, lo vorrei rileggere insieme perché è molto importante.

(IV,5) «Ma ora è il momento di passare dal pensare all’essere pensante, perché attraverso l’essere pensante il pensare viene collegato con l’osservazione».

Perché, dice Steiner, è l’essere pensante che collega il pensare con l’osservazione, o meglio il pensare con l’osservare. Quindi l’essere pensante siamo noi, è l’essere umano, e questo essere umano si caratterizza, in campo conoscitivo, intellettivo (la seconda metà de La filosofia della libertà parlerà del campo morale), per il fatto che in lui si incontrano osservare e pensare.

È lui a pensare? È lui a osservare? Sì e no! In lui si incontrano queste due attività, però sia l’attività del pensare, sia l’attività dell’osservare sono cosmiche, sono attività mondiali, sono eventi sovrapersonali, sovrasoggettivi. Si incontrano nel soggetto umano.

La traduzione italiana usa un po’ più avanti la parola «palcoscenico»: sul palcoscenico della coscienza umana da una parte arriva il pensare, poi dall’altra parte arriva l’osservare e si incontrano, ciao come stai? Qua ci troviamo insieme sul palcoscenico della coscienza umana.

Quindi l’uomo prende coscienza di sé grazie all’incontro fra pensare e osservare che avviene sul suo palcoscenico, su quel palcoscenico che è lui.

Perciò dicevo che è bene, ci aiuta meglio, lasciare dapprima un po’ da parte la parola «osservazione» come sostantivo e parlare di «osservare» come attività.

Constatiamo in noi sia l’attività dell’osservare, da un lato, sia l’attività del pensare, dall’altro. Come facciamo a constatarle? Osservandole. E poi pensandoci sopra. Eh, anche quelle le dobbiamo osservare e poi accorgerci che ci sono.

L’osservare è quindi prima dell’accorgersi, perché accorgersi è il pensare, portare a coscienza è il pensare.

Allora, chi sono io? Il punto di incontro, qualche volta di scontro, tra osservare e pensare.

Adesso leggiamo questo paragrafo fino alla fine, e poi vorrei farvi una riflessione un po’ domenicale. Domenica viene da Dominus, e io vorrei fare una riflessione sull’io in quanto dominus, in quanto pastore dei sensi. I dodici sensi sono le sue pecorelle e lui le porta a pascere.

L’osservare è il pascolare, sono i pascoli; le osservazioni, poi, sono le erbe. E lì salterà fuori il significato della parola «osservare» che viene dal latino observio – ma guarda un po’, c’è il servire adesso, all’improvviso! Nell’osservare c’è il servire: ob-servio. Questo paragrafo è molto bello!

Ovviamente le riflessioni che si possono fare, in base a ciò che si osserva e si percepisce in questo paragrafo, sono infinite – a seconda dei pascolamenti che uno ci vuol fare!

(IV,5) «La coscienza umana è il palcoscenico dove concetto e osservazione {meglio «pensare e osservare»} si incontrano e vengono collegati fra loro». Il pensare e l’osservare, venendo collegati tra loro, sortiscono sia la percezione sia il concetto, perché sia la percezione sia il concetto possono venir vissuti soltanto col collegarsi, con l’unirsi dell’osservare e del pensare.

(IV,5) «Una tale coscienza (umana) viene però con questo già caratterizzata. Essa è l’intermediario fra pensiero e osservazione». Quindi non avviene solo che sul palcoscenico della coscienza umana l’osservare e il pensare si incontrano; no, allo stesso tempo, la coscienza umana è l’intermediario, comincia già a essere più attiva. Fa da intermediario per l’incontro di osservare e pensare.

(IV,5) «In quanto l’uomo osserva un oggetto, questo gli appare come dato {osservo un albero e l’albero è lì, è già dato, è già costituito, è già formato, è prefabbricato: io non faccio l’albero, lo osservo, e poter osservare l’albero presuppone che l’albero ci sia già}: in quanto pensa egli appare a se stesso come attivo».

Quindi, in quanto osservo l’albero io sono passivo perché l’albero c’è già senza di me. Invece, quando dico, col processo del pensare: quello è un albero, faccio l’osservazione introspettiva di essere io attivo nel dire: quello è l’albero. Non è che qualcosa pensa attraverso di me: io penso! E come essere attivamente pensante, che gestisce il pensare, dico: quello è un albero. Sono io, sono attivo.

Una prima differenza tra il rapporto che c’è fra osservare e l’oggetto dell’osservare – che è la percezione –, e il rapporto che c’è fra il pensare e l’oggetto, il risultato del pensare – che è il concetto – è che di fronte alla percezione mi sento passivo e nel pensare mi sento attivo. Una differenza molto importante perché fondamentale.

Non potrei mai fare l’esperienza di essere attivo se non ci fosse l’esperienza opposta, così come non potrei mai parlare di bianco se non ci fosse il nero, non potrei parlare del maschile se non ci fosse il femminile. Gli opposti si richiamano a vicenda. Se non ci fosse il male non potrei parlare di bene, il concetto di bene si può creare soltanto perché c’è il concetto opposto. Se non ci fossero il caldo e il freddo potrei parlare io di caldo e di freddo? No, posso avere il concetto di caldo soltanto se c’è anche il freddo. E così via.

Non si può fare l’esperienza di essere attivi senza poter fare anche l’esperienza di essere passivi – se no come faccio io a distinguere ciò che è attivo e ciò che è passivo?

Gli opposti si chiamano sempre a vicenda, e nell’interazione fra osservare, percepire (e quindi il percepito, la percezione) e pensare (quindi fabbricare concetti), mi accorgo di questa polarità fondamentale dell’essere maggiormente passivi nell’osservare, nella percezione – perché c’è già ciò che io vedo, l’ha fatto qualcun altro: cos’è? – e dell’essere maggiormente attivi nel pensare, dove io so che il processo del pensare lo gestisco io, in tutto e per tutto, perché in me non saltano fuori altri pensieri se non quelli che ci metto io.

Quando troviamo nel linguaggio italiano (in tedesco non c’è in questa forma) la formulazione «questo mi fa pensare che», è una formulazione di eccezione, che conferma la regola.

Chi mi fa pensare? «Questo mi fa pensare che…» è una specie di espressione di disagio, di eccezione, che noi usiamo quando non siamo sicuri di quello che stiamo pensando. Invece, quando andiamo a colpo sicuro diciamo: io penso, io la vedo così.

Tant’è vero che noi volentieri diciamo: «questo mi farebbe pensare che…», e la polarità assoluta tra pensare e percepire viene un po’ meno, no?, è un pensare che torna indietro, non è sicuro di sé e non sa se è percezione o se è pensare. Altrimenti l’essere umano dice: io penso. Quello è un albero.

(IV,5) «Considera la cosa come oggetto, e se stesso come soggetto pensante». Di fronte a tutti gli oggetti della percezione, io sono un soggetto che pensa.

Allora, obiectum (oggetto) significa: postomi davanti, da obicere, gettare davanti.

Ob-servio, ob-icio: quindi il presupposto per poter ob-servare qualcosa è obiettivarla: deve essere gettata fuori da me perché io la possa osservare. Questo ob-servio, questo ob-icio sono la presa di distanza: la cosa è fuori da me.

Invece nel pensare mi sento come un sub-iectum, come un sostrato, sottoposto alla sua attività. È l’attività che mi fonda e su di essa io sussisto ed esisto: sub-iectum, ob-iectum.

Obiectum è gettato fuori e lo vedo dal di fuori, a distanza, e sub-iectum è la mia sussistenza stessa, è ciò che mi fa sussistere in quanto essere pensante.

Il pensare non è soggettivo: il soggetto umano pensa, il soggetto umano è il palcoscenico del pensare, dove il pensare prende coscienza di sé, ma questo non fa del pensare un’attività soggettiva: prende coscienza di sé nel soggetto.

(IV,5) «In quanto dirige il suo pensare sull’osservazione, ha coscienza degli oggetti; in quanto dirige il pensare su se stesso, ha coscienza di sé {in quanto essere pensante} o autocoscienza». L’autocoscienza umana dice: io sono colui che pensa. Però sono colui che pensa di fronte all’osservazione, di fronte alla percezione, di fronte a ciò che viene osservato.

Non penso mai in assoluto, penso sempre «di fronte»: penso di fronte all’albero e dico: questo è un albero; penso di fronte a una macchina e dico: questa è una macchina. Posto di fronte agli oggetti genero in me l’attività del pensare.

(IV,5) «La coscienza umana deve necessariamente essere sempre anche autocoscienza, perché è coscienza pensante».

Si può dire «io penso» senza sapere di pensare, senza averne coscienza?

Si può pensare senza averne coscienza, ma non si può dire «io penso» senza averne coscienza. Dire «io penso» significa prendere coscienza del fatto che si pensa, altrimenti non si può dirlo.

Dire «io penso» è prendere coscienza del fatto che io sono pensante.

Il bambino piccolo pensa senza saperlo. Quindi nel bambino piccolo non manca il pensare, manca la coscienza del pensare, e la coscienza del pensare dipende dal cervello. Siccome il bambino piccolo sta ancora lavorando al cervello – il sistema neurosensoriale non è ancora stato portato al livello perfetto per poter rispecchiare il pensare –, il pensare c’è, perché l’Io superiore, l’Io spirituale c’è anche nel bambino, ma non c’è ancora il sostrato speculare che è il cervello, tutto il sistema neurosensoriale, per portare a coscienza il suo pensare.

Questo avverrà quando comincerà a dire: io penso, io so che quello è un albero, in chiave pensante so che quello è un albero. Questo non è il comparire del pensare, è il comparire della coscienza del pensare: ciò avviene parallelamente al fatto che il bambino comincia a capire, comincia a usare la parola io.

Prima diceva: Carletto vuole mangiare ecc.., usava il suo nome, il nome che dicono gli altri. Poi, verso il terzo anno di età, salta fuori «io».

Intervento: Anche a due anni.

Archiati: Anche a due anni, sì, adesso è tutto prematuro. E non è mica per forza una bella cosa, che questi passi vengano sempre più precipitati.

(IV,5) «Infatti se il pensare rivolge lo sguardo sulla sua propria attività ha, come oggetto, la sua originaria essenza, dunque il suo soggetto», che è il soggetto pensante.

Volevo fare una riflessione sull’osservare. Naturalmente queste riflessioni sono filologiche, non tanto etimologiche, e la filologia è un po’ una spada a doppio taglio: la si può fare in modo intelligente, la si può fare in modo pedissequo, che poi non porta a nulla.

Beobachten, «osservare», in tedesco, ha due preposizioni: be, che è sempre un rapporto con una realtà che mi sta davanti, e ob. Poi c’è achten, fa’ attenzione. Osservazione è Be-ob-achtung.

Il tedesco ha tre componenti per l’osservazione, quindi è una cosa molto complessa. È chiaro che se noi volessimo studiare e descrivere ciò che avviene durante un minuto di osservazione, tenendo presente ciò che avviene nel corpo fisico, ciò che avviene nel corpo eterico, ciò che avviene nel corpo astrale (faccio una piccola scorribanda in chiave di scienza dello spirito) e ciò che avviene nello spirito, nell’io, non basterebbero tre volumi. Perché sono avvenute cose all’infinito.

Dovremmo descrivere, primo capitolo, quel che è avvenuto in tutti i dodici i sensi in un minuto, e per ogni senso ci vorrebbero almeno trenta, quaranta pagine per descrivere minutamente, scientificamente, tutto quello che è successo.

Poi andrebbe descritto tutto quello che è successo nel corpo eterico, in quel minuto di osservazione, nell’etericità di tutti i dodici sensi.

Poi andrebbe descritto ciò che è successo nell’anima, nel vissuto del corpo astrale – corpo astrale e anima è la stessa cosa, si tratta anche di mettersi d’accordo sulla terminologia.

E poi dovremmo descrivere il più minutamente possibile ciò che è avvenuto nell’io, nello spirito vero e proprio.

Quattro volumi di quattrocento pagine ognuno non basterebbero, è ovvio. E allora si capisce perché una lingua come quella tedesca è un pochino più complessa che non la lingua italiana. Lo si capisce, perché ti dice: sta’ attento che l’osservare è una cosa molto complessa. Il be ti dà un elemento, ob, come in ob-servio, ti dà un altro elemento: significa starci sopra dall’alto. Quindi ci deve essere qualcuno che ha uno sguardo d’insieme.

Come si dice in italiano? Sopravvedere. Una bella parola. È il supervisore. Super è sopra: ci sono queste parole, il linguaggio è molto saggio. Che significa supervisore? Perché deve star sopra per vedere? È un’istanza che ha uno sguardo d’insieme, ma tu lo sguardo d’insieme su una città, per esempio, non lo puoi avere se resti nelle strade, devi andare in alto, su una mongolfiera o un elicottero, e allora hai uno sguardo d’insieme. Lo sguardo d’insieme deve dominare tutti i particolari, deve averli tutti insieme, e quindi deve tirarsi fuori dal particolare, deve stare al di sopra.

Tutte queste affermazioni, che noi stiamo facendo sulla falsariga del linguaggio, sono affermazioni che hanno risvolti fisiologici, risvolti anche nel vitale, e questo è il tipo di scienza, molto più complessa, che attende l’umanità (che non sta facendo neanche i primi passi) dove la scienza naturale – quindi l’apporto di tutto ciò che rileviamo, che osserviamo a livello sperimentale con gli strumenti che abbiamo, con i sensi normali – si unisce alla scienza dello spirito, alla conoscenza scientifica dello spirituale, dell’invisibile, quindi dell’eterico, dell’astrale e dello spirituale, per costruire una scienza olistica, organica, completa.

Siamo ancora a mille miglia di distanza da una scienza completa e, vi dicevo, una conoscenza scientifica completa di ciò che avviene in un minuto di percezione, di osservazione, richiederebbe volumi interi.

Il greco questo supervisore, questo osservatore (ob-servio) che ha uno guardo d’insieme perché vede dall’alto e quindi vede i nessi e i connessi delle cose, lo chiama ™p…skopoj (epìscopos), il vescovo: ™p… (epì) significa «sopra» e skopoj (scopòs) viene dal verbo skopšw che significa «guardo, osservo».

Tradotto in italiano, vescovo (Bischof, in tedesco) è il supervisore. E l’osservatore di tutti gli osservatori, il supervisore di tutti i supervisori è il Logos, perché ha la facoltà pensante che ha lo sguardo d’insieme.

Quando io dico albero, e quello è un albero, cos’è? È lo sguardo d’insieme. Nella percezione non ho l’insieme, non ho una unità, nella percezione ho mille, diecimila particolari.

Lo sguardo d’insieme del pensare dice: albero. Quindi il Logos, la forza del Logos, il pensiero cosmico, è lo sguardo episcopale d’insieme.

E cosa fa questo ™p…skopoj (epìscopos)? L’immagine evangelica è quella del pastore che pasce le pecorelle. Il pastore ha uno sguardo d’insieme, perché sa quali sono i pascoli dove c’è qualcosa da brucare per le pecorelle, e dove invece c’è il burrone. Quindi lui è il supervisore.

L’io è il supervisore e pasce le pecorelle, che sono i dodici sensi: adesso ti faccio vedere questo, adesso ti faccio vedere quest’altro, adesso ti faccio brucare là, adesso ti faccio udire questo, adesso ti faccio annusare quest’altro… E perché?

Perché lui è il supervisore. Sa di che cosa ha bisogno, che cosa vuole come provocazione a pensare. Perché lui è il pensatore.

Quindi l’immagine originaria è corpo fisico e io che si corrispondono: il corpo fisico è un dodici di pecorelle passive – i dodici sensi –, e l’io è l’™p…skopoj (epìscopos) che si serve dei sensi per osservare.

Perciò dicevamo ieri che vedere è diverso da osservare. Il vedere è casuale, l’osservare è un vedere a ragion veduta.

Nell’osservare c’è qualcuno che vuole il vedere, ob-servio, l’io che dall’alto pasce è il servitore degli organi dei sensi, e gli dà da mangiare le percezioni.

Sono immagini veramente belle perché sono scientifiche (le ho soltanto accennate: svolgerle in tutte le direzioni ci porterebbe all’infinito), ed è bello pensare che sono cammini evolutivi che ci aspettano, sono aperti all’essere umano.

Adesso io parlavo soltanto dell’io e dei dodici sensi, l’io come spirito pensante e i dodici sensi che gli portano incontro le pasture attraverso le percezioni, questa polarità fondamentale dell’io e del corpo fisico, ma se ci aggiungiamo qui in mezzo il corpo eterico e il corpo astrale diventa un’orchestra, una sinfonia molto interessante.

Cose che facciamo continuamente: si tratta ora, nell’umanità, di portare sempre più a coscienza ciò che avviene in noi quando osserviamo.

Quando noi osserviamo un albero, l’udito fa qualcosa? Oggi, posti senza rumore non ci sono più, ma immaginate una foresta – la Foresta Nera, per esempio, dove io scappo via ogni tanto da questo mondo matto dove vivo – dove non c’è nessun rumore.

Intervento: Si sente il vento.

Archiati: No, senza vento.

Intervento: Si sente il silenzio.

Archiati: Si sente, il silenzio? E certo che si sente! Quindi non è mai possibile disattivare qualsiasi senso, son sempre attivi, tant’è vero che l’orecchio, poi, è proprio quello che sta aperto anche quando dormiamo. Per lo meno gli occhi cerchiamo di chiuderli per ridurre la visività dal 100% almeno fino al 20%, ma mica immaginiamo che l’occhio non sia attivo mentre dormiamo, è solo molto meno attivo che di giorno.

Quando una persona vede un albero, tutti i dodici sensi sono attivi, non c’è verso, non si scappa, e l’io è il pastore che pascola queste pecorelle, i dodici sensi. È il servitore: ob-servio. Dall’alto l’Io ha la consapevolezza del karma: adesso mi tocca – mi tocca – di vedere questo, di sentire questo, di annusare questo, perché nell’interazione con questo tipo di percezioni che appartengono a me, che fanno parte del mio karma, io, prendendo posizione, vado avanti nel pensare, vado avanti nell’amare, vado avanti nell’agire. Mi evolvo ulteriormente.

Quando l’essere umano vede qualcosa, può anche non essere attento, ma quando ob-serva, quando osserva qualcosa, lì c’è l’Io che dirige gli occhi: l’osservare è un vedere intenzionale, è un vedere diretto dall’io.

Siccome «vedere» e «osservare» costituiscono una polarità, c’è un verbo in italiano che fa un po’ da tramite: guardare. Guarda!, e quando quello guarda ma non vede ciò che vorremmo vedesse, cosa diciamo noi? Osserva meglio! Dire «guarda meglio» è meno giusto, perché già sta guardando, e non puoi dire guarda meglio: o guardi o non guardi. Osserva meglio! Ob- servio. Fai più attenzione in quanto Io, in quanto pastore, a ciò che sta mangiando questa pecorella che è l’occhio. Osserva meglio.

E lo spirito umano diventa sempre più cosciente di sé come il luogo di interazione tra osservare e pensare – diversamente dagli spiriti angelici, o dallo spirito divino, o dallo spirito dell’animale (che poi non è uno spirito, ha un’anima soltanto).

La caratteristica fondamentale, lo specifico dello spirito umano, è proprio questo incontro vivace, continuo, complessissimo, tra osservare e portare a coscienza ciò che si osserva, tramite il pensare. Osservare e pensare, osservare e pensare.

L’osservare mi dà un frammento di percezione e il pensare mi dà un concetto. Quindi l’™p…skopoj (epìscopos), riferito a esseri umani, presuppone uno stadio in cui questi esseri umani sono ancora bambini: duemila anni fa c’era bisogno di essere guidati dal vescovo.

Una riflessione, adesso, maggiormente psicologica – vi dicevo che i dodici sensi sono una questione fisiologica, il corpo eterico è una questione del vitale, tutte le riflessioni psicologiche riguardano l’anima, e tutte le riflessioni di scienza spirituale riguardano direttamente lo spirito –: il bambino piccolo ha bisogno dell’™p…-skopoj (epìscopos), di qualcuno che sopravveda. L’Angelo custode è il vescovo del bambino, osserva. Ob-servio.

L’Angelo custode osserva e quindi è il servitore del bambino perché osserva continuamente i pericoli che lo circondano in modo da custodirlo. Colui che osserva, che ha lo sguardo d’insieme, ha anche la funzione di custodire, di preservare dai pericoli.

Nella misura in cui l’umanità, e non soltanto il singolo bambino, è in evoluzione e percorre stadi diversi – per cui ci vien fatto di dire che l’umanità in toto, cinquemila anni fa, aveva una coscienza più simile a quella del bambino di oggi, e ciò non significa migliore o peggiore –, e se è vero che l’umanità moderna nel suo insieme ha un tipo di coscienza più matura, che non deve essere per forza migliore, allora anche la funzione sociale, religiosa, psicologica del vescovo, quindi del capo della comunità, cambia profondamente.

Duemila anni fa la stragrande maggioranza delle persone sapeva di aver bisogno del vescovo; oggi le persone che dicono: che me ne faccio?, non ne ho bisogno, sono naturalmente molte di più.

La persona normale oggi dice: perché devo rivolgermi alla Conferenza Episcopale Italiana per sapere certe cose? Lì ci sono esseri umani che hanno una testa sulle spalle, come me, e non due teste: perché allora devono saper pensare, per grazia di Stato, meglio di me?

Casomai, se ho io idee e pensieri migliori dei loro, siano loro a prendere i miei. Perché devo essere sempre io a prendere i loro?

Questo tipo di ragionamento che oggi è spontaneo e scontato per tante persone, sarebbe stato impensabile duemila anni fa. Quindi il fattore fondamentale di cui tener sempre conto è proprio l’evoluzione: tutto è in evoluzione.

Un’affermazione che è giusta per un periodo di tempo, è sbagliata se riferita a un altro periodo di tempo.

Il vero vescovo è l’io pensante. Il corpo fisico è dodici volte percipiente e l’io è unitariamente pensante. L’io pensa sempre in unità: tira fuori concetti, e i concetti sono unità. Invece dal lato del corpo fisico abbiamo proprio la frammentazione, la disgregazione, la smontatura del mondo, e questa smontatura ci viene evidenziata dal fatto che i sensi sono dodici: quello che mi dice l’occhio è tutt’altra cosa di quello che mi dice l’orecchio, e tutt’altra cosa di quello che mi dice il naso o il senso dell’equilibrio ecc.. ecc…ecc…

Il corpo fisico, attraverso le dodici porte dei sensi, mi dà l’esperienza dell’atomismo infinito, della dispersione infinita del mondo in quanto atomizzato; e l’io, in quanto essere spirituale pensante, mi dà una visione del mondo in quanto riportato all’unità. E meglio di così non si può, è una gran bella cosa!

Poi, tra questi due poli dell’unità (io) e della pluralità, della diversificazione all’infinito (corpo fisico), ci sono il corpo eterico (il vitale), il corpo astrale (l’animico) che ci giocano – sono le quattro corde del violino dell’anima umana.

Ai tempi dei greci, quando l’io era ancora incipiente, la lira di Apollo aveva tre corde; noi, adesso, siamo andati un po’ più avanti e ne abbiamo quattro. Pensare, sentire e volere: con l’io, abbiamo la possibilità di vederle sempre di più in unità. Perciò la lira di Apollo aveva tre corde mentre i nostri violini, invece, ne hanno quattro. Mica son cose aleatorie, son cose fondate. Altrimenti mi spiegate voi come mai i nostri violini – tutti, non soltanto quelli di Stradivari – hanno quattro corde e non se ne parla che siano tre o cinque?

Pensate che sia casuale? No, nulla è casuale.

Un violino a cinque corde riuscite a immaginarvelo? Sarebbe una rivoluzione? No. Bisognerebbe avere tutto un altro tipo di coscienza umana, tutto un altro tipo di società, di economia.

Un violino a tre corde? Chi ne sa un pochino di musica dice: no, no, no, è una cosa assolutamente impossibile. Perché sono quattro: corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale e io.

Io butto lì alcuni pensieri, eh?, non aspettatevi da me che ne faccia una sistematica di questo testo, perché, vi dicevo, accenna a cose che sono così complesse e siamo agli inizi, nell’umanità. Dovete perdonare il povero commentatore che non può fare altro, a questi nostri livelli di evoluzione poverelli, che riflessioni estemporanee. Da lì dobbiamo cominciare, però dobbiamo renderci conto che sono incipienti ed estemporanee.

IV,6. Non si deve però trascurare che soltanto con l’aiuto del pensare noi possiamo designarci come soggetto e contrapporci agli oggetti.

Quindi il soggetto è un concetto che crea il pensare. Il pensare dice: tu sei il soggetto pensante. Se il pensare mi definisce come soggetto pensante, significa che questo soggetto è arbitrario, è soggettivo, nel senso che non è oggettivo? No! perché il pensare dice le cose sempre oggettivamente: tu sei oggettivamente soggettivo, tu sei oggettivamente un soggetto, sei oggettivamente il soggetto pensante.

Quindi essere il soggetto pensante non ha nulla di soggettivo, mentre noi con «soggettivo» intendiamo anche il «non oggettivo», quello è il problema!

E perché noi con «soggettivo» intendiamo anche, nel linguaggio, il «non oggettivo»?

Soggettivo non deve per forza essere opposto a oggettivo: il soggetto è un frammento di oggettività del mondo. Perché è così com’è, il soggetto.

Noi accostiamo il soggettivo al non oggettivo perché il pensare umano è decaduto sempre di più, e quindi un pensare – che nel soggetto umano avrebbe la possibilità di restare del tutto oggettivo – è diventato sempre più soggettivo. Ma non dovrebbe essere così, non deve, non è necessario che sia così.

L’evoluzione del pensiero è un soggetto pensante che diventa sempre più oggettivo. Però non si può ridiventare oggettivi se non si è almeno minimamente soggettivi.

Adesso pensate, noi capiamo questo paradosso: il soggetto è oggettivamente così com’è. Quindi il soggetto non ha nulla a che fare col soggettivo. Però, quando usiamo l’aggettivo «soggettivo», sappiamo subito che è una cosa che non va bene!

Sono risvolti psicologici. Il linguaggio – e intendo la lingua materna, eh?, perché è difficile spiegare a una persona di un’altra lingua cosa vuol dire «soggettivo», visto che «soggettivo», oggettivamente parlando, è qualcosa che riguarda il soggetto, e allora perché dovrebbe essere soggettivo, nel senso di non oggettivo? –, il linguaggio costituisce uno dei pascoli principali dove l’io fa pascolare i sensi.

All’udito fa sentire tutte le parole del linguaggio, e mentre l’udito sente la parola «soggettivo», o la frase «no, è una cosa soggettiva», che pascolata avviene, di cosa si pasce l’io? Porta a coscienza il paradosso del soggetto pensante che, se decade, diventa soggettivo e non si attiene a ciò che è oggettivo. Però potrebbe farlo, ed è la redenzione del pensare: il soggetto diventa sempre più oggettivo nel suo pensare.

Intervento: Da individualista a universale.

Archiati: Da individualista a universalista, da individuale a universale. Però presupponi che individuale e universale siano un opposto. Lo sono? Bisognerebbe fare una riflessione in quel senso.

(IV,6) Perciò il pensare non deve mai venir considerato come un’attività puramente soggettiva.

Perché ci aggiunge «puramente»? Perché soggettivo non deve essere per forza non oggettivo. Soggettivo, come dicevamo, è qualcosa che riguarda il soggetto. Quindi il linguaggio psicologicamente aiuta, dice: guarda che adesso la parola soggettivo viene presa in questa accezione – e allora ci mette «puramente».

Facciamo riflessioni specifiche per il linguaggio italiano, eh?

Se noi, come faccio in Germania, avessimo la partitura del testo originale tedesco, le riflessioni che ho fatto stamattina, pur balbettando, non le potrei fare, perché tutte le parole, anche la parola subjektiv, in tedesco ha tutt’altre sfumature, tutt’altre. E bisogna tenerne conto, se no si va a naso, si va a spanne. È importantissimo questo.

(IV,6) Il pensare è al di là di soggetto e oggetto.

Supponete che io adesso sia stato via dall’Italia per un bel po’ di tempo – e purtroppo è così, mi dispiace, ma il karma non bara – e adesso non mi ricordo più se c’è una differenza tra «al di là» e «oltre». Va bene dire che il pensare è al di là di soggetto e oggetto, oppure sarebbe meglio dire che il pensare è oltre soggetto e oggetto?

Cosa mi dite voi? Io ho perso un po’ il polso della lingua italiana, e chiedo ai toscani, per esempio: c’è una differenza? Al di là o oltre: come tradurreste voi? Il toscano il guanto della sfida lo acchiappa subito, eh!

Intervento: Da noi si dice «vieni oltre», per esempio, oppure «vai oltre», non si dice «vai al di là». «Vai oltre» significa allontanati, vai via da qua. Quindi «al di là» è qualcosa di più forte.

Archiati: «Al di là» è maggiormente spaziale, quindi materiale, fisico. «Oltre» non è così spaziale è maggiormente temporale.

Intervento: Nell’«oltre» c’è una continuità, nell’«al di là» passiamo in un altro campo.

Archiati: Sì: o siamo di qua o siamo di là. Invece «oltre» ha una maggiore gradualità. Quindi al di là è troppo fisico, è troppo materiale, è più definito.

Invece si dice, per esempio: ci siamo inoltrati molto nella foresta. Inoltrarsi: in perché stiamo andando dentro, e oltrarsi perché andiamo sempre oltre. Ci siamo inoltrati di parecchio: vuol dire che siamo andati di là? No, non siamo mai andati di là. «Siamo andati di là» significa che la foresta è rimasta dietro. Inoltrarsi, invece, è sempre più dentro.

Quindi «oltre» contiene in sé il processo continuo, di continuità, di inoltrarsi sempre di più. Invece al di là è una spaccatura: o sei di qua o sei di là.

Perciò tradurre «al di là» significa usare il linguaggio dalla parte dell’atomizzazione. Tradurre «oltre» significa prendere il linguaggio dalla parte del continuum, perché quando io mi inoltro non è che son di qua o di là in relazione a frammenti separati l’uno dall’altro. No, è un continuum, ci inoltriamo sempre più.

Intervento: Si dice «oltre oltre».

Archiati: Oltretutto.

Replica: Oltrettutto e oltre oltre.

Archiati: «Oltre oltre» lo dicono solo i toscani! Io sono del parere che tutti gli altri italiani, compreso me, nati in Piemonte, in Lombardia ecc…, l’italiano ce l’hanno nella testa e se sono fortunati ce l’hanno nel cuore. I toscani, invece, ce l’hanno nel sangue, che è tutta un’altra cosa.

Ma adesso io vorrei sapere cosa intendi dire per «oltre oltre». Perché non basta una volta?

Replica: Proprio per sottolineare questa progressiva continuità. E infatti si dice: «Oltre oltre, ecco, la vita ti fa vedere come stan le cose», andando avanti progressivamente, piano piano.

Archiati: Man mano che il tuo pensiero capisce sempre meglio, ci arrivi! Ed è un processo continuo, non frammentato, questo è importantissimo. Quindi un traduttore che avesse una preparazione filosofica, di pensiero, a un minimo di livello, non tradurrebbe «al di là», tradurrebbe «oltre».

Replica: Tant’è vero che poi ci sono i comparativi e il superlativo, come in latino: ulteriore e ultimo.

Archiati: E «più al di là»? È una baggianata! O è al di là o non è al di là.

Replica: È statico.

Archiati: È statico. Si dice «più in là», ma non «più al di là», quindi è chiaro che «al di là» è una botta che ti ferma, non c’è movimento, non c’è continuum: o sei di qua, o sei di là.

E questo bianco e nero – o sei con Bush o sei contro di Bush – è un pensare talmente fisicizzato che non ha più nulla di vivente.

In guerra c’è il fronte, o sei di qua o sei di là. E perché? Perché è tutto materiale, tutto fisico. Ma il capire non è mai tutto di qua o tutto di là, è in cammino, è in evoluzione.

È una piccola riflessione che vi ho fatto su questo al di là… Perciò in fondo è bello, per chi è ancora giovane – le lingue vanno imparate da giovani, perché poi le forze mnemoniche vanno scemando –, è bello imparare almeno una o due lingue perché nell’arte comparativa poi risaltano le specificità. La specificità dell’italiano risalta soltanto quando si conoscono altre lingue, se no non si sa che cosa ha di peculiare, di bello, di proprio, l’italiano.

(IV,6) «Il pensare è oltre tutto ciò che è soggettivo e oggettivo», non cinque metri in là, dieci metri di là.

(IV,6) Esso forma questi due concetti come forma tutti gli altri.

Forma il concetto di soggetto e il concetto di oggetto: il soggetto è colui che pensa e l’oggetto è ciò su cui il soggetto pensante pensa.

E tutta questa bella parlata chi la fa? Il pensare! Il pensare ti dice: tu sei il soggetto pensante – e io gli dico: sì, hai ragione, è vero –, e quello è l’oggetto su cui pensi – sì è vero!

Perché il soggetto pensante si chiama soggetto? Perché non «oggetto pensante»? Perché ob-iectum significa qualcosa che mi sta di fronte. Il pensare non può starmi di fronte, perché allora non è il pensare, è il pensato.

Intervento: Il pensato e il pensante.

Archiati: Sì, il pensante non può starmi di fronte, perché allora è il pensato. Quindi il pensato lo devo chiamare obiectum, ma il pensante può diventare oggetto del pensare solo in chiave di eccezione, e però allora si sdoppia. E devi sapere che si sdoppia, perché adesso il pensante, in quanto pensato, viene pensato dal pensante in quanto pensante! È ovvio.

Quindi il pensante resta il soggetto, non può mai diventare l’oggetto. Anche quando il pensante fa del pensante l’oggetto del suo pensare, in quanto pensante resta il soggetto che pensa. È ovvio, no? Non mi dite che vi siete persi per strada? Sono andato al di là dei vostri pensieri? O devo dirvi, come il toscano: oltre oltre! Muoviti, muoviti!

Intervento: Puoi ripetere?

Archiati: Se volete imparare a memoria le frasi che ho detto, pigliatevi il CD. Tanto, al giorno d’oggi, bisogna calcolare bene tutte le parole che si dicono perché viene tutto fissato… Per fortuna che a me non importa nulla!

(IV,6) Quando noi, come soggetto pensante, ci formiamo il concetto di un oggetto, non dobbiamo prendere il relativo processo come qualcosa di puramente soggettivo.

Il pensare che si esprime sul palcoscenico del soggetto non è mai soggettivo, si esprime nella coscienza del soggetto pensante, ma questa non è un’affermazione che dice che il pensare diventa soggettivo.

Si potrebbe chiedere, per esempio, ed è una domanda psicologicamente interessantissima: come mai l’aggettivo «soggettivo» è arrivato ad avere anche la qualifica possibile di «non oggettivo», «arbitrario»? Soggettivo significa, in sé per sé, «riguardante il soggetto»: che c’entra il fatto che non sia oggettivo?

È che l’evoluzione psicologica dell’umanità è tale per cui questi soggetti pensanti son diventati sempre meno oggettivi, per cui la parola, l’aggettivo «soggettivo», che all’inizio non c’entrava nulla con il non oggettivo, è diventato sempre più sinonimo di non oggettivo. E da lì si evince la caduta del pensare.

Intervento: Non oggettivo significa che non è vero.

Archiati: No, non oggettivo non significa non vero.

Replica: Se non è valido per tutti...

Archiati: Non vero significa errato, oppure falso. Non vogliamo risolvere tutti i problemi linguistici in una volta, eh? L’arte dei sinonimi, dei contrari, degli opposti ecc…, è una cosa importantissima nella logica aristotelica, si partiva proprio da queste cose.

(IV,6) Quello che compie il processo del pensare non è il soggetto ma il pensare. Non è che il soggetto pensi per il fatto di essere soggetto; bensì esso appare a se stesso come soggetto perché ha la facoltà di pensare.

Quindi io sono un soggetto perché penso, sono il soggetto pensante. Sono la realtà sottostante – sub-iectum – all’attività del pensare, faccio da supporto, sostengo l’attività del pensare che poggia su di me. Se io sono subiectum, l’attività del pensare poggia su di me, se no poggia sul nulla, è campata in aria.

L’attività del pensare termina di essere campata in aria perché poggia sul subiectum, quindi il soggetto è il sostrato, è il fondamento del pensare.

Il pensare è come il pian terreno o il primo piano, secondo piano, terzo piano, quarto piano e il soggetto son le fondamenta: sub-iectum = gettato sotto.

È colui che porta l’attività del pensare: la porta, la sostiene perché è il soggetto.

(IV,6) L’attività che l’uomo svolge come essere pensante non è dunque puramente soggettiva, ma non è né soggettiva né oggettiva: è al di là di questi due concetti. Io non posso mai dire che il mio soggetto individuale pensa: esso vive, piuttosto, grazie al pensare.

È il pensare che mi rende soggetto, è il pensare che fa di me un soggetto, non io che produco il pensare, in quanto sono già soggetto senza il pensare. Io non posso essere il soggetto se non grazie al pensare: quindi il fattore, il fenomeno originario è il pensare, non il soggetto.

Siccome il pensare compare sulla scena del soggetto, fa dell’uomo un soggetto pensante. Ma nessun essere umano sarebbe un soggetto, si percepirebbe come soggetto pensante, se non ci fosse il pensare.

E allora una domanda importante: la poniamo come domanda, e la risposta richiede decenni o vite intere di studio della scienza dello spirito. Torno indietro: (IV,6) «Quello che compie il processo non è il soggetto, ma il pensare»: quindi il pensare, adesso, all’improvviso, è un signorino che compie qualcosa! Cos’è allora il pensare? Ecco la domanda.

Il pensare rende l’essere umano un soggetto pensante: e chi è il pensare?

È personale o è impersonale, visto che fa qualcosa?

Ripeto la frase: «Quello che compie il processo non è il soggetto ma il pensare». Il pensare è quello che compie il processo: è uguale, in italiano, dire «quello» o «colui»?

«Quello» è neutro, ma qui a un neutro gli fa fare cose da «costui», da «colui»!

Cos’è il pensare? È il tessere del Logos nella coscienza umana, che dapprima resta sovraconscio all’essere umano. È un tessere di concetti, un tessere di significati, è una logica.

Il Logos fa sprigionare da sé una logica che sono i concetti delle cose, sono i pensieri posti alla base del mondo, tutti ben connessi perché tutto il mondo minerale deve essere pensato in vista del vegetale, tutto il mondo minerale e vegetale devono essere pensati in vista, quindi in armonia con l’animale, e poi minerale, vegetale e animale devono essere pensati (quindi è una pensata complessissima) in vista e in armonia con l’evoluzione dell’umano.

Quindi il pensare è l’attività pensante – con tutti i suoi contenuti che sono le idee, i concetti – del Logos, del Pensatore universale, che alla coscienza umana diventano coscienti per la porta della percezione.

Prima della percezione sono sovraconsci. Vedo un albero e dico: è un albero. Dicendo «è un albero» entro io, in quanto soggetto pensante, in un pensiero vivente, perché il concetto dell’albero è un pensiero vivente, non è l’albero fisico. Il concetto dell’albero è un pensiero vivente del Logos che ha concepito il concetto «albero».

Il pensare è un risvegliarsi dal sonno della percezione. Il sonno della percezione ci risveglia dentro i contenuti di pensiero, dentro le creazioni di pensiero del Logos universale che pensa, e pensa, e pensa sempre, e tesse, e crea un’armonia di pensieri, e offre questa armonia all’essere umano dal lato sognante, carente della percezione, per dare a lui la gioia, in quanto pensante, di riscoprire lui, i pensieri.

La percezione è il nascondino dei pensieri del Logos, per dare all’essere umano la gioia di riscoprirli.

I greci sono stati i primi grandi pensatori, ma proprio grandi, perché poi il pensare è diventato sempre più poverello, e la parola greca per dire «verità» (la verità dell’albero è il concetto dell’albero: l’apparenza di percezione, cioè l’albero fisico, è la non verità dell’albero perché è una parvenza effimera, passeggera, che oggi c’è, domani non c’è), la parola greca per indicare il pensiero eterno che sta alla base dell’albero in quanto percezione, è alhqeia (alètheia): scoprire, togliere il velo.

La percezione nasconde, vorrebbe ingannarmi, fa come se l’essenza dell’albero fosse quello che io percepisco, invece no, l’essenza dell’albero è il concetto, è la sua realtà spirituale, è il pensiero divino che è all’opera, che vige, vegeta nell’albero: se non ci fossero le forme nel pensiero divino del Logos che operano dentro ogni foglia, non ci sarebbe l’albero esterno.

La parola greca per verità è alhqeia (alèteia): a (alfa privativa) significa «senza», «via» (portar via) e lhqeia (lètheia) viene da lanq£nw (lanthàno) che significa «nascondo». Quindi la verità è un togliere il velo, senza velo, via il velo.

KalÚptw (kalýpto) significa «occulto», apokalÚptw (apokalýpto) significa «disocculto», «manifesto». L’Apocalisse è una rivelazione, è un disoccultare ciò che dapprima era occultato.

Però la parola ordinaria greca per verità, alhqeia (alètheia), è «togliere il velo».

La percezione mette un velo sull’essenza dell’albero, lo copre, me lo nasconde; la percezione nasconde il concetto, e l’essere umano riscopre, nel suo pensare, il concetto.

Scoprire presuppone un coprire, non si può scoprire qualcosa che è già scoperto. Si può scoprire soltanto qualcosa che è coperto.

Quindi il concetto greco di verità è scoprire, togliere la coperta. Il mondo della percezione è la coperta del pensare divino, e il bello del pensare umano è fare una scoperta dopo l’altra.

Intervento: La verità vi renderà liberi.

Archiati: «La verità vi farà liberi»[12]. Scoprirete l’essenza vera delle cose, conoscerete la verità, e lo scoprire la verità vi farà liberi. Cioè, l’essere umano è libero nel pensare. Perché? Perché nel pensare è lui il soggetto che agisce, ed essere il soggetto che agisce vuol dire essere liberi. Di fronte alla percezione io non sono libero, perché la percezione è fatta così com’è e mi si presenta già costituita così com’è.

Nel pensare sono libero perché nel mio pensare avviene soltanto ciò che ci metto io, quindi il pensare è l’elemento della libertà in assoluto.

Ognuno, nel suo pensare, esperisce unicamente ciò che ci mette o non ci mette lui stesso. Dal di fuori possono venire stimoli al pensare, i pensieri di un altro sono per me percezioni. Quindi cos’è la percezione, detta da un altro lato? Uno stimolo al pensare. Però il pensare sono faccende mie.

La percezione mi dà uno stimolo, e in che cosa consiste lo stimolo? Nel fatto che io vedo una coperta e mi insospettisco, perché là sotto c’è qualcosa. Lo stimolo è proprio la coperta: oh, fammi vedere cosa c’è là sotto! La percezione è una coperta e ti stimola a tirar via la coperta.

Il pensiero di un altro per me è una percezione, quindi una coperta. E in che consiste questa coperta? Nel fatto che quel pensiero l’ha pensato lui: quella è la coperta. Allora tiro via la coperta e dico: che stai dicendo? Ma allora comincio io a pensare!

Nell’elemento del pensare l’essere umano è assolutamente libero, e tutto il resto, ogni percezione, ogni pensiero altrui, è stimolo.

È possibile recepire il pensiero di un altro? No, è assurdo. Sarebbe come recepire l’albero che percepisco: è più grosso di me, come faccio a recepirlo? Re-cepire è una variazione di per-cepire. Adesso ripeto la domanda: io posso re-cepire il pensiero di un altro? No, lo posso solo percepire, e di fronte alla percezione vale unicamente la presa di posizione del pensare.

Quindi, finché io non capisco il pensiero dell’altro, del suo pensiero non ho nulla. Una percezione per me diventa qualcosa soltanto nella misura in cui la penso. Magari gli chiedo: che vuoi dire? spiegati meglio – e allora sto pensando io, e tutto ciò che io penso sul suo pensiero sono affari miei.

Ritenere che si possa trasporre il pensiero di uno dentro un altro, come è secondo il concetto tradizionale della fede, cioè credere qualcosa, è talmente paradossale, talmente assurdo che sarebbe come presupporre che l’albero, che sta là fuori, possa impiantarsi dentro di me, tale e quale.

Il credere tradizionale, la fede tradizionale, non è un avere qualcosa, ma è un desiderare di capire. Questo è il credere: è un desiderio di capire.

Certo che prima di capire è legittimo che il cuore desideri capire; però, nel credere non c’è più che il desiderare di capire, perché quando io una cosa la capisco non dico più «ci credo», dico «capisco».

Credere significa desiderare di capire. Una cosa bellissima, eh?, ma se io penso di avere qualcosa perché ci credo mi illudo, è un’illusione, una pura illusione.

Nel credere io non ho nulla, ho soltanto il desiderio di qualcosa. Quando io ho il desiderio di un bel regalo da parte di un amico, ce l’ho il regalo? Sì e no. Ce l’ho nel desiderio, però non ho il regalo vero e proprio.

Un modo disumano di soggiogare gli esseri umani è di farli fermare alla fede, al credere.

Adesso prendiamo il credere da un risvolto italiano, specifico del linguaggio italiano, quando uno dice all’altro: ti credo. Cosa vuol dire «ti credo»? Ti do fiducia. Significa: non ho la possibilità di una conoscenza oggettiva, e come surrogato non mi resta che fidarmi.

Però il fidarsi è un gioco d’azzardo, perché può funzionare e può non funzionare. Invece, quando ho la certezza e capisco, allora non ho bisogno di credere. So.

Ogni credere è un frammento di non autonomia dello spirito. Pensare, capire: questa è autonomia. La verità vi farà liberi.

La credenza, la fede, è una dipendenza da un altro spirito. È la fiducia. Va bene nella fase del bambino, perché non sa ancora pensare in proprio, ma, nella misura in cui si cresce e si va avanti nell’evoluzione, è importantissimo trasformare ogni elemento di fede in un elemento di conoscenza – ma ci mancherebbe altro!

E perciò dopo duemila anni di un cristianesimo di fede, di questa infanzia del cristianesimo, adesso viene una scienza dello spirito che propone all’essere umano elementi di conoscenza.

E allora la conoscenza è il compimento della fede, perché la fede è un desiderio di conoscenza. Che poi possiamo dire: ognuno saprà conoscere soltanto ciò che ha desiderato di conoscere – questo sì. Però il desiderio di conoscere c’è anche nell’osservazione. Noi dicevamo: osservare significa guardare con interesse, vedere con interesse: questo interesse è il desiderio di conoscere.

E perché l’uomo porta in sé il desiderio innato di conoscere?

Perché è strutturalmente il campo della conoscenza, come soggetto conoscente. L’uomo è per struttura sete di conoscenza, perché è bombardato a dodici livelli dalla percezione, e ogni percezione è una sete di conoscenza – cos’è? cos’è? cos’è? cos’è? Ogni percezione fa sorgere la domanda: cos’è?

Rileggo e porto a termine il paragrafo:

(IV,6) «L’attività che l’uomo svolge come essere pensante non è dunque puramente soggettiva, ma non è né oggettiva né soggettiva: è al di là di {è oltre} questi due concetti». Vedete qui come è paradossale questo «al di là»? Significherebbe che i due concetti sono qui e qui e l’altro è al di là. Quindi diventa ancora più paradossale la traduzione: cosifica, materializza addirittura i concetti. Perciò io tradurrei: «è oltre questi due concetti».

(IV,6) «Io non posso mai dire che il mio soggetto individuale pensa: esso vive piuttosto grazie al pensare».

(IV,6) Il pensare è con ciò {per questo fatto} un elemento che mi porta oltre {finalmente arriva l’oltre!} me stesso e mi collega con gli oggetti.

Perché qui non dice «al di là di me stesso»? Perché dovrei uscire fuori da me stesso, quindi sarei estatico. È fuori di sé, si dice. Al di là di sé significa un tipo fuori di sé. È una cosa bella? No, è fuori di sé!

Quindi il pensare è un elemento che mi porta oltre me stesso, in quanto essere percipiente, e mi collega con gli oggetti.

(IV,6) Però nello stesso tempo mi divide {mi separa} da essi, in quanto mi contrappone ad essi come soggetto.

Mi divide in tre fette? Ma io certe volte mi chiedo – nonostante sia andato via dall’Italia da decenni, e quindi ringrazio voi che mi date l’occasione di tornare, l’italiano l’ho amato tantissimo, l’ho studiato, a New York addirittura ho studiato tutto il dizionario parola per parola! –, mi chiedo: come si fa a tradurre «però nello stesso tempo mi divide da essi» invece che «mi separa da essi»?

Si divide una torta, ma si separano due persone. Due persone non si possono dividere, si separano. Che dice il toscano? Vado a ramengo o vado bene?

A me vengono i brividi! Una persona che traduce La filosofia della libertà deve avere un minimo di preparazione, santa pace! È una responsabilità non da poco. «Però nello stesso tempo mi divide da essi, in quanto mi contrappone ad essi come soggetto»: come può contrappormi se mi divide? Dividere significa fare a fette. Mi divide in due, potrei capirlo, ma mi divide da essi…

L’individuo è indivisibile per definizione: individuum significa non divisibile, è l’atomo dello spirito. –Atomoj (àtomos), ¥-tomoj significa non tagliabile, non divisibile. Perché se anche l’io fosse divisibile all’infinito, non avremmo mai una unità.

L’io è il mistero dell’unità, perché se anche questa unità fosse divisibile all’infinito come voleva Zenone, allora non esisterebbero unità.

Dicevamo che nel mondo fisico non esistono unità, nel mondo della percezione non ci sono unità: l’unità la faccio nel concetto, nel pensiero, nel pensare.

Facciamo venti minuti di pausa, e poi portiamo a termine il quarto capitolo (!).

*******

In questi ultimi tre quarti d’ora può darsi che non valga la pena che io continui a leggere, casomai possiamo, in chiave di conversazione, tirare un po’ le somme dei discorsi fatti.

Prima di dar la parola a voi, ho da dire alcune cose su questo catalogo dei libri: la prima è che non serve dire «ce l’ho già», perché di anno in anno ci sono novità (e quelle sono importanti) e quindi quello vecchio non serve più.

C’è poi la situazione libraria: sapete che ormai le grandi case editrici tipo Mondadori, Rizzoli ecc., dal momento che più si hanno soldi e più si ha potere , si mangiano sempre di più le case editrici piccole, che non ce la fanno più. L’unica cosa che ci salva è la propaganda capillare da persona a persona. Lo sapete, è così.

Quindi, se ognuno di voi si fa carico di prenderne più che può da distribuire ai suoi amici, è la cosa che in assoluto ci aiuta a raggiungere più persone possibili, e ve ne siamo grati.

Se invece facessimo pubblicità centrale stampando cose, spenderemmo un sacco di soldi, che poi sono i soldi dei lettori, con risultati molto più modesti.

Naturalmente, se uno dice: no, non mi interessa promuovere questo tipo di contenuti, è chiaro che non si chiede a nessuno di agire contro la propria coscienza. Ma nella misura in cui siete seduti qui, è anche chiaro che una certa affinità interiore con questa scienza dello spirito c’è, e si tratta di portare a coscienza proprio il fatto che ogni cinque o dieci o venti o cento che prendete, per noi, per l’umanità, è una gran bella cosa. Perché, in fondo, l’Io superiore, l’Io spirituale di ogni essere umano dopo la morte si presenta al Logos, e il Logos gli dice: ma come?, sei stato sulla Terra addirittura a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo e non hai neanche afferrato un minimo di scienza dello spirito, che è la cosa più bella che ci sia!?

E quello gli dice: ma come?, non l’ho mai sentita, non ho mai percepito nulla di questa scienza, non ho mai…

Ti ricordi quel giorno che il tuo amico ti ha dato un catalogo? (ilarità in sala, ndr) La percezione ti è stata data!

Allora, riassumo il discorso in due, tre frasi e poi vediamo un pochino l’uno o l’altro di voi, in chiave di domande o anche di riflessioni.

L’essere umano spacca il mondo in due – cosa che l’animale non può fare, men che meno la pianta o addirittura la pietra –, spacca il mondo in due perché è strutturato così che con i suoi sensi vede, ode, annusa ecc… e, con un’altra facoltà misteriosa perché non è fisica come i sensi, pensa.

Questo problemino della spaccatura del mondo il cagnolino non ce l’ha.

La percezione ci presenta un mondo frantumato in assoluto, nella percezione non ci sono unità. L’unità la crea il pensiero quando dice: quello è un albero.

Cosa percepisco guardando l’albero? Non si può dire cosa percepisco, perché nella percezione non c’è nulla di identificabile, proprio questo è il mistero. Ogni identificazione avviene con il pensiero, quindi la percezione dell’albero non è qualcosa, ma è un’esperienza interiore di demolizione dello spirito pensante, una specie di sonno, di addormentamento, una specie di vuoto, un’esperienza interiore di vuoto, e questo vuoto non è sopportabile. Quindi subito arriva il pensiero e dice: è un albero!

E quello è il pieno, mi dà una realtà.

La cosiddetta percezione è l’esperienza che mi manca la realtà: cos’è? cos’è? cos’è?

Il passo successivo sarebbe di chiedersi: la rosa che vedo lì fuori, quella è la rosa reale, come può essere il mio concetto di rosa più reale di quella rosa lì?

Cosa è reale nella rosa lì? Io non ho detto che la rosa lì fuori non ha nulla di reale, non ho detto questo, eh? Se supponiamo che è qualcosa di reale, allora io chiedo: che cosa è reale, di fatto?

La materialità non è reale, quella materialità è la stessa che c’è nel suolo: gli stessi sali, gli stessi elementi. E poi quella materialità della rosa di cui mi verrebbe di dire che è reale, magari fra cinque mesi è sparita tutta: dov’è la realtà? Perché se è una realtà deve restare una realtà.

Intervento: È una realtà in quel momento, una realtà transeunte.

Archiati: Il greco ti direbbe: una realtà transeunte è una non realtà. È una parvenza. Però, quello greco, era un pensare un pochino più forte. Il concetto di realtà porta in sé il concetto di costanza, non che oggi c’è e domani non c’è. Una cosa che oggi c’è e domani non c’è non è una realtà.

Replica: Ma anche noi, allora?

Archiati: In quanto intrisi di materia minerale, certo. Con la morte sparisce questo corpo, ma non è che sparisce l’uomo! L’uomo è un’altra faccenda.

Replica: E fin quando c’è, che cos’è?

Archiati: Ma è proprio questa la domanda: cos’è la realtà? Che cosa è reale nella rosa fisica? È una realtà la materialità? No, perché la materialità è la stessa dappertutto, la materialità non è rosacea.

Intervento: Reale è il concetto che mi faccio di questa parvenza.

Archiati: Ma io che tiro fuori il concetto sono qua e la rosa è là: io ho chiesto che cosa è reale nella rosa.

Allora, la rosa parte dal seme: mettiamo un seme nella terra e poi vediamo come questo materiale, che è lo stesso per tutti i fiori, per tutte le piante, per tutti gli arbusti ecc…, questa materialità, attorno a questo seme, prende le forme di una rosa.

Ci deve essere una sostanza di pensiero, ci devono essere delle correnti eteriche con forme e metamorfosi intrinseche specifiche che formano e trasformano continuamente la materialità. La materialità, che in altre piante andrebbe in altre direzioni, in altre forme, qui dà la forma, sempre in cambiamento, della rosa.

Un elemento vivente specifico, la specie della rosa, che opera vitalmente in questa materia e le dà, di volta in volta, la configurazione della rosa.

Questo elemento deve essere all’opera dentro la rosa, indipendentemente da quello che c’è nella mia testa, altrimenti tutta questa materia resterebbe nel suolo, dov’era.

Intervento: L’eterico non è materiale.

Archiati: E certo che non è materiale! Il primo gradino del non materiale la scienza dello spirito lo chiama l’eterico, il vitale. Però è una realtà.

Che tipo di realtà è? È transeunte o no? Da quando in qua ha fatto cilecca?

Interventi: Mai! Mai!

Intervento: Già questo livello eterico non è transeunte.

Archiati: Certo! Quindi lo spirito creatore – adesso faccio un piccolo salto, un piccolo riassunto, poi vi fate sentire voi – crea come prima cosa il vissuto animico, l’astralità del mondo. Il pensiero si accende di gioia, la luce diventa calore e dice: ma che bello!

E il «che bello!» è il cuore, è l’anima. È un vissuto, non è puramente spirituale: l’animico è l’eco interiore del mondo oggettivo. Quindi l’anima è la gioia, l’amore per lo spirito!

Che differenza c’è tra anima e spirito?

Spirito è, punto e basta! È quello che è!

L’anima è quell’elemento cosmico, quell’astralità, quel sentimento che è però sostanza reale che sente, che dice: è bello!

Di che cosa è fatta l’anima? I sentimenti sono tessuti di sostanza astrale. È una sostanza animica che spazia fra gli astri del cosmo – anima mundi, l’elemento astrale.

Poi, spirito e anima, per dare all’uomo sulla Terra la possibilità di rifare la strada dallo spirito all’anima, scende giù di un altro passo e lo porta nell’eterico, nel vivente.

Lo spirito tesse puramente nella luce, l’eterico è lo spirito che tesse nel vivente: però per l’uomo incarnato bisogna che il vivente diventi morto. Il vivente diventa morto intridendosi di materia minerale, e allora l’uomo lo vede: l’uomo percepisce il mondo dall’ultima di queste quattro corde cosmiche. Lo percepisce dal lato del minerale, del morto, della materia e dice: può essere morto soltanto ciò che prima viveva.

Allora l’uomo risale da ciò che è morto, risale dalla materia della rosa percepibile all’etere operante, a questo elemento di vita che struttura la materia della rosa – perché la materia, senza un elemento che la struttura con una struttura di pensiero di rosa, resta nel suolo.

Cos’è che dà alla materia la forma e la metamorfosi di rosa?

È il pensiero che opera nella materia, e il pensiero che opera nella materia si chiama etere, vita! I pensieri del Logos che operano nella materia, che strutturano la materia rendendola vivente (perché le foglie non sono lì belle morte, ma sono vive) lo chiamiamo il vivente, l’eterico.

L’eterico è lo spirito all’opera nella materia. Allora dico: l’essenza non è ciò che vedo della rosa, ciò che vedo è la materia. Se io gli tiro fuori l’invisibile vivente, che è il pensiero, che è la struttura della rosa, cade tutto nel suolo e ritorna dov’era.

Quindi l’essenza di ciò che vedo non è la materia che vedo, ma è il concetto! Però il concetto in quanto realmente all’opera, che vige, tesse e vegeta in questa materia.

I concetti del Logos sono viventi e operanti nella materia a un punto tale che la sanno strutturare a propria immagine.

Ma noi facciamo lo stesso, no? C’è un mucchio di mattoni: quando noi ne facciamo una casa, li strutturiamo, quei mattoni, secondo un pensiero.

Adesso io vi chiedo: qual è la realtà della casa?

La realtà della casa non sono i mattoni, perché i mattoni ce li ho anche nel mucchio. La realtà della casa è il pensiero strutturante, è la struttura, e la struttura è una forma di pensiero; con la differenza che la struttura di pensiero della casa è fissa, invece nella rosa è vivente, in continuo cambiamento.

E allora il prossimo gradino di evoluzione del pensiero è un pensiero umano che non produce soltanto forme fisse – come le case –, ma produce realtà viventi; poi produrrà realtà animiche, e poi sempre più spirituali. Per ora l’umanità è attiva soltanto nel minerale, nell’elemento morto.

Noi non siamo ancora capaci di creare ciò che è vivente, perché non siamo capaci di assumerne la responsabilità morale e quindi anche le conseguenze – vedi l’ingegneria genetica ecc… La conduzione dell’umanità non permette che l’essere umano consegua certe conoscenze prima che abbia l’evoluzione morale corrispondente per poterne fare buon uso.

L’uomo finora sa distruggere la vita, il vivente, ma non lo sa creare, per fortuna! per fortuna!

Va bene, adesso io ho buttato lì qualcosa, fatevi sentire voi. Era una riflessione su percezione e pensiero, su osservazione e pensare, sul fatto che la realtà della rosa non è ciò che vedo.

Interventi: I pensieri sono già tutti pensati, e noi andiamo a leggerli in qualche modo, o si fanno pensieri nuovi?

Archiati: È giusto quello che tu dici, perché nella tradizione esoterica si diceva sempre che l’uomo è stato creato per imparare a leggere nel libro della natura – quindi vuol dire che la natura è fatta di una scrittura e noi siamo stati creati per poterla leggere.

Adesso tu chiedi: ma nella misura in cui io leggo – le percezioni sono scritture, sono come le note sulla partitura, e il pensare trasforma questa nota in una nota vivente, in una musica –, nella misura in cui noi ricreiamo i pensieri divini tirandoli fuori dalle percezioni, che cosa impariamo? A diventare noi stessi sempre più creativi, sempre più creatori.

E chiedi: sarà mai possibile che l’essere umano possa inventare qualcosa che il pensatore divino non ha saputo inventare?

Intervento: Secondo me la funzione dell’essere umano, quello che l’essere umano compie con il suo pensare, è una ricreazione: dà vita, incarna su questa Terra, nella sua esistenza, dei pensieri divini che comunque il Creatore ha già pensato. Il Creatore ha già pensato tutto il pensabile, ma l’umano lo ricrea, lo incarna. Incarna i pensieri divini.

Archiati: Cosa vuol dire incarna?

Replica: Li ricrea, li incarna. Cioè, i pensieri divini sono già stati tutti pensati, ma se non ci fosse l’uomo a portarli a vita, rimarrebbero qualche cosa che poi, oltretutto, non sortirebbe neanche la propria funzione. L’essere umano è quel soggetto che porta a vita, nella sua evoluzione, il tutto pensato dal divino.

Ma creare pensieri che il Creatore non abbia pensato non mi pare possibile, se partiamo dal presupposto che tutto il pensabile è già stato pensato.

Intervento: Ma il frigorifero l’ha pensato l’uomo!

Archiati: Sì. La domanda la si può prendere sia dal lato quantitativo, sia dal lato qualitativo. Se la prendiamo dal lato quantitativo, e ci chiediamo: può l’essere umano pensare pensieri al di là, in più di quelli già pensati dall’essere divino? La risposta è: vacci piano! ce ne avrai abbastanza prima di averli pensati tutti!

Se invece la domanda la prendiamo dal lato qualitativo, allora l’essere umano è stato creato apposta per far sorgere qualcosa di nuovo, che né gli Angeli, né gli Arcangeli ecc… e neanche la Trinità possono fare: ed è il pensare al cospetto della percezione. Questo è il nuovo!

Ed è un fatto di qualità non di quantità. Non significa pensare pensieri in più o altri non pensati, ma pensare al cospetto del nascondino.

Intervento: Scoprire.

Archiati: Scoprire. Quindi lo specifico della conoscenza umana è il disinganno dello spirito, che dapprima si inganna – e la percezione è l’inganno, perché fa come se nella percezione ci fosse l’essenza.

Replica: Di seguito a questo, allora, mi va anche di pensare che, come nella tradizione cattolica, e me lo ricordo, sono stata, è vero, per fede catturata a certe credenze, così mi sembra questa l’alba di un’altra vicenda, per cui per fede, quasi, devo accogliere e dire: ma sì, la rosa materiale è un’astrazione, per poi indagare e cominciare a scoprire.

Perché mi sembra di dover fare un atto di fede nel momento in cui il linguaggio di Steiner dice: la realtà è un’astrazione – vedi l’esempio del muro di ieri.

Archiati: Se tu, di fronte a quello che io ho cercato di dire prima, fai un atto di fede, sei tu la bambina. Affari tuoi! Ma non parlare a nome di tutti!

Replica: Per me, dico, è l’albore ancora anche questo. Come mi è stato indicato allora, anche adesso mi sembra che è l’inizio di un nuovo percorso, per cui dovrò verificare, sentire da dentro che mi convince, ed è vero, che nella rosa, sì, vedo la forma, però intuisco che è altro che vive, che dà forma. Per adesso mi devo accontentare e mettere lì questo tassello di informazione e poi convincermene.

Archiati: No, no, no, no, c’è un modo di confondere le cose che non ci aiuta, non ci porta avanti. Tu lascia perdere quello che io ho detto, perché quello che ho detto per te è percezione. Ritorniamo alla domanda che ho posto all’inizio – poi io, per illustrare, ho dato un tipo di risposta mia, ma tu lasciala perdere –, la domanda era: cosa è reale nella rosa che vedo? Adesso sarebbe una cosa interessante se tu dessi la tua risposta, ma non la tua credenza! A me non interessa ciò a cui tu credi, dimmi cosa pensi rispetto a questa domanda. Lascia stare la fede, perché quella non mi serve: ho creduto per ventimila anni, mi basta!

La domanda è: cosa è reale nella rosa che vedo?, e tu ci dici (se stai al gioco naturalmente, sei una persona libera) cosa pensi tu su questa domanda.

Replica: Ahimè, io sono così abituata a toccare la materia!

Archiati: Tu esordisci con «ahimè», ma io ti ho chiesto cosa pensi, non cosa senti. Ahimè è qualcosa che senti.

Replica: E certo, perché io sento la rosa, la tocco, la vedo, non è che la penso.

Archiati: No, la domanda non era: cosa tocchi e cosa senti della rosa?, la domanda è: cosa è reale nella rosa che vedo? Se tu dici che non hai nessuna risposta, allora d’accordo, ma la domanda non era su ciò che tu senti.

Replica: Ma per me è reale la forma e la consistenza della rosa. Per questo ho premesso: prendo per buono quello che è stato detto finora, questa provocazione e questo nuovo modo di vedere la realtà, e un po’ alla volta mi alleno.

Archiati: No, no, no, scusa, stai barando!

Replica: Non è facile pensare in questo modo, scusa tu, eh?, non è facile pensare che il muro è un’astrazione, che la rosa è un’astrazione…

Archiati: Allora dici: mi stai chiedendo un pensiero che per me non è facile. Basta, basta. Va benissimo la risposta.

Replica: Per quello parlavo di fede, dico vabbè, la prendo per buona.

Archiati: No, la fede non c’entra nulla. Quello che io ho detto o lo capisci o non lo capisci, non c’è nulla da credere! È questo il discorso.

Se tu parli di credere rispetto a quello che io ho detto, io ho il dovere di darti uno schiaffo, perché quello che io dico o lo capisci o non lo capisci. Non c’è nulla da credere! Come ti permetti di parlare di credere? Io ti ho detto qualcosa a cui devi credere?

Replica: No, tu non hai detto di dover credere, sono io che dentro di me, nel mio processo, e confrontandomi col mio passato…

Archiati: Ma se tu dici che credi a ciò che io ho detto è perché non l’hai capito, quindi non credi a nulla! Questo è il discorso, perché il credere è un desiderio di conoscenza in quanto non la si ha.

Replica: Credere, appunto. A parte che il credere è sostenuto dal desiderio di conoscenza e mi sembra già…

Archiati: No, no, il credere è il desiderio.

Replica: Benissimo, è il desiderio...

Archiati: Quindi il credere non ha nulla di conoscenza.

Replica: Ma poi, dentro di me, sento che sta succedendo un continuo balzare tra quel modo antico di vedere attorno a me, e il bagliore di quelle cose che tu hai descritto, che ogni tanto mi arriva, circa la forza vitale e così via, le forze strutturanti ecc..

Ma è un continuo altalenare tra quel modo di intendere la realtà che mi si pone davanti e quella vecchia che è fatta di rosa che tocco, che annuso e che vedo, come materia. Piano, ecco, io volevo solo dire che è un processo. E mi auguro di arrivare a quel modo lì, libero e leggero, di vedere le forze operanti.

Archiati: Traduco con parole mie quello che io capisco di ciò che tu dici. Dici: io oscillo tra quello che credevo, che mi faceva così bene, insomma mi dava gioia, e quello che la scienza dello spirito mi propone e non ci capisco nulla! E oscillo.

Padronissima , non venire però a rinfacciare a me che tu oscilli, capito?

Luciana: Ma lei non ti ha rinfacciato niente!

Archiati: Luciana, riassumi tu. Io son troppo tedesco, troppo cattivo: cosa sta dicendo?

Luciana: Lei si trova in difficoltà di fronte a dei concetti nuovi che non ha praticato fino ad ora. E allora sente questa oscillazione, come ha ben detto, fra quello che è stato il fondamento del suo pensare fino ad oggi, e un tipo di pensare nuovo, più vivente che tu hai proposto. Non è che lo rinfaccia a te, ti sta manifestando una sua difficoltà.

Archiati: Comunque se finora non hai oscillato e io ti ho portato un pochino in oscillazione son ben contento, torno in Germania contento, perché dove non c’è oscillazione non c’è movimento!

Intervento: Fino adesso abbiamo parlato di percezione che precede il pensiero, poi ieri abbiamo parlato di Leonardo da Vinci, e mi è venuto in mente che Leonardo ha «visto» delle invenzioni, ha fatto delle invenzioni. La percezione di quei pensieri è arrivata centinaia di anni dopo.

Archiati: Di che cosa parli? Dell’Ultima cena o di che cosa?

Replica: No, no, le macchine di Leonardo, il concetto che aveva del volare, delle macchine che volavano.

Archiati: Ho capito, gli studi di meccanica, i congegni e tutti gli schizzi che si è fatto. D’accordo.

Replica: Non c’era la percezione lì, perché a malapena li stiamo facendo adesso, quegli strumenti.

Archiati: E come no?

Replica: E cos’era?

Archiati: Leonardo era un tipo, per esempio, che invitava a grandi pranzi tanti contadini per studiare anatomicamente le posizioni: come si mettevano quando mangiavano un pollo, ecc… L’unico scopo dell’invitarli era che voleva osservare con precisione come i muscoli interagiscono fra di loro quando uno sta mangiando una coscia di pollo lunga così. Non mi dire che non c’era la percezione!

Replica: Ma quando ha inventato l’elicottero, lì non c’era la percezione?

Archiati: Ma il pipistrello c’era, eccome!

Replica: Ma lui non ha tirato fuori il concetto del pipistrello, lui ha tirato fuori il concetto del volo.

Archiati: Sì, ma è lo stesso discorso di prima. Io chiedevo – e poi lei, là in fondo, diceva che è un discorso un po’ nuovo, un po’ difficile. Giusto, però io chiedevo –: la sostanza di pensiero vivente, eterica, operante nella rosa, si vede o non si vede? Non la vedi coi sensi fisici! È la stessa domanda che stai ponendo tu.

Replica: Quindi lui vedeva?

Archiati: No. Il primo passo che ognuno può compiere è dire: questo che certi chiamano l’eterico eccetera eccetera, anche se io non lo vedo con i sensi fisici, so che ci deve essere, altrimenti non spiego come succede il fenomeno. Quindi non ho bisogno della percezione fisica, dei sensi fisici.

Il pensare è un percepire spirituale, il pensare ti dice: ci deve essere una realtà operante che i sensi fisici non possono vedere, ma ci deve essere. E deve essere una realtà perché opera, ed è quella che mi fa vedere la rosa!

Questo intendevo dire quando dicevo: il pensiero va a colpo sicuro. Ma il pensiero coglie cose che i sensi non possono cogliere, se no non ci sarebbe bisogno del pensiero oltre ai sensi.

Allora diciamo che questi energumeni dello spirito vedevano con il loro pensiero cose che il pensiero della gente ordinaria ancora non vede. Però il pensiero non vede mai pezzi di materia o cosce di pollo, perché per quello bastano i sensi fisici, ne abbiamo dodici!

Allora qual è la realtà del mondo?

Lo spirito, non la cosiddetta materia. La cosiddetta materia è la non realtà del mondo.

Però, a questo punto qui, l’uomo d’oggi dice: fai un’affermazione così stratosferica!, ti devo credere, ma non ci capisco nulla.

Allora se non ci capiamo nulla, o ben poco, ben venga che gli incontri su La filosofia della libertà non finiscano qui, ma continuino ad andare avanti in modo che un po’ alla volta, un po’ alla volta, un po’ alla volta, il cosiddetto spirito, l’astralità, l’animico, l’eterico ci diventino sempre più realtà. Ma non si può fare di primo acchito. Lo spirito decaduto non si può in pochi secondi farlo risalire, come un satellite.

In altre parole, o ci rivediamo la prossima volta oppure pensateci bene, eh?!

Tante buone cose, buon ritorno!

Appendice

(Dall’incontro del venerdì pomeriggio, come segnalato nella nota 4)

Io conosco personalmente l’editore di questo volume in tedesco, e dell’Opera Omnia, sono stato suo amico, un’amicizia molto profonda, Bellmann, si chiama. Gli ho telefonato e gli ho detto: ma tu non sapevi che c’erano altri manoscritti? Lui dice: sì, da vent’anni, quando c’era il presidente della Società antroposofica Schmidt-Brabant, ci sono stati tentativi di riconciliazione tra il Lascito e la Società Antroposofica (qualcuno di voi saprà che c’è stata una guerra di decenni tra il Lascito e la Società Antroposofica e tentativi di riconciliazione più o meno riusciti). Sì, avremmo potuto andare dagli altri a vedere se c’erano dei manoscritti che noi non abbiamo. Ma tu sei andato a vedere o non sei andato a vedere?, gli ho chiesto. No, non sono andato, mi ha risposto.

Il che significa che l’editore dell’Opera Omnia in tedesco, che poi è stata tradotta in italiano, neanche è andato a vedere in un altro Archivio, dove ci sono anche cose che l’Opera Omnia non ha. Tutto dovuto alla guerra che c’è stata tra il Lascito e la Società Antroposofica: il Lascito è quello fondato da Marie Steiner che ha editato l’Opera Omnia.

Perché erano in guerra? È una cosa molto complessa. Marie Steiner ha dato in eredità tutto il prodotto di Steiner al Lascito e non alla Società Antroposofica. Poi c’è stato un processo macchinoso, odioso, avviato dalla Società Antroposofica contro il Lascito, perché voleva stampare anche lei i testi di Steiner.

La Società Antroposofica ha perso il processo (un processo che le è costato tantissimo in prestigio) perché tutti i testamenti di Steiner erano fatti a favore di Marie Steiner. Steiner, in tutti i suoi ripetuti e diversi testamenti – questo è un motivo per cui io farò di tutto per non scrivere mai un rigo di testamento e per non possedere nulla! Finora ci sono riuscito, c’ho perso un po’ di capelli, ma finora ci son riuscito! – cede in eredità tutto ciò che è suo a Marie Steiner e non alla Società Antroposofica.

La Società Antroposofica pensava, col Convegno di Natale, di essere diventata ovviamente l’erede non soltanto spirituale ma anche materiale di tutto ciò che Steiner aveva prodotto, e perciò fece quel processo, per rivendicare il diritto di stampare Steiner. Perso il processo, il giudice in tribunale proibì alla Società Antroposofica di pubblicare Steiner.

Intanto, nel corso dei decenni, morivano soci della Società Antroposofica che erano ligi, uniti alla Società Antroposofica, ed erano nemici feroci di quelli del Lascito: costoro, se avevano dei manoscritti tramandati di madre in figlio, li lasciavano alla Società Antroposofica.

Quindi a Dornach ci sono due archivi fondamentali: uno si chiama Rudolf Steiner Archiv, ed è quello del Lascito, l’altro si chiama Archiv am Goetheanum, ed è quello della Società Antroposofica.

Io vi dico subito perché Bellmann, l’editore dei volumi tedeschi, non è neanche andato a vedere se di là c’era qualcosa. È ovvio: se fosse andato a vedere avrebbe trovato delle cose che il Lascito non aveva mai avuto, più vicine al dettato di Steiner, perché si tratta di manoscritti copiati ancor prima che uscisse la versione ufficiale, redatta con aggiunte ecc… Se fosse andato sarebbe stato costretto a prendere sul serio, a considerare, come fa l’Archiati Edizioni, questi manoscritti, avrebbe dovuto rovinare la fama, la nomea dell’Opera Omnia. Non soltanto, ma avrebbe anche dovuto avere delle persone con la dedizione e un minimo di doti per fare un’edizione molto più scientifica, molto più vicina al dettato di Steiner.

Questa dedizione a Steiner, ormai, non la trovate più neanche a Dornach. Steiner sta diventando per i rappresentanti della Società Antroposofica un motivo di disagio e di imbarazzo perché è dogmatico nei confronti del cristianesimo, non tratta tutte le religioni allo stesso modo ma dà uno spicco particolare al cristianesimo, è dogmatico nel suo modo di trattare l’islamismo, è dogmatico e razzista perché dice che c’è un’evoluzione e che certi esseri umani sono più evoluti di altri ecc….

Oh, se si vuole rendersi appetibili sulla scena di questo mondo bisogna lasciar via talmente tante cose di Steiner che uno alla fine si chiede: cosa resta?

È come la Chiesa cattolica, che vuole conciliare lo spirito del Cristo con lo spirito di questo mondo: ci prova da duemila anni, ma il risultato è che lo spirito del Cristo è andato a ramengo, non c’è rimasto quasi più nulla!

Quindi, riassumendo, ci troviamo in questa compagine spirituale per cui questo Rudolf Steiner diventa per tanti antroposofi un motivo di grosso imbarazzo. In Germania c’è una forte corrente che dice: sì, Steiner è una gran bella cosa, però un secolo fa… Adesso tocca a noi, gli anni sono passati, i tempi sono diversi, lasciamolo lì... Le persone che leggono veramente Steiner sono sempre di meno.

Chi di voi paragonasse la lettura di Budda e Cristo[13] (io ho cercato di mettere un pochino mano nella traduzione) con lo stesso testo dell’Opera Omnia, vedrebbe che il dettato, il testo, qui è più semplice, più diretto. Io posso dimostrare attraverso tutti i manoscritti (abbiamo migliaia di pagine scritte a mano) che Steiner parlava ai teosofi sempre col wir, che in tedesco vuol dire «noi».

Marie Steiner, che veniva dalla borghesia, ha dato come indicazione redazionale quella di farne un testo un pochino più elevato e così hanno trasformato, nell’Opera Omnia, tantissimi wir in Sie, che vuol dire «Loro» – loro ascoltatori. La lettura per un tedesco è molto diversa a seconda che Steiner dica «noi» oppure dica «Loro», tirandosi fuori come se non facesse parte di questa comunanza umana.

Però c’è modo di dimostrare che lui ha parlato col wir, e quindi l’intento fondamentale dell’Archiati Edizioni è di ritornare, per quanto è possibile, all’originale, ricostruendolo col materiale che è rimasto nell’umanità – e ce n’è!, e credo che nelle mansarde dell’umanità ci saranno ancora molti manoscritti da scoprire. Per esempio, una vecchia signora a Vienna ci ha dato un manoscritto di quattro conferenze di Steiner sull’Apocalisse, scritte a mano da una stenografa, Alice Kinkell si chiamava, in una bellissima scrittura sütterling (una vecchia scrittura tedesca che io sto imparando a leggere), proprio tersissima come scrittura. Per decenni queste pagine sono state nelle scartoffie di questa vecchia signora di Vienna, e lei ce le ha date insieme ad altre cose, senza neanche sapere cosa ci stava dando.

Queste conferenze sull’Apocalisse stanno nell’Opera Omnia 104A, non so se sono tradotte in italiano[14]. In tedesco c’è un’altra versione di queste quattro conferenze e io le ho paragonate facendone la trascrizione sul computer (un lavoraccio non da poco): questo testo scritto a mano da Alice Kinkell, si vede, è molto più vicino, molto più fedele a Steiner. Chi conosce Steiner lo vede subito: è fedele, non c’è stata redazione con aggiunte, ecc.

Intervento: E lì c’è sempre wir?

Archiati: Sempre, senza alcuna eccezione. Un paio di migliaia di pagine scritte da Matilde Scholl, che era la redattrice del bollettino della Società Teosofica (poi diventata Società Antroposofica), sempre con wir. Se qualcuno di voi ha presente la decima conferenza, mi pare, di questo ciclo qui, vedrà che nell’Opera Omnia comincia: «Come loro hanno visto...», hanno cambiato il «noi» in «loro», per due volte. Poi, subito dopo, nel giro di due pagine, viene dieci volte il «noi»: hanno visto che c’era troppo spesso ‘sto wir, e l’hanno lasciato.

Uno che legge attentamente dice: è un oratore dozzinale, questo Steiner, perché un bravo oratore non cambia un registro così fondamentale di comunicazione, non salta dal «noi» al «Loro», che è un tutt’altro registro. Nell’Opera Omnia hanno fatto una cosa del genere e per decenni e decenni nessuno ha notato queste cose, nessuno le ha fatte presenti. C’è stata una venerazione, una canonizzazione dell’Opera Omnia che non ha mai meritato.

E adesso, certo, non abbiamo soltanto amici in campo antroposofico. Nel bollettino del Goetheanum di due, tre settimane fa, c’era la notizia strabiliante che il Lascito si è separato dalla casa Editrice Rudolf Steiner. Per me questo significa che il Lascito non pubblicherà più volumi dell’Opera Omnia, perché ormai l’Archiati Verlag va avanti presentando uno Steiner molto più pulito, più vicino all’originale.

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[1] Mt 25,31-46

[2] Genesi 1,10-12-17-21-25-31

[3] Rudolf Steiner Budda e Cristo – Le religioni dell’umanità alla luce del Vangelo di Luca – Archiati Edizioni 2008.

[4] Pietro Archiati parla qui diffusamente della questione Società Antroposofica/Lascito: gli interessati potranno trovarla in Appendice.

[5] Rudolf Steiner Tra destino e libertà – Fondamenti di scienza karmica –Archiati Edizioni 2008

[6] Rudolf Steiner Nessi karmici 6 volumi – Editrice Antroposofica – Milano.

[7] Sull’argomento, vedi l’Appendice in Pietro Archiati: Mi ami tu più di costoro? – Commento al Vangelo di Giovanni vol XI – Archiati Edizioni – Torino 2009.

[8] Pietro Archiati Giuda ricambia il bacio 1a e 2a parte – Archiati Edizioni.

[9] Gv 13,27.

[10] Sull’argomento vedi: Pietro Archiati Guarire ogni giorno – Archiati Edizioni, 2007

[11] Gv 14,12

[12] Gv 8,32.

[13] Rudolf Steiner Budda e Cristo – Le religioni dell’umanità alla luce del Vangelo di Luca – Archiati Edizioni 2008.

[14] Non sono tradotte in italiano.

IL PENSARE - una creazione dal nulla (Pietro Archiati) - Commento a LA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ vol. 3 - copertina retro