Redazione di Stefania Carosi non rivista dall’autore
Indice
Giovedì 27 settembre 2007, sera
Venerdì 28 settembre 2007, mattina
Venerdì 28 settembre 2007, pomeriggio
Venerdì 28 settembre 2007, sera
Sabato 29 settembre 2007, mattina
Sabato 29 settembre 2007, pomeriggio
Sabato 29 settembre 2007, sera
Domenica 30 settembre 2007, mattina
Note introduttive
Il testo La filosofia della libertà di Rudolf Steiner su cui Pietro Archiati svolge il suo seminario è quello tradotto in italiano da Dante Vigevani per l’Editrice Antroposofica – Milano 1966.
Le parti riportate in neretto si riferiscono al testo di Rudolf Steiner. Ogni corsivo in neretto è di Rudolf Steiner.
Può capitare che Pietro Archiati rilegga più volte uno stesso brano: in quel caso non viene di nuovo segnalato in neretto, ma tra virgolette.
I commenti di Pietro Archiati durante la lettura, se brevi, e le sue indicazioni di diversa traduzione sono riportati fra parentesi graffe.
Per facilitare la consultazione del testo, che i lettori potrebbero avere in altre edizioni e traduzioni, gli inizi di paragrafo sono stati numerati e visualizzati con rientro di capoverso, accompagnati sempre dal capitolo in numeri romani – es. II,3 ecc.
Gli stessi numeri sono riportati in parentesi, senza rientro, quando indicano la ripresa della lettura dello stesso paragrafo, sospesa dal commento del relatore.
Giovedì 27 settembre 2007, sera
Benvenuti a tutti!
Stiamo affrontando questo testo squisito che si chiama La filosofia della libertà di Rudolf Steiner. Faccio una piccola introduzione, perché mi è stato detto che ci sono diverse persone nuove (mi sentite bene? la mia voce è sempre un po’ scalcagnata: se non sentite, ditelo, e io provo ad alzarla). Soprattutto per coloro che sono un po’ nuovi, ma anche per entrare nel merito del discorso, ci chiediamo: cosa vuol dire «filosofia della libertà»?
Naturalmente le cose si possono dire in tanti modi. Siamo nel 1894 quando esce la prima edizione de La filosofia della libertà, e Steiner si pone nella sfera del discorso filosofico, perciò chiama il suo libro La filosofia della libertà. Ma per noi che viviamo nel 2007 non è vincolante nessun tipo di terminologia.
Chi conosce Steiner sa che, proprio per la dovizia infinita di contenuti che questo gigante ha squadernato con ricchezza inesauribile, egli ha sempre insistito che in fatto di terminologia dobbiamo sentirci il più liberi possibile.
L’importante sono le cose, le realtà di cui si parla: che poi vengano chiamate così o cosà, poco importa. Se invece ci fissiamo su una certa terminologia, perdiamo di vista la realtà di cui si tratta. Perciò, proprio per restare sempre più ancorati alla realtà, la cosa migliore è esercitare una certa malleabilità, una certa flessibilità, una certa variabilità in chiave di terminologia.
Noi abbiamo la fortuna, in un certo senso, di avere un testo tedesco che ci costringe a cambiare tutta la terminologia, perché le parole sono in tedesco e noi dobbiamo metterle tutte in italiano, cosa da non sottovalutare.
Se c’è un vantaggio per chi è di madrelingua tedesca, c’è un vantaggio anche per gli italiani, perché nella misura in cui noi comprendiamo le cose, siamo in grado di metterci una tutt’altra terminologia che noi chiamiamo la lingua italiana, e facendo questo esercizio ci rendiamo capaci di cogliere sempre di più l’essenza delle cose. Come la betulla: che uno la chiami betulla o Birke (in tedesco), betulla è, e betulla resta. Che cos’è importante della betulla? Il nome o la cosa? La cosa, la realtà!
Questo per dirvi che Die Philosophie der Freiheit in italiano è La filosofia della libertà. Però, che vuol dire «filosofia?». Riflessioni sulla libertà, variazioni all’infinito sul tema fondamentale della libertà. Questa è la filosofia della libertà. «Filosofia» vuol dire una serie di riflessioni pensanti, di pensieri, una serie di pensieri.
Filosofia. L’origine di questa parola è greca, quindi di nuovo una terminologia diversa: filosof…a (filosofìa). Passando dalla terminologia greca alla realtà di ciò che significa, abbiamo il verbo filšw (filèo) che vuol dire «io amo» e sof…a (sofìa), che vuol dire «saggezza».
Quindi «filosofia» è amore per la saggezza, amore alla conoscenza, amore al sapere, amore alla consapevolezza, amore alla luce. È un eros conoscitivo. Ecco, «filosofia» si potrebbe tradurre eros conoscitivo, così teniamo una parola greca e ce ne mettiamo una italiana (che poi è latina, tra l’altro).
Un eros conoscitivo in fatto di libertà, tutto quello che c’è da conoscere sul fenomeno libertà: questa è la filosofia della libertà. È cosa posso arrivare a capire, a conoscere, su ciò che gli esseri umani chiamano libertà.
E adesso prendiamo la parola «libertà». Libertà, naturalmente, è la traduzione italiana di Freiheit. Il significato direi mitteleuropeo, di lingua tedesca, della parola «libertà» è tutto diverso da quello che si dà altrove (vi disturba il fatto che io troneggi dall’alto di questo palcoscenico? È così alto! No? Allora se disturba solo me, andiamo avanti). Chi mi conosce mi avrà già sentito parlare di queste cose, ma vanno sempre di nuovo esercitate, perché il pensare è proprio una questione di esercizio che non termina mai.
Allora, in Occidente c’è un concetto appunto occidentale di libertà: freedom, o meglio ancora liberty (pensiamo alla Statue of liberty negli Stati Uniti). Questa liberty degli Stati Uniti non ha nulla a che fare col concetto tedesco di Freiheit, ma proprio nulla, assolutamente nulla!
Per l’Oriente prendiamo la parola russa svoboda, che significa libertà, e vedremo che sia il concetto russo orientale di libertà, sia liberty, il concetto occidentale di libertà, sono tutt’altro, sono diversi dal concetto mitteleuropeo di libertà: Freiheit.
Liberty significa «libertà d’azione nel mondo visibile», la libertà dell’imprenditore. Un altro concetto di libertà, l’uomo occidentale di lingua inglese non lo conosce.
Quando una persona ha la possibilità, poiché lo Stato la lascia in pace, di muoversi nel capitalismo in modo da poter fare quel che vuole del suo pezzo di terra, dei suoi possedimenti in generale, questa la chiama liberty! Però è un interagire con le forze della Terra, è una libertà d’azione nel mondo visibile, cosa bellissima eh?, non è che stiamo dicendo l’uno è meglio, l’altro è peggio, non si tratta affatto di una valutazione morale, no no! Si tratta di una caratterizzazione oggettiva, quindi l’inglese e l’americano non capiscono nulla di ciò che il tedesco intende per Freiheit.
Adesso molti tedeschi si sono americanizzati, però, se andiamo ai tempi dell’idealismo tedesco, del goetheanismo, de La filosofia della libertà di Steiner, in Occidente proprio non avevano e non hanno la minima idea di che cosa parlino tutti questi «signorini», perché l’esperienza della Freiheit (di cui vi dirò) non la conoscono.
Svoboda nel mondo orientale significa che l’essere umano può esperire, può vivere la vera libertà soltanto nel mondo spirituale. Quindi, aspetta di morire e allora andrai nel mondo degli Angeli e lì sarai veramente libero. Finché sei imprigionato nel mondo della materia non puoi essere libero. Ci viene in mente Platone che diceva: il corpo è come un cimitero, è come una tomba (sîma è corpo, e sÁma è tomba, tomba dell’anima).
Naturalmente sto semplificando cose che sono molto più complesse, però il nucleo è importante, è importante cogliere queste differenze fondamentali.
Il concetto orientale di libertà è l’essere umano in quanto spirito, in quanto puro spirito. Nel mondo dello spirito l’uomo è libero quando prega, è libero quando muore e va in paradiso, va in cielo, è libero quando parla con gli Angeli, per esempio.
Il riferimento dell’esperienza della libertà in Oriente è il mondo spirituale, mentre in Occidente la libertà si vive nel mondo della materia.
E adesso arriviamo al punto importante, al concetto tedesco di libertà. Questa libertà di cui si parla non si vive né nel mondo della materia, né nel mondo dello spirito, ma nel mondo dell’uomo. Libertà è la capacità dell’essere umano di sprigionare liberamente, creativamente mondi all’infinito, sia nell’arte, sia nella scienza, sia nella conoscenza. È la creatività all’infinito dello spirito umano incarnato.
L’uomo è lo «spirito umano incarnato», e comprende sia la materia sia lo spirito. Tutti e due si esprimono nell’uomo. Questo è il concetto specifico di libertà prima di tutto del Centro dell’umanità, dell’Europa, ed è un concetto molto reale. Il culmine di questa esperienza c’è stato duecento anni fa con gli idealisti tedeschi, col goetheanismo, Schiller, Herder, ecc. Un secolo dopo (rispetto a noi un secolo fa), c’è poi stato questo vero e proprio terremoto che è Rudolf Steiner.
È chiaro che oggi come oggi questa esperienza di creatività (non soltanto il concetto astratto), di libera sorgività dello spirito umano è quasi sparita anche al centro dell’Europa. Perciò quando io, in Germania, anche in conferenze pubbliche, uso questa parola, la maggior parte della gente pensa al tipo di libertà occidentale, soprattutto i tedeschi dell’Ovest, oppure al tipo di libertà orientale (i tedeschi dell’Est).
Quindi dobbiamo accettare il fatto culturale che questa vetta somma di creatività dello spirito umano che si è espressa nel centro dell’Europa duecento anni fa, e ancora più fortemente, più luminosamente cento anni fa col sorgere della scienza dello spirito, ora è tutta questione di conquista dell’individuo singolo, perché culturalmente è quasi del tutto sparita.
Però, nella misura in cui l’individuo singolo, che è ciascuno di noi, mastica questo testo fondamentale sulla libertà quale creatività artistica dello spirito umano e dell’anima umana, ha la possibilità di ri-crearsi, di riconquistarsi e capire le cose, può farle sue e può renderle fecondanti per la sua vita, per la vita del sociale, per la vita dell’umanità intera.
Perché, in fondo, quanto ogni essere umano – quale cellula vivente, quale organo vivente nell’organismo dell’umanità – si innalza e diventa più creativo, più libero nel suo spirito, tanto innalza tutta l’umanità.
Un’altra serie di riflessioni a cui già ho accennato nello scorso incontro[1], riguardava il fatto che questo spirito artisticamente e liberamente creatore, che è l’uomo, è una questione di libero cammino.
L’uomo è uno spirito artisticamente creatore? Se già lo fosse non gli resterebbe niente di libero! Quindi diciamo che l’essere umano ha una potenzialità, un dinamismo interiore che gli consente di poter diventare uno spirito sempre più artisticamente creatore: ma il diventarlo è lasciato alla sua libertà.
L’essenza della libertà è la capacità, la possibilità che ognuno ha di diventare sempre più creatore: proprio questa è la cosa lasciata alla libertà di ognuno.
Ognuno di noi vive continuamente nella possibilità di rendersi di ora in ora, di giorno in giorno, sempre più creativo oppure di omettere questa creatività, e ci siamo detti tante volte che i grandi peccati contro la libertà sono tutti peccati di omissione, non di commissione: sono tutto ciò che uno avrebbe potuto diventare in chiave positiva e che non è diventato.
Della parola italiana «peccato» c’è una lettura clericale e una laica.
Il concetto clericale di peccato è moraleggiante – hai commesso un peccato – e si riferisce sempre a un qualcosa che uno ha fatto male.
Invece il significato laico di «peccato», in italiano (qualcosa mi ricordo dell’italiano, eh?!, non l’ho dimenticato del tutto), è con un bel punto esclamativo: che peccato! Peccato con un punto esclamativo è molto più bello, molto più pulito perché significa: ma guarda, avrei avuto una bella occasione e me la sono fatta scappare! Peccato!
Questo è bellissimo proprio nel linguaggio italiano perché è sorto maggiormente sull’onda dell’anima senziente, affettiva, emotiva. Siccome la cultura clericale, moraleggiando, ha messo una cappa sulla testa dell’individuo – sta’ attento qua, è peccato di là, è peccato di là… –, allora la cultura laica si è vendicata facendo piazza pulita, ha guardato alle cose positive e ha detto: no, peccato è quando mi lascio scappare una buona occasione. Peccato!!
Quindi il vero male dell’evoluzione è quando un essere umano si presenta alla resa dei conti e il Logos, che è la somma della creatività nel pensiero e nell’amore, gli chiede: Beh!, hai fatto qualcosa con la tua capacità, con la tua potenzialità di diventare sempre più creativo? No, ho avuto soltanto paura… Ma che peccato!
E ci siamo sempre detti che una scappatoia se l’è riservata il Padreterno, che è quella di dirgli: ma dai, su, ritorna sulla Terra e impara a combinare qualcosa in modo da non ripresentarti di nuovo dicendo: peccato, non ho combinato nulla!
Di fronte a questa proposta evolutiva di crescita, di cammino, le condizioni di vita (il karma) sono sempre quelle giuste, come un abito fatto assolutamente su misura per ognuno perché gli portano incontro le occasioni migliori per diventare sempre più libero, sempre più creatore, sempre più artisticamente inventivo nel suo essere, a tutti i livelli. Ai livelli dell’amore, dei rapporti fra le persone, ai livelli della conoscenza, ai livelli della scienza, della tecnica… a tutti i livelli.
Di fronte a questa propositività piena di positività dell’evoluzione, abbiamo due matrici culturali: la religione e la scienza.
La religione (dove c’è ancora la religione, ma vediamo che sparisce sempre di più) crede nello spirito; la scienza ignora lo spirito, si occupa del mondo della materia.
Già l’altra volta dicevo: lasciamo stare gli scienziati che vanno un po’ al di là e negano la realtà dello spirito, perché con loro è anche difficile discutere. Prendiamo invece lo scienziato normale che dice: se lo spirito c’è o non c’è non mi interessa, io mi occupo del mondo della materia, io mi occupo del mondo dove ho le percezioni ecc…
Questo volevo ripetere soprattutto per chi è nuovo: qual è la cosa più importante che hanno in comune la scienza e la religione? Che né l’una né l’altra hanno la realtà dello spirito, perché se io lo ignoro, vuol dire che non ne ho l’esperienza e se credo nella realtà dello spirito significa che non ce l’ho, nessuno crede a ciò che ha! Se io ho tre pere – quest’anno è un anno di pere, almeno in Germania, è pieno di pere, da noi non ci sono mai state tante pere come quest’anno… gli alberi di pere vengono giù, bisogna mettere un sacco di bastoni per tenerli su, dappertutto davvero, in Italia no? – se ho tre pere davanti a me, non dico: io credo in queste pere. Ce le ho e me le mangio!
Se una mamma ha un bambino appena nato non dice: io credo di avere un bambino – ce l’ha! La fede in Dio è proprio il segno che non lo si ha. Allora, se le persone religiose, i credenti, lo spirito non ce l’hanno, allora forse sono ancora più intelligenti gli altri che dicono: lasciamolo perdere, questo spirito, ignoriamolo. Ignorano lo spirito e si occupano delle pere: quelle ci sono, quelle ce le hanno e se le possono mangiare!
Già l’altra volta sottolineavo che se noi comprendiamo ciò che hanno in comune scienza e religione, riusciamo a buttarci alle spalle questo continuo conflitto tra il credente e il miscredente: finché litigano tra di loro è una scusa per non fare il lavoro che invece si potrebbe fare, quello di riconquistare la realtà dello spirito a partire dalla libertà.
Perché è andato perso, lo spirito? Il credente non ce l’ha, lo scienziato non ce l’ha, ci sarà bene un motivo per cui tutta l’umanità si è persa la realtà dello spirito! Il motivo, bellissimo, è quello di dare a ogni individuo la possibilità di riconquistarsi liberamente, autonomamente la realtà dello spirito.
Cos’è la realtà dello spirito?
Essere uno spirito significa pensare, volere e creare. Questa è l’essenza dello spirito.
Il mondo così è nato: lo spirito divino creatore ha pensato, ha voluto e ha creato!
Come nasce una casa? Nel pensiero dell’architetto! Non mi dite che l’origine di una casa sono i mattoni, non me lo dite, sennò vi sbatto un mattone in testa! – no, meglio che non lo faccio, altrimenti romperei il mattone anziché la testa!
La definizione, cioè l’essenza dello spirito, è quella di un essere spirituale (quindi lo spirito è un essere) che sa pensare, che pensa, che vuole, agisce, compie e crea.
L’unico modo per riconquistarmi la realtà dello spirito è di diventare sempre di più io uno spirito creatore. Un’altra via non c’è, se no mi tocca credere a uno spirito che non sono io! L’unica realtà esperienziale dello spirito sono io! Un altro non ci può essere! Perché ogni altra realtà mi è fuori, e gli devo credere.
Non importa nulla che il Papa sia un tedesco, adesso: no, no, è sempre fuori di me! Lui è uno spirito solo per sé, se è fortunato abbastanza, ma non per me! Tant’è vero che nel suo libro Gesù di Nazaret – in Germania per tutto il mese di maggio è stato il numero uno, il best-seller ... poi è andato un pochettino più giù, ma ne hanno vendute un sacco di copie – nella prefazione dice: io questo libro non l’ho scritto come un Papa infallibile, no, ognuno ha la libertà di contraddirmi, è la mia ricerca personale. È il primo Papa che si presenta fallibile, e perciò lo comprano tante persone (mi sono informato: non è che lo leggano tutti quanti, lo mettono sullo scaffale!)
Però è bello questo Papa che dice: questo libro non ha nulla a che fare con l’infallibilità del Papa, è la mia ricerca. Di chi? Del suo spirito libero. Così si mette alla pari di ogni spirito umano, una gran bella cosa, è la prima volta! Come evento culturale è da non sottovalutare, mi pare che l’ho detto anche a Roma l’altra volta che ci siamo visti.
Bene, se l’unico modo, però a tutti possibile, di riconquistare, di ricostruire la realtà creante, artisticamente operante dello spirito è quello di diventare io stesso sempre di più uno spirito artista che crea mondi all’infinito, allora la domanda successiva è: in me, in questo spirito che sono io, qual è l’elemento di partenza?
È il pensare.
Il pensare è l’essenza dello spirito creatore, il volere è la sua emanazione ab extra.
Quindi il pensare, questo illuminarsi di contenuti di mondi all’infinito, è l’essenza dello spirito creatore; il volere e il creare sono la sua manifestazione all’esterno.
E le due parti de La filosofia della libertà sono proprio questi due versanti dello spirito creatore: la prima parte è tutta concentrata sul pensiero, sul pensare in quanto creatività assoluta, artisticamente perfetta dello spirito; e la seconda parte tratta dell’esuberanza piena di amore di questo spirito che crea e si manifesta in mondi all’infinito.
Si potrebbe dire che il motto della seconda parte de La filosofia della libertà è un bel motto degli scolastici – per chi non mi conosce: ho fatto qui a Roma, ancora otto semestri in latino di filosofia scolastica –, un bell’adagio di Tommaso d’Aquino che poi si rifà ad Aristotele: bonum est effusivum sui, «il bene tende per natura a diffondersi», a comunicarsi, a manifestarsi, a moltiplicarsi.
In altre parole, lo spirito creatore non può far altro, perché è nella sua natura, che comunicare ad altri spiriti questa creatività, dandogli la potenzialità, mettendogli a disposizione tutti gli strumenti per diventare liberamente sempre più creatori.
Questo godere della libertà altrui è l’essenza dell’amore. L’amore è il godimento della libertà altrui, un godimento tale che si mette sempre di nuovo a disposizione, al servizio di tutto ciò di cui l’altro spirito ha bisogno per diventare sempre più creatore.
Amare significa dare all’amato tutte le condizioni necessarie, tutti gli strumenti. La libertà dell’altro non si può gestire, però la si può favorire o la si può mettere a repentaglio, a seconda che io metta o no a disposizione dell’altro tutti gli strumenti, tutte le condizioni necessarie perché lui possa vivere sempre di più in libertà.
Il mondo visibile è la somma dell’amore divino verso lo spirito umano. Perché? Perché il mondo visibile è la somma delle potenzialità evolutive del nostro pensiero, è la somma di tutte le percezioni che noi creativamente, come spiriti pensanti, siamo in grado di trasformare in concetti.
La somma del percepibile, che noi chiamiamo «il mondo», è la somma del pensabile, e perciò è la somma dell’amore divino allo spirito umano pensante. E quando tutti gli spiriti umani, nel corso dell’evoluzione, avranno pensato tutto il percepibile e l’avranno tutto trasformato in concetti, in pensieri puri, ci sarà la resurrezione della carne – così la chiama il testo sacro. Allora le creature non avranno più bisogno di presentarsi dal lato della percezione sensibile, ma risorgeranno dentro lo spirito umano spiritualizzate nei loro concetti, come i pensieri divini all’inizio della creazione.
Il cristianesimo chiama questo cammino del pensiero umano la resurrezione della carne: il Logos si è fatto carne, tutti i pensieri divini sono diventati percezioni, per dare la possibilità all’essere umano di trasformare ogni percezione in pensiero, in concetto, diventando in questo esercizio sempre più libero, sempre più creatore, sempre più artista nel suo modo di trasformare le creature rendendole sempre più essenziali.
Bene, basta con il mio sproloquio di introduzione. Ricorderete che a febbraio eravamo già arrivati all’inizio del secondo capitolo, dal titolo: l’impulso fondamentale alla scienza. Non vi spaventate, adesso, soprattutto chi è nuovo, se dovremo tuffarci in un testo un po’ filosofico: io lo leggo nella traduzione di Dante Vigevani, poi col commento, magari con le vostre domande, con i vostri contributi, vedremo che non c’è bisogno di sentire il testo estraneo o ostico. Basta un minimo di buona volontà, anche perché, trattandosi di una filosofia della libertà, cioè di un testo fondamentale di esercizi di pensiero per diventare sempre più liberi, sempre più creativi, c’è naturalmente anche una dimensione di esercizio.
Leggo da capo, per riprendere il filo del secondo capitolo:
CAPITOLO II
l’impulso fondamentale alla scienza
«Il mio sen due diverse anime serra
E quella vuolsi separar da questa;
La prima coi tenaci organi afferra
Il mondo, e stretta con ardor vi resta.
L’altra fugge le tenebre, e la vedi
Levarsi altera alle paterne sedi»
Goethe, Faust I
L’ho letto, ma potete dimenticarlo: la poesia non si può tradurre in poesia. In tedesco è bellissimo, ma in italiano… sarebbe come tradurre poeticamente la Divina Commedia in tedesco, fa ridere! Dicevo altre volte che bisogna avere il coraggio di capire che ciò che in un linguaggio è poeticamente esprimibile, in un altro linguaggio va tradotto in prosa, altrimenti fa ridere.
II,1. «In questi versi Goethe esprime un tratto caratteristico, profondamente radicato nella natura umana. L’uomo non è affatto un essere organizzato unitariamente. Egli chiede sempre più di quanto il mondo spontaneamente gli dia».
Cioè l’uomo ha la capacità di essere insoddisfatto, mentre nessun animale ha questa possibilità, perché se fosse insoddisfatto lo saprebbe, e sapendolo lo potrebbe esprimere. Quindi se noi diciamo che un cane e un gattino possono anche loro sentirsi insoddisfatti facciamo antropomorfismi, mettiamo dentro l’animale esperienze che sono specificamente umane.
L’animale non ha nessuna possibilità di essere insoddisfatto, non può chiedere alla natura, al mondo, alla vita, più di quanto gli danno. L’uomo è l’unico essere nel mondo visibile capace di insoddisfazione, e questo vuol dire che chiede di più, che vuole di più di quanto la natura gli dà.
Perché? Cosa ci dà la natura? La natura ci dà «il da capire». E cos’è il di più che l’uomo vuole? Il capire! La natura non ci può dare il capire: quello lo aggiungiamo noi.
Quindi l’insoddisfazione dell’essere umano dipende dal fatto che è strutturato così che ciò che il mondo gli dà non gli basta. Gli basta soltanto se lui stesso ci aggiunge qualcosa di suo: questo qualcosa è il pensare, è la conoscenza, è il capire e spiegare le cose.
(II,1) «La natura ci ha dato dei bisogni; tra questi ve ne sono alcuni per la cui soddisfazione essa si rimette alla nostra attività. Abbondanti sono i doni che ci furono largiti ma più abbondanti ancora sono i nostri desideri».
Voi mi potete dire: però ci sono anche degli esseri umani che dicono di essere soddisfatti in tutto e per tutto. Proviamo a pensarci un momentino e prendiamo sul serio una persona che dica: io sono soddisfatta in tutto e per tutto – e che non intende soltanto per una mezz’ora o un’ora, no, proprio soddisfatta sempre su tutta la linea. Che impressione ci fa? Io sono soddisfatto in tutto e per tutto!
Intervento: È un presuntuoso.
Intervento: È bugiardo.
Intervento: Pigro, soprattutto è pigro.
Archiati: Partite troppo in quarta con tutti questi moralismi, piano, andiamoci più piano! Tutte le risposte che ho sentito le chiamo «partire in quarta coi moralismi». Piano, piano. Ripeto, adesso. Uno dice: io sono soddisfatto in tutto e per tutto.
Faccio una proposta: alcuni sono andati subito dalla parte del moralismo, l’avete visto no? Però neanche sarebbe giusto l’altro estremo, l’opposto: va bene così, ha ragione!
C’è una proposta di mezzo, e l’avevo scritta sulla lavagna: che peccato! Questa è la risposta giusta!
Intervento: Non sappiamo se è realmente soddisfatto o crede soltanto di essere soddisfatto.
Archiati: No, no, sindacare sul suo dire non è giusto, noi lo prendiamo per sincero. Il caso che io ho costruito è di uno che sinceramente si sente proprio così: io sono soddisfatto in tutto e per tutto. Senza stare a sindacare. È sincero, capito? Questo caso ho presentato, però se tu dici che anche il mio dire «che peccato!» è un po’ moraleggiante, lo accetto!
Replica: Dipende dalla sua consapevolezza. Io voglio sapere se è consapevole di quello che dice. È un’altra cosa!
Archiati: No lui ti dice: io sono soddisfatto!
Intervento: Noi, come uomini, di fronte a un atteggiamento così, ci poniamo dicendo: ma come? hai conquistato tutto? Cioè, come uomini sentiamo che c’è così tanto da comprendere che ci sembra strano che uno possa essere soddisfatto…
Archiati: Ma lui non ha detto: ho conquistato tutto (io ho pensato bene alla formulazione, eh?, perché è molto importante). Lui non ha detto: ho conquistato tutto quello che c’è da conquistare – perché questo non lo potrebbe dire. Dice semplicemente: sono soddisfatto in tutto e per tutto.
Intervento: Ma non può bastare.
Archiati: Ma a lui gli basta così!
Intervento: Lui non ci mette niente. Non usa la sua potenzialità.
Intervento: Ma se fa parte della natura umana cercare sempre di più, questa è una situazione piuttosto improbabile.
Archiati: No, fa parte della natura umana poter cercare sempre di più, non doverlo fare. Perché se facesse parte della natura umana il farlo, lo farebbero tutti per natura. Quindi fa parte della natura umana il poterlo fare.
Intervento: Allora è uno già arrivato alla fine dell’evoluzione!
Archiati: No, questo non convince il pensiero perché a metà dell’evoluzione non si può essere alla fine.
Intervento: Per me è fermo e non c’è comunicazione. Cioè, non avrei piacere di incontrare un essere così, perché non mi dà niente, non mi comunica niente come uomo.
Archiati: Io credo che siamo troppo abituati a moraleggiare, è questo che io voglio dire con la parola: che peccato! Comunque questo esercizio ognuno lo può continuare dopo, ma quando io dico: che peccato!, di fronte a questa situazione concreta…
Intervento: Dai un giudizio.
Archiati: No, no sta’ attento, perché io non ho inteso dire che lo dico a lui, io ho inteso dire: io penso così. Però dicendo «che peccato!» io dico a me stesso: di fronte a un fenomeno del genere sono inerme, non posso far nulla.
Intervento: È un fatto suo interno. Non lo sappiamo. Punto e basta.
Archiati: No, perché tu stai ancora pensando se è vero o se non è vero quello che lui dice.
Replica: La domanda che faccio io è questa: esiste una persona che può dire: io sono soddisfatto in tutto e per tutto?
Archiati: Certo che ci sono, queste persone, ci sono, io le ho incontrate ed erano sincere.
Replica: Il resto non lo sappiamo!
Archiati: Cosa intendi per il resto?
Replica: Anche «che peccato!» è una svalutazione, è un andare in basso.
Archiati: No, no, no: peccato si riferisce alla sua affermazione «io sono soddisfatto in tutto e per tutto», perché o lo prendo sul serio, oppure...
Intervento: Come uomo percepisci la potenzialità nella tua vita, e se c’è uno che ti dice «sono realizzato», percepisci che c’è una potenzialità che non si è espressa.
Intervento: Ma può esistere un uomo realizzato o no?
Archiati: Si sente realizzato…
Replica: No, chiedo se può esistere un uomo realizzato.
Archiati: No, a questo punto dell’evoluzione no, altrimenti saremmo alla fine.
Intervento: Ah, non ci può essere nessun uomo che è già arrivato alla fine dell’evoluzione?
Archiati: No. Sarebbe aldilà dell’umano, già nel divino. Il prototipo dell’umano, che i cristiani chiamano il Cristo, è così difficile da esprimere in parole proprio perché è umano e non è umano: è la perfezione dell’umano. Però la perfezione dell’umano è per più della metà divino, rispetto all’umano che abbiamo a questo livello dell’evoluzione.
Si potrebbe dire: il cosiddetto uomo, l’umano, è in un dinamismo evolutivo per diventare sempre più divino – e divino significa: spirito creatore. Però se uno mi dice: sono soddisfatto in tutto e per tutto, vuol dire che si è fermato, che non va avanti nella sua creatività. Era questa un po’ la quintessenza degli interventi di tutti. Però a me interessava di dire: se io cerco di non moraleggiare su di lui, mi tocca di constatare che sono inerme, che non ci posso far nulla, che non posso dal di fuori costringere la sua evoluzione ulteriore, perché non sarebbe più libera!
Intervento: Insomma, non può esistere uno a cui basta quello che ha?
Archiati: Sì, e io dico che peccato!
Replica: Ma deve piacere il percorso.
Replica: Intendi dire solo materialmente o a tutti i livelli?
Intervento: Insomma, io dico delle frasi che intendono quello che dico e nient’altro!
Archiati: Gli basta quello che ha e quello che è!
Replica: Quello che è, certo, quello che è.
Archiati: Che peccato, se gli basta! Perché non si rende conto di tutto quello che gli manca!
Intervento: Ci sono anche dei precedenti, c’è stato un Signore che un certo giorno ha detto: Io Sono. Quello era soddisfatto o era insoddisfatto?
Archiati: Tutti e due!
(II,1) «Sembriamo nati all’incontentabilità. Il nostro impulso alla conoscenza non è che un caso particolare di tale incontentabilità.»
In altre parole, l’esercizio che abbiamo fatto appena adesso, che è complesso e quindi va benissimo che saltino fuori delle prese di posizione così vivaci, riferiamolo alla conoscenza, al pensiero: è nella natura dell’essere umano di voler capire sempre di più, di voler conoscere sempre di più, di voler spiegare sempre di più, di gioire per ogni cosa nuova che scopre.
Alcune volte per paradosso ho detto: non esiste un essere umano che gioisca perché l’altro ha capito qualcosa e lui no! Posso gioire per l’altro che ha capito, ma non posso gioire per me che non ho capito. Ci sono, innati nell’essere umano la tendenza, l’eros, il dinamismo di conoscere, di capire: a nessuno fa piacere di non capire qualcosa che si può capire, perché non capire è un momento di buio, è un momento anche di soggezione, ci si assoggetta ad altri che capiscono le cose e che quindi possono anche manipolarci.
(II,1) «Supponiamo di guardare un albero due volte, e di vedere la prima volta i suoi rami in riposo e la seconda in movimento: non ci contenteremo dell’osservazione in sé ma ci domanderemo perché l’albero ci si presenti una volta in riposo e l’altra in movimento».
E scopriamo come spiegazione il vento, l’aria: siccome c’è il vento, quando l’aria si muove un pochino più forte anche le foglie si muovono, quando l’aria invece è più statica le foglie non si muovono. Vogliamo una spiegazione.
(II,1) «Ogni sguardo che gettiamo attorno suscita in noi una quantità di domande. Con ogni fenomeno che ci si presenta ci viene dato un problema {l’altra volta ho spiegato il senso della parola «problema» partendo dalla parola greca[2]}. Ogni esperienza si trasforma per noi in un enigma. Se vediamo, dall’uovo deposto dalla madre, uscire un animale simile ad essa, ci domandiamo la ragione della somiglianza. Osserviamo la crescita e lo sviluppo di un essere vivente, fino a un determinato grado di perfezione: e noi ricerchiamo le condizioni di questa esperienza. Mai siamo soddisfatti di quello che la natura dispiega davanti ai nostri sensi. Cerchiamo dappertutto ciò che chiamiamo la spiegazione dei fatti.
II,2. «Quel sovrappiù che noi cerchiamo nelle cose, oltre a ciò che esse immediatamente ci offrono, scinde tutto l’essere nostro in due parti: noi diventiamo coscienti di un’opposizione fra noi e il mondo. Ognuno di noi si contrappone al mondo come un essere indipendente. L’universo ci appare nei due contrapposti: io e mondo».
L’animale non si tira fuori dal mondo, l’animale non dice io: io e le cose che percepisco, io e le cose su cui penso… L’essere umano è quell’essere specifico che si vive come contrapposto, come stante di fronte al mondo. E cosa intende per «mondo», l’io umano?, cosa chiama «mondo»? Tutto ciò che non è io è mondo.
Fig. 1
È soverchio, è esagerato, è sbilanciato porre da un lato l’io, che sembra una cosa piccola piccola, un vermicino piccolo, piccolo, e dal lato contrapposto porre il mondo? È una cosa sbilanciata? (Fig. 1) Il mondo sembra una realtà enorme, infinita! E io? Sono una realtà piccola? No! La corrispondenza è assoluta, non c’è nessuno squilibrio, nessuno sbilanciamento, perché tutto ciò che fa parte del mondo può diventare un contenuto di pensiero e di amore dell’io. La corrispondenza è perfetta.
Fig. 2
Quindi l’io è un mondo in divenire. L’evoluzione dell’io è di diventare tutto il mondo accogliendolo dentro di sé in chiave di pensiero. Questo da un punto di vista filosofico. Se poi lo volete a
livello esperienziale, a livello del vissuto, allora non c’è bisogno di spiegazione, perché è quello che ognuno vive. Se ognuno di noi riflette su quante volte in una giornata dice «io» (saranno perlomeno alcune centinaia, se non di più), sa anche che tutto il resto è il non io.
Adesso un’altra immagine: l’io è dentro al mondo, dentro al mondo si illumina questo spirito umano che è l’io, l’autocoscienza, lo spirito umano pensante che è capace di pensare tutto il mondo. (Fig. 3)
L’io è dentro al mondo, però è tutt’altra la sua dimensione. Qual è la differenza assoluta tra mondo e io? Il mondo c’è già, è un fatto di percezione: il mondo è oggettivo. Io sono in divenire, io ci sono nella misura in cui divento mondo, nella misura in cui accolgo dentro di me tutto il mondo rendendolo contenuto del mio pensare artistico e creante.
Fig. 3
Allora diciamo che il mondo è stato creato per dare all’io umano la possibilità di ricrearlo.
L’io umano è lo spirito che ricrea il mondo.
Una cosa bellissima, particolare del linguaggio italiano, è che questo ricreare è… una ricreazione! Da dove sono saltati fuori i due significati di «ricreazione»? Ricreazione significa creazione fatta a nuovo e significa anche una bella goduta. Ricreare il mondo è un ricrearsi in quanto spirito umano, e in questo ricrearsi ci si ricarica di energie.
Quando eravamo ragazzi si studiava, si studiava, si sentivano i professori per un’ora, due ore e poi si andava a fare un po’ di ricreazione. Il che significa: quello che ti diceva il professore era una pizza che non finiva più, altro che ricreazione!, poi andavi fuori e diventavi un pochino più attivo, un po’ più creativo, e quella era la ricreazione. Sennò, scusate, se l’esercizio che si faceva a scuola nella lezione fosse stato creativo, sarebbe stata lì la ricreazione, no? Invece ti faceva venire una barba che non finiva più, e allora dovevi uscire a fare la ricreazione.
La ricreazione più bella è quella che avviene ricreando il mondo nello spirito che pensa, perché ricrea e ricarica l’io, lo riempie di contenuti all’infinito.
Allora, ho finito di rileggere quanto avevamo già letto a febbraio del II capitolo, e adesso cominciamo la parte nuova:
II,3. Erigiamo questo muro divisorio fra noi e il mondo appena spuntano in noi i primi bagliori della coscienza {il bambino molto piccolo non parla di io e mondo}. Ma non perdiamo mai il sentimento che apparteniamo al mondo, che esiste un legame che ci unisce con esso, che siamo dentro e non fuori dell’universo {perciò nella terza figura ho messo l’io dentro il mondo}.
II,4. Questo sentimento suscita in noi la spinta a gettare un ponte fra le due rive contrapposte: nel superamento di tale contrapposizione consiste, in ultima analisi, tutto lo sforzo spirituale dell’umanità.
Come si supera la contrapposizione tra io e mondo? Facendo diventare tutto il mondo contenuto dell’io: io divento mondo e il mondo diventa io.
Nella conoscenza, nel pensare il mondo diventa io, nell’attività artistica, visto che siamo in Italia, l’io diventa mondo.
Però questi «oracoli» li dovete prendere come mantram di meditazione, non così, come dogmi. Sono buttati lì per pensarci un pochino, e come avvio di pensiero possono servire.
Il mondo diventa realmente un contenuto dell’io nel pensare, ma il mondo non può diventare un contenuto dell’io nell’attività artistica. Nell’attività artistica il mondo stesso viene trasformato in forma di io.
Il pensiero umanizza il mondo, e l’arte «mondifica» l’uomo, rende l’uomo mondano, nel senso più mondo della parola. Beh!, che levata d’ingegno ha avuto il genio del linguaggio italiano! La stessa parola che significa mondo significa anche «puro»: mondo e cuore mondo, perché il mondo è puro, e più puro del mondo non c’è nulla. Il mondo sono pensieri divini.
Quindi l’io diventa mondo, diventa puro nell’attività artistica e il mondo diventa umano nell’attività del pensiero.
Sì, si può dire. Calza, calza. Solo che il tema va esposto, va… va (la prima sera mi vengono un sacco di parole tedesche, poi il giorno dopo va un po’ meglio...)… va svolto.
(II,4) La storia della vita dello spirito è una continua ricerca dell’unità fra noi e il mondo {meglio ancora fra io e il mondo}. Religione, arte, scienza perseguono ugualmente questo scopo. Il credente {di cui parlavamo prima} cerca nella rivelazione di cui Dio lo fa partecipe la soluzione degli enigmi universali che gli vengono posti dal suo io, insoddisfatto del semplice mondo dell’apparenza.
Cos’è Dio? Faccio una proposta: visto che questo Dio fantomatico a cui si crede è soltanto escogitato, a un livello un pochino più reale Dio è la somma di tutti i concetti di tutte le percezioni. Perché tutti i concetti dietro alle percezioni sono i pensieri divini, e la somma dei pensieri divini è Dio.
Intervento: Pensavo che Dio fosse al di sopra dei suoi pensieri.
Archiati: Seduto sopra o sdraiato sopra?
Replica: Nel senso che pensavo non si identificasse nei suoi pensieri.
Archiati: Tutte metafore spaziali, materialistiche, sta’ attento!
Replica: Dico questo perché Dio potrebbe pensarne ancora di più, di pensieri, quindi non può essere…
Archiati: Allora è carente?
Replica: Sì, se lo identifichiamo nei suoi pensieri, in quelli che ha pensato, perché Lui ha la possibilità di pensarne ancora di più.
Archiati: Se se ne possono pensare di più è un povero diavolo, questo Dio! Perché non è ancora arrivato a pensarli tutti, i pensabili. Non mollare, non demordere continua, eh?!, io sono fatto apposta per...
Replica: È come noi.
Archiati: E no, adesso scendi nell’umano.
Replica: Faccio un parallelo, e mi viene da pensare questo: come noi siamo di più della somma delle nostre parti…
Archiati: No, non lo concedo questo: l’organismo non è di più della somma delle sue parti. Lo è qualitativamente, non quantitativamente.
Replica: Quantitativamente no, qualitativamente sì, quindi tanto più questo dovrà valere per Dio.
Archiati: Ma è un discorso che per Dio non vale qualitativamente e il quantitativo non c’è, in Dio. Riprendiamo il Logos: il Logos è il figlio di Dio, la seconda persona della Trinità, quello che i cristiani chiamano il Cristo e che il Vangelo di Giovanni, Aristotele e i greci chiamavano Logos.
Cosa vuol dire? Me lo spieghi? Chi è questo signorino?
Replica: È il concetto che sta dietro alle cose.
Archiati: Eh, ma volevo che tu me lo dicessi meglio, però! Sta dietro il sipario?
Replica: Che genera le cose, che le crea.
Archiati: No. Cos’è il Logos?
Replica: Il concetto, la Parola in quanto...
Archiati: No, Logos lo prendo dalla parte di «logica»: Logos in greco non significa soltanto Parola, Verbo, significa anche pensiero, significa la logica e questo è un significato ancora più importante che non «la parola», perché la parola esprime il pensiero ab extra, però l’origine della parola è il pensiero.
Allora chi è questo Logos?
Replica: È l’Essere universale.
Archiati: Uno spirito creatore il cui Essere è intessuto di tutti i pensieri del cosmo, in lui organizzati in un organismo unitario. Quindi l’essere che pensa e il pensato non sono scindibili! È questo che volevo dirti: dal momento in cui li scindi sei fuori dallo spirito. Lo spirito è pura immanenza.
Replica: Ripensavo al concetto dell’orologio…
Archiati: Dell’orologio? Eh, allora è materiale.
Replica: Sì, e infatti l’orologio è di più della somma delle sue parti.
Archiati: Certo, perché c’è un elemento di estrinsecazione.
Replica: Esatto, perché io posso mettere le singole parti dell’orologio, le singole rotelle tutte in fila e non ho un orologio. Giusto?
Archiati: Prendi un organismo che è meglio.
Replica: Allora, prendendo l’organismo è lo stesso: non è la somma delle sue parti, è di più.
Archiati: Beh, la somma è il cadavere.
Replica: Esatto. Allora io mi chiedo: questo vale altrettanto per il Logos? Per un Essere che è intessuto di tutti i suoi pensieri?!
Archiati: Non si possono in cinque minuti capire fino in fondo questi misteri ultimi, non si possono dar rispostine a queste domande fondamentali. Allora, ti do un avvio di pensiero, solo un avvio.
Il Logos è un Io in quanto spirito creatore, ha un’anima – chiamiamola corpo astrale – ed è tutto l’amore, poi ha un corpo eterico che sono tutti i pensieri, un tessuto di pensieri – tutto il pensabile è il suo corpo eterico.
In altre parole, ogni essere reale ha quattro dimensioni fondamentali: 1) un io, 2) un corpo astrale, quindi un elemento di anima, di amore, 3) un corpo eterico, che è un tessuto di pensieri, e poi questi pensieri diventano 4) fisicamente percepibili per l’uomo: il pensabile è il percepibile, il percepibile è il Logos fatto carne.
Però, quando noi diciamo che il Logos è percepibile nelle percezioni, è pensabile attraverso i nostri pensieri, è amabile col nostro amore, non ci riferiamo al Logos in quanto suo Essere, ma in quanto sua manifestazione ab extra, nel modo in cui si rende percepibile, accessibile a noi. C’è una differenza tra ciò che la mamma è nel suo essere, e ciò che è in rapporto col bambino.
Allora, queste tre dimensioni di estrinsecazione del divino, del Logos – amare, pensare e percepire – questi tre livelli di estrinsecazione sono per dare all’essere umano la possibilità di riportarlo dentro, in modo che tutte le percezioni vengano trasformate in pensieri, e tutti i pensieri nell’elemento dell’amore artistico vengano trasformati in sostanza dello spirito umano.
Dico questo come avvio di pensiero, eh?, non è una risposta che dice: adesso ho in mano tutto, ho capito tutto. No, non si può! È una pulce nell’orecchio, è una specie di falsariga su cui posso camminare, però i pensieri sono tutti da pensare.
Analogo è il discorso quando ci chiediamo: la Divinità è una o è trina?
Intrinsecamente, in sé, può essere soltanto una, altrimenti è divisa, è frammentata, ha elementi contro se stessa ecc. Quindi, in quanto Essere in se stesso, la Divinità può essere concepita soltanto come unitaria. Trinitaria diventa nel suo modo di rapportarsi col mondo, non in sé:
1. agisce nel mondo con potenza, e questo tipo di agire lo riferiamo alla Divinità in quanto Padre;
2. agisce nel mondo con amore, e questo tutt’altro tipo di agire lo riferiamo alla Divinità in quanto Figlio;
3. e agisce nel mondo in quanto Spirito Santo, in quanto luce offerta allo spirito umano per diventare uno spirito creatore perché pensa. E questo modo di interagire col mondo, con l’umano, dove a te viene data la possibilità di diventare un frammento di Spirito Santo, lo chiamiamo saggezza.
Agire nel mondo con potenza (tutti i determinismi di natura sono un agire di potenza del divino, guai se perdesse colpi!), agire nel mondo con amore e agire nel mondo con sapienza sono tre modi completamente diversi di interagire, di rapportarsi col mondo, ma non fanno tre Divinità, non fanno un politeismo.
Nella filosofia scolastica, già nel primo trimestre, si diceva: se uno non esercita la capacità di distinguere i vari livelli, poi si trova a doverli dividere, però il dividere è proprio del fisico. Quando io invece distinguo vari elementi non li divido uno dall’altro, li differenzio!
Una donna, in quanto mamma di un bambino piccolo, agisce così, così, così, in quanto moglie di suo marito agisce in tutt’altro modo: sono due persone? No. Distinguo i modi di interazione. Bisogna distinguere, ma non dividere in più persone: distinguere aspetti diversi del cosmo. Anche distinguere l’attività pensante dell’essere umano, l’attività artistica, l’attività religiosa, non significa fare di lui diversi esseri.
L’arte del pensare è l’arte del distinguere: sotto questo aspetto va così, sotto quest’altro aspetto va così, sotto quest’altro ancora va così. Noi si diceva: distinguo; e poi veniva sub-distinguo; e poi veniva sub-sub-distinguo; poi sub-sub-sub-sub-distinguo. Steiner dice che la tecnica del pensiero, dove si dà conto di ogni minimo passo compiuto nel pensare, non è mai stata superata ed esercitata dal tempo della Scolastica. Proprio la tecnica del pensiero.
E La filosofia della libertà vive di questa tradizione aristotelica e tomistica e quindi è tutto un esercizio di capire le cose sempre meglio distinguendo.
Rileggo: II,4 «Il credente cerca nella rivelazione di cui Dio lo fa partecipe la soluzione degli enigmi universali che gli vengono posti dal suo io, insoddisfatto del semplice mondo dell’apparenza».
(II,4) L’artista cerca di imprimere nella materia le idee del suo io, per riconciliare col mondo esteriore ciò che vive nel proprio intimo.
Michelangelo, un esempio che ho citato molte volte, vuol creare artisticamente un Mosè: qual è il concetto di Mosè?
Il fenomeno primigenio di Mosè è quello di far da ponte tra due mondi: sul monte ha ricevuto le tavole dei dieci comandamenti, poi scende dal monte – quindi scende dai mondi spirituali, dal colloquio col divino – e trova l’umanità col vitello d’oro. Allora sorge in lui l’ira di fronte a un’umanità dimentica del divino, e sbatte le due tavole dei comandamenti, le spezza!
Michelangelo, da artista, ha questo concetto del Mosè e lo vuole esprimere nel marmo: che tipo di interazione è tra io e mondo?
Il marmo è un pezzo di mondo e l’io (l’io dell’uomo) dice: marmo, ti trasformo! Tu sei informe, sei rozzo, e io ti trasformo in un Mosè. Così Michelangelo trasforma un pezzo di mondo in un frammento di io, perché quel Mosè è un concetto dell’io di Michelangelo.
Inizialmente ne ha fatto uno, ma non era in tutto e per tutto il Mosè che il suo io portava dentro di sé: l’ha preso a martellate, lo ha distrutto, e ne ha fatto un altro!
Adesso sì, sì, sì!, questo è il Mosè! Quale? Quello che Michelangelo alberga e porta nel suo io. L’artista trasforma il mondo imprimendogli l’immagine dell’io, il sigillo dell’io.
(II,4) Anch’egli {l’artista} si sente insoddisfatto del solo mondo dell’apparenza e dentro ad esso cerca di versare quel di più che si cela nel suo io. Il pensatore {abbiamo visto il religioso, l’artista, e ora il pensatore, lo scienziato} cerca le leggi dei fenomeni, vuole compenetrare pensando ciò che osservando sperimenta. Soltanto quando siamo riusciti a fare del contenuto del mondo il contenuto del nostro pensiero {cioè il contenuto del nostro io}, ritroviamo il nesso dal quale noi stessi ci eravamo disciolti. Vedremo più avanti che questo scopo si può raggiungere soltanto se il compito dello scienziato viene compreso molto più profondamente di quel che spesso non avvenga {la scienza materialistica pensa che descrivendo i fenomeni si sia fatto tutto quello che c’è da fare}. Tutta la situazione che qui ho esposta appare storicamente nel contrasto fra la concezione unitaria dell’universo o monismo, e la teoria dei due mondi, o dualismo.
Vedremo poi domani che il monismo dice: c’è unità tra io e mondo. Il dualismo dice: c’è una spaccatura. La matrice di pensiero dualistica parte dal convincimento che c’è una spaccatura insormontabile tra io e mondo; il monismo invece è l’affermazione di fondo che c’è un’unità originaria, primigenia tra io e mondo.
Abbiamo già risolto tutti i problemi o state già cominciando ad andare a tuffarvi nelle braccia di Morfeo?
Una buona notte, ci vediamo domani.
Venerdì 28 settembre 2007, mattina
Una buona giornata a tutti, una giornata che vogliamo spendere in compagnia de La filosofia della libertà, cioè in compagnia di pensieri che sono i più fondamentali sull’essere umano che ciascuno di noi è. In quanto pensieri fondamentali, colgono il nocciolo dell’uomo, e il nocciolo dell’uomo è la libertà. Per libertà si intende l’essenza dell’umano, cioè la capacità, la facoltà, la chiamata, il dinamismo evolutivo di essere sempre più artisticamente creatori: questo significa libertà.
Tutto è stato messo a disposizione dell’essere umano per farne materiale di esperienza di libertà, perché l’esperienza della libertà è la sua essenza.
Ora, questa libertà parte dal pensiero, perché va capita, e se uno non la capisce … Tutto ciò che è umano parte dal pensiero, però se il pensiero coglie l’essenza dell’umano, questa essenza è talmente convincente (proprio perché ognuno la sente come sua essenza) che fa sorgere una sfera del sentimento molto più forte, più intensa, più gioiosa, che non tutta la sfera del sentimento che si vive spontaneamente senza ragion veduta, senza il convincimento che il sentire più profondo è quello che si riferisce alla libertà: attraverso il pensiero, ecco di nuovo la libertà.
La sfera del sentimento, quella più calda, quella più profonda, quella più vivace, quella più forte, quella più intensa (aggiungete quanto volete) è quella che non sorge da sola. Il sentimento che sorge da solo è pallido in confronto al sentimento che sorge in base al pensiero che pensa la libertà, che comprende la libertà, che approfondisce la libertà, che capisce sempre di più i misteri infiniti della libertà.
E poi, naturalmente, c’è la terza sfera: nella misura in cui la cosiddetta «libertà» (la metto tra virgolette) viene compresa come l’essenza dell’umano – compresa significa pensata sempre più profondamente in tutte le sue dimensioni –, fa sorgere la sfera più intensa del sentimento, e soprattutto fa sorgere nell’uomo la sfera ancora più forte, quella delle forze di volontà più irresistibili che si possano immaginare.
Qual è il concentrato più irresistibile della volontà? È l’essere umano che scappa via, che non si ferma, non si ferma, non si ferma!
È la volontà che ama (sentimento) la libertà compresa (pensiero) e la vuole realizzare! È la volontà che ama intensissimamente la comprensione a livello di pensiero della libertà e quindi non può far altro che realizzarla. Volerla e realizzarla.
L’essenza dell’umano è capire, amare e volere la libertà propria e di ogni altro essere umano. La libertà mia la devo realizzare io, la libertà dell’altro la deve realizzare lui. Però si può far tantissimo per rendergliela possibile.
Cos’è allora il mondo? L’amore divino alla libertà dell’uomo. Perché il mondo è l’insieme delle condizioni necessarie per l’esercizio umano della libertà, del creare artisticamente. Questa è la libertà: creare artisticamente nel pensiero, nell’amore, nel volere, nell’agire.
Naturalmente, visto che stiamo parlando dell’essenza dell’umano, ci è concesso di balbettare un pochino perché siamo agli inizi di questa presa di coscienza. Questo testo è stato scritto cento anni fa, non mille anni fa, non duemila anni fa, e gli esseri umani che l’afferrano sono pochissimi. Anche nel campo di coloro che coltivano la scienza dello spirito, non è che dappertutto si mette al centro questo testo fondamentale dello spirito umano creatore.
Quindi siamo agli inizi, ci è concesso di balbettare, e quello che ho cercato di dire come il nocciolo dell’umano lo potrete dire con altre parole, con altra terminologia: però io parto dal presupposto che nella misura in cui ci capiamo, la vostra testa, il vostro cuore, le vostre energie volitive dicono sì, sì, sì, è così! Sennò, magari non subito ma al momento del dibattito, dovreste farvi sentire: no non è così, io interpreto l’umano in altro modo.
Io parto dal presupposto che la vostra testa, il vostro cuore dica: sì, sì, in fondo è così, non si scappa! L’importante è rimettere sempre a fuoco l’essenza dell’umano, quindi la parola libertà non si riferisce a «qualcosa» dell’umano, ne è l’essenza. Libero è lo spirito creatore, della stessa natura dello spirito divino: spirito è spirito. È come l’oceano, un’enormità: eppure una goccia, una piccola goccia di quell’acqua, ha la stessa natura dell’oceano. La natura di quell’acqua è la stessa.
Lo spirito umano sarà, in quanto ad articolazione, esile, piccolo, ancora circoscritto, limitato, però la natura dello spirito dentro l’uomo è tale e quale alla natura dello spirito divino. Nella Bibbia c’è già subito all’inizio: il Creatore, la Divinità, Dio, chiamatelo come volete, non ha potuto far altro che creare l’uomo a sua immagine e somiglianza. Spirito crea spirito, lo spirito non può crear materia, tant’è vero che la materia non esiste.
Uno degli esercizi che dovremo fare, soprattutto nella prima parte de La filosofia della libertà, è sempre di nuovo l’esercizio che in chiave di pensiero vanifica la cosiddetta materia, perché soltanto vanificando la percezione, il mondo della percezione in quanto tentazione di realtà, soltanto superando questa tentazione del mondo visibile – che mi si presenta come se fosse una realtà ma di fatto non lo è, perché sorge e poi sparisce e tutto ciò che sparisce non è una realtà –, facendo questo esercizio di ritrovare la nullità della cosiddetta materia, rientriamo, ricostruiamo, facciamo l’esperienza della realtà dello spirito.
Quindi cos’è la materia? È l’inganno dello spirito che dà all’uomo la possibilità di disingannarsi, perché disingannandosi trova se stesso.
Intervento: Come hai detto, precisamente? Puoi ripetere?
Archiati: Io le mie frasi non le imparo a memoria, che ne so io cosa ho detto? E se poi tu la frasetta l’hai scritta tutta bella sul foglio, è percezione, capito? È un inganno, e la cosa funziona solo se tu ti disinganni di fronte a questa percezione, capito? Altrimenti diventi una discepola del guru Archiati che butta lì oracoli, oracoli.
Replica: È che mi ha colpito quello che hai detto e lo volevo mettere a fuoco.
Archiati: E tu che ci stai a fare? Rimettilo a fuoco tu, che ne so io cosa ho detto un minuto fa…, mi hai interrotto! Al di là dello scherzo: tu vieni colpita da un pensiero, quello da un altro, quell’altro da un altro ancora, e io non posso stare a ripetere tutto quanto. Perciò l’accordo fra noi è quello di dare a chi sproloquia qua davanti almeno un’ora di tempo per parlare senza interruzioni. Illeso!
Ho sempre detto che un oratore non perde mai il filo del discorso perché non ce l’ha! Allora, eravamo al punto dell’io e il mondo: c’è un dualismo, ci sono due mondi, due realtà – io e mondo – o è una realtà sola?
All’inizio c’è l’inganno delle due realtà, e il senso di questo inganno (vedi che ti ripeto il tema con una variazione?) è la possibilità che offre di disingannarsi.
Che esperienza è il disinganno? Una bella esperienza: mi ero fatto fregare, dicono a Roma, ma adesso me ne sono accorto, e la seconda volta non mi frega più! Cioè, man mano che io esercito il capire che la separazione tra io e mondo è un inganno, io mi disinganno, ricreo sempre di più l’unità, l’unione tra io e mondo nel pensiero e mi lascio sempre meno ingannare.
Il mondo è io e io sono il mondo: prima che mi inganni sono già subito disingannato, cioè il processo di pensiero diventa sempre più veloce.
Qual è la differenza tra il pensare divino e il pensare umano? – tutte metafore, eh?, divino e umano sono metafore. Il pensare divino lo possiamo chiamare il pensare umano più evoluto, se vogliamo: il divino è la prospettiva evolutiva dell’umano, e la differenza è una differenza di velocità.
Qui è il passato, qui è il futuro, inizio e fine: in mezzo metteteci millenni e millenni di evoluzione: noi siamo qui nel presente, 2007.
Ora, il pensare umano va più lento perché il passato se l’è in gran parte dimenticato, il futuro non lo conosce. La coscienza divina, il pensiero divino, è così veloce che abbraccia tutto.
Nella coscienza divina è tutto presente. Quindi l’evoluzione del pensiero è tutta una questione di quanto il mio pensiero abbraccia nell’insieme, contemporaneamente – non una cosa dopo l’altra, che poi mi dimentico. Il cammino del pensiero è lo sguardo d’insieme.
Nella coscienza divina tutto il nostro passato è adesso, è presente, tutto il nostro futuro è presente. Per noi non è presente, questa è la differenza.
Ho fatto spesso il paragone con la coscienza di un bambino: la coscienza dell’adulto è divina rispetto alla coscienza del bambino. Perché? Perché l’adulto abbraccia parecchi giorni: oggi ha ancora bene in mente ieri, tante cose di ieri, pianifica il domani… L’adulto abbraccia nella compresenza della coscienza diversi giorni, il bambino invece vive soltanto il momento presente.
Quindi l’evoluzione del pensiero è – oltre ad altre cose, naturalmente – una questione di vastità, perché la vastità articola insieme organicamente il tutto dell’evoluzione.
In pratica, la parola libertà, l’essenza dell’umano, dove la mettiamo nello schemino di prima? All’inizio, a metà o alla fine? La libertà è il tutto, e quindi vedete che questo è già un inizio di sguardo d’insieme che ci libera, perché nel momento in cui io ho uno sguardo d’insieme mi oriento molto meglio che non se rimango fissato su un momentino senza sapere da dove viene, senza sapere dove va.
Ciò che chiamiamo libertà è il tutto dell’evoluzione umana.
All’inizio la libertà è una potenzialità ancora vuota, alla fine è una potenzialità del tutto realizzata, se vogliamo dire così: ma tutta l’evoluzione è sempre questione di libertà.
Allora, eravamo al quarto paragrafo: II,4. «Tutta la situazione che qui ho esposta appare storicamente nel contrasto tra la concezione unitaria dell’universo o monismo e la teoria di due mondi o dualismo»
(II,4) Il dualismo rivolge lo sguardo soltanto alla separazione, compiuta dalla coscienza dell’uomo, fra l’io e il mondo {la separazione tra io e mondo la compiamo noi: per il bambino piccolo non c’è, per l’animale non c’è. Quindi chi opera questa separazione tra io e mondo, chi ne parla? L’uomo stesso, che si costituisce come io e quindi si pone di fronte al mondo}. Tutto il suo sforzo non è che una vana lotta per riconciliare questi opposti che esso chiama ora spirito e materia, ora soggetto e oggetto, ora pensiero e fenomeno {pensiero e percezione}. Ha il sentimento che deve esservi un ponte fra questi due mondi, ma non è in grado di trovarlo {all’inizio}. In quanto sperimenta se stesso come «io» l’uomo non può pensare questo «io» altrimenti che ponendolo dal lato dello spirito; e in quanto a questo «io» contrappone il mondo, egli deve assegnare a quest’ultimo tutte le percezioni dategli dai sensi, cioè il mondo materiale.
Io sono spirito e il mondo è la cosiddetta materia. E allora sorge la domanda: come possono spirito e materia – che sono una contraddizione, che sono contrapposti l’uno all’altra – come possono entrare l’uno dentro l’altra, come possono capirsi? Se lo spirito è l’opposto della materia come può lo spirito capire il suo opposto? Se la materia è per natura estrinseca allo spirito, come può unificarsi con lo spirito? Questa è la problematica!
(II,4) Con ciò l’uomo stesso si inserisce nella contrapposizione tra spirito e materia; e tanto più deve farlo, in quanto il suo corpo appartiene al mondo materiale.
Quindi non è soltanto che io sono qui, in quanto spirito, e il mondo della materia è là, ma in me stesso c’è sia lo spirito, in quanto io sono un essere pensante, sia il mondo della materia, in quanto ho un corpo. Il mondo della materia ce l’abbiamo dentro noi stessi.
Inoltre, poiché l’umanità è diventata sempre più materialistica – nel senso che il mondo della materia è diventato sempre più forte nel suo modo di imporsi mentre lo spirito umano, per peccati di omissione, come dicevamo ieri, è diventato sempre più esile –, l’autoesperienza normale dell’uomo d’oggi (col supporto della neurobiologia e delle scienze naturali moderne in generale) è questa: il mio corpo mi è molto più essenziale che non il cosiddetto spirito. Ciò che chiamiamo spirito, coscienza, è in fondo una produzione della realtà biologica, è qualcosa che salta fuori dalla combinazione dei geni.
Quindi l’uomo d’oggi, come autoesperienza di partenza, come inganno di partenza col compito di disingannarsi, fa nel suo essere l’esperienza di dire: no, reale in me è la biologia, reale in me è il mio corpo. I pensieri, i sentimenti ecc. sono in fondo un risultato di tutto ciò che il sostrato biologico mi ha dato per eredità, per educazione, in base all’ambiente ecc.
Ieri, sull’aereo, c’era un anziano di Boston, Stati Uniti. Abbiamo fatto una bella chiacchierata visto che l’aereo aveva già ritardo, e lui diceva (proprio interessantissimo): sì, in effetti io sarei molto più contento se dopo la morte restasse qualcosa, però la mia testa mi dice che no, non resta nulla. Il suo cuore gli diceva: sarebbe bello se restasse qualcosa, però la sua testa di scienziato gli diceva: una volta che il corpo è via, che ti resta? Nulla!
E io gli dicevo: ma allora come la risolvi? Eh, staremo a vedere, per ora me la godo, la vita! Io, diceva, sono stato fortunato – avrà avuto tra i 70 e gli 80 anni – perché c’è gente che muore da piccola, oppure fa una vita tribolata. Io ho avuto abbastanza fortuna.
C’è questo essere presi dal mondo materiale, sempre in mezzo alle attività, ci sono tante cose da fare, per cui il cosiddetto spirito è stato messo molto in secondo piano, se addirittura ancora se ne parla e lo si ritiene una realtà.
Questo inganno è diventato talmente esistenziale che è l’essenza dell’autoesperienza dell’uomo moderno. L’esperienza di sé che l’uomo d’oggi ha è per essenza un inganno, è l’inganno fondamentale che la materia sia realtà e il cosiddetto spirito sia un effetto della materia, per cui non può esserci senza la materia. E io aggiungo: va benissimo che ci sia questo inganno di partenza, se lo interpretiamo come compito di disingannarci.
A meno che uno dica (l’abbiamo già fatto ieri sera, questo esercizio ): no, no, a me sta bene così! Se uno si accontenta di poco, si accontenta di poco. Io posso pensare, magari non glielo dico, ma lo posso pensare: eh, poveretto, ti contenti di poco! Si potrebbe aver di più! Però lui si accontenta di poco.
C’è anche un altro esercizio di pensiero che abbiamo fatto e che dovremmo ripetere. Supponiamo che il Creatore dell’uomo sia di fronte a questo individuo che si accontenta di poco e che dice: a me va bene così, non voglio disingannarmi, non voglio coltivare lo spirito. Supponiamo poi che il Creatore dell’uomo dica: no, no, no, non sei stato creato per accontentarti di poco, sei stato creato per molto di più. Ecco allora che il Creatore deve mettere nella natura umana qualcosa che lo renda scontento, così sarà soddisfatto per un paio di giorni, magari per un tempo più lungo, ma prima o poi dovrà diventare insoddisfatto, altrimenti i conti non tornano, altrimenti è nella natura dell’uomo di accontentarsi con poco.
E qual è l’espediente divino, posto nella natura umana, che aiuta l’essere umano a non accontentarsi di troppo poco, e a volere sempre di più? Nel corpo è la malattia, e nell’anima è la depressione, la scontentezza, la sofferenza.
Intervento: Quello per cui dicevamo: che bellezza! Cioè, ieri, di fronte all’essere umano che si accontenta, che è contento di tutto così com’è, dicevamo: che peccato! Adesso, di fronte alla sofferenza, diciamo: che bellezza!
(II,4) Così l’«io» appartiene allo spirituale, come una parte di questo, mentre le cose e i processi materiali, che vengono percepiti dai sensi, appartengono al «mondo». Tutti gli enigmi che si riferiscono a spirito e materia, l’uomo deve ritrovarli nell’enigma fondamentale del suo proprio essere.
Lo spirito in me, la materia in me. E difatti ci sono, ognuno ritrova questi due estremi della realtà, perché ognuno è dotato di mente e, anche se non se ne rende conto, mette sempre in moto un processo di pensiero, per quanto iniziale, e al contempo ognuno di noi è direttamente alle prese con l’elemento biologico. Già il semplice ciclo quotidiano delle 24 ore – il dover mangiare diverse volte, il dover dormire, vegliare ecc… – fa dell’essere umano uno spirito incarnato nel mondo, incarnato nella materia.
A differenza dei cosiddetti Angeli, che sono «le sostanze separate»: Platone chiamava gli Angeli «sostanze» (cioè esseri spirituali) separate dalla materia. Anche Tommaso d’Aquino ha scritto un intero trattato sugli spiriti angelici come spiriti separarti dal mondo della materia. Quindi lo spirito umano è l’unico spirito (gli animali, le piante e le pietre non sono spiriti) che vive dentro l’elemento della materia. Di questo tipo di esperienza i cosiddetti Angeli non hanno un’idea, non sanno cosa sia, perché sono spiriti puri, non incarnati.
Quindi io e mondo, tutti e due, sono dentro di me: non ho bisogno di guardare fuori di me per trovare il mondo, lo porto proprio in me. Se pensiamo alla neurobiologia degli ultimi 10-15-20 anni, praticamente il tutto viene interpretato come interazioni tra i fattori di coscienza e il sostrato del cervello (con tutte le complessità delle sinapsi ecc.), in quanto il cervello è un sostrato percepibile, ponderabile e materiale. L’interpretazione comune è che esso, con tutta la sua realtà neurobiologica, è la realtà causante e che tutti i fenomeni di coscienza sono l’effetto. Non l’opposto.
Questo dogma della scienza va sempre di nuovo rivisto, dobbiamo sempre di nuovo fare esercizi di pensiero. La filosofia della libertà è un metodo del pensiero, e un metodo serve per fare esercizi, esercizi, esercizi. La metafora del metodo è proprio importante perché quando uno vuole imparare a suonare l’armonium, ai tempi miei, o il pianoforte, c’è il metodo: il metodo è pieno di esercizi, esercizi più facili poi sempre più complessi. Ora, il senso del metodo è di imparare gli esercizi a memoria? No, è da stupidi: tu fai e rifai gli esercizi, poi li dimentichi tutti e sai suonare.
Ugualmente, man mano che tu fai e rifai e rifai tutti gli esercizi di pensiero che sono in questo metodo – ed è il metodo più bello che ci sia, il più consono e adatto per imparare l’arte del pensare –, tu poi li dimentichi tutti perché lo scopo non è quello di imparare a memoria gli esercizi, ma di imparare sempre meglio a pensare. Più sai pensare tu stesso e meno hai bisogno del metodo – casomai lo puoi scrivere tu, un metodo. Quindi La filosofia della libertà raggiunge il suo scopo quando l’individuo è capace di scriverla lui – a libro chiuso, però, eh?, non copiando!
Quindi non mi dite: sì però tu questo l’hai già detto! Sarebbe come dire: no, io questo esercizio di pianoforte che sta a pagina 5 l’ho già fatto! Sono esercizi che vanno sempre di nuovo ripetuti, e non è il ripetere in sé che è importante: sarebbe bello che ogni volta ognuno di noi facesse l’esperienza di dire ah, sono andato un pochino più avanti, sono diventato migliore, lo so fare da me… Però gli esercizi sono gli stessi, quello di pagina 4, quello di pagina 10, però ogni volta ho bisogno sempre di meno di guardare le note, ho bisogno sempre di meno di guardare le dita…, in altre parole, ho sempre meno bisogno del metodo. Però, il fatto che mi rendo indipendente dal metodo lo devo al metodo, ecco un altro paradosso!
La filosofia della libertà di Rudolf Steiner è il testo migliore, proprio il metodo migliore, pieno di esercizi di pensiero, e se ne potrebbero fare all’infinito.
In Germania faccio incontri al sud e al nord, e ci sono un centinaio di persone, sia al sud sia al nord, siamo già al decimo capitolo, quindi già parecchio avanti, già venti incontri, e molte persone dicono che fa proprio l’effetto di un metodo di pianoforte, di musica, per cui man mano che gli esercizi vengono ripetuti e ripetuti si ha l’impressione di sapere sempre meglio pensare. E io dico: sì, questo è il senso, questo è molto bello!
Provate voi a pagare il fatto di diventare migliori nel pensare: non vi bastano tutti i milioni di euro di questo mondo. Perché è quello che desidererebbe ogni essere umano: essere sempre più bravo a pensare, che è l’arte di tutte le arti. E allora esercita, esercita, esercita e seppure gli esercizi fondamentali sono sempre gli stessi, ogni volta tu diventi migliore e te ne accorgi, questo è il bello!
(II,4) Il monismo guarda invece soltanto all’unità e cerca di negare o cancellare i contrasti che pure esistono. Nessuna delle due concezioni può soddisfare, perché nessuna delle due corrisponde interamente ai fatti. Il dualismo vede lo spirito (l’io) e la materia (il mondo) come due entità sostanzialmente distinte e non può quindi concepire come esse possano agire reciprocamente l’una sull’altra.
Spirito e materia (voi prendete tutto quello che io faccio qui come un esercizio: lo scopo non è mai quello di dimostrarvi qualcosa o quello di dare delle risposte, no, è puro esercizio e ognuno poi lo esercita a modo suo). Spirito e materia: la domanda che ci si pone qui, a questo punto, è se sono due realtà o è una realtà sola. È un dualismo o un monismo?
Intervento: Sono una sola realtà.
Archiati: Se vuoi ti posso dimostrare che sono due realtà: te lo posso dimostrare. Se vuoi ti posso dimostrare che sono una realtà: te lo posso dimostrare. Allora come la mettiamo? Sono due o sono una?
Replica: Sono due in una. Dipende da come ti poni…
Archiati: Vedi che non ti soddisfa del tutto la risposta, l’hai buttata lì ma ti sei accorta che è un esercizio tutto da fare, da svolgere.
Se io dico: sono una realtà – manca il divenire.
Se io dico: sono due realtà – manca il divenire.
Ci mettiamo il divenire, ci mettiamo l’evoluzione, ci mettiamo l’esercizio della libertà, e allora diciamo: dentro l’autoinganno della coscienza umana sono due realtà diverse, proprio per consentire il compito evolutivo di renderle sempre di più una realtà sola. Ma nella coscienza umana non sono una realtà sola già in partenza.
Uno può dire: sì, però a me non interessa come sono le cose nella coscienza umana, mi interessa come le cose sono in sé e per sé!
Le cose in sé e per sé sono aria fritta, perché non esistono. L’unica cosa reale in sé è l’uomo, punto e basta! E nell’uomo, nella sua autoesperienza di partenza, io e mondo sono due realtà distinte, contrapposte, distanti.
Però l’uomo dice: no, non mi va che tutto resti così, non sono soddisfatto se resta così, sento in me questo eros conoscitivo, questo anelito del pensiero a cancellare questa scissione, a fare sempre di più, sempre di più, una unità.
E allora devo recepire nel mio spirito (lo spirito sono io, in quanto pensante, io che penso) come divento uno col mondo sempre di più, sempre di più. Pensando sempre di più l’essenza delle cose, il mondo.
Cos’è l’essenza delle cose? È un frammento del mio spirito pensante. Potenzialmente però, perché l’essenza di una cosa è il concetto. E il concetto cos’è? Un illuminarsi del pensiero, dello spirito pensante.
Quando io penso «triangolo», sono triangolo! Vi ho citato diverse volte l’adagio degli Scolastici, che si rifà anche quello ad Aristotele: cognoscens in actu et cognitum in actu unum sunt. Colui che conosce, nell’atto del conoscere, e il conosciuto, nell’atto del venir conosciuto, sono una realtà sola.
Intervento: Cogito, ergo sum…
Archiati: No, tutt’altra cosa, tutt’altra cosa. Cartesio non era uno scolastico (arriverà nel testo anche il cogito ergo sum, ma Steiner poi lo capovolge e dice: sarebbe più giusto dire cogito ergo non sum, quindi lasciamo stare...).
L’intuizione del pensiero che coglie un frammento di mondo, un frammento di materia, la realtà delle cose, è la forma suprema di comunione, di unificazione, e quindi è anche quella che a livello del sentimento, dell’amore, dà più gioia.
La comunione dell’amore a livello del sentimento senza il pensiero è per natura intrisa di egoismo, perché allora mi godo il mio sentimento di amore. L’amore, invece, il sentirsi uno a livello di sentimento che proviene dall’unificazione a livello di spirito, essendo oggettivo travalica l’egoismo, scioglie l’inganno dell’egoismo.
Quindi la prima forma dell’amore è il sentimento senza il pensiero, che è in fondo un amore egoistico; ma l’amore perfetto è il sentimento col pensiero e il pensiero col sentimento, testa e cuore insieme.
Intervento: Il pensiero rende oggettivo il sentimento.
Archiati: Svolgi. Adesso facciamo un’eccezione sulle interruzioni, perché hai iniziato un pensiero importante. Svolgilo.
Replica: Sto pensando.
Archiati: Eh, lo vedo bene. Tu hai preso l’esercizio a pag. 10 del metodo musicale dell’esempio di prima, hai cominciato con le prime note, e io ti sto dicendo: vai avanti, vai avanti…
Intervento: Lui voleva dire…
Archiati: No, non puoi intervenire tu, adesso, devi lasciar parlare lui, un processo di pensiero non è gestibile da fuori. Dovresti cominciare tu il processo di pensiero e allora lo esprimeresti in tutt’altri modi. Allora, torniamo a te, adesso hai avuto tempo abbastanza per pensare…
Intervento: Dicevo che il pensiero rende oggettivo il sentimento, quindi il sentimento è qualcosa di soggettivo di per sé, però manca qualcosa.
Archiati: Perché?
Replica: Perché manca il divenire del pensiero, nel pensiero, anzi. Cioè, nel momento in cui io vivo un sentimento senza il pensiero lo vivo in modo soggettivo, quindi impulsivo.
Archiati: E che c’è di male?
Replica: Non c’è nulla di male, però non c’è l’unione, non c’è l’unione tra il mio spirito e il mio sentimento, tra me e il mondo, ecco, perché il sentimento viene dal mondo, è una percezione esterna. O meglio, il sentimento non è la percezione, ma la percezione mi provoca un sentimento, quindi il sentimento è una reazione a qualcosa che mi viene dall’esterno, apparentemente: però questa apparenza sparisce nel momento in cui lo concettualizzo, e quindi lo rendo oggettivo.
Archiati: Sì, però in tutto il ragionamento sei rimasto in te stesso. Adesso prendi il rapporto tra due persone, concretamente.
Replica: Tra due persone è difficile perché ognuna ha una percezione diversa, quindi un sentimento diverso.
Archiati: Tu hai argomentato dicendo: prima o poi il sentimento da solo non mi basta, e io ti rispondo: però così resti con te stesso, resti con la tua insoddisfazione, che è di nuovo soggettiva, per esempio.
Le cose cambiano se tu dici che prima o poi l’altro si fa sentire, perché mi dirà: il tuo amore è pura soggettività e io non ci sono nel tuo amore! Se tu vuoi parlare d’amore a me devi cogliere la mia oggettività: io per te sono oggettivo, quindi devi uscire dal soggettivo se vuoi cogliere me. Questo dinamismo del rapporto con l’altro mancava nel tuo ragionamento, perché parlando d’amore bisogna parlare d’amore tra due esseri.
Adesso ricomincia l’esercizio da capo e mettici dentro l’altro, perché amore significa amore all’altro. Coraggio che ti riesce! L’hai fatto bene l’esercizio nella prima parte. Bisogna avere il coraggio. È come uno che dice: io sono all’inizio degli esercizi, non sono ancora bravo.
Allora, il tuo ragionamento era: io parto dal sentimento, ma il sentimento è soggettivo. Però poi argomentavi restando in te stesso, cioè restando nella persona che dice: però prima o poi il soggettivo non mi basta, io sento in me l’anelito a qualcosa di oggettivo. Però l’altro ti potrebbe dire: ma anche questo anelito che tu senti in te verso l’oggettivo è puro sentimento tuo. Allora, ricomincia da capo.
Replica: Capire l’amore dell’altro...
Archiati: Ricomincia con la tua prima affermazione che andava benissimo.
Replica: Sì, ce l’ho in testa però non riesco a svilupparla.
Archiati: Certo, di quello si tratta. La prima tua affermazione è: il sentimento è soggettivo, quindi resto nel mio soggetto.
Replica: Resto nel mio soggetto, certo. Nel momento in cui mi apro…
Archiati: No, no, io ti ho fatto una prima domanda: che c’è di male?
Replica: Infatti, non c’è nulla di male, è uno strumento necessario, è una condizione senza la quale non posso esercitare un pensiero, a questo punto. Nel momento in cui sono incarnato ho bisogno di percezioni per esercitare un pensiero, altrimenti non sarei incarnato.
Archiati: Benissimo. Ma se io resto a questo punto del sentimento, perché non va bene?
Replica: Perché mi manca l’oggettività del pensiero.
Archiati: Sta’ attento, così l’altro non può sentirsi amato e sarà scontento, e rendere scontento l’altro è l’opposto dell’amore, perché io resto in me.
Replica: Allora è la volontà, perché a questo punto manca il terzo elemento: la volontà.
Archiati: Bene.
Replica: Dunque, nel momento in cui ho un sentimento, per oggettivizzarlo all’altro, devo estrarlo, devo tirarlo fuori.
Archiati: No, finché amo me stesso, amo il soggetto. Amo l’oggetto che è l’altro per me (l’altro per me è un oggetto, non è un soggetto) quando voglio conoscere l’altro. È in questo che il pensiero mi porta nell’oggettivo, però nell’oggettivo dell’altro, nella realtà oggettiva dell’altro che voglio amare.
Non posso amare l’essere dell’altro senza conoscerlo.
Intervento: Allora devi tirarti indietro, devi comunque lasciar posto all’altro…
Archiati: Son tutte metafore: non devo tirarmi indietro in nulla, basta tuffarmi nel pensiero, perché il pensiero è l’organo che coglie l’oggettività – l’oggettività di un albero di mele, l’oggettività di colui che mi sta davanti, l’oggettività di un uccello, l’oggettività di tutto ciò che c’è.
Quindi quello che stiamo dicendo è che il pensiero è l’organo di percezione dell’oggettivo del mondo, non il sentimento. Era quello il tuo punto di partenza!
Intervento: Così un sentimento diventa anche eterno.
Archiati: Diventa anche eterno. Cosa vuol dire? (vedete, non si può fare un’eccezione: adesso vogliono parlare tutti)
Replica: Una volta che si è concettualizzato un sentimento, e quindi col pensiero lo si è reso oggettivo, dovrebbe essere valido per tutti e per sempre.
Archiati: Allora diciamo che due caratteristiche fondamentali del sentimento (ce ne sono diverse, le eserciteremo tutte, ma adesso ne abbiamo individuate due) sono: il sentimento è per natura soggettivo e, hai aggiunto tu, il sentimento è per natura passeggero, non è eterno, non è duraturo.
Il che significa che il pensare è per natura oggettivo e per natura duraturo: una verità non è vera oggi e domani no.
Vi dicevo che ci sono altri connotati fondamentali del sentimento, però questi due già bastano, per ora. Per esempio, l’amore a livello di sentimento è innamorarsi: una persona mi piace. L’innamorarsi va benissimo, ma è soggettivo e soprattutto è passeggero, non esiste un innamoramento eterno. Però l’amore fondato sul pensiero può essere duraturo, perché si riferisce non al fatto che l’altro mi piace così com’è, ma si riferisce all’essere oggettivo dell’altro, e l’essere oggettivo dell’altro è duraturo, anzi è eterno, come hai aggiunto tu.
Quindi diciamo che sia il dualismo che dice: spirito e materia, io e mondo, sono due realtà, sia il monismo che dice: sono una realtà sola, peccano di staticità, manca la dimensione del divenire, la dimensione dell’esercizio della libertà.
Nella coscienza umana (e l’unica realtà che noi abbiamo in mano è la coscienza umana, tutto il resto non ce l’abbiamo in mano), nella coscienza umana così come è oggi, il punto di partenza è la scissione tra io e mondo con l’anelito di costruire, per esercizio di libertà, sempre più unità tra io e mondo. Però, per lasciare la crescente unificazione tra io e mondo all’esercizio della libertà, bisogna che questa unione, questa unità non ci sia già in partenza.
Ogni pensiero è un’esperienza di unificazione tra io e mondo. E quanti atti di unificazione sono possibili? All’infinito! L’esercizio della libertà è all’infinito, la prospettiva dell’evoluzione è la più bella che si possa immaginare, basta godersela, basta diventare sempre più svegli. Perciò i grandi peccati dell’evoluzione sono il dormire della coscienza, il poltrire dell’amore, l’accontentarsi dell’egoismo… tutti peccati di omissione – che peccato!
Rileggiamo: II,4 «Tutti gli enigmi che si riferiscono a spirito e materia l’uomo deve ritrovarli nell’enigma fondamentale del suo proprio essere; il monismo guarda invece soltanto all’unità e cerca di negare o cancellare i contrasti che pure esistono. Nessuna delle due concezioni può soddisfare, perché nessuna delle due corrisponde interamente ai fatti».
Perché il fatto fondamentale è quello di un dinamismo di evoluzione, dove non si può dire: è così, e così resta! C’è un punto di partenza e poi i tanti passi che si compiono tra il punto di partenza e il punto di arrivo. Essere umano significa essere per strada, essere in cammino.
II,4 «Il dualismo vede lo spirito (l’io) e la materia (il mondo) come due entità sostanzialmente distinte e non può quindi concepire come esse possano agire reciprocamente l’una sull’altra».
(II,4) Come può mai lo spirito conoscere quello che avviene nella materia, se la natura propria a quest’ultima gli è del tutto estranea? {come può lo spirito conoscere il non spirito, visto che la materia è il non spirito?} o come può, in tali condizioni, agire su di essa, in modo da tradurre le proprie intenzioni in azioni? {se spirito e materia sono incommensurabili, sono del tutto estranei l’uno all’altra, come è possibile un’interazione a livello di pensiero, a livello di sentimento, a livello di volontà, a livello di azione? Restano estrinseci l’uno all’altra} Si è ricorso alle più assurde ipotesi per rispondere a tali domande. Ma fino ad oggi neppure con il monismo si sta granché meglio. Finora esso ha cercato in tre modi di togliersi d’impaccio: o nega lo spirito, divenendo materialismo;
La matrice culturale delle scienze naturali, avendo metodologicamente scartata la realtà dello spirito, tende, diciamo in modo non estremo ma sempre di più, a negarla, perché si fissa sul mondo della materia.
La religione si fissa sul mondo della spirito, però, avendo per definizione che spirito e materia sono due sponde opposte l’una all’altra, la religione parla di uno spirito che non si può esperire, che diventa uno spirito disincarnato in cui si può soltanto credere – perché l’unico spirito che l’essere umano può esperire come reale è lo spirito incarnato.
Invece, l’unica vera realtà dello spirito accessibile all’uomo è lo spirito incarnato nel mondo, nella materia; uno spirito disincarnato è pura astrazione. Quindi tutto lo spirito della teologia tradizionale (adesso naturalmente faccio un po’ bianco e nero, però è vera l’affermazione), tutta la Divinità della teologia è un’astrazione non è una realtà, perché l’unica realtà dello spirito, accessibile all’uomo in quanto realtà, è lo spirito incarnato.
Tu stai pensando: però, adesso, fai troppo presto a buttarmi via questo Dio, mica saran state tutte menti bacate quelle della tradizione!… e hai ragione, è un problema grosso che dovremo affrontare. Io non sto dicendo che non esiste spirito senza interazione diretta con la materia: non è questo che ho detto. Ho detto che per l’essere umano è esperibile come punto di partenza soltanto uno spirito incarnato. Come punto di partenza.
In altre parole, noi stiamo dicendo che ogni volta che instauriamo un tipo di pensiero statico, che intende dire soltanto come le cose sono – Dio è così, l’uomo è così… – andiamo male su tutta la linea perché disattendiamo, omettiamo, l’elemento fondamentale che è quello dell’evoluzione.
Allora, se includiamo l’evoluzione, questa è la prospettiva che va subito inclusa: come punto di partenza la realtà dello spirito per l’uomo è accessibile soltanto in quanto spirito incarnato nel biologico, nelle sinapsi del cervello, in tutto il mondo percepibile.
Ciò non significa che questo spirito incarnato, se è capace di evoluzione, debba restare per tutta l’eternità sempre ugualmente dipendente dal mondo materiale, come lo è in partenza.
Allora diciamo che se c’è un recupero della realtà dello spirito puro, indipendente dalla materia, questo recupero è possibile per l’uomo soltanto evolvendo, portando sempre più in avanti il suo spirito, esercitando una tale interazione con la materia che lo spirito diventa sempre più forte, sempre più creatore, sempre più indipendente dalla materia. Proprio questa interazione col corporeo gli serve per diventare sempre più forte, fino all’indipendenza dal corpo.
L’uomo fa l’esperienza di uno spirito reale, indipendente dal mondo della materia, in quanto egli stesso è diventato indipendente. Invece uno spirito divino, già ora indipendente dalla materia, per l’essere umano è un’astrazione, perché non ne ha l’esperienza.
Che poi noi possiamo dire: vivendomi io, in quanto spirito umano, nel dinamismo di vincere sempre più i meccanismi di natura, di diventare sempre più uno spirito pensante indipendentemente dal corpo, proprio per questo posso supporre che ci possa essere uno spirito già abbastanza evoluto da essere già indipendente dalla materia, va bene. Però un conto è dire: è una illazione che io faccio in base alla mia esperienza dell’umano in evoluzione, e un conto è dire: sono sicuro che c’è.
Certezza in assoluto c’è soltanto riguardo a ciò che si esperisce direttamente. Perciò vi dicevo ieri: ciò a cui credo è aria fritta! Ognuno può credere a quello che vuole, scusate! Tant’è vero che la Divinità è stata immaginata nei modi più diversi, a seconda delle religioni, a seconda delle mitologie, a seconda delle culture ecc… Nell’astrazione è permesso tutto quello che si vuole.
La realtà, la realtà che io vivo come realtà, è quella di uno spirito in interazione col mondo della materia nel dinamismo di diventare sempre più libero. La legge della materia è il determinismo, la legge dello spirito è la libertà.
Quindi io mi vivo come uno spirito in interazione coi determinismi della materia, e sperimento l’anelito evolutivo di liberarmene sempre di più.
II,4 «Ma, fino ad oggi, neppure con il monismo si sta granché meglio. Finora esso ha cercato in tre modi di togliersi d’impaccio: o nega lo spirito {questo è l’argomento che ho svolto ora: le scienze naturali che negano la realtà dello spirito} divenendo materialismo;»
(II,4) o nega la materia, per cercare la sua salvezza nello spiritualismo;
Un conto è negare la materia in partenza dicendo: no, la materia non esiste, e un conto è vanificare la materia in base a un processo evolutivo del pensiero. La materia non va negata per risparmiarsi tutta l’evoluzione che la vanifica, la materia va vanificata passo per passo. E qual è il fenomeno primigenio, il fenomeno originario della vanificazione della materia in quanto liberazione dello spirito umano, in quanto processo evolutivo del pensiero?
È la trasformazione di una percezione in concetto.
Quando io trasformo una percezione in un concetto dico: no, la percezione è nulla! Però la rendo io nulla creando il concetto, perché se io butto lì il dogma che dice «la materia non esiste», mi risparmio tutto il processo evolutivo del pensiero, e allora non è servito a nulla!
Il problema dei dogmi è che sono punti fermi, cioè vogliono arrivare alla conclusione. Ma per lo spirito avere delle conclusioni è la cosa meno simpatica, perché quelle fanno fermare: ci devi credere, sono un dogma.
Invece ciò che è più importante per lo spirito è di buttargli lì esercizi, proposizioni: qui hai un percorso da fare. Perciò parlo di vanificazione. Nelle parole che finiscono in -azione (come appunto vanificazione) c’è dentro l’azione: devo compiere l’azione del vanificare, allora è una vanificazione. Se io compio l’azione del vanificare, trasformo io, in quanto evoluzione del mio pensiero, del mio spirito, una percezione in concetto: soltanto allora viene vanificata la materia, dal mio cammino, dall’accendersi del mio spirito.
Se io dico in partenza che la materia è nulla, a che mi serve? A farmi addormentare! A risparmiarmi il cammino di pensiero, il cammino dello spirito. La cosiddetta materia è l’inganno che ti è offerto all’inizio e che ti dà la possibilità di disingannarti.
Quindi la percezione è l’inganno, e il pensiero che coglie, che crea i concetti, è il disinganno.
La formazione del concetto è il disinganno in quanto evoluzione vivace e anche volitiva – proprio perché trasformare una percezione in un concetto è un operare, è un fare, è un agire nello spirito.
Il materialismo ci ha messo in testa che noi agiamo, siamo attori, compiamo azioni soltanto quando muoviamo le braccia e i piedi materiali, e quando invece muoviamo le braccia e i piedi dello spirito allora lì non succede nulla! Questo è il materialismo.
Il pensare è la forma suprema dell’agire perché coinvolge tutto l’essere.
Finché io cammino è coinvolta la mia biologia, sono coinvolte le mie gambe, ma magari al contempo penso a qualcos’altro. Quando spacco la legna è un tipo di agire depotenziato rispetto al pensare, perché per pensare devo esserci con tutto il mio essere, mentre quando spacco la legna metto i muscoli delle braccia e penso a qualcosa d’altro. Spaccare la legna non necessariamente assorbe tutte le mie energie, ma il pensare sì, assorbe anche quelle del corpo, eccome!
E chi dice: io penso al meglio quando faccio jogging, non ha neanche un barlume di cosa significa pensare. Eh, se non sa far altro glielo perdoniamo, gli concediamo che se non sa muovere il cervello che muova almeno le gambe!
Bisogna picchiar giù, ogni tanto, perché siamo arrivati a livelli proprio… chi mi conosce lo sa che io picchio un po’, ma non è mica per cattiveria! È per responsabilità nei confronti di questa umanità che diventa sempre più povera, sempre più miserella.
Intervento: A volte la salute e l’età limitano.
Archiati: C’è soltanto un’età che limita il pensiero per natura: quella dell’infanzia.
Replica: Quando stai male, quando il corpo si fa sentire e a un certo punto prende piede il dolore, non dico che non puoi pensare, però senti molto fortemente queste cose qua.
Archiati: Io ero a pagina 10, stavo suonando gli esercizi di pagina 10…, t’arriva lei e vuol farne altri, tutti in una volta.
Allora, tu parli del dolore, non soltanto della sofferenza. La sofferenza è una categoria piuttosto animica, il dolore invece si riferisce al corpo. T’ho detto che io sto suonando gli esercizi a pagina 10 del metodo, e tu mi chiedi di anticipare gli esercizi di pagina 98, che sono più complessi. Perciò prendi i miei pensieri come un piccolo avvio, non come una risposta a una domanda a cui non si può rispondere.
Il dolore è un fattore evolutivo molto importante, altrimenti non ci sarebbe. È il corpo che si fa sentire, hai detto tu, giustamente. Cos’è un dolore? Il dolore è un compito del pensiero all’infinito, e allora propongo che poi ognuno di noi continui ad esercitare questo pensabile all’infinito. I pensieri che si possono pensare sul dolore sono infiniti, questo è il bello!
Io indico soltanto alcune piste di pensiero:
1. C’è un tipo di dolore che deve avvenire per karma e quello non si può evitare, non si scappa ed è diverso da persona a persona. È la somma di dolore karmico, il dolore in quanto karma.
Quale e quanto è il dolore che è previsto nel karma di una persona? La misura è corrispondente ai suoi peccati di omissione nelle vite precedenti: quindi, nella misura in cui uno ha perso colpi, perso colpi, perso colpi nelle vite precedenti, l’Angelo custode e l’Arcangelo e l’Io superiore, ancora prima che nasca, hanno previsto la quantità giusta di dolore per aiutarlo a recuperare.
E questo dolore karmico non si può cambiare: non serve nessun medico, niente. Questo è un lato del dolore.
1. L’altro è il dolore che sorge in base alla libertà, in questa vita: se io, in questa vita, non gestisco al meglio la libertà, vengo aiutato col dolore.
Una persona che esercita, esercita, esercita il cammino di libertà, di crescita, di creatività nel pensiero e non perde colpi, diciamo a livello ideale, non ha bisogno di questa sfera del dolore: si piglia un corpo sano e prende soltanto il dolore o le malattie che sono previste per karma, senza questa seconda sfera.
Nella misura in cui uno omette di esercitare la libertà in questa vita (qui non è questione di vite precedenti), in questa vita viene aggiunto dolore che non sarebbe necessario che ci fosse.
Partendo dal presupposto che l’omissione della libertà in chiave di materialismo è abbastanza grossa, possiamo presupporre che il mondo sia pieno di persone che, oltre al dolore necessario per karma, hanno un sacco di malanni dove il corpo si fa sentire per aiutarle a capire: guarda che stai omettendo, stai omettendo, stai omettendo… Nella misura in cui smetto di omettere sto bene, sto bene, sto bene.
Steiner dice: quando uno si sente debole, gli fa male di qua, gli fa male di là e va dal medico che gli dice: ma non trovo nulla!, se potesse leggere qualche pagina di scienza dello spirito con piena concentrazione andrebbe tutto via, starebbe benissimo. Il mondo è pieno di malati immaginari, pieno! Perché sono disoccupati nello spirito e quindi sono costretti a notare sempre di più il corpo.
Però, state attenti: io non ho detto che se mettiamo le cose sempre più giuste a livello della libertà significa che non ci sarà più nessuna malattia, che non ci sarà più nessun dolore. La prima prospettiva del dolore karmico ve l’ho messa al primo piano, quindi non stiamo facendo un discorso illusorio come se il karma non ci fosse.
Le malattie previste dal karma arrivano, non ci possiamo fare nulla! C’è soltanto la presa di posizione della libertà, che ringrazia perché sa che sono necessarie, che sono la cosa migliore per l’evoluzione e quindi ne fa il meglio. Se io, invece, di fronte a una malattia voluta dal karma impreco, dico peste e corna, questa malattia dovrà durare ancora più a lungo, sempre in base a questo esercizio della libertà che ho messo al punto 2. Il fatto che una malattia karmica duri il doppio di quello che potrebbe durare è dovuto alla libertà che si rifiuta di farne il meglio e di svolgerla in positivo.
Se volete che ve lo dica concretamente, altrimenti pensate che si facciano astrazioni e non è vero, a me è successo tante volte di dirmi: mi sento un po’ stanco – la stanchezza è anche un elemento di dolore. E poi mi sono detto: un momento, un momento… stanco? Sono le otto, le nove di sera…, ma piglia una conferenza di Steiner! Dopo un’ora ero freschissimo!!
Quindi negare la materia non serve a nulla. Lo spiritualismo nega la materia, e a che ti serve? La materia non c’è: e adesso? Tutto il cammino di interazione col mondo della materia dov’è? Son tutte astrazione, sia il dualismo di partenza, come dogma, sia il monismo di partenza, come dogma. Sono astrazioni, esulano dalla realtà dell’umano.
(II,4) oppure dichiara che ovunque nel mondo, già fin dall’essere più semplice, materia e spirito sono indivisibilmente congiunti, e che quindi non ci si deve meravigliare se nell’uomo si presentano questi due aspetti dell’esistenza che non sono disgiunti in nessun luogo.
Già nel minimo atomo ci sono spirito e materia insieme: monismo. Se già in una particella, in un atomo, spirito e materia sono un’unità, a maggior ragione lo saranno nell’uomo.
Questa affermazione teorica che spirito e materia sono dappertutto un’unità, a che ci serve? A nulla, è un altro dogma e non mi serve a nulla, perché io cerco ciò che mi fa andare avanti, che mi da più gioia, che mi fa capire qualcosa di più, che riempie il mio cuore, che mi dà motivi di esistere…
Se uno mi viene a dire che c’è il monismo, che spirito e materia sono sempre, anche nell’atomo, congiunti… embè?! Io questa unità non la posso né mangiare, né godere.
È come dire: questo metodo di esercizi per imparare a suonare il piano è un’unità. Te l’ho comprato per farti un regalo (tu sei al secondo anno di conservatorio per diventare pianista), l’ho avvolto nella carta da regalo. È un’unità, il metodo, non sono due metodi, è un metodo, è un’unità: monismo. E quello che fa? Per rispettare l’unità non lo apre neanche, non lo scartoccia neanche. È un’unità, un metodo. È un’unità o no?
Intervento: È un’unità.
Archiati: È un’unità a livello in cui non mi serve a nulla! Scusa, adesso all’improvviso sei diventato taciturno. È perché l’ho preso in castagna! Dirmi che un metodo è un’unità è un’astrazione, non serve a nulla. Interessante diventa quando lo apro: esercizio numero 1, numero 2, numero 3…, sono 100, 200 esercizi. A che mi serve dire che è un’unità?
Dire che spirito e materia sono un’unità non serve a nulla, né serve dimostrarlo, né serve contraddirlo, cioè non serve proprio a nulla, è un’astrazione, siamo fuori dalla realtà.
La realtà è l’interazione vivente, evolutiva fra ciò che noi chiamiamo spirito e materia dentro l’uomo, in quanto autoesperienza. Questa è la realtà!
L’autoesperienza è la realtà, perché questo abbiamo: autoesperienza pensante, autoesperienza senziente, autoesperienza volente, volitiva, autoesperienza agente. La mia autoesperienza di essere che pensa, che sente, che vive, che vuole qualcosa, che agisce: questa è la realtà. Un’altra non ce l’ho.
E questa realtà è in evoluzione: questa è subito la seconda affermazione che faccio per autoesperienza – perché il mio pensiero è in evoluzione, il mio sentimento è in evoluzione, il mio volere, le mie azioni, il mio agire sono in evoluzione.
Questo, in primo luogo, come pensiero. Poi, in secondo luogo, se questa è la realtà, goditela, no? Meglio non c’è! Ecco allora che dalla testa si arriva subito al cuore: non c’è nulla di più godibile dell’evoluzione del pensiero, del sentimento, dell’evoluzione della volontà, dell’agire. È il massimo del godibile: tutto il resto è meno godibile, perché l’alternativa dell’evoluzione è la stasi, e la stasi non dà più gioia dell’evoluzione.
Quando io penso l’evoluzione, godo l’evoluzione e la faccio, no? Diventa volontà, perché pensare l’evoluzione e goderla senza farla, significa finire di pensarla, finire di goderla.
Nella misura in cui la penso, la godo e la voglio, la faccio. La faccio. E man mano che faccio divento sempre migliore nel pensare, nell’amare, nel volere, nell’agire.
II,5. Il materialismo non può mai fornire una spiegazione soddisfacente del mondo. Infatti ogni tentativo di spiegazione deve cominciare con la formazione da parte nostra di pensieri riguardo ai fenomeni del mondo. Il materialismo principia col pensiero della materia e dei processi materiali {il materialismo dice: la realtà vera è la materia}. E con ciò ha già davanti a sé due distinti gruppi di fatti: il mondo materiale, e i pensieri su di questo. Esso cerca di comprendere i secondi {i pensieri} concependoli come processi puramente materiali {i pensieri vengono fabbricati dal sostrato materiale, il cervello secerne pensieri come il fegato la bile}. Immagina che il pensare si produca nel cervello press’a poco come la digestione si produce negli organi animali. Come attribuisce alla materia proprietà meccaniche e organiche, le attribuisce anche la capacità, in determinate condizioni, di pensare {è la materia che pensa, è la materia a produrre i pensieri!}. Ma non scorge che così non fa che spostare il problema. Invece che a se stesso attribuisce la capacità di pensare alla materia {adesso abbiamo la materia pensante: è la materia che pensa, non io!}. E con ciò è ritornato al punto di partenza {è ritornato all’inganno}.
Ora, non è che possiamo trasformare ogni frase de La filosofia della libertà in un esercizio di pensiero, altrimenti dovremmo lavorare almeno 20-30-40-anni. Quindi dobbiamo scegliere, e questo qui è un esercizio molto importante: perché il materialismo fa un giro e ritorna al punto di partenza?
(II,5) Come avviene che la materia possa pensare sopra il suo proprio essere? {come fa la materia a pensare su di sé, essendo materia?} Perché non è contenta in se stessa e non accetta senz’altro la propria esistenza? {senza star lì ad arzigogolare}
Perché le viene in mente di cominciare a pensare su se stessa? Cosa abbiamo in questa sala? Un sacco di materia a cui viene in mente di pensare! Che tipo di materia è? È una materia-non materia, se pensa. Però questo presuppone che abbiamo un concetto di materia: cos’è materia?
Hai ragione a guardarmi perplesso, perché è la domanda più difficile che ci sia! Cos’è la materia nessuno l’ha mai potuto dire.
Quindi, dire che già il minimo atomo pensa, che in ogni materia c’è il pensiero e che quindi c’è un monismo, non risolve nulla.
(II,5) Il materialista ha distolto lo sguardo da un soggetto determinato {dal nostro proprio io che pensa} ed è arrivato ad una immagine indefinita e nebulosa. E si ritrova di fronte allo stesso enigma. La concezione materialistica non può risolvere il problema, ma solo spostarlo.
Steiner chiama la materia un’immagine indefinita e nebulosa. Non si può dire cos’è, perché è una metafora, un’immagine indefinita e nebulosa: materia.
Se ci fosse una definizione di materia, non potrebbe essere che negativa, una definizione in negativo, non in positivo: materia è tutto ciò che non è spirito, quindi tutto ciò che non è, perché lo spirito è.
E allora se la materia è ciò che non è, non si può dire cos’è, perché non è.
E cos’è ciò che non è spirito? È la potenzialità evolutiva dello spirito. Quindi la materia è la somma della percezioni in quanto non ancora spirito, passibile di essere trasformata in spirito dall’evoluzione dello spirito umano. E diventa una realtà solo nello spirito.
Cosa non facile, però, perché il materialista, lo scienziato si ripresentano e dicono: ma come?, se tu vai a sbattere contro un albero, mi dici che la materia è soltanto ciò che non è? Uno è soprapensiero, sbatte contro un albero, si fa un bel bernoccolo: cosa è successo? È il dolore di cui parlavamo prima.
Qual è l’essenza reale di questa esperienza di materia? Il dolore. Quindi la materia o ci presenta tutti i passi evolutivi del pensiero da compiere, o ci presenta quelli che abbiamo omesso – il karma di cui parlavo prima. Quella è la realtà della materia. La realtà del bernoccolo è il dolore che io sento.
Intervento: E quando mangi?
Archiati: È lo stesso, è la stessissima cosa.
Replica: Ma non è un dolore.
Archiati: Però senti il corpo. Dici troppo alla svelta, tu, che non è un dolore. Prendi il detto fondamentale su uno stomaco pieno: plenus venter non studet libenter, pancia piena non studia volentieri. Cioè, nella mezz’ora, nei tre quarti d’ora o un’ora in cui il processo biologico di digestione (soprattutto dopo un pasto luculliano) è in pieno movimento, non si può contemporaneamente avere assoluta lucidità di pensiero. E più si va avanti nell’età e più i processi digestivi diventano pesanti. In gioventù si smaltisce il cibo più alla svelta.
Questa concentrazione sul fenomeno digestivo che per natura mi porta via forze dal fenomeno pensiero, dal fenomeno coscienza, può essere sentito come dolore da chi ama intensamente il pensare, perché ti costringe a concentrarti sul corpo.
Intervento: Se la materia è tutto ciò che non è spirito, allora possiamo dire che lo spirito è tutto ciò che non è materia?
Archiati: No, no, così dai una definizione negativa.
Replica: Perché quella definizione andava bene e questa non va bene?
Archiati: Eh, eh, è lì il punto! Allora, rincariamo un po’ la dose dell’esercizio. Io ho fatto una formulazione, ed era l’esercizio a pagina 4 (sempre del nostro metodo musicale): adesso ritorna più o meno lo stesso esercizio, però in modo più complesso – non so se in Italia avete avuto quei diagrammi giapponesi, i Sudoku: all’inizio sono facilini, poi diventano sempre più complessi. Tra l’altro, io sono convinto che lì il pensiero si meccanizza anziché diventare sempre più vivace.
Allora, adesso facciamo un esercizio un po’ più avanzato, un po’ più difficile e tu prendilo come pulce nell’orecchio, non come dogma, perché andando un pochino più avanti l’affermazione diventa più micidiale:
lo spirito è
la materia non è
Punto e basta.
Adesso tu mi puoi obiettare: però tu, affermando che lo spirito è realtà assoluta, operante, creante ecc… mi dai un dogma. Vacci piano, sarà un dogma per te! Se tu questa affermazione la senti fare dagli spiriti sommi che l’umanità ha avuto, allora ci vai un po’ più cauto e dici: un momento, se questi signori dicono tutti questo, forse dietro ci sarà qualcosa.
Da quando ci sono stati spiriti che hanno fatto l’esperienza di essere spiriti, l’affermazione è sempre stata: lo spirito è realtà assoluta, è realtà e crea realtà. Tutto ciò che lo spirito pensa è realtà. Perché? Perché lo spirito è realtà!
Il mondo cos’è? Il pensato dello spirito divino! Lo spirito divino è, e tutto ciò che lo spirito divino pensa, è.
Essere spirito significa essere nell’essere. Materia sono i vuoti dello spirito, da riempire.
Intervento: Lei diceva che lo spirito è realtà e ciò che crea è reale. Per quello che ho io, come concetti, il ragionamento mi torna per lo spirito di Dio. Per lo spirito umano mi sembra in una forma un pochettino diversa, nel senso che lo spirito umano è e crea concetti che per lui sono realtà, ma non sono realtà per tutti gli spiriti umani. Sono realtà in sé, nel mondo di pensiero del singolo spirito che crea, sono delle realtà individuali. Ciò che differenzia questo dallo spirito di Dio, dallo spirito divino, è che ciò che l’Essere divino crea è una realtà oggettiva e cosmica, per tutti gli esseri.
Ecco, questa è la prima cosa. Poi…
Archiati: Basta, basta, basta così, altrimenti la formulazione diventa troppo complessa e l’esercizio poi non serve. Quello che tu hai detto è giusto, in un certo senso, però ci manca – era solo incipiente ma manca come metodologicamente inserita – la prospettiva dell’evoluzione dello spirito umano. Solo quello è il problema, e tu l’hai percepito mentre parlavi, eh, l’ho visto!
Quello che dicevi è giusto visto in modo statico, però non è giusto se prendiamo uno spirito umano in quanto spirito in evoluzione. La differenza tra lo spirito divino e lo spirito umano non è nello spirito – lo spirito è spirito –, la differenza è che, essendo lo spirito umano in interazione con la materia (parlo con metafore, altro non c’è), è uno spirito in evoluzione. Questa è la differenza, non nel fatto di essere spirito.
In quanto l’essere umano è spirito, è e crea. In quanto è uno spirito in interazione col mondo della materia è nel divenire sempre più spirito.
L’essere umano è uno spirito in potenza: in quanto «spirito», è spirito come Dio, in quanto «in potenza» ci deve ancora arrivare.
Ogni volta che negli esercizi di pensiero non mettiamo dentro l’evoluzione come metodica fondamentale di ogni minimo pensiero, i conti non tornano.
E cos’è l’essenza dell’evoluzione? La libertà. Libertà significa evoluzione, aperta sia alla realizzazione, sia all’omissione.
Tu lo vedevi, mentre parlavi, che sub specie aeternitatis in un certo senso i tuoi pensieri andavano bene, perciò tu dicevi: ma no, un momento, c’è una differenza tra lo spirito umano e lo spirito divino! E riferivi la differenza al fatto di essere spirito, anziché al fatto di essere spirito in evoluzione.
Aggiungendo la seconda prospettiva i conti tornano, e allora si parla in un modo un po’ diverso, non soltanto più sfumato, ma più complesso. Inserendo l’evoluzione il discorso diventa più complesso: io sentivo un po’ di teologia cattolica dietro a quello che tu dicevi, questa dicotomia tra Dio e l’uomo, questa stasi che non include l’evoluzione. È un tipo di teologia, o filosofia, che conosco molto bene, è tutta la formazione che io ho avuto.
Il passo fondamentale in avanti che compie la scienza dello spirito è quello di inserire in tutto il discorso sull’umano la prospettiva essenziale dell’evoluzione della libertà. E allora non si dice: il discorso di quegli altri è sbagliato, perché non si può dire che è sbagliato. È statico.
Intervento: È incompleto.
Archiati: Incompleto è un’immagine un po’ materiale, incompleto significa che c’è un pezzo e ce ne manca un altro. Ma non è questo il caso, non è un pezzo che manca: è una dimensione intrinseca al tutto.
Oh, ma che ora è? Voi continuate a chiacchierare e io non… Facciamo una pausa e poi arrivo alla fine del secondo capitolo (!).
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Abbiamo portato, questa volta, dei nuovi tascabili, un formato che piace, in Italia. Il primo che vedete è Alimentazione per vivere sani[3], quattro conferenze di Steiner agli operai. Steiner tenne diverse conferenze agli operai alla fine della sua vita, tanto è vero che la sua ultima conferenza è stata proprio agli operai – due o tre giorni dopo ha tenuto un’ultima allocuzione, un discorso, ma non era una conferenza. Una cosa non da poco nel karma di Steiner.
Cosa hanno di particolare queste conferenze? Sono in un linguaggio semplice, ma profondo, umano: ci sono, ve ne ho già parlato, le cose più profonde dette in modo semplice.
Quindi, immaginate voi, in Alimentazione per vivere sani avete le cose più interessanti e fondamentali sull’alimentazione esposte agli operai da questo scienziato dello spirito, che osservava i fenomeni anche nel loro risvolto spirituale. L’ultima conferenza è su cosa fa l’alcool nel corpo dell’uomo.
Potete anche immaginare la gioia che ho avuto nell’immedesimarmi in ogni frase, in ogni parola, e posso dirvi a ragion veduta che sono conferenze bellissime, di quelle che uno dice: ma come fa Steiner a sapere tutte queste cose?
Un altro volumetto è Arte dell’educare, arte del vivere – Fondamenti di pedagogia[4]: sono cinque conferenze fra le tantissime sulla pedagogia che, a mio parere, sono le più belle che esistano. In Italia ci sono, un po’ nascoste nell’Opera Omnia[5], e sono le ultime cinque di una serie di tredici conferenze tenute a Stoccarda a giovani, ragazzi e ragazze, che si preparavano ad essere maestri. Le ultime cinque diventano sempre più pedagogiche. È proprio un testo fondamentale di pedagogia, di un idealismo che è una cosa straordinaria. All’inizio Steiner esprime la tesi che un essere umano, fino al diciannovesimo anno di età, non può sapere nulla, ve l’ho già accennato. Sono convinto, e non lo dico per fare pubblicità, che nel mondo di oggi non c’è nulla di meglio, di più fondamentale sulla pedagogia. C’è proprio il modo in cui rapportarsi al bambino che cresce, che è uno spirito che ritorna sulla Terra portando passi evolutivi nuovi all’umanità, più avanzati, perché questo fanno le nuove generazioni.
La prima conferenza l’abbiamo intitolata: Educazione che ci rende artisti; la seconda Educazione che ci rende liberi, e tra l’altro, in questa conferenza, le cose più meravigliose (pagine e pagine) sono su La filosofia della libertà – se voi volete leggere le cose più belle su questo testo, anche come retroscena del lavoro che stiamo facendo, prendete la seconda conferenza di questo libretto –; terza conferenza Educazione che ci rende uomini; la quarta Educare all’incontro; e la quinta Educare allo spirito. La quinta è micidiale: parla del materialismo come il grande drago moderno che inghiotte, che fagocita l’uomo, come provocazione a superarlo, a vincerlo.
Bene, ci sono domande?
Intervento: Si può chiarire come fa l’individuo a distinguere, nella sua esistenza, una malattia, un dolore che gli viene per karma, e un dolore che gli viene per il fatto di aver creato delle cause in questa sua esistenza? Io ho fatto un pensiero.
Archiati: Dillo, dillo.
Replica: Sulla base di quello che è stato detto prima, ognuno è liberamente autore di se stesso. Quando uno cerca di prestare attenzione a se stesso e si esamina, può rendersi conto se ha esercitato in modo esauriente la sua libera volontà di crescere, se ha sviluppato la potenzialità oppure no.
Nel momento in cui uno è consapevole di non aver realizzato questa sua potenzialità, può anche pensare che ciò che gli viene derivi da una sua omissione: da questo però a identificare la causa precisa, c’è un altro lavoro da fare. E io qua mi fermo, perché non ho a fuoco il problema.
Archiati: In base al tuo sentimento-pensiero (che è sano), vediamo che per questo tipo di distinzione non ci sono regole generali, perché è una distinzione che può fare soltanto l’individuo in riferimento a se stesso. Allora diciamo che l’evoluzione consiste anche nel fatto di diventare sempre più sensibili nel cogliere la qualità karmica di una malattia o di un dolore, e la qualità di qualcosa che io avrei potuto evitare. Cos’è che me lo dice? Quella che in italiano si chiama la sensibilità dell’animo.
E la sensibilità dell’animo non si può quantificare, non si può oggettivare: è una questione di crescita. Man mano che ognuno cresce ai livelli fondamentali dell’umano, nell’esercizio della creatività ecc., l’animo diventa sempre più sensibile e l’animo sa, e la testa sa: questa malattia l’ho scelta ancora prima di nascere; oppure sa, sente, avverte: eh, questa malattia l’avrei potuta evitare, non sarebbe stata necessaria.
Porto un esempio estremo, dove ognuno può distinguere perché è oggettiva, la cosa. Per dieci anni, quindici anni una persona ha bevuto, strabevuto, strabevuto, e salta fuori uno stomaco tutto rovinato. Karma? No, se non avesse bevuto lo stomaco non si sarebbe rovinato: è un caso chiaro di una malattia, di un dolore che viene dalla libertà.
C’è un caso chiaro nell’altro senso? Quale?
Intervento: Una malattia fin dalla nascita.
Intervento: L’ereditarietà.
Archiati: Una malattia ereditaria. È il fenomeno polare, perché una malattia ereditaria la posso soltanto aver scelta e voluta prima di nascere, proprio perché è ereditaria. La decisione di entrare in questa corrente ereditaria comporta questa malattia che voglio avere, che voglio passare.
Il pensiero, lo vediamo, praticamente si esercita guardando agli archetipi, ai fenomeni polarmente opposti. Cerco un fenomeno della libertà, dove io so di avere liberamente rovinato il mio corpo, e ne cerco un altro dove io so che non c’entro nulla, perché l’eredità è proprio quello che io ricevo da fuori. Allora il pensiero, orientandosi a questi fenomeni primigeni, diventa sempre più sottile anche nelle cose dove non è così facile distinguere, dove c’è una specie di mistura. Perché uno può anche chiedersi: ma io questa malattia ce l’ho perché ho avuto questo tipo di mamma, o di papà, o ce l’ho indipendentemente dalla mamma o dal papà? Tante cose non sono così facili.
Quindi a maggior ragione è importante avere dei punti di riferimento del pensiero, degli orientamenti. La scienza dello spirito di Steiner è piena di orientamenti del pensiero, e un orientamento è come un esercizio che ti dice: guarda, l’esercizio è sul diesis, va in questa direzione, oppure l’esercizio è sulle scale, va in quest’altra direzione. Però devi farlo, l’esercizio.
Adesso facciamo l’esercizio di individuare una malattia, un dolore, causati dalla libertà in questa vita – però va fatto, l’esercizio –, e adesso facciamo un esercizio su una malattia voluta ancora prima della nascita perché emerge dal dato ereditario – e l’esercizio va fatto.
E qual è l’esercizio fondamentale da fare nei confronti dell’ereditarietà? Che l’ereditarietà non è qualcosa che io ho subìto, ma che ho scelto. Perché va sempre rifatto questo pensiero? Perché la letargia, la pesantezza, il perdere colpi dello spirito mi porta sempre nella posizione opposta di dar la colpa ai miei genitori: infatti, se io non avessi la tendenza di dar la colpa all’ereditarietà, non avrei nulla da superare.
Quindi cos’è l’ereditarietà?
Intervento: Se anche io subissi l’ereditarietà a livello di materia, sono comunque io che scelgo di incarnarmi qua piuttosto che là.
Archiati: La cosiddetta ereditarietà è un frammento d’inganno che ci dà la possibilità di disingannarci. Però quando l’essere umano parla di ereditarietà vive nell’inganno, perché l’ereditarietà non esiste.
Intervento: Bisogna sempre dare la colpa a qualcos’altro, per pensare?
Archiati: No, no, il punto di partenza deve essere l’inganno se no non posso avere la possibilità meravigliosa di disingannarmi.
Quindi la materia è il punto di partenza dello spirito che nega se stesso, che si inganna col compito di disingannarsi. Eravamo arrivati qui, sul Vigevani.
II,6. E in che cosa consiste la concezione spiritualistica? Lo spiritualista puro nega la materia nella sua esistenza indipendente e la considera solo come un prodotto dello spirito.
Allora, la materia è una realtà, o non è una realtà?
La materia è una realtà d’inganno e l’inganno è una realtà di coscienza, l’inganno è un fenomeno di coscienza reale. L’inganno lo posso disingannare soltanto trasformandolo con dei pensieri corrispondenti.
Quindi la cosiddetta materia è reale in quanto coscienza autoingannantesi. La coscienza che si autoinganna è una realtà di coscienza, è il sonno della coscienza, è lo spirito che si nega, che si dà un sonnifero. Nella misura in cui si accorge di dormire soltanto perché si è dato un sonnifero, si sveglia! Però stiamo parlando di realtà di coscienza, di un vissuto reale di coscienza, perché la realtà è sempre lo spirito. Coscienza è spirito.
Quindi lo spiritualista che semplicemente dice: la materia non esiste, fa un’affermazione astratta, perché non vede la realtà che avviene nella coscienza umana, quando l’uomo parla di materia. Gli manca l’autoesperienza del materialista.
Qual è la realtà della cosiddetta ereditarietà? La volontà dello spirito di incarnarsi! Questa è la realtà! La volontà di tuffarsi in una corrente che gli dà la possibilità di venire in interazione con il non-spirito. Voglio avere la possibilità di addormentarmi, perché mi sono stufato di essere sempre sveglio. Voglio avere la possibilità di addormentarmi significa: nasco, voglio nascere, perché nascere è entrare nella materia e significa oscurare la coscienza.
Perché mi viene voglia di oscurare la coscienza? Perché per lo spirito umano è più bello, più realizzante, riaccenderla sempre di nuovo, che averla sempre accesa.
Dove c’è più svegliezza, là dove la coscienza si riaccende sempre di nuovo o dove è sempre accesa? Per noi uomini la coscienza divina è tale che restare sempre accesa o risvegliarsi sempre di nuovo è la stessa cosa. Eh, ma ce n’è da fare per arrivare a quei livelli!
Intervento: In che senso dice qui che lo spiritualista «nega la materia nella sua esistenza indipendente»? Parla di esistenza indipendente.
Archiati: Nel suo esistere autonomo. Il problema è sempre il materialismo: se noi partiamo dal presupposto che ci siano realtà oggettive, quindi esistenze oggettive, fuori della coscienza umana, sbagliamo, perché l’unica realtà oggettiva è la coscienza umana. Ma nella coscienza umana, di partenza, c’è l’inganno reale (ma è un inganno proprio reale della coscienza!) che la cosiddetta materia abbia una esistenza autonoma.
Questo pensiero ingannevole, questo pensiero errato, illusorio, è reale nella coscienza, sebbene il contenuto di questo pensiero sia illusorio.
Intervento: Però qual è la differenza con una vera illusione?
Archiati: Tutte le illusioni sono vere.
Replica: Io posso anche illudermi che esiste una cosa e invece non esiste. Posso illudermi di battere la testa contro un muro e invece il muro non c’è.
Archiati: No, non puoi, pensaci bene. Te lo puoi immaginare, ma non illuderti.
Replica: E posso crederci, però, in questa mia immaginazione, in buona fede.
Archiati: No, devi sentire il dolore: o lo senti o non lo senti, e se non lo senti non hai sbattuto la testa contro il muro.
Intervento: C’è anche la psicosomatica.
Intervento: Ci sono le allucinazioni.
Archiati: In filosofia, all’Università, si facevano semestri interi sul parallelismo psicofisico: allora, c’è la psiche, che è puramente spirituale, poi c’è il corpo. Praticamente l’affermazione dello psicofisico è che ogni fenomeno corporeo comporta esperienze psicologiche e ogni elemento della psiche ha un correlato corporeo. Ma l’affermazione dice soltanto che sono paralleli, i fenomeni, non entra nel merito dell’interazione e dove parla di causa ed effetto mette lì il dogma che il corporeo è una realtà mentre la psiche, lo dicevamo prima, no?, è un risultato.
Allora nel corporeo c’è la causa e nella psiche ci sono gli effetti: però, dire che l’una è causa e l’altra è effetto è una questione del pensiero, non è una percezione. È un modo di interpretare i fenomeni. Un altro lo può interpretare in un modo opposto e dire: no, i fenomeni di psiche sono la causa, sono originari, e secondo quello che avviene nella psiche come effetto c’è il corporeo, nel quale, perciò, ci sono soltanto effetti.
Allora, ripetiamo questo esercizio fondamentale: i fenomeni psichici sono la causa e i fenomeni corporei l’effetto, oppure è l’opposto, i fenomeni corporei sono la causa e i fenomeni psichici sono l’effetto?
A seconda! Dove lo spirito è più forte dobbiamo lasciare aperta la possibilità che abbia maggiore capacità di originare, attraverso i pensieri, attraverso i sentimenti e la volontà, qualcosa che poi avviene nel corpo.
Però anche l’altro fenomeno è possibile: nella misura in cui lo spirito è debole o addirittura diventa sempre più debole, sempre più debole, il corpo acquista la possibilità di causare sempre di più e l’uomo si sperimenta nella psiche sempre di più come effetto del biologico.
Alla domanda: ma io sono un effetto del biologico o sono la causa del biologico?, si può rispondere: nella misura in cui divento sempre più debole nel mio spirito sono effetto del biologico, e nella misura in cui divento sempre più forte, sempre più forte nel mio spirito, posso diventare sempre di più la causa del biologico. Ma un’affermazione in assoluto non esiste.
Naturalmente, la condizione, la situazione più generale dell’umanità di oggi (che è pure l’essenza del materialismo) è che la psiche, lo spirito, è diventato talmente debole e gli elementi corporei, le necessità di natura in base a quello che mangiamo, che respiriamo ecc. sono diventati talmente virulenti e forti che l’autoesperienza fondamentale della maggior parte degli esseri umani di oggi è: il corporeo è molto più causante di ciò che è animico spirituale, e non viceversa.
Altro è quando si dice: che il biologico sia più forte non è una situazione attuale, relativa a questo punto dell’evoluzione, ma è sempre stato così, sempre sarà così e non può che essere così. Questo è un dogma.
Noi mettiamo il tutto in chiave di evoluzione e diciamo: è nella natura della libertà di avere due strade aperte, perché se non ci sono due strade non si è liberi.
1. La prima strada è quella della libertà: rendere sempre più forte l’anima e lo spirito in modo che diventino sempre più causanti e decidano loro cosa deve avvenire nel corpo.
2. Però siamo liberi soltanto se abbiamo anche la possibilità di fare il cammino inverso, la seconda strada: il corporeo diventa sempre più forte, più dominante e decide sempre di più ciò che avviene nell’anima e nello spirito.
Se non ci sono queste due possibilità sempre aperte non c’è la libertà! Adesso ho ritrasformato di nuovo il pensiero in chiave evolutiva, e allora i conti tornano e non si fanno dogmi dicendo: l’essere umano è così! No, è in evoluzione.
Le due scelte fondamentali della libertà sono queste: se rendo sempre più forte lo spirito, esso diventa sempre più causante nei confronti della materia; se rendo sempre più debole lo spirito è la materia a diventare sempre più causante, è la materia a decidere sempre di più quel che avviene nell’anima e nello spirito. E, lo ripeto, la constatazione a livello di percezione della situazione attuale dell’umanità, è di una enorme, addirittura crescente causazione da parte del corporeo su tutti i fenomeni psichici.
Tant’è vero che lo scienziato normale dice: la realtà vera, quella capace di causare è il corporeo, il biologico, sono i fattori ereditari ecc., e di contro la libertà è un’illusione, non esiste.
Allora possiamo dire che questa esistenza autonoma la materia ce l’ha nella realtà della coscienza, perché la coscienza è una realtà. Questa è l’affermazione fondamentale.
Intervento: Allora non è indipendente, perché è legata alla coscienza.
Archiati: Se una coscienza autoingannantesi attribuisce alla cosiddetta materia un’esistenza autonoma, questa esistenza autonoma è presente nell’autoinganno di questa coscienza, perché questo autoinganno è una realtà.
Replica: Ripeto: non è indipendente in quanto è legata all’autoinganno della coscienza, e se non c’è l’autoinganno della coscienza non c’è nemmeno l’esistenza. Quindi non è indipendente.
Archiati: Sì, ma se non c’è l’autoinganno della coscienza non c’è l’uomo, non c’è nulla, perché il punto di partenza dell’uomo è proprio questo autoinganno della coscienza. Negandolo si nega l’uomo, non resta più nulla. Quindi lo spiritualista è colui che dice: l’essere umano non si è mai incarnato, la materia non esiste!
La materia è quell’elemento del mondo che viene vissuto nella coscienza come una realtà autonoma. Ma è importante che venga vissuta come autonoma, non negata! Lo spiritualista dice: non esiste, la materia, perché è «soltanto vissuta» come autonoma. Lo spiritualista puro nega l’incarnazione dello spirito umano, fa come se non ci fosse, e parla di Angeli, parla dello spirito umano come si parlerebbe dello spirito degli Angeli.
Detto in un modo più semplice: per noi comuni mortali la materia ha un’esistenza autonoma. Semplice la cosa. Non si può partire dicendo: la materia non esiste. No, allora salti fuori dall’umano.
Le domande che chiedono: ma questa esistenza autonoma è oggettiva o non è oggettiva, è illusione o non è illusione?, vengono dopo. Il punto di partenza è: io vivo il mondo della materia come un’esistenza autonoma.
Intervento: C’è anche un’altra cosa: siamo anche d’accordo insieme, nella stessa illusione. Cioè, c’è un muro, io vedo un muro, lei vede un muro, se sbattiamo ci facciamo tutt’e due male, posso dichiarare la materia un’illusione? Se abbiamo avuto la stessa esperienza e lo stesso pensiero?
Archiati: No, ma parla del dolore, allora, non della materia.
Replica: Sicuramente, parlo della sensazione perché è da quella, poi, che ci deriva… Ecco, prendo il microfono, così si sente meglio. Volevo dire: siccome, per esempio, quella lavagna è materia...
Archiati: No, no, no.
Replica: Ecco, non è materia! Questo è il punto
Archiati: No, non è né materia né non materia.
Replica: Ma io la vedo, mi dà una sensazione, la percepisco…
Archiati: No, no, no: un conto è vederla, un conto è toccarla, sono due cose diverse.
Replica: La percepisco in diverse maniere: se vado là prendo e la tocco, cioè ho un’impressione d’insieme da quella lavagna, in vari modi, però c’è, è un’impressione per me reale.
Archiati: No, no, no. Resta all’esempio del muro dove ci sbatti contro, perché lì c’è il senso del tatto, e il senso del tatto è fondamentale. Finché io ho soltanto il senso della vista posso illudermi di tutto quello che voglio: posso vedere anche gli Angeli che volano. Ciò che noi chiamiamo materia sorge soltanto con l’elemento del tatto: lì parliamo di materia. E allora la domanda è: cosa intendi dire? di che cosa parli?
Replica: Parlo del fatto che io sbatto contro la lavagna e mi faccio male, un altro essere umano ci sbatte e si fa male, un terzo essere umano ci sbatte e si fa male… alla fine facciamo un pensiero su questa cosa, no? Lo tiriamo fuori da questa esperienza del dolore e ci diciamo: allora quel muro c’è! Perché ci mettiamo d’accordo su questo?
Archiati: Bene, guarda che adesso tu hai evitato una parola fondamentale.
Replica: Quale?
Archiati: Materia! Adesso non l’hai usata, sei diventata più brava. L’unico problema sorge quando noi usiamo la categoria «materia». Quando la usiamo, la domanda da fare è: cosa intendi dire? cos’è la materia? Finché tu parli di una sensazione di dolore, che ti fa male la testa perché hai sbattuto contro il muro, parli di una realtà. Questa sensazione è una realtà nella tua coscienza, nella tua psiche. Ma la materia cos’è?
Intervento: Ma il muro non è una realtà anche lui? Se c’ha sbattuto contro?
Archiati: No!
Replica: E come no?! M’ha fatto un bernoccolo!, se non c’era il muro non mi facevo il bernoccolo!
Archiati: Questo non vuol dire nulla. Fa’ conto, adesso, che hai una persona cara che è morta, ce l’hai presente, ed è morta da tre giorni. Cos’è il muro per questa persona che è morta?
Replica: Ma stiamo parlando di esseri incarnati, non di esseri disincarnati.
Archiati: Sì, ma allora di’ che il muro è una realtà nel tuo essere di uomo incarnato, non fuori! È questo che stiamo dicendo, proprio questo stiamo dicendo.
Intervento: È una costruzione mentale che ci mandiamo a ping pong l’un l’altro, è un modo di pensare e questa costruzione è mia: ma il muro? Questa costruzione è derivata dal bisogno di capirci, di parlarci, di intenderci?
Archiati: Quello che io volevo dire è questo: non possiamo, all’inizio de La filosofia della libertà, fare degli esercizi di pensiero su cos’è la materia, tutt’al più li possiamo fare a livello iniziale. L’affermazione dice: la materia è un’illusione, ma l’illusione è un fenomeno reale, un’esperienza reale dello spirito, della psiche. Questi sono esercizi iniziali. Per poter fare l’esercizio: che cos’è il muro? a livelli un pochino più avanzati, dobbiamo continuare col testo, se no facciamo astrazioni.
Se voi partite dal concetto che il muro sia una realtà oggettiva sbagliate di grosso, però non si può dimostrare adesso in modo che tutti gli spiriti qui presenti lo capiscano, e quindi diventa astrazione. Studiando un testo come La filosofia della libertà, bisogna anche avere un po’ di pazienza, altrimenti sarebbe possibile risolvere tutto in due incontri e allora non ci sarebbe bisogno di tutto il libro.
Fra quattro, cinque, sei incontri, noi saremo in grado di parlare sul muro a tutt’altri livelli che adesso. Però gli esercizi da qui a lì vanno fatti a tutti i livelli intermedi; e ciò che ci conduce nel modo migliore è il testo stesso. Alcune vostre domande fanno un salto mortale, e vogliono ora una risposta a una domanda a cui si potrà rispondere in un modo più convincente soltanto quando si saranno fatti altri esercizi in mezzo.
Per ora, io ho buttato lì una tesi che dovremo rivedere, che dovremo prendere in considerazione continuamente a livelli diversi: che la materia è un’illusione. Però l’illusione è un reale fenomeno di coscienza, e così vi sto dicendo che la materia è una realtà e non è una realtà, non è una realtà ed è una realtà...
Questo è importante per il pensiero perché, se noi diciamo soltanto che è una realtà, addormentiamo il pensiero, perché non è vero che è una realtà; se noi diciamo soltanto – come fa lo spiritualista – che non è una realtà, annientiamo l’incarnazione e quindi di nuovo il pensiero incarnato.
Dicendo che è sia l’uno sia l’altro – che è una contraddizione, un paradosso, una provocazione al pensare, a continuare a cimentarsi con questo quesito – il pensiero va avanti.
Un pensiero vero non dà mai risposte facili, perché le risposte facili non fanno andare avanti nel pensiero. Le risposte facili sono quelle che già conosciamo! Perciò sono facili!
Buon appetito, ci ritroviamo alle quattro.
Venerdì 28 settembre 2007, pomeriggio
Un buon pomeriggio a tutti!
Stavamo concludendo il discorso del monismo e del dualismo. Il monismo in qualche modo dice: c’è una realtà sola; il dualismo dice: ci sono due realtà.
Comune a tutti e due è che considerano le cose maggiormente da un punto di vista statico, di ciò che c’è, e non sufficientemente, che è la cosa più importante, da un punto di vista dinamico, di trasformazione evolutiva della coscienza umana.
La coscienza umana, l’autoesperienza dell’essere umano è l’unica realtà che abbiamo in mano, questo lo devo ripetere: l’unica realtà che noi abbiamo in mano è la nostra autoesperienza.
Noi non abbiamo la realtà del corpo, per esempio: ciò che noi chiamiamo corpo è ciò che del cosiddetto corpo recepiamo nella coscienza. Il corpo è quella realtà che è nella nostra coscienza, un’altra realtà del corpo non esiste.
La realtà di partenza della coscienza umana, quale autoesperienza, è che c’è una spaccatura di partenza tra «io» e «mondo». E questa spaccatura è una realtà della coscienza.
Metterci a speculare se nella realtà oggettiva del mondo, o nella realtà oggettiva dell’io, quindi dietro alla coscienza, al di là della coscienza, io e mondo siano una realtà, o due, o tre, o quattro è tutto un artificio, perché usciamo dal reale e entriamo nell’astratto. Astratto vuol dire non reale.
Ripeto questo pensiero, che è molto importante: siccome viviamo in tempi di materialismo, il punto di partenza spontaneo è di pensare che il mondo sia là fuori. No, io non ho il mondo là fuori.
Intervento: La coscienza ha un’esperienza interiore del mondo.
Archiati: No, tu parli del mondo come se fosse qualcosa, questo è il problema di partenza. Puoi dire soltanto: è la realtà della coscienza. E quello che tu vivi nella coscienza come può essere la realtà di qualcosa che non è coscienza?! Non può essere la realtà di qualcosa che non è coscienza.
Quindi ti tocca soltanto dire: il cosiddetto mondo è un frammento della mia coscienza oppure non è nulla. E ti tocca ancora chiederti: cos’è il mondo nella mia coscienza?
Il punto di partenza dell’autoesperienza della coscienza umana – chiamatela coscienza caduta, coscienza propria dell’uomo, coscienza dello spirito incarnato nella materia, come volete –, la realtà vissuta da questo nostro tipo di coscienza è la spaccatura tra io e mondo. Tutto il resto viene dopo, tutta la sequela di domande: ma questa spaccatura c’è a ragion veduta? oppure è un inganno? e così via. Se è un inganno, allora la realtà della coscienza è un inganno, ma un inganno reale in quanto fatto di coscienza! Ciò significa che nel momento in cui noi usciamo dalla coscienza umana, non abbiamo più nulla.
Intervento: Si rimanda sempre a un dinamismo.
Archiati: Sì, sì, però il punto di partenza è la coscienza. Che poi la coscienza la chiamate psiche, interiorità umana, animo umano, mondo interiore, è solo questione di terminologia.
Intervento: Quindi dipende dal tipo di coscienza che ho, semmai!
Archiati: E che altro hai in mano come realtà di partenza?
Intervento: Vabbè, allora un’obiezione che uno potrebbe farmi è: bene, allora la stessa cosa puoi dirla per lo spirito.
Archiati: Certo, e difatti abbiamo visto che il materialista vuole mandare a ramengo lo spirito e lo spiritualista la materia, e tu li prendi in castagna dicendo: no, un momento, nella coscienza non c’è soltanto materia, né soltanto lo spirito, io nella coscienza ho la spaccatura tra spirito e materia, e tu non puoi mandare a ramengo né l’uno né l’altra. Il punto di partenza è l’esperienza di una spaccatura, di una polarità, di una contrapposizione, di una non-unità già data, di un dualismo. Il punto di partenza è un dualismo, se vogliamo. Ma il problema dei dualisti è che considerano la spaccatura come una cosa oggettiva, assoluta, non superabile proprio perché è oggettiva.
Allora eravamo al paragrafo II,6 «E in che cosa consiste la concezione spiritualistica? Lo spiritualista puro nega la materia nella sua esistenza indipendente {nella coscienza umana di partenza, invece, la materia ha un’esistenza indipendente, altrimenti non ci sarebbero problemi di conoscenza} e la considera solo come un prodotto dello spirito».
(II,6) Se egli applica questa concezione del mondo alla soluzione dell’enigma della propria entità umana, si trova messo alle strette. All’«io», che può venir posto dalla parte dello spirito, sta direttamente di fronte il mondo sensibile.
La domanda che si faceva prima è: ma qui, allora, Steiner sta parlando delle cose come stanno o sta parlando delle cose come appaiono a noi?
Non può parlare delle cose come stanno, altrimenti farebbe dogmi. Steiner parla delle cose come appaiono alla coscienza incipiente, alla prima riflessione che l’essere umano fa su di sé e che gli fa dire: mi trovo di fronte a due realtà, «io» e «mondo». E non posso dire che siano la stessa cosa, sennò ci sarebbe un’unità già data e non ci sarebbe più nulla da fare.
Se io fossi il mondo, non avrei da conoscerlo, il mondo, lo sarei! Se io sono uno col mondo, non ha senso parlare di cammino di conoscenza.
Intervento: La materia non esiste per come la vedo.
Archiati: Proprio questo. Difatti mi era venuta la tentazione di far l’esercizio chiedendovi: cosa vedete di me? cosa avete di me?, e poi mi sono detto: lascia perdere, è un esercizio da fare un po’ più in là. Ma ora tu lo tiri fuori…, e perciò vi chiedo: ma di me, voi, cosa avete?
Replica: Un’immagine.
Archiati: Un’immagine. E vi resta tutto il quesito: a questa immagine corrisponde una realtà o no?
Replica: Sì.
Archiati: Quale? Tu dici troppo svelto che corrisponde a una realtà. Vai piano! La realtà dell’immagine che vedete qui è il mio spirito, ma tu del mio spirito non hai nulla. Quindi vedi che è troppo semplice dire: sì, quell’immagine corrisponde a una realtà. Sono tutti voli che siamo abituati a fare ma approdiamo a dogmi. Non ci arriviamo per esperienza diretta delle cose che diciamo.
La filosofia della libertà è stata scritta per far piazza pulita di tutti i dogmi che ci sono e conquistarsi la realtà a brano a brano, per evoluzione della coscienza umana, del pensiero umano, con l’assunto fondamentale che una cosa diventa reale soltanto se diventa una realtà di pensiero, creata vivacemente, artisticamente dal pensiero.
Soltanto ciò che lo spirito crea è una realtà. Quindi di reale ho soltanto ciò che io come spirito pensante creo.
Intervento: Pietro, perché tu dici sempre «artisticamente»? Non può esserci una creazione che non sia artistica?
Archiati: Proprio perché l’essere umano, come punto di partenza, vive una spaccatura tra percezione (ciò che è già fatto) e ciò che lui fa nel pensare, tutta l’arte che noi conosciamo va da un minimo di creatività (allo 0% non c’è nessuno) al 100% di creatività.
Uno ti dice: questa melodia l’ho fatta io. E allora è stato artista? Non è detto, se gli è venuta in sogno, se se l’è sognata, questa melodia?, vedi? Quindi bisogna guardare al livello effettivo di creatività e uno capisce subito che il creativo diventa più creativo nella misura in cui è più intensamente attento. Cioè non soltanto sono io a fare la melodia, ma so di essere io a farla.
Questo elemento di creatività artistica è passibile di intensificazione all’infinito, perché prima di arrivare al 100% ce ne vuole!
La creatività assoluta di presenza a se stesso dello spirito che crea è il concetto di coscienza divina, della creatività divina. Noi siamo per strada.
II,6 «Lo spiritualista puro nega la materia nella sua esistenza indipendente e la considera solo come un prodotto dello spirito. Se egli applica questa concezione del mondo alla soluzione dell’enigma della propria entità umana, si trova messo alle strette. All’«io», che può venir posto dalla parte dello spirito, sta direttamente di fronte il mondo sensibile {come fatto originario di autoesperienza della coscienza umana}».
(II,6) A quest’ultimo {al mondo sensibile} non sembra aprirsi alcun accesso spirituale; esso deve essere percepito e sperimentato dall’io attraverso processi materiali.
Non c’è un accesso direttamente spirituale al mondo della percezione. Perché? Perché il mondo della percezione lo devo percepire! E il percepire fa parte dell’autoesperienza iniziale.
L’autoesperienza iniziale, la realtà iniziale della coscienza è che da un lato percepisco e dall’altro penso. Ciò che percepisco mi viene in un modo e ciò che penso mi viene in tutt’altro modo. Allora ciò che percepisco lo chiamo «materia», lo chiamo «mondo», lo chiamo «fuori di me», e ciò che penso dico che non è materia, non è mondo, perché esce da me, fa parte di me, è spirituale.
Questo è il dato originale della coscienza: percezione – pensare. La percezione viene dal di fuori, il pensare dal di dentro.
Cosa fa Steiner all’inizio de La filosofia della libertà?
Una pura e semplice fenomenologia della coscienza.
Ti dice, e insiste: guarda che se tu lasci via tutti i dogmi che ci sono, all’inizio tu non hai altro che la tua coscienza. Le percezioni sono nella tua coscienza. Voi avete detto che io sono un’immagine per voi, cioè una percezione: se poi a queste percezioni corrisponde una realtà o no, tutto quello viene dopo, è tutta faccenda del pensiero. Il pensiero poi si occupa delle percezioni e dice: ma a cosa corrisponde una percezione? ecc…
Il dato di partenza è soltanto che io ho da un lato la percezione e dall’altro il pensare, e non posso dire che sono la stessa cosa, una sola cosa, no! Perché la mia autoesperienza è che la percezione mi viene da fuori, non la fabbrico io, e perciò parlo di «mondo». La percezione che voi avete di me non la fabbricate voi, è data, ed è questo che chiamiamo «mondo». Che poi questo aver l’impressione che venga dal di fuori, che sia data e già precostituita, sia un’illusione o no, di questo ne parliamo dopo.
L’importante è che il dato originario della coscienza è questo: ci sono due sorgenti. C’è un mondo che io chiamo «mondo della percezione», che mi viene da fuori, mi è dato e non sono io a costruirlo come voglio ma è così com’è; e poi c’è un mondo di pensieri che invece gestisco io dal di dentro. Questo è il dato originario!
Il secondo pensiero, con cui si conclude il secondo capitolo – importante sarà in questo fine settimana il terzo capitolo, dove si affronta la realtà del pensare in un modo centrale, e lì vedrete che faremo dei bei passi proprio per la comprensione dell’essere umano –, il secondo pensiero conclusivo dice: io parlo di «mondo esterno», di mondo della percezione, e parlo di «io». Nell’io sorgono i pensieri, i concetti, ecc… coi quali dico cosa sono le cose. Il mondo sembra fuori di me.
Però, se io in me non avessi nulla di ciò che chiamo «il mondo oggettivo», non avrei nessuna possibilità di portare in rapporto queste due realtà. Io faccio parte del mondo, sono nel mondo. Quindi, se presupponiamo di poter capire qualcosa del mondo, di poter reinserire l’io dentro al mondo che si è estraniato in quanto autopercezione della coscienza umana, dobbiamo presupporre che ci sia un elemento comune all’io e al mondo. Altrimenti non c’è modo di portarli in rapporto.
E adesso, voi concedete che ci possa essere un elemento comune all’io e al mondo? Qual è la realtà del mondo? Cosa vige e vive e opera nel mondo?
Intervento: La ragione, l’organizzazione.
Archiati: Il mondo – però adesso dovete cercare di capirmi, perché il linguaggio è fatto di metafore, dobbiamo trasformarlo in metafore, in concetti puri –, il mondo è la più bella pensata che ci sia mai stata!
Intervento: È il pensiero dell’uomo.
Archiati: No, non è il pensiero dell’uomo che ha creato il mondo.
Intervento: È l’intelligenza. Quello che ti colpisce più di tutto nel mondo è la saggezza, l’intelligenza.
Archiati: Quindi il primo elemento reale che vige e vive, e che è la sostanza del mondo, è il pensare creatore, e tutti i contenuti del mondo sono pensate, sono pensieri.
Tutti gli uomini, tutti gli animali, tutte le piante, tutte le pietre sono pensieri, e i pensieri sono i risultati del pensare. Quindi dobbiamo partire dal presupposto che è il pensare divino che vive, vige, opera e intesse nel mondo – questo è il concetto di Logos –, se no non ci sarebbe il mondo.
Il mondo, al livello della percezione è una serie di percezioni, ma il concetto del mondo è un tessuto di pensieri. Altrimenti cos’è il mondo? Il mondo è un organismo di pensieri, se no cos’è il mondo?
La realtà del mondo è il pensare del creatore del mondo, dello spirito che crea il mondo. Se il mondo non fosse il pensare di chi lo crea, non sarebbe nulla.
C’è il pensare creatore e poi l’amore che mantiene in vita: queste sono le due realtà. Il pensare crea e l’amore mantiene in vita – sono tutte metafore eh!?, però sulla falsariga di queste metafore possiamo ritornare allo spirito originario che è luce di pensiero e calore di amore. Come il sole, e perciò il sole è da sempre la manifestazione centrale del Logos, il lato di percezione del Logos. E in base a questa percezione noi ci facciamo il concetto del Logos. Qual è, infatti, il concetto del Logos? Origine di luce e di calore. Eh, la percezione questo ci dice. Ora, origine di luce e di calore significa origine di pensieri e origine di amore. Ci siamo fin qui?
Allora, c’è o non c’è un elemento comune tra io e mondo? Sì, è il pensare. Perché il pensare è l’essenza del mondo, essendo il mondo il pensato del pensatore più grande che c’è.
E questi pensieri, che Lui sempre ha avuto viventi, perché li ha resi fissi, belli morti nella percezione? Per dare a te, essere umano, la possibilità di pensarli tu, adesso, se no restava soltanto Lui a pensarli. Perciò te li mette come percezione. Il Logos si è fatto carne per dare la possibilità all’essere umano, in chiave di pensiero, di far risorgere il Logos da carne a spirito.
La Divinità fa del Logos carne e l’uomo fa della carne Logos – fa di ogni percezione un concetto. Quindi il senso della creazione divina è la ricreazione dello spirito umano. Più bello di così non si può!
Perciò il mondo è puro amore all’essere umano, perché è un’offerta evolutiva all’infinito; una proposta di liberazione dello spirito umano, di creatività all’infinito. Più di così non si può amare l’essere umano, perché così viene amata l’esplicazione della sua libertà creativa all’infinito.
Ora, verso la fine del secondo capitolo, ci diciamo che se ci deve essere una possibilità di riconciliazione tra io e mondo, bisogna che abbiano qualcosa in comune. Altrimenti sono del tutto disparati, non c’è nulla di comparabile, di paragonabile, di comune.
Ora leggiamo un po’ più velocemente il testo, perché si parlerà di Fichte e anche di Lange, che un secolo fa aveva una certa importanza nell’Europa centrale, un certo peso. Studiando questo testo, dobbiamo distinguere un po’ tra quello che è di validità sempre scottante, e quello che invece è un pochino più storicamente dettato dal contesto storico.
(II,6) Ma l’«l’io» non trova in sé tali processi se vuol farsi valere soltanto come entità spirituale. Dentro a ciò che l’«io» si conquista spiritualmente non vi è mai il mondo dei sensi {quindi il mondo dei sensi deve venire da fuori, dalla percezione}; pare che debba ammettere che il mondo gli rimane chiuso, se non si pone in relazione col medesimo in modo non spirituale {cioè attraverso la percezione dei sensi}. E analogamente, quando passiamo nel campo dell’azione {non soltanto nel pensare ma anche nell’agire il mondo è qualcosa che mi sta di fronte, non è di primo acchito riassumibile e riducibile all’io} dobbiamo trasformare i nostri propositi {le intenzioni, le volizioni} in realtà con l’aiuto di sostanze e di forze materiali {quindi l’agire è un modo di interagire con un mondo che non è puramente io}. Siamo dunque ricondotti al mondo esteriore. Il più spinto spiritualista, o, se si vuole, il pensatore che per l’idealismo assoluto si presenta come il più spinto spiritualista, è Johann Gottlieb Fichte {all’università di Monaco ho fatto seminari, tre semestri, per la tesi di laurea proprio su la Dottrina della scienza di Fichte}. Egli tentò di dedurre dall’«io» l’intero edificio del mondo. Ma è veramente arrivato soltanto a una grandiosa immagine del mondo in pensieri, senza alcun contenuto di esperienza.
Una bella pensata sul mondo. Che poi quello sia il mondo, bisogna vedere. È un’immagine del mondo in pensieri, quindi un ricalco, una specie di doppione del mondo dentro i pensieri di Fichte, senza alcun contenuto di esperienza – intende dire di autoesperienza, che tenga conto dell’intera coscienza umana che prevede anche il lato di percezione.
(II,6) Come non è possibile al materialista di abolire lo spirito, così non è possibile allo spiritualista di abolire il mondo esterno materiale.
Questo inteso non in senso definitivo, come potremo dire alla fine de La filosofia della libertà. Per ora è soltanto una prima analisi dell’autoesperienza della coscienza, capito? Non va inteso in modo conclusivo di tutto un cammino di pensiero. Ci arriveremo un po’ alla volta, le cose diventano più complesse. All’inizio si tratta di prendere sul serio il fatto che nell’autoesperienza umana ci sono due realtà fondamentali, non una: perché se fosse una sola non ci sarebbe nessun problema, non staremmo qui a disquisire, ad arrabbiarci, a contraddirci ecc.
II,7. Poiché l’uomo, quando dirige la sua conoscenza sull’«io», percepisce a tutta prima l’azione di questo «io» nella formazione in pensieri del mondo delle idee, la concezione del mondo ispirata ad un indirizzo spirituale può sentirsi tentata, nel considerare l’entità umana, a riconoscere dello spirito soltanto questo mondo di idee. In questo modo lo spiritualismo si riduce ad un idealismo unilaterale. Esso non riesce a cercare un mondo spirituale attraverso il mondo delle idee. Da ciò viene obbligato a rimanere, con la sua concezione del mondo, come incatenato entro l’ambito dell’attività dell’«io» stesso.
In altre parole, quando noi parliamo di «io», quando noi parliamo dello spirito umano, dapprima abbiamo soltanto idee, pensieri, non siamo ancora alla sorgente dei pensieri. Idee e pensieri sono il risultato, son quello che viene fuori: ma qual è la sorgente dei pensieri?
È il pensare! Il pensare come attività che crea i pensieri.
A questo punto – mi pare di averlo già accennato all’inizio, ma lo dobbiamo ripetere come una riflessione di metodo che va ripetuta ogni volta – è proprio importante riferirci al testo originale. Nell’originale tedesco das Denken (il pensare) ha due significati fondamentali: due, non uno.
Un significato fondamentale è «il pensiero», sarebbe der Gedanke. Però il significato ancora più importante è «il pensare», das Denken, e la differenza tra il pensiero e il pensare è enorme. I pensieri sono il pensato, il prodotto, ciò che è stato tirato fuori. E che cos’è il pensare?
Intervento: È un essere spirituale.
Archiati: È attività pura, originaria, spirituale, creatrice, come una sorgiva, come una sorgente. Tu eri andato subito al pensatore di questo pensare, il Logos, un essere spirituale. Però il pensare non è un essere spirituale, è il corpo eterico di questo essere spirituale, detto in modo scientifico-spirituale. Però la scienza dello spirito ancora non c’era quando Steiner ha scritto La filosofia della libertà, e quindi dobbiamo andare per puro pensiero.
Certo che soltanto un essere spirituale può pensare, ma noi adesso non siamo al punto di voler definire l’io. L’io che pensa: questo io sarà forse un essere spirituale, ma non è di questo che stiamo parlando, ci arriveremo magari un po’ alla volta.
L’io pensa: non è che ha pensato, pensa. Cosa fa, l’io? Produce il pensare, la sua attività è il pensare, lo spirito pensa, è nella natura dello spirito di pensare. Pensare in quanto attività, però, non soltanto in quanto risultati del pensare, cioè il pensato, i pensieri.
Quindi il pensare è l’attività originaria, più in là non si può andare. Se si vuol andare all’inizio bisogna andare fin lì, e non fermarsi ai pensieri, al già pensato, ai risultati.
L’io umano produce il pensare e il mondo è intessuto di pensare: allora ciò che è comune all’io umano e al mondo è il pensare in quanto attività pura, spirituale, di creazione. E allora, dice Steiner, occupiamoci del pensare perché lì andiamo all’origine (II,7) «poiché l’uomo, quando dirige la sua conoscenza sull’io, percepisce a tutta prima l’azione di questo io nella formazione in pensieri»: ma non perché l’io produce pensieri, significa che la realtà originaria siano i pensieri. No! La realtà originaria è il pensare in quanto attività creatrice. Dai pensieri dobbiamo risalire al pensare che li tira fuori, che li crea.
Hegel, per esempio, in fondo si è fermato ai pensieri, ha posto come realtà ultima e prima le idee, ma non lo spirito pensante: è questa la differenza fondamentale tra La filosofia della libertà di Steiner e un Hegel. Steiner risale al pensare in quanto attività creatrice pura: che poi questa attività creatrice pura presupponga uno che pensa…
Perché si ferma al pensare, Steiner? Perché non risale all’essere spirituale che produce il pensare? Perché ci manca la percezione. Cioè il pensare è l’ultima realtà che possiamo ancora percepire per via introspettiva, e quindi la chiave del terzo capitolo è che il pensare è l’unica realtà che è allo stesso tempo «percezione» e «concetto». Questo è fondamentale. Vedremo poi quante cose risultano da questa intuizione fondamentale.
II,8. Una singolare degenerazione {sottospecie} dell’idealismo è la concezione di Friedrich Albert Lange, come egli l’ha esposta nel suo libro molto letto, Storia del materialismo. Egli sostiene che il materialismo ha completamente ragione nel ritenere tutti i fenomeni del mondo, incluso il nostro pensiero, come un prodotto di processi puramente materiali; ma aggiunge poi che la materia e i relativi processi sono essi stessi, a loro volta, un prodotto del nostro pensiero.
Praticamente il pensiero di Lange è: tutto ciò che è spirituale, che è fattore di coscienza ecc. è prodotto dai processi materiali, però tutti i processi materiali sono stati prodotti dallo spirito: un cane che si morde la coda. È il famoso barone di Münchhausen che si tira fuori dal pantano acchiappandosi per i propri capelli! Ora Steiner cita un brano di Lange:
(II,8) «I sensi ci danno certi effetti delle cose su di noi, ma non ci danno né le cose in sé, né un’immagine fedele di esse. A questi semplici effetti appartengono però anche i sensi, insieme col cervello e con le vibrazioni molecolari che in esso si suppongono». Cioè {riassume Steiner} il nostro pensare è prodotto dai processi materiali e i processi materiali sono prodotti dal pensare dell’«io». La filosofia di Lange traduce così in concetti la favola del prode Münchhausen che si sostiene nell’aria attaccandosi {è meglio aggrappandosi, perché attaccarsi potrebbe sembrare che si attacca con un chiodo a qualcos’altro} al suo proprio codino.
II,9. La terza forma del monismo {l’avevamo già accennata, adesso la affronta, ma brevemente} è quella che vede le due entità, materia e spirito, già riunite nell’essere più semplice, ossia nell’atomo. Ma anche in tal modo non si arriva che a trasportare in altra sede il problema che sorge propriamente nella nostra coscienza. Come può l’essere più semplice {l’atomo} arrivare ad estrinsecarsi in duplice modo, se è un’entità indivisa?
Come fa l’atomo a scindersi, esplicandosi come spirito e come materia? Se si scinde non è più atomo, perché ¥-tomoj (àtomos) significa «indivisibile». Quindi, a quel punto lì, bisogna chiarire cosa intendiamo per spirito, cosa intendiamo per materia, perché dire che già nell’atomo sono tutti e due uniti, non ci dice nulla, non ci porta avanti, non ci fa capire meglio il mondo.
II,10. Di fronte a tutti questi punti di vista, bisogna mettere in evidenza il fatto che il contrasto fondamentale e originario ci viene incontro in primo luogo entro la nostra coscienza.
Ecco il bilancio: entro la nostra coscienza. La realtà della nostra coscienza ci è immediatamente presente: per tutto il resto non sappiamo se andiamo a naso, se sbagliamo, se abbiamo una realtà, se abbiamo un fantòma…
La prima realtà che ci è accessibile è quella della nostra coscienza, e in questa realtà immediata di coscienza parliamo spontaneamente di «io» e «mondo». Per «mondo» intendiamo tutto quello che ci proviene dalla percezione dei sensi, e con la parola «io» intendiamo tutto quello che ci aggiungiamo noi, che tiriamo fuori dal di dentro.
«Mondo» è ciò che è fuori di me, «io» è ciò che sorge in me. E non si può dire che sono la stessa cosa già nell’atomo. No, non si può dire.
Che poi, nella terminologia, con «mondo» intendo dire la materia e con «io» intendo dire lo spirito, va benissimo; perché il mondo nella mia coscienza è fatto di materia, altrimenti non mi sarebbe estraneo, esterno, estrinseco.
Io, in quanto corpo, faccio parte del mondo, però in quanto essere pensante, in quanto coscienza, in quanto pensieri, sentimenti ecc., sono spirituale, non sono un pezzo di materia. Allora ci capiamo quando diciamo che con la parola «mondo» intendo dire la materia, il mondo della materia, e con la parola «io» intendo dire il mondo dello spirito.
Ci resta però da chiarire cosa intendiamo per materia – cos’è ‘sta materia? – e cos’è il cosiddetto spirito. Queste sono le domande che ci accompagnano.
Adesso terminiamo il secondo capitolo con questo elemento che devono avere in comune: l’io e il mondo devono avere qualcosa in comune, altrimenti la dicotomia è assoluta, non c’è nessun ponte. L’autoesperienza spontanea ci dice che ci deve essere qualcosa in comune tra l’io e il mondo. Perché? Perché io sono nel mondo, mi sento nel mondo – e questo è già qualcosa di comune. Poi mi vedo, mi esperisco in questo desiderio di capire sempre di più il mondo: quindi spontaneamente presuppongo che ci sia un rapporto di comprensibilità. E se c’è un rapporto di comprensibilità, c’è un rapporto di commensurabilità, e se c’è una commensurabilità significa che ci deve essere qualcosa di comune.
Intervento: La conoscenza.
Archiati: Certo è questa la conoscenza, il desiderio di conoscenza, che è il titolo del secondo capitolo. Quindi l’analisi dell’auto-esperienza della coscienza spontanea di partenza è proprio l’assunto spontaneo che io e mondo, pur essendo due cose alternative, polarmente opposte, sono però in un rapporto di osmosi di forze. Devono avere qualcosa in comune, altrimenti non potrei parlare di mondo, non potrei neanche sapere di cosa parlo.
Adesso analizziamo questo assunto spontaneo della coscienza: io e mondo sono due cose diverse però non sono del tutto estranee, non sono in assoluto estranee e incommensurabili. C’è una commensurabilità, e il dinamismo di questa interazione è proprio il dinamismo dell’evoluzione.
(II,10) Siamo noi stessi che ci stacchiamo dal grembo materno della natura e che ci contrapponiamo al «mondo» come «io».
Quando avevamo un anno, due anni, tre anni, eravamo dentro al mondo, non dicevamo: «io» e «mondo», eravamo dentro. Così come durante i nove mesi, mentre eravamo nel grembo materno, non dicevamo: «io» e «mamma», no, eravamo dentro.
Nei primissimi anni non c’è questa separazione tra la coscienza dell’io e il mondo, ma poi, man mano che si va avanti a 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14 anni, c’è sempre di più io, io, io!, da una parte, e il non-io, il mondo, dall’altra. Quindi siamo noi a creare questa dicotomia, questa tensione, questa polarità. All’inizio non c’è, nel bambino piccolo non c’è.
(II,10) Goethe esprime ciò in modo classico nel suo scritto La natura {è un brevissimo stralcio, non è un vero scritto}, se pur in modo che a tutta prima può apparire non scientifico: «Noi viviamo in mezzo a lei (alla natura) e le siamo estranei {estranei in quanto spirito, in quanto coscienza, perché la natura è buia, non è intrisa di coscienza, per lo meno come ci appare alla percezione}. Essa parla con noi ininterrottamente e non ci confida il suo segreto». Ma Goethe conosce anche il lato opposto: «Gli uomini sono tutti in lei, ed essa è in tutti».
La natura si nasconde, gioca a nascondino con noi. Non ci sarebbe gusto se ci spifferasse tutto: le cose più belle sono quelle che uno si conquista. Però, se i momenti più belli della vita, dell’evoluzione dello spirito, sono i momenti di scoperta, bisogna che la cosa sia coperta, prima.
E cos’è il mondo? La coperta della spirito, per darci la possibilità di fare una «scoperta» dopo l’altra!! Tant’è vero che la parola greca per dire «verità» è proprio l’essenza della natura: ¢l»qeia (alètheia), «togliere la coperta»; ¢l»qeia viene da lanq£nw (lanthàno) che significa «coprire», preceduto dall’alfa privativo (a) e perciò diventa «scoprire». Cosa vuol dire scoprire?
La percezione ti copre, ti nasconde il concetto e tu scopri, in chiave pensante, il concetto. Questa è la parola greca per dire «verità»: scoprire, togliere il velo, svelare.
Allora, Luciana, cos’è il mondo?
Luciana: La somma dei pensieri divini.
Archiati: Adesso eravamo arrivati a un’altra immagine, che a te non piace. Il mondo è la coperta, ma la coperta è una realtà o no? Te la copre, la realtà, vedi il paradosso?! La coperta è una realtà o no? Vedi che è un paradosso? Non si può rispondere solo di qua o solo di là, bisogna avere il coraggio di affrontare questo paradosso iniziale della coscienza. Perché la coscienza vive sia la coperta che la scoperta: sapendo che è una coperta, scopre, scopre, scopre…
Come uomini siamo sempre nella percezione e sempre nel pensare.
II,11. Come è vero che ci siamo estraniati dalla natura, così è anche vero che sentiamo di essere in lei e di appartenerle. Non può essere altro che il suo agire quello che vive anche in noi.
Se nell’uomo non ci fosse nulla dell’agire della natura, l’uomo non sarebbe nulla.
Va fondata questa affermazione?
È il paradosso: la natura che non ci può essere senza l’uomo, è la natura presa dal lato della percezione; l’uomo che non ci può essere senza la natura è la natura presa dal lato del pensare divino, che è la realtà della natura.
Quindi, se l’uomo non facesse parte della natura, che è il pensare divino, non sarebbe nulla, non esisterebbe. Si può considerare la natura sia dal lato della percezione (che è faccenda puramente umana), sia dal lato del pensare (che è faccenda divina).
La natura è un pensare vivente o è un pensare morto, diventato morto?
Nell’origine è un pensare vivente, quando l’uomo arriva a percepirlo è morto.
II,12. Dobbiamo ritrovare il cammino {in chiave di evoluzione} per tornare a lei {alla natura}. Una semplice riflessione ce lo indicherà. Ci siamo, è vero, distaccati dalla natura {nel senso che ci poniamo di fronte alla natura: io e il mondo}, ma qualcosa di lei dobbiamo pure averlo preso con noi, nel nostro proprio essere {in un certo senso, il mio dato di coscienza è che mi sono distaccato dalla natura: però, se è vero che mi sono distaccato dalla natura, da lì vengo!, e venendo da lì mi devo essere portato appresso qualcosa}. Dobbiamo scoprire questo qualcosa e ritroveremo allora anche l’antico nesso.
E il qualcosa che, ponendoci di fronte al mondo, di fronte alla natura, non ci accorgiamo subito di aver portato con noi dalla natura, è il pensare.
Intervento: È il filo d’Arianna!
Archiati: Se vuoi. Il filo d’Arianna conduce nel labirinto, il labirinto è un’immagine del cervello. E cos’è il filo d’Arianna? Il filo logico dei pensieri.
Replica: Il filo di Arianna ci fa uscire dal labirinto.
Archiati: Ci fa uscire, sì, ci fa raccapezzare – ra-capo, raccapezzare, la cabezza, in spagnolo! Il linguaggio è pieno di immagini bellissime, però bisogna risalire sempre alla loro origine.
I Greci, in questo mito di Arianna, hanno posto proprio l’evoluzione del pensiero nel suo rapporto col cervello; hanno fatto la prima esperienza di un pensiero che entra in interazione col cervello e quindi diventa conscio di sé.
La filosofia è nata in Grecia, prima c’era un pensare di saggezza, un pensare che non faceva ancora i conti con un cervello fisico. Abramo ha avuto il primo cervello adatto al pensare, come dato fisiologico, però i primi a servirsi del cervello fisico per generare un pensiero conscio di sé sono stati i greci, in modo particolare Aristotele. Parallelamente è sorto il mito di Arianna: se l’uomo non ha il filo logico dei pensieri, in questo labirinto del cervello si perde.
Qual è il filo logico che connette tutti i pensieri del mondo? I pensieri del mondo sono tutti i contenuti del mondo: una pianta è un pensiero, una pietra è un pensiero, un animale è un pensiero… tutti i contenuti del mondo. Qual è, dicevo, il filo logico che li connette?
Intervento: Il Logos, il pensare divino.
Archiati: Il pensare! Anche quello umano! Il pensare è pensare! La risposta: il Logos, non è sbagliata, ma a questo livello è più semplice dire: il pensare. Perché il Logos, vattelappesca chi è. Invece il pensare è l’elemento in cui vivo continuamente.
Cioè, io vado da un pensiero a un altro: questo ha a che fare con questo, questo ha a che fare con quest’altro, questo è un animale, no questa è una pianta…, vado lì, poi vengo qui… ecco il pensare, il filo d’Arianna che si raccapezza nel labirinto del mondo.
Intervento: Non può essere anche l’amore che tiene in un abbraccio comune tutti questi pensieri?
Archiati: Ma certo, basta rendersi conto che il pensare di cui stiamo parlando è la forma suprema dell’amore. L’amore di cui normalmente si parla è un amoruccio paragonato a questo tipo di amore. Perché cogliere le cose nella loro essenza e addirittura coglierle nei loro nessi reciproci, significa amarle in assoluto.
Quindi l’abbraccio è il desiderio di unificazione, il pensare, invece, è l’unificazione. Nell’abbraccio più che il desiderio non ci può essere, perché si resta separati. Quindi l’abbraccio è un’immagine della tensione della mente e del cuore umani all’unità. Però l’unità reale della mente e del cuore ce l’ho nel pensare, perché i due corpi restano uno esterno all’altro.
Ho fatto diverse volte, anche qui, questa domanda, e adesso state attenti alla vostra reazione interiore, perché ognuno lo deve riferire a sé: che cosa ti piace di più, quando l’altro – l’amico o l’amica – ti dice: ti voglio bene, oppure quando ti dice: ti capisco? L’abbiamo già fatto, questo esercizio, ma è sempre da rifare. Cosa vi piace di più?
Intervento: Adesso risponderanno tutti «ti capisco». Risposta esatta!
Archiati: Tu mi hai detto che ci sono tante persone nuove, quindi diamo anche alle persone nuove la soddisfazione di provarci, di dare la risposta sbagliata!
«Ti voglio bene», certo che è una forma di unione. Però, se mi vuoi bene, sarai tu pieno di amore, ma va’ a vedere se veramente sei in sintonia con me.
Invece «ti capisco», se è vero, se è verace, quella sì che è unione! Quindi l’organo supremo dell’amore è il pensare.
Il cuore desidera l’amore, il pensare lo realizza.
Sono tutti modi paradossali, eh?, per il materialismo, tutte provocazioni a pensare.
Intervento. Quindi se manca il pensare non c’è neanche l’amore.
Archiati: No. C’è una forma animica di amore, che andrebbe chiamato «desiderio di amare», ma non è ancora la realizzazione dell’amore.
Intervento: Però si dice sempre che il pensare va scaldato dall’amore, perché l’amore è comunque qualcosa di separato dal pensare, sono due polarità. È vero che quello al servizio del pensiero è un amore più elevato, però è una qualità: il pensiero da solo senza il cuore manca di questo calore, di questa qualità. È come quando tu, prima, dicevi «artistico»: è una qualità, c’è qualcosa in più che cogli. Non è solo un pensiero: un pensiero c’ha dentro l’amore, la creatività, tante qualità che sono delle sfumature necessarie.
Archiati: Il problema nasce dal fatto che c’è pensiero e pensiero, e il pensiero in voga nella scienza, nell’umanità materialistica che abbiamo, è un pensiero che riguarda il sapere, ma il sapere non è conoscenza. Il sapere è il fattore quantitativo delle tante cose che io so. Noi stiamo parlando di un pensare che entra nell’essere intimissimo di ciò che pensa e che diventa lui stesso ciò che pensa.
Ora, questo tipo di conoscenza dell’essere, di unificazione con l’essere, è per natura la forma suprema dell’amore: l’amore, in questo pensare, non è un’altra cosa che si aggiunge. Questo è importante, altrimenti restiamo a una definizione del pensare che è puramente astratta e ci dobbiamo aggiungere l’amore: ma allora non è né pensare, né amare.
Sono vero pensare e vero amare solo quando sono una cosa sola. Quindi un amore senza il pensare, senza la conoscenza dell’essere dell’altro, non è amore; e il pensare (questo volevi dire tu) senza la conoscenza che entra e diventa l’essenza dell’altro, non è un vero pensare.
Intervento: Come c’è il pensare di cui hai parlato prima, che unisce le cose, c’è un altro pensare che le disgrega, un pensare in cui siamo tutti. In questo caso l’amore viene da un pensare come quello che ha unito il mondo.
Archiati: Tanto è vero che noi parliamo di scienza, e la scienza sa tante cose sul mondo. Perché non parliamo di conoscenza?
La conoscenza è una con-scienza: in questo «con» c’è il diventare uno. Quindi è giusto che si parli di scienza, ma questa scienza non ha nulla a che fare con il modo di pensare che crea una unione assoluta che è al contempo puro pensare, puro amare, puro volere, e puro creare.
Però, siccome è un elemento di conquista e non è il dato di partenza della coscienza ordinaria, soprattutto all’inizio de La filosofia della libertà facciamo degli accenni, e accettiamo che la cosa ci sia ancora un pochino lontana. Quindi anche queste incomprensioni… sono comprensibili.
Però va chiarito che il pensare di cui si sta parlando qui non è qualcosa accanto all’amore: è l’essenza dell’amore.
(II,12) Il dualismo trascura ciò. Esso ritiene che l’interiorità dell’uomo sia un essere spirituale del tutto estraneo alla natura {come se fosse un Angelo, uno spirito disincarnato} e cerca di saldarglielo sopra: non deve meravigliare che esso non possa trovare il mastice adatto. Noi possiamo trovare la natura fuori di noi solo se prima abbiamo imparato a conoscerla dentro di noi. Quanto nella nostra interiorità è ad essa affine ci sarà di guida {la natura in noi}. La nostra strada è così già tracciata. Noi non faremo discussioni sulla reciproca azione fra natura e spirito, ma scenderemo invece nel profondo del nostro proprio essere per trovarvi quegli elementi che nella nostra fuga dalla natura abbiamo portato con noi.
L’elemento più intimo, più essenziale della natura è il pensare che la crea! È l’essenza della natura.
E se io scopro in me, nell’io, lo stesso pensare creatore, allora dico che la cosa più importante ce l’abbiamo in comune. Allora con questo pensare posso capire il mondo che è intriso di forze pensanti che ne sono l’essenza, perché l’essenza delle cose sono i concetti, i pensieri divini che le hanno concepite, le cose.
In altre parole, le percezioni, in quanto concetti pensati dal Creatore, mi sono estranee, ma se io risalgo all’origine trovo il pensare, non il pensato.
La natura, il mondo in quanto pensato, in quanto pensieri pensati, mi sono estranei perché sono stati pensati da un altro (il Creatore): però, se io risalgo all’origine del pensiero che li fa sorgere, scorgo in me la stessa origine, lo stesso elemento che crea i concetti, che crea le idee. Lo spirito è l’essenza del mondo, lo spirito è l’essenza del mio io. Lo spirito pensante, che pensa il pensare.
L’origine del mondo è il pensare divino, l’origine dell’io è il pensare umano, però pensare è qua, pensare è là. Sempre pensare è.
II,13. L’esame del nostro essere ci deve dare la soluzione dell’enigma. Dobbiamo arrivare ad un punto in cui potremo dire: qui noi non siamo solamente «io», qui c’è qualcosa che è più che «io».
II,14. Sono convinto che qualcuno dei lettori che mi hanno seguito fin qui, troverà le mie considerazioni per nulla in accordo con «lo stato attuale della scienza». Non posso rispondergli altro {e questa è anche un po’ la risposta alle domande che si facevano prima} se non che fino ad ora non ho voluto affatto avere a che fare con risultati scientifici di nessun genere, ma semplicemente descrivere ciò che ciascuno sperimenta entro la propria coscienza {io l’ho chiamato il dato di partenza dell’autoesperienza della coscienza umana}. Se nel discorso sono scivolate alcune singole frasi {per esempio quella sull’esistenza autonoma del mondo} concernenti certi tentativi di conciliare la coscienza col mondo, ciò ha soltanto lo scopo di chiarire i fatti in sé {come dato di percezione introspettiva}. Per questo non mi sono neppure troppo curato di adoperare certe espressioni, come «io», «spirito», «mondo», «natura», col preciso significato che è corrente in filosofia e in psicologia {Steiner non si è curato di usare le parole in senso tecnico}.
Eventualmente lo psicologo, il filosofo possono cominciare già qui, al secondo capitolo, a dire: un momento, tu usi la categoria «spirito», ma non ti rendi conto che un Hegel ha scritto tutto un libro fondamentale sulla Fenomenologia dello spirito… E Steiner dice: piano, piano, qui è soltanto una prima descrizione fenomenologica dell’autoesperienza iniziale della coscienza umana.
L’essere umano parla di «io» e «mondo»: quando dice io non intende un pezzo di materia, perché il suo corpo lo considera come parte del mondo, e quando parla del mondo dice che è una cosa materiale, una cosa che gli è esterna. Di più non intende dire, questa è la constatazione.
Poi, con l’affermazione finale che se vogliamo portare in interazione questo io e questo mondo ci deve pur essere qualcosa che hanno in comune – altrimenti non c’è nulla che possa andare indietro e avanti fra io e mondo –, Steiner non fa nulla di più che un primo accenno: l’unica cosa che può essere in comune è il pensare. Però l’analisi del pensare è riservata al terzo capitolo.
(II,14) La coscienza quotidiana non conosce le distinzioni nette {e sofisticate} della scienza, e fino ad ora si trattava soltanto di considerare i fatti di esperienza quotidiana. Quel che m’importa non è il modo in cui la scienza ha finora interpretato la coscienza, bensì come la coscienza vive la sua vita sperimentando se stessa, un’ora dopo l’altra {una pura descrizione}.
Il terzo capitolo è intitolato: il pensiero al servizio della comprensione del mondo. Vedremo in che senso sarebbe meglio tradurre «pensare» anziché «pensiero». Chi ha «il pensare», invece de «il pensiero»? Bene, meglio, il pensare è meglio!
Facciamo una pausa e poi vediamo!
*******
Archiati: Prima di affrontare il terzo capitolo, vediamo se ci sono domande. Cerchiamo di esprimerci in modo chiaro, dando ai processi di pensiero il tempo necessario.
Intervento: Nell’interazione tra il mondo e l’essere umano, attraverso il pensiero, inizialmente a me sembrava che l’essere umano fosse soltanto passivo: attraverso il mondo si crea dei concetti e aumenta nella propria coscienza o conoscenza. È un po’ come se le due cose rimanessero separate. Però, se l’essenza del mondo è la coscienza, aumentando la coscienza nell’uomo cambia anche la manifestazione del mondo esterno? Cioè, il mondo di tremila anni fa, di un milione di anni fa, è uguale al mondo di adesso?
Archiati: Puoi riassumere la tua domanda in una frase?
Replica: Quanto la coscienza dell’uomo interviene sulla materia?
Archiati: Tu prima hai parlato circa un minuto, un minuto e mezzo, ti sei fatta una bella pensata, hai espresso pensieri, hai pensato… quindi, cosa fa l’io? Pensa! A questo punto siamo, non siamo andati oltre per ora, siamo a questo punto!
Replica: Quindi noi ancora non interveniamo nel mondo, mentre il mondo interviene su noi?
Archiati: Questo se tu decidi che il pensare non è un modo di intervenire nel mondo: ma come fai a saperlo? E se il pensare fosse il modo migliore di intervenire nel mondo?
Replica: Allora il mondo che stiamo distruggendo è la conseguenza dei nostri pensieri o del nostro pensare? Mi rifaccio anche al libro sulle catastrofi naturali[6]: sembra che il nostro pensare non è che stia portando dei buoni risultati.
Archiati: Tu adesso stai facendo tante affermazioni che saranno nel contesto più in là. Ci arriveremo, soprattutto col terzo capitolo. Finora noi abbiamo constatato che l’elemento di partenza è quello che abbiamo percepito da te, poco fa: è il pensare.
Quindi siamo arrivati al punto da dire: dobbiamo partire dal pensare, quello è l’elemento di partenza. Nel momento in cui apriamo la bocca (finché uno ha il becco chiuso non ci sono problemi), siamo nell’elemento del pensare. E allora, se è l’elemento originario, partiamo da quello, perché tutto il resto è conseguenza, è effetto di questo pensare. Il punto di partenza è il pensare: tu che hai fatto? Hai pensato.
Intervento: Io vorrei riallacciarmi al discorso dell’interazione fra corpo e spirito, perché non mi è chiara nella malattia mentale quale sia questa interazione e quale sia il ruolo che svolgono gli psicofarmaci nella malattia mentale.
Archiati: Problemino non da poco. Parlare di malattia mentale, naturalmente, è un prodotto del pensiero, è un pensato, è un pensiero prodotto dal pensare. Ovviamente, no?
Ora, siccome noi siamo sempre dentro al pensare, pensiamo anche su questa categoria, e la prima cosa che il mio pensare dice è che è una brutta pensata, perché i malati mentali non sono mai esistiti, perché il pensare non può essere malato!
Allora, ciò che noi chiamiamo «malattia», «malato mentale», in base a un pensare decaduto, a un pensare depotenziato, diventato poco creativo, è in realtà un fenomeno di tutt’altra natura.
Adesso faccio finta di non essere alla fine del secondo capitolo, altrimenti dovrei dire: aspetta un anno, due anni, tre anni, e poi ti darò la risposta a questa domanda. Dobbiamo, in sede di domande, anche un pochino regolarci… Prima non era un tentativo di mettere a tacere lei, era il tentativo di ritornare al punto di partenza perché la domanda si riferiva a quello. Adesso tu dici: vediamo un pochino che cosa il pensare dice su questa faccenda. Un pensare sano dovrebbe dire: partiamo dai non malati mentali, che siamo noi.
Che cos’è il normale? Il normale, che è poi il dato di coscienza di partenza di cui stiamo parlando, è quella certa interazione tra lo spirito umano, che chiamiamo io, e questo frammento di mondo che è il cervello, il sostrato fisiologico, biologico del cervello.
In base al tipo di interazione che c’è, normalità significa: la maggior parte. Non significa che è meglio o peggio, significa semplicemente che il 95-98 % degli esseri umani è così. Quando il cervello è in un altro modo, manca questo tipo normale di interazione e ce n’è un altro.
Allora, la coscienza ordinaria di cui stiamo parlando è un certo tipo di interazione, considerato normale, fra «spirito» e «materia», tutti e due tra virgolette perché ancora non abbiamo disquisito ulteriormente su cosa sia spirito e cosa sia materia. Spirito è il pensare (o la coscienza, come vogliamo), materia in questo caso è il sostrato del cervello, la realtà biologica, che non è certo puro spirito.
Se l’interazione normale dello spirito con la materia, quindi della coscienza umana col cervello, dà il tipo di coscienza cosiddetta «normale», quella che tutti abbiamo, allora il caso di eccezione deve essere un modo diverso, eccezionale, di interazione. È chiaro. Se il pensiero è lineare, arriva a questo.
E dove sta la differenza tra il normale e l’anormale? Ci sono due possibilità fondamentali: o il cosiddetto malato mentale entra in interazione maggiore col sostrato del cervello, oppure minore. Queste sono le due possibilità fondamentali.
Proviamo la prima ipotesi: se il normale è un certo tipo di interazione che non fa sprofondare del tutto la coscienza nel biologico, altrimenti non saremmo coscienti, quando la coscienza sprofonda del tutto nel biologico, come nel caso dell’animale, non gli resta nulla di coscienza per poter parlare di «io», per parlare di «io penso» ecc… Se il malato mentale fosse uno spirito umano che entra nel biologico, che afferra il sostrato biologico del cervello in un modo più forte e quindi sprofonda in esso in un modo più forte di quanto accade nella normalità del 98-99% dei casi, quale dovrebbe essere il suo stato di coscienza?
Intervento: Più addormentato.
Intervento: Più basso.
Archiati: Che vuol dire più basso?
Replica: Meno libero, più deterministico.
Archiati: Il fenomeno originario, il fenomeno archetipico di una coscienza che diventa più prigioniera del normale del suo stato biologico è il fenomeno tecnico dell’allucinazione. Quindi tecnicamente, sia in senso di scienza naturale che di scienza spirituale, il fenomeno allucinazione è una coscienza, uno spirito (chiamatelo come volete) che entra in un rapporto più cattivante, più imprigionante con la materia. Lo spirito è più prigioniero del sostrato fisiologico per cui non è più capace di gestire con libertà le immagini della coscienza. Perciò parliamo di idee fisse, ossessive, ma soprattutto di allucinazioni.
Quando ero a New York, da giovane giovane, appena sfornato, una volta di notte (ero il più giovane, quindi dovevo saltar fuori io dal letto) sono andato da una giovane donna allucinata e per la prima volta sono stato confrontato con questo fenomeno. Non riuscivo a capire di che cosa parlava, perché non avevo affrontato più di tanto il fenomeno dell’allucinazione, e mi resi conto che era proprio terrorizzata da queste allucinazioni, quindi le doveva avere davvero.
Il cosiddetto malato mentale è un allucinato? No, no. E allora il fenomeno è l’opposto: è uno spirito, è una coscienza che si inserisce meno del normale dentro i processi del cervello. Anziché entrarci dentro e gestire il cervello dal di dentro, lo spirito aleggia fuori.
Adesso faccio un piccolo salto, altrimenti dovremmo far tutta La filosofia della libertà e un minimo di scienza dello spirito. Prendete quello che dirò come ipotesi di lavoro (già il pensiero normale può arrivare in chiave di riflessione, di pensiero pulito, alla conclusione fondata): se io parto dal presupposto che la coscienza umana non è una fiammella che sorge come risultato, come effetto del biologico, se parto dal presupposto che ho a che fare con uno spirito umano che ancora prima di tuffarsi nel biologico sceglie lui quale corrente ereditaria gli corrisponde ecc…, allora il cosiddetto «malato mentale» è un’individualità umana, uno spirito umano, che ancora prima di nascere ha scelto liberamente di afferrare il cervello meno del normale. L’ha voluto.
Resta la domanda: perché?
I motivi per cui uno spirito umano sceglie liberamente, magari per tutta una vita, di afferrare meno del normale la struttura del cervello, sono individuali. Ma un tratto comune agli spiriti che fanno questa scelta è che vedono la normalità degli esseri umani, inserita com’è nel cervello, diventare materialista e vivere nella menzogna di vita, nell’errore fondamentale di ritenere il sostrato materiale come causante e il fattore di coscienza addirittura come un puro effetto in balia della natura: allora questi spiriti decidono di afferrare di meno il sostrato del cervello. Questo è il tratto che hanno in comune. Poi ci sono i risvolti individuali della loro evoluzione, ecc…, però hanno in comune un atto di amore, la decisione di dare un contributo all’umanità perché superi il materialismo.
Il fenomeno della malattia mentale lo si può capire unicamente in chiave di amore, di offerta, di sacrificio, di dedizione. Perché il cosiddetto malato mentale mi dice: tu, essere umano normale, pensi che il pensiero e la coscienza dipendano in tutto e per tutto da quello che avviene nel cervello. Io ti dimostro invece che è proprio l’opposto, perché con me tu puoi parlare, puoi entrare in comunicazione soltanto a livello puramente spirituale. Se infatti uno ha una minima consapevolezza dell’Io superiore, dello spirito eterno di ogni uomo, può parlare direttamente con lui.
Allora si capisce il senso di un caso che vi ho ricordato tante volte, descritto da Steiner – che non inventa i casi né emette dogmi, ma descrive e riferisce soltanto casi reali – di un essere umano che per tutta una vita era stato tecnicamente un idiota, quindi un malato mentale. Per tutta la vita. Questo enorme sacrificio, questo gesto di amore all’umanità quale contributo per superare il materialismo, unito all’esperienza di venire gestito spesso con poco amore anche da parte di tutte le persone karmicamente congiunte (genitori ecc.), ha creato in lui le forze nella vita successiva di diventare un genio dell’amore. Un genio. E il presupposto per creare queste forze è stato il passare tutta una vita da «malato mentale», come lo chiamiamo noi.
La categoria di malato mentale è stupida, proprio stupida.
Intervento: L’Alzheimer si può equiparare?
Archiati: No, son due fenomeni del tutto diversi.
Intervento: Se è vero che il malato mentale può aver deciso lui stesso, prima di nascere, di affrontare l’esperienza di calarsi poco nel cervello, è vero anche che ci sono stati molti geni – nella storia, nella letteratura, nella musica, nella pittura – ma anche nella vita normale di oggi, persone molto in là, persone molto intelligenti, molto creative (non solo geni del passato) che arrivano ad avere dei problemi molto forti mentali, arrivano addirittura a togliersi la vita. Ecco, allora quello non credo sia una cosa che hanno deciso prima. Oppure ci sono delle persone più normali che attraverso un grande dolore arrivano a uno stato di depressione, non di schizofrenia ma di depressione: probabilmente il dolore è talmente grande che non riescono a sopportarlo e si rifugiano in questa depressione che ti toglie la volontà e quindi sei lì che sopravvivi.
Archiati: Tu hai fatto un po’ un fritto misto tra descrizione di fenomeni e interpretazioni tue. Non fa niente, è un po’ inevitabile.
Replica: Parlo di situazioni che ho visto nella vita, nel mio quotidiano.
Archiati: Sì, sì. Parecchio di quello che hai detto va oltre ciò che hai visto, è l’interpretazione pensante. Comunque va bene. La prima cosa da dire è che un genio non va paragonato col malato mentale, caso mai è il fenomeno opposto. Il malato mentale, noi diciamo, è carente, il genio invece è super ricco. Quindi è chiaro che abbiamo a che fare con due fenomeni polari, e non sono paragonabili come se fossero lo stesso fenomeno.
Perciò lasciamo da parte il fenomeno malato mentale di cui abbiamo parlato prima e adesso affrontiamo la fenomenologia del genio, perché il paragone non serve, il paragone è fuorviante.
Replica: C’era l’una cosa e l’altra, c’era il genio e c’era la malattia mentale.
Archiati: No, è qui che tu cominci con le tue interpretazioni, capito? Il genio (anche di queste cose abbiamo già parlato, perciò cerco di riassumere cogliendo il nocciolo di questioni molto complesse) è un essere umano attraverso il quale si esprime un essere superiore. Questo è il fenomeno. Non è la sua individualità, altrimenti non parleremmo di genio. Il che significa che nel fenomeno genio si esprime molto di più di quanto l’essere umano si conquista con la libertà. Quindi il genio è per natura un fenomeno di grazia divina, per usare una metafora, e perciò si esprime maggiormente nella gioventù, dove non c’è ancora il portato, il risultato delle conquiste dell’individuo.
Se questa lettura è giusta, naturalmente non entro nei particolari, significa che il fenomeno genio diventa sempre più antiquato, sempre più anacronistico. Perché? Perché la direzione dell’evoluzione è che la grazia divina, ciò che viene donato all’uomo, deve recedere, deve ritirarsi sempre di più per fare posto a quel che l’uomo si conquista da solo a brano a brano. In questo senso (e non nel senso del genio dell’amore di cui parlavo prima) un genio, oggi, è un anacronismo assoluto.
È un essere umano che vuol poltrire al punto da aspettarsi tutto dalla grazia divina. Chi oggi ammira il genio, l’elemento geniale, praticamente non si rende conto che questo andare in brodo di giuggiole significa restare ai tempi del guru che fa lui al posto mio. In altre parole, è un voler restare bambini.
Essendo un fenomeno sempre più anacronistico, esso non genera nell’essere umano quella gioia, quella soddisfazione genuina che nasce quando ci conquistiamo qualcosa a partire dalla libertà, come tutti possiamo ugualmente fare. Perciò il genio, oggi, si rende conto che ciò che la grazia divina gli dà non lo può rendere felice perché non proviene dalla sua libertà, e quindi diventa per natura depressivo e può finire per togliersi la vita.
Replica: E quando diventano pazzi?
Archiati: È lo stesso: pazzo o depresso significa che non è più in consonanza con le leggi dell’evoluzione. Essere liberi è molto meglio che essere geniali, è molto meglio, è un godimento molto superiore!
Quindi tutto il divismo, tutto il ricevere l’ammirazione degli altri, è tutto bambinismo!
Replica: Ma io non stavo parlando di divismo.
Archiati: È un fenomeno analogo. L’ammirazione dell’elemento di eccezione – il genio è un elemento di eccezione, il divo o la diva sono un elemento di eccezione – è intrinsecamente un poltrire della libertà, altrimenti verrebbe ammirata soltanto la libertà, quella che c’è, però!
Replica: Ma io parlo di un Van Gogh, mica dei divi di oggi. Sto parlando di gente che ha sconvolto l’arte nel suo campo, che ha tentato delle cose, che è andata oltre…
Archiati: Oltre cosa?
Replica: Oltre quello che fino a quel momento, in pittura o in letteratura, c’era. Gente che ha scoperto qualcosa, ha insegnato qualcosa. Non sto parlando dei divi, ma dei geni.
Archiati: Non ho detto che tu ne parlavi, ma lasciami gestire il mio discorso, perché io non lo riferisco soltanto a te. Volevo dire che più l’evoluzione va avanti e più sorge l’elemento democratico dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani e l’uguaglianza è la libertà che tutti abbiamo in mano. Scoprire cose nuove, creare cose nuove è ugualmente alla portata di tutti! E chi non lo fa è perché ha poltrito e non perché non è capace! Questa è l’essenza dell’umano – e del cristianesimo, se volete.
Perché un Van Gogh deve essere capace più di te o di me o più di lui o più di lei di scoprire delle cose nuove? Questo talento è nell’essenza di ogni essere umano.
Replica: E un genio come Mozart?
Archiati: Lasciami parlare, tu vuoi soltanto contraddire, ma io sto parlando per tutti, non solo per te. Il futuro dell’evoluzione è che o diventiamo tutti geni o ci perdiamo tutti.
Replica: Ah!
Archiati: Ah, allora di’ che non avevi capito, il discorso.
Replica: Ma tu parli di talento!
Archiati: Certo, quello ce l’ha ognuno di noi.
Replica: Noooo!! Per esempio, nella nostra associazione, in teatro, ci sono degli attori che, in quanto a tecnica, fanno il loro mestiere bene, sono bravi, ma non geniali. Però ce ne sono alcuni altri che sono geniali, che hanno un carisma, c’è in loro qualcosa che gli viene da lontano. Non è quello.
Archiati: Ma scusa, perché vuoi per forza essere così prepotente?
Replica: Ma non sono prepotente…
Archiati: Sì che lo sei! Basterebbe che tu dicessi che non hai capito nulla di quello che ho detto, e allora tutto sarebbe a posto!
Replica: No, io ho capito benissimo quello che hai detto!
Archiati: No, da quello che tu dici mostri che non hai capito nulla!
Replica: No, io dico che se tu dici che tutti noi possiamo diventare dei geni…
Archiati: Siamo! Lo siamo!
Replica: ...che in nuce siamo dei geni, io non ci credo a questo fatto. È solo questo, il problema. Scusa, ma non ci credo!
Archiati: Ma guarda che la gente qui non è interessata soltanto a ciò che tu credi o a ciò che tu non credi.
Replica: Ma no, il mio controbattere a te è in questo senso: non è che voglia dirti no, puoi avere tu ragione e io torto, ma io penso che non è vero, che il genio non è da tutti, che ci vuole un talento particolare per diventare genio.
Archiati: E io ti continuo a dire: guarda che non hai capito quello che io ho detto. Io lo so che cosa ho detto e non lo riconosco in quello che tu mi ripeti. Perciò non hai capito nulla.
Replica: No, io ho capito che tu hai detto che in tutti noi c’è il talento per diventare dei geni.
Archiati: NO! Non è questo che sto dicendo! Tu non stai ascoltando, quindi l’unica cosa intelligente che puoi fare è tacere un momento!
Replica: Scusa. Sto ascoltando.
Archiati: No, non stai ascoltando! Quello che io sto dicendo è che ogni essere umano è assolutamente unico e in quanto unico è qualcosa di assolutamente geniale perché nessun altro può immettere nell’umanità ciò che lui è! Non ciò che lui può divenire! I geni del passato non erano espressioni dell’io unico e irripetibile. Erano espressioni della grazia divina, e perciò molti si sono tolti la vita, perciò sono diventati depressivi.
Replica: Così, allora, va bene.
Archiati: Adesso cominci a capire, perciò le cose vanno bene.
Intervento: Il genio è una possessione, allora. E perché, a quale scopo viene posseduto dalla grazia divina un essere?
Archiati: Perché nel passato, essendo la libertà umana, la creatività umana soltanto incipiente, i genitori dell’umanità, la grazia divina ecc.. dovevano avere un ruolo principale. Però la direzione dell’evoluzione è che questo elemento, che io ho chiamato di «grazia divina» per intenderci, si deve ritirare sempre di più. Quindi se le cose vanno bene, questo tipo di genio dovrà finire.
Replica: Cioè, quello che era immesso nell’umanità per grazia divina attraverso questi geni, dovrà essere immesso nell’umanità attraverso la creatività e il genio individuale di ciascun essere umano.
Archiati: È questo che sto dicendo.
Intervento: Che cosa intendevi quando hai detto che la potenzialità dell’amore è di entrare nell’altro e diventare l’essenza dell’altro? Se ho capito giusto, vuol dire che io, se incontro una persona, un mendicante sulla strada, devo pensarlo come una persona che ha bisogno di tutto e io devo col mio pensiero provare ad aiutarlo concretamente. Entrare nell’essenza dell’altro, hai detto.
Archiati: Noi non stiamo parlando del «devi», non diamo indicazioni di comportamento.
Allora, due esseri A e B, attraverso la conoscenza reciproca e l’amore reciproco, vivono sempre di più una unità. La domanda successiva è: vivendosi sempre di più come una unità sparisce l’individualità distinta di ognuno? Oppure diventa addirittura ancora più perfetta?
Il paradosso, sia nell’unione del pensiero sia nell’unione dell’amore (che poi è la stessa cosa), è che questo intento di diventare uno con l’essere dell’altro in quanto lo capisco nel mio pensiero e in quanto mi pongo tutto al servizio della sua evoluzione, porta il mio essere unico alla sua perfezione. Quindi nel pensiero e nell’amore l’essere umano si individualizza al massimo ed entra al massimo in comunione. Tutti e due gli aspetti.
L’esperienza del pensare e l’esperienza dell’amare sono il culmine della comunione e dell’individualizzazione, perché devo impiegare tutte le mie forze per raggiungere questa vetta del pensare e questa vetta dell’amare, e mettendoci tutte le mie forze lo farò a modo mio, in un modo unico. Così il pensare e l’amare realizzano la comunione e l’individualizzazione, tutti e due a livello sommo.
Il problema è che il nostro modo di pensare dice: se sono uno non sono due, se sono due non sono uno. Per questo le sacre scritture di tutte le religioni usano l’immagine dell’organismo.
L’organismo è un’unità, però non è tutto la stessa cosa: il fegato deve restare fegato, la milza deve restare milza, e proprio perché ogni organo mantiene e porta alla perfezione il suo contributo specifico e unico, c’è il massimo di unità.
Quindi la domanda è sempre: chi sono io nell’organismo di pensieri e nell’organismo di amore che chiamiamo umanità? Chi sono io in questo organismo?
In altre parole, il contributo migliore dell’amore sono i talenti specifici dell’individuo, unici in ognuno, perché quello è il meglio che ognuno ha da dare. E se uno «si perde» nell’amore, ha finito di amare perché non dà più nulla! Non è amore se uno si perde.
Il problema, a questo livello di pensiero diventato poverello, è che quando noi afferriamo un corno del dilemma perdiamo l’altro. Pensare in polarità riprende il pensiero e comincia a renderlo di nuovo vivace, vivente, perché dobbiamo muoverci, perché per non perdere l’individualizzazione crescente, dove avviene l’unità, devo muovermi dall’uno all’altro, e allora il pensare diventa sempre più vivente, sempre più vivace, in movimento.
Quindi più comunione più individualizzazione, più individualizzazione più comunione. Si approfondiscono tutti e due, o si appiattiscono tutti e due. Anche questi esercizi sono sempre da fare di nuovo, in contesti sempre diversi.
Intervento: Sull’argomento del genio mi è capitato spesso di percepire nell’opera dei geni un elemento che per me era proprio la loro nazionalità: per esempio nella musica di Chaikowsky uno capisce perfettamente la Russia. Perfettamente. Però senti che è un qualcosa di più di una percezione degli eventi naturali quella che viene da quella della musica, è una percezione dell’anima, di qualcosa di interiore, no?
Quindi, se il genio è un dono divino, è comunque un dono per far intravedere a noi uomini che gli stiamo di fronte le possibilità dello spirito, quello che ancora non abbiamo capito perché è invisibile. È qualcosa che parla oltre il linguaggio fisico della natura, penso. L’ammirazione verso il genio è l’ammirazione di questa opera divina che possiamo percepire in maniera più profonda, non tanto l’ammirazione dell’uomo Chaikowsky, che può avere tutti i suoi difetti, o dell’uomo Mozart che lo sa lui quello che gli succede, com’è il suo io, insomma.
L’ammirazione del genio io non la sento come una cosa deteriore, perché vivo questo sentimento di ammirare quello che mi viene dato in più – un’opera, un esempio di bellezza, un esempio di comprensione maggiore di quella che avevo fino a quel momento, prima di aver sentito quella musica e di aver visto quell’opera. Un’opera che però può essere anche data dalla comprensione, come tu dici, di un Beethoven che parte di più dal suo io: è un uomo, una creatura di Dio. La creazione è una cosa talmente vasta che non posso porre limiti al fatto di poter andare più oltre, insomma.
Archiati: Allora, tu hai ricamato un pochino sull’ammirazione. Io non mollo perché sarebbe brutto se mollassi, sono cose troppo importanti: il genio è un essere umano percorso da forze che non sono sue. Io, se vuoi metterla nel personale, ho l’opposto dell’ammirazione, dico: poveraccio, invece di far lui si fa fare.
Replica: Ma la creazione, poi, di questo genio – che può essere una musica bellissima, un quadro stupendo – può essere ammirevole di per sé.
Archiati: Hai bisogno di questi elementi da ammirare? Non ti basta tutta la natura?
Replica: Anche quello, perché no?
Archiati: No, no perché è un risultato di un poltrire, oggi!
Intervento: Ah, oggi!
Archiati: Stiamo parlando di oggi. Lei non ha detto: erano ammirevoli fino a trecento anni fa. Non ha detto questo. Ha detto; io ammiro. Lei parla di oggi.
Intervento: Ho detto che ammiro l’opera del genio. Mi rendo conto, però, che il genio, inteso in quella maniera, oggi è molto più raro – giustamente, come dici tu. Mi metto su quella linea di pensiero. Però verso i geni del passato io, personalmente, non posso che sentire gratitudine come la sento per la natura. Che poi siano attraversati da forze non loro, questa è una cosa che dovrò capire, imparare, vedere e esaminare. Però la percezione che loro mi offrono è la percezione di qualcosa che a me è utile. Se poi tu mi dici che sbaglio, metterò in cantiere questo sbaglio e ci ragionerò.
Archiati: Io non parlo di sbagli: sbagliare è una categoria morale.
Intervento: All’inizio del secondo capitolo Steiner dice: l’artista è quello che cerca di portare nella materia quello che è il suo io spirituale, e lo fa. Allora perché l’arte non deve…
Archiati: Non stiamo parlando di arte, stiamo parlando del genio.
Replica: È difficile dire dove finisce il processo artistico. Non so… Michelangelo…
Archiati: No, noi stiamo parlando del fenomeno genio. L’essenza del concetto genio è quella del fenomeno di eccezione, altrimenti non è genio.
Replica: Ma come facciamo a definire chi è genio e chi non è genio? È questo che non riesco a capire.
Archiati: Deve essere eccezionale, se no non è genio, deve chiaramente esuberare la media normale, altrimenti non è genio. Noi parliamo del genio di Mozart ecc… ma non abbiamo attorno a noi dei fenomeni dove la grazia divina, la natura, compie qualcosa di ancora più geniale? In ogni bambino! Quindi Mozart è un grande bambino.
Intervento: È un grande bambino e mi fa ammirare tutto quello che c’è di bello nell’infanzia.
Archiati: Sì, ma non più e non meno di come ammiro ogni bambino.
Replica: No, no, non era questo che intendevo. Non sto dicendo: faccio a meno di tutti i bambini e mi piglio Mozart! Assolutamente. Non mi sono spiegata.
Intervento: Non si dovrebbe distinguere il genio di un bambino che a tre anni va all’università a risolvere equazioni complicatissime da chi invece ha un talento artistico? Parliamo di genialità in modo generico, ma di fatto parliamo di un grande artista che ha saputo a volte anche interpretare cose che magari noi normalmente non sappiamo fare. Secondo me sono due genialità diverse: in una riconosco, magari, l’opera di un’altra entità, come il bambino che a tre anni fa cose eccezionali, nell’altra semplicemente il grande talento di una persona (che poi forse lo pagherà).
Archiati: È difficile il quesito. Ci provo da un altro lato. Si tratta di avere il coraggio di mettere in questione radicalmente la cultura borghese. Di questo si tratta. Ora, uno dei cardini della cultura borghese è l’ammirazione: o sei ammirato sul palcoscenico perché sei un attore, o sei ammirato come medico perché sai fare le operazioni migliori, il trapianto del cuore… L’America è proprio il correre dietro all’elemento di eccezione.
Questo correre dietro all’elemento di eccezione, io non lo voglio presentare soltanto come negativo, ma voglio dire che se viene assolutizzato, se viene visto nell’isolamento, si perde di vista l’elemento di comunanza che tutti abbiamo, e quindi l’uguaglianza degli uomini non viene più vissuta da nessuna parte. Ognuno deve essere speciale e chi non si sente speciale è costretto a diventare depresso. Questa è disumanità!
È questo che voglio dire. È però un altro modo, più in chiave sociale che politica, di dire la stessa cosa. O ci mettiamo in testa che la comunanza dell’umano è l’essenza dell’umano, oppure non abbiamo capito nulla dell’essenza dell’umano.
L’essenza dell’umano non è il fattore di specialità, ma è ciò che tutti abbiamo in comune e ugualmente. Non c’è uno che è più uomo di un altro o meno uomo di un altro, e questo io non lo sentivo nei vostri discorsi! Non c’era proprio!
Intervento: Il fatto che tutti gli uomini siano unici, per me era un dato talmente di fatto che non l’ho sottolineato. Ogni uomo è un genio, come dicevi tu. Ma l’ammirazione per l’arte, il fatto che uno dipinga tanto bene, mi mette voglia di dipingere anche se non sono a quei livelli. Mi dà un esempio: ah, l’hai fatto tu, lo posso fare anch’io! Ci provo a modo mio.
Archiati: Il problema non è che tu ammiri il genio, è che ammiri un po’ di meno il malato mentale o il manovale! Allora, qual è la tua ammirazione per il manovale?
Replica: Il manovale, se sa fare bene il suo lavoro, lo ammiro moltissimo, altrimenti dico che ancora non ha tirato fuori…
Archiati: Non ci siamo! Il suo lavoro non ha nulla a che fare con l’umano.
Replica: Se io non so quello che è in grado di fare come essere unico nell’umanità, se ancora non lo conosco, non lo posso ammirare. Questa categoria dell’ammirazione è un meravigliarmi di fronte a un’espressione…
Archiati: No, è disumano, perché crea classi. Prima classe, seconda classe, terza classe.
Replica: Dentro di me non c’è nessuna intenzione di creare classi, quindi mi sento a posto!
Archiati: Tu prima hai parlato di un russo, tu non puoi dire di conoscere Chaikowsky più di un manovale. Col manovale ti sei fatta la domanda se lo conosci o no, e perché non l’hai fatta per Chaikowsky?
Replica: Me l’ero fatta anche con Chaikowsky, se ti ricordi, perché avevo detto: non so a che livello è Chaikowsky, come individuo, con tutti i suoi difetti ecc., perché non lo conosco, ma la percezione della musica che lui ha scritto ce l’ho e su quella posso…
Archiati: E se la sua musica non ti dicesse nulla sulla sua individualità?
Replica: E può essere, quello non l’ho messo nemmeno in discussione.
Archiati: Allora non conosci nulla dell’individualità di Chaikowsky.
Replica: Però posso dire che ammiro la sua musica? Posso dire che la musica mi dà qualcosa?
Archiati: Io ti sto dicendo: ammiri la musica se sei il tipo che divide gli esseri umani in classi. Torniamo alle caste dell’India.
Replica: No, no, assolutamente, rimaniamo ognuno con la propria idea.
Archiati: Chi l’avrebbe mai detto che la filosofia della libertà avrebbe creato tanto… bello, no?
Intervento: Di Dante che concetto hai? Della sua genialità linguistica.
Archiati: Ma scusa, di quanti secoli vai indietro?
Replica: Ma ancora oggi riluce. La stessa cosa il Partenone, anche Caravaggio!
Archiati: Il fenomeno Dante è successo e si è concluso (per quel che riguarda Dante) settecento anni fa. Il linguaggio che lui, sotto l’ispirazione di un Arcangelo, ha posto nel mondo, è gestibile in modo uguale da tutte le individualità che hanno questa lingua materna.
Intervento: Ma non tutti possono scrivere la Divina commedia!
Archiati: Ma non è questo! Tutti coloro che hanno l’italiano come lingua materna, hanno lo stesso accesso diretto, ugualmente diretto all’Arcangelo di questa lingua, questo è il concetto, perché è la loro lingua materna. Lingua materna significa: io, che questa lingua l’ho succhiata col latte materno – perciò si dice materna e non paterna –, ho un accesso diretto con l’Arcangelo, con l’artefice di questa lingua, e ognuno ce l’ha ugualmente diretto: che poi uno si avvalga di più e l’altro di meno, questo è un fattore di libertà. Ma l’accessibilità, il rapporto diretto, ce l’hanno tutti in modo uguale, ed è questo fattore assolutamente umano, dell’uguaglianza dell’umano, che la borghesia moderna, materialistica, proprio non ha! Ed è l’elemento più disumano che ci sia, perché ci manca la percezione dell’uguaglianza dell’umano.
Tant’è vero che ognuno di noi nella sua lingua materna dice: hai detto giusto, hai detto sbagliato. Mica dice: aspetta che telefono a Dante per sapere se hai detto bene o se hai detto male. Lingua materna è lingua materna.
In Germania io dico: voi e la vostra lingua materna ditemi se va bene o non va bene. E si sentono tutti competenti, ugualmente competenti, perché la lingua è una questione non di studio ma di sentimento. E tante volte chi ha un sentimento maggiore per il linguaggio magari va a colpo più sicuro che non chi l’ha studiato per degli anni. Quindi non è necessariamente lo studio che ci fa competenti.
Intervento: Se Dante ha avuto un aiuto divino allora è come il genio Wagner o Mozart…
Archiati: Ma proprio per questo con Dante andiamo indietro di settecento anni.
Replica: Scusa, ma io non capisco. Io penso di aver capito che serviva, un tempo, questo tipo di manifestazione proprio per svegliare la gente, forse.
Archiati: No, per creare la lingua italiana. Prima non c’era. Prima di Dante, Petrarca e Boccaccio, questa lingua che noi chiamiamo la lingua italiana, non c’era. È semplice la cosa.
Intervento: Anche con la musica è la stessa cosa: ci sono musicisti che hanno portato cose nuove, come con la letteratura, e ora sono patrimonio di tutti noi. Bach ha fatto per la musica delle cose nuove armonicamente, e non è chiamato genio è più scienziato del suono. Genio è più ottocentesco.
Archiati: Tant’è vero che la mia domanda successiva sarebbe stata: stai parlando di genio o di ciò che è accessibile a tutti noi?
Replica: Il parallelo era con l’arte letteraria e con l’arte musicale. In questa cosa dov’è la differenza con Dante?
Archiati: La differenza è che nel passato erano inventivi, creativi in pochi, prima cosa, e per grazia divina. Il presente e il futuro, per essere umani e non disumani, devono consistere nel fatto che tutti diventano sempre più creativi, e sempre di meno per grazia divina, sempre di più per libertà umana. Se ci mettiamo d’accordo su questa direzione dell’evoluzione, allora va tutto bene.
Replica: Tu prima hai detto, riferendoti a Mozart, che in quanto genio non è ammirevole. Ma questo da chi è stato voluto? Dalla grazia divina? Quindi ha sbagliato la grazia divina?
Archiati: Vai piano! Tu hai detto subito che è stato voluto dalla grazia divina, e poi ti sei fatto una risata. Non c’è soltanto questa eventualità. Supponiamo che il fenomeno sia che questa cosiddetta grazia divina si immette dove l’essere umano, poltrendo, crea un vuoto. Questa eventualità tu non l’hai considerata, però c’è.
Replica: E tu pensi questo?
Archiati: Io non ti voglio risolvere tutti i problemi, però ti dico che questa possibilità c’è! Non scartarla, perché altrimenti non mi spieghi come poi l’individuo diventa depresso; se vivesse nella pienezza dell’umano, della libertà e della creatività dell’umano, non potrebbe diventare depresso. È escluso. Invece è diventato pazzo, perché era geniale!
Replica: È quello che stavo dicendo. Mi sembra di capire che questa grazia divina è luciferica.
Archiati: Perciò ho detto «grazia divina» tra virgolette. Però, adesso, noi abbiamo qui un sacco di gente che, supponiamo, non sa che cosa intendi per «luciferica»: allora dovresti spendere dieci minuti, e non basterebbero, per spiegare che cosa intendi. Allora diciamo che intendo dire: non è farina dell’uomo! Punto e basta, questo è. Se è farina dell’uomo non diventa depresso, è escluso! Non si ammazza, sprizza gioia, vive nella pienezza. Non si uccide la pienezza, si uccide il vuoto.
Replica: Però questo tu dovresti specificarlo bene. Il fatto di non capire bene che tipo di grazia divina sia, secondo me, può provocare molta confusione in questo tipo di discorso.
Archiati: Va benissimo, ritiro l’espressione «grazia divina», e metto la categoria «gestione extra-umana», dal di fuori. Ogni gestione dal di fuori non è gestione dell’uomo, e non può far contento l’uomo.
Intervento: Recentemente ho letto uno scritto di Mozart a cui era stata fatta la domanda come potesse creare una musica così speciale. La sua risposta, dopo varie argomentazioni, è una sola: ci deve essere amore, amore e amore.
Per quanto riguarda invece quella magnifica immagine in cui uno spirito passa attraverso un uomo, io dico sempre che per fare un figlio bisogna essere in due. Voglio dire, prima di tutto quell’uomo lo lascia passare questo spirito geniale (senza chiamarlo Dio), ma deve essere pure lui a crearlo, cioè a manifestarlo. Quindi bisogna essere in due. Allora, chi rinuncia a se stesso certamente va in depressione, ma chi invece agisce insieme, unito a questa entità superiore, non può che gioirne.
Archiati: Attento, tu stai parlando del concorrere, che è giusto, della grazia divina che c’è sempre e comunque (immaginiamo quante cose fa la grazia divina, la gestione dal di fuori c’è sempre, quello che noi chiamiamo «mondo» è tutta una gestione dal di fuori): la grazia divina si aggiunge sempre alla libertà. Questo concorrere va bene. Però tu hai fatto l’esempio concreto di Mozart. Ora, un Mozart a quattro anni componeva, ti suonava tutta una sinfonia a memoria, e a quell’età il concorrere della libertà cosciente dell’uomo è esclusa. È l’esempio che tu hai portato.
Replica: Sono d’accordo, comunque al tempo di questo suo scritto non aveva quattro anni, di sicuro!
Intervento: Ce la poteva avere dalla vita precedente.
Archiati: No, se nella vita precedente si è conquistato il concorrere della libertà cosciente dell’uomo, in questa vita deve aspettare finché questo concorrere è possibile. A quattro anni non è possibile.
Intervento: Torno un attimo al discorso del malato mentale, che abbiamo affrontato prima. Tu hai detto che se uno spirito umano è fortemente nel biologico cade nell’allucinazione, ma non è un malato mentale, e fino qua ho afferrato. Ora io non so se per «malato mentale» qui vogliamo riferirci a un qualche aspetto tipico del malato mentale, perché i disagi mentali sono diversi.
Ci sono malati mentali che cadono in fase regressiva, cioè lo spirito si incarna in una situazione, tu m’insegni, magari più assimilabile all’aspetto astrale, (uso una parola brutta) alla bestia, all’animale e magari questi ritardati emettono anche suoni gutturali. Altri malati cadono da tutt’altra parte: nella schizofrenia, nella violenza, nel disturbo ossessivo compulsivo estremo dove, dal mio punto di vista, non colgo l’aspetto evolutivo.
Allora torno un attimo a quell’aspetto che si diceva prima, la scelta di incarnarsi per karma, per destino, in una situazione di ritardo mentale che io non colgo come evolutiva…
Archiati: Perciò il discorso è stato ristretto all’interazione tra spirito e cervello, non tra lo spirito e l’anima e il plesso solare, per esempio, che comporta tutt’altri fenomeni di istintualità, ecc. Io ho parlato dell’elemento specifico dell’interazione col sostrato del cervello, e quindi lì sono i gradini di evoluzione della coscienza: o una coscienza più inserita nel cervello (parlavo del cervello come sostrato dei processi di coscienza, tutto il resto l’abbiamo lasciato da parte) e allora abbiamo certi fenomeni di allucinazione; oppure abbiamo una coscienza normalmente inserita che conosciamo bene perché ci siamo tutti, nel normale; oppure, dicevo, lasciamo aperta anche l’altra eventualità di uno spirito, di un’anima umana che afferrano molto meno del normale il sostrato del cervello.
Replica: Tu hai parlato di un tipo di un disagio mentale, uno fra i tanti.
Archiati: Sì, però è quello più classico, diciamo, no? Altrimenti non devi parlare di ammalato mentale, vedi che la parola stessa te lo dice? La categoria di malato mentale tende (naturalmente sulle cose si può parlare per cinque minuti e si può parlare per cinque anni), ti vuole evidenziare il fenomeno di un tipo di rapporto col sostrato del cervello. Probabilmente tu stai anche dicendo: sia la scienza naturale, psicologica, psicopatologica ecc., sia anche la scienza spirituale dovranno diventare sempre più articolate e quindi creare terminologie sempre più distinte.
Il malato mentale deve essere un malato mentale, altrimenti creiamo soltanto confusione e perciò io mi sono riferito a questo fenomeno specifico del rapporto tra la coscienza umana, o spirito, col sostrato del cervello e ho detto che nell’insieme ci sono tre possibilità fondamentali di interazione: c’è quella ordinaria, normale – e la conosciamo, anche se è complessissima da spiegare –; poi ho presupposto un tipo di rapporto dove il sostrato del cervello è decisamente più cogente, più costringente rispetto alla coscienza del normale e un tipo di interazione dove il sostrato del cervello è decisamente meno cogente rispetto al normale. Sono le tre variazioni fondamentali che ci possono essere.
Di fronte ad un allucinato devo dire: qui le sinapsi del cervello, la compagine del cervello lavora in un modo molto più deterministico che non nel normale – che significa, altrimenti, avere la libertà di passare da una rappresentazione all’altra liberamente, invece di essere fissati su una allucinazione che proprio non ti rende libero? Lì il fenomeno biologico, riferito soprattutto al cervello, è più cogente, più costringente.
Intervento: Vale anche per la droga?
Archiati: Il problema con la droga è che investe il rapporto dello spirito umano con tutto il corpo, e lì invece io mi sono riferito solo al cervello. Mi pareva che anche tu ti riferivi specificamente a questo tipo di rapporto, mi pareva di aver capito che non coinvolgevi tutta questa sfera complessa.
Intervento: Io non avevo distinto bene perché appunto c’è anche la malattia del sentimento che è un’altra area, mentre per la malattia mentale parliamo proprio di persone ipodotate o superdotate, non lo sappiamo.
Archiati: Quindi la tua domanda si riferiva particolarmente al tipo di interazione che c’è…
Replica: …a livello mentale.
Archiati: Sono tre i livelli fondamentali: c’è il sistema neurosensoriale, c’è il sistema ritmico e il sistema metabolico. Quindi dovremmo distinguere una triade di fenomenologie e di patologie ben diverse, a seconda che abbiamo a che fare con un’interazione della coscienza col sistema neurosensoriale, con un’interazione della coscienza (o spirito) col sistema ritmico, o con un’interazione col sistema metabolico. Allora andiamo avanti, allora anche la scienza va avanti.
Replica: E col sistema metabolico che tipo di malattie abbiamo?
Archiati: Adesso andiamo a mangiare e impareremo qualcosa.
Buon appetito a tutti, ci ritroviamo alle 20.30, puntualissimi!
Venerdì 28 settembre 2007, sera
Buonasera a tutti! Volevamo cominciare il terzo capitolo, che è uno dei più fondamentali. Possiamo considerare il primo e il secondo capitolo come introduzione, in un certo senso, tant’è vero che Steiner alla fine del secondo dice: finora si trattava di una descrizione iniziale dello stato di coscienza ordinario. Ora invece, col terzo capitolo, affrontiamo la realtà vivente, operante del pensare.
Il pensare è la leva del mondo. Vedremo che praticamente il quesito fondamentale di questo capitolo – adesso lo accenno solo come proposta da verificare – è: se il pensare è in origine puramente spirituale, come può, una realtà spirituale, prima di tutto essere qualcosa e poi causare addirittura tutto il mondo?
Quindi partiamo dal presupposto che prendiamo questo capitolo come un esercizio fondamentale per superare sempre di più il materialismo. E il materialismo è quel modo di pensare spontaneo, comune nell’umanità di oggi che dice: ciò che è materiale è una realtà e ciò che è spirituale è irreale.
Tante volte diciamo: è solo un pensiero. Invece di dire: è solo un corpo, è solo un pezzo di materia, diciamo: è solo un pensiero. Però la dicitura «è solo un pensiero» è giusta, in un certo senso, perché i pensieri normali di oggi sono talmente passivi, talmente poverelli, talmente striminziti, talmente privi di forza che, insomma, il modo di dire «è solo un pensiero» calza. Per il tipo di pensiero ordinario, che è quello di partenza.
Ma proprio perché il pensiero di partenza dell’uomo d’oggi è così striminzito, privo di forze, esangue, si ha la possibilità, per cammino di libertà, se uno lo vuole, di immettere sempre più forza, sempre più realtà, sempre più creatività nel proprio pensiero.
Quindi la domanda è: in che modo posso rendere il mio pensare sempre di più una realtà che crea mondi, che fa, che combina, che opera, che cambia le carte in tavola?
III
il pensiero {il pensare} al servizio della comprensione del mondo
III,1. Quando io guardo come una palla di biliardo che venga spinta trasmette il moto ad un’altra, rimango senza nessuna influenza sullo svolgimento del fenomeno che osservo. La direzione e la velocità della seconda palla sono determinate dalla direzione e dalla velocità della prima. Finché io rimango semplice osservatore potrò dire qualcosa sul moto della seconda palla soltanto quando tale moto sia già avvenuto {e quindi lo posso percepire, lo posso osservare}. Tutto cambia se comincio a riflettere sul contenuto della mia osservazione. La mia riflessione ha lo scopo di formare dei concetti sopra il processo che si svolge. Io metto in rapporto il concetto di una palla elastica con determinati concetti della meccanica {velocità, elasticità ecc.} e prendo in considerazione le speciali circostanze che agiscono nel caso specifico. Io cerco dunque di aggiungere, al processo che ha luogo senza il mio intervento, un secondo processo che si svolge nella sfera concettuale. Quest’ultimo dipende da me: ciò è mostrato dal fatto che io posso accontentarmi dell’osservazione e rinunziare ad ogni ricerca di concetti se non ne sento la necessità. Se però questa necessità mi si presenta, non mi acquieto fino a che non abbia trovato un collegamento fra i concetti di palla, elasticità, moto, velocità e così via, che stia in un determinato rapporto col processo osservato. Come è certo che il fenomeno che si svolge indipendentemente da me, così è certo che il processo concettuale non può svolgersi senza il mio intervento. (Fig. 4)
Allora, qui abbiamo un tavolo da biliardo, noi siamo qui a lato con le stecche, qui ci sono le buche, qui c’è una palla, qui un’altra, gli do una spinta e va verso quest’altra palla ecc… Avete capito che si tratta di un biliardo, di palle, ma come fate a capirlo? Tu sai cos’è una palla? Sai cos’è un biliardo? Sai cos’è la velocità? Come fai a sapere tutte queste cose?
Fig. 4
Intervento: Perché li vedo!
Archiati: Nooooo! C’è lì vicino a te un gattino che vede tutto e non sa cos’è una palla, non sa cos’è la velocità, non sa cos’è la direzione, ecc… Tu lo sai perché pensi!!! Non perché sei un essere percipiente, ma perché sei un essere pensante. In altre parole, noi pensiamo sempre, l’essere umano è talmente dentro al pensiero che non se ne accorge neanche, altrimenti non saprebbe cos’è la palla, l’elasticità, la velocità, la stecca, il giocatore ecc… sono tutti concetti.
Replica: No, non sono concetti.
Archiati: No? Cosa sono?
Replica: Sono una palla, una stecca, un biliardo.
Archiati: Avete sentito? Questi sulla lavagna sono una palla, una stecca e un biliardo!
Replica: No, non mi convince, non riesco a fare il salto, forse è una questione di allenamento o di processo. Per me la realtà esiste: io vedo la palla, vedo la poltrona, vedo il microfono.
Intervento: Ma non c’è la palla, qui! Qui c’è un disegnino rotondo, ma tu c’hai visto una palla, e là hai visto un biliardo e una stecca. O forse lì sulla lavagna ci sono una palla, un biliardo e una stecca?
Archiati: Non c’è né l’una, né l’altro né quell’altra!
Replica: E allora sono i tuoi concetti che te li fanno vedere, no?!
Archiati: Oh! non mi è mai successo che un’assemblea si scaldasse tanto sul pensare!! Ma è una cosa straordinaria, una cosa straordinaria! Mi è riuscito il trucco!
Intervento: Ma poi la cosa interessante è che lì c’è il simbolo di una palla, ma la mia palla è diversa dalla tua palla.
Archiati: Quale?, dove ce l’hai tu, la palla? [risate dal pubblico] Guardate che c’ho pensato che la parola «palla» poteva essere un po’ equivoca, ma Steiner ha preso l’esempio del biliardo e mi tocca per forza riferirmi alla palla! Tu vuoi dirmi che il tuo concetto di palla è diverso dal mio? Pensaci tre volte, eh?
Replica: Il concetto di palla è unico, però poi io, nel momento in cui tu dici «palla», posso vedere una palla piccola.
Archiati: No, no, quello non ha niente a che fare con la palla. È una palla, non la palla.
Replica: Io dicevo che poi quella palla è filtrata dalla realtà di ognuno.
Archiati: Allora facciamo un minimo di aristotelismo. Aristotele distingueva tra l’essenza e gli ammennicoli, gli accidenti li chiamava. Quindi prendiamo la stecca, o il giocatore, la buca – la buca ci deve essere, le palle devono avere la possibilità di cadere dentro. Aristotele ti dice: il concetto di buca deve riferirsi all’essenza, cioè a ciò che non può mancare per avere una buca. Lo stesso vale per la palla. Quel che invece non è essenziale, Aristotele lo chiama accidentale: quindi ciò che rende una palla che tu hai differente dalla mia, non ha nulla a che fare col concetto di palla, perché il concetto di palla è ciò che tutte le palle hanno in comune, perché si riferisce all’essenza.
Quindi il concetto è l’essenza della cosa, non gli accidenti. Tutto ciò che è materiale nella palla è accidentale, e quindi non ha nulla a che fare col concetto. Il concetto non ha nulla di materiale.
Cosa ci vuole per avere una palla? Deve essere non soltanto rotonda ma sferica, quindi rotonda a tutti i livelli,
Intervento: Deve avere una certa misura: una palla non può essere enorme e se è troppo piccola è una pallina.
Archiati: La Terra è una palla? No, è un pianeta, si usa un’altra parola, cioè c’è un limite ai sinonimi. Quando si mettono in forse degli elementi essenziali – e lui diceva che per una palla l’elemento essenziale è che la grandezza deve avere un limite, altrimenti poi non è più una palla –, quando si va oltre un certo limite bisogna trovare un’altra parola, perché il concetto cambia.
Quindi il concetto di palla consente soltanto una certa grandezza, non un enorme grandezza, altrimenti non è più una palla.
Intervento: Poi deve rotolare.
Archiati: Deve rotolare. Il pallone da calcio è una palla? È una palla grossa, però resta nel concetto di palla, e allora il linguaggio italiano la chiama pallone, specifico della lingua italiana. Nelle altre lingue non ci sono tante desinenze: per esempio casa, casina, casetta, casettina, casuccia, casona, casaccia, casupola, caserella, casuzza… poi i toscani ce ne aggiungono ancora di più.
Intervento: Nel concetto di pallone c’è l’uso che si fa, non la misura: è pallone perché lo usi per giocare a pallone, perché se hai una palla grande come un pallone da calcio ma è di marmo e la tieni su un piano, non è più un pallone. Il concetto ha dentro l’uso che si fa di questa palla.
Archiati: Tu dici che nel concetto di pallone, nel linguaggio italiano è incluso il rapporto col piede umano.
Replica: Il rapporto è che ci giochi.
Archiati: Ecco, col piede umano.
Replica: Beh, no, anche a pallacanestro. Ci giochi, lo usi per un gioco.
Archiati: Col piede. Pallacanestro non ha un rapporto col piede, e non lo chiami pallone. Il pallone ha rapporto col piede, vedi? Il linguaggio può cesellare nel pensiero proprio da diventare preciso, e uno che non sa bene il linguaggio va a naso e allora tu dici eh, si vede che non lo sa bene l’italiano perché chi lo sa bene, per lingua materna, non dice un pallone da canestro, ma una palla da canestro.
E dice una sfera di cristallo, perché il linguaggio la chiama sfera e non palla, perché è trasparente. Quindi fa parte del concetto di palla che è opaca.
Intervento: Quindi non può esserci una palla trasparente? Se è trasparente si chiama sfera?
Archiati: Sì, una palla trasparente si chiama sfera, e lo vedi, lo senti che il linguaggio ti dice che è così, se sai bene l’italiano.
Replica: Una palla di plastica trasparente con la quale il bambino gioca, è una palla trasparente. No, l’essenziale è che la palla deve rotolare.
Intervento: La sfera sta ferma, si chiama sfera perché non solo è liscia e trasparente ma sta ferma, non viene usata per rotolare. Non rotola la sfera di cristallo, non è usata come quella da biliardo che rotola: sta ferma.
Archiati: Quindi le sfere celesti sono palle che si muovono ma non che rotolano, non rotolano perciò si chiamano sfere e non palle, quindi è nel concetto di palla il rotolare.
Questo, adesso, era soltanto un esempio, e nella misura in cui faremo esercizi di cesello con i concetti, da un lato vedremo che è una cosa interessantissima (come avete visto, no?), e dall’altro che non è facile, rispetto a un concetto, separare chiaramente ciò che è essenziale, ciò che non può mancare, da ciò che invece è accidentale. Un esempio che abbiamo già fatto la volta scorsa[7] e anche col Vangelo di Giovanni, mi pare: quante gambe sono necessarie per avere un tavolo?
Replica: Anche nel concetto di tavolo c’è l’uso, perché un tavolo presuppone il fatto che tu lo usi standoci seduto davanti, se no è un piano, è un bancone, un piano da lavoro, è un’altra cosa. L’essenziale che definisce il concetto di tavolo – ho pensato molto a questa cosa – non sono tanto le gambe (può avere anche una gamba sola, certo una gamba centrale) quanto l’uso: tu lo usi, insieme ad altre persone, di solito per mangiare e poche altre cose. Ha una certa altezza da terra, ha una certa misura, c’è il concetto che tu ci devi star seduto vicino con una sedia, perché se ci stai seduto con uno sgabello è un bancone non è più un tavolo.
Archiati: E se ci lavori in piedi?
Replica: Se ci lavori in piedi è un banco di lavoro, non è più un tavolo, e se lo usi per lavorare diventa una scrivania, diventa un’altra cosa.
Archiati: Adesso, tavolo o non tavolo, con che cosa tu dici tutte queste cose? Col pensare, col pensiero! Questo è importante.
Mentre si gioca a biliardo le palle si muovono, una spinge l’altra – questa palla si muove, dà una spinta a quest’altra, questa va qui ecc. –, e uno che sta sveglio accompagna tutto con i pensieri e dice: sì, la velocità era tale, la spinta era talaltra, e allora capisco ecc… Se la stessa persona che stava seguendo con i suoi pensieri si addormenta, cosa succede?
Intervento: Non incide sul risultato, se uno si addormenta: quindi il pensare o meno dell’osservatore non ha influenza sul fenomeno.
Archiati: Quindi è un fenomeno che si accompagna in parallelo a quello che avviene nel mondo della percezione. E allora l’essere umano è quell’essere che raddoppia l’evento della percezione facendone un evento di pensiero. E facendone un evento di pensiero capisce ciò che avviene. Se lui ha soltanto la percezione senza metterci il concetto di velocità, di forza di spinta, di distanza, di inerzia, di elasticità ecc…, non capisce niente.
Allora, poniamo che noi vogliamo dare una spinta alla palla 1 perché colpisca la palla 2.
Fig. 5
Ora, qualcuno mette sul tavolo da biliardo una tavola, uno schermo: vedo il mio amico che colpisce con la stecca la palla 1 e poi non vedo più nulla. La palla è arrivata fino al bordo A della tavola e poi è sparita.
Fig. 6
Continua a muoversi la palla?
Intervento: Sì.
Archiati: Come fate a saperlo? Non mi dite che è per percezione che lo sapete, perché la percezione non c’è, il tavolo è in parte coperto da uno schermo rigido! E allora come fai a saperlo?
Replica: Col pensiero.
Archiati: Lo sai perché hai nel pensiero il rapporto che c’è tra spinta, velocità, angolo, e quindi sai che la palla 2 salterà fuori, a seconda della precisione dell’angolatura, più o meno qui, nel punto B. (Fig. 7)
Nessuno comunque parte dal presupposto che siccome finisce di vedere la palla in movimento, allora la palla deve fermarsi. Nel pensiero continua a muoversi, ma non nella percezione, e quando la vedo venir fuori dico eh!, ho pensato giusto! Come fa il pensare a pensar giusto?
Intervento: Percepisco!
Intervento: Confermo con la percezione.
Archiati: È la percezione che si mette in armonia col pensiero, o è il pensiero che si mette in armonia con la percezione? All’inizio cosa c’era?
Fig. 7
Intervento: C’era il pensiero, perciò è la percezione che si mette in armonia col pensiero.
Archiati: Qual è la prima realtà, il pensiero o il percepito? Il dato di percezione o il concetto?
Intervento: Il dato di percezione.
Archiati: Per l’uomo, per l’uomo. Riguardo all’essere della palla, cosa c’era prima, il concetto di palla o la palla in quanto percepibile?
Intervento: Il concetto.
Archiati: Il concetto è sempre prima.
Intervento: Sì, ma bisogna fare l’esperienza per avere il concetto.
Intervento: C’è l’esempio classico del bambino che non si riconosce allo specchio fin quando capisce che ogni volta che va vicino a quell’oggetto si vede. È l’esperienza, è il vedere continuamente, il percepire continuamente che crea nella memoria un magazzino di eventi su cui poi si riflette, evidentemente si mettono le connessioni neurali.
Archiati: Dunque, ci deve essere stato un pensare divino che ha creato il mondo della percezione in modo tale che corrisponde a questi pensieri. E siccome il mondo della percezione corrisponde ai pensieri, chi pensa dopo la percezione, e chi pensa giusto, fa l’esperienza della corrispondenza tra concetto e percezione.
Intervento: Se ha pensato giusto. Se uno non conosce bene una cosa, la pensa in maniera sbagliata e la percezione e il concetto non coincidono
Archiati: Tu stai dicendo: sarebbe possibile che il creatore della gallina dica: la gallina sia, e quella salta fuori.
Replica: Per un osservatore umano.
Archiati: No, quello viene dopo. Noi diciamo, per la nostra esperienza, che la percezione viene prima e poi constatiamo che i nostri concetti hanno per natura la tendenza a combaciare con la percezione. Quindi c’è un’affinità innata tra il pensabile e il percepibile.
Allora torniamo indietro e diciamo: dove c’è un elemento di percezione, è l’elemento originario o è stato creato? E da chi? Dal pensiero creatore.
Intervento: Mi sembra di capire che colgo la legge del fenomeno.
Archiati: Sì, l’essenza del fenomeno.
Replica: Collego un concetto con un altro concetto e trovo quello che in fondo il creatore ha immesso in questo fenomeno.
Archiati: Cos’è la rosa?
Replica: La rosa è un fiore, una pianta, che ha tutto uno svolgimento, è un seme che pianto e poi…
Archiati: Stai dicendo tutti aspetti accidentali della rosa. L’essenza della rosa è il concetto, perché senza il concetto della rosa, la rosa non può presentarsi, non è nulla.
Ogni percezione è l’evidenziarsi, il rendersi visibile di un concetto, di un pensiero in origine spirituale. Una manifestazione è accidentale rispetto all’essenza, quindi la rosa è il pensiero specifico di chi l’ha creata. È un pensiero nell’origine, è un concetto specifico, perché in questo concetto c’è una legge di crescita, una legge di formazione delle foglie, una legge di distanza tra i petali e i sepali ecc... che è diversa da quella del tulipano, del giacinto, ecc…
Replica: Quindi, tornando alla palla, io collego il concetto di palla con il concetto di urto, di traiettoria, di ostacolo, di elasticità che la fa rimbalzare e le dà l’angolazione, un’altra traiettoria e questa va a colpire di conseguenza l’altra palla, e per elasticità l’urto le imprime il movimento e la mette in moto… Quindi io coglierei questi concetti e la relazione fra di loro, in pratica altri concetti – il concetto di elasticità, di direzione, di angolo…
Archiati: Questi concetti, e i rapporti che ci sono fra di loro, sono evidenti. Il pensare è la forma suprema di evidenza, e se un fenomeno non è evidente è perché non ho i pensieri, i concetti corrispondenti. Nel momento in cui ho i concetti corrispondenti è subito evidente: se qui mi manca il concetto di velocità, se non ci metto dentro il fattore velocità non capisco nulla del fenomeno. Ma nel momento in cui ho la velocità, ho la densità, ho la traiettoria, ho il concetto di angolatura, il concetto di distanza ecc… quando ho tutti i concetti necessari, il fenomeno mi è evidente e lo capisco.
Replica: Basta che mi manchi un concetto e sono fritto, il fenomeno non avviene più.
Archiati: Esatto.
Intervento: Però c’è una differenza, nella Fig. 5 io faccio corrispondere un concetto, o più concetti, a una o più percezioni, quindi viene prima la percezione e poi il concetto, per l’uomo. Siccome c’è una corrispondenza si potrebbe dire quasi biunivoca, tra i due, nella Fig. 6 succede il contrario: prima lavoro coi concetti, e una volta che sono arrivato a delle conclusioni faccio l’operazione inversa, cioè vado a vedere se a questo concetto mi corrisponde la percezione.
Archiati: Senza volerlo, io ho messo sulla lavagna il pensare umano all’inizio della sua evoluzione (Fig. 5), quando deve andar dietro alla percezione e la percezione è la messa in riga dei pensieri divini. Man mano che il pensare umano, alla scuola della percezione – dei pensieri divini diventati percepibili –, diventa sempre più attivo, arriva sempre di più al secondo livello (Fig. 6) dove è capace di far precedere i pensieri alle percezioni e diventa sempre più creatore.
Essere creatori significa che i pensieri vengono prima e le percezioni dopo.
Essere creature significa che prima vengono le percezioni, poi i pensieri.
Perciò è stato bellissimo che tu in questo disegno 5 abbia visto la fase maggiormente incipiente, passiva del pensare umano che ha bisogno dell’appoggio della percezione, e in quest’altro disegno 6, man mano che diventa bello forte, hai visto la fase attiva: crea lui le percezioni, le anticipa e crea.
Replica: E non c’è tradimento.
Archiati: No, perché nel pensare non si può barare. Nel pensare c’è soltanto il cogliere nel segno oppure ci sono buchi, ma un pensare sbagliato non c’è. È una gran bella cosa, questo tema, lo si potrebbe svolgere in infiniti modi.
Intervento: Se sono sbagliate le percezioni non è sbagliato anche il pensare?
Archiati: No, no. L’errore, il concetto di erranza significa che tu hai la strada giusta e sei andato fuori strada. Ti manca la strada giusta. Quindi un concetto sbagliato non c’è, manca il concetto giusto; ma non per il fatto che manca il concetto giusto significa che c’è un concetto sbagliato. Manca il concetto giusto: cercalo, continua a cercare.
Tu dicevi: ma io parlo di rapporti tra concetti. È la stessa cosa, vuol dire che non hai studiato bene la cosa, che ti sei messo sulla falsariga degli accidenti, anziché andare sulla falsariga dell’essenza.
Intervento: Ho concetti finali che non corrispondono a quelli iniziali, dunque mi manca qualche concetto.
Archiati: Oppure ti sei messo in testa degli accessori, degli accidenti che non fanno parte dell’essenza del fenomeno, e quelli ti portano fuori strada. Allora ti accorgi che non è essenziale al concetto di palla che debba essere fatta di gomma, e ritorni alla palla da biliardo.
Intervento: Ma questo modo di muoversi non ha senso chiamarlo errore? Il fatto di inserire degli elementi che non sono essenziali in questa ricerca, e quindi essere portati fuori strada, questo non ha senso chiamarlo errore? E in che senso non ha senso chiamarlo errore? Perché è fuorviante? Perché non aiuta l’evoluzione dell’individuo?
Archiati: Non mi spiega il fenomeno, quello che manca, non capisco, non mi spiega il fenomeno.
Intervento: Tuttavia ci sono fenomeni inspiegabili.
Archiati: Noooo.
Intervento: Che ancora non sono stati spiegati.
Archiati: E da chi? Da te. Parla per te, affari tuoi! Basta che non parli per tutti. Fammi un esempio concreto.
Replica: Non lo so, adesso, io non ho la competenza… Per esempio, il concetto di vuoto.
Archiati: Hai preso un concetto limite, furbo! Adesso devi dirmi tu cos’è il vuoto, se no non so di che cosa parli.
Replica: Molto spesso le persone, di fronte al fenomeno, cercano di trovare quei concetti che lo spiegano meglio a se stessi, cioè sono concetti che si rendono più levigati perché diventino capibili, ma questo non spiega il fenomeno.
Archiati: Lo vedi tu stesso che è proprio un tentativo di chiarificare il pensiero mentre lo esprimi, capisci? Quindi è un po’ difficile, adesso, farne la base per un discorso comune. Era più un tentativo, lo si vedeva, legittimissimo capito?
Allora, in questo primo paragrafo, insomma, Steiner ci dice che l’essere umano adulto da sempre vive nel pensare. Pensa, pensa, pensa, se non dorme.
Intervento: Da quando cominciamo a pensare?
Archiati: Da quando si risveglia la coscienza.
Replica: E nella storia?
Archiati: Questa è un’altra faccenda. Ogni vita umana ripete in piccolo tutta l’evoluzione, e nell’evoluzione ci sono stati dei millenni in cui la coscienza umana era bambina.
Riassumendo cose molto complesse, la nostra percezione dei fenomeni storici, così come ci sono stati tramandati dai documenti, ci dice che il primo inizio di un pensare gestito coscientemente dall’uomo è avvenuto in Grecia, nel sesto secolo prima di Cristo. Prima di allora c’era un modo di venire attraversati dalla sapienza divina che non era un pensare gestito dall’essere umano in base a concetti, in base a una cesellatura e a una distinzione tra ciò che è essenziale e ciò che è accidentale, in base a rapporti tra concetti (la grandezza della palla, la pesantezza, la velocità, l’angolatura, ecc…): questo modo di gestire i concetti a partire dalla libertà umana cosciente e individuale, che noi chiamiamo pensare, è sorto in Grecia nel sesto secolo prima di Cristo e ha raggiunto un primo culmine soprattutto con Aristotele.
Tant’è vero che Immanuel Kant circa duemila anni dopo dice, e lo conferma anche Steiner: dopo Aristotele non è stato trovato nessun nuovo concetto.
Fino a oggi, l’unico impulso che ha creato concetti nuovi rispetto ad Aristotele è la scienza dello spirito di Steiner, e in Goethe c’è un inizio di un nuovo concetto di evoluzione, diverso da quello aristotelico, più avanzato, più moderno. Ma senza questo inizio in Goethe, e senza la scienza dello spirito di Steiner, in tutta l’umanità dopo Aristotele non è stato creato nessun concetto nuovo.
Intervento: Tutti i concetti relativi alle macchine non portano niente di nuovo?
Archiati: No, non sono concetti nuovi.
Replica: Nemmeno in tutte le creazioni che sono state fatte, i computer e tutte le diavolerie che sono uscite, c’è un concetto nuovo?
Archiati: Non c’è nessun concetto nuovo, nel senso che sperimentare in base alle percezioni, muovere le percezioni e guardare, evidenziare cosa salta fuori, significa che il fenomeno dell’esperimento ha moltiplicato all’infinito la percepibilità del reale. Però moltiplicare all’infinito le percezioni non significa moltiplicare i concetti, questa è una differenza fondamentale da capire.
L’umanità moderna ha moltiplicato all’infinito le percezioni ma non i concetti, perché i concetti possono essere creati unicamente dal pensare, e il pensare è diventato sempre più povero. La cosiddetta scienza dello spirito è l’inizio di una nuova creazione all’infinito di concetti, però creati dall’individuo, e questo presuppone un cammino del pensare.
Un esempio: il concetto di causa ed effetto. C’è in Aristotele. Questo concetto è un’interpretazione pensante dei fenomeni di percezione. Prendiamo un esempio fondamentale del quesito causa ed effetto – prendete tutto come piccoli esercizi di pensiero che poi saranno per il terzo capitolo importantissimi per capire – nell’interazione di cui parlavamo, tra il cervello e il pensare: cosa è causa e cosa è effetto tra i fattori di coscienza e il cervello? Una grande domanda per il pensiero.
Sono i processi percepibili nel cervello che producono i pensieri, i fenomeni di coscienza, e allora il cervello è la causa e la coscienza è l’effetto, oppure è l’opposto, cioè i fenomeni di coscienza sono la causa e quello che avviene nel cervello è l’effetto?
Prima di rispondere a questa domanda io vi chiedo: quando io dico «causa ed effetto» voi mi capite?
Intervento: Sì, conosciamo questo concetto.
Archiati: Con che cosa lo conosci? Attraverso il pensare! Il primo che ha creato il concetto, proprio il concetto in quanto creazione del pensare umano, che certi fenomeni sono causa e certi fenomeni sono effetto, è stato Aristotele.
Tutta la scienza moderna, la tecnica moderna, per portare un esempio della tua domanda, dimostra l’impoverimento assoluto del pensare, nel fatto puro e semplice che non ha tirato fuori altri concetti: siamo rimasti ai due concetti di causa ed effetto, che bastano, a un certo livello. Causa ed effetto.
L’impoverimento del pensare sta proprio nel fatto che l’interpretazione pensante di cosa sia causa e cosa sia effetto ha ribaltato il pensiero di Aristotele, e la maggior parte degli scienziati moderni dicono: i fenomeni relativi al cervello sono la causa e ciò che avviene nella coscienza è l’effetto.
Aristotele direbbe: non soltanto l’umanità non ha creato fino al ventunesimo secolo nessun concetto nuovo, ma ha addirittura talmente impoverito il pensiero che ha capovolto le cose.
È un errore? È un errore di pensiero dire che il sostrato fisico è la causa e i fenomeni di coscienza sono l’effetto? È un errore l’affermazione che dice: i fenomeni che avvengono nel cervello, quindi percepibili materialmente, sono la causa e ciò che avviene nella coscienza è l’effetto?
Intervento: Sì, è un errore.
Archiati: No! No! È un pensiero vero e reale, perché esprime la verità e la realtà dell’uomo d’oggi. La realtà dell’uomo d’oggi è che il pensare è diventato talmente debole per cui è realmente solo un effetto. Nel pensare dell’uomo d’oggi c’è realmente, oggettivamente, veramente soltanto, – o quasi soltanto, per non dirlo proprio all’estremo – l’effetto di ciò che avviene nel cervello.
Replica: Io volevo dire che è vero, però perché a lui mancano certi concetti, come il discorso di prima.
Archiati: No, no, non è che gli mancano dei concetti, gli manca la forza. La forza di essere causa non è questione di quanti concetti io ho. È la capacità del pensiero, dello spirito di essere causa, di essere creatore, e questa reale capacità non c’è nell’umanità d’oggi – come presupposto per potersela riconquistare. Però questa affermazione sullo stato attuale dell’umanità è giusta, è verace, quando dice: tutto sommato, con qualche eccezione, è reale che la stragrande maggioranza dei fenomeni di coscienza è l’effetto di quel che avviene nel sostrato biologico.
Un esempio è che la maggior parte della gente non ha i concetti delle cose, ha soltanto percezioni sensibili o percezioni che vengono dal linguaggio (che viene anch’esso percepito).
Quindi abbiamo o soltanto rappresentazioni (immagini mnemoniche delle percezioni) o soltanto parole. Ora, se nella coscienza ci sono un sacco di rappresentazioni e un sacco di parole che vengono tutte dal fisico, significa che in realtà l’elemento fisico è la causa e ciò che avviene nella coscienza è l’effetto.
Altro invece sono i concetti, i quali possono essere generati unicamente dalla creatività dello spirito. Ci sono conferenze intere di Steiner dove dimostra che l’essere umano normale di oggi non ha nessun concetto, ha soltanto rappresentazioni e parole.
Intervento: Pietro, per favore, fai la differenza tra percezioni e rappresentazioni.
Archiati: La percezione è l’interazione diretta col percepito, invece la rappresentazione ce l’hai quando ti giri dall’altra parte, la percezione della cosa non c’è più e ne rimane l’immagine interiorizzata. Questa si chiama rappresentazione.
Intervento: Ma il tutto non è anche filtrato dalle ideologie?
Archiati: Che cosa intendi per ideologia?
Replica: Nel senso che se io metto come causa il cervello e quindi l’effetto è la coscienza, questo è un punto di vista in cui io mi pongo. Quindi tu hai fatto rilevare che nel modo in cui oggi l’uomo si pone succede realmente questo.
Allora, mentre tu parlavi, mi veniva in mente che l’uomo di oggi non si pone più in modo creativo, ma si adagia su una visione della vita che può essere la sinistra, la destra, la natura…, ideologia, insomma.
Archiati: Cos’è un’ideologia?
Replica: È una chiave di lettura, è un filtro.
Archiati: È una serie di percezioni, è già coniata, c’è già per forza. Tutto ciò che c’è già è percezione, quindi è una conferma di quello che stiamo dicendo.
Intervento: Dimmi se sono dei concetti: risonanza, non linearità di fenomeni. Sono concetti?
Archiati: No, risonanza non deve essere per forza un concetto.
Replica: Il fenomeno di risonanza, che ha tutta una serie di aspetti, ha un concetto alla sua base? Può essere definito come concetto?
Archiati: Provaci! Vedrai la difficoltà! Qual è secondo te il concetto di risonanza?
Replica: Quando due cose vibrano sulla stessa lunghezza d’onda, per esempio.
Archiati: Quali due cose? Vedi che sei nel mondo della percezione? Intendi due cose percepibili.
Intervento: L’uomo d’oggi, allora, ha apparentemente perso la sua capacità di essere spirito creatore, per ricevere ciò che gli viene per via di percezione. Dicevi che c’è un perché a questo perdere la forza di creare, ma io non riesco a capirlo, se non nel senso che l’uomo ha perso in parte la consapevolezza di questa sua capacità di creare e ha, neanche delegato, ha proprio ceduto lo scettro alla parte biologica.
Archiati: In altre parole, la capacità di pensare creativamente, quindi di creare concetti, ce l’ha ognuno potenzialmente, però questa potenzialità la posso esercitare sempre di più, oppure posso omettere di esercitarla. Constatiamo a livello di percezione, nell’umanità di oggi, un’enorme omissione di questo esercizio creativo, altrimenti avremmo tutt’altri prodotti nell’umanità. E questo è un dato di percezione,
Intervento: Il concatenarsi tra causa ed effetto, presuppone un dato molto semplice: la causa, come dato biologico, è causa in quanto la sua mancanza non produrrebbe l’effetto. Per quello che è causa. Un uomo che è decerebrato non può pensare.
Archiati: No, sta’ attento, tu hai detto una cosa sul concetto di causa che invece è accidentale. Noi abbiamo imparato da Aristotele che il concetto di causa implica che di necessità sortisce l’effetto. Solo allora è causa.
Un esempio che ho fatto diverse volte: uno mette un chiodo sul muro, qual è la causa?
Intervento: Che deve sostenere qualcosa.
Archiati: Quello è il fine, non è la causa.
Intervento: L’intenzione di appendere un quadro.
Archiati: No, molte persone hanno l’intenzione per dieci anni, per cinquant’anni e poi non fanno niente.
Replica: La volontà di quella persona.
Archiati: Eh, la volontà magari ce l’ha da quindici anni.
Intervento: L’azione.
Archiati: No, l’azione è l’effetto. Cerco la causa.
Intervento: Il pensare di attaccare il quadro.
Archiati: Lo pensa da dieci anni e non lo ha mai fatto. La causa è quel fattore che se c’è di necessità causa l’effetto.
Intervento: La moglie…
Archiati: La moglie che glielo fa! Conditio sine qua non, tutt’al più!
Intervento: Allora mi sa che qui non c’è una causa.
Archiati: No, c’è una causa.
Intervento: La scelta.
Archiati: È la decisione della volontà di farlo. Non la scelta, la decisione. E la decisione è: lo faccio! Se è una decisione, di necessità porta l’effetto del fare, altrimenti non è una decisione, è una voglia, un intento, un desiderio.
In filosofia, noi studenti abbiamo fatto un sacco di esercizi per distinguere nel fenomeno la matrice causa-effetto, che è fondamentale per capire i fenomeni, perché la loro spiegazione, anche nelle scienze naturali, si basa tutta sulla chiave della causalità: se io conosco le cause di un fenomeno ho la spiegazione, se io non conosco le cause di un fenomeno non lo capisco, non ho spiegazioni.
Anche nelle scienze naturali la matrice del collegamento causa-effetto è importantissima, e gli esercizi che si facevano erano proprio in questo senso: distingui tra tutto quello che è condizione necessaria, e quello che è causa. La condizione necessaria non sortisce l’effetto, perché non è la causa. Quando uno dorme, il cervello c’è, né più né meno, e perché non pensa? Vuol dire che il cervello non è la causa del pensare, perché se lo fosse il cervello produrrebbe di necessità il pensare: e invece di notte non salta fuori nulla.
Qual è allora la causa del pensare ordinario? L’uso del cervello. Fatto da chi? Da chi lo usa. Nel momento in cui lo spirito usa il cervello, di necessità l’effetto è il pensare, quello ordinario di cui stiamo parlando. Quindi la causa del pensare ordinario è la decisione della volontà dello spirito pensante che dice: voglio usare il cervello! E sorge il pensiero che conosciamo. Dopo dodici ore, tredici ore, quattordici ore dice: adesso smetto di usare il cervello – e noi diciamo che la persona si è addormentata. Cosa è avvenuto? Il pensiero ordinario non c’è più, perché? Perché la causa si è ritirata, non usa il cervello.
Con un pensiero pulito, che però va esercitato, si potrebbe arrivare a dimostrare che la pensata, bacata proprio, di quasi tutta la scienza che il cervello è la causa del pensiero, è proprio una povertà di pensiero assoluta. È una stupidaggine a livelli paurosi, perché la causa, se è causa, di necessità sortisce l’effetto.
Se il cervello fosse la causa del pensare, il pensare dovrebbe esserci anche di notte, perché il cervello c’è tale e quale, quando dormiamo non è cambiato nulla al cervello.
Intervento: Ci sono tre momenti, allora: lo spirito pensa, il cervello è il primo effetto e il secondo effetto è quel che risulta nella coscienza.
Archiati: Nella coscienza ci diviene cosciente l’interazione tra spirito e cervello.
Intervento: E se lo spirito pensasse anche quando siamo addormentati, e noi non ne fossimo coscienti?
Archiati: Così è! E che c’è di male? Ci manca solo la coscienza.
Intervento: Non ne siamo coscienti. Ma questo pensare, quando dormiamo, di che cosa si serve?
Archiati: Il pensare non ha bisogno di servirsi di nulla: lo strumento del cervello è necessario per portare il pensare a coscienza, per arrivare al terzo stadio di quei tre gradi che diceva lui. Ma il pensare in quanto tale è un’attività puramente spirituale.
Intervento: Quindi non ha bisogno del cervello?
Archiati: No, assolutamente. Quello che noi chiamiamo il pensare ordinario non è il pensare, è l’autocoscienza del pensare, è il riflesso. Il pensare avviene sempre.
Intervento: Il pensare ordinario è la presa di coscienza dell’interazione tra il pensare e lo strumento fisico.
Archiati: No, no, l’interazione mi porta a coscienza il fatto che io penso sempre. Detto così è meglio.
Intervento: Ma a cosa mi serve pensare in modo incosciente, di notte? Sul piano dell’autocoscienza uno potrebbe dire che non serve a nulla! Su un piano spirituale?
Archiati: Allora, prendiamo l’esempio del «malato mentale», tra virgolette, di cui si parlava prima. Il suo spirito ha pensato, ha scelto, ancora prima che ci fosse il corpo: questa volta voglio aleggiare sul cervello anziché entrarci dentro e servirmene normalmente. E tu chiedi: a che gli è servito questo pensare fuori dal corpo?
Intervento: Lì, però, ancora non l’aveva assunto, il corpo. Vuoi dire che è equivalente la dimensione in cui noi viviamo di notte a quella che aveva il malato mentale prima di scegliersi quella condizione?
Archiati: Eh, ma certo! Svegliarsi è ogni volta una piccola nascita, è un entrare nel corpo, mentre addormentarsi è uscire fuori. Che altro, sennò!? Non lo si può spiegare altrimenti.
Tu stavi chiedendo, e la tua domanda è importante: perché non è meglio per noi restare sempre dentro il corpo, nello stato incarnato di veglia? Qual è il senso di uscirne fuori?
Intervento: Mi sono dato una risposta, e se può servire la dico prima che tu dia la tua, giusto per non aspettarmi le cose dall’altro. A me è successo, a volte, di dormire molto poco, però ho l’impressione che il nostro organismo fisico non abbia facoltà di ricevere (lo dico così, eh?) tutti gli impulsi che gli derivano da questa attività pensante continua 24 ore su 24. Non ce la farebbe ad essere autocosciente tutte le 24 ore, per ora.
Archiati: Bene, questa è una riflessione presa maggiormente dal lato materiale del nostro essere, e ha la sua giustificazione perché questo lato materiale, corporeo, c’è. Però c’è tutta un’altra riflessione, molto più importante, che dice: indipendentemente da quanto il corpo può recepire se noi siamo dentro più ore o meno ore, possiamo dialogare, per fare soltanto un esempio, con l’Angelo custode e ricevere la sua saggezza solo mentre dormiamo, soltanto quando siamo fuori dal corpo, liberi dall’interazione col corpo. Rientrare nel corpo comporta un oscuramento di coscienza tale per cui io non so neanche se esiste l’Angelo custode. Ecco perché è necessario continuamente uscire fuori.
E il fatto che l’uomo si renda conto o no, che sappia o no quello che avviene nella notte, è accidentale rispetto al fenomeno: l’importante è che ci sia.
La voce dell’Angelo – ma puoi parlare col Cristo, puoi parlare con i morti ecc… –, non è che si fa sentire a livello di percezione. Noi allora parliamo di intuizione, parliamo di cose che ci fanno dire: sì, io non lo so razionalmente, però tutto il mio essere mi dice… Ciò che ci parla in questa sfera molto più complessa del sentimento, del subconscio, è il risultato del dialogo col mondo spirituale compiuto nello stadio libero dal corpo.
In altre parole, una umanità che non dormisse più diventerebbe molto più micidialmente materialistica di quanto già è. Per fortuna c’è ancora il sonno.
Intervento: Più si dorme, più si parla con l’Angelo?
Archiati: Non è questione di quantità. La sua riflessione si spostava sul quantitativo perché era riferita all’elemento materiale, invece se tu la prendi dalla parte dello spirituale, se tu fai un bel dialogo con l’Angelo custode, due ore valgono tanto quanto un dialogo raffazzonato di dieci ore.
Intervento: Non conta la quantità del dormire?
Archiati: Detto in un modo più psicologico, più accessibile: se uno non dorme volentieri – e si dorme volentieri quando si gode di andare nel mondo spirituale –, se uno è troppo attaccato a quello che avviene sulla Terra e ci si arrovella, magari passa otto, nove ore di sonno, ma non dorme veramente. E allora queste otto, nove ore gli danno di meno che non tre ore di un sonno voluto, dove uno veramente dorme.
C’è chi dorme in un sonno-veglia, e praticamente è ancora per tre quarti alle prese col mondo visibile. E qui ognuno deve essere sincero con se stesso, nel karma non si bara: o vado volentieri nel mondo spirituale perché ho la consapevolezza che da lì ricevo gli impulsi più importanti, anche se sovraconsci o subconsci, oppure se non ho la minima idea dell’importanza nel cammino di coscienza del sonno non lo posso apprezzare e quindi non dormirò come si deve.
L’insonnia è uno degli elementi che accompagna il materialismo, è l’inconsapevolezza di quanto importante sia per il cammino della coscienza, del pensiero e della libertà, il colloquio che avviene col mondo spirituale soltanto quando io rinuncio alla gestione delle mie faccende sulla Terra, che sono possibili soltanto quando sono connesso col cervello.
Intervento: Perché al risveglio non ci si ricorda perfettamente di quello che abbiamo detto, ascoltato? Perché questo segreto per l’uomo? Si spaventa se parla con un Angelo? Cosa può succedere?
Archiati: Se il ricordo avvenisse automaticamente, avrebbe neanche un centesimo del valore che ha se il punto di partenza è che io dimentico. E il riportare nella coscienza questi ricordi diventa una questione di esercizio.
Più uno si esercita e più riporta nella coscienza ordinaria quello che ha vissuto. Una regola fondamentale di evoluzione della coscienza dice: tu ti crei passo per passo la capacità massima di portare nel mondo spirituale le tue domande esistenziali, quelle che ti porti dall’esistenza diurna, e di ricevere al risveglio, quando ritorni nel corpo, le risposte del mondo spirituale, se ti abitui ad addormentarti, ad entrare nel mondo spirituale non dopo aver bevuto una bottiglia intera di vino, ma sull’onda della meditazione – la meditazione è essere nel mondo spirituale coscientemente, prima di entrarci addormentandosi. Allora si crea una sfera di passaggio. E se ritorni giù senza svegliare la coscienza brutalmente, bombardandola subito con le percezioni del mondo materiale, se la prima cosa che fai quando ti svegli è di meditare, non di esporti subito alla brutalità delle percezioni che si impongono spazzando via tutto quello che è puramente spirituale, quindi anche la possibilità di ricordarsi un minimo di immagini del sogno, allora puoi rimanere ancora un po’ in quella sfera di passaggio.
La brutalità delle percezioni fa entrare l’essere umano col suo corpo astrale (la scienza dello spirito è molto più articolata) e con l’io in un attimo dentro al corpo fisico e all’eterico, mentre la meditazione è l’esercizio di entrarci lentamente, creando questi passaggi dove dici: un momento, un momento, in questo sogno del risveglio chi c’era dentro? Con chi stavo parlando? Qual era la dinamica? C’era paura, c’era gioia? I sentimenti sono molto più importanti che non le immagini del sogno. Così uno impara a riportare sempre di più quello che gli è stato detto, che gli è stato comunicato dai morti, dagli Angeli, dagli esseri del mondo spirituale.
Intervento: Peccato! Peccato, perché se penso a tutto questo popolo della notte che non va mai a dormire. Andrebbe molto più volentieri alle nove di sera a dormire se sapesse di incontrare questa possibilità. Capisco che tutto va conquistato e sudato con sforzi e disciplina, ma all’umanità potevano servire, come un tempo, questi doni – perché era tutto sommato anche un dono, quello di essere a contatto con le realtà superiori. Perché è stata così tanto ritirata questa possibilità?
Archiati: Un pensiero di questo pomeriggio diceva: cosa ti dà più gioia? Ciò che i tuoi genitori ti danno perché sei un bambino e non sei capace di conquistartelo da solo, o ti dà più gioia quel che ti conquisti da solo?
Replica: Sì, decisamente la seconda!
Archiati: E perciò si è ritirato il mondo spirituale. È semplice, il pensiero. Il cardine fondamentale è sempre il peso della libertà: nulla è più bello per l’uomo di ciò che si conquista liberamente.
Replica: Il pensiero mi andava veramente a questi ragazzi, ai giovani imbambolati di alcool e musica nelle discoteche. Per carità sarà un karma, se lo saranno anche scelto, non lo so…
Archiati: Sì, ma sono anche giovani, e finché non si rovinano il corpo… Noi, proprio come cultura di adulti, dovremmo distinguere se un giovane si rovina il corpo: quella non è una cosa da cui si può tornare indietro, perciò io farei di tutto per spiegare che un corpo rovinato è rovinato, e i giovani lo capiscono. Per quanto riguarda l’anima e lo spirito lasciamogli fare tutte le esperienze che vogliono, e più ne fanno e meglio è, altrimenti gli devi dare sempre dei comandamenti: sta’ attento qua, sta’ attento là… i comandamenti ci sono stati per dei millenni, e vediamo i bei risultati!
Detto in un modo paradossale, un giovane basta che non si rovini il corpo e poi più matto è e meglio è, perché fa più esperienze. È importante che faccia le esperienze di ciò che non funziona, che non gli porta nulla, è importante che faccia l’esperienza di cambiare la notte in giorno, perché allora, vedendo cosa gli combina, non lo vorrà fare più da adulto, liberamente andrà a letto un po’ prima. Ma se non ha fatto questa esperienza lo devi costringere da adulto ad andare a letto prima, e non ci vorrà andare perché non ha fatto mai l’esperienza dell’altro modo.
In altre parole, nell’esperienza della libertà è essenzialmente compresa l’esperienza del «peccato», tra virgolette, perché soltanto l’esperienza del peccato e le sue conseguenze mi fa volere il bene liberamente. E perciò questo Padre saggio, di fronte al figliol prodigo che gli dice: io me la voglio godere, la vita, dammi la mia parte dei soldi, non dice: però sta’ attento che devi andare a letto alle nove, sta’ attento bla, bla, bla, ma gli dice: qua, prendi i tuoi soldi e vai!
Noi siamo più retrivi, più conservatori, più moraleggianti che non il nostro bravo Padreterno. La gioventù è fatta per sperimentare tutto quello che si può. Basta dire: sta’ attento, che col corpo non si scherza. Ma solo quello.
Intervento: Se si proibisce qualche cosa diventa una sfida…
Archiati: … per prevaricare sempre di più.
Replica: Non solo per prevaricare, ma serve per liberarsi di te.
Archiati: Se da adulti vogliamo proibire, tu intendi dire, lo facciamo per dargli la possibilità di prevaricare ancora di più, e va bene! Perciò la mela era proibita, perché l’uomo ci trovasse più gusto a prenderla. Però la possibilità di prenderla gli è stata data.
Intervento: Se non era proibita chi è che la mangiava?
Archiati: Però, guarda che una certa Chiesa che io conosco non ti mette le proibizioni per godere che tu le prevarichi, d’accordo? Ti dice: se lo fai vai all’inferno! Che è il discorso opposto a quello che tu fai. Eh, insomma, ci capiamo se vogliamo essere onesti. Perché messa come tu la dici, va benissimo, ma tu pensi che una gioventù intelligente abbia bisogno delle proibizioni degli adulti per fare i suoi esperimenti? Li fa!! Oppure non è intelligente.
Replica: No, semplicemente non sa di reagire invece di agire.
Archiati: No, è un moraleggiamento quello che tu dici. Perché ciò che fa la gioventù deve essere un reagire di fronte a quello cha fanno gli adulti? La gioventù fa, non chiede il permesso a nessuno, quello è il bello! Tu, quando eri giovane, hai soltanto reagito? Oh?, non rispondi? Ti sei addormentato?
Replica: No, ci stavo pensando.
Archiati: Ah bene, perché lo sai che hai fatto i cavoli tuoi, altro che reagire soltanto.
III,2. Se questa mia attività sia veramente emanazione della mia entità indipendente, o se invece abbiano ragione i fisiologi moderni i quali sostengono che noi non possiamo pensare come vogliamo, ma dobbiamo pensare in un modo che vien determinato proprio dai pensieri e dai collegamenti di pensieri presenti nella nostra coscienza (v. Ziehn Guida per la psicologia fisiologica, Jena, 1893, pag. 171), sarà oggetto di una successiva trattazione {se è il cervello a pensare in me o se sono io}. Per ora vogliamo stabilire soltanto il fatto che noi ci sentiamo continuamente forzati {indotti} a cercare concetti e collegamenti di concetti che stiano in una certa relazione con gli oggetti ed i processi che avvengono senza il nostro intervento.
In altre parole, è spontaneo per l’uomo non accontentarsi della percezione: subito mette in moto delle riflessioni, crea nessi e connessi, crea concetti, si spiega, si chiede come mai ecc… Uno può dire: ma chi te lo fa fare? perché non ti accontenti della percezione? Perché voglio capire! Eh, perché è un essere pensante, non può fare a meno di pensare, una gran bella cosa!
Che poi il pensare possa avere un lato minimamente attivo e possa diventare sempre più attivo, questo lo vedremo in seguito. Constatiamo per ora che è spontaneo, anzi inevitabile per l’uomo, accompagnare ogni processo di percezione con la sua riflessione pensante. Lo fa spontaneamente sempre, anche se non se ne accorge, e l’unica alternativa è di addormentarsi.
Chiesto in un altro modo: è possibile essere svegli senza pensare assolutamente a nulla? No, non è possibile, ed è una gran bella cosa!
Quindi essere uomini significa essere sempre, in quanto stato di coscienza desta, nell’elemento del pensare. Per natura. Qui si tocca con mano in questa sala, in questo momento. È così evidente, è così convincente!
Rileggo: «Per ora vogliamo stabilire soltanto il fatto che noi ci sentiamo continuamente forzati {indotti} a cercare concetti e collegamenti di concetti che stiano in una certa relazione con gli oggetti ed i processi che avvengono senza il nostro intervento».
(III,2) Se il far questo sia veramente opera nostra, o se noi lo compiamo per una immutabile necessità {necessitata in noi dai processi del cervello ecc.}, è una questione di cui provvisoriamente non ci occupiamo. A prima vista appare indiscutibilmente come opera nostra.
Ci appare spontaneamente come opera nostra. C’è mai stato un essere umano che spontaneamente, sinceramente e onestamente ha detto: il mio cervello pensa? Spontaneamente, sinceramente e onestamente, no. Viene spontaneo dire: io penso, io la penso così! Non ho mai sentito uno scienziato spontaneamente dire: il mio cervello la pensa così. Io no, però il mio cervello la pensa così… Non viene spontaneo, non viene spontaneo, tant’è vero che vi fa ridere.
Quindi Steiner dice: se il far questo sia veramente opera nostra o se noi lo compiamo per una immutabile necessità è una questione di cui provvisoriamente non ci occuperemo. A prima vista appare indiscutibilmente come opera nostra: io penso, io la vedo così, signor Archiati non sono d’accordo con lei! Ma un momento: lei non è d’accordo con me o è il suo cervello che non è d’accordo con me? È il suo cervello che non è d’accordo con me? Allora io parlo col suo cervello, non con lei! Lei non mi interessa, mi interessa il suo cervello. Signor cervello del signor Tal dei Tali, perché non è d’accordo con me? E chi mi risponde? Mica il cervello, mi risponde lui!
Allora, come la mettiamo? Tutto questo perché la scienza moderna si presenta con una specie di terrorismo ideologico, che fa impaurire il povero essere umano. Sono tutti dogmi. Per cui uno dice: vacci piano, tu dici che è il cervello a produrre i tuoi pensieri, ma allora perché dici io penso, io penso, io penso. Lascia stare l’io! Lascia parlare il tuo cervello! Perché parli tu? Lascia parlare il tuo cervello! Eh, ma il mio cervello non parla, non sa parlare – e allora stia zitto!
Intervento: Sembra impossibile contraddirsi così.
Archiati: Davvero! Vedi che l’affermazione che facevo prima, che la scienza moderna ha un sapere all’infinito perché ha moltiplicato all’infinito le percezioni, ma che riguardo al fattore pensare è diventata sempre più povera, è un’affermazione vera! E lo vediamo. Io la sto mettendo un pochino sul lato umoristico, però è vero quello che tu dici: ma come si possono dire delle contraddizioni così forti? Se uno è coerente col fatto che è il cervello a pensare, a produrre i pensieri ecc., dovrebbe smettere di parlare di io, dovrebbe lasciar parlare il cervello.
Intervento: Per la scienza, la coscienza è una parte del cervello, ha sede in una parte del cervello.
Archiati: Mmmh. Adesso in Germania, non so se anche altrove, hanno scoperto il gene della fedeltà matrimoniale. Chi ha questo gene, che è la causa, ha per effetto che resta fedele nel matrimonio. Chi non ce l’ha, non ce l’ha. Mica è colpa sua, prendetevela col gene! Oppure vacciniamolo e gli mettiamo il gene! Tanti uomini che io conosco dicono: no, no, no, quella vaccinazione lì non me la faccio proprio, vado meglio così, vado meglio senza gene!
Quindi Steiner dice: su questa questione di cosa sia causa e cosa sia effetto, se cioè il pensare sia una creazione del mio spirito, del mio io, o se invece sia necessitato da processi di natura, per ora questa questione non l’affrontiamo direttamente.
Constatiamo che l’essere umano, nello stato di veglia, vive spontaneamente, inevitabilmente nell’elemento del pensiero, crea concetti e li concatena, non gli bastano i fenomeni li vuol capire, li vuol spiegare. E li spiega e li capisce col pensiero.
La palla da biliardo è una percezione? No, è un concetto! Un cagnolino che ho accanto a me, messo sul tavolo da gioco in modo che veda, non percepisce una palla. La palla esercita una corrente astrale su di lui. Se avesse la percezione della palla direbbe: è una palla, avrebbe subito il concetto. Quindi la percezione pura non c’è, perché ci aggiungiamo sempre, e subito, il pensiero, il concetto.
Si può dormire a occhi aperti? Sì. Qui c’è un amico che si è addormentato a occhi aperti: vede tutto e ha la percezione? Vede, ma non ha la percezione, perché manca la coscienza.
Un altro esempio che ho portato diverse volte: uno è talmente concentrato a studiare qualcosa (a me è capitato tante volte) che solo dopo un po’ si accorge che dalla chiesa non molto lontana, da cui è abituato a sentire i tocchi di campana, suonano le sei. Ma come le sei? Sono le dieci! I primi quattro tocchi l’orecchio li ha percepiti o no?
Intervento: Li ha percepiti, ma senza coscienza.
Archiati: L’orecchio non percepisce i suoni, li sente. L’essere umano pensante li percepisce e nel caso di prima i primi quattro non li ha percepiti, perché se li avesse percepiti avrebbe avuto subito il concetto, la coscienza. Quindi l’orecchio ha sentito i primi quattro suoni, perché l’orecchio è sempre aperto, il timpano ha vibrato, però mancava la coscienza desta per percepire.
Replica: Come accade agli animali che vedono ma non capiscono.
Archiati: Se noi distinguessimo molto più tecnicamente – perché le parole ci sono, il linguaggio ce le dà – tra guardare e vedere, diremmo: l’uomo guarda e l’animale vede. Però allora dovremmo sempre parlare di guardare, non di vedere.
Intervento: Quando sono in mezzo al traffico, magari a un semaforo rosso, mi succede che comincio a pensare a qualcosa e poi continuo a pensare, senza accorgermi di tutto quello che succede dopo. Mi ritrovo magari sotto casa, avendo guidato in mezzo a un traffico infernale, senza ricordarmi di quello che ho fatto, però ho svolto un pensiero che per me era importante. Ho fatto due cose contemporaneamente, ma staccate.
Archiati: Sì, ma a me interessava il fatto che però al rosso ti sei fermata. Questo mi interessava.
Replica: Penso di sì, e funziono perfettamente, eh!? Incredibile! Mai avuto incidenti, mai!
Archiati: Questo ci sta a dire – noi siamo all’inizio de La filosofia della libertà, non più in là –, che ciò che noi chiamiamo il pensare è una qualità di attenzione, rivolta alla percezione. E tu stai dicendo che l’attenzione pensante, di coscienza, che noi rivolgiamo alle percezioni, va da un minimo di attenzione a un massimo di attenzione.
E aggiungi: tutte le percezioni subliminali, che di fatto ci sono, tecnicamente parlando sono percezioni più potenziali che reali perché l’attenzione del pensiero è minima. Però non è nulla.
Replica: Quindi io stavo attenta senza accorgermene?
Archiati: Se l’attenzione fosse stata nulla tu non ti saresti fermata di fronte al rosso, saresti andata a sbattere contro un sacco di macchine. Quindi un minimo di attenzione c’è sempre a queste percezioni, però è un minimo.
Replica: Ma il fatto è che si crea un equilibrio automatico, armonioso: una quantità di percezioni da una parte e una quantità dall’altra, perfetto!
Archiati: Quindi che cos’è l’automatismo? La ripetizione di percezioni quasi uguali e quindi di concetti quasi uguali: perciò richiede un minimo di attenzione, e il resto dell’attenzione l’hai dedicato ai pensieri che ti sei fatta. Ma noi ci possiamo concedere un minimo di attenzione quando le percezioni si ripetono per la millesima volta quasi uguali, quando la strada che fai è sempre la stessa e allora le percezioni delle distanze, dei semafori, ecc… è sempre la stessa. Le macchine che ti passano accanto sono diverse, ma quelle non sono la cosa importante: tu sei abituata al fatto che ci sono tre semafori e automaticamente ti fermi. Ti sei abituata. Se invece tu facessi un percorso nuovo, saresti costretta a metterci più attenzione, e i pensieri li potresti fare soltanto all’arrivo.
Replica: È vero, è vero.
Archiati: Quindi in base alla ripetizione delle percezioni e dei concetti, dei pensieri, c’è la possibilità di un certo automatismo.
Intervento: Se un animale avesse improvvisamente attraversato la strada, mentre lei era in questi pensieri, forse non avrebbe avuto il riflesso pronto per fermarsi.
Archiati: Per lo meno più lento che non dedicando tutta la propria svegliezza di coscienza al guidare.
Intervento: Oppure interrompe i pensieri e percepisce coscientemente l’animale che attraversa.
Archiati: Sì, ma prima o dopo averlo travolto? È questa la domanda. Ora, a parte il fatto di guidare la macchina, dove i fattori di responsabilità sono importanti in quello che avviene intorno a noi, a parte questo esempio un po’ di eccezione, c’è qualcosa di male nei pensieri automatici? No, perché tutto ciò che diventa automatico nella coscienza si può rendere base, fondamento, condizione necessaria per ciò che ci si conquista di sempre nuovo.
Nulla di male che nella coscienza avvengano sempre più elementi di automatismo: l’importante è che non manchi il sempre nuovo, quello è importante!
Auguro a tutti una buona notte, domani ci vediamo alle dieci e termineremo il terzo capitolo (!).
Sabato 29 settembre 2007, mattina
Buon giorno a tutti, auguro a tutti una buona giornata!
Io farò del mio meglio per contribuire a che sia una buona giornata.
Per prima cosa, altrimenti mi dimentico, c’è qui una montagnola di nuovi cataloghi, ed è importantissimo che ci diate una mano a diffonderli. Tanti soldi per la pubblicità non li abbiamo, e poi per queste cose non serve a nulla: serve una distribuzione capillare dell’amico che lo dà all’amico. Prendetela come una piccola responsabilità nei confronti di ognuno di noi, nei confronti della scienza dello spirito, dell’umanità che la cerca senza sapere di cercarla, come elemento di sopravvivenza. Sono profondamente convinto che l’umanità sopravvivrà spiritualmente soltanto se troverà il coraggio di affrontare, dopo secoli di scienze naturali, che ci volevano, un approccio ugualmente scientifico a ciò che non è visibile sensibilmente e però esiste, a tutto ciò che chiamiamo «lo spirituale».
Un’altra piccola comunicazione: qualcuno ieri mi ha detto che quando il relatore viene troppo spesso interrotto è difficile seguire e tenere il filo. Chi mi conosce sa che io, nella prima giornata, lascio un po’ la briglia sciolta in modo che sorga abbastanza impazienza così che, quando al secondo giorno dico: non interrompetemi, ho la solidarietà di tutti! Dopo la pausa c’è il tempo per lo scambio di idee.
Abbiamo cominciato il terzo capitolo, che in fondo parla delle due colonne fondamentali, dei due pilastri fondamentali dell’umano, e vedremo, di paragrafo in paragrafo, che in tutto ciò che facciamo, in tutto ciò che c’è nella nostra vita, due sono le cose:
• un pilastro è tutto ciò che trovo già fatto senza di me, tutto ciò che c’è già: un pensiero già pensato importa poco se sia stato pensato da me o da qualcun altro. Nel momento in cui mi pongo di fronte al pensiero pensato questo c’è già, altrimenti non ne potrei parlare.
• l’altro pilastro è ciò che io creo nel momento presente, e che ancora non c’era.
Quindi, le due grandi realtà sono: ciò che già c’è (anche dentro di me, anche un’emozione: se già c’è, c’è) e ciò che creo io. Una terza realtà non esiste.
Nel momento presente, o io ho a che fare con qualcosa che c’è oppure ho a che fare con qualcosa che sorge nel presente grazie a me, e che senza di me non c’è.
La seconda cosa, quella che sorge sempre al presente solo e unicamente grazie a me, che non può esserci senza di me, è il pensare. Naturalmente il mio pensare. Il pensare dell’altro per me già c’è oppure non c’è: comunque non sono io a produrlo, non sono io a generarlo nel presente.
Quindi il pensare attuale, nel presente, è una realtà che in assoluto si pone in alternativa, si pone di fronte a tutto il resto che già c’è senza che io in questo momento lo generi, lo produca, lo porti all’essere.
Il pensare ha uno stato, una posizione di assoluta unicità perché è l’unica cosa che nel presente viene prodotta da me.
La seconda cosa da dire sul pensare è che proprio perché è l’elemento che da sempre, e sempre nel presente, io produco, e proprio perché mi è così spontaneo farlo (nella mia natura di uomo adulto, non di bambino piccolo), non ci faccio caso, non lo noto.
Noto tutto quello che c’è, e non noto quello che produco io perché mi è così intimo, non me ne distanzio. Tutto quel che c’è, siccome sono un po’ distante, lo noto; invece ciò che io produco pensando su quel che già c’è, mi è troppo vicino, sono io stesso, e non ci faccio caso. È l’elemento inosservato, quello più connaturale e sostanziale al nostro essere, e perciò l’essenza dell’uomo è l’essere che pensa. Tutto il resto non lo fa lui, lo trova, e si chiama percezione, si chiama osservazione, ciò che osservo.
Un’emozione, un sentimento, li trovo dentro di me. Un sentimento è una percezione, e dico: ho un sentimento, ho una rabbia.
Due sono le cose quando io dico: sento rabbia. Una è la rabbia che sento e l’altra è che so di sentirla, ci sto pensando sopra, sto creando il concetto della rabbia. La rabbia in quanto sentimento è ciò che sento, ma la rabbia in quanto concetto è ciò che penso.
Uno mi chiede: ma è rabbia, o è collera, o è ira?
Eh, adesso devo pensare alla differenza, e così facendo sono nel sentimento o sono nel pensiero? Sono nel pensiero, penso: un momento, fammi osservare meglio la mia rabbia… o è collera? o ira? Mi devo chiarire i pensieri sulla differenza tra rabbia, collera e ira e sto pensando. Penso. L’uomo pensa sempre, oppure si addormenta.
Una cosa importantissima di ieri, dove io mi sono arrabbiato, incollerito e adirato (perché c’era sia rabbia, sia ira, sia collera), è stato quando abbiamo fatto tutta quella disquisizione sui geni, sull’ammirare. Io che normalmente sono pacato, sono buono buono…
Intervento: Mica tanto…
Archiati: Era un pensiero o un sentimento, quello che hai espresso?
Replica: Un pensiero!
Archiati: Eh sì, sì, … ch’hai dovuto pensare, la seconda volta, per metterla in chiave di pensiero! Il concetto era questo – e non mi pento di essermi arrabbiato perché la cosa è troppo importante, troppo fondamentale –: ho fatto, per così dire, addirittura un processo sommario alla borghesia moderna (io lo so che voi fate sempre gli sconti a quello che io dico, perciò mi tocca dire 100 per arrivare a 70), perché noi abbiamo una cultura borghese. Però cercate di capire e non di fraintendere quello che dico. In quanto cultura borghese, proprio non sa neanche dove sia di casa il concetto dell’uguaglianza degli esseri umani, della natura umana, della dignità umana. Questa cultura è essenzialmente classista e siccome lo è sempre stata, e non ce n’è un’altra, non ce ne accorgiamo neanche.
È classista perché l’elemento assolutamente comune a tutti gli uomini neanche lo conosce, ed è il pensare! E per far sì che questo pensare – che ognuno di noi in modo uguale fa sorgere e crea – non generi l’uguaglianza di tutte le menti, cosa pericolosa!, allora questa cultura borghese ti mette lì le autorità, ti mette lì i geni, i divi, e tu sei sempre quello che corre dietro alle autorità.
Stamattina, a colazione, una persona diceva: in Toscana, in un certo posto, c’era un incontro sul denaro regionale e tutti stavano aspettando che arrivasse il guru, altrimenti nessuno poteva dire le sue idee. Poi è arrivato lui, ha parlato bla bla bla, e allora tutti sapevano qualcosa sul soldo regionale.
Finché noi mettiamo l’accento sulle differenze fra gli esseri umani, siamo disumani, perché mortifichiamo l’umano che abbiamo tutti in comune. La nostra società, la nostra cultura è profondamente, essenzialmente disumana, perché non vuole sottolineare ciò che tutti abbiamo in comune in modo uguale.
Io ho un fratello che è un contadino, alcuni di voi lo conoscono, Domenico: non è in nulla e per nulla da meno di me in quanto essere pensante e se io non sono sveglio mi dà delle sberle, mi dice: no, no, no, qui tu hai pensato storto, rettifica. E ho un altro fratello che è prete e se voi mi chiedete chi dei due sa pensare meglio, non voglio offendere il fratello prete, ma vi dico decisamente mio fratello contadino, perché l’altro è stato rimbambolito dalla Chiesa.
Naturalmente io non sto dicendo che siamo tutti allo stesso punto di evoluzione del pensiero, non è questo che sto dicendo, certo che ci sono differenze, ma le differenze non sono di classe, non sono in base ai soldi, non sono in base a ciò che uno possiede o alla carica che ha, o all’ufficio o al titolo che ha, le differenze sono unicamente in base ai colpi portati a segno o ai colpi perduti nell’evoluzione del pensiero che ognuno di noi ha fatto.
In altre parole, l’evoluzione del pensiero è l’unica cosa che ci tratta tutti in modo uguale, ognuno in questo momento si ritrova esattamente la capacità di pensare che ha costruito lui stesso. Da fuori non viene nulla.
E questo non ha nulla a che fare con la differenza dei vestiti che porta una persona, quanti soldi ha ecc... non c’entra proprio nulla! Se tu sei più avanti di altri nel pensare è perché tu stesso hai fatto dei passi. Naturalmente presupponiamo che l’essere umano non è stato inventato all’inizio di questa sua vita, perché l’evoluzione del pensiero è un’evoluzione enorme, e dunque allarghiamo l’arco di osservazione, non facciamo dell’essere umano una mosca che vive un giorno solo.
In fatto di pensiero c’è uguaglianza assoluta, nessuno di noi può ricevere da fuori. Certo che noi, conversando insieme come stiamo facendo adesso, possiamo ricevere dal di fuori degli stimoli, io da voi e voi da me, però uno stimolo che mi viene dal di fuori è come un’osservazione, è come una percezione. Il mio processo di pensiero per voi è una percezione, vi viene offerto, ma poi la presa di posizione, quello che voi state pensando adesso di fronte a quello che io sto dicendo (e che per voi è percezione), è faccenda di ognuno, e ognuno ha ugualmente la possibilità, la capacità di prendere posizione, di trovare simpatico, antipatico, giusto, sbagliato, profondo o meno profondo quello che io sto dicendo.
Ripeto il concetto fondamentale, perché è importantissimo: se abbiamo una cultura che mette l’accento su ciò che l’uomo ha, sul sociale esterno, anziché su ciò che l’uomo è, questo è fatto per distogliere l’attenzione dall’elemento umano per eccellenza, comune in assoluto, che è il pensare! La capacità di ognuno di pensare. Ma chi di voi ha la testa di un altro sulle proprie spalle?
Però la maggior parte degli esseri umani nella nostra società, pur non avendo la testa di un altro sulle spalle, ha il cervello di un altro sulle spalle. Le persone che hanno il loro cervello sulle spalle sono molto poche, e questo è il peccato originale della nostra cultura.
Se il mio cervello è stato imbottito dalle idee altrui, dagli esperti, dalla Chiesa, dalle autorità, dalla politica, ecc…, che aspetto a farmi i pensieri miei?
Una persona come il Papa – non prendete queste cose come critica, non vi concedo di prenderle come critica perché la cosa è troppo seria, non venite a dirmi: tu critichi le autorità, perché non ci sono autorità, per me, non esistono proprio, io vedo soltanto esseri umani, né più né meno che me –, vi chiedo, quella persona che viene chiamata Papa cos’ha?, due teste sulle spalle?
Non ho mai capito, io, perché la sua testa debba valere per carica, per grazia ricevuta, più della mia testa. È assurdo!! È disumano, è mortificante l’umano. Casomai è stato messo in quel posto perché ci si aspetta da lui un esercizio di potere, ma mica perché ha due teste, tre teste. Ne basta una, se pensa bene.
Dove sta scritto che un Papa deve per forza saper pensare meglio di mio fratello che è contadino? Dove sta scritto? Io so che mio fratello contadino pensa meglio della maggior parte dei Papi che io ho conosciuto, perché per diventare Papa bisogna che la mente venga rimbambolita da tutte le parti, altrimenti non ci arrivi a fare il Papa.
La scienza dello spirito di Steiner, questa filosofia della libertà, è il peso morale dell’elemento che abbiamo in comune in assoluto, dove non ci sono privilegi, dove non ci sono geni o non geni, e questo è importantissimo. Scusate, altrimenti dove sentiamo, noi, la dignità dell’essere umano? Se uno che ha una carica è più degno di me, dov’è la dignità comune degli esseri umani?
Se non la viviamo nel pensare, che è veramente la dignità comune che abbiamo, che ci rende tutti ugualmente spiriti pensanti, non avremo la possibilità di far l’esperienza della comunanza umana.
Adesso potete capire un pochino meglio perché io, ieri, veramente mi sono arrabbiato, perché mi sono detto: ma qui ci rendiamo conto con che cosa abbiamo a che fare? E la nostra amica, là in fondo, continuava, continuava, mica picchiava meno di me, eh?!
A me va bene quando uno di voi picchia, lo sapete che non mi faccio intimorire. È inutile che adesso state lì con la testa china come se io vi avessi dato una lavata di capo. Sto dicendo che il capo se lo deve lavare ognuno, non che io vi do una lavata di capo, questo sto dicendo!
Luciana, sono terribile, sono cattivo?
Intervento: No, un agnello.
Archiati: Mi sembra di dire una cosa così innocua, così pacata, e qui tutti zitti, zitti… Ma allora mi viene da pensare che le cose più semplici non vengano mai dette, se vi prendete uno spavento del genere. E allora è ora che vengano dette, però.
In questo spirito di valutazione, di venerazione nei confronti dell’umano, di venerazione nei confronti dello spirito pensante che non è che c’è in ogni uomo, ma che è ogni uomo, vogliamo affrontare questo capitolo bellissimo. Però dobbiamo renderci conto che i pensieri che qui ci diciamo, svolti, proprio tradotti nel sociale, nella vita quotidiana, hanno una forza non soltanto prorompente ma dirompente.
Lì dobbiamo aver coraggio, perché nel sociale che noi abbiamo tutto si ribella di fronte a questa uguaglianza. Non c’è, non c’è mai stata e la dobbiamo creare noi, sudando e pagando in prima persona. Siamo molto lontani da una forma mentis che metta veramente in primo piano la comunanza assoluta che ci rende tutti uguali.
In questo momento in cui io sto dicendo queste cose a modo mio (col mio temperamento, è chiaro, ma non importa nulla), chi siete voi? Contano le differenze dei portafogli che avete? Contano le differenze delle cariche che avete, dei vestiti ecc…? Nulla! Non contano nulla!
Conta soltanto quello che tutti abbiamo ugualmente in comune: il capire, il pensare. È importante capire quello che sto dicendo e, soprattutto, è importante il modo in cui ognuno di voi sta prendendo posizione, sta facendoci pensieri suoi su quello che io sto dicendo. Questo ci rende tutti uguali, ma proprio in assoluto, ed è questa la bellezza, questo è liberante.
Questo tipo di esercizio si fa troppo poco, quasi mai, e in questo modo non andiamo avanti, la vita diventa sempre più difficile, c’è tanta disperazione, c’è tanta paura, tanta depressione perché noi mortifichiamo l’umano. Proprio per questo! Perché dove noi cogliamo l’umano ne gioiamo, lo facciamo vivere in noi e negli altri, non sorgono depressioni, non si sa neanche dove stiano di casa!
La depressione, la paura, sorgono soltanto quando noi mortifichiamo l’umano; quando l’umano lo facciamo vivere abbiamo tutto il necessario non soltanto per sopravvivere, ma per vivere in pienezza, in gioia, per donare, siamo stracarichi di doni per gli altri. Questo è un vivere! E per questo è fatto ognuno, in modo uguale. Subito, ognuno lo può far subito, perché è nella sua natura: il problema è che questa natura viene mortificata, non che manca qualcosa. Non manca nulla a nessuno.
Il concetto del pensare, dello spirito pensante è che non manca nulla a nessuno!
E se uno ha un paio di milioni che io non ho, io dico: ma che poveraccio! Lui però, non io! Perché un paio di milioni in più di quelli che servono per mangiare, bere, dormire bene, per pensare bene, sono tutte grane. E io le grane le lascio volentieri agli altri. Poca grana, poche grane! Non ho detto pochissima eh?, un po’ ci vuole. Ma il necessario basta. Basta.
(III,2) Noi sappiamo benissimo che insieme con gli oggetti non ci vengono dati senz’altro anche i relativi concetti. Che io stesso sia attivo in ciò, può derivare da un’illusione: in ogni modo all’osservazione immediata la cosa si presenta così. La questione ora è la seguente: che cosa guadagniamo noi a ricercare, per ogni fenomeno, un parallelo concettuale?
III, 3. Vi è una differenza profondissima fra le reciproche relazioni che hanno, per me, le varie parti di un fenomeno prima che io abbia scoperto i corrispondenti concetti, e dopo.
Immaginiamo, un po’ per assurdo, se volete – perché bisogna fare anche un po’ di esercizi: siccome il pensare lo produciamo e ci è così intimo, così vicino che non lo notiamo, allora questo riflettere sul pensare che faremo soprattutto oggi, qualche volta ci sembrerà un po’ paradossale –, supponiamo per paradosso che ci sia una persona che non ha mai visto un biliardo, non sa cos’è una stecca, ecc. Disegno di nuovo un biliardo.
Intervento: Ma continui a sbagliare: un biliardo non è così!
Intervento: Ci vogliono due buche anche a metà dei lati lunghi.
Archiati: Qui? Oh, me lo sono dimenticato, il biliardo. Allora, supponiamo che ci sia una persona, come me!, che non ha mai visto un biliardo, e adesso la portiamo lì:
Fig. 8
ci sono diverse palle da biliardo, sei, dico sei buche, vede due che giocano, ma non sa nulla e non può fare i concetti.
Oppure un altro esempio: voi sapete cos’è un ascensore? Perché? Perché ne avete avuto la percezione. Senza avere mai avuto la percezione di un ascensore, bisognerebbe costruirne il concetto puro. Supponiamo di andare in Amazzonia, oppure in Siberia, e lì incontriamo una persona che è cresciuta nella natura e non sa cos’è un ascensore, non ne ha mai avuto la percezione.
È possibile comunicargli il concetto puro? Sì, nella misura in cui colui che comunica sa pensare e colui che sente sa pensare. Però si può, e il concetto puro sta nello sceverare gli elementi che sono essenziali all’ascensore, che non devono mancare, e lasciar da parte tutto ciò che è secondario, tutto ciò che è accidentale. Si può creare il concetto di ascensore.
Noi abbiamo tutti e due gli elementi: abbiamo sia il concetto, sia la percezione dell’ascensore. Ma fino a che punto il concetto sia stato purificato, sia stato affinato, sia stato messo a fuoco, questo è questione del pensiero.
Tu, Paolo, dicevi ieri: ci ho pensato molto sul concetto di tavolo. Vedi? La formazione di ogni concetto è questione di pensiero, e si può diventare sempre più precisi nel formare i concetti.
Quando ero nel Laos, ai tempi della guerra in Vietnam, dove si rischiava la pelle ogni giorno, il secondo anno che ero là, siccome avevo già imparato il laotiano ed ero capace di insegnare in laotiano nella scuola elementare, avevo degli alunni che avranno avuto nove, dieci, undici anni e non avevano mai visto una casa in mattoni. Vedevano tutte case in paglia con pilastri di legno ecc…, ma siccome a scuola avevamo testi semifrancesi, perché in laotiano non c’era quasi nulla, a un certo punto salta fuori l’ascensore. Però non c’erano immagini, e l’immagine ti dà già una percezione; non c’erano, e quindi loro non avevano dell’ascensore nessuna percezione.
Io ho cercato di spiegare cos’è l’ascensore, e dovevo procedere in modo puramente concettuale. Naturalmente mi appoggiavo a percezioni che loro avevano: guarda, nella tua casetta hai questo trespolino, questa specie di scaletta che ti porta su, perché tu non puoi volare, non puoi andar su senza poggiare su qualcosa… l’ascensore è una cosa che ti porta su senza fare i gradini uno dopo l’altro.
E loro dicevano: ma tu sei matto! Un giorno c’è stata la possibilità di andare nella capitale, che era un viaggio non da poco, e io sapevo che nella capitale c’erano, a quei tempi, tre, quattro case con l’ascensore. Una capitale con tre, quattro ascensori!!
Tra l’altro, prima del fatto dell’ascensore, c’era stato il problema del concetto di scala con pianerottoli: loro conoscevano soltanto il concetto di scala a pioli che ti porta lì e poi è finita. Io cercavo di fargli capire che c’è un tipo di scala dove tu sali fino a metà, poi giri, vai così, sali ancora e poi ti trovi sopra. Riuscivano a immaginare fino a un certo punto, ma poi: come?, va avanti? –, non riuscivano a capire il pianerottolino e la continuazione della scala.
Allora, prima di fargli vedere un ascensore, nella capitale li ho portati in una casetta di gente che conoscevo e lì c’era una scala. Erano circa in dieci o venti ragazzetti e ragazzine: si mettono lì davanti e vedono subito che questa scala arriva a metà del muro, mentre il secondo piano è il doppio più alto. Si sono messi a ridere: lo vedi che arriva soltanto fino a metà, te l’avevamo detto che non è possibile!
Allora li ho presi, siamo saliti, e quando siamo arrivati alla svolta erano tutti pallidi! Non si fidavano mica: adesso cadiamo giù, adesso cadiamo giù! Ma no! Piano piano, poi, si giravano e andavano su e dicevano: ma l’uomo occidentale è proprio un genio (altro che Mozart!), ti fa una scala che tu ti fai una girata e poi vai su!
Mi chiedevo: ma qual è il tipo di rapporto tra percezione e pensiero? Cioè, il pensiero umano ha bisogno del punto di partenza della percezione: se tu non hai la percezione non puoi costruirti un concetto. E uno che cerca di darti il concetto puro può farlo perché lui ha avuto la percezione. L’evoluzione del pensiero sta proprio nel partire seguendo il dato della percezione per poi diventare sempre più indipendente dalla percezione.
Immaginate quando poi li ho portati in un ascensore! È successo il finimondo! Prima hanno guardato altri: entrano dentro questa cosa qui (non c’erano i vetri), spariscono e poi vengono fuori di là… Io dicevo: entrate, e loro: no, vacci tu prima, vacci tu prima… Nessuno voleva andare dentro. Poi due, tre alla volta, hanno provato: funziona! – e per fortuna ha funzionato, a quei tempi mica era sicuro che avrebbe funzionato!
I ragazzini hanno avuto la percezione e adesso sapevano, cioè avevano capito che cosa io intendevo dire parlando del concetto di ascensore.
Immaginiamo come ognuno di noi – stiamo parlando dell’elemento che abbiamo tutti in comune – si sia formato migliaia, migliaia, milioni di concetti, anche soltanto in questa vita, in base a tutte le percezioni che ha avuto. Perché sempre, mentre noi percepiamo, pensiamo. Magari sull’onda del linguaggio, perché il linguaggio ci dà le parole: ascensore = ascendere. In ogni parola c’è un’immagine, e questa immagine ti aiuta a formare il concetto. Ognuno di noi è potenzialmente un pensatore sempre più profondo, sempre più vasto.
Le due dimensioni del pensare sono la profondità e la vastità. La profondità è quella che coglie l’essenza, mentre la vastità è la capacità del pensare di cogliere i nessi e i connessi, il nodo universale, il modo in cui le cose sono congiunte una con l’altra.
Per dirvi un esempio, un nesso è quello che esiste tra l’uguaglianza dell’umano, ciò che ci rende tutti uguali, cioè la facoltà del pensiero, e la libertà individuale, l’elemento che ognuno di noi ha come specifico, quello che distingue ognuno di noi da ogni altro. Quindi c’è una dimensione dell’umano che abbiamo tutti in comune, ed è per tutti uguale, e c’è una dimensione dell’umano dove ognuno di noi è diverso, unico, irripetibile, non paragonabile a nessun altro, ed è la dimensione individuale. Uguaglianza e libertà.
C’è poi la terza dimensione dell’umano, che chiamiamo fraternità, aiuto reciproco, come volete – perché «fraternità» mortifica un po’ l’elemento femminile –, ed è il modo in cui tutti quanti possiamo metterci a disposizione, vicendevolmente, tutti gli strumenti per vivere la libertà individuale.
Questa specie di nodo triarticolato dell’umano che si esprime nella libertà individuale, nell’uguaglianza universale e nell’aiutarci a vicenda per metterci a disposizione le condizioni necessarie, gli strumenti necessari per vivere sia l’uguaglianza sia la libertà, è un tipo di nesso e connesso dove il pensiero deve esercitare la sua dimensione di vastità e non soltanto di profondità. Se parliamo di uguaglianza, questa deve valere per tutta l’umanità, se parliamo di libertà deve valere per tutti gli individui dell’umanità.
Il pensiero ha queste due caratteristiche fondamentali: tende verso la profondità che coglie l’essenza, ciò che è importante, ciò che ha peso, e tende verso la vastità, superando le parzialità – si fanno molti peccati contro il pensiero perché si vede un aspetto e non un altro, si vede una fetta di umanità e non un’altra. La vastità è la tendenza allo sguardo di insieme, dove tutto viene preso in considerazione, e non si lascia fuori nulla.
Allora, riprendiamo: III, 3 «Vi è una differenza profondissima fra le reciproche relazioni che hanno, per me, le varie parti di un fenomeno prima che io abbia scoperto i corrispondenti concetti, e dopo». Vi ho fatto un paio di esempi del «prima», per esempio quando una persona non ha mai avuto la percezione di qualcosa.
(III,3) La semplice osservazione può seguire le parti di un dato processo nel suo svolgimento; ma il loro nesso rimane oscuro finché non vengono in aiuto i concetti. Io vedo la prima palla di biliardo muoversi in una certa direzione con una data velocità verso la seconda {l’abbiamo già anticipato ieri questo esercizio}: per sapere ciò che avverrà, dopo avvenuto l’urto, devo aspettare e posso seguire di nuovo soltanto con gli occhi i fatti.
Avete capito cos’è l’urto? No, non lo avete notato. Io non ho visto nessuna testa che dice: ah, io ho il concetto di urto. Perché, Luciana? Perché il concetto di urto ce l’hai da sempre, da quando pensi! Altrimenti, qui, cinque, dieci persone avrebbero dovuto fermarmi e dirmi: un momento, cos’è «urto»? È importante questa riflessione che dice: ah, un momento, io so cos’è l’urto, io ho il concetto di urto.
L’altro scoglio del pensare è che tante persone, soprattutto in occidente – non però ai tempi di Hegel, nell’Europa centrale – dicono: io so cos’è l’urto in base alla percezione, lo so perché mi sono abituato a vederlo. No! No!! L’urto è un concetto creato dal pensare!
Può la percezione di un urto ripetuta mille volte creare il concetto di urto? No!!, perché se io ho sempre un cagnolino, lì accanto a me, quando le palle si urtano, il cagnolino le vede, vede l’urto duemila volte, tremila volte, ma mi parla forse di «urto»? Non ha il concetto di urto, non sa nulla di che cosa sia un urto.
Quindi il concetto di urto non sorge in base all’osservazione. Nessuna osservazione può mai creare un concetto. È il pensare che crea i concetti, è tutt’altra facoltà.
Il percepire, l’osservare, è dei sensi: i sensi mi danno l’osservazione, mi danno la percezione dell’urto. Ma il concetto dell’urto lo crea il pensare, in tutto e per tutto. La percezione non può creare neanche lo 0,1% del concetto di urto.
Potreste dirmi: sì, ma perché tu prendi l’esempio di un cagnolino? Allora prendiamo l’esempio di un bambino piccolo: se il tavolo è un po’ alto, lo mettiamo su un seggiolone. È un bambino di un anno e mezzo, percepisce tutto e ha già percepito cinquemila, diecimila urti. Ha il concetto di urto? No!! Non sa cos’è un urto, perché non sa ancora pensare in atto, ha la potenzialità al pensare in quanto essere umano, però questa potenzialità comincia a tradursi in atto dal sesto all’ottavo anno, più o meno. Verso il settimo anno comincia un pochino a creare dei concetti, ma non a un anno e mezzo, è escluso!
Però vede tutto, la percezione c’è! Adesso supponiamo che noi diciamo al bambino: hai visto la palla rossa? Sì l’ho vista. La palla bianca? Ha il concetto di rosso e di bianco? No, lui non ha il concetto di colore! Ha la percezione! E il bambino è abituato che quella palla lì la chiamano bianca, e quell’altra la chiamano rossa.
Hai visto che ha urtato? Hai visto l’urto? L’impatto? Quello è un concetto puro, perché «rosso» è un concetto, però il colore è immediatamente percepibile, ma «impatto»?
Gli diciamo: hai visto come è stato l’impatto? Cosa capisce il bambino? Nulla, proprio nulla. L’importante è che ci rendiamo conto di questo. Noi lo sappiamo subito, ma non perché abbiamo avuto la percezione dell’impatto, visto che quella ce l’ha anche il bambino.
Voi direte che, se vogliamo essere più precisi, se il bambino non ha ancora il concetto dell’impatto, dell’urto, non ha neanche la percezione, perché percezione e concetto si corrispondono: se non c’è il concetto non c’è neanche, tecnicamente parlando, la percezione. Quindi dovremmo dire che il bambino vive, esperisce, ciò che noi chiamiamo «urto». Il rumore che fa l’impatto agisce sul suo corpicino.
A me, adesso, premeva evidenziare che tutti i concetti che abbiamo non risultano proprio per nulla dalla percezione. In base alla percezione, concomitanti alla percezione, i concetti vengono creati: però dal pensare. Anzi, dire «in base alla percezione» è già un pochino troppo, perché si può fraintendere: meglio dire «partendo dalla percezione», «avviati dalla percezione»: ma mai si dica che la percezione è la causa del concetto, mai!, perché quello sarebbe un errore enorme.
Se la percezione fosse la causa del concetto, il mondo sarebbe pieno di perfetti pensatori, perché le percezioni non ci mancano. Siamo tutti assolutamente straricchi di percezioni, e se le percezioni fossero la causa dei concetti, dovremmo essere tutti straricchi di concetti. E invece non è così.
Ognuno fa gli esercizi a modo suo per mettere sempre di nuovo a fuoco che un conto è la percezione, qualcosa che io trovo già fatto, che osservo, che percepisco, e tutt’altro conto è questo processo, questa attività spirituale che ognuno di noi compie: quella del pensare che genera i concetti.
La percezione e il pensare sono le due sponde dell’essere, che stanno una di fronte all’altra, e l’attività del pensare noi la sottendiamo, tendiamo a sottovalutarla, perché siamo abituati ad ammirare di più quello che fanno gli altri, anziché quello che facciamo noi.
In altre parole, siamo abituati a poltrire. Cosa intendo, io, con «ciò che fanno gli altri»? Tutto quello che trovo, che non creo io. E perché sottovaluto ciò che creo io? Perché se comincio a valutarlo non mi è dato più di poltrire: questo è il risvolto psicologico di una cultura che ti aiuta sempre a guardare all’altro, al guru, o agli sbagli dell’altro, o all’autorità ecc…
Se invece cominci a valutare ugualmente, o ancora di più, quello che tu produci, allora siamo tutti uguali, e per tanti benpensanti (scusate di nuovo la frecciatina) essere tutti uguali è subito il caos.
Il pensiero che se siamo tutti uguali succede subito il caos, è prima di tutto il moraleggiamento più micidiale che ci sia, e in secondo luogo è il terrorismo più grande che ci sia, perché mortifica l’umano in assoluto. Perché ne ha paura.
Spero che ci capiamo. Io non sto esagerando, le cose sono molto importanti. E se non ci capiamo poi, nel dibattito, fatevi sentire, perché queste cose sono troppo importanti.
(III, 3) Se per esempio al momento dell’urto qualcuno mi nasconde il campo su cui si svolge il processo {al momento dell’urto eh?, appena avvenuto l’urto} a me – come semplice osservatore – viene a mancare qualsiasi conoscenza di quello che avviene dopo.
Viene coperto il campo con una tavola di legno (Fig. 6): urto una palla che ne urta un’altra, l’altra si muove? Dico non lo so, perché il campo visivo non c’è, oppure dico: non ce l’ho più sotto agli occhi, ma di sicuro continua a muoversi? Come fai a dire che continua a muoversi?
Intervento: Perché ho il concetto di palla e di urto.
Archiati: E di velocità. Adesso torniamo al bambino di un anno e mezzo, perché è chiaro che noi siamo abituati a pensare, abbiamo i concetti di velocità, di urto, di impatto forte o meno forte, sono tutti concetti che abbiamo, e quindi noi siamo sicuri che la palla si sta muovendo, anche se non la vediamo. Noi adulti siamo sicuri.
Ma il quesito per renderci conto di quello che noi continuamente facciamo pensando è: il bambino di un anno e mezzo, che vede sparire la palla, non ha il concetto dello «sparire» e non sa perché è sparita. Cosa avviene dopo? Cosa avviene sotto questa panca? Non lo sa! Ma «non lo sa» è detto male… non esiste proprio, per lui! Mancando la percezione manca tutto, non esiste proprio, il fenomeno.
Allora siccome il bambino piccolo ha soltanto la percezione, dove non c’è nulla da percepire non c’è nulla. Basta. Quindi diciamo che per il bambino piccolo la palla è sparita nel nulla, ma «sparita nel nulla» è un nostro concetto per re-immedesimarci in quando eravamo bambini, anche se in realtà non possiamo farlo, non possiamo più farlo. Perché? Perché non possiamo uscire dal pensare! E questa è di nuovo la prova che ci siamo sempre dentro.
Intervento: Ecco perché i bambini si meravigliano di tutto!
Archiati: Si meravigliano di tutto, proprio questo! E i greci dicevano: la meraviglia è l’inizio del pensiero, della filosofia. Proprio per questo. Siccome il bambino ha sempre avuto la percezione che, anche se c’è una panca sopra, i giocatori continuano a giocare ecc…, si meraviglia che la palla esce fuori di qua, e comincia a chiedersi: ma da dove viene? Ho detto «comincia», eh?, comincia. Ma prima si meraviglia: ma come?, non c’era nessuna palla e adesso c’è la palla! Noi sappiamo che è la stessa, gli abbiamo dato una botta qua e adesso la palla è là, ma il bambino come fa a saperlo? Lui si meraviglia, poi guarda qui, guarda là e in mezzo non c’è nulla.
È meraviglioso questo elemento così portante del pensare, che è la nostra natura, la natura di ognuno di noi. È l’elemento più importante di tutti ed è quello che nella nostra cultura coltiviamo meno di tutti.
E l’altra riflessione è: se tu, essere umano, cominci a renderti conto non soltanto che pensi, ma cominci a pensare sul tuo pensare (questo è il senso del terzo capitolo: pensare sul pensare), allora cominci a scoprire che hai in mano tu, nel tuo essere, la leva del mondo, e che la cosa più bella della vita è diventare sempre più profondi, sempre più vasti nel pensare. Tutto il resto vale nulla, in confronto al pensare. È importante portarlo a coscienza.
Se chiediamo: perché tutta la cultura che abbiamo è fatta per distoglierci da questo elemento micidiale, invincibile del pensiero?, possiamo rispondere: è per lasciarlo all’individuo. Prendiamo la cosa in positivo!
Avendo una cultura che non ci aiuta più a cogliere il peso intellettivo e morale del pensare per l’evoluzione dell’individuo, l’individuo stesso può dirsi: ben venga questa cultura, perché lascia a me il compito di rendermi conto, individualmente, del peso del pensare. E allora va bene che la cultura non ci tratti più da bambini.
Ai tempi della scolastica, di Tommaso d’Aquino, produttori della cultura, i corifei, i fautori principali della cultura erano persone che ti dicevano già in partenza che il pensare era la cosa più importante. Ora, seicento, settecento anni dopo, abbiamo una cultura che non evidenzia la portata del pensare, e lascia l’impresa all’individuo.
E questo testo fondamentale sul pensare che è La filosofia della libertà si rivolge all’individuo, lo vediamo, ci tratta tutti in modo uguale, e un individuo l’afferra e si accende nella mente e nel cuore, e un altro dice no, non mi interessa, è noiosa.
Una volta in Germania una persona mi disse: ho provato a leggere ‘sta Filosofia della libertà di Steiner, e non ho mai trovato un libro così noioso! Trenta pagine, e mi ha ripetuto almeno trecento volte la parola «pensare». Questa persona non si era mica accorta che il contesto era sempre diverso. Aveva letto trenta pagine, e per lei Steiner continuava a ripetere sempre la stessa cosa.
Uno una volta disse: quando un libro e una testa cozzano fra di loro e il suono è di vuoto, la colpa non deve essere per forza del libro, può essere anche della testa.
(III, 3) Ben diverso è il caso se, prima che mi venisse coperto il campo, io mi ero già formato dei concetti corrispondenti alla concatenazione dei rapporti. In tal caso posso predire quel che avviene, anche se cessa la possibilità dell’osservazione.
In tal caso so che la palla, anche se cessa la possibilità di osservarla in movimento, continua a essere in movimento. Lo so, lo so con certezza! Se ci fosse sotto la panca una cosa che blocca il movimento della palla, mi aspetterei di sentire almeno un minimo rumore di collisione, altrimenti so che continua. I concetti mi rendono sempre più indipendente dalla percezione diretta, essi si formano in origine a partire dalla percezione, però possono diventare sempre più indipendenti dalla percezione diretta.
Il pensare si accende inizialmente sempre a contatto con la percezione, ma questa è l’accensione iniziale: poi il pensare può essere gestito sempre di più autonomamente e diventare sempre più indipendente dalla percezione. Tant’è vero che l’evoluzione del pensare è addirittura di rendersi indipendenti dal cervello, che è il sostrato di percezione dentro l’organismo umano – però questa è un’evoluzione del pensare che abbraccia secoli e millenni.
(III, 3) Un processo od oggetto semplicemente osservato non fornisce da sé alcun dato riguardo al suo nesso con altri processi ed oggetti: questo nesso appare soltanto quando l’osservazione si congiunge con il pensiero.
In altre parole, l’urto osservato, come pura osservazione, non è un urto. Rileggo questa frase: «Un processo od oggetto semplicemente osservato {per esempio l’urto è un processo} non fornisce da sé alcun dato riguardo al suo nesso con altri processi od oggetti». Rimanendo al concetto di urto, e non soltanto all’osservazione di ciò che noi chiamiamo urto, esso comprende in sé la presenza di almeno due cose che si urtano. Ma il fatto che ci debbono essere almeno due cose che si urtano per avere un urto, mi viene dall’osservazione dell’urto? No.
Molto concretamente: la palla 1 (Fig. 5) è stata spinta e la palla che viene urtata è qui sotto, coperta (Fig. 6). La palla 1 va veloce fino al punto A e poi sparisce. Avviene un urto? Se ho soltanto l’osservazione non lo so.
Intervento: L’urto in sé esiste o è solo concetto?
Archiati: Perché io ti capisca devi fare un minimo di esercizio per dirmi il concetto di urto che tu hai. Qual è il tuo concetto di urto? Cosa intendi tu per urto?Adesso diventa interessante!
Allora, l’urto avviene proprio sotto la tavola, in un punto invisibile, divisorio tra le due palle: anzi, non c’è più un punto in mezzo quando si urtano, perché quando si urtano si toccano. La palla va fino al punto A, l’altra è tutta coperta: se io ho soltanto la percezione, non posso parlare di urto.
Intervento: Sento il rumore, però.
Archiati: Tu hai il concetto di rumore. Sono esercizi da fare. Il bambino è qui e sta guardando. Noi adesso sappiamo che la palla ha urtato quella nascosta, e supponiamo che il bambino si gira perché pensa che il rumore venga dalla porta e che qualcuno stia entrando. Tu dici: ma io sento il rumore dell’urto! Sì, perché tu lo sai che quello è il rumore dell’urto, perché hai il concetto di urto, hai il concetto di velocità, ma se uno non ha il concetto di urto, se non ha il concetto del tipo di rumore che fanno due palle quando si incontrano, si gira per guardare la porta.
Intervento: Ma il bambino sente che il rumore è più vicino.
Archiati: Io sto supponendo, naturalmente, non dovete prendere le cose dal lato in cui non funzionano. Sto presupponendo che ci sia una certa somiglianza tra l’uno e l’altro rumore. Il bambino non conosce il rumore dell’urto di due palle da biliardo, ma spesso ha avuto la percezione del rumore della porta. Tu non puoi escludere che il bambino si giri. Perché? Perché quel rumore è abituato a percepirlo – e lui ha solo la percezione.
Per sapere che questo rumore viene dall’urto dovrebbe avere tutti i concetti di palla, di velocità, di urto ecc…, ma non li ha.
Ma come fa il bambino a non sapere che acusticamente quel rumore viene da là sotto e non viene da dietro? Perché non pensa. Tu lo sai il perché, perché pensi! Il pensare è così veloce che dice: no, quel tipo di rumore lì non può venire dalla porta. Stai pensando, e non ti accorgi di pensare, ma è il pensare che ti dice: no, quel rumore lì non può venire dalla porta. Ma come fa il bambino a sapere che quel tipo di rumore lì non può venire dalla porta? È un pensare talmente complesso! «Quel tipo di rumore lì non può venire dalla porta» è un pensiero complesso e il bambino che ne sa?, si gira.
A me preme soltanto che siate d’accordo con me a non escludere che il bambino si possa girare: questo non lo potete escludere, e questo basta.
Però nessuno di noi adulti sentendo il clak si gira a vedere se quel rumore viene dalla porta, perché è il pensiero che dice: questo tipo di rumore è quello che sto aspettando perché la palla l’ho messa in moto io, esso viene dall’urto di due palle, non può venire dalla porta. Questo processo di pensiero complesso per noi adulti è assolutamente spontaneo e certo, perché ci siamo dentro, al processo.
Perciò dico: ma è veramente una cosa strabiliante, straordinaria, una gran bella cosa questo esser dentro al pensare, all’essenza del mio essere.
E poi la constatazione, quasi allucinante, che la cosa più importante della vita è quella a cui dedichiamo meno attenzione, meno energie, meno soldi, meno, meno, meno… Perché? Perché è lasciata alla libertà di ognuno. Il tuo pensare è l’unica cosa lasciata unicamente a te, perché nel tuo pensare nessun altro ci può mettere né un dito, né il naso, né nulla.
Tu recepisci i pensieri di un altro? La decisione di poltrire nel tuo pensare è tua! E i pensieri di un altro non sono mai un’ingerenza nei tuoi pensieri: i pensieri di un altro possono entrare soltanto nei buchi dei tuoi pensieri.
Ripeto il concetto: i pensieri di un altro essere umano non possono mai ingerirsi nel mio pensiero, nella misura in cui c’è, perché nella misura in cui il mio pensiero c’è, è mio! Nessun altro lo può gestire dal di fuori. I pensieri di un altro io li posso recepire passivamente, nella misura in cui ometto di pensare io attivamente, e allora entrano nei buchi.
Intervento: Oppure i pensieri di un altro coincidono con i miei.
Archiati: No, non esiste che coincidono, semmai confermano i miei, e quindi restano fuori: l’altro me li conferma, io li esercito di nuovo e quindi mi rafforzo. Oppure, se trovo i suoi pensieri migliori di quelli che io ho avuto…
Replica: …li recepisco.
Archiati: Ma chi è che li trova migliori? Il mio pensare!! E se li trovo migliori, sono io a trovarli migliori, non li recepisco, li faccio miei.
Torniamo a un esempio concreto. Io leggo un articolo di giornale – un esercizio che abbiamo fatto diverse volte, e va sempre ripetuto – e ci sono due possibilità fondamentali, con tutte le sfumature in mezzo:
• leggendo i pensieri del giornalista, dell’articolista, che sono per me percezioni, in quanto li trovo già fatti, io posso tenere la mia presa di posizione pensante a fiammella piccola piccola piccola, posso tenerla subliminale, non accorgermene neanche, e allora vengono in primo piano i suoi pensieri. Nella misura in cui io sono passivo nel mio pensare ho la possibilità di recepire i suoi pensieri nei miei buchi di pensiero: questo è indottrinamento, e ognuno ha la possibilità di omettere l’attività che genera pensieri suoi. Questo è il caso più normale;
• l’altra possibilità fondamentale è dire: per ogni pensiero che leggo, che percepisco, mi chiedo cosa ne penso io. Allora sono dentro al mio pensare.
Adesso vi chiedo: il pensiero che il giornalista mi esprime nell’articolo è migliore del pensiero che io mi faccio sul suo pensiero?
Intervento: Non solo, ma posso anche timidamente cominciare a capire anche quello che il giornalista non ha voluto o potuto dire.
Archiati: Ma se tu ti presenti così deciso, lascia via la parola «timidamente», via, che non è pulita! Perché hai bisogno di dire «timidamente»? Hai bisogno di chiedere scusa? Hai i sensi di colpa? Non te la prendere personalmente, eh?!, ma vedete la mortificazione dell’umano? È una cosa incredibile! Mi ribello con mani e piedi di fronte a questa parola: timidamente.
Il pensare non fa mai le cose timidamente, mai! mai! Oppure non è pensare! È quello scemo lì che ha scritto l’articolo che «timidamente» si è messo a esprimere un bagliore di pensare: per fortuna che ci sono io a leggere l’articolo e a metterci un po’ di idee, se no non ce ne sarebbero proprio.
Gli articoli veramente con idee, con un pensare, non sono mai stati stampati, se no non avremmo i giornali che abbiamo e la cultura che abbiamo. Gli articoli dove c’è veramente la forza del pensiero sono troppo pericolosi.
III, 4. Osservare e pensare sono i due punti di partenza per ogni attività spirituale {per ogni dinamismo evolutivo} dell’uomo in quanto egli ne è cosciente.
Noi osserviamo col corpo, con i sensi, e pensiamo in quanto spiriti. Nell’osservare siamo passivi perché ciò che osserviamo c’è già; nel pensare siamo attivi perché è un’attività che svolgiamo noi – il pensare in quanto attività. Osservare e pensare riguardano il dinamismo evolutivo.
Tutto ciò con cui l’essere umano ha a che fare, o è un dato di percezione, di osservazione, oppure è qualcosa che crea lui, e questo qualcosa lo chiamiamo «il pensare». Una terza alternativa non c’è, non esiste.
(III,4) I giudizi del comune intelletto umano, e le più astruse {complesse} ricerche scientifiche riposano su queste due colonne portanti del nostro spirito. I filosofi sono partiti da varie polarità originarie: idea e realtà, soggetto e oggetto, fenomeno e cosa in sé, io e non-io, idea e volontà, concetto e materia, energia e materia, cosciente e incosciente; ma è facile mostrare che a tutte queste polarità si deve far precedere, come la più importante per l’uomo {la più originaria, come quella che sta più a monte di tutte}, quella di osservazione e pensiero.
Si potrebbe fare un tipo di traduzione de La filosofia della libertà dove il pensiero cesella il più possibile, però va accettato il limite del linguaggio. Se noi fossimo a livello puro di pensiero saremmo a un livello sovra linguistico: ma poi i concetti, i pensieri, si esprimono. E allora in lingua tedesca si esprimono in un certo modo, lo stesso concetto si esprime in lingua italiana in un altro modo, in lingua francese in un altro modo ancora, e quindi una traduzione perfetta non esiste.
Per dire le cose de La filosofia della libertà con la precisione con cui sono state scritte bisogna leggerle in tedesco. Quando lo facciamo in italiano dobbiamo avere il coraggio (ieri mi sono sforzato di non fare troppi riferimenti al tedesco perché alla fine è soltanto una mortificazione, noi qui abbiamo l’elemento dell’italiano) di riassurgere al livello del pensiero, del concetto, e poi dire in italiano quello che si può dire in italiano, e lasciar perdere quello che in italiano non si può dire.
Quindi va bene che la traduzione dica «osservare e pensare» oppure «osservazione e pensiero», ma se voi volete andare più vicini al tedesco, allora sarebbe meglio (stiamo parlando solo di precisazione di concetti) usare la parola «osservazione» (Beobachtung) perché è passiva, e per il pensare, che per natura è attivo, usare appunto il verbo «pensare» (Denken) e non «il pensiero», perché il pensiero è il prodotto di osservazione del pensare.
Il pensiero è ciò che osservo, ciò che percepisco come risultato dell’attività del pensare.
Abbiamo in mano traduzioni diverse, ma è proprio questo che vi stavo dicendo. La stessa partitura originale, che è in tedesco, concede in italiano naturalmente delle variazioni. Ma per la traduzione di un testo del genere mi concederete che un minimo, almeno, di preparazione, di formazione filosofica per chi traduce è assolutamente indispensabile, altrimenti non capisce più di tanto, non sa mettere a fuoco più di tanto i concetti di cui si tratta.
Un’altra riflessione da fare (sono riflessioni di metodo, eh?, le facciamo una volta, non vanno ripetute) è che ogni lettore italiano, nella misura in cui lui stesso cammina e si evolve nel suo pensiero, è in grado poi di dire: no, questa traduzione, insomma, è stata fatta un po’ all’acqua di rose perché il traduttore non ha messo a fuoco questo concetto e quest’altro concetto. Se lo avesse fatto avrebbe tradotto così, e in tedesco deve essere così, se è stato pensato bene da Steiner, perché è nella natura del concetto.
È nella natura del concetto di «osservazione» il non essere un’attività: nel fenomeno «osservazione» non è in primo piano l’osservare (come verbo, come attività), perché difatti l’osservare non c’è. Non esiste l’osservare, esiste l’osservato, il percepito, e l’osservare è difatti il pensare. Allora uno ci arriva per forza di pensiero a capire che una traduzione migliore preferirebbe, perlomeno nella maggior parte dei casi, per il lato di osservazione il sostantivo – «osservazione», appunto – e non il verbo; invece per il pensare, un paio di volte in italiano possiamo usare anche la parola «pensiero», però almeno alcune volte, anche se in italiano è un pochino di eccezione, è meglio «il pensare» come attività, come verbo.
Ora una domanda italiana, per gli italiani, che non ha nulla a che fare con il tedesco: che differenza c’è tra «il pensare» e «pensare»?
Adesso vi meraviglierete un po’, però questi esercizi vanno fatti, scrivo alla lavagna:
il pensare
e ognuno di noi si fa un concetto, ognuno di noi capisce, ognuno a modo suo sa cos’è «il pensare». Poi scrivo un’altra cosa, e voi osservate introspettivamente cosa vi avviene:
pensare
Una cosa è «il pensare», tutt’altra cosa è «pensare». Che differenza c’è?
Intervento: «Il pensare» è quello di una persona, «pensare» invece è generale.
Archiati: Sei andata troppo veloce.
Intervento: «Pensare» è un’attività che io sto facendo, mentre la esercito, «il pensare» è il concetto che mi faccio su di esso.
Archiati: No, quando io parlo dico «il pensare» quando l’attività del pensare la faccio oggetto di osservazione.
Intervento: Infatti, è il pensare sul pensare.
Archiati: Il pensare sul pensare lo chiamo «il pensare». Invece quando dico «pensare», non sto pensando di pensare, ma penso, sono nel pensare.
Quindi la sostantivizzazione fa dell’attività un’osservazione, e la rende un sostantivo (infinito sostantivato). «Pensare» è un infinito: cosa vuol dire infinito? Che non è definito. Invece «il pensare» è un concetto, e ogni concetto deve essere definito.
La grammatica parla di infinito – pensare –, di non definito: «pensare» è in movimento. Invece «il pensare» è un concetto, e quindi è un’osservazione determinata, e diventa un sostantivo. Perciò, per la polarità, è meglio dire «percezione», «osservazione», e «pensare», ancora meglio senza «il». Percezione (osservazione) e pensare.
Qui, naturalmente, dopo aver fatto questi esercizi, siamo d’accordo perché ci capiamo: però, per la cultura ufficiale generale, non si può tradurre in italiano lasciando fuori «il». L’osservazione e il pensare: non è direttamente comunicabile lasciar via l’articolo, e quindi bisogna tener conto anche del livello comune del linguaggio. Un libro si scrive perché sia accessibile a tutti. Per lo meno diciamo in linea di principio.
Riassumo: III, 4 «ma è facile mostrare che a tutte queste polarità si deve far precedere come la più importante per l’uomo, quella di osservazione e pensiero {pensare}».
III, 5. Qualsiasi principio noi vogliamo stabilire, dobbiamo o indicarlo come da noi osservato in qualche luogo, o esprimerlo in forma di un pensiero chiaro che possa essere da ognuno egualmente pensato. Ogni filosofo che cominci a parlare attorno ai suoi principi fondamentali, deve servirsi della forma concettuale, e quindi del pensare: ammette con ciò indirettamente che per la sua attività egli presuppone, già pronto, il pensare {meglio: egli già presuppone il pensare}. Non è qui ancora il caso di decidere se l’elemento principale dell’evoluzione del mondo è il pensiero oppure qualche altra cosa: ma che il filosofo non possa arrivare ad alcuna conoscenza senza il pensare, questo è senz’altro chiaro fin d’ora. Nel concretarsi {nel sorgere} dei fenomeni del mondo, il pensare può forse rappresentare una parte secondaria, ma nel concretarsi di una conoscenza dei fenomeni stessi, dove si tratta di conoscere il mondo da parte dell’uomo, allora il pensare ha certamente la parte principale.
Facciamo una pausa.
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Intervento: Quando qualcuno perde la memoria per un qualsiasi caso, perde anche la percezione? O quello che ha percepito rimane dentro?
Archiati: Il fenomeno è complesso. Già il fenomeno di uno che perde la memoria è molto complesso, e lei chiede se uno che perde la memoria ha ancora la percezione o perde anche la percezione.
Prendiamo l’esempio classico che Steiner ha citato tante volte perché l’ha vissuto un suo amico, che tra l’altro era professore: ad un certo punto questo suo amico si dimentica chi è, si dimentica che cosa fa, che è professore, ecc. Perde la memoria, fenomeno complesso.
Non sapendo più chi è, dove sta di casa ecc., va alla stazione, compra un biglietto, si mette sul treno, va fino a destinazione, poi compra un altro biglietto, e continua così. Va in giro per tutta la Germania finendo poi in un ospizio per barboni. Poi, all’improvviso si ricorda chi è: ma, un momento, quando ho fatto l’ultima mia lezione?, devo andare a casa, mia moglie mi aspetta, ma come… All’improvviso sa di nuovo chi è!
Tu chiedi: cosa è successo nel frattempo? Questo fenomeno molto composito, e adesso soltanto accennato, non è il tema che ci occupa: sarebbe uno dei grossi contenuti di scienza dello spirito, ma noi adesso ci stiamo occupando dell’elemento fondamentale per tutti i tipi di conoscenza che si possono conquistare: il pensare.
Quindi prendiamo questo esercizio, che tu ci proponi, come un esercizio del pensare sul fenomeno di perdere la memoria. Quel tizio non sa più neanche chi è, però è presente in lui il pensare che connette i concetti: se vuol prendere un treno deve comprare il biglietto (e lui il biglietto lo compra), mentre compra il biglietto gli si chiede dove vuole andare (e lui lo dice), ecc, quindi un certo esercizio di pensiero ce l’ha ancora, non possiamo dire che ha soltanto la percezione. Se avesse soltanto la percezione sarebbe come un bambino di un anno e mezzo, che non può fare un viaggio, non può andare a comprare un biglietto ecc.
Quel professore il concetto del treno ce l’ha, il concetto di viaggio ce l’ha, il concetto di biglietto ce l’ha, il concetto di stazione ferroviaria ce l’ha. Allora la scienza dello spirito ti dice – però te lo butta lì, tu devi prendere posizione col tuo pensiero –: devi distinguere tra l’io, il corpo astrale (l’anima), il corpo eterico e il corpo fisico. Il fenomeno semplificato è che l’io ha smesso di interagire col cervello fisico, quindi non ha perso la memoria in tutto e per tutto, ha perso la memoria dell’io, non sa più chi è, e tutto ciò che riguarda l’io (i suoi parenti, quello che ha fatto, le persone che lo aspettano ecc…) è sparito, ma tutto il resto è rimasto. Tutto quel che c’è nel corpo eterico è rimasto, e i concetti sono nel corpo eterico non sono nell’io: l’io ne è l’origine, ma quando poi i concetti, i pensieri, vengono pensati, il magazzino in cui si depositano è il corpo eterico.
E lui c’è l’ha il magazzino dei suoi concetti, quindi è in grado di fare tante cose. Va in due città in un giorno, poi il giorno dopo in una terza città: tu pensi che lui si ricordi di dove è stato il giorno prima? No, perché quello ha a che fare con l’io. Non sa dove è stato ieri, è sempre nel presente, perché l’io, la coscienza dell’io, è anche la coscienza di tutto ciò che l’io ha fatto. Sparito, tutto sparito. Poi, all’improvviso, ritorna. Come mai? Tu chiedi: come succede?
In tedesco sono appena usciti, li abbiamo stampati in questi giorni, quattro tascabili di conferenze agli operai del Goetheanum (falegnami ecc…), che avevano un’ora al giorno col dottor Steiner (che faceva parte del lavoro, ve l’ho già raccontato). Steiner non si preparava mai, rispondeva solo alle domande, entrava e diceva: beh, signori (signore, non ce n’erano), vi è venuto in mente qualcosa?
Quelli allora gli chiedono: ma cos’è il cristianesimo? Was ist Christentum?
Tre conferenze in risposta alla domanda degli operai sul cristianesimo. È una cosa simpaticissima, proprio meravigliosa, e vale la pena tradurle in italiano e portarle in giro dappertutto dove è arrivata la chiesa cattolica, per fare un po’ di pulizia.
Dice: c’era questo Gesù di Nazareth e poi, come dicono i Vangeli, a trent’anni gli è successo un mezzo putiferio. A trent’anni va da Giovani il Battista, quello lo immerge nell’acqua del Giordano e il Cristo entra in lui!
E gli operai dicono: ma di cosa stai parlando?
E Steiner: è una cosa molto semplice. C’è un chimico famoso che si chiama Kékulé, forse l’avrete sentito nominare, ed era a Londra per un certo periodo di tempo: ogni sera doveva attraversare tutta la città per andare da un suo amico a dormire. Arrivava stanco morto e, insomma, si addormentava in una specie di semiveglia. Kékulé racconta che, mentre era mezzo addormentato, nel dormiveglia, gli sono venute le intuizioni più importanti: tutta la teoria del benzolo l’ha scoperta mentre era mezzo addormentato.
La teoria del benzolo cos’è? È un complesso di pensieri, è come il benzolo è composto. Questo frammento di Logos, che sono pensieri all’opera nel mondo, Kékulé non lo conosceva fino ad allora. Mentre è mezzo addormentato – quindi lui stesso dice: non è stata una creazione del mio pensiero – ecco l’ispirazione. Steiner dice: qui abbiamo il tizio Kékulé e qua i pensieri, e questi pensieri, questa teoria, sono entrati dentro di lui, e adesso ce li ha. Prima erano fuori, adesso sono dentro.
Tu chiedi: come sono entrati? Eh, entrano! Che vuol dire capire qualcosa? Che prima quella cosa era fuori e adesso è dentro! Esiste, c’è.
E così è successo al Gesù di Nazareth: fino a che dormiva un pochino era Gesù di Nazareth, poi, a trent’anni, gli è venuto dentro tutto l’Essere del Sole!! Prima era fuori, adesso è dentro. Semplice, no?, dice Steiner. La cosa esiste! Il Cristo è certo una cosa un po’ più complessa che non la teoria del benzolo, però è sempre una realtà, una complessità spirituale che prima era fuori dal suo pensare adesso è dentro. Prima c’era Gesù, e adesso abbiamo Gesù Cristo.
E Steiner chiede agli operai: si capisce, no? E loro rispondo: sì, adesso lo capisco!
Intervento: Lo stesso vale per la memoria che rientra.
Archiati: Che rientra, sì. Proprio questo volevo dire. Sono contenuti, perché sapere chi io sono, cosa ho fatto, chi sono i miei parenti, dove abito ecc…, è tutto un complesso di pensieri.
Replica: Stavano al di fuori?
Archiati: No, ora sono fuori dalla sua coscienza, prima erano dentro alla sua coscienza.
Replica: O, nonostante tutto, ne restavano al di fuori, in un certo senso?
Archiati: No, il nostro problema è sempre il materialismo. Noi pensiamo che questo pezzo di materia sia una realtà. È difficile per noi pensare che attorno a questa materia ci sia il cosiddetto corpo astrale, che è un mondo infinito, tutto l’ambito della coscienza.
Cos’è la coscienza? È un mondo infinito di contenuti: è una realtà, ma non è fisica. Dentro la coscienza di questo individuo c’era, fino a quel giorno, anche il sapere chi lui è, dove abita, cosa fa, chi sono i suoi parenti ecc. A partire da un certo giorno questi contenuti di coscienza, che riguardano l’io, sono usciti fuori, e lui non sa più chi è, dove abita e cosa fa.
Noi diciamo: ha perso la memoria, ma dobbiamo essere concreti, nelle cose. Ha perso qualcosa. Ha perso la memoria significa che dalla sua memoria, dalla sua coscienza, qualcosa è uscito fuori, non c’è più dentro. Se tu gli chiedi, mentre sta viaggiando, chi sei tu?, lui ti guarda con occhi smarriti, non capisce la domanda, perché non sa neanche di essere un io. Questi fenomeni ci sono anche oggi.
Intervento: L’Alzheimer è simile.
Archiati: A livelli diversi. Perciò ho detto all’inizio che sono fenomeni complessi.
Intervento: Ma la memoria è un magazzino? Siccome siamo abituati a pensare che c’è un posto preciso in cui ci sono le cose, gli oggetti…. Ma per i pensieri non è un posto fisico, no?
Archiati: Come possono i pensieri essere in un posto fisico? Perciò ti ho detto che la coscienza è un mondo!
Replica: Però così spostiamo su un altro piano, al di sopra di questa fisicità, il discorso della possibilità di connettersi. Cioè, la divisione c’è sempre. E allora come si giustifica? Ritorniamo sempre alla problematica: perché prima c’era e adesso non c’è?
Archiati: Perché prima era dentro la coscienza e adesso è fuori.
Replica: E lo so, ma non è una spiegazione, perché se noi avessimo una spiegazione esatta riusciremmo a ricollegare questo fatto, no? Riusciremmo a trovare un modo per poter ricollegare la coscienza. Noi rispostiamo il problema.
Archiati: No, no, no, andiamoci piano. Le cose o vanno gestite col filo di pensiero pulito, oppure il contributo non aiuta.
Se un io è passibile di farsi scappar via i contenuti essenziali che lo riguardano, vuol dire che è più labile di un altro io. Se questo tipo è passibile di farsi scappare i contenuti essenziali del suo io, significa che in qualche modo (questa è la complessità) nella sua evoluzione non c’è stato un rafforzamento sufficiente dell’io. Un io più forte non si lascia scappare i contenuti che lo riguardano. Ecco che hai un inizio di spiegazione che risulta ovvia, scusa! Perché un io che si lascia scappare contenuti essenziali che lo riguardano, deve essere più debole che non un io che se li tiene insieme.
Intervento: Volevo dire una piccola cosa, perché ho mio padre che ha l’Alzheimer. La cosa che io ho notato subito all’inizio è che parlava per luoghi comuni. Cioè la sua capacità dell’io, proprio come dici tu, era come nel parlare comune: per un bel pezzo nessuno si è reso conto che lui non era più lui. C’è proprio questo scollamento, e tu senti una persona che prima ha un io che si impone, con i suoi pensieri, con le sue elaborazioni, e poi invece parla per un pour parler, per luoghi comuni…
Archiati: Ciò che tu chiami i luoghi comuni, sono elementi di magazzino nell’eterico: è il pensato, il precipitato del pensato. Sono lì, i luoghi comuni sono lì. Di fronte ai luoghi comuni ci sono due possibilità fondamentali: un massimo di attività o un minimo di attività.
Uno che ha un minimo di attività dell’io, del pensare, come tu dicevi, passa dall’uno all’altro e ci mette un minimo di propria attività, passa soltanto da un luogo comune a un altro luogo comune.
Il pensare normale, o addirittura quello più evoluto, si distingue per il fatto che io non ti tiro fuori una scatola dopo l’altra, un cassetto dopo l’altro, ma tu noti che c’è un’attività mia che li congiunge uno con l’altro, che decide: adesso questo, poi quest’altro. I nessi sono ancora più importanti che non le scatole, capito?, il commento che uno ci fa. Quando questa parte attiva, questa attività creativa dell’io recede, restano le scatole, restano i cassetti e questi sono i luoghi comuni che evidenziano un pensare che è diventato di gran lunga più passivo, più automatico. I cassetti sono automatici, sono quelli che ci sono.
E qual è il repertorio più grande che ci sia, dove sono tutti i cassetti possibili?
È il linguaggio, la lingua.
Replica: Succede esattamente come nell’esercizio che facevamo prima del bambino: con l’avanzare della malattia, a un certo punto, mio padre vede solo quello che ha davanti, per cui se vede i piccioni sul tetto li riconosce, vede che vanno all’ombra del comignolo, fa dei piccoli collegamenti, ma come si gira non ci sono più. Spariti!
Intervento: Pietro, io volevo condividere la mia esperienza: io sono stata in coma e ho avuto una emorragia cerebrale. Quello che ricordo di percezioni, immediatamente prima della perdita di coscienza, è stata l’incapacità di realizzare. Ero alla cassa di un negozio e dovevo pagare, vedevo le monete, sapevo che dovevo pagare ma non riuscivo a farlo.
Archiati: Le mani non si muovevano.
Replica: No, non riuscivo proprio a compiere l’operazione, la connessione tra quello che stavo facendo dentro e quello che dovevo fare fuori, ed è stata l’ultima cosa che ho visto. Dopodiché non ricordo più niente. Ricordo il momento in cui ho riaperto gli occhi e lì ho avuto un’esperienza spirituale, il tunnel e tutte quelle cose che si sentono anche dire. E non volevo ritornare, ero veramente lontana, avevo una grande distanza tra me che pensavo, che c’ero, e il mondo fuori di me, che era lontano. Vedevo ma non sentivo, il mondo era lontanissimo da me, io stavo molto bene e non volevo ritornare.
A un certo punto ho avuto davanti ciò che era la vita lì lontano – io avevo un bambino di due anni e mezzo, all’epoca – e una spinta ad andare verso mio figlio mi ha detto che dovevo riconnettermi. Questa spinta di riconnessione l’ho attuata. Io ho avuto un’emorragia cerebrale nella zona del linguaggio, quindi in teoria non avrei probabilmente neanche dovuto più parlare, ma per fortuna i danni sono stati limitati. Dopo l’intervento chirurgico, la placca, tutto è stato un’avventura: per diversi mesi non riuscivo a compiere delle azioni, per esempio andavo davanti alla lavatrice, sapevo quello che dovevo fare, ma assolutamente non ricordavo come si faceva. Alcuni gesti comuni li avevo dimenticati. Quella spinta che avevo percepito nel volere rientrare nel mio corpo, è poi stata quella che ho rimesso in atto ogni volta che non riuscivo a fare qualcosa: mi fermavo, ripartivo da quella spinta e mi veniva spontaneo trovare la soluzione – ricordarmi come accendere il cellulare, gesti stupidi, eh?, gesti quotidiani.
Archiati: Bene, è molto importante quello che dici perché è pura fenomenologia. Ieri, dopo il pranzo, si discuteva con una persona che ha un figlio che fa l’anestesista a Berlino, e quindi ha avuto tantissime esperienze di ciò che avviene prima della narcosi e dopo la narcosi. Per esempio, prima di anestetizzare, lui chiede: dove vorresti andare quando sarai fuori dal corpo? e quello risponde, per esempio: vorrei andare dai miei nonni ecc. Poi, quando ritorna, al risveglio, gli chiede: beh, sei stato dai tuoi nonni? e l’altro risponde: sì, sì, sì, è stato molto bello ecc…
Il discorso che faccio ora è un po’ più generale e poi tu lo devi applicare al caso tuo: non mi riferisco direttamente a questo caso, che sarebbe ancora un pochino più complesso. Do le due possibilità fondamentali che ci sono.
Il corpo fisico lo mettiamo sul lettino della sala operatoria (Fig. 9): anestesia significa che quasi tutto il corpo eterico è fuori (quasi, perché se uscisse tutto il paziente morirebbe): qui i colori sono importanti, e perciò il corpo eterico lo facciamo verde, sono forze vitali, il mondo eterico delle piante. Il corpo eterico è una realtà dove ci sono tutti i concetti, dove c’è il concetto del cellulare, di come si accende la lavatrice ecc… tutto qui nel corpo eterico. Naturalmente qui sulla lavagna è un modo di spazializzare qualcosa che non è spaziale, che va già al di là dello spazio, anche se il corpo eterico ha ancora un elemento di connessione con lo spazio.
Poi c’è, importantissimo, il corpo astrale, che è l’anima, la cosiddetta aura. Se il corpo eterico è fatto di pensieri, il corpo astrale è fatto di sentimenti – tutte semplificazioni eh!, i fenomeni sono molto complessi.
Poi c’è l’io – immaginatelo ancora più vasto, qui lo accenno – che ha la capacità di sapere: questa è la mia anima, questi sono i miei sentimenti, questi sono i miei pensieri, questo è il mio corpo fisico ecc. L’io ha una dimensione ancora più alta, quella dell’essere.
Fig. 9
Quando invece ci addormentiamo normalmente, il corpo eterico resta dentro il corpo fisico e fuoriescono solo il corpo astrale e l’io. (Fig. 10)
Allora, tornando all’anestesia, ci sono due tipi fondamentali di esseri umani: c’è il tipo che è maggiormente connesso col corpo eterico e il tipo che è maggiormente connesso col corpo astrale.
Se volete, la maggioranza dei maschi è maggiormente connessa col corpo eterico, la maggioranza delle femmine è connessa maggiormente col corpo astrale (e tutta la fenomenologia che tu hai descritto è una fenomenologia di connessione col corpo astrale, per niente col corpo eterico).
Qual è la differenza fondamentale tra corpo eterico e corpo astrale?
Il corpo eterico è una specie di ricalco del corpo fisico, quindi il corpo eterico è fatto di organi:– ha un cuore eterico, un polmone eterico, una milza eterica…
Fig. 10
Quindi nell’eterico c’è il corpo fisico a livello di concetti, a livello di pensieri, di forze formanti. Il corpo fisico è il formato, sono i pensieri pensati, cristallizzati; il corpo eterico sono i pensieri in quanto formanti, viventi, in movimento, pensieri che sono alla base degli organi del corpo fisico.
Una persona che è un pochino più materialista – non in senso negativo, ma oggettivo –, quando esce fuori in narcosi tende a restare dentro il corpo eterico, vede la sala operatoria come il limite esterno, si vede sul soffitto della sala operatoria e guarda quello che avviene nel corpo fisico, e quando finisce la narcosi descrive addirittura quello che i medici si dicevano mentre facevano l’operazione. Ha sentito tutto e dice: ma come mai io vedo tutto quello che fanno? Vorrei dirgli state attenti al mio cuore, ma non riesco a dirgli nulla.
In base al parallelo assoluto che c’è tra corpo fisico e corpo eterico, il paziente nell’eterico segue tutto quello che avviene nel corpo fisico.
Se invece chi è sul lettino operatorio è una persona meno inserita nel corpo fisico e più inserita nell’animico, nel mondo dei sentimenti (come è maggiormente la donna), esce fuori dalla sala operatoria, esce fuori dal corpo eterico e vive nel corpo astrale, vive nell’anima. E nell’anima va a trovare i nonni, va a trovare gli amici ecc. Quelle sono tutte faccende dell’anima, sono tutti rapporti fatti di amore, di conoscenza, di amicizia, di rabbia, però tutti fenomeni dell’anima. E quando ritorna racconta cose che non hanno nulla a che fare con quello che è successo in sala operatoria, non hanno nulla a che fare col corpo fisico, nulla a che fare col corpo eterico.
Sono due tipi fondamentali di esseri umani.
E questo, tra l’altro, se noi fossimo intelligenti e onesti, potrebbe essere per la scienza sperimentale – che è sorta ed è una bella cosa – un punto di aggancio con la scienza dello spirito. Basterebbe un minimo di linearità nel pensiero e, in base ai fenomeni che rileviamo da quello che ci raccontano le persone che fanno queste esperienze, si coglierebbe alla svelta che ci sono due tipi fondamentali, e questo potrebbe aiutare lo scienziato ad aprirsi ad una scienza dello spirito che questi due mondi li conosce, li distingue in modo assoluto, e descrive la fenomenologia dell’uno e dell’altro in modo assolutamente diverso.
La scienza che noi conosciamo, la scienza naturale, potrebbe essere proprio il gradino, il trampolino migliore per approdare alla scienza dello spirito, perché Steiner dice sempre di nuovo: la scienza naturale è fatta apposta per darci tutte le domande, e si potrebbe scoprire che la risposta a queste domande può venire soltanto da una scienza che aggiunge una conoscenza scientifica dello spirituale, del sovrasensibile. Però il sovrasensibile eterico è tutto diverso dal sovrasensibile animico, tutto diverso ancora dal sovrasensibile spirituale, col carattere dell’io.
Ripeto, questo come orientamento generale, poi l’applicazione va fatta caso per caso: per me il tuo caso era chiarissimo, ma bisogna avere questo tipo di orientamento, però.
Replica: Sì, per correttezza voglio solo aggiungere una cosa, perché oggi è San Michele Arcangelo e quindi mi sembra importante aggiungerla, proprio per quello che stiamo dicendo: quella spinta è stata sostenuta da un Angelo. Dietro di me io ho percepito fisicamente, per quello che è possibile percepire di fisico in quello stato, la presenza di qualcuno, di un giovane, che mi ha detto: Daniela non ti preoccupare, non c’è niente contro di te, vai.
Archiati: Quindi il sentimento che mi dice: questo è un Angelo, questo è un Arcangelo, è nel corpo eterico o nel corpo astrale? È un fenomeno del corpo astrale. Il corpo eterico non mi può mai parlare di Angelo, il corpo eterico mi parla di milza, di fegato, di cervello, di cuore, di sangue, di polmone ecc., ma mai di Angelo.
L’angelo è un fenomeno dell’anima, è un rapporto di preghiera, un rapporto di conduzione, di guida, di consiglio, di conforto, tutto quello che volete, tutti fenomeni dell’anima. Ecco quindi una conferma assoluta di quello che stavo dicendo, e non dimenticare che tu sei una donna non sei un uomo.
Intervento: Io, durante un’operazione, avrei voluto fare un viaggio, conoscendo un po’ queste cose, e ho detto: benissimo, io nel periodo dell’anestesia vorrei fare un viaggio, e avevo anche indicato dove. Assolutamente non ricordo niente! Cosa è successo?
Archiati: È molto semplice la cosa: sei andata in orbita, oltre l’eterico e oltre l’astrale e quindi non ti puoi ricordare nulla né di ciò che è avvenuto nell’eterico e né di ciò che è avvenuto nell’astrale. Niente di male, è un fenomeno diverso.
In altre parole, per riportare i ricordi di ciò che è avvenuto nell’astrale devi esserci stato dentro, per riportare i ricordi di ciò che è avvenuto nell’eterico devi esserci stato dentro. C’è il tipo che dice: io ero lì, ero sul soffitto, guardavo! Allora dov’era? Nell’eterico. Invece c’è il tipo che parte in quarta, va in orbita, e quindi vive puramente nell’io.
Replica: Anche dopo aver dormito, la mattina io ho la sensazione netta di aver vissuto in mezzo a molte persone, però non ricordo niente.
Archiati: No, no, il fenomeno sogno è tutta un’altra cosa, il fenomeno sogno non ha bisogno dell’anestesia, è tutta un’altra cosa. Ne faccio di nuovo un accenno, ma minimo, eh?! (Fig. 11)
Questo è il corpo fisico nel letto: il corpo eterico, anche quando dormiamo, resta dentro al corpo fisico. Esso, però, non è limitato dalla pelle, sporge un po’ dappertutto dal corpo fisico, le nostre forze vitali fuoriescono un pochino, e proprio per questo ogni volta che, svegliandoci, il corpo astrale e l’io ritornano dentro, prima di entrare nel corpo fisico passano per questa sfera intermedia dell’eterico (il tratteggiato nella figura) e sorgono le immagini di sogno.
Fig. 11
In altre parole, quando l’astrale e l’io entrano nel corpo fisico c’è la percezione, perché entrano nei sensi, nelle orecchie, negli occhi ecc., c’è subito la percezione: però prima, quando sono in via di entrare, c’è questa sfera – spazialmente è piccola, ma come esperienza è molto importante –, questa sfera intermedia, dicevo, dove l’astrale per un attimo tocca solo l’eterico e qui sorgono le immagini di sogno. Questo incontro, questa interazione tra astrale e eterico fa sorgere le immagini di sogno.
Allora, a seconda della velocità, della brutalità del risvegliarsi, a seconda anche dell’abitudine – uno che si sveglia più velocemente, più brutalmente, arriva subito al corpo fisico –, i sensi si aprono e si è dimenticato, non recepisce nulla; se invece uno si esercita, se non comincia mai la giornata senza meditazione, se è la prima cosa che fa al risveglio, questo è proprio un esercizio di attenzione a questo attimo.
Perché il sogno avviene in un attimo, in quanto tempo reale, però in quell’attimo tu puoi vedere una cosa che, svolta nel mondo fisico, dura degli anni. Il sogno è sempre di un secondo, un paio di secondi, non di più.
Replica: Ma io ho l’immagine di aver vissuto con un sacco di gente, ma poi non ricordo niente.
Archiati: Sì, però quelle sono immagini di sogno. Il sogno lo conosciamo tutti cos’è. Però ci si può esercitare a portare dentro la coscienza il massimo di queste immagini di sogno oppure, se uno è stacanovista e gli interessa soltanto di far soldi ecc., e vuol tornare al più presto nel mondo fisico, non gli interessa nulla di queste immagini.
A seconda dell’esercizio, ci sono persone che possono portar dentro alla coscienza sempre più immagini. L’incontro tra l’astrale e l’eterico crea immagini e se uno impara a leggerle c’è tutto, c’è addirittura già una premonizione di quello che avverrà.
Intervento: Come si può fare l’esercizio?
Archiati: Con un pochino di olio di gomito. La prima cosa è di non cominciare mai il destarsi senza quella che chiamiamo la meditazione. Meditare quando ci si sveglia significa: aspetta a fissarti sulle percezioni esterne, non farlo subito perché altrimenti ti tuffi subito nel mondo fisico e tutto il resto sparisce.
L’essenza della meditazione è di meditare su qualcosa che non sia fisico, e allora resti in questo mondo spirituale. Le immagini della meditazione, essendo affini a ciò che c’è nel mondo spirituale, ti aiutano a tirar dentro nella coscienza sempre di più le immagini del sogno e poi quello che è avvenuto realmente all’anima durante la notte, l’incontro con l’Angelo ecc..
Però tutti gli elementi di evoluzione, a partire da ora, sono in mano alla libertà dell’individuo, altrimenti a che serve l’evoluzione se la nostra libertà non acquisisce sempre più importanza? La scienza dello spirito ti dà soltanto delle indicazioni di quello che tu puoi fare, se vuoi. In fondo, dobbiamo essere sinceri: questo tipo di conoscenze non le troviamo fuori dalla scienza dello spirito, non ci sono, e non ci sono i presupposti perché ci siano.
Anche la sapienza orientale, lo yoga ecc…, tutto bellissimo, se volete, ma tutto passato, tutta roba del passato. L’io moderno vuole una conoscenza scientifica dei fenomeni spirituali, e i fondamenti per una conoscenza scientifica sono stati posti attraverso la scienza naturale in occidente, per tutta l’umanità, e ognuno ne ha l’accesso. Un orientale che disdegna o disprezza la scienza sorta in occidente, non va avanti nell’evoluzione, va indietro. L’inizio non può mai essere andando indietro, l’inizio è il primo passo in avanti.
Intervento: Ma tornando al sogno, di solito uno, quando sogna, non è consapevole di essere se stesso che sogna, ha delle esperienze, il sogno lo trasporta. Ma capita, a volte, che l’individuo dentro al sogno sappia di essere lui e allora si può comandare il sogno?
Archiati: È una cosa complessa. Adesso ingrandisco un po’ questo particolare del corpo eterico della figura di prima. Il corpo astrale e l’io ritornano: però l’io è al centro del corpo astrale, e il corpo astrale entra prima nel corpo eterico. Le immagini di sogno sorgono nell’incontro tra corpo astrale e corpo eterico (zona grigia della figura), perciò ci manca l’io. (Fig. 12)
Replica: Ma se nel sogno io dico: non ti svegliare perché ti interessa questa cosa, non svegliarti? Cioè, mi è successo di chiamarmi per nome e dicevo: non ti svegliare che è importante! E invece sono uscita, non ho avuto la forza di rimanere dentro il sogno, che era importante.
Archiati: Sì, ma è un sentimento quello che tu descrivi. Tu non hai espresso il pensiero che dice: io sono un io. Quando compare l’io nel sogno è lui, non è un altro.
Replica: Infatti io dicevo a lei: Maria Pia non svegliarti che è importante! Io chiamavo me stessa come fossi un’altra persona.
Archiati: Eh, te l’ho detto, proprio quello che ti ho appena detto. «Io» parla a «lei» perché è fuori!
Replica: Quindi non è una cosa particolare, capita a tutti?
Fig. 12
Archiati: È assolutamente normale. I fenomeni, se vengono conosciuti oggettivamente, diventano complessi. La scienza dello spirito deve essere molto più complessa di tutte le scienze che abbiamo, perché queste si limitano a un campo solo dei quattro che ci sono, al solo campo fisico, che è quello più facile perché abbiamo la falsariga della percezione sensibile.
La scienza dello spirito aggiunge tre campi: l’eterico, l’astrale e lo spirituale, dove i fenomeni sono ancora più complessi che non nel fisico, e dove non abbiamo l’aiuto, la falsariga delle percezioni sensibili.
Ed è questo che deve capire la gente, che il passo successivo nell’evoluzione è cimentarsi, rimboccarsi le maniche e cominciare (perché per ora si tratta soltanto di iniziare) a porre i fondamenti di una conoscenza scientifica di ciò che è spirituale. Però deve essere chiaro già in partenza che lo spirituale, se viene conosciuto scientificamente, è molto più complesso che non il fisico. Uno si mette per strada, però ce n’è da fare!
Intervento: Riguardo all’anestesia hai detto che, anche se la persona è anestetizzata, rimane un qualcosa di eterico nel corpo, altrimenti muore. Questo succede anche quando espiantano organi, difatti il loro danno è l’anestesia, perché la persona è viva, anche se cerebralmente magari è morta – ma cosa vuol dire questo?, non lo sappiamo, no? Espiantano organi e la persona, se è vero quello che hai detto, sente e vede tutto quanto, e non può dire ai medici: fermatevi sono vivo!
Per questo l’espianto degli organi dovrebbe essere abolito, dovrebbe essere fatta conoscere questa realtà per potersi difendere da vivi da quello che può succedere da morti apparenti, perché non ti facciano certe cose che non devono esser fatte!
Archiati: Prendiamo concretamente, adesso, il corpo fisico di una persona, sul lettino in sala operatoria. Lui è fuori, guarda tutto, vede tutto e dice: oh, mi stanno tirando fuori il rene, e vorrebbe dirgli no, no, no, non me lo tirate fuori perché io voglio ritornare dentro! Però non riesce a dirglielo, glielo può dire soltanto se afferra il corpo fisico e parla. E allora che avviene?
Ci sono i medici che stanno estraendo il rene, e le due possibilità fondamentali sono:
• che questi medici abbiano una conoscenza di ciò che avviene nel corpo fisico, e questa più o meno c’è; di ciò che avviene nel corpo eterico, e questa conoscenza non c’è; di ciò che avviene nel corpo astrale, e questa non c’è; e di quel che avviene nell’io, e questo non si sa. Allora si fanno cose senza sapere cosa si fa;
• l’altra possibilità è di sapere sempre di più ciò che si fa a tutti e quattro i livelli.
Quindi l’affermazione pura e semplice è che noi ci troviamo di fronte a una umanità in grado di fare sempre di più, perché la tecnica, la sperimentazione va sempre più avanti, senza sapere quello che fa al corpo eterico, al corpo astrale e all’io.
Allora uno viene e dice: no, non dovresti farlo! È un moraleggiare, perché nessuno ha il diritto di dire all’altro: non devi farlo! È una lesione della libertà, perché se io sono il medico che sta estraendo il rene e uno mi dice: no, no, no, è una cosa che non devi fare!, io per prima cosa gli chiedo: tu hai una conoscenza? sai cosa avviene? dimmelo, allora, cosa avviene nel corpo eterico, nel corpo astrale e nell’io. Ce l’hai tu quella conoscenza? No, non lo so neanche io. E allora sta’ zitto!
Intervento: E se uno lo sa?
Archiati: Se uno sa, supponiamo, sa che non lo farà mai, però questo vale soltanto per lui.
Supponiamo che invece questa persona da sempre abbia detto: se Tizio avesse un giorno bisogno del mio rene, io voglio far di tutto per darglielo! Quello che avviene a livello oggettivo è una metà dei fenomeni, poi c’è l’altra metà, che è quello che avviene nel suo corpo fisico, nel suo rene, quello che avviene nel suo corpo eterico, quello che avviene nel suo corpo astrale e nell’io a seconda del rapporto karmico che c’è tra lui e il ricevente. Bisogna considerare la costellazione karmica individuale, sono anche forze che operano.
Quindi c’è un tipo di riflessione generale, valida per tutti, sulle forze del corpo fisico e del corpo eterico, e poi c’è il lato individuale, del karma individuale, e questo non lo può inventare nessuno. Perciò vi dico che a base di tutto c’è l’affermazione: i fenomeni sono complessi.
E cosa risulta da tutte queste riflessioni? Risulta che, essendo noi arrivati a livelli enormi del fattibile (addirittura con l’energia atomica avremmo la possibilità di mandare in aria tutta la Terra), ma essendo rimasti indietro rispetto al fattore conoscenza, c’è un’urgenza assoluta di portare avanti la conoscenza, altrimenti il rischio di andare nell’abisso diventa sempre più grosso, se continuiamo a fare alla cieca.
Il fatto che noi non le conosciamo, non vuol dire che le conseguenze non ci saranno. Ci saranno! Fare, fare e strafare senza sapere cosa si fa, è pauroso per l’umanità! E viviamo a livelli di evoluzione dove sono stati già posti da un secolo i fondamenti di una scienza dello spirito che ci mette in grado di cominciare, veramente, a sapere ciò che facciamo, non soltanto nel fisico, ma anche nell’eterico, nell’astrale e nello spirituale.
A una persona che mi dice: no, non lo devi fare! gli rispondo: embè?, embè?, sei il Papa, tu, che mi dici che non lo devo fare?! Perché non lo devo fare ? Perché me lo dici tu?
Tutta l’argomentazione dei Verdi, tutta l’argomentazione delle persone che sono «contro» è del tutto un moraleggiare se non c’è una conoscenza oggettiva. Dire «non devi!» è un moraleggiare.
Intervento: Con tutti i Piero Angela che ci sono in giro, le persone che sono contro avranno un minimo di cognizione di causa…
Archiati: No, no, no, non è necessario che ce l’abbiano.
Replica: … se no non durerebbero cinque minuti. Non avranno la scienza dello spirito, ma sanno che quello cui stanno espiantando gli organi non è morto.
Archiati: No, sta’ attento. Prendi l’esempio concreto di chi è contro il trapianto di organi: un conto è se è contro veramente, come tu dici, con un minimo di conoscenza di causa, ma la maggior parte di coloro che sono contro, lo sono perché il sentimento gli dice: non va! Però il sentimento non è conoscenza.
Replica: Il sentimento è monopolio del buonismo degli espiantatori, che stanno facendo proseliti ovunque sul sentimentalismo della donazione. Quello è il loro monopolio.
Archiati: Perciò ti ho detto che è un moraleggiare dire: non lo devi fare!
Replica: Sto solo dicendo che non è un fatto di sentimento, ma di percezione, se vuoi: prima si intuisce che c’è qualcosa che non va, poi si va un po’ oltre e si sa che quello è vivo, si va ancora un po’ oltre e si conosce la scienza dello spirito.
Archiati: No, no, piano, piano. Tu intuisci che c’è qualcosa che non va, e io ho altrettanto il diritto di intuire che va bene, perché salvo una vita. Scusa, eh?, di che cosa stai parlando? Io non ho il diritto di intuire che va bene?
Replica: La metodologia dice che il mezzo deve prefigurare i fini, non può essere in antitesi con i fini. Machiavelli è precedente anche a Steiner.
Archiati: Sei tu che definisci una cosa come mezzo e l’altra come fine, ma questo è un soverchiare, è un moralismo che vuol soverchiare l’altro. Io non definisco una cosa come fine e l’altra come mezzo.
Replica: Voglio dire: io non lavoro per comprarmi la macchina, ma mi compro la macchina per andare a lavorare, c’è una differenza tra i mezzi e i fini!
Archiati: Definire una cosa come mezzo e un’altra come fine è un fatto di ideologia, non è oggettivo.
Replica: Questo lo trovo un ideologismo filosofico, invece!
Archiati: E va bene, tu ce ne hai un altro, scusa!
Replica: L’ho chiamato ideologismo: ideologia è una cosa, l’ideologismo è un’altra, come la bontà è una cosa e il buonismo è un’altra.
Archiati: Scusa, come tu hai diritto ai tuoi pensieri, io ho il diritto ai miei.
Replica: Essendo immerso nella mondanità, raccontavo quello che sta accadendo.
Archiati: No, no, tu ci hai messo un sacco di moralismi tuoi. Tu vuoi decidere cosa l’altro deve fare e cosa non deve fare.
Replica: Una cosa è il moralismo e una cosa è l’etica. Quando tu sei informato hai un dovere interiore di eticità che non ti impongo io. È per quello che tu dicevi, giustamente: va informato, dopodiché se la vede lui.
Archiati: Io voglio dire soltanto che tu hai le tue convinzioni, io ho le mie! Ed è inutile che ti metti a gridare, posso gridare anch’io. Io ti dico che tu vuoi soverchiare con le tue idee.
Replica: Non confondere la forma con la sostanza. Al momento io ho una certa apparente animosità, può essere anche un impeto etico, che può essere nobilissimo alla luce dell’antroposofia.
Archiati: Non è l’animosità, è la tendenza a imporre le tue idee, e quella non la vuoi vedere.
Replica: Convincere vuol dire «vincere insieme», mi pare che fai delle conferenze non per imporre ma per convincere. Io dico due parole…
Archiati: No! no!, ti sbagli di grosso. Su quello che io faccio parlo io, non tu! A me non interessa convincere nessuno!
Replica: Hai appena detto che c’è urgenza che l’umanità sia consapevole di determinate cose se no accade la catastrofe!
Archiati: Sta’ a sentire: un altro problema è che faccio fatica a capire acusticamente quello che dici, se gridi. Non l’hai ancora capito questo messaggio?
Replica: Allora chiedo scusa. Hai appena detto che l’umanità ha bisogno di conoscere per evitare una catastrofe annunciata. Questo mi sembra non tanto convincere sulla metodologia della soluzione, quanto convincere di informare.
Archiati: No, no, l’intento di proporre elementi di conoscenza, se uno è convinto che sono tali, è diverso dal voler convincere. Il voler convincere è un fattore di volontà, invece proporre elementi di conoscenza è un esercizio di pensiero, e i due livelli sono veramente distinti l’uno dall’altro. A me non interessa se ho convinto qualcuno o no, mi interessa che i pensieri che io espongo siano immanentemente puliti. Questo mi interessa; se poi uno si convince o no, sono affari suoi, non mi riguarda. Se tu mi attribuisci…
Replica: Io non ti ho fatto il processo alle intenzioni, dico soltanto che hai appena detto…
Archiati: No, hai detto che io voglio convincere! È un processo alle intenzioni, eccome!
Replica: Eh, no. Ho detto che tu, evidentemente ritenendo fondamentale che l’umanità sia il più possibile informata su una catastrofe annunciata, tendi a …
Archiati: … a convincere? No! Lì ti fermo!
Replica: … a divulgare. E poi, scusami, ci sono delle conseguenze a una divulgazione. Voglio dire: un nazista decide di bruciare Steiner, e quell’altro decide di diventare antroposofo. Tutti e due si convincono di qualcosa di diverso.
Archiati: Il fatto che io ritenga una cosa importantissima, non significa che voglio convincere te che è importante. Sono due cose diverse!
Replica: Non si può avere il moralismo dell’antimoralismo! Nel momento in cui tu mi dici che non mi vuoi convincere, io sono convinto – io sono convinto, non tu, questa è una mia opinione –, io sono convinto che nel più profondo del tuo animo non c’è altro che un’attesa di gioia rispetto al fatto di poter convincere.
Archiati: Il fatto di voler deliberare sul profondo del mio animo è da Papa!, capito?
Replica: Io non delibero, io ti ho parlato di una mia convinzione. Io non ti ho imposto la mia opinione.
Archiati: Se finisci di essere Papa, smetti di sindacare addirittura sul profondo del mio animo.
Replica: Al momento sono solo papà, e neanche tanto in gamba.
Archiati: Ma guarda che tu, del profondo del mio animo, non hai la minima conoscenza, altrimenti sarebbe il profondo del tuo animo, scusa! Stai dicendo delle baggianate così enormi…
Replica: Uno può essere impudico a entrare nella tua intimità. Ti dico qual è la mia convinzione, ho avuto la spudoratezza di dirla, quindi mi chiudo la bocca e sto zitto.
Archiati: No, tu non puoi avere una convinzione sul profondo del mio animo, non la puoi avere. Oh, i tipini non sono soltanto qui davanti, in piedi, sono anche nell’assemblea…
Intervento: Pietro, ho una domanda che volevo fare da ieri. Mi è venuta un po’ di confusione, ieri mattina, quando tu, citando gli scolastici in base a un riferimento che ha fatto una persona presente in sala su Cartesio, sul cogito ergo sum, avevi affermato: Steiner ne parla, ma io direi comunque che sarebbe giusto dire cogito ergo non sum. È da ieri mattina che ci penso e vorrei un chiarimento su questo punto.
Archiati: Steiner ne parla diverse volte, sempre di nuovo, perché è un nodo del cammino del pensiero. Cartesio è il primo che ha distinto nell’essere umano, e la sua terminologia è interessantissima, la res cogitans, che è lo spirito umano in quanto pensante, e la res extensa, che è il corpo, il mondo della materia. L’uomo è res cogitans in quanto pensa (cogito significa «penso»), è res ex-tensa in quanto è fatto anche di materia. Nel cervello, nella testa, si incontrano il pensiero e il corpo.
Noi dicevamo che se il pensare ordinario (Cartesio parla del pensare ordinario) fosse la prova dell’esistenza - cogito ergo sum, penso dunque sono –, la conseguenza sarebbe che di notte non cogito ergo non sum (non penso, dunque non sono). Allora è logico. Quindi il pensiero di Cartesio, anche se lui non se n’è reso conto, contiene questa contraddizione assoluta, cioè l’affermazione che di giorno tu esisti e di notte sparisci nel nulla, perché di notte il cogito non c’è. Se cogito ergo sum, di notte non cogito ergo non sum!
Allora la scienza dello spirito ti dice che Cartesio ha fatto uno sbaglio, in fondo, ed è questo: che noi non pensiamo solo quando siamo svegli, ma pensiamo sempre, pensavamo anche prima di nascere, pensiamo anche quando dormiamo. Quel che succede quando ci svegliamo, cioè quello che si aggiunge quando ci colleghiamo col cervello, col corpo, è che il nostro pensare ci diventa cosciente: sono consapevole di pensare. Quindi è questo stato di «coscienza del pensare» che si aggiunge di giorno, non è il pensare. Il pensare c’è sempre.
Ora, Cartesio identifica il fatto di pensare col mio essere: poiché io sono un essere pensante cogito (io penso) e dunque sono l’essere che pensa. Se io identifico il mio essere col tipo di pensare che c’è di giorno (e questo fa Cartesio), dovrei dire, di conseguenza, che quando questo pensare non c’è il mio essere sparisce, il che è un assurdo perché allora dovrei cadere nel nulla ogni volta che mi addormento, e dovrei venire ricreato (da chi? da dove?) ogni volta che mi sveglio.
Cartesio non era ancora in grado di interpretare le percezioni, di creare i concetti giusti riguardo alle percezioni che tutti abbiamo del sonno e della veglia. Noi, diversi secoli dopo, se creassimo i concetti giusti su ciò che sopravviene quando siamo svegli e su ciò che sparisce quando ci addormentiamo, arriveremmo a dire – senza bisogno di una scienza dello spirito, il nostro stesso pensare ci arriverebbe – che quando ci svegliamo non è il pensare che sorge (perché allora dovrei sorgere io stesso, e quando mi addormento dovrei cadere nel nulla), ma la cosa nuova è che il mio pensare mi diventa consapevole: so di pensare!
Ciò che si aggiunge è che so di pensare, non che penso! L’io, in quanto essere spirituale, pensa sempre, e connettendosi col cervello sa di pensare: l’interazione col cervello fa sorgere non il pensare ma la coscienza. È di questo che stiamo parlando continuamente. Però, la coscienza di essere un essere pensante, non è lo stessa cosa che essere un essere pensante, sono due cose diverse:
1. essere qualcosa
2. averne coscienza
Questo è il discorso, riassunto naturalmente in termini un po’ essenziali. Ripeto: senza voler convincere nessuno, perché convincersi o no non è questione della bravura di chi parla, ma è questione di come ognuno gestisce i suoi concetti in base alle percezioni di ciò che ascolta.
È talmente assurdo parlare di un altro che mi convince! Abbiamo un linguaggio ancora da bambini. Mi hai convinto: ma è da stupidi scusate, eh?! Se mi hai convinto non sono convinto. O mi convinco io, o non sono convinto.
Buon appetito, ci vediamo alle quattro.
Sabato 29 settembre 2007, pomeriggio
Buon pomeriggio a tutti.
Siamo arrivati al paragrafo 6 del terzo capitolo. Mentre voi ora comodamente proseguite la vostra siesta io ne approfitto per terminare il terzo capitolo (!), e dalla quiete vedo che la cosa funzionerà.
Un primo pensiero sul pensare, di avvio in questo pomeriggio, è che il pensare è ciò che ognuno di noi compie sempre, producendolo. Quello che avviene sul tavolo del biliardo è faccenda del mondo esterno, però i concetti che io mi faccio – la palla, la stecca, la velocità, l’elasticità, la forma della palla, ecc… – sono tutte faccende che avvengono nella mia testa.
E quello che avviene nella mia testa – a differenza di quello che non avviene nel bambino piccolo che sta guardando, o meglio che sta vedendo ma non guardando – lo chiamiamo «il pensare».
Abbiamo detto che il pensare è l’elemento per eccellenza comune a tutti gli esseri umani, con delle eccezioni che chiamiamo i malati mentali, ma queste eccezioni sono fatte proprio per confermare la regola. Il problema dei malati mentali è che loro non hanno un problema, ma ce lo abbiamo noi con loro, perché non siamo abituati a colloquiare direttamente con lo spirito – altrimenti non ci sarebbe alcun problema, perché spiriti sono tanto loro quanto noi. La differenza sta soltanto nell’interazione col cervello fisico, che da parte nostra è un po’ più massiccia, e questo ci ha reso talmente materialisti che riteniamo la percezione una realtà e il pensare una non realtà.
A parte queste eccezioni che confermano la regola, il comune dell’umano, quello che ci rende veramente tutti uguali, è questa facoltà di pensare, questa potenzialità. I pensieri sono i prodotti di questa facoltà. La facoltà del pensare si attualizza in ogni pensiero, in ogni concetto, quindi ogni concetto è un’attualizzazione puntuale della facoltà del pensare, e la capacità di pensare ce l’abbiamo tutti, fa parte dell’essenza dell’umano.
Un secondo pensiero è che il pensare, l’attualizzare sempre di nuovo questa facoltà del pensare attraverso i pensieri, attraverso i concetti, è l’esercizio per eccellenza della libertà, perché nessun altro può gestire dal di fuori il mio pensare, il mio processo di pensiero. Neanche minimamente. E quando io penso che sia l’articolo del giornale, o la percezione, o il tuono, o il temporale a influire su di me, in effetti essi non influiscono affatto sul mio processo di pensiero. È che quando io, nel mio processo di pensiero, divento esile esile, nel senso che sono un po’ addormentato e tiro fuori poco, sono poco attivo nel pensare, questo accade sempre per decisione mia: anche le omissioni nel pensare, i peccati di omissione, anche i vuoti nel pensare non sono mai causati dal di fuori.
Nel mio pensare non può esserci nessuna causazione dal di fuori: se io dormo o non mi accorgo di qualcosa è perché io non mi accorgo di qualcosa, e perciò non posso mai dire: lui mi ha impedito di accorgermi di qualcosa! Sarebbe assurdo, perché se tu sei sveglio, lui non ti può impedire di essere sveglio. Può qualcuno impedirmi di essere sveglio? No.
Anche il lavaggio del cervello può arrivare al punto di disgiungere i processi di pensiero dal rapporto col cervello, ma non entra nella natura del pensiero: lo disgiunge dal cervello e il pensare ridiventa puramente spirituale, non è cosciente di sé allo stato incarnato, ma nulla, proprio nulla, può entrare nella natura, nel processo del pensare stesso, oltre all’individuo che pensa. Questa è una gran bella cosa.
Da questo risulta che il mio pensare è tutto in mano mia, è l’unica cosa che è gestibile soltanto e unicamente a partire dalla mia libertà, e che quindi nel mio pensare avviene unicamente ciò che io ci metto, e non avviene quel che io non ci metto.
Quindi non possiamo dire che non c’è nulla dove noi siamo veramente e totalmente liberi, una cosa c’è, ed è la più fondamentale: è il pensare. Lì ognuno di noi è libero in tutto e per tutto, perché in questo fenomeno, in questa realtà, avviene o non avviene soltanto ciò che ognuno ci mette, ciò che lui stesso crea o non crea.
Dal di fuori possono venire un aiuto, un incentivo, un incoraggiamento, uno stimolo al pensare, ma resta però il fatto che non sono un intervenire nella natura del mio pensare. Sono uno stimolo dal di fuori, o anche un disturbo.
Allora ci chiediamo: chi è che può avere interesse, fuori di me, a che io cresca, a che io diventi sempre più creatore nel mio pensare? Dove, nel mondo attorno a me, c’è interesse sincero a che io diventi sempre più creatore nel mio pensare, questo lo chiamiamo amore.
Dove non c’è interesse particolare a che io cresca nel mio pensare, questo lo chiamiamo egoismo.
Poi c’è una terza possibilità: dove c’è interesse a che io non cresca nel mio pensare, questo lo chiamiamo potere.
Ecco i tre fenomeni fondamentali per quanto riguarda la posizione del mondo rispetto al mio pensare. Il punto di riferimento centrale è il mio pensare:
Però queste scalette prendetele non come punti di approdo del pensiero, ma come stimoli: sono piste di pensiero e servono soltanto nella misura in cui io le prendo come orientamenti e poi, in base a questi orientamenti, analizzo fenomeni all’infinito.
Ciò che avviene nel mio pensare, dentro al mio pensare, dipende in tutto e per tutto da me. Da fuori c’è:
1. chi lo vuol favorire, ed è colui che mi ama, è l’amore;
2. chi se ne frega, e il menefreghismo (che se ne frega di me perché pensa solo a sé) è l’egoismo;
3. chi lo ostacola, cioè non soltanto non gli importa che io cresca nel mio pensare, ma ha interesse a che io non cresca nella mia autonomia di pensiero, perché saper pensare sempre meglio significa diventare sempre più autonomi: questo lo chiamo il potere.
Quindi l’individuo si deve rendere conto che è nella natura di ogni potere costituito – adesso senza moraleggiare se sia buono o cattivo, ma come fatto conoscitivo –, per esercitare un potere sugli altri (altrimenti non è un potere), volere il decrescere dell’autonomia pensante dell’individuo, perché man mano che l’autonomia pensante dell’individuo cresce, il suo potere decresce. È nella natura del fenomeno.
Nella misura in cui una Chiesa cattolica ha interesse a esercitare un potere sugli uomini – cosa che ritiene buona, o quello che si vuole –, deve avere interesse a che l’individuo non diventi autonomo più di tanto, altrimenti non può esercitare il potere. Più l’individuo pensa fortemente, creativamente, autonomamente e meno lo si può gestire dal di fuori, meno lo si può controllare. La creatività del pensiero è il presupposto assoluto per non essere passibili di esercizio di potere: se i pensieri non ce li ho io, li devo andare a prendere in prestito da qualcun altro – l’autorità, la persona esperta ecc…
Cosa faccio di fronte al potere che ha interesse a ostacolare, a mettere i bastoni fra le ruote?
Intervento: Come fa a ostacolare il mio pensiero?
Archiati: Tu chiedi: è possibile ostacolare il mio pensiero? Prendiamo l’esempio macroscopico della scienza naturale col dogma terroristico, che ti intimorisce, che dice: tu sei in tutto e per tutto – nel tuo pensare, nella tua coscienza, ecc. – dipendente dal sostrato biologico.
E poi, se ci riflettete fino in fondo, al terzo punto bisogna dire: se voglio diventare sempre più creatore, sempre più libero nel pensare, non posso contemporaneamente avere interessi o allineamenti di potere. È possibile vivere in modo tale che tutti i poteri di questo mondo non mi sfiorino, però devo essere io una persona che tende, che vuole non avere interessi di potere, perché nel momento in cui li ho mi devo alleare col potere e allora devo stare al suo gioco.
Ci siamo detti tante volte che non esiste una libertà senza pagare nulla, sarebbe da bambini. Si è liberi soltanto nell’impotenza, senza potere; non si può essere liberi col potere.
Ognuno di voi, adesso, con la sua testa, riferisce questo alla sua vita e dai volti vedo che i conti tornano. C’è soltanto il problema che ci siamo abituati troppo a fare un tipo di discorso di vita spirituale, di vita culturale campata in aria e che non tira le conseguenze per la vita, ma è molto più bello, si vive in un modo molto più realizzante, più pieno, più umano, avendo il coraggio di tirare le conseguenze per la vita.
Detto in un modo un po’ più semplice, penso a mio padre contadino che mi diceva: quando ti presenti di fronte a un sindaco, anche di un paesino piccolo, prima di dargli la mano pensaci tre volte – era il suo modo di dirmi quello che sta scritto in questo schemino qui. Perché per arrivare a quella carica deve aver fatto tanti processi di compromesso col potere costituito – mica niente di male, a me non interessa, però il potere c’è.
Se tu vuoi costruire una casa e avere il permesso, se hai delle relazioni funziona, se non hai delle relazioni non funziona. Ma allora per avere tutte le relazioni devo dedicare tante energie, tanto tempo per averle e non posso dedicare energia e tempo ad essere sempre più creatore nel mio pensare. Nella vita bisogna scegliere, non si può avere tutto.
Di fronte a chi non ha interesse, non ha amore per la mia crescita come spirito di libertà, il problema del mio atteggiamento è molto più piccolo: lo lascio in pace, perché lui mi lascia in pace, e tutto è a posto. Ma davanti a chi mi picchia, e il potere picchia, il problema di come mi rapporto io è molto più serio.
E cosa faccio con chi fa qualcosa per mettermi a disposizione gli strumenti, che mi dimostra di avere amore per la mia crescita come spirito? Gli dico grazie! E me lo tengo caro, perché ne ho bisogno, mi aiuta e perché sarebbe da stupidi mandare a ramengo anche quello! E se c’è da dare un paio di soldi perché questo qui campi bene, li mando a lui, i soldi, ma non al potere! Vedete come diventa concreto il discorso?
Perché se noi diamo soldi dalla parte del potere non li possiamo dare dalla parte dell’amore, bisogna scegliere; o i soldi li do alla forza dell’amore, e allora non li do alle forze del potere, o li do alle forze del potere e allora non li posso dare alle forze dell’amore. Vanno in senso opposto.
Una vita senza potere, senza esercizio di potere, senza prepotenza, è possibile. È possibile! Il problema è che abbiamo troppo poche persone che trovano il coraggio di farlo. Non è che ci si arriva da un giorno all’altro, però se uno si chiarisce le idee, soprattutto se si innamora un pochino della bellezza, della forza travolgente di questa positività dell’essere umano, ci arriva, perché lo vuole, e perché è molto meglio che non passare tutta una vita concentrata su fattori di potere – che è poverella! è poverella!
Prendete l’esempio di quello che è successo in borsa nelle ultime settimane, in alcune banche in Inghilterra, ma anche in Germania e penso anche in Italia. Tantissimi risparmiatori, piccoli, modesti, volevano che il loro poco denaro diventasse un po’ di più e lo hanno messo in banca, dove ti fanno di quelle speculazioni, coi pesci grossi che sono le immobiliari americane: prima hanno incoraggiato la gente, milioni di persone, dài, dammi i tuoi soldi che poi te li ridò col 10% in più, e intascano, intascano… Oggi, dopo due, tre, quattro anni gli hanno detto: purtroppo è successo un piccolo patatrac, ci dispiace, invece di darti il 10% in più dobbiamo darti il 20% di meno!
Io dico: mah! tutti questi milioni di piccoli azionisti non hanno ancora capito che il compito dei pesci piccoli è quello di farsi mangiare dai pesci grossi? Ma ci vuole tutta una vita per non arrivare neanche a capirlo?
Intervento: Ma un povero lavoratore che pensa al suo domani e non ha un altro strumento…
Archiati: C’è, ma c’è lo strumento! È di non volerli, questi interessi! Il denaro che ho va benissimo, sarebbe meglio se diminuisse un pochino, ma andrebbe bene se diminuisse un pochino soltanto, soprattutto se sono i pesci grossi che lo fanno diminuire. Allora lo faccio diminuire anch’io! Se i pesci grossi vogliono farlo aumentare, a me basta che resti più o meno così com’è; ma devo capire che se io voglio aggiungere il 5%, o 6% in più me lo portano via! Lo devo capire questo! Però lo deve capire il mio pensare: che ce l’ho a fare il pensatoio?!
In base a questi esempi concreti ci rendiamo conto che l’esercizio del pensare è proprio povero povero, neanche incipiente nell’umanità! Perché nel momento in cui l’individuo viene incoraggiato a farsi pensieri suoi, a capire le cose con la sua testa, lo vede subito che l’intento è di portar via soldi a tutti questi risparmiatori. Uno, i suoi soldi, non li deve per forza mettere in banca: la banca è costretta a fare investimenti di questo tipo.
Replica: E il poveretto dove li mette?
Archiati: Li dà a un altro essere umano. È questo esercizio che non abbiamo ancora cominciato a fare, è così semplice. Li do a uno che io amo, nel senso che lo voglio favorire, e lui ama me nel senso che mi vuol favorire: lì c’è una reciprocità di favorirsi a vicenda. O c’è un gioco di favorirsi a vicenda, e questo è quello che abbiamo chiamato amore, o c’è il gioco di mangiarsi a vicenda.
Devo sapere che nel momento in cui metto i miei soldi in banca, la banca è costretta a metterli nella borsa, e il gioco della borsa è per natura il mangiarsi a vicenda! Non ci vuol molto a capirlo! Poi vengono gli economisti e dicono: sì, però è un discorso qualunquista, è un discorso da dilettante ecc… perché hanno un’enorme paura che i soldi vadano via!
È come la scienza naturale che quando cominci a parlare di spirito ti dice: ma sei un dilettante! Perché ha il dogma micidiale che lo spirito non esiste, un dogma di potere, anche quello.
Quello che volevo dire, come riflessione generale su questa realtà così fondamentale del pensare, cioè sull’attività di essere uno spirito che ognuno di noi ha in mano, è che il gradino di evoluzione del singolo corrisponde esattamente a ciò che lui ha compiuto, o non ha compiuto, nel suo pensare. Dal di fuori non viene nessuna causazione, non è possibile, è proprio escluso per definizione.
Questo non è un pensiero che mi vuol scoraggiare, è un pensiero che, se preso dal lato positivo, mi dice: in effetti, se nel mio pensare avviene, o non avviene, soltanto quello che io ci metto o non ci metto, allora mi rimbocco le maniche in modo che ci sia sempre di più! E non ci sarà nulla di meno di quello che io ci metto, non va perso nulla! E questo è una gran bella cosa! Ed è possibile a tutti, subito: investire più tempo possibile, più energie possibile, più soldi possibile, se volete, in questo incremento dell’umano puro.
Lo spirito pensante è l’essenza dell’umano, è l’esercizio della libertà, perché da nessuna parte c’è più libertà che nel pensare. Pensare è un puro creare, un esercizio di arte pura.
Quando io esercito l’arte maneggiando l’argilla, o esercito l’arte maneggiando i colori, il materiale con cui sono alle prese come artista mi porta incontro a delle leggi ben precise che devo rispettare; invece il minimo di leggi mi vengono portate incontro nel mondo dei pensieri, quindi lì ho il massimo di creatività. Nel pensare è lecito tutto, si può fare tutto quello che si vuole. Si può provare, riprovare. Provo una pista di pensiero, non va bene? pff, già sparita! Se da pittore faccio un quadro che è uscito male, poi devo trovare dove mettere la tela, dove buttarlo via ecc.; invece, se faccio un pensiero, una prova di pensiero e dico no, no, no, cambio, non resta nulla. Più liberi di così.
E quando poi trovo qualcosa nel pensare è tutto godimento, è tutta gioia e niente zavorra, perché capire qualcosa, capirlo meglio e più a fondo, è una gran bella cosa, è liberante, e non sono dipendente da chi pensa di aver capito più di me.
III,6. Quanto all’osservazione, essa è un bisogno della nostra stessa costituzione.
Forse c’è bisogno di un altro pensierino di orientamento (del resto noi, adesso, in base a tutto quello che è già stato detto, possiamo leggere diversi paragrafi e vi accorgerete che è più facile comprenderli di primo acchito, dopo quello che abbiamo già detto. Non è che io in certe sedute perdo soltanto tempo..., no, si creano delle basi che poi servono, e uno vede a che cosa servono quando poi leggiamo).
Allora, l’uomo è costituito così, è fatto così che la realtà gli viene (mettendo le cose in chiave quantitativa) metà dalla percezione e l’altra metà gli viene dal di dentro, la crea lui tramite i concetti, tramite il pensare.
L’uomo è fatto così, quindi non può avere nessuna realtà che gli venga soltanto dalla percezione e finché ha soltanto una percezione non ha una realtà intera, così come non può avere nessuna realtà che venga soltanto per martellate di pensiero.
La percezione da sola non mi dà una realtà completa e il pensiero, il concetto, da solo non mi dà una realtà concreta. In quanto uomo sono costituito così che la realtà completa mi viene da due parti, e queste due parti si devono incontrare, unificare, devono diventare una cosa sola; perché la palla in quanto concetto e la palla in quanto percezione non sono due cose che interagiscono fra di loro, sono una cosa sola.
L’osservazione è un bisogno della nostra stessa costituzione, in quanto siamo uno spirito incarnato nel corpo, e il corpo è pieno di sensi – addirittura sono dodici, i sensi – e quindi abbiamo bisogno della percezione dei sensi.
(III,6) Il nostro pensare un cavallo e l’oggetto cavallo sono due cose che si presentano a noi separate.
Voi direte: eh, ma dice «l’oggetto» cavallo, dovrebbe dire invece «la percezione» cavallo! Così va inteso, naturalmente: oggetto nel senso di percezione. Altrimenti il materialista di oggi dice: ma l’oggetto è la cosa! No, l’oggetto è il lato di percezione della cosa.
Intervento: Quando, non conoscendo un cavallo, leggo un libro in cui è espressa l’anatomia di un cavallo con le figure, quella è una percezione? Cioè, l’oggetto cavallo può anche essere inteso in quella maniera lì, cioè una rappresentazione.
Archiati: Lo vedremo più tardi. La rappresentazione non è possibile senza la percezione, perché la rappresentazione è un fattore di immagine, quindi nessun essere umano può avere la rappresentazione del cavallo senza averlo in qualche modo percepito. Però il cavallo non è che deve essere percepito per forza in una stalla, lo posso percepire su un libro, perché la forma di un cavallo può anche essere su un libro. Però per farmi una rappresentazione del cavallo, devo averne la percezione in qualche modo, perché il cavallo su un libro… Cosa ti fa dire che è un cavallo?
Replica: Il fatto che c’è scritto!
Archiati: Noooo! E se non ci fosse scritto che è un cavallo, tu non lo sapresti?
Replica: Se non l’ho mai visto prima…
Archiati: Ma qui parliamo della percezione, non del caso di uno che non ha mai visto un cavallo. Uno vede un’immagine e dice: sì, è la stessa immagine dei cavalli che conosco. Questo stavo dicendo io. Tu stai dicendo: per una persona che non avesse mai visto, mai percepito un cavallo in natura, sotto l’immagine ci devi scrivere «cavallo». Lui non sa cos’è, però è una percezione del cavallo. Ma io non avevo detto se lo sa o non lo sa che è un cavallo – non complichiamo le cose, adesso.
(III,6) E l’oggetto cavallo ci è accessibile soltanto attraverso l’osservazione. Come nel semplice guardare un cavallo non possiamo formarci un concetto del medesimo, neppure siamo in grado, col semplice pensarci, di produrre l’oggetto corrispondente.
Il bambino piccolo che guarda il cavallo, non crea automaticamente il concetto del cavallo: ha la percezione ma non il concetto, quindi la percezione e il concetto sorgono da due istanze diverse. Come il concetto non sorge automaticamente con la percezione, così la realtà di percezione del cavallo non può sorgere autonomamente soltanto pensandoci. Né la percezione, né il concetto mi danno la realtà completa del cavallo, ognuno dei due me ne dà soltanto metà, e devono unirsi per fare il cavallo reale, e quando sono uniti non sono più separati in percezione e concetto.
Quindi la realtà del cavallo, all’uomo incarnato, allo spirito incarnato, viene da un lato attraverso i sensi, con la percezione del cavallo, e questa percezione vede il cavallo fuori di sé; da un altro lato gli viene dal pensare che crea il concetto del cavallo, dentro di sé. Queste due cose vengono a combaciare e l’uomo dice: è un cavallo. Allora ha la realtà del cavallo.
Se manca la percezione non ho la realtà completa del cavallo, se manca il concetto non ho la realtà completa del cavallo – in quanto spirito umano incarnato, intendiamoci bene eh!?, non stiamo parlando di Angeli.
III,7. Cronologicamente {ecco adesso un altro aspetto del pensare: nel tempo, nella sequenza del tempo} l’osservazione precede addirittura il pensiero.
Questo è molto importante: in ogni atto di conoscenza umana la percezione precede il pensare, precede la formazione del concetto. Quindi non può esistere una formazione di concetto senza la propedeutica, senza il precedere della percezione. E adesso questo lo riferiremo al pensare: prima il pensare lo devo aver pensato, affinché il mio pensare diventi percezione, in modo da poterlo avere come percezione e poi pensarci sopra e creare il concetto. Come per ogni altra cosa, anche riguardo al mio pensare, se ne voglio avere la realtà completa, la percezione del mio pensare deve precedere il mio pensare.
Intervento: Nessun filosofo lo aveva mai detto prima di Steiner?
Archiati: Il terzo e il quinto capitolo sono quelli della prima parte dove lo spicco unico di questo genio del pensare, che è Rudolf Steiner, risulta in un modo molto particolare. Soprattutto, per esempio, rispetto a Hegel, che si ferma, in fondo: per lui la realtà ultima sono le idee, cioè il pensato, i pensieri, e non l’osservazione dell’attività pura del pensare in quanto tale.
III,7 «Cronologicamente l’osservazione precede addirittura il pensiero».
(III,7) Infatti, anche il pensiero non possiamo imparare a conoscerlo se non attraverso l’osservazione.
Tutte le affermazioni che noi facciamo sul pensare, in base a che cosa le facciamo? In base a quello che ci risulta osservando il pensare. L’introspezione è anche una forma di osservare: introspicere significa guardare dentro. È un osservare, perché se io il mio pensare non lo osservo, non posso dire nulla sul mio pensare.
Il pensare umano può fare affermazioni soltanto su ciò che i sensi osservano: non soltanto i sensi esterni, ma anche i sensi interni. In altre parole, il pensare umano può fare osservazioni soltanto su ciò che osserva, perché se non osserva nulla non c’è nulla su cui dire qualcosa.
Intervento: E il pensare con cosa lo percepisco?
Archiati: Lo penso col pensare e lo percepisco coi sensi interni dell’anima.
Intervento: Per intuizione.
Archiati: Per introspezione: l’intuizione appartiene al pensare. Tu come osservi un sentimento? Se sei arrabbiato, come lo sai?
Replica: Mi guardo dentro.
Archiati: Ti guardi dentro, tant’è vero che noi diciamo: osserva cosa c’è dentro di te, osserva. L’attenzione osservante si rivolge allora ai fenomeni dell’anima, percepisce i fenomeni dell’anima e ci pensa sopra. Prima li deve percepire, la percezione deve precedere.
Cosa stiamo facendo, noi, oggi? Stiamo osservando il nostro pensare, e osservando il nostro pensare diciamo: ci pensiamo sopra. Però il pensarci sopra presuppone che lo osserviamo, se no su che cosa pensiamo?
(III,7) Essenzialmente, non abbiamo descritto altro che un’osservazione quando, al principio di questo capitolo, abbiamo visto come il pensare si accenda in presenza di un fenomeno e vada al di là di ciò che, senza il suo intervento, è dato.
Il fenomeno di percezione era la tavola da biliardo, con le palle che si muovono, ecc. In presenza della percezione il pensiero si accende: non viene causato dalla percezione, però si accende soltanto in presenza della percezione, altrimenti il pensare non ha un oggetto su cui dire qualcosa.
Diciamo, visto che la categoria l’abbiamo già usata, che la percezione è la conditio sine qua non del pensare, ma non è la causa. Quindi ci deve essere, perché è la condizione necessaria, però non è la causa; non si può pensare senza percezione, però con la percezione si può dormire, perché la percezione non è la causa.
Non si può pensare senza una percezione, perché è la conditio sine qua non, però, quando c’è la percezione, non si è costretti a pensare proprio perché la percezione non è la causa del pensare. Quindi si può dormire.
Intervento: Quindi la percezione è necessaria ma non sufficiente?
Archiati: È questo il concetto tecnico di conditio sine qua non. Invece il concetto di causa è che la causa determina necessariamente l’effetto, altrimenti non è causa.
Qual è la causa del pensare?
Intervento: L’io.
Archiati: Lo spirito! Questo è il concetto di spirito! Lo spirito è causa assoluta del pensare, dove c’è spirito c’è per forza il pensare, altrimenti non è spirito. E l’essere umano è uno spirito.
Se voi dite Dio allora devo aspettare che venga Dio a causare il mio pensare.
Replica: Avevo detto io, non Dio.
Archiati: Ah, io. Sì, ma io in quanto spirito, però. Perché l’io c’è anche nel bambino, però è soltanto potenziale in lui; invece nell’adulto è già attualizzato, e l’adulto pensa perché è spirito attualizzato, non soltanto in potenza.
Intervento: Potremmo dire che causa del pensare è la natura umana.
Archiati: La natura umana è un concetto troppo diffuso, troppo generale, perché nella natura umana c’è dentro il corpo, c’è dentro tutto. Invece la risposta classica è molto precisa: lo spirito.
Replica: E l’io?
Archiati: È compreso nel concetto di spirito. Uno spirito non individualizzato è anima, non spirito, quindi dove lo spirituale è non individualizzato, c’è il concetto tecnico di anima. Spirito significa individualizzato, è compreso nel concetto stesso.
Tant’è vero che la scienza dello spirito parla sempre di «anima di gruppo», che quindi non è individualizzata. Anima. Il bambino è un essere tutto di anima, non ancora di spirito, perché non è individualizzato, ancora: lo è potenzialmente, incipientemente. I fenomeni sono sempre molto complessi.
(III,7) Di tutto quanto entra nella cerchia delle nostre esperienze, diventiamo consapevoli solo attraverso l’osservazione.
Quindi l’osservazione è il rivolgere l’attività pensante a qualcosa, se no non la rivolgo a nulla. Di che stai parlando? significa: cosa stai osservando? L’osservazione è rivolgere gli occhi da qualche parte, per poi dire qualcosa su quello che si vede.
Intervento: Osservazione e percezione li stai adoperando come sinonimi?
Archiati: Allora, qui c’è un grosso problema semantico, perché le parole tedesche servono in un modo e per quelle italiane bisogna fare un discorso un po’ diverso. Le parole tedesche sono prese un pochino di più dal lato dello spirito, dei fenomeni del pensiero. Il linguaggio italiano è ancorato (cosa bellissima, eh!), molto di più nei fenomeni dell’animico.
Io farei una proposta metodologica di terminologia, perché il linguaggio è anche fatto per intendersi: avremo bisogno di usare il linguaggio, almeno un minimo, a un livello un pochino più tecnico, altrimenti navighiamo troppo nel confuso:
• la percezione (voi correggetemi, però, perché io manco dall’Italia da tanti anni, e questo vuol dire anche qualcosa) è un atto singolo, molto di più che non l’osservazione;
• l’osservare è la facoltà.
Come il pensare è la facoltà, e il concetto è l’attualizzazione puntuale di questa facoltà, così la percezione è l’attualizzazione puntuale della facoltà dell’osservare.
Però è solo una proposta linguistica, perché si tratta di accordarsi: al livello di linguaggio comune, praticamente sono sinonimi, però usarli del tutto come sinonimi ci porta a non distinguere nulla e non ci aiuta più di tanto.
Perciò ho scritto «osservare» e non «osservazione», «pensare» e non «pensiero»: la facoltà si esprime meglio con il verbo.
Quindi il pensare produce un pensiero, poi un secondo pensiero, poi un terzo pensiero – un pensiero che è un concetto.
L’osservare produce un’osservazione, una seconda osservazione, una terza, ma si può dire meglio «percezione»: quindi una percezione è un atto singolo dell’osservare.
Intervento: Mi sembra, per come abbiamo parlato sempre della percezione – che è il nulla del pensiero –, che nell’osservare ci sia invece una certa intenzionalità. Cioè io decido di osservare una cosa: la percezione, invece, mi viene incontro senza intervento della mia volontà.
Archiati: Quindi la facoltà esprime un dinamismo. Il concetto aristotelico di facoltà è la potenzialità, quindi il pensare è la potenzialità a esprimere concetti: un concetto, un altro, un altro… Nel termine potenzialità c’è questo dinamismo che tu dici, perché una potenzialità che non tenda ad attualizzarsi non è una potenzialità.
Perciò l’osservare è una potenzialità che tende per natura a concretizzarsi in una percezione, in un’altra, in un altra..
Però, una persona di lingua materna italiana potrebbe dire: sì, però i termini si possono anche invertire. Sì, se proprio si vuole, però l’Arcangelo non sarebbe così contento e direbbe: no, no. Se voi riferite il linguaggio al pensiero pulito, a come sono state coniate le parole, è meglio così come io vi ho detto.
In tedesco, invece, bisogna fare tutto un altro tipo di riflessione, perché l’area semantica delle parole tedesche è tutta un’altra.
Intervento: Quindi nell’osservare c’è anche un tropismo verso quello che poi sarà osservato. Nell’osservare c’è non solo questa attitudine ma anche «l’orientamento verso», per facilitare questo risultato.
Archiati: Sì, certo. E dove c’è questo dinamismo che approda alla percezione? Nell’ob di ob-servo: si mette sopra e vuole approdare, è lo sguardo che si rivolge per acchiappare. Ob-iectum: qualcosa che mi proietto davanti, è oggettivo, obiettivo.
Cosa sono le parole del linguaggio per il pensare? Percezioni. E su ogni parola si può pensare, pensare, pensare, perché ogni parola è una percezione. E quando ci chiediamo: che significa osservazione, in italiano?, pensiamo su questa percezione, che è la parola «osservazione». Molto semplice. Il processo è sempre lo stesso, all’infinito!
III,7 «Di tutto quanto entra nella cerchia delle nostre esperienze, diventiamo consapevoli solo attraverso l’osservazione». Quando uno chiede: che significa «osservare» in italiano?, che cos’è la percezione?, io guardo dentro di me per cogliere che sentimento mi suscita questa parola. Osservo, e quando dico: questa parola significa questo e quest’altro, cosa gli sto dicendo? Ciò che ho osservato dentro di me. Osservo dentro di me che cosa mi suscita questa parola, e ciò che una parola suscita negli italiani è il significato di quella parola.
Il significato di una parola è ciò che questa parola suscita nell’animo di coloro che hanno questo linguaggio come lingua materna. Quello è il significato.
E come si fa a saperlo? Osservando. Ognuno osserva dentro di sé e te lo dice: no, no, no, un momento, questa parola significa un’altra cosa! Lui osserva dentro di sé un’altra reazione, allora si mette tutto insieme e si fa una somma. Questa interazione tra osservazione del fatto linguistico e il pensarci sopra è uno degli esercizi privilegiati per camminare nel pensare, perché ogni linguaggio, ogni lingua è pensiero cristallizzato.
Man mano che io osservo quali pensieri sono stati fatti per approdare a questa parola, e a quest’altra parola e a quest’altra parola, ripeto i processi di pensiero per arrivare a questa distinzione di concetti (perché ogni parola è all’origine un concetto), e divento sempre migliore nel creare i concetti io stesso.
Alcune volte i tedeschi vanno in brodo di giuggiole con me perché dicono: arriva ‘sto italiano e ci spiega che cosa significa questa parola. Ma come fai a saperlo, tu? E io gli dico: c’è nella parola!
La parola «osservazione» in tedesco ha tre componenti: Beobachtung, Be – ob – achtung.
Be è un riferimento da fuori a dentro; ob significa che devi starci sopra, cioè devi abbracciare, devi vedere dall’alto l’insieme; e achtung significa «attenzione». Cioè, se tu non rivolgi l’attenzione a ciò che vuoi percepire, non lo percepisci proprio, non lo noti proprio. E tutto questo è nella parola.
Intervento: Ma quell’ob è latino?
Archiati: Nel linguaggio anglosassone vuol dire «sopra». Il bello è che così uno si rende conto di quali processi di pensiero sono stati compiuti per arrivare a queste parole, per crearle, e scoprendoli rifà questi cammini di pensiero e va avanti nel suo pensiero. Ogni linguaggio è pieno di queste cose.
Intervento: Perché nel linguaggio anglossassone, americano, manca una parola per «spirito»?
Archiati: Perché l’esercizio, l’autoesercizio di realizzarsi come spirito, in questa area dell’umanità è recesso rispetto al realizzarsi in quanto interazione con l’elemento della materia.
Intervento: Un ostacolo non da poco, a livello di concetti, se manca la parola.
Archiati: Quindi, da quello che tu dici, studiare La filosofia della libertà in inglese è una cosa più ardua. Non c’è neanche la parola per «uomo».
In tedesco c’è Man è il maschio, Frau è la donna, Mensch è l’essere umano sia maschile sia femminile. In italiano non c’è, in inglese ancora di meno. Però, per non fare moraleggiamenti, dobbiamo dire che in fatto di conquista e di analisi scientifica del mondo visibile nessun linguaggio è alla pari della lingua inglese: ha migliaia e migliaia di parole per indicare cose concrete materiali che altre lingue non hanno.
La lingua inglese è il contributo dalla parte della percezione, è tutta specializzata sul mondo della percezione, e noi abbiamo detto: non esiste il pensare senza che la percezione lo preceda. La lingua tedesca è quella più adatta, più specializzata nella formazione di concetti. Perciò devono integrarsi a vicenda, perciò l’umanità ha dovuto dare dei contributi diversi. Se vogliamo, il linguaggio italiano è come una sfera di incontro tra i due, dove lo spirito e il corporeo si incontrano nell’anima.
Il linguaggio italiano è uno dei più ricchi, dei più sfumati, per esprimere i fenomeni dell’anima.
(III,7) Il contenuto delle sensazioni e delle percezioni, i sentimenti, gli atti di volizione, le immagini del sogno e della fantasia, le rappresentazioni, i concetti, le idee, perfino le illusioni e le allucinazioni, tutto ci vien dato attraverso l’osservazione {e l’osservazione ne fa una percezione dopo l’altra}.
III,8. Però il pensare, come oggetto dell’osservazione, si differenzia essenzialmente da tutte le altre cose.
Nel senso che tutte le altre cose ci sono già, non le devo creare io: basta che gli vada accanto e le trovo già, e il mio compito è solo di pensarci. Invece il pensare non c’è già. Il pensato c’è già, ma non il pensare, e il pensare dell’altro per me non è mai un pensare, è sempre un pensato.
Il pensare dell’altro, prima che lui mi dica cosa c’è dentro, per me è nulla, e quando mi dice cosa c’è dentro è una percezione. Quindi l’unica cosa che proprio non c’è senza di me è il mio pensare: lo devo produrre io, sempre, nel presente. Nel momento in cui il mio pensare l’ho pensato – per esempio il mio pensare di tre secondi fa –, è un già pensato e allora lo posso percepire.
Quando penso sul mio pensare esercito un’attività di presenza di spirito assoluta sul mio passato: mi devo scindere in due, in presente e passato, altrimenti non posso avere percezione e pensare.
Intervento: È il pensato nel passato.
Archiati: È il pensare che ha prodotto pensieri. Certo, se ha prodotto pensieri è già stato pensato, i pensieri sono il pensato. Il pensare puro è il produrre, è l’attività del produrre, non i contenuti che produce.
Replica: Ma non è il rivivere cose fatte in passato.
Archiati: No, no.
Intervento: Pietro, non si può dire che il pensare è un creare spirito dalla materia?
Archiati: Sì, sì: se invece di dire «spirito» dici «concetti», ti tornano subito i conti, molto meglio. Ripeti la tua frase mettendo al posto di «spirito», «concetti».
Replica: Pensare è creare concetti dalla percezione, dalla materia.
Archiati: Questo è. E questo creare che cos’è? Un’attività pura nel presente, e ciò che crea sono i risultati, sono i pensieri, i concetti pensati, e quelli li posso osservare.
Intervento: È possibile osservare il pensare mentre pensa?
Archiati: Vedi che sorridi tu stesso?, perché in fondo la sai la risposta. Adesso rispondi tu alla domanda, ripeti la domanda, è importante come l’hai formulata. L’hai formulata molto bene.
Replica: È possibile osservare il pensare mentre pensa?
Archiati: Risposta.
Replica: Per osservarlo bisogna che diventi una percezione, che ci sia la percezione.
Archiati: Quindi deve essere già pensato. Non sono giochini, eh!, sono cose importantissime, perché proprio in base a queste distinzioni si arriva all’attività pura del creare spirituale, distinguendolo da tutto ciò che è creato. Il puro creare distinguendolo da tutto ciò che crea: c’è una differenza abissale tra il creare e ciò che è creato.
III,8 «Però il pensare come oggetto dell’osservazione si differenzia essenzialmente da tutte le altre cose».
(III,8) L’osservazione di una tavola, di un albero, comincia per me non appena questi oggetti appaiono sull’orizzonte della mia esperienza; ma il pensare sopra questi oggetti non lo osservo contemporaneamente {perché sto osservando il tavolo, sto parlando sul tavolo, sto pensando sul tavolo: normalmente non penso sul mio pensare sul tavolo, perché sono alle prese col tavolo}. Io osservo la tavola; il pensiero {il pensare} sulla tavola lo compio, ma non lo osservo nello stesso momento.
A meno che faccia il caso di eccezione e dica: no, adesso non mi interessa la tavola, mi interessa osservare il mio pensare. Però questo lo posso fare soltanto in caso di eccezione. Normalmente non lo faccio, normalmente mi occupo della percezione e non faccio oggetto di percezione il mio creare. Io osservo la tavola, invece il pensare sulla tavola, come attività, lo compio e non lo osservo nello stesso momento, altrimenti dovrei terminare di osservare la tavola.
(III,8) Bisogna che io mi trasferisca prima in un punto esterno alla mia propria attività, se, accanto alla tavola, voglio osservare anche il mio pensare sulla tavola {devo prima produrlo, altrimenti non posso pensare sul mio pensare, non posso osservare il mio pensare}. Mentre l’osservare oggetti e fenomeni e il pensare sopra di essi sono condizioni quotidiane che riempiono la mia vita mentre si svolge, l’osservare il mio pensare è una specie di condizione eccezionale. Di questo fatto bisogna tenere il giusto conto, quando si tratta di stabilire il rapporto tra il pensare e tutti gli altri oggetti dell’osservazione.
Quindi il pensare è l’unica cosa che non noto, che non osservo, perché lo genero io.
Intervento: Perché non ci si fa attenzione.
Archiati: Ma sto dicendo perché non ci si fa attenzione, e adesso tu la metti come se fosse una carenza, una mancanza.
Replica: No, sto dicendo che l’attenzione dovrebbe essere rivolta anche verso i processi del pensiero che si innescano quando percepisco.
Archiati: Sì, adesso vuoi fare troppe cose in una volta. Restiamo nell’umano, a questo livello. Certo che alla fine dell’evoluzione potrò sempre contemporaneamente pensare sul mio pensare e pensare a ciò che osservo, però adesso è un momento di eccezione. Non possiamo, adesso, considerare come normale ciò che di fatto è un momento di eccezione: normale è che io penso sulla tavola, mi esprimo sulla tavola. Non mi esprimo sul mio esprimermi, se no inciampo continuamente e invece di parlar sulla tavola, dico: la tavola è rotonda, no, io penso che la tavola sia rotonda; la tavola ha quattro gambe, no, io sono colui che pensa che la tavola ha quattro gambe. Ma cosa mi stai dicendo? Mi stai dicendo che la tavola ha quattro gambe o mi stai dicendo che tu pensi che la tavola ha quattro gambe?
Normalmente, proprio perché l’attività del pensare la produco io, è rivolta alla percezione: fare di un momento di eccezione la regola sarebbe un narcisismo assoluto, perché allora ognuno parlerebbe continuamente solo di sé, del suo pensare, e non saremmo nell’oggettivo della percezione.
Mi parli della tavola o mi parli del tuo pensare sulla tavola? Il tuo pensare sulla tavola non mi interessa, mi interessa la tavola! (III,8) «…l’osservare il mio pensare è una specie di condizione eccezionale. Di questo fatto bisogna tenere il giusto conto quando si tratta di stabilire il rapporto fra il pensare e tutti gli altri oggetti dell’osservazione».
(III,8) Deve essere ben chiaro che quando osserviamo il nostro pensare applichiamo ad esso un procedimento che costituisce la condizione normale per trattare tutto il restante contenuto del mondo, ma che nel corso di questa condizione normale non si applica mai al pensare stesso.
Come osserviamo tutte le cose e ci pensiamo sopra, così possiamo, eccezionalmente, osservare il nostro pensare e pensarci sopra. Però in via di eccezione, perché ognuno sarebbe soltanto chiuso in se stesso se lo facessimo sempre.
Intervento: Quale ne sarebbe l’utilità?
Archiati: La domanda è un po’ utilitaristica, nel senso che sottintende che ha un senso soltanto ciò che sortisce un utile.
Replica: Non è utilitarismo: io vorrei sapere proprio a cosa serve riflettere sul pensare.
Archiati: Cerco di dare una risposta. Lui chiede: questa riflessione di eccezione sul mio pensare, a che mi serve? Che cosa mi dà? La mia risposta spontanea è: mi dà la cosa più importante che ci sia – però vedo di non mettere lì il risultato del mio pensiero, ma di indicare un po’ i passi.
L’affermazione è che le cose più belle della vita, quelle che danno più gioia, quelle che realizzano l’essere umano al livello sommo, sono quelle che lui non nota automaticamente, perché se le notasse automaticamente non potrebbero dargli la gioia suprema, non potrebbero dargli la pienezza suprema del suo essere, che è nelle cose che scopre non per automatismo, ma per attenzione libera. Sta’ attento, che il meglio della vita è quello che tu non noti, perché se tu lo notassi spontaneamente sarebbe automatico e non sarebbe il meglio della vita.
Intervento: È la concentrazione sul qui e ora.
Archiati: Sì, sì, se aggiungi però un’altra parola: qui e ora e dappertutto e sempre, altrimenti uno potrebbe dire: ma solo qui e solo ora?
La concentrazione massima nel qui e ora è al contempo la concentrazione sul sempre e dappertutto, perché il pensare è sempre e dappertutto, non è soltanto qui e ora. Però guai se lo notassi spontaneamente, perché allora non sarebbe interessante.
Il proprio pensare è la scoperta copernicana, lasciata ad ognuno, perché soltanto l’individuo può scoprire il proprio pensare. Gli altri mi danno i loro pensieri, ma il pensare lo posso scoprire soltanto in me.
Intervento: Puoi fare un esempio?
Archiati: Ma che richiesta mi fai? Ti sto dicendo che il pensare ognuno lo può scoprire solo da sé…
Replica: Quello l’ho capito.
Archiati: Ma che hai capito, se mi fai una domanda così?
III,9. Qualcuno potrebbe obiettare che ciò che qui ho rilevato riguardo al pensare, vale {valga} anche per il sentire e per le altre attività spirituali: che, per esempio, quando ho il sentimento del piacere, esso pure si accende a causa di un oggetto, ed io osservo invero questo oggetto, ma non il sentimento del piacere. Tale obiezione riposa però sopra un errore: il piacere non ha affatto col suo oggetto lo stesso rapporto che con esso ha il concetto formato dal pensare.
Ecco l’obiezione spontanea: sì, certo che il pensare per poterlo osservare lo devo prima produrre, ci deve prima essere, ma allora questo vale anche per il sentimento: io posso osservare un sentimento di rabbia soltanto se già c’è! È un’obiezione che vale? No, no, è una pensata bacata!
Il piacere è causato in me, il pensare non è causato in me, il pensare lo causo io. Nel sorgere di un sentimento io sono passivo, il sentimento sorge in me, la natura lo crea, o quello che sia. Invece il pensare, il produrre concetti, non sorge in me, è la mia attività. Nel sentire un sentimento io sono passivo, perché il sentimento viene indotto in me, nel pensare sono in tutto e per tutto attivo – oppure non è un pensare, quindi è proprio l’opposto.
Il sentimento non si può mettere sullo stesso piano del pensare, a meno che si travisi, si sfalsi completamente il concetto sia di sentimento, sia di pensiero.
(III,9) Io sono cosciente in modo nettissimo {vediamo se tutti siamo d’accordo} che il concetto di una cosa viene formato per attività mia {non sorge spontaneamente in me il concetto, lo creo io pensando; nulla può far sorgere in me il concetto, fuorché io che penso.}, mentre il piacere è in me provocato da un oggetto in modo analogo a quello in cui, da una pietra che cade, si provoca una modificazione nella cosa su cui cade.
Quindi un sentimento viene provocato, viene suscitato in me, mentre un concetto non viene suscitato in me, lo creo io, in quanto spirito pensante! Sono due cose ben diverse, l’una è l’opposto dell’altra.
Nessuno di noi suscita i suoi sentimenti: sorgono, il mondo li fa sorgere. Il pranzo che uno ha mangiato, per esempio, fa sorgere il piacere, mentre il pensare e i prodotti del pensare (che sono i concetti) possono soltanto venire creati, attivamente, individualmente.
(III,9) Rispetto all’osservazione, il piacere {che è un sentimento} è dato esattamente allo stesso modo in cui è dato il processo che lo produce.
In altre parole, un sentimento è una percezione, è una cosa che trovo e che osservo. Il sentimento è un dato di osservazione: constato che in me è sorto questo sentimento, non paragonabile al modo in cui io, attivamente, creo concetti nel mio pensare.
I concetti non li osservo, i concetti non si trovano guardando; i sentimenti li trovo guardando dentro, ma non i concetti, quelli li devo creare.
Voi direte: però il linguaggio è pieno di concetti, ogni parola è un concetto. Prendiamo la parola «bontà», una parola che non ha un lato di percezione sensibile: è una parola italiana, è un concetto. Chi ha creato questa parola deve averla creata in base a un concetto, perché se non aveva il concetto di bontà non poteva creare la parola bontà.
Allora, io ho due possibilità: la parola bontà nel linguaggio è una percezione, io percepisco questa parola. Per esempio sfoglio il dizionario, vado sotto la «b», trovo la parola bontà: è una percezione. In che modo diventa per me concetto? Se rifaccio nel mio processo di pensiero tutto il cammino che ha creato questo concetto, altrimenti per me è soltanto un’osservazione.
Tutte le parole del linguaggio possono venir prese dal lato dell’osservazione perché le trovo già fatte, ma allora non sono concetti, sono parole! Sono concetti già pensati, cristallizzati. Se invece, con un processo di pensiero attuale, mio, creatore, cerco di riprodurre, di ricreare io il concetto di bontà – e discutiamo insieme, ognuno col suo pensare vivente, qual è il concetto di bontà –, allora applichiamo il pensiero vivente su questa parola che già c’è nel linguaggio.
Quando si chiede a una persona: sai cosa vuol dire bontà?, se dice subito sì, cosa legittima, vuol dire che la prende dal lato passivo, di automatismo, come una parola che è stata usata molte volte. Avendo percepito tante volte questa parola, prende la media di tutte le rappresentazione che abbiamo di esseri buoni, pieni di bontà – Madre Teresa, ecc… – e uno dice: sì, so cos’è la bontà. Però è tutto passivo, stando a questa risposta.
Adesso mettiamo il caso che l’altro sia straniero e ti chieda: cosa significa «bontà»? Spiega a me il concetto di questa parola. Provate voi a spiegare a uno straniero che non sa un’acca stracca cosa significa bontà, il concetto di bontà nella lingua italiana. Provateci!
Allora uno fa questa esperienza: sì, io so il significato dei concetti del linguaggio, delle parole dal lato della percezione, perché le ho percepite tante volte e perciò dal lato della passività so più o meno cosa significa, ma per spiegarlo a uno straniero, cui la parola «bontà» non evoca nulla, non basta che io gli dica: io lo so. Lo vuol sapere lui! E lui non ha tutte queste percezioni di lingua materna, né il sentimento, quindi il ponte tra me e lui è soltanto la concettualizzazione. Devo ritornare al concetto di bontà, e questo ci fa sudare, perché non siamo abituati a riconcettualizzare le cose. Riconcettualizzare, ritornare alla formazione del concetto, significa applicare il pensiero nel modo più puro e nel modo più attivo al presente.
Cos’è la pausa? Bontà del relatore! Concetto puro di bontà!
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Archiati: Portiamo a termine il terzo capitolo oppure c’è qualcuno che vuole dire una parolina?
Intervento: Torniamo un attimo davanti al biliardo: ci abbiamo messo un bambino di un anno e mezzo, poi abbiamo messo noi adulti. La differenza tra il bambino e l’adulto è che il bambino non ha pensiero, ha solo percezione.
Archiati: Neanche.
Replica: Ora, se mettiamo di fronte al tavolo uno di quei tuoi alunni in Laos, di cui parlavi tu ieri a proposito dell’esperienza dell’ascensore, non possiamo dire che non ha il pensiero. Come si forma, allora, il concetto?
Archiati: No, la questione era relativa a una persona che non ha mai avuto la percezione della cosa di cui si parla. Siccome per noi è difficile pensare ad una persona che non abbia mai visto una tavola da biliardo, vi ho portato questo esempio di eccezione di persone che non avevano mai avuto la percezione di una scala che poi gira e va su, o di un ascensore.
Replica: Voglio dire, analogamente, se uno di questi alunni fosse portato davanti al tavolo da biliardo, di fronte al fenomeno di inizio di bocciatura della palla…
Archiati: No, sta’ attento, lì è più complessa la cosa, perché di movimenti analoghi – una cosa qualunque, un sasso che urta un altro sasso – ce le ha già le percezioni. Perciò non ho preso quell’esempio lì, perché è troppo complesso: lì c’è tutta una serie di percezioni delle quali non trovi un essere umano adulto che non ne abbia avuta nessuna. In quanto adulto sa cos’è l’urto, sa cos’è la velocità, sa cos’è la sponda ecc…
Intervento: Prima dei diciotto anni, se non ho capito male, pare che non si possa definire che una persona può pensare. O ho capito male? Ma il concetto, allora, quand’è che si comincia a poterlo formare?
Archiati: Alcuni di voi avevano in mano il libricino tascabile di cui vi parlavo ieri Arte dell’educare arte del vivere – Fondamenti di pedagogia, cinque conferenze bellissime di Steiner sull’educazione. Ora a me tocca riassumere, in base alla tua domanda, cose che per capirle bene andrebbero analizzate nella complessità in cui le esprime Steiner, in tutta una conferenza (anzi, una e mezza), che perciò va masticata.
Steiner dice: se uno osserva non soltanto tutti i fenomeni che avvengono da uno a diciotto anni nel corpo fisico, che è il mondo delle percezioni, ma anche quelli che avvengono nell’organismo delle forze vitali (nel corpo eterico, permettetemi questa parola) che è poi la sorgente dei pensieri, ciò che avviene nel corpo astrale, che è la sorgente dei sentimenti (l’io ancora non c’è), vedrà che sono tre mondi complessissimi e, se uno studia scientificamente tutto quello che avviene, risulta che fino ai diciotto, diciannove anni, non ci sono le forze reali per gestire il pensare autonomamente, coscientemente. Non c’è ancora la capacità di pensare sul pensare. Il ragazzo o la ragazza fino a diciotto, diciannove anni possono sapere tante cose, ma non le possono capire a livello di renderne conto, non possono darne ragione in base a un processo di pensiero proprio.
Quindi l’unica possibilità che il genitore, l’educatore ha di aver presa sul ragazzo fino ai diciotto, diciannove anni, non sta nel comunicargli qualcosa da imparare, perché non può imparare nulla, ma sta nel presentarsi in base a quello che sa fare come artista. Questa è un’affermazione enorme perché, se è scientifica, dimostra quanto è ignorante la nostra scienza, perché noi trattiamo i tredicenni, i quattordicenni, i quindicenni, i sedicenni, come se fossero già capaci di gestire il pensiero in proprio, facciamo errori enormi e uccidiamo in loro forze perché, invece di coltivare quelle che ci sono, sollecitiamo quelle che sono premature.
L’operare del genitore, l’operare del maestro o della maestra, il suo modo di comportarsi – non è importante quello che fa, ma il modo in cui lo fa – se è vivace, se è artisticamente creatore, fino ai diciotto, diciannove anni conquide il ragazzo che perciò dice: ma com’è bello essere adulti, voglio anch’io essere così vivace e creatore!
Non importa nulla quello che il maestro fa, ma come lo fa. Questa è una legge fondamentale: se l’educatore non è capace di far presa, di conquidere (non a livello conscio, ma a livello del sentimento) l’alunno fino ai diciotto, diciannove anni, in base a quello che sa fare in modo artistico e creativo, viene rigettato, viene rifiutato nel modo più assoluto. È una legge di natura.
Noi, da bambini, avevamo il timore del maestro, adesso in Germania abbiamo migliaia di maestri che hanno timore dell’alunno e vanno in pensione prima del tempo, per il terrore di comparire in un’aula scolastica!
Bisogna dirsi: qui qualcosa deve essere andato storto. Ma non perché abbiamo poca buona volontà, no, deve essere andato storto qualcosa nella nostra lettura dell’essere umano. La nostra lettura del quattordicenne, del quindicenne deve essere profondamente sbagliata se saltano fuori queste cose. E lo è, sbagliata. C’è un sacco di cose da imparare.
Replica: Imparare da chi?
Archiati: Allora, te lo sto dicendo: se tu prendi in mano queste cinque conferenze che costano cinque euro (e perciò in casa editrice abbiamo fatto tutto questo lavoro per rendere accessibili queste cose) ci trovi proprio la risposta alla tua domanda, domanda legittima naturalmente. In Arte dell’educare, arte del vivere Steiner, per pagine e pagine, ti presenta queste leggi dell’evoluzione, di queste forze reali che lui legge e che altri non sanno leggere perché non hanno la percezione del sovrasensibile (dell’eterico e dell’astrale), e ti mostra (non ti dimostra) il motivo per cui fino a diciotto anni non hai nessuna possibilità di far presa sull’alunno da parte del cervello, proprio non c’è organo di percezione. L’unico modo in cui puoi far presa è essere un artista in tutto quello che fai.
Questa scienza dello spirito, di cui noi stiamo studiando un testo fondamentale, non è una ubbia, una fisima, è ciò di cui l’umanità ha bisogno per poter sopravvivere. Queste cose ci sono, e perciò cerchiamo coi prezzi di restare accessibili, in modo che non si possa dire: vorrei, però non ho i soldi!
Se uno mastica un po’ di volte la prima conferenza e la seconda di quelle cinque, una volta, due volte, tre volte, magari dieci volte, comincia a capire di che si tratta, che è proprio una non scientificità, un errore presentarmi al quindicenne, al sedicenne cercando di comunicargli qualcosa: è stupido, è sbagliato, non gli posso comunicare nulla! Posso soltanto aver presa contagiando, e contagiare è ben altra cosa che comunicare, propinare contenuti di biologia, ecc., quelli non li vuole proprio!
Tra l’altro, il quindicenne a casa ha il computer, ha Internet e dice: la mia maestra non sa neanche un centesimo di quello a cui io, come sapere, ho subito accesso. Tutto il sapere scolastico (l’evoluzione dell’umanità ce lo dice) è diventato talmente obsoleto: apro l’enciclopedia su Google, e ho tutto!, ma cosa vuol venirmi a dire il maestro?
Invece essere creatori, essere artisti in tutto quello che si fa, quello o lo vivo col maestro – e allora dico sì, ci vado volentieri a scuola –, oppure non ho voglia di andare a scuola. La pedagogia tradizionale è profondamente ignorante! E non è un insulto, è semplicemente una constatazione reale, oggettiva. Ignora le cose più importanti.
Intervento: Dovrà pur imparare a scrivere e a far di conto, questo bambino! Te lo chiedo perché io sto vicino a un bambino così, che ci crea dei problemi enormi: non vuole andare a scuola…
Archiati: È perché tu hai un concetto sbagliato: un bambino non deve imparare nulla! Non esiste il «deve imparare», il deve imparare è un comandamento moraleggiante.
Replica: Ma deve vivere in questa società…
Archiati: L’essere umano viene al mondo perché vuole, non perché deve! Quindi o lui scopre che vuole imparare a scrivere oppure non lo farà.
Replica: Infatti non lo vuole fare!
Archiati: E come arriva a volerlo? Soltanto vivendo accanto a un maestro che gode lo scrivere! Lo gode, lo gode! È un’arte!
L’accesso alle lettere dell’alfabeto deve essere artistico. G A T T O: che rapporto hanno queste cinque lettere col bambino? Nessuno! Non c’è nessun aggancio con la realtà degli animali, del mondo…, nulla, pura astrazione. Il bambino deve imparare questa astrazione? È assurdo!!
Replica: Ma hanno libri molto buoni…
Archiati: No, no, no, assolutamente no! I testi scolastici sono pieni di infrazioni contro le leggi dell’umano, perché non ne hanno la minima idea. Come è arrivata l’umanità a queste lettere? All’inizio c’erano immagini, ma le immagini sono un’attività artistica: il bambino vuole rivivere tutto il processo artistico che poi, eventualmente, sfocia in questa astrazione.
Replica: Il gatto disegnato?
Archiati: Eh! allora c’hai una G! Un conto è se alla G ci arrivi attraverso il gatto, e un conto è se tu gli dici: devi imparare che questa è la G, e il gatto non c’è!
Replica: Nei testi di scuola c’è la figura del gatto sopra la parola «gatto».
Archiati: Ma è la forma della G che deve saltar fuori dal disegno del gatto, questo è!!
Replica: Un gatto disegnato a forma di G?
Archiati: Certo! L’accesso alla forma della lettera non può essere immediato, deve essere un cammino artistico: dall’immagine, poi, viene fuori una G. Ma più tardi, più tardi.
Fig. 13
Cosa ti resta del gatto nella G? Nulla!
Abbiamo una umanità del tutto ignorante, proprio ignora le leggi e le forze che operano nel bambino, e fa errori enormi! E poi si meraviglia che i bambini e i ragazzi si ribellano. Per fortuna si ribellano ancora, altrimenti saremmo tutti perduti, perché ribellandosi ci evidenziano che c’è qualcosa che non va. Non va in noi, però, in noi adulti!! Non in loro!
Intervento: Ma siamo stati bambini anche noi, e tutta ‘sta rivoluzione non l’abbiamo fatta. Cosa sta succedendo?
Archiati: È giusta la tua riflessione, naturalmente. Te la spiego, ma non ti faccio una riflessione di mezz’ora, solo uno spunto psicosociologico. I motivi per cui noi della nostra generazione, quando eravamo bambini, non abbiamo creato tutto il putiferio che creano i bambini di adesso, sono principalmente due: uno è che gli adulti di allora non erano ai livelli di materialismo, di impoverimento e di arbitrarietà nell’educazione a cui siamo arrivati oggi; l’altro è che nella nostra generazione c’era più disponibilità alla sottomissione, ma questo non è un fattore positivo, era soltanto diverso – e i risultati di questa maggiore sottomissione li vediamo adesso in noi: un impoverimento assoluto e un’incapacità assoluta di prendere in mano la libertà.
Una gioventù che si sottomette non è migliore di una gioventù che si ribella! Dobbiamo essere onesti con i risultati che sono saltati fuori: cosa abbiamo ottenuto con una generazione, che era la nostra, che si sottometteva di più? Un livellamento assoluto, una paura delle autorità, una sottomissione, una paralisi culturale. Mettendo un pochino tutto sulla bilancia, dico che è una bella cosa, tutto sommato, che i bambini, i ragazzi di adesso dicano: non ci sto!
Intervento: Si parla della sindrome dei bambini iperattivi.
Archiati: Cosa vuol dire iperattivi? Il problema non sono i bambini iperattivi, sono gli insegnanti, sono gli adulti ipoattivi, belli morti!
Ma non esiste che un bambino di otto, nove anni stia seduto sul banco per delle ore! È un peccato contro la natura dell’uomo, e si fa soltanto perché il maestro non è capace di muoversi un pochino, di andare in campagna, di andare per i campi, di fare qualcosa di artistico, santa pace! Mortifichiamo i bambini perché siamo morti noi, e diamo la colpa ai bambini, per di più. Ma siamo pieni di moralismi!! Un bambino si è fatto le gambe, le mani ecc… mica per star seduto otto ore sul banco. E non mi dite che stando seduto il risultato è più simpatico: no, no, no! Povertà su tutta la linea!
Intervento: Volevo dire una cosa, perché poi le situazioni sono un po’ più complicate.
Archiati: Parla una maestra, sono sicuro.
Replica: Sì, parla una maestra. Da una parte c’è questo estremo intellettualismo, questo è verissimo, che si pretende da questi poveri bambini: si vorrebbe il concetto senza l’esperienza, e questo è impossibile. Da un’altra parte, però, c’è una situazione per cui i genitori, noi adulti, non concediamo più ai ragazzi la fatica, per cui questi vogliono tutto e subito. Quindi le cose sono un po’ complesse…
Archiati: No, no, scusa se ti fermo. Vogliono tutto e subito perché noi siamo fatti così: non è nella loro natura, non è vero che loro vogliono così, è vero invece glielo abbiamo indotto noi.
Replica: Esatto. Ho detto noi, i genitori, gli adulti: nessuno gli chiede più la fatica. Però la cosa principale è questa: non possiamo pensare che un bambino abbia un concetto se poi non lo fai lavorare con le mani, se non gli dai l’esperienza che gli permette il concetto. Per questo poi la scuola fallisce. Ma questa cosa viene da noi adulti: si vorrebbe che i ragazzi non avessero più fatica, per cui non si fanno lavorare, non gli si permette di lavorare, di pensare.
Intervento: Sono perennemente chiusi in casa!
Archiati: È perché siamo morti noi, e non è un’esagerazione. È importante renderci conto.
Intervento: Li facciamo vivere nella bambagia, in una situazione in cui non gli si permette più né il gioco, né l’esperienza.
Archiati: E poi anche la costituzione fisica diventa sempre più debole. Io ho fatto questa esperienza: c’erano due persone che dovevano lavorare insieme, dovevano fare lo stesso lavoro, e quella di 70 anni aveva una forza fisica tre volte maggiore di quella di 22-23 anni! E non è soltanto quello che mangiamo, l’aria inquinata ecc… che ci indebolisce il corpo, ma è l’esuberanza della vita che manca!
Il materialismo ci toglie l’esuberanza della vita, la bellezza, la gioia, perché la gioia sprigiona, si muove, gira, fa, prova… La gioia fa sprigionare energie, e sono cose reali, queste, mica campate in aria; il materialismo ci rende tutti rachitici nell’anima, nel corpo e nello spirito. Rachitici. È proprio importantissimo, questo.
Io parlo di questa scienza dello spirito mica perché c’ho il pallino, ma perché vedo che o ci mettiamo per questa strada, e allora rigeneriamo l’umanità, oppure il sociale, il vivere insieme, la pedagogia, diventano una cosa veramente bruttina – perché arrivare al punto che dei maestri hanno paura di pigliarsi una pallottola nello stomaco quando vanno a insegnare, è brutto eh?! A quel punto lì è stato fatto talmente tanto di sbagliato, si è talmente omesso che non si può dire: beh, allora troviamo subito il rimedio! No, non si trova subito.
Vi ripeto: leggete almeno le prime due conferenze, la prima e la seconda. Steiner non fa soltanto un enunciato astratto, entra proprio nel merito concreto di come l’adulto, il maestro e anche il genitore, può vivere in modo tale da essere sempre più creatore. Questione di esercizio, certo, ma è possibile a tutti.
Come il pensare sempre più artisticamente, sempre più creativamente è possibile a tutti, così è possibile vivere accanto al bambino con la gioia del vivere, godendo di fare tutto quello che si fa in modo artistico: e questa sarà l’aria vitale che respira. Per essere artisti non c’è bisogno di essere pittori, o musicisti: l’elemento artistico è il godere di fare le azioni più quotidiane che ci siano a modo proprio. È il modo ad essere artistico, non ciò che si fa, non importa ciò che si fa.
Se io ci metto la mia intuizione, l’impronta della mia individualità unica, non importa nulla se sto cucinando qualcosa, o se sto scrivendo una lettera, o se sto facendo una passeggiata in bicicletta, o se sto andando a prendere un amico alla stazione. Non importa nulla.
L’elemento artistico è l’esuberanza dell’amore che mi fa godere qualsiasi cosa faccio, perché realizzo il mio io unico. E non sia mai che ci sia qualcosa che io faccio allo stesso modo di un altro, perché allora sono morto.
Nel momento in cui tutto quello che faccio, lo faccio a modo mio, sono vivo, godo! Questa è l’arte, l’arte della vita. E se l’adulto è così accanto al bambino, accanto al quindicenne, al sedicenne, va tutto bene. Non può sbagliare, perché lui è giusto! Non è quello che facciamo che deve essere giusto, noi dobbiamo essere giusti. E siamo giusti se godiamo questa esuberanza dell’umano, altrimenti non siamo giusti; e questo contagia il ragazzo e gli fa dire: eh, adesso capisco perché sono venuto al mondo! È una gran bella cosa essere adulti. Mannaggia, mi tocca aspettare un sacco di anni per diventare come lui, come lei, ma dai, dai, dai che ci arrivo anch’io!
Il giorno dopo il bambino ha voglia di tornare dal maestro, dalla maestra, non vede l’ora. Io conosco bambini che vanno alle scuole steineriane, magari saranno l’eccezione, ma ogni giorno non vedono l’ora di tornare a scuola. Più bello di così non si può! Perché non vedere l’ora di tornare a scuola significa non vedere l’ora di stare accanto alla maestra. E poi gli chiedi: la tua maestra com’è? Il bambino sorride, è così bello! E cosa fa la tua maestra? Non si ricorda nulla! Quindi non è importante quello che fa la maestra, è il suo modo di essere che è contagioso, quello è bello! Quello è un educatore!
Se chiedi a un altro bambino, invece, che va in una scuola con la pedagogia tradizionale, cosa ti ha insegnato oggi la maestra?, ti risponde: mi ha insegnato a scrivere, che pizza!
Io mi ricordo che da piccolo, avevo otto, nove anni, ero talmente orgoglioso che non mi andava di non riuscire a fare le O belle rotonde, e mi vergognavo con il maestro perché gliele dovevo presentare. Allora, siccome la mamma mi dava un caco ogni giorno, perché c’erano un sacco di cachi, io lo regalavo al mio compagno che faceva le O più belle, rotonde: me le faceva lui, io mica lo dicevo al maestro che le aveva fatte lui. Si pigliava il caco e io presentavo le O belle rotonde!
Però avevo la rabbia, dentro, perché il maestro non mi diceva: ma no, le O sono più belle se non sono belle rotonde, se sono belle rotonde sono morte! Magari avessi avuto un maestro che mi diceva: ma no, sono più belle quando sono un po’ stortine! Hai mai visto tu una mela del tutto rotonda? Allora è una palla morta, non è una mela! Nel momento in cui il maestro, la maestra, mi avesse detto: le O sono belle come le fai tu, guai se sono perfette, perché se no…, il caco me lo sarei mangiato io e sarei andato più volentieri a scuola!
C’è una differenza abissale tra maestro e maestro, ma scherziamo!? E la pedagogia tradizionale è la somma dell’ignoranza assoluta sulla natura dell’essere umano.
Ma pensiamo davvero che una persona, perché è diventata ministro dell’istruzione, o sottosegretario, per grazia di Stato debba essere perciò competente e possa emanare degli editti su come si deve fare l’educazione? Ma è un’umanità bambina che pensa questo, troglodita!
Quel tipo lì, che emana questi decreti, può essere il più stupido di questo mondo però ha il potere. E noi stiamo tutti zitti? È un’assurdità assoluta, è la disumanità eretta a sistema di governo e noi non diciamo nulla, e ci lamentiamo con i bambini!
Ma cosa ne sa un pinco pallino, che sta seduto sul seggiolino a Roma, delle leggi dell’educazione, cosa ne sa? Nulla! Anzi è fortunato se è zero, perché altrimenti va sotto zero! Beh non avete nulla da dire?
Intervento: Dopo tutta questa storia dei bambini che arrivano a diciotto, diciannove anni con questa educazione, a quel punto che si fa? Qual è il modo migliore di porsi, per un genitore, nei confronti di un ragazzo di diciotto, diciannove anni che comunque continua a ribellarsi, perché non gli sta bene?
Archiati: No, prendiamo la cosa dal punto di vista positivo: diciamo che fino ai diciotto, diciannove anni, questo ragazzo è vissuto accanto a un artista, a diversi artisti. Soltanto verso i diciotto, diciannove anni, nota che sorgono in lui delle forze ben precise – che poi, studiate minutamente, sono molto complesse – che gli fanno dire: adesso comincio ad essere capace anch’io di essere così. Prima non lo poteva dire, continuava a guardare, continuava a trovare bello quello che faceva l’autorevolezza del maestro. Questa è la soglia dove l’alunno comincia a diventare lui stesso un’artista della sua vita.
Intervento: E l’adulto a questo punto che fa?
Archiati: Diventa l’amico migliore che ci sia, da pari a pari. Steiner descrive in modo minuto quando il ragazzo comincia ad essere capace di questo tipo di razionalità artistica, di questo processo artistico di pensare, di capire qualcosa, di fondarlo in base al proprio processo pensante.
Allora a diciannove, vent’anni, quando il maestro comincia a fare un processo di pensiero, il cosiddetto alunno, che non è più alunno, può dire: no, no, no, sbagli, sbagli, e gli fa il processo di pensiero giusto! Steiner afferma che è una legge dell’evoluzione che, una volta acquisita questa capacità di pensiero autonomo, non esiste un incremento in quanto tale per tutta la vita. I contenuti possono diventare sempre più grandi, si può avere più esperienza, però un ventenne può dimostrare che un processo di pensiero è errato non meno di un settantenne.
Il ventenne dice al settantenne: tu avrai magari la possibilità di abbindolarmi perché hai più esperienza, perché ne hai fatte di più, ma non hai la capacità di pensare meglio di me, di dimostrare meglio di me. A quel punto sono alla pari.
Replica: Ma oggi i nostri ragazzi vivono una realtà completamente diversa, perché noi gliela facciamo vivere completamente diversa. Il giovane che oggi sta vivendo questo scollamento, come sarà da adulto, domani? E come sarà la società che domani sarà formata da questi giovani che stiamo trattando male?
Archiati: Ma lo vedi, basta che ti guardi intorno. C’è già questo domani! Allora, prendi il fenomeno da tutte e due le parti: l’adulto, che invece di vivere nell’elemento artistico, vive nell’elemento razionalistico di cui è piena la nostra educazione, induce, costringe l’alunno prematuramente a entrare nell’elemento razionalistico. Allora, non a vent’anni, ma a 14 l’alunno gli dice: io so ragionare non meno di te! Quindi l’adulto se lo trova come concorrente, alla pari, in fatto di razionalità però!
Il maestro si trova di fronte a un concorrente di 14 anni, perché l’unico elemento che l’umanità adulta ha saputo comunicare ai bambini è la razionalità, ed è questo che viviamo. Di fronte al diciannovenne, al ventenne, quindi all’università, un insegnante ha meno paura di ricevere una pallottola nello stomaco. Invece, quando la razionalità diventa micidiale già a 14 anni, proprio perché è stato mortificato l’elemento artistico, la rabbia, le rivendicazioni sono talmente forti che t’arriva una pallottola nello stomaco.
C’è da parte degli adulti la carenza dell’elemento artistico e il prevalere della razionalità puramente cerebrale che precocemente, prematuramente, suscita la razionalità nel bambino e nell’adolescente: allora ti trovi di fronte a un quattordicenne che ti dimostra quanto sei stupido, e te lo dimostra, perché la sua capacità di razionalità, pur suscitata prematuramente, non è da meno della tua. E tu cosa fai? Ti dice: non hai nulla da insegnarmi, sei più stupido di me!
Replica: Come si attua un’inversione di rotta nel punto in cui siamo?
Archiati: Soltanto coltivando una scienza dello spirito.
Replica: Eh, ma le aule dovrebbero essere piene di insegnanti formati alla scienza dello spirito! Purtroppo siamo pochi a venire a questi seminari…
Archiati: Ma il problema non è che siamo pochi, il problema è che non facciamo nulla. Perché il fatto di essere pochi tu, poi, lo prendi come scusa per non far nulla! Se tu fai qualcosa basta e ne avanza. Duemila anni fa c’è stato uno che era da solo!
Replica: Però è riuscito a sconvolgere…
Archiati: E allora perché fai un discorso di quantità? Il materialismo fa un discorso di quantità, perché non ha la qualità. La strada c’è, la stiamo indicando.
Replica: Si tratta, nella nostra vita, di dare l’esempio a quelli che stanno intorno a noi.
Archiati: Non è neanche dar l’esempio. Contagia, sprigiona! Voglio dire, ognuno di noi ha a che fare coi bambini – come nonni, come genitori, come amici, come maestri ecc… –, coi bambini abbiamo a che fare tutti. Il quesito è: cosa posso fare, io, per recuperare, da anziano che sono, il più possibile questo elemento artistico?
E la risposta è: c’è questo impulso fondamentale della scienza dello spirito, dove già in fatto di pedagogia tu scopri tantissime cose che sono realtà – il corpo fisico è una realtà, il corpo eterico è una realtà, il corpo astrale è una realtà.
Insomma, io ti sto dicendo: se tu queste cinque conferenze di Steiner sulla pedagogia le studi cinque volte, non poni più questa domanda, perché vedi la risposta, proprio la tocchi con mano la risposta! E a quel punto lì non ti serve a nulla dire: ma perché non lo fa anche l’altro?, l’importante è che lo fai tu!
Però è sincero dire che noi non ci fermiamo alla critica, indichiamo una strada positiva che è diversa. Perché se facessimo soltanto critica, non sarebbe giusto: uno ha il diritto di criticare soltanto se indica qualcosa di meglio.
Perciò vi dico, e non è perché voglio vendere questi libri, proprio sinceramente vi dico: leggete, studiate queste conferenze, però non una volta sola, non una lettura veloce. Sono di enorme importanza, sono una cosa straordinaria. Quello che c’è in questo libretto, o è vero o non è vero, ma se è una verità, cioè se è un dato oggettivo che fino ai diciotto anni non è possibile sapere qualcosa fondandolo con il proprio processo di pensiero, le conseguenze sono enormi. Noi stiamo sbagliando un sacco di cose. Rendersi conto di questo è una gran bella cosa, è fondamentale.
Però questo impulso è un impulso di libertà, non ti può far pressione, è nella sua natura di proporre e poi lasciare le cose alla libertà di ognuno. Però nessuno ha il diritto di dire, se non fa qualcosa: sì, però un’alternativa non c’è. E ognuno può.
Intervento: Io cambio argomento e penso che la risposta alla mia domanda sarà molto più semplice: riguarda il pensare sul pensato. Allora, io ho dei concetti, e ogni volta che penso a uno di questi concetti, penso sul pensato? È così? Oppure devo, quando ho elaborato un concetto, sentirmi presente ogni volta che lo penso come nell’attività che avevo svolto nell’elaborarlo, presente a tutti i passaggi, a tutto quello che mi era venuto in mente? Non so se la domanda è chiara.
Archiati: Sì, sì: tu chiedi qual è il concetto di concetto. Stiamo pensando sul concetto, sui concetti come prodotti del pensare, facciamo oggetto di osservazione i prodotti del pensare, quindi osserviamo i concetti. Cos’è un concetto?
Un concetto è una percezione come tutte le altre: percepisco dei concetti, che sono ciò che ho pensato. Di fronte alla percezione creo il concetto: la percezione di un concetto (che è ciò che ho pensato) cosa mi dice? Cos’è un concetto? Qual è il concetto di un concetto?
La percezione mi dice: questo concetto che percepisci in te non è qualcosa che in origine c’era già, ma è qualcosa che in origine non c’era, l’hai originato tu! E tu chiedi: ma come faccio a saperlo? Perché guardandomi mentre penso mi percepisco come originatore di concetti, non come uno che li trova già fatti.
Quindi il concetto di concetto è che, una volta generato, è una percezione, però nel generarsi era attività pura. La creazione del concetto è una mia attività pura: questo è il concetto di concetto! Il concetto è una creazione pura del pensare. E come arrivo a questo concetto del concetto? Stando a quello che mi dice la percezione del concetto.
Replica: Sia in un caso che nell’altro è sempre pensare sul pensato?
Archiati: No, il concetto è che non esiste pensato che nell’origine non sia stato un pensare vivente. Come è sorto il pensato?
Replica: Dall’attività che ho svolto.
Archiati: E questo è.
Replica: Allora io devo rivedere la mia attività?
Archiati: Il pensare è un’attività, non soltanto un guardare, ecco, questo è il punto fondamentale. Quindi il pensare è un’attività che genera i concetti, non li trova, li genera. Poi scappa via e lo devi riacchiappare, scappa via e lo devi riesercitare e man mano che uno lo esercita poi gli resta. Adesso gli eri arrivato molto vicino, però scappa via, è così! Perché se non scappasse via diventerebbe automatico, e nel pensare non ci sono automatismi, è un creare puro, come l’arte.
Intervento: Mentre creo i miei pensieri li posso anche osservare?
Archiati: Mentre parlavi si è sentita un’insicurezza nella voce, verso la fine. Questo è importante. Allora, ripeti lentamente, sennò l’osservazione introspettiva è troppo veloce.
Replica: Mentre creo i miei pensieri li posso anche osservare?
Archiati: Rispondi.
Replica: Non lo so!
Archiati: Se li osservo non li creo. Sono già creati
Replica: Ma l’esercizio della concentrazione non fa questo?
Archiati: No, no.
Intervento: La coscienza fa questo. Devo mettere attenzione di fronte ai pensieri che sto pensando, altrimenti non vedo la mia attività che pensa; ho la coscienza che sto facendo questo processo, perché lo voglio fare, è una mia decisione, e nel momento in cui lo faccio ho un’attenzione di fronte a questa attività. È un’attività nuova, però io ci sono dentro con la mia attenzione, per cui non è una vera osservazione ma è una presenza, è una qualità di coscienza, no?
Archiati: Sì e no. Se il creare può essere contemporaneamente osservato, non è un creare. Però, avendo sempre di nuovo creato il concetto di concetto che, essendo stato pensato, mi rimanda alla creazione di pensiero che lo crea, io so che sono uno spirito pensante, che pensa e che crea nel pensare. Ma questo non è lo stesso che dire: io osservo contemporaneamente ciò che produco, perché ciò che sto producendo non è ancora osservabile, e se lo è non lo sto producendo. Questo è il concetto.
Se io annullo la differenza abissale tra un attivo creare e i risultati del creare, allora annullo il concetto della creazione pura, il concetto del pensare come creazione pura. E perciò è importantissimo fare questa distinzione.
La percezione dei concetti, in quanto creati dal pensiero, mi riporta al concetto del pensare, che è una creazione pura, e essendo una creazione pura non può essere contemporaneamente un creato osservabile. Perché è nella definizione, è nel concetto: o è una creazione pura, e allora non è ancora osservabile, non è ancora un creato, oppure è qualcosa di creato e allora è osservabile ma non è più una creazione pura.
È importantissimo ritornare all’affermazione fondamentale: l’origine, la scaturigine è lo spirito pensante come origine prima, pura attività, pura creazione.
Intervento: E l’intuizione?
Archiati: Ci arriveremo più in là. L’intuizione è un contenuto, un’intuizione senza contenuto non è un’intuizione e se ha un contenuto è un pensato. L’intuizione non è l’attività pura del pensare, in quanto attività, ma è un’unità di contenuto del pensare, quindi è percepibile.
Replica: Scaturisce improvvisamente senza un processo creativo attivo, oppure…
Archiati: No, facciamo astrazioni troppo grosse. Queste cose verranno un po’ alla volta, altrimenti entriamo nell’astrazione. In italiano adesso io scrivo due parole sulla lavagna, però vi avverto che sarete presi in castagna perché dovrete spiegare a me, straniero che non sa più l’italiano, la differenza tra
intuire intuizione
Intuire e intuizione: spiegatemi la differenza.
Interventi: [incomprensibili].
Archiati: Allora, l’intuire è una pura attività artistica creatrice, e non si può definire in base ai contenuti, perché i contenuti sono i risultati, sono i punti morti. L’intuire è incircoscrivibile.
Un’intuizione la si può circoscrivere, invece l’attività pura dell’intuire non la si può circoscrivere perché è sempre in azione, è sempre in movimento.
Intervento: È frutto di un pensiero creativo continuo, pur non rendendosene conto.
Archiati: Ti devo ripetere la stessa cosa: devi dirmi la differenza tra pensare e pensiero. Che differenza c’è? Tu hai parlato come se non ci fosse nessuna differenza, come se pensiero e pensare fossero la stessa cosa. Pensare è un’attività artistica, in movimento, creatrice, non la puoi fermare, non la puoi fotografare. Tant’è vero che il pensiero è un sostantivo passibile di plurale – i pensieri –, e il fatto che ci sia un plurale ti dice che sono unità, sono come i quadri che l’artista, il pittore, ti tira fuori. Ma l’attività di fare il quadro, tu non la puoi identificare col quadro già fatto.
Allora cos’è il pensare? È una cosa diversa dal mangiare, e quindi vi auguro buon appetito!
Sabato 29 settembre 2007, sera
Buona sera a tutti quanti!
Con mia costernazione ho constatato che sono rimasti ancora alcuni di questi tascabili di Steiner, e di un certo ignoto Pietro Archiati. Al che mi è venuto in mente che non ve li ho presentati (mi hanno detto: quelli che hai presentato li abbiamo venduti tre volte di più, quelli che non hai presentato li abbiamo venduti tre volte di meno, quindi devo per forza presentarveli, se no…! Mi dicono che in una vita precedente ero un venditore – oppure un sarto, perché questa volta attacco bottone con tutti!)
Uno è Verso un’etica della libertà[8], tre conferenze di Steiner che noi abbiamo chiamato come sottotitolo Fondamenti di una morale moderna. Ovviamente se scegliamo tre conferenze di Steiner per farne un tascabile, quindi potenzialmente un po’ per tutti, potete immaginare come io che ci ho lavorato lo ritenga un testo fondamentale.
Queste tre conferenze – nell’Opera Omnia 155 Cristo e l’anima umana dell’Edizione Antroposofica, sono insieme ad altre conferenze, alcune anche un po’ difficili – sono una unità a parte, tenute al nord, e il titolo era a quei tempi Morale teosofica. Quindi è chiaro che Steiner si era riproposto di parlare a questi teosofi – esseri umani, eh?! mica extraumani, erano persone disposte ad ascoltarlo –, ma avendola chiamata Morale teosofica intendeva in tre conferenze dare veramente fondamenti di una morale (che oggi si chiama etica, ma è lo stesso).
Nelle prime due – questo per vostra informazione, perché per l’Italia è molto bello e molto importante – ci sono le cose più belle e più ampie che Steiner abbia mai detto su Francesco d’Assisi, ma di una bellezza che uno proprio si strabilia. Per esempio, Steiner conferma, in base alla sua percezione nel mondo spirituale, i fenomeni straordinari avvenuti alla nascita di Francesco d’Assisi, come le visioni di Elisabetta di Turingia che le dicevano: sta nascendo in Italia uno spirito straordinario.
Poi parla della vita precedente di Francesco d’Assisi, che gli ha concesso di fare una sintesi di buddismo e cristianesimo, una cosa veramente bellissima.
La terza conferenza tratta de Le virtù platoniche della saggezza, della temperanza, del coraggio e della giustizia che, svolte in chiave di libertà del singolo individuo, vengono individualizzate sempre di più. Prendiamo la saggezza, per fare un esempio: nella misura in cui l’individuo, a partire dalla sua libertà, prende responsabilità nei confronti della verità, la saggezza diventa la virtù della veridicità. Una cosa molto bella! Queste tre conferenze sono veramente molto fondamentali, un trattato di morale moderna. Da qui prenderò le mosse per il prossimo Convegno di Torino Il bene e il male – che cos’è?[9]
Qualcuno ha letto le conferenze sulla pedagogia e mi diceva, poco fa, che le ha trovate strabilianti, modernissime – Steiner che cento anni fa descrive la situazione tale e quale a come la viviamo oggi. Una cosa analoga per la morale: ai tempi miei la morale era fatta di tomi grossi così che non finivano più, invece qui c’è proprio la quintessenza, perché in fatto di morale non si tratta di disquisire, si tratta di fare, di camminare.
Un libretto che invece vi raccomando molto di meno, però se lo comprate va bene lo stesso, è quello dove c’è scritto Pietro Archiati sopra, invece che Rudolf Steiner: La forza della positività. Sono tre conferenze, tenute in diverse città: soprattutto alla prima dategli una sbirciata, se volete. Quindi, il libro di Steiner s’ha da comprare, e quello di Archiati si può, se si vuole!
Eravamo a metà del paragrafo 9. Lo riprendo dall’inizio, ma eravamo arrivati a metà. Leggerò senza commentare – se mi riesce (l’ho promesso un paio di volte, ma non mi è mai riuscito…).
III,9 «Qualcuno potrebbe obiettare che ciò che qui ho rilevato riguardo al pensare, vale anche per il sentire e per le altre attività spirituali: che, per esempio, quando ho il sentimento del piacere esso pure si accende a causa di un oggetto, ed io osservo invero questo oggetto, ma non il sentimento del piacere. Tale obiezione riposa {si fonda} però sopra un errore. Il piacere non ha affatto col suo oggetto lo stesso rapporto che con esso ha il concetto formato dal pensare».
Dicevamo appunto che il piacere sorge come ogni altra sensazione, invece i concetti che il pensare produce non sorgono, sono qualcosa che io creo, che produco io, in quanto spirito pensante. Nel pensare sono attivo, sono io l’attore, nel sentimento sono il paziente, sono quello che subisce.
Se noi consideriamo i due concetti di causa ed effetto, voi, col vostro pensare attivo (quello che non si può contemporaneamente osservare), capite quello che io intendo dire con causa ed effetto, perché sono due concetti che il pensare ricrea sempre di nuovo. Quindi quando io dico «causa ed effetto» c’è luce in voi, perché il pensare dice: ah sì, li posso sempre creare, so cos’è causa cos’è effetto.
Questa esperienza interiore di attività che faccio quando i concetti di causa ed effetto vengono creati sempre di nuovo dal pensare, non la faccio per niente quando trovo in me un sentimento che c’è. Lo trovo e mi chiedo: da dove è venuto? Ma non posso dire di averlo creato io con questa luminosità, con questa chiarezza di presenza a me stesso, come avviene col pensare. Basta un minimo di introspezione, di osservazione su di sé, e uno ci arriva e dice: nei confronti del pensare, che produce, che genera, che crea i concetti, sono in tutt’altro modo attivo, sono io il creatore, mentre non posso dire di creare un sentimento.
Tant’è vero che se io adesso dicessi qualcosa sul concetto di causa e sul concetto di effetto, e vi dicessi: la causa è ciò che viene causato, andrebbe bene?
Interventi: No. No. No…
Archiati: E chi ve lo dice? Il pensare di ognuno prende posizione attiva, si sente competente e dice: no, no, no, non è così!
Possiamo prendere posizione nei confronti del sentimento e quindi sentirci competenti, attivamente competenti, così come ci sentiamo nei confronti dei concetti? No, il sentimento è quello che è, è così come è stato fatto dalla natura, così come sorge.
In altre parole, il pensare mi dice che un pensiero è giusto o è sbagliato, ma non mi può mai dire che un sentimento è giusto o sbagliato. Perché lo fa la natura, e lo fa lei così com’è. Il sentimento è una pura percezione, si tratta soltanto di appurare che cosa è.
Il concetto, invece, dico io che cosa è e che cosa non è, lì prendo posizione attiva. Invece il sentimento me lo dice la percezione che cosa è.
La rabbia è quando uno è pieno di gioia.
Interventi: No, no.
Archiati: No, voi dite no. Cos’è che è sbagliato? La percezione del sentimento?! No, i concetti che io ho fatto sul sentimento. Rabbia è rabbia, gioia è gioia, però ho appiccicato il concetto della rabbia al sentimento della gioia, e allora lì non va bene.
La vostra presa di posizione era rispetto al pensare, erano i concetti che non andavano bene, però rabbia resta rabbia, e gioia resta gioia, non c’è nulla da dire perché è questione di percezione. Così come un cubo è un cubo e una sfera è una sfera. Per stabilire se è una sfera o un cubo, cosa devo fare? Basta che percepisca, basta che guardi, e guardando dico: quella è una sfera non è un cubo.
Adesso però io vi dico: il cubo è una cosa bella rotonda. D’accordo? Tu dubiti? Sei insicuro? No, sei sicuro che non va bene. E da dove viene questa sicurezza? Dal pensare! Dici no, tu hai appiccicato alla percezione il concetto sbagliato, alla percezione del cubo hai appiccicato il concetto di sfera. E non è che dici ma…, però…, non sono mica sicuro. (È inutile che mi guardi in cagnesco, sei sicuro, dai! Allora perché non lo vuoi ammettere?).
Quindi il pensare è un’attività, proprio una presa di posizione attiva e va a colpo sicuro perché è creativo, è l’elemento in cui vivo, e quindi sono assolutamente competente in quanto essere che pensa, in quanto pensatore. Invece la percezione la devo prendere così com’è, perché non la faccio io.
Tutti questi esercizi ci fanno capire che il pensare è la cosa più meravigliosa che ci sia, è proprio la leva del mondo. Archimede diceva: se io prendo la realtà dal lato in cui sono io a crearla, ho la leva che è capace di sollevare tutto il mondo!
Però ci devo lavorare. Oggi, all’inizio dell’epoca dell’anima cosciente, direbbe Steiner, prendiamo il pensare a un punto di depotenziamento massimo per dare all’individuo la possibilità della creatività del pensiero. L’intensità, la creatività del pensiero va dallo 0% al 100%. Al 100% non c’è nessuno, perché sarebbe la perfezione e allora non avrebbe più nulla da fare; ugualmente, allo 0% non c’è nessuno, perché non sarebbe un essere umano.
Il senso del materialismo è di creare un tratto di evoluzione dove la conduzione divina del pensiero, la saggezza che ti viene data per grazia divina, si ritira e l’essere umano si ritrova, in fatto di forza pensante, poverello poverello.
Però questa è una cosa positiva se io la vedo come unica possibilità reale di prendere io in mano il mio pensare e di farlo evolvere sempre di più. Allora va tutto bene, allora va bene che sia così. Meno gioia, meno soddisfazione ci sarebbe se il mio pensare fosse già in partenza, per grazia ricevuta, a livelli altissimi: non sarebbe un pensare umano. Il pensare umano è proprio quello che comincia poverello, ma che, anche al suo punto di partenza odierno, non è mai zero, questo è importante, perché se esce dalla creatività non è più pensare.
Quindi è nella natura del pensare di essere creativo, di essere artistico, però l’intensità della creatività è passibile di infiniti aumenti, approfondimenti, il pensare può diventare sempre più profondo, sempre più vasto, ecc..
Uno si può dire: va benissimo che in questa temperie di materialismo, col pensare che la cultura ci mette a disposizione, con l’educazione che riceviamo ecc., ci troviamo al punto di partenza un pochino poverelli; va benissimo che facciamo fatica – la maggior parte della gente neanche studia questo testo fondamentale sul pensare –, va bene così, perché questo indica che c’è tutta una bellissima strada davanti a noi. Una strada che però può percorrere soltanto l’individuo, afferrando il suo pensare e facendone il fattore di evoluzione del suo cammino interiore, quello più importante di tutti.
Le sorti dell’umanità, le sorti dell’uomo, dipendono in tutto e per tutto dalle sorti del suo spirito creatore pensante. Tutto il resto è conseguenza. (III,9) «Io sono cosciente in modo nettissimo che il concetto di una cosa viene formato per attività mia, mentre il piacere è in me provocato da un oggetto in modo analogo a quello in cui, da una pietra che cade, si provoca una modificazione nella cosa su cui cade. Rispetto all’osservazione, il piacere {e ogni tipo di sentimento} è dato {è precostituito, è già lì} esattamente allo stesso modo in cui è dato il processo che lo produce».
(III,9) Ma ciò non vale per il concetto. Posso domandare perché un determinato fenomeno produca in me il sentimento del piacere {posso anche chiedermi come mai due bicchieri di Chianti producano in me il piacere, eh?}. Ma non posso domandare {è assurdo domandare} perché un fenomeno produca in me una determinata somma di concetti. Ciò non avrebbe alcun senso.
Non c’è nessun fenomeno che può produrre in me dei concetti, li devo produrre io. Se fosse il fenomeno a produrre dei concetti, li dovrebbe produrre anche nel bambino piccolo che sta guardando i movimenti della palla sul biliardo. Quindi la percezione non produce nulla automaticamente in fatto di pensiero: ciò che avviene nel fenomeno pensiero lo produce l’uomo stesso. Se avviene poco è perché lui crea poco, se avviene molto è perché lui crea molto, ma l’agente, l’attore è lo spirito pensante stesso.
(III,9) Quando rifletto attorno ad un fenomeno, non si tratta affatto di un’azione {del fenomeno} sopra di me {io creo pensieri sul fenomeno, ma il fenomeno non fa nulla a me, una percezione non mi fa nulla, non mi causa nulla, la vedo, sta lì...}. Non posso apprendere nulla riguardo a me stesso quando, osservando il cambiamento che produce nel vetro di una finestra il lancio di una pietra, arrivo a conoscere i concetti corrispondenti. Ma apprendo davvero qualcosa riguardo alla mia personalità, quando conosco il sentimento che un determinato processo ridesta in me. Se, di fronte ad un oggetto osservato, dico: «questa è una rosa», non dico proprio nulla riguardo a me stesso {perché il pensare produce, crea il concetto della rosa: non sto parlando di me, sto parlando della rosa}; ma quando del medesimo oggetto dico: «mi dà un sentimento di piacere», allora ho considerato non soltanto la rosa, ma anche me stesso in rapporto alla rosa.
È ciò che la rosa causa in me, perché se dico: la rosa mi dà una sensazione di piacere, percepisco interiormente, constato nella mia anima, una sensazione di piacere che è una percezione fatta dentro di me, non meno della percezione che faccio fuori di me e che chiamo rosa.
Quindi qual è il concetto di un sentimento? Cos’è un sentimento? È una percezione fatta nella propria interiorità. Però è una percezione. E chi è che crea il concetto del sentimento chiamandolo «una percezione fatta nella mia interiorità»? Il pensare! Così come crea tutti gli altri concetti.
Però il sentimento, in quanto partenza, è una percezione, è un dato di fatto che trovo in me. Già fatto. E allora creo il concetto di sentimento così come creo il concetto della rosa; la rosa è una percezione che mi viene da fuori, il sentimento è una percezione, né più né meno, che mi viene da dentro.
E come prendo posizione nei confronti della rosa e nei confronti del sentimento? In tutti e due i casi, ugualmente, con l’elemento del pensare, e creo sia là sia qui il concetto corrispondente.
Quindi ciò che noi diciamo sul pensare non si può dire in modo assoluto sul sentimento, perché il pensare è ciò che io genero, ciò che io creo come spirito; invece il sentimento lo trovo, è una percezione tanto quanto le percezioni esterne. Questo è importantissimo, altrimenti non si distingue tra il fatto che il sentimento sorge in me e che invece i concetti non sorgono in me: nel mio pensare ci sono soltanto i concetti che creo io, che mi faccio io.
III,10. Quindi non si può dire che il pensare e il sentire si trovino riguardo all’osservazione nella medesima posizione. E lo stesso si potrebbe facilmente dedurre anche per le altre attività dello spirito umano. Di fronte al pensare, esse appartengono tutte alla stessa categoria a cui appartengono altri oggetti e fenomeni osservati. È appunto caratteristico della speciale natura {unica} del pensare il fatto che esso è un’attività che si rivolge solo all’oggetto osservato e non alla persona che pensa. Ciò si manifesta già nel modo in cui noi esprimiamo i nostri pensieri riguardo ad una cosa, in contrapposto al modo in cui esprimiamo i nostri sentimenti o i nostri atti di volizione.
Noi esprimiamo i nostri pensieri, ciò che produciamo attivamente, in tutt’altro modo che non i nostri sentimenti e le nostre volizioni.
Come esprimo, io, il mio pensiero sulla rosa? Non dico: io sto pensando alla rosa, ho dei pensieri sulla rosa. Dico: quella è una rosa. Quindi il pensare è rivolto al dato di percezione e ne crea il concetto, e io non c’entro nulla; il pensare è un’attività pura, non ha nulla a che fare con me che, in quanto soggetto, sono anche una percezione.
Quando invece voglio esprimere un sentimento nei confronti della rosa dico: la rosa mi dà gioia. Quindi noi esprimiamo i nostri sentimenti in modo del tutto diverso dai nostri pensieri. Quando esprimiamo un pensiero noi non c’entriamo, non diciamo: io penso che quella potrebbe essere una rosa – perché allora non sarebbe un pensiero, sarebbe magari un sentimento, una supposizione –, ma dico: quella è una rosa.
E pretendo che tutto il mondo mi dia ragione, perché se uno dice: no, quello è un tulipano!, io gli dico: ma sei stupido, non sai cos’è una rosa?
Vi è mai capitato di scambiare un tulipano per una rosa e una rosa per un tulipano? No. Può capitare soltanto a qualcuno che non ha mai visto o il tulipano, o la rosa, o nessuno dei due; ma uno che li conosce tutti e due non li può scambiare.
Questi sono tutti piccoli tentativi per indicare la certezza chiara, assoluta, evidente del pensare. Perché? Perché è il mio elemento, lo creo io e quindi so esattamente di cosa sto parlando. Il pensare è l’organo dell’infallibilità dello spirito. Oppure c’è un buco nel pensare. Ma un pensare sbagliato non c’è mai stato, perché pensare significa andare a colpo sicuro, e se non è così, manca il pensare. Un pensare che sbaglia colpo è un non pensare.
Di nuovo una considerazione semplice: tutti noi sappiamo cos’è una rosa, come è fatta. Adesso uno ci presenta una rosa (è chiarissimo che è una rosa): può sorgere un dubbio che è una rosa? No, proprio no! Rosa è rosa.
E quello vi dice: adesso vi dimostro che questa è una rosa. Che impressione vi fa, questa proposta? Ma è evidente, lo sappiamo che è una rosa, non c’è il minimo dubbio! Come fai a dimostrarlo? E, soprattutto, c’è bisogno di dimostrarlo?
Intervento: E, soprattutto, provaci!
Archiati: Appunto. Una cosa o è evidente, e allora non la posso dimostrare, oppure, se non è evidente, non riuscirò a dimostrarla perché la dimostrazione in assoluto è l’evidenza.
L’evidenza è la lucidità dello spirito, è l’elemento della certezza dello spirito, dell’intuizione evidente, è il chiarore assoluto dello spirito pensante, per natura infallibile: creare i concetti nel pensare vuol dire andare a colpo sicuro, ed è una gran bella cosa!
Il grosso peccato della nostra cultura è che proprio questo elemento solare della luce, dell’infallibilità dello spirito, viene coltivato quasi per nulla. E poi ci lamentiamo che ci pigliamo delle belle botte di depressione: da lì vengono! Vengono dal fatto che non coltiviamo a sufficienza questo elemento che vince ogni depressione, perché è infallibile, va a colpo sicuro, vive sempre nella pienezza, crea concetti all’infinito.
Il depresso, in fondo, fa l’esperienza di dire: sono poverello, sono poverello…
Depressione, è l’opposto di compressione. Cosa si è depresso? Il pensare! Comprimi un po’, mettici un po’ di aria in queste ruote Michelin… Al depresso manca la compressione.
Intervento: È senza sentimenti.
Archiati: No, no, il depresso è pieno di sentimento, strapieno. Ciò che crea la depressione, che la genera, è la povertà spirituale, il vuoto; questo vuoto poi viene vissuto nell’animo, e quello è il sentimento, è come un dolore, come un sentirsi abbandonato, è come solitudine. Creare concetti, concetti, concetti significa invece far l’esercizio di sentirsi in comunione con questo, questo e quest’altro, capire questo, capire questo e quest’altro, è comunione, comunione, comunione, altro che solitudine!
Ogni concetto che il pensare crea è un’esperienza di comunione che vince la solitudine. È proprio nel concetto stesso del pensare: il pensare è l’organo che vince sempre di nuovo la solitudine, perché crea la comunione. Il concetto è un’esperienza di comunione con l’essere di ciò che afferro, di ciò che concepisco.
Tra l’altro, concetto viene da concepire, che è un partorire spirituale, un creare, un generare spirituale – concipio.
(III,10) Quando vedo un oggetto e lo riconosco per una tavola, in generale non dirò: «io penso riguardo ad una tavola» {perché così dicendo volgo lo sguardo su di me, faccio un’affermazione su di me non sulla tavola}, bensì: «questa è una tavola». O invece dirò: «a me piace questa tavola» {parlando di un sentimento, allora sì che mi riferisco a me stesso: ho la percezione in me di un sentimento di piacere}. Nel primo caso non mi viene minimamente fatto di esprimere che ho un certo rapporto con la tavola, nel secondo caso si tratta proprio di questo rapporto.
Quando dico: questa è una tavola, sto dicendo che io ho un rapporto con la tavola? No, io non c’entro nulla. Il pensare dice: questa è una tavola. Quindi il pensare è l’organo dell’oggettività in assoluto, il soggetto non c’entra, perché o è o non è una tavola, io non c’entro, si tratta della tavola.
Il modo in cui noi esprimiamo i nostri concetti – «tavola» è un concetto –, è del tutto diverso da come esprimiamo qualcosa che è in noi come soggetto. Quando esprimiamo un concetto il soggetto non c’entra: quella è una tavola.
Intervento: Ma se non è una tavola?
Archiati: L’altro ti dice: no, quella non è una tavola. Ma non ti dice: io invece penso, pensando alla tavola, che non sia una tavola ecc. Ti dice: quella non è una tavola, e anche lui non c’entra, questo è il punto!
Replica: Ma uno dei due deve avere ragione.
Archiati: Sì, ma qui l’affermazione è che né il soggetto A, né il soggetto B c’entrano nulla. È il pensiero, il pensare che prende posizione nei confronti della tavola.
Replica: Ma se io ho un modo di pensare che mi dice…
Archiati: No, non esiste un modo di pensare, esiste il pensare. Tu non dirai, sì, secondo il tuo modo di pensare è una tavola, invece secondo il mio modo di pensare non è una tavola. Argomenti così, tu? No, tu dici: questa non è una tavola.
In altre parole, noi stiamo anche dicendo che il relativismo è di nuovo una buggeratura, perché se tu dici: sì per te è una tavola, invece per me non è una tavola, è da stupidi. Significa venir via dall’elemento del pensare e fare come se l’elemento del pensare non ci fosse più, e ci fosse anche nei confronti del pensiero pura soggettività. Per te è una tavola, per me non è una tavola: una verità oggettiva non esiste. Ma una pensata del genere è da stupidi.
Replica: L’osservatore può influire sull’oggetto osservato, cioè il modo di osservare un oggetto può essere alterato dall’osservatore.
Archiati: Sì, ma adesso tu stai facendo un’affermazione, e facendo questa affermazione dici: è così! Tu dici: i pensieri dell’osservatore influiscono sull’osservato, ma non dici, non esprimi il tuo pensiero dicendo: io sono del parere che forse… ma… però… è la mia opinione soggettiva che i pensieri… No, lo affermi. Questo è il concetto che stiamo dicendo, capito? Lo affermi. Tu dici: è così! L’altro ti dice: no, non è così! Però tutti e due dicono: è, non è. Non parlano di se stessi, questo è il punto fondamentale.
E nel momento in cui io comincio a parlare di me stesso, non sto più parlando del pensare, sto parlando di realtà nel soggetto, quindi di realtà soggettive. Il pensare non ha nulla a che fare col soggetto, col soggettivo: nulla. Altrimenti lo scienziato dovrebbe dire: a mio parere soggettivo potrebbe essere così. Ma allora non dice nessuna verità, perché un altro può dire: io ho un altro parere.
Allora esisterebbero solo pareri.
Ecco che allora noi siamo approdati al punto di partenza del pensiero depotenziato al massimo: l’affermazione che esistono solo pareri. Questa affermazione la può fare soltanto una umanità che ha perso l’esperienza del pensare. Soltanto se non si fa più l’esperienza del pensare, solo se non c’è più il pensare restano i pareri, e i pareri sono percezioni soggettive.
Un parere è una percezione che sento in me, e tu hai un altro parere. Quindi il dogma che esistono soltanto pareri soggettivi, relativi, è il punto morto del pensare. Perché nel pensare non esistono pareri soggettivi, il pensare è l’organo dell’oggettività in assoluto. Oppure non è pensare.
Se uno mi dice: io ho un parere – va bene, vuol dire che non pensa, che non ha il pensare, vuol dire che non esprime il pensiero, perché il pensiero non ha pareri, il pensiero produce concetti.
Intervento: Capita che, fra tutti questi scienziati, uno dica una cosa e, passato un po’ di tempo, dica: no, era sbagliato.
Archiati: Sono tutte persone che l’elemento del pensare lo conoscono e lo esercitano quasi al nulla per cento. Proprio non c’è, e non essendoci il pensare ti restano soltanto i pareri, ma il parere è più un sentimento che non un pensiero. A me pare così, significa: io ho questo sentore.
Replica: Però mettendo insieme vari pareri si arriva a capire.
Archiati: No, no, no, lì Platone ti darebbe uno schiaffo che non te lo leveresti per due settimane. Sarebbe come dire che a forza di zeri, a forza di zeri, salta fuori un milione. No, ci devi mettere l’uno davanti! E l’uno davanti sono i concetti: a forza di pareri non salta fuori un concetto. Nessuna somma di pareri ti dà una verità, perché tutti i pareri di questo mondo non sono una sola verità, rimangono tutti pareri.
Il dogma del relativismo, in un certo senso, è una percezione fatta su di sé da parte dei cosiddetti scienziati che percepiscono in sé quasi un nulla di pensiero, e dicono: ci sono soltanto supposizioni.
Cos’è un’ipotesi? È un sentimento camuffato da pensiero. Ma è un sentimento, perché se fosse un pensiero non sarebbe un’ipotesi, e perciò le ipotesi, essendo sentimenti, essendo soggettive, vengono cambiate. Cento anni fa venivano cambiate ogni cinque anni, adesso ogni cinque giorni.
Questo ci sta a dire che l’evoluzione del pensiero è tutta da fare. Però incipientemente, diciamo embrionalmente, in modo perlomeno rudimentale, ognuno sa cos’è il pensare, perché a livelli incipienti ciascuno di noi lo esercita. Evidenziando ciò che avviene quando io creo un concetto, cominciando con i concetti più semplici che abbiamo tutti – il concetto di rosa, dove non ci sono né pareri né opinioni, rosa è rosa!, oppure i concetti fondamentali di causa ed effetto, dove non si tratta di pareri e siamo tutti d’accordo che la causa è ciò che causa, non ciò che viene causato –, esercitandoci con i concetti più fondamentali, accessibili al pensare di ognuno, ci rendiamo conto che il pensare è la potenzialità in assoluto dell’infallibilità dello spirito di creare concetti. Ma un concetto non è mai sbagliato! Come può il concetto di rosa essere sbagliato?
Posso sbagliare l’appiccicamento di questo concetto, posso appiccicarlo alla cosa sbagliata, ma questo non rende il concetto sbagliato. Il concetto di rosa o ce l’ho, o non ce l’ho, e se ce l’ho non può essere sbagliato.
Intervento: Posso non distinguere che tipo di rosa è.
Archiati: Ma questo non riguarda l’essenza. Il concetto è l’essenza, altrimenti non hai il concetto, hai gli accidenti, e quelli ti possono mancare…
È talmente vero che il concetto di rosa non può essere sbagliato, che quando io vi presento un tulipano e vi dico: questa è una rosa!, voi siete così sicuri che il vostro concetto di rosa è giusto che dite: NO! quella non è una rosa, e lo dite con certezza. Perché? Perché avete il concetto di rosa, e non può essere sbagliato il concetto di rosa, anche se lo posso appiccicare alla percezione sbagliata.
Ho i due fiori, qui il tulipano e qui la rosa, e indicando il tulipano dico: questa è la rosa. No, no, no, questo concetto lo devi appiccicare a quest’altra percezione. Ma è sorto forse un dubbio rispetto al concetto di rosa? No, proprio perché sono sicuro di cos’è una rosa, proprio perché ho il concetto di rosa, dico: no, la rosa è quella, non l’altro fiore.
Questo elemento della certezza assoluta, della verità oggettiva, è proprio quello che viene mortificato al massimo dal dogma feroce della scienza moderna che vorrebbe fare come se l’essere umano avesse soltanto pareri, o ipotesi, o supposizioni, che si cambiano ogni cinque giorni, invece di prendere questo elemento della certezza interiore e di coltivarlo sempre di più.
Il concetto di rosa che ognuno di voi ha, non lo si può rendere vacillante, non arriverete mai ad essere insicuri su cos’è una rosa. Rosa è rosa, e lo sapete!
Il relativismo moderno è proprio l’esercizio di potere massimo che vuol proibire e impedire all’essere umano di entrare e creare sempre di più nell’elemento della verità oggettiva assoluta, dove non c’è il dubbio, dove non c’è il soggettivo, dove non c’è il relativo.
La rosa che io vi presento può essere bella, brutta, rattrappita, ma questo non mette in dubbio il fatto che sia una rosa, se è una rosa. Perché io non sto chiedendo se è bella o se è brutta la rosa, vi sto chiedendo: è una rosa o no? E voi, che non state a guardare se è una rosa bella o brutta, rispondete: sì, è una rosa. È così evidente!
Intervento: Una scoperta scientifica nuova, penso ai tempi di Curie che scoprì la radioattività, poteva essere incerta: vediamo com’è… Curie non può dire: è così, quando ancora non nasce questa scoperta.
Archiati: No, no, no, sta’ attenta: dobbiamo distinguere tra il tipo di certezza dove la percezione ce l’ho io, e il tipo di certezza dove io non ho la percezione. Noi non ci rendiamo conto che il massimo di ciò che chiamiamo scienza è pura fede, perché dobbiamo credere a coloro che dicono di aver fatto le percezioni, gli esperimenti ecc. Se tutte le percezioni che ha fatto colui che ha sperimentato tu non le hai fatte, cosa stai facendo? Gli credi! Quindi sei una persona di fede.
Io parlavo dell’elemento della certezza, però ho portato un esempio in cui ognuno di noi ha la percezione – la rosa. Lei porta l’esempio della scoperta scientifica dell’energia atomica: Curie parla di un sacco di percezioni che ha avuto soltanto lei! Come posso io prendere posizione, in chiave di certezza, dove il mio pensiero non ha nessuna percezione, quando già oggi ci siamo detti che la certezza del pensare, che coglie una realtà intera, si ha soltanto quando da tutte e due le parti arriva la realtà, dalla parte della percezione, e dalla parte del pensare? Tu mi porti un fenomeno dove la percezione manca.
Replica: Io parlo come se fossi io, qui, nei panni di Curie.
Archiati: No, non lo puoi fare, è fittizio, tu non sei nei panni di Curie.
Replica: Lo so, però la Curie vedeva nei suoi studi…
Archiati: No, non sai tu cosa vedeva. Dice che vedeva, e allora sei una persona di fede, è questo che sto dicendo. Devi renderti conto che sei una persona di fede.
Replica: Ma devo scoprire tutto io, che sono una casalinga?
Archiati: Noi non stiamo sindacando su quello che tu devi scoprire, noi stiamo dicendo soltanto: per quanto riguarda te (e ognuno di noi) puoi avere certezza soltanto nelle cose dove hai sia la percezione, tua però, sia il concetto.
Se la percezione ce l’ha la Curie, può darsi che lei raggiunga la certezza, ma di sicuro tu no, perché ti manca la percezione, e se lei te ne parla tu hai la percezione delle sue parole, non di quello che lei ha veduto. La maggior parte di ciò che noi chiamiamo scienza, è pura fede. È così logico!
Tant’è vero che Goethe aveva letto I fenomeni di ottica di Newton e diceva: no, no, no, non mi convince, non può essere così. Allora cosa ha fatto, Goethe? È andato a Jena, si è fatto dare tutti gli strumenti di ottica, i cristalli, ecc. per rifare lui gli esperimenti. In altre parole, Goethe diceva: se io voglio dire una parola autorevole devo avere le percezioni io. Perché una cosa sono le percezioni che Newton ha avuto, un’altra cosa le interpretazioni che il suo pensiero ha fatto: sono due cose diverse.
Ora, se io suppongo che il mio pensare farà altre riflessioni, creerà altri concetti, devo però darmi la percezione, altrimenti devo tener chiuso il becco: dove non ho la percezione cosa ho da dire? Nulla.
Intervento: La scienza tradizionale si fa forte proprio della ripetibilità delle teorie: quello che scoprì Madame Curie fu accettato dalla comunità internazionale degli scienziati dopo che anche loro furono capaci di avere gli stessi risultati e confermare le teorie.
Archiati: No, non gli stessi risultati: le stesse percezioni. Davanti alle stesse percezioni il loro pensare ha creato concetti analoghi, e quindi si sono trovati d’accordo. Questo però non impedisce a me, se fosse nel mio karma, se avessi i soldi, il tempo, se fosse il mio compito, di rifare tutte le percezioni e di creare tutt’altri concetti. Non perché sono dieci persone devono per forza aver ragione: la verità non è questione di maggioranza.
Replica: No, la storia lo dice che dopo anni furono modificate quelle teorie con altre nuove verifiche.
Archiati: E allora? Vedi?! Quindi dire che avevano ragione perché erano in parecchi a confermare, non serve a nulla.
Resta il fatto che ognuno può parlare con conoscenza di causa, e dire la sua, soltanto se mi presenta la realtà in quanto ha in mano sia la percezione sia il suo pensare. La percezione è importante, è necessaria, anzi precede il pensare, abbiamo visto oggi.
Nel momento in cui io ho accesso alle sue percezioni, ho il diritto, io, in base al mio pensare, di farmi un concetto sul suo pensare; se è un pensare penetrante o poverello, che va soltanto in base a rappresentazioni, o che va a tirar fuori rappresentazioni del passato che sono già state superate, ecc. Tutte queste prese di posizione le faccio col mio pensare.
Arriva Goethe, rifà le percezioni che ha fatto Newton e dice: ma, quello è bacato nel suo pensiero! Allora, chi ha ragione?
Adesso vi do un colpo di traverso, eh?, sotto la cintura! Ha sempre avuto ragione nella storia chi sa pensare meglio! Chi sa pensare meglio ha ragione, non chi sa pensare peggio.
Intervento: E chi è che stabilisce chi è quello che pensa meglio?
Archiati: L’umanità nel corso della sua evoluzione.
Replica: Dai dati storici?
Archiati: Uno Steiner ti dice (prendiamo un esempio concreto) che la testa di Goethe, posta di fronte alle stesse percezioni di ottica che ha avuto Newton, sa pensare meglio che non la testa di Newton. Tu che dici? Devi credere a Steiner?
Devi farti tu il tuo concetto del pensiero di Goethe e del pensiero di Newton, e te lo fai! E non aspetti il Papa che ti dica qualcosa, non hai bisogno di credere a Steiner perché lo dice Steiner. Fattelo tu un concetto.
Nella misura in cui mi sono andato a leggere la fisica di Newton, mi sono andato a leggere i cinque volumetti de La teoria dei colori di Goethe, che poi è fisica pura (e io ho studiato fisica perché, ai tempi miei, la maturità comportava anni di fisica non da poco), dico – il mio pensare, la mia testa mi dice –: Goethe è un pensatore migliore che non Newton. Rispetto uno che dice l’opposto, ma non sarò mai d’accordo. Però io non posso dimostrare a un altro, la cui testa magari è un po’ bacata, che Goethe è un pensatore migliore di Newton.
Il colpo un po’ sotto la cintura ora lo dico in un altro modo, ma è la stessa cosa: qual è la dimostrazione (non metafisica, ma insomma la dimostrazione umana) che il mio pensare non è ritenuto da voi il più squinternato che ci sia? Il fatto che siete qui, e se no non c’è più nulla di oggettivo al mondo. Il fatto che siete qui sta a dire, è inutile che ci giriamo attorno, che bene o male, tutto sommato, facendo magari delle sottrazioni, nell’insieme sentite incentivato il vostro pensiero in base a quello che io esprimo. E io lo prendo come un complimento, altrimenti sarebbe da stupidi continuare a tornare, andreste a fare qualcosa d’altro, no?
Voglio dire, in fatto di pensiero non è tutto aleatorio, non è tutto relativo, è una stupidata dire che è tutto relativo. No, non è vero che è tutto relativo: c’è un tipo di pensare che colpisce di più nel centro, e c’è un tipo di pensare che invece va proprio a vanvera, e ognuno si ritiene competente di dire: no, no questo processo di pensiero lo vedo forte, lineare, mi aiuta, mi crea luce, invece quest’altro processo di pensiero non mi dà nulla.
Intervento: Ma il pensiero che non dà nulla, allora, secondo quello che tu dicevi poco prima, non è un vero pensiero.
Archiati: No, è pieno di buchi. Il concetto della carenza è molto importante, perché la carenza non ti dice: c’è qualcosa di sbagliato, c’è qualcosa di moralmente sbagliato, no, ti dice soltanto: c’è un buco! Questo è molto importante, perché il concetto di buco non moraleggia, dice c’è soltanto: c’è un buco, manca qualcosa.
Secondo me il pensare di Newton è pieno di buchi, che invece un Goethe riempie. Dove mancano intuizioni fondamentali in Newton – e lo leggo in inglese, magari – le trovo in Goethe, ma questo lo deve dire il pensare, altrimenti che organo abbiamo, noi, per la verità oggettiva?
Prendiamo un altro esempio, che certamente risulterà poco simpatico, o poco tollerante secondo questa baggianata della tolleranza su cui si basa tutto il relativismo. In nome della tolleranza, vale soltanto il relativismo! Allora, pensate voi, in questa temperie di relativismo, dove ognuno ha soltanto le sue opinioni ed è dogmatico e coercitivo presentarsi con delle certezze, pensate a un Tommaso d’Aquino che dice: Aristotele non erra, perché se errasse finirebbe subito di essere Aristotele. Beh?!, come la mettiamo?
Intervento: Anche Aristotele avrà avuto qualche dubbio…
Intervento: È quello che Tommaso pensa su Aristotele.
Archiati: Se tu dicessi a Tommaso d’Aquino che quello è il suo parere personale, e lui fosse qui, ti piglieresti di quelle sberle che non ci verresti più, qui! È questo che non riesce più a capire l’umanità di oggi, perché è uscita del tutto, quasi del tutto, dall’elemento del pensare.
Intervento: So benissimo che non ho una preparazione sufficiente, però, siccome mi interessa almeno iniziare a capire certe cose, io ricordo vagamente alcuni passaggi della filosofia di Aristotele e di Tommaso d’Aquino – l’ho fatta così, il mio interesse era solo pro-interrogazione…
Archiati: Storia della filosofia al liceo o all’università?
Replica: Al liceo. Allora, il fatto è che Aristotele aveva, mi esprimo come sono capace, dei sistemi, un metodo di creare dei concetti: il sillogismo, vari tipi di sillogismo ecc…
Non mi ricordo, nello specifico, ma mi pare che Tommaso d’Aquino ha verificato in sé che il modo di sillogizzare, di pensare di Aristotele, era valido. E, proprio per tornare al discorso del parere, sembra dunque che ci sia un sistema di pensare che sia corretto per l’uomo in quanto spirito umano.
Archiati: Stai ponendo una domanda o una risposta?
Replica: Sembra che sia così a me, da quello che emerge. In questo senso capisco che l’uomo, attualmente, non è più capace di pensare, è uscito da questo sistema creato da Aristotele, che sembrava vero in assoluto. Io non ho studiato la cosa abbastanza a fondo per affermare questo con certezza, e quindi mi fermo qua, per quanto ho intuito. Se è così, se uno cerca la verità, anche nel senso del modo corretto di pensare, è un sollievo, perché in pratica bisogna solo capire come deve imparare a pensare. Diversamente entriamo sempre nel discorso dei pareri. Questo è quello che ho capito fino a qua.
Archiati: Prendiamo l’esempio più semplice del sillogismo: il sillogismo non è un concetto, è una concatenazione di concetti sØllogoj (syllògos), cioè sun-logoj (sun vuol dire «con»), quindi logos con logos con logos…, una concatenazione di concetti, perché logos significa anche concetto.
Il sillogismo primo, la prima frase che noi imparavamo già al primo semestre, vi ricordate come si chiamava?
Intervento: Premessa maggiore.
Archiati: Maggiore. Bravo! Maggiore, minore e conseguenza.
La maggiore dice: tutti gli uomini sono mortali; Caio è un uomo, è la minore (questo Caio è diventato famosissimo, l’ha immortalato Aristotele in questo suo primo sillogismo); dunque (la conseguenza in italiano si chiama «dunque») Caio è mortale (e perciò è stato fatto immortale questo Caio mortale, perché salta fuori due volte!).
Bene, adesso guardiamolo:
maggiore Tutti gli uomini sono mortali
minore Caio è un uomo
conseguenza Caio è mortale
Facciamo un esercizio di pensiero, con il retroscena della domanda importantissima che chiede: è vero che c’è soltanto relativismo o è vero che, come io dicevo, il pensare è l’organo della verità oggettiva? Quell’elemento del pensiero che tu, in tutte le tue riflessioni, non hai neanche sfiorato – perché se tu l’avessi sfiorato saresti entrato nell’elemento della certezza assoluta della verità.
Allora, la tesi dei malpensanti di oggi dice: c’è soltanto relativismo, non c’è certezza; l’altra affermazione è di Tommaso d’Aquino che dice: no, il pensare è l’organo della certezza, è l’organo della verità, l’organo dell’infallibilità. Ci sono verità oggettive.
Questo del sillogismo è un esercizio classico, bellissimo, per lavorare su questa domanda: c’è una verità oggettiva o no?
Adesso io vi farò delle domande e poi vi chiederò: è questione di gusti?, è questione di pareri?, ognuno può avere il parere suo, oppure mi dite che è così?
1. Tutti gli uomini sono mortali: qui ci accordiamo, perché se voi mi venite a dire: no, la prima frase non funziona, allora… Si parte dal presupposto che la prima affermazione è scontata, è una percezione comune, una verità comune: si presuppone sempre che ci sia accordo sulla maggiore, altrimenti non si può partire. Una volta che siamo d’accordo sulla maggiore, tutto il resto o è di una logica ferrea, oppure cade tutto.
Supponendo che sia vera la prima, che tutti gli uomini sono mortali, la seconda è semplicemente un’affermazione:
1. Caio è un uomo: è una constatazione, la seconda è una pura constatazione. Caio è un uomo: qui non siamo chiamati in causa, ci viene presentato un uomo. Fondamentale, in quanto a opinione o certezza, relativismo oppure certezza di verità, è se segue o non segue che se tutti gli uomini sono mortali e se Caio è uomo, dunque
1. Caio è mortale: segue o non segue? Se è vero che tutti gli uomini sono mortali e se è vero che Caio è un uomo, presupponendo la verità delle prime due, la terza è una questione di opinione o è una questione di certezza?
Intervento: Di certezza!
Archiati: Presupponendo che siano veri 1 e 2, deve essere vero e non può essere questione di opinione, anche il 3.
Intervento: Come fai a dimostrare sempre con certezza la 1 e la 2?
Archiati: Adesso tu giustamente dici: però noi non siamo in grado di dimostrare apoditticamente che 1 e 2 siano veri. In altre parole, non si può dimostrare facendo un regresso all’infinito, perché io dovrei trovare un’altra realtà prima per dimostrare queste due, ma allora questa nuova realtà prima dovrei di nuovo dimostrarla con una nuova realtà prima, poi di nuovo da dimostrare…, e allora non c’è più nulla di sicuro!
Intervento: Non solo: se la maggiore e la minore non sono vere, e non soddisfano l’ipotesi, tutto il sillogismo continua a essere vero nel senso che in quel caso non è applicabile. Quindi quando non è applicabile continua a essere vero, perché quando è applicabile è vero.
Archiati: Cioè è immanentemente vero, non ha bisogno che 1 e 2 vengano dimostrati dal di fuori.
Replica: Appunto. Se non sono vere la maggiore e la minore non è applicabile, ma questo non significa che non sia vero, perché è vero appunto quando è applicabile.
Archiati: E quando è applicabile è vero in assoluto, questo è il punto.
Intervento: Però bisogna anche decidere insieme se è applicabile. Al liceo si faceva questo scherzetto:
il camino fuma
mio zio fuma
mio zio è un camino
Non è applicabile, però è sempre lo stesso gioco, no? Però le prime due non è possibile metterle insieme. È un gioco di parole, no?
Archiati: Questo è perché noi siamo stati inficiati proprio dal relativismo, questo dogma terroristico che è invalso e che vuole impaurire gli spiriti umani. Siamo abituati a mettere in questione tutto, a mettere in forse tutto e diciamo: Caio è un uomo vabbé, se è un uomo è un uomo, la seconda, la minore, non è il problema. Il problema è la prima, perché uno dice: tu sei sicuro che tutti gli uomini sono mortali? Ma come fai a essere sicuro?
Adesso faccio un altro tentativo e dico:
1. Tutti gli uomini incarnati hanno un corpo
2. Caio è un uomo incarnato
3. Caio ha un corpo
Siamo un po’ più vicini alla certezza? Adesso pensateci un momentino, prima di dire subito l’impressione che vi fa, perché le cose sono troppo serie, sono troppo importanti: vogliamo mettere in dubbio tutto, ma è soltanto un terrorismo del relativismo, che è scemenza spirituale e nient’altro!
Caio è un uomo incarnato, dunque Caio ha un corpo: questione di opinione? È cambiato qualcosa?
Intervento: Il mio problema è, da qualche tempo, quello di cercare di capire dove il pensiero può arrivare alla verità. Se ho ben capito, tu hai detto: il pensiero è il veicolo e l’attività del pensare produce la verità.
Poi gli esempi che sono stati fatti su Newton, sulle ripetizioni di Goethe che ha corretto o chiarito il pensiero non completo di Newton, il concetto della ripetitività della scienza, che appunto parla di pensiero soggettivo per definire un qualcosa di questo genere – dove quello che scopro io può essere un concetto analogo, come hai detto tu, al concetto altrui però perfezionato per certe cose e via dicendo – mi portano a domandare: ma allora la verità nella scienza, c’è o non c’è? Perché mi interessa molto la scienza, per la filosofia sono poco colto. Secondo me c’è la verità per la scienza. A piccoli passi andiamo verso questa verità.
Archiati: Secondo la scienza c’è.
Replica: No, è una mia personale intuizione. Secondo me c’è una verità che, attraverso il metodo di studio scientifico, man mano viene sempre più intuita, resa accessibile e via dicendo. Ma si può fare, per quanto ne so io, soltanto a piccoli passi conoscitivi, nell’evoluzione umana che approfondirà sempre meglio, nel tempo, quelle che sono le realtà, tramite le percezioni che sono migliorabili con le nuove strumentazioni, tramite i concetti che sono migliorabili anche dando eventualmente con la fede credito a chi li ha scoperti, e a chi li ha espressi prima di noi ecc…
Dunque mi sembra quasi impossibile che, al momento attuale, si possa nel mondo scientifico arrivare col pensiero alla verità assoluta. Ecco, procedo bene come pensiero fin qui?
Archiati: Vai benissimo, non hai detto la cosa più importante, ma quello che hai detto va bene. Secondo me manca la cosa più importante di tutte.
Replica: Ecco qua. E sarebbe?
Archiati: Ed è che nella scienza moderna manca quasi del tutto il pensare, e perciò manca la verità. Perché manca il pensare! Pensa di pensare, ma non pensa. La scienza moderna è fatta quasi tutta di catalogazioni, sistematizzazione delle percezioni, ma catalogare e sistematizzare le percezioni non è pensare, è descrivere. Il pensiero proprio manca e perciò non ha la verità, e perciò vanno da una ipotesi all’altra e vengono con la trovata bacata del relativismo, perché intendono dire: visto che il pensare non ce l’abbiamo noi, non ce l’ha nessuno.
Replica: Mi puoi dare un esempio di scienziato che pensava in maniera corretta?
Archiati: Un esempio classico è Goethe, però andrebbe studiato. Prendiamo l’interazione tra i fenomeni di coscienza, che non sono materiali, e l’elemento del cervello, le sinapsi del cervello, gli elementi neurosensoriali del cervello ecc., che sono materiali.
Il 99% degli scienziati ti dicono: si tratta di descrivere quello che vedo, quello che percepisco. Finché descrivono ciò che sensibilmente si percepisce, vanno bene, e diventa sempre più sottile, come tu dicevi, la capacità di percezione; però, questo delle sempre maggiori percezioni, è un fattore quantitativo, che non serve a nulla per evincere la verità.
In fatto di percezioni la scienza è dotata di strumenti avanzatissimi. Prendiamo un esempio: c’è una persona che dorme, gli mettono attorno al cervello dodici o venti o ventiquattro catodi, che rilevano tutte le pulsazioni del cervello e a seconda dei cambiamenti gli scienziati dicono se sta sognando o se non sta sognando. Poi, quando la persona si sveglia, si fanno dire: tu, a quel punto lì, a quell’ora là, o appena prima di svegliarti hai sognato, ecc…
Rilevando i cambiamenti nelle percezioni del cervello, facendosi dire dall’altro che cosa ha sognato (perché quello non lo si può percepire), vogliono spiegare i fatti di coscienza, la verità oggettiva di come stanno le cose. Però non notano, non si rendono neanche conto, perché non conoscono un’alternativa, che fanno un’ipotesi di fondo. E siccome non conoscono un’ipotesi alternativa, si dimenticano che è un’ipotesi e la mettono come dogma: che tutto ciò che avviene nel cervello è la causa di ciò che avviene nella coscienza, e ciò che avviene nella coscienza è l’effetto.
Questo io lo chiamo assenza assoluta di capacità pensante, di forza pensante. Perché dire che la materia causa qualcosa è il capitolare assoluto, è l’auto-negazione dello spirito.
Replica: Tra scienziati che pensano serenamente e procedono anche onestamente col pensiero in quello che fanno, questo è un cattivo far scienza, è un non essere scienziati. Invece lo scienziato attuale, non dico necessariamente spiritualista, dice: io per piccoli passi vado verso quella che è la realtà. E man mano che trovo qualcosa do un contributo, ma non metto necessariamente come base che è il cervello che produce, come ho sentito più volte dire. No! Si studiano le espressioni del cervello, ma di lì a ricavarne un concetto, o una nuova teoria, o qualcosa del genere, è proprio la critica principale che si fa nella scienza: non si può arrivare al concetto definitivo, troppe volte la scienza ha sbagliato tirando fuori cose che si sono rivelate da correggere.
Archiati: All’inizio hai ripetuto di nuovo un’ipotesi fondamentale: io per piccoli passi arrivo alla verità. Lo scienziato fa l’affermazione abissale, che è la negazione del pensiero e dello spirito, che man mano che fa passi nel percepibile arriva alla realtà. In altre parole, la realtà la trovo nel percepibile.
Replica: Un momento, la trovo anche nel ragionamento, nel pensiero che ricavo dal percepito.
Archiati: No, no, e quali sono i passi nel ragionamento?
Replica: Che se tu sei arrivato fino ad un certo punto, io arrivo appena più in là, dopo tu vai più avanti ancora…, ecco, così procediamo, ma togliendo l’assolutezza della verità nel pensiero, perché troppe volte hanno sbagliato i grandi nomi della scienza che hanno espresso formulazioni di teorie che si sono poi rivelate errate, o meglio non complete. Questo però è il risultato dell’attività del loro pensiero, del loro come di quello di altri.
Archiati: No, io sto dicendo che era un risultato della mancanza del pensare. È questo che sto dicendo. E perciò un Tommaso d’Aquino ti dirà: Aristotele non erra. Ma non dirà mai che uno scienziato non erra.
Replica: Ma Einstein non aveva percezioni, aveva calcoli fatti da altri, aveva dato fede a espressioni, a formulazioni altrui, ci aveva ragionato su e vedi che razza di passo avanti che ha fatto fare all’umanità!
Archiati: No, no, per nulla! La relatività particolare e generale di Einstein è un passo enorme indietro rispetto al pensare, rispetto allo spirito umano! È un’assurdità assoluta! Ci sono conferenze intere di Steiner su questo, che già lo conosceva, a quei tempi. C’è una conferenza intera agli operai del Goetheanum sulla relatività di Einstein – immaginate, è del 1920 – e dice: questa relatività di Einstein è l’autonegazione dello spirito pensante, perché questo Einstein dello spirito pensante e creatore non ha neanche la minima idea, neanche la minima idea!
Volevo dire, ma naturalmente ognuno di voi poi se ne fa quello che vuole, che io un po’ di Einstein l’ho letto: tra l’altro all’università qui a Roma, abbiamo fatto semestri interi sulla relatività particolare, sulla relatività generale, e io in quel poco che so di Einstein, un po’ più di poco, non ho mai trovato un minimo di pensiero. Niente, assolutamente niente. E sono sicuro che Aristotele e Tommaso d’Aquino mi darebbero ragione, e uno Steiner me la dà con le conferenze che ha tenuto.
Intervento: Neanche l’intuizione?
Archiati: No, proprio non sanno neanche cos’è il pensare, perché è nato in una umanità che se lo deve tutto conquistare. Aristotele sapeva cos’è il pensare, Tommaso d’Aquino sapeva cos’è il pensare, ma un Einstein non ne ha la minima idea, proprio non lo sa cos’è, e non lo sa fare, non lo conosce, non è capace di pensare, dice un’assurdità dopo l’altra.
Buonanotte!
Domenica 30 settembre 2007, mattina
Buona domenica a tutti quanti!
Questa mattina, essendo domenica, pensavo di prendere l’avvio da una riflessione che risulta da quello che ci siamo detti in questi giorni, e cioè: cosa intendiamo quando parliamo del pensare, dell’attività cerebrale di farsi dei pensieri, di accompagnare tutto ciò che avviene ai nostri sensi, ai nostri occhi, alle nostre orecchie, con delle belle pensate – belle più o meno, a seconda della testa che ci portiamo sulle spalle, e a seconda anche di come abbiamo coltivato la nostra facoltà pensante.
Il pensiero fondamentale era che l’essenza, proprio la natura dell’essere umano, è che, a differenza della pietra, della pianta e dell’animale, ha la capacità in assoluto, ha la facoltà – e tocca ad ogni essere umano svilupparla e attivarla – di accompagnare con delle riflessioni tutto ciò che percepisce con la varietà dei sensi che ha.
Questa attività spirituale – che passa in sordina perché si compie spiritualmente, perché uno non la nota neanche, la fa continuamente, è talmente abituato e la sa fare così bene perché le parole del suo linguaggio le capisce tutte e così si muove un pochino tra parola e concetto, insomma sa il significato –, questa realtà del pensare è molto esile, apparentemente molto esile nei confronti di questa temperie di materialismo, che è il soverchiare, l’imporsi dell’impatto del mondo della percezione.
Ciò comporta un retrocedere del pensare, un diventare sempre meno notato, ancora meno di tutto ciò che avviene spiritualmente nella nostra testa. Già è così esile perché è spirituale, poi, se le percezioni diventano sempre più bombardanti, allora diventa ancora più difficile rivolgere l’attenzione a questo elemento che in fondo ci è molto più essenziale che non le percezioni.
Le percezioni vengono dal di fuori, le percezioni sono così come sono, non sono io a combinarle: il volto di una persona è così com’è, io lo percepisco, invece i pensieri che io mi faccio sul mondo, su ciò che mi viene incontro ecc, quella è una faccenda mia, anche se non me ne accorgo.
Quello che noi stiamo facendo è cercare di accorgerci di questo elemento così fondamentale, che passa inosservato perché ci siamo dentro. Stiamo cercando di rivolgervi l’attenzione.
La prima domanda è: ma cosa faccio, io, continuamente? Penso, penso, penso.
Poi l’altra domanda, ancora più importante: c’è forse la possibilità di progredire, di fare evolvere questa capacità che mi è data come facoltà di pensare?
Il pensiero che volevo esprimere questa mattina, un pensiero domenicale – Dominus è il Signore, è l’essere umano come Signore della realtà –, è che l’uomo può dominare la realtà, può gestirla sovranamente soltanto col pensare. Nella misura in cui conosce la natura dei fenomeni, può intervenire.
Allora diciamo che se è vero che l’essenza dell’umano è la libertà, cioè che l’essenza del mio io non è la natura in me (perché quella è l’essenza della natura) ma è quello che faccio io, allora c’è una realtà sola che dipende tutta da me, dove faccio tutto io: ed è il pensare.
Il mio pensare è l’unica realtà dove sono io e soltanto io a decidere ciò che avviene e ciò che non avviene. Il pensare è l’elemento assoluto della libertà, perché nel pensare di ogni persona avviene, o non avviene, soltanto ciò che ci mette o non ci mette lei.
Nel pensiero di una persona non ci può mettere mano nessuno dal di fuori: più liberi di così non si può essere!
In tutto il resto che c’è non sono mai del tutto libero, perché ci mettono mano tutti quanti: il mondo, la natura, il Padreterno, quello che volete. C’è soltanto una realtà, e questo le dà uno spicco assoluto, dove sono io e soltanto io a decidere ciò che avviene e ciò che non avviene, ed è il pensare.
Uno che sproloquia là davanti, sul palcoscenico alto quasi un metro, non ha nessuna possibilità di intervenire nel mio processo di pensiero: può espormi dei bellissimi pensieri, se è fortunato, ma il mio pensare è il modo in cui io prendo posizione. Quello è il mio pensare. Il suo pensare è affar suo, ma il mio pensare è come io prendo posizione, sono i pensieri che io mi faccio sui suoi pensieri – e quelli sono affari miei, al cento per cento.
Allora il pensiero che segue a ruota, un altro pensiero domenicale, è che la domenica è il celebrare la chiamata dell’essere umano a diventare creatura del Logos – l’Essere del Sole è il Logos –: è pulizia di pensiero, chiarezza di pensiero, è far luce sugli eventi del cosmo, è capire sempre meglio il senso dell’evoluzione.
Quindi celebrare la domenica significa cogliere il peso morale del pensare. La responsabilità morale suprema che ogni uomo ha è nei confronti del suo pensiero, proprio perché tutto il resto dipende soltanto in parte da lui.
Provate voi a migliorare il mondo. Tanti ci hanno provato, poi hanno detto: ma lasciamo perdere, il mondo non si cambia.
Provate invece a migliorare ognuno il proprio pensiero. Lì sì, è possibile! Quindi la responsabilità morale nei confronti della mia capacità di pensiero, e la responsabilità di esplicarla, di portarla avanti sempre di più, questa responsabilità morale ce l’ho soltanto io.
In chiave di morale tradizionale, pensate a quanti valori morali, a quante responsabilità morali vengono espresse, a come viene espresso il bene, e non troverete quasi mai, o addirittura mai, un riferimento al lato morale del pensare. Mai viene detto: il tuo pensare, il tuo pensiero, è il valore morale, il bene morale supremo, perché tutto dipende dal tuo pensiero.
Un essere umano è tanto libero quanto sa pensare. Se non capisce nulla è in balìa degli altri, può venir manipolato a tutti i livelli.
Se il valore morale supremo è la libertà, e se l’elemento della libertà per eccellenza è il pensare, vuol dire che il bene morale supremo è il pensare, la qualità del pensare.
E l’altro pensiero, che pure segue a ruota, è questo: amare un altro spirito pensante significa volere, desiderare che anche lui possa far di tutto per crescere nella capacità di pensare. Amare è favorire dal di fuori il cammino pensante dell’altro, mettendogli a disposizione tutti gli strumenti, tutti gli stimoli che si possono dare dal di fuori, perché soltanto così va avanti, soltanto così diventa più libero e capace di amare.
Io non posso amare ciò che non conosco, perché amare significa sapere ciò che è bene per la persona che si ama. Si può sapere ciò che è bene per la persona che si ama? Quel che ha da fare, lo deve sapere lei, però, a livello essenziale, certo che possiamo sapere ciò che è bene per la persona amata, proprio per il fatto che la persona amata, o le persone amate, sono esseri umani. Chiunque sia la persona che io cerco di amare, sono sicuro che c’è un bene supremo per lei che io posso amare, ed è il suo pensiero.
Come poi il suo pensiero si individualizzi e si esprima in un modo del tutto particolare, quelli sono affari suoi, che non mi riguardano; la cosa che mi riguarda è che amare l’altro significa mettergli a disposizione tutti gli strumenti di cui si può valere per pensare sempre meglio. Lì vado sicuro e posso dire con certezza: questa persona l’ho amata.
Perché ho amato il Logos in lei, la forza del Logos, ho amato la sua libertà, ho amato la sua autonomia interiore, perché pensare sempre meglio significa diventare sempre più autonomi, sempre meno dipendenti dai pensieri altrui. Amare l’altro significa, al livello sommo e più profondo che ci sia, amare il suo pensiero: io non posso gestirlo dal di dentro, però posso fare tantissimo per favorirlo dal di fuori.
C’è una bella differenza, per esempio, se un medico interiormente gioisce del fatto che il paziente capisca sempre di più ciò che gli sta facendo, o se invece interiormente desidera che il paziente resti all’oscuro in modo da poterlo manipolare e fare quello che vuole, senza dargli la possibilità di vedere se è bravo o se non è bravo. Dicevamo ieri che l’essenza del potere è non amare, non desiderare l’autonomia dell’individuo. L’essenza dell’amore è desiderare l’autonomia dell’altro.
Sto dicendo cose che sono talmente ovvie! Sono evidenti, e sono sicuro che la vostra mente, nella misura in cui ci capiamo, vi dice: eh sì, per forza, non può essere che così.
Però il pensare è fatto per articolare anche le cose più evidenti, altrimenti le dimentichiamo perché il mondo della percezione è l’analisi del cosmo, è l’atomizzazione del cosmo: quindi, se ci fissiamo sul mondo della percezione, frammentiamo la vita. Invece il pensiero è l’elemento di sintesi, e quindi è giusto che in chiave di pensiero ritorniamo ai valori che sintetizzano un po’ il tutto – la libertà, l’amore.
Libertà significa diventare sempre più autonomi nel pensare, e amore significa gioire dell’autonomia dell’altro nel suo pensare e favorirla, desiderarla, augurarla, perché è una gran bella cosa, perché colui che vive la responsabilità morale nei confronti del suo pensiero lo porta avanti, e camminare nel pensiero significa avere sempre meno paura di essere messi nel sacco. Se uno cammina nel suo pensiero sa come difendersi sempre meglio, e siccome non ha paura di essere messo nel sacco dal cervello altrui, gode di ognuno che sa pensare.
Nei dialoghi di Platone, siccome Socrate era per antonomasia una persona che non si poteva mettere nel sacco – perché era lui il sacco! –, c’è proprio questo elemento animico del godimento di Socrate a non dire lui stesso, a non propinare lui nessuna idea. Godeva a sentirsi come una levatrice: io posso tirar fuori da te, dal tuo comprendonio, soltanto quello che c’è dentro. Lo sai, però articolalo, tiralo fuori, ce l’hai dentro… La facoltà del pensiero ce l’hanno tutti: tu esercitala, tira fuori, ecco, guarda!, adesso hai detto questo pensiero, però non hai pensato a quest’altro...
Siccome Socrate si muove così signorilmente nell’elemento del pensiero, e quindi non teme l’emergenza del pensiero altrui, lo favorisce, lo ama. L’esperienza terapeutica dei dialoghi di Platone è qualcosa di contagioso, perché si vede l’amore al pensiero, non soltanto al proprio pensiero, ma anche a favorire quello dell’altro.
Perché non vengono più studiati i dialoghi di Platone? Perché l’umanità è diventata poverella! Sprechiamo un sacco di energie, di tempo, per cose marginali, e per le cose più belle non ci restano energie. La formazione, l’educazione, non ci prepara; perché se noi avessimo i maestri di cui parlavamo ieri, innamorati del pensare, dell’elemento solare della conoscenza, della liberazione dello spirito che diventa sempre più creatore, se avessimo dei maestri che hanno dentro di sé questa ricchezza spirituale, la comunicherebbero contagiosamente. Ho preso i dialoghi di Platone, ma possono essere anche altre cose, Dante, per esempio: e siccome è nella natura umana la tensione ad essere uno spirito creatore, ed è quello che i bambini cercano, avremmo una società dove spenderemmo molto più tempo sui dialoghi di Platone e molto meno tempo sulle stupidaggini che ci riempiono la vita.
Ma come si può arrivare al punto che il soldo è diventato più importante del pensare? Il denaro è la noia della vita, anzi, spesso è peggio che la noia, è lo scannarsi a vicenda.
Il pensare è la ricchezza della vita, il godere del vivere nella pienezza. Se poi vogliamo dire che è più facile correre dietro al denaro che correre dietro al pensiero, questo senz’altro; ma il più facile, però, ci dà meno soddisfazione di ciò che è più impegnativo. È ovvio.
Quindi riassumo il mio pensiero di questa mattina dicendo – non in chiave moralistica – che la responsabilità morale più grande di ogni essere umano è nei confronti del suo pensare, perché lì è lui il solo artefice, nessun altro è corresponsabile.
E la chiamo responsabilità morale non nel senso del «tu devi», ma nel senso che è quello che tu desideri e vuoi come la cosa più bella che ci sia. Però la possibilità di coltivarla è tutta tua, e dal di fuori, se sei fortunato, ti può venire soltanto un aiuto, un incentivo, quello che si vuole, ma mai dal di fuori una cogestione del tuo processo pensante.
Allora si capisce perché anche in Italia, dove il linguaggio non è così incentrato sull’elemento puro del pensiero, ci sono persone, ed è una cosa molto bella, che addirittura si prendono la briga di passare diversi seminari su un testo fondamentale della formazione del pensiero. È proprio una gran bella cosa!
Quando ho proposto gli incontri sul Vangelo di Giovanni[10], contavo che un paio di persone venissero, visto che abbiamo una strascica di fatiscente cristianesimo di duemila anni. Dicevo: può darsi che ci sia qualcuno interessato al Vangelo di Giovanni, perlomeno come reazione alla Chiesa cattolica in Italia. Ma per La filosofia della libertà stavo proprio a vedere, e appena ho visto che c’erano più di un centinaio di persone è stata per me una gioia grandissima, ve lo posso dire con tutta sincerità. E non molliamo, perché all’inizio, sì, io farò di tutto per non rendere noiosa la cosa, ma bisogna non mollare, perché il pensare è una cosa seria, e non avanza sull’onda di un primo entusiasmo.
È una disciplina dell’uomo pensante che porta i frutti più belli, i più profondi, a lunga scadenza, non soltanto a corta scadenza.
(III,10) Con l’espressione «io penso ad una tavola» {penso sulla tavola, mi faccio pensieri sulla tavola} entro già in quello stato eccezionale sopra caratterizzato in cui diviene oggetto dell’osservazione qualcosa {il mio pensare} che è sempre contenuto nella nostra attività spirituale, ma non come oggetto {direttamente} osservato.
Il pensare è ciò che passa inosservato a me perché lo compio io, lo sforno io, lo tiro fuori io, lo creo io, e l’attenzione è rivolta alla percezione, a ciò su cui penso. Nel momento in cui io, in chiave di eccezione, rivolgo la mia attenzione al mio processo pensante, la cosa, l’oggetto, è via, sparisce. E allora uno mi può dire: ma di che stai parlando? Stai parlando della tavola o stai parlando del tuo pensiero? No, sto parlando del mio pensiero sulla tavola. Un momento, deciditi: o parli del tuo pensiero o parli della tavola! Sto parlando del mio pensiero sulla tavola. Non m’importa del tuo pensiero sulla tavola, dimmi che stai parlando sul tuo pensiero. Stai parlando del tuo pensiero?
In chiave di eccezione, proprio perché il pensare è l’elemento che passa inosservato, uno dice: un momento, un momento, forse è proprio ciò che passa inosservato la cosa più importante che ci sia! Allora uno si chiede: perché passa inosservato? Perché è una creazione spontanea, perché non crea mai problemi: quando una cosa crea problemi la noto, ma il pensare non crea mai problemi, perciò è inosservato, funziona tutto benissimo.
Se io adesso cominciassi a parlare in cinese – non lo so il cinese, eh?! – non passerei inosservato, il vostro pensiero non vi passerebbe inosservato perché all’improvviso si fermerebbe e non capireste più nulla. Finché capite quello che sto dicendo, perché è in italiano, vuol dire che state pensando, ma vi passa inosservato il vostro pensiero, perché tutto funziona liscio liscio.
Il pensare è la cosa che passa più liscia che ci sia, perché è la nostra natura. Tu capisci quello che sto dicendo adesso?
Intervento: Sì.
Archiati: Sì, e non hai dubbi?
Replica: No.
Archiati: No, proprio no, perché se capisci, capisci. E con che cosa capisci?
Replica: Col pensare.
Archiati: Col pensare. È una cosa fenomenale! Ed è passibile di evoluzione all’infinito, se io me ne accorgo e comincio a porre attenzione a questo elemento che mi è dato dal lato della potenzialità assoluta: il suo sviluppo è lasciato a me.
E allora uno dice: no, no, non mi accontento più di farlo sviluppare così, soltanto a ruota libera, di far saltar fuori quello che viene da sé.
Quand’è che nel pensiero salta fuori soltanto quello che viene da sé? Quando mi abbandono al linguaggio. Soprattutto al linguaggio materno, naturalmente. Il linguaggio è automatismo di pensiero, soprattutto la lingua materna, altrimenti tu fermi chi sta parlando e dici: ma cosa intendi?, spiegami ecc. Perciò vi ho preso in castagna sulla lingua materna, perché parto dal presupposto che capite esattamente quello che sto dicendo.
Allora, a che serve questo automatismo del pensare sull’onda del linguaggio? Serve a che io mi accorga che il pensare mi è offerto dal lato di minima attività, per lasciare a me, alla mia libertà, di metterci dentro sempre più attività. È semplice la cosa, basta capirla. Uno la può aver capita una volta per tutte, ma poi il lavoro va fatto.
E il lavoro comincia dicendo: un momento, un momento… questa parola «bontà» la conosco, so che significa la parola, so che significa, so che significa bontà, so, so, so... Sì, tu sai cosa significa bontà perché sei italiano, ma non lo sai cosa significa, senti cosa significa, l’animo te lo dice, hai un sentore.
Spiega a uno straniero che vuole imparare l’italiano cosa vuol dire bontà, vi dicevo. Adesso devi far sorgere il concetto, devi passare dalla sfera del sentimento, dove sai per sentimento cosa significa bontà, alla sfera del pensare, devi comunicarlo a uno che non ha il sentimento, cui la parola bontà non dice nulla, non gli evoca nulla.
Tutta l’area semantica del linguaggio ci dà un sentore, quindi «sappiamo», tra virgolette, cosa vuol dire bontà. Ma quando lo devo spiegare a uno cui questa parola non evoca nulla, non so cosa fare. Perché? Perché vengo costretto a passare dal livello del linguaggio al concettualizzare: devo esprimere il concetto di bontà, e quello è difficile, è una cosa non da poco.
Per cogliere il concetto devo distinguere tra ciò che è essenziale alla bontà, che non può mancare altrimenti non è bontà, e ciò che invece è accidentale. L’accidentale ci può essere o non ci può essere, ma l’essenza non può venir toccata, ci deve essere, altrimenti non è bontà. Che cosa è essenziale alla bontà? Ditemi anche soltanto un elemento.
Intervento: Il cuore.
Archiati: Eh, da una parola che io non conosco perché sono cinese, sei andata a un’altra parola.
Intervento: Bene. Voler bene.
Archiati: Cosa state facendo? State usando un’altra parola, fate un discorso di sinonimi che serve solo a chi capisce il linguaggio italiano! Quindi non mi avete spiegato nulla!
Intervento: Posso dare un’immagine di cose buone.
Archiati: No, se tu fai immagini di cose buone, presupponi che si sappia cos’è il buono.
Intervento: È una modalità di rapporto fra esseri umani.
Archiati: Ecco, qui ci sono dei concetti. Per la prima volta uno ha detto una frase, altrimenti sono soltanto singole parole. Articolando una frase lui ci ha messo dei concetti: rapporto è un concetto, un modo di interazione. E il modo di interazione è essenziale alla bontà, o invece è la bontà un modo intrinseco dell’essere?
Ecco, qui si comincia a discutere, però cominciamo a discutere sul concetto, vedi? E ci chiediamo: cosa è essenziale alla bontà? È essenziale il carattere di rapporto. E cosa non è essenziale? Allora siamo a livello dei concetti.
Io dicevo: lì è tutto da fare, a livello dei concetti è tutto da fare, perché viviamo in una cultura che non fa nulla, anzi fa tutto contro il favorire l’individuo nel suo cammino di pensiero. Perciò è tutto da fare, cosa bella se volete, però la vita diventa più bella solo se lo facciamo, questo lavoro!
III,11. La peculiare {speciale, particolare} natura del pensare consiste nel fatto che il pensante dimentica {disattende} il pensare mentre lo compie.
Più che dimentica, disattende il pensare, perché il dimenticare presuppone un ricordare, un esserci stato dentro coscientemente. Dimenticare vuol dire che prima era nella mente e in seguito viene dimenticato. Quindi «disattende» sarebbe meglio. Perciò, vi dicevo, tradurre un testo come La filosofia della libertà presuppone nel traduttore, tra le altre cose, anche un minimo di formazione filosofica, cioè di aver masticato un pochino i processi, le leggi del pensiero.
(III,11) Non è il pensare che occupa il pensante, ma l’oggetto osservato su cui pensa.
Questa tavola è fatta così, c’ha tante gambe, è alta così, il colore è così, la forma è così ecc… E chi dice tutte queste cose, chi pensa tutte queste cose sulla tavola? Io. Però io non penso al me pensante – sto pensando alla tavola, sto esprimendo pensieri sulla tavola –, e il fatto che sono io ad esprimere pensieri sulla tavola non lo noto, perché è la mia attività spontanea, è il mio essere.
III,12. La prima osservazione che noi facciamo attorno al pensare è quindi questa: che esso è l’elemento inosservato della vita ordinaria del nostro spirito.
Il pensare è l’elemento inosservato del mio vivere nel mondo: normalmente, spontaneamente passa inosservato. Cos’è che passa inosservato? Ciò che funziona bene! Finché la lavatrice funziona bene, io guardo la biancheria non la lavatrice; quando si rompe, sono costretto a porre l’attenzione sulla lavatrice.
Finché il pensare va bene non lo noto perché va bene. Quindi il pensare è la cosa che funziona meglio di tutte perché ci è innato. Una gran bella cosa! Nel momento in cui non funzionasse, saremmo costretti a porci l’attenzione.
III,13. La ragione {il linguaggio tedesco dice der Grund, il fondamento. Si tratta di fondare perché è così: te lo fondo, ti do il fondamento, ti do la roccia su cui si fonda questa cosa} per la quale noi, nella vita quotidiana dello spirito, non osserviamo il pensare, consiste proprio in questo fatto: che il pensare si basa sulla nostra propria attività.
Il tavolo non l’ho fatto io, il legno nemmeno, quindi mi devo chiedere: un momento, qua cos’è questo? cos’è quest’altro? che legno è? ecc… Tutte queste domande di estrinsecità che devo porre e alle quali devo rispondere perché non so, non so, non so, tutte queste domande non sono sul pensare – perché sul pensare so tutto quanto, sono io a produrlo. Ciò che io non capisco è ciò che non penso, perché ciò che penso lo capisco. Perciò nel pensare non ci sono mai problemi, perciò passa inosservato.
Allora di nuovo la domanda: si può pensare sbagliato? No, non è possibile pensare sbagliato, si possono solo perdere colpi, ma non mi accorgo che perdo colpi.
Intervento: Ieri non avevo capito questo, oggi l’ho capito!
Archiati: Finalmente!
Intervento: Vorrei chiedere una cosa importante…
Archiati: Oh, adesso perché tu hai una cosa da dire, dobbiamo stare tutti ad ascoltare? E io? Ma un po’ di solidarietà col povero relatore che deve leggere, non c’è?
Dal pubblico: [Un modesto applauso]
Archiati: Mah, questa solidarietà mica mi convince…
Intervento: Tanto sappiamo che te la godi!
Archiati: Giusto!! Del resto, questo breve rintuzzo, è puro amore all’assemblea.
Replica: Certo, certo…
Archiati: Vedi che siamo d’accordo? III,13 «La ragione per la quale noi, nella vita quotidiana dello spirito, non osserviamo il pensare, consiste proprio in questo fatto: che il pensare si basa sulla nostra propria attività». Però uno può chiedersi: ma se è la mia propria attività, perché deve passare inosservata? Spiegami perché le due cose.
Intervento: Era proprio su questo che volevo fare la domanda!
Archiati: Non me ne va bene una, eh?! Io pensavo di fare una pausa che crea una suspense pensante, e lei ti arriva e mi smonta tutto quanto!
Mi veniva un’immagine: il violinista sta suonando il violino: o si concentra sulla musica, e allora la sua attenzione è rivolta alla melodia, è rivolta alla musica, ai suoni, o si concentra sullo strumento.
Intervento: Su tutti e due.
Archiati: No, no, non è giusto dire tutti e due: se sono tutti e due, allora l’intensità è diminuita da tutte e due le parti. Se si concentra sulla strumento anche in minima parte, vuol dire che diventa meno bravo dal lato della musica. È così! Quindi l’immagine calza.
Adesso trasportiamo questa immagine al pensare: o io sono concentrato sulla tavola di cui sto parlando, e allora non posso contemporaneamente essere concentrato sul pensiero che esprimo sul tavolo, oppure, se sono costretto a concentrarmi sul pensiero, è perché mi sono inciampato nel pensiero. Nella misura in cui io sono bravo nel pensare mi concentro sul tavolo, sulla cosa di cui sto parlando, e il fatto che sono del tutto concentrato sul tavolo dimostra che in fatto di pensiero va tutto bene.
Però il paragone va ripetuto come una meditazione, perché inverte un pochino. La musica è qualcosa di spirituale e lì ci concentriamo sullo spirituale, invece qui il tavolo è materiale, la concentrazione è sul tavolo.
Quindi questo esercizio, se è ripetuto come esercizio di meditazione sul pensiero, ha il vantaggio che, invertendo il rapporto, ti costringe a fare ancora più attenzione, e allora uno si rende conto che, certo, il motivo fondamentale per cui il pensare passa inosservato è che va tutto bene nel pensare, e va tutto bene perché è la mia creazione.
Un altro esempio, più facile però: c’è un bambino piccolo, appena nato, e la mamma che si prodiga. La mamma è concentrata sul bambino o sul suo amore per il bambino?
Intervento: Sul bambino.
Archiati: Sul bambino. Pensa: ma quanto sono amante io?, è giusto il mio amore? No. E perché il suo amore passa inosservato? Perché è la sua creazione, è lei, è il suo essere. Nel momento in cui rivolge l’attenzione, l’osservazione sull’amore, è perché si è intoppato qualcosa. Sono sicura che questo fa bene al bambino? Allora pone una domanda sull’amore.
Intervento: Infatti se il bambino si ammala ti domandi: perché? cosa sto facendo di sbagliato?
Archiati: Quindi quando qualcosa va male sei costretto a riflettere sull’elemento che quando tutto va bene non noti. Il fatto che non lo noti ti dice: tutto va bene. E perché va tutto bene? Perché è la tua creazione, sei tu! Una mamma che è mamma è piena d’amore per il bambino (se no non è mamma), e allora va tutto bene.
Supponiamo una mamma moderna che queste forze non ce le ha, e deve comprare un libro che le dica come si tratta il bambino piccolo. Se io avessi detto a mia mamma che adesso ci sono mamme che comprano un manuale, non avrebbe neanche capito di che cosa stessi parlando. E io dico: mamma, non importa che tu abbia capito, l’importante è che io abbia avuto una mamma così! Perché oggi non si sa mai che tipo di mamma si piglia!
Ciò che vale per l’amore vale a maggior ragione per il pensare: l’amore si nota un pochino di più che non il pensare, il pensare si nota di meno perché è luce pura. Quando la luce è accesa – ecco un’altra immagine: tutti esercizi di pensiero che poi ognuno, se vuol camminare nel pensiero, deve fare da solo, anche se io qui li spiffero fuori –, quando la luce è accesa io non dico: qui c’è luce, c’è luce! No, guardo le cose.
Quand’è che mi concentro sulla luce? Quando si spegne, perché allora non vedo più nulla, o ci vedo poco. Il pensare è pura luce, però illumina le cose, non fa disquisizioni sulla luce. La luce non è fatta per parlare della luce, si parla della luce soltanto quando non funziona.
Non so se conoscete la battuta in italiano – anche di questa battuta si può fare una meditazione, il pensare può fare di tutto una pensata, questo è il bello! La meditazione cos’è? In linea ideale, meditare significa farsi le più belle pensate che ci siano, allora è una meditazione. La vita ordinaria sono le pensate in minore, la meditazione sono le pensate in maggiore, non nel senso musicale, però, capito? –, la battuta di due che si separano e dicono: ci vediamo. E se non ci vediamo accendiamo la luce!
Qualche volta la dico in Germania e mi chiedono: me la spieghi? Non funziona! Il linguaggio è una serie infinita di funzionamenti, vai in un altro linguaggio e non funziona, e allora sei costretto a fare attenzione al linguaggio. Ma nel momento in cui non funziona.
Intervento: Non capisco: se lo pensiamo in tedesco non possiamo dirlo?
Archiati: No, perché in tedesco non c’è questo gioco di parole per salutarsi: ci vediamo. Qui in sala ci vediamo o non ci vediamo? Ci vediamo perché c’è la luce, ma «ci vediamo» significa anche: ci vedremo di nuovo, ci incontreremo di nuovo. Ogni linguaggio è una serie infinita di cose proprie che un altro linguaggio non ha, così come in tedesco ci sono un sacco di cose che non si possono tradurre. Le barzellette, l’umorismo, i giochi di parole, sono quegli elementi del linguaggio che sono propri di quel linguaggio, li puoi dire soltanto in quel linguaggio e non si possono tradurre.
(III;13) «La ragione per la quale noi nella vita quotidiana dello spirito non osserviamo il pensare consiste proprio in questo fatto: che il pensare si basa sulla nostra propria attività». Cioè nel pensare siamo competenti in assoluto, e quello che ancora non abbiamo pensato, o che non pensiamo, non ci riguarda, ma di quello che pensiamo sappiamo cosa pensiamo, altrimenti chiudiamo il becco.
Quindi l’elemento del pensare è l’elemento in cui l’essere umano è competente in assoluto: sul pensare ci sono soltanto cose belle da dire, sul pensare non si può dire nulla di negativo, perché il negativo sono i buchi del pensiero e non riguardano il pensiero.
(III,13) Ciò che non produco io stesso, si presenta nel campo della mia osservazione come qualcosa di oggettivo.
E lì devo chiedermi: cos’è? com’è? ecc… Lì ho delle domande, ma sul pensare, su ciò che io produco pensando, lì non ho domande, ho soltanto tutte risposte. Tutte le percezioni sono sempre domande, il pensare è risposta, dà le risposte. La percezione mi dice: cos’è? e il pensare dice: è una rosa, non vedi?
Quindi l’essenza della percezione è una domanda posta al pensare, il pensare crea il concetto e dice: questa è la risposta. Chi è quello lì? È un mio amico.
Intervento: Se nel processo del pensare, a un certo punto non avessi una risposta, vorrebbe dire che c’è un buco?
Archiati: Sì, a quel punto lì c’è un buco nel pensare, un vuoto nel pensare: affari tuoi se tu lo colmi o no, ma finché c’è il pensare è pienezza! Questo voglio dire. Quindi non c’è un pensare brutto, no: o c’è o non c’è. E se c’è è giusto, oppure non c’è.
Il problema psicologico di sottofondo è naturalmente il relativismo, il relativismo è un buco nel pensiero su tutta la linea, il relativismo è quel terrorismo ideologico che vorrebbe importi di avere nel tuo pensiero soltanto buchi.
Più ideologico e più terroristico del relativismo non c’è mai stato nulla, perché il pensiero è certezza assoluta – quello che ho, e quello che non ho sono i buchi. Ma dove c’è il pensiero c’è luce. Uno non può dire: sì, ma il fatto che la luce qui sia accesa e ci vediamo è relativo. No, la luce è accesa e ci vediamo, e tu non hai il diritto di sbattere contro di me perché dici: non ci vedo, non c’è la luce! Spostati, ci sono io, qui.
Non mi è mai successo che con la luce, dove ci si vede, qualcuno mi abbia sbattuto contro, quindi non è relativo il fatto che ci si vede quando c’è la luce del pensiero: ci si vede, si va a colpo sicuro, oppure non c’è la luce.
Il discorso del relativismo ve lo sto ponendo io sullo spartiacque tra il sociologico e lo psicologico, ed è proprio un evidenziare l’impoverimento del pensiero, del pensare come fattore culturale, che poi si trasforma in sfida, per l’individuo, a riprendere dal punto zero il pensare per costruirlo lui stesso e farne l’opera d’arte della sua libertà individuale e del suo amore individuale. E allora uno non si lascia intimorire dal terrorismo del relativismo!
(III,13) Io vedo me stesso come di fronte a qualcosa che è sorto senza di me {il tavolo è sorto senza di me, è fuori di me}; ciò viene verso di me, e io debbo prenderlo come il presupposto del mio pensare {la percezione del tavolo è il presupposto del mio pensare}. Mentre io penso attorno a quell’oggetto, io ne sono assorbito, il mio sguardo è rivolto ad esso {non al pensare}. Questa occupazione rappresenta appunto l’osservazione pensante.
Osservo il tavolo e ci penso sopra, dico: è fatto così, è alto così, c’ha tante gambe, serve a questo, è stato usato il legno di un tal tipo di albero ecc… è un’osservazione pensante. L’essere umano è un osservante che pensa, un osservante pensante; in quanto dotato di organi di senso vive nella percezione, a meno che si addormenti, e allora si assopiscono i sensi e si assopisce il pensare. Ma nel momento in cui si sveglia si attivano i sensi, percepisce, vede, sente e pensa, riflette, continuamente pensa.
L’essere umano è un osservatore, un percipiente (perché i sensi sono sempre nella percezione) pensante. Sempre, non può far altro, perché è nella sua natura. Però questo essere pensante mamma natura ce lo dà dal lato di un automatismo massimo, dato dal linguaggio, passibile però di venir sviluppato all’infinito, di venir reso sempre più libero, sempre più autocosciente.
Il pensare di partenza, il pensare comune, non è autocosciente è automatico, quindi meno libero; è bello pensare sulle cose, ma ancora più bello è sapere di pensare e rendersi cosciente che posso pensare sempre meglio. Poi ritorno alle cose e ho qualcosa di più da dire sulle cose, poi ritorno al mio pensare e lo arricchisco, lo approfondisco, adesso, lo rendo ancora più vasto, uno sguardo d’insieme…
L’altalena comincia ad oscillare tra il dimenticarmi come pensante essendo del tutto ancorato all’elemento della percezione, e il continuare a muovermi di qua e di là: un momento, un momento, un momento, qui, se fossi più avanti nel mio pensiero, potrei dire altre cose, e allora cosa posso fare per portare più avanti il mio pensiero per poi ritornare alla percezione e avere qualcosa di più da dire, qualcosa di più profondo, più bello, più vasto, che dà più gioia, più artistico, più creativo? Per far questo devo rendere il mio pensare più artistico, più creativo, più vasto, più profondo…
(III,13) Non alla mia attività, ma all’oggetto di questa attività è rivolta la mia attenzione. In altre parole, mentre penso non vedo il mio pensare che io stesso produco {lo disattendo, non lo noto}, bensì l’oggetto del pensare, che io non produco.
Ma se il pensare funziona così bene, allora lasciamolo stare, no? Sì, funziona benissimo nelle cose terra-terra, ma solo in quelle. Quando invece uno vuol pensare su qualcosa che non è terra-terra, allora si accorge che qualcosa non va e dice: qui il mio pensare fa cilecca, non capisco.
Se non ci fosse l’esperienza del «non capisco», non troveremmo mai la spinta a camminare nel pensare, a farlo evolvere, perché allora capiremmo tutto. Ma una persona che capisse tutto in partenza non capirebbe nulla, perché capire non significa sapere – nel senso della sapienza – ma capire significa render ragione in proprio di ciò che si capisce.
In altre parole, la parola bontà la capisco soltanto quando so renderne ragione a uno che non ne capisce nulla. Finché non la capisco a questo livello, io so cosa vuol dire bontà – per sapienza del linguaggio: la saggezza innata del linguaggio mi dà di sapere cosa vuol dire bontà, ma non di capirlo. Per capire ci devo mettere molto di più: un processo di pensiero tutto mio, che deve conquistarsi il concetto puro, pensante di «bontà», e non basta avere il sentimento che sa cosa vuol dire, perché lo devo spiegare a uno che non lo sa. L’italiano sa cosa vuol dire bontà, e non ha bisogno di capirlo.
Intervento: Deve diventare buono, per capirlo.
Archiati: No, stiamo parlando del concetto. Tu sai cosa vuol dire bontà? Sì, lo sai perché sei italiana. Lo sai. Ma io sto distinguendo tra sapere e capire.
Sapio significa gustare: mmhh, il sapore della parola lo so perché l’ho assaporata tante volte.
Capire è capio, è un agguantare con correnti eteriche che possono afferrare soltanto attivamente. Capisco soltanto ciò che agguanto io. Capio, lo devo agguantare, quindi devo far sorgere correnti eteriche che tastano tutto il concetto e lo comprendono.
Un’altra alternativa per capire è «comprendere», prendere insieme. Devo tastare tutto il confine di questo concetto e poi dire: fin qui è essenziale al concetto, questo è il confine, e oltre il confine c’è l’accidentale. Devo distinguere ciò che è essenziale al concetto di bontà, e ciò che è accidentale, e questo è il processo del comprendere. È un processo attivo, individuale, lo devo generare io, non me lo dà il linguaggio.
Il linguaggio mi dà il sapore di una parola, che è questione molto di più di sentimento, sapio e quindi so, ma sapere viene da sapore, da sentire. Invece nel comprendere c’è il pensiero: per sapere basta il linguaggio, per comprendere, per capire ci vuole il pensare, e il pensare si può gestire soltanto individualmente, liberamente.
Soltanto nella misura in cui capisco cosa vuol dire bontà, lo posso spiegare a un altro, in qualsiasi lingua – perché il concetto, il livello del pensiero, si può esprimere in tutte le lingue e si esprime in tutte le lingue ovviamente –, e allora dico a un inglese: guarda che la parola «bontà» tu magari traduci goodness, perché non hai altre parole, però devi sapere che goodness ha un sapore per chi è di lingua inglese, tutto diverso dal sapore che uno gusta quando sente «bontà».
Non so quanti di voi qui sappiano l’inglese, però chi sa l’inglese mi dirà subito che assapora molto di meno l’inglese o l’americano dicendo goodness, rispetto a quanto assapora l’italiano dicendo «bontà». C’è molto di più, il sapore di questa parola ha una carica molto maggiore. Goodness è come un estratto.
E questo perché? Perché man mano che si va verso l’occidente, la vita diventa sempre più brutale, la società va a gomitate, lo sguardo è fisso sull’elemento terreno dei soldi, non c’è né energia, né comprensione per la bontà e quindi la parola diventa più esile: goodness.
Chi non sa fare niente in questo mondo si tenga la goodness, così spiegherebbe un americano il significato di goodness. Se non sai guadagnare i soldi, vabbè, tieniti almeno la goodness!
Torniamo indietro verso l’oriente, ecco l’Italia con «bontà»: per fortuna il linguaggio, anche se noi diventiamo sempre più materialisti, gli dà una carica particolare, forte. Voi mi direte: bontà è una parola, se siamo onesti con il linguaggio, piena di carica, oppure non è bontà. E questa carica che è proprio essenziale al linguaggio italiano, in inglese non c’è. Perciò se io spiego a un inglese cosa significa bontà in italiano, ad un certo punto mi dice: ma di che stai parlando? È un sapore, un sapere che il suo linguaggio non gli dà, non ce l’ha, perché gli manca l’esperienza.
Andiamo avanti di cento anni, duecento anni e se la bontà, le forze della bontà, diventeranno sempre più esili, anche il linguaggio italiano arriverà a un punto in cui forse i bambini, o anche gli adulti, diranno: «bontà», sì è una cosuccia per chi non sa far altro… Lo notate, però, che non siamo ancora a questi livelli.
Intervento: Stiamo andando in quella direzione.
Archiati: Sì, ma dire che stiamo andando in quella direzione significa che c’è il ricordo di quell’altra realtà. Invece nell’inglese non c’è questo ricordo, non c’è mai stato, sono partiti dalla goodness.
Leggiamo il 14° paragrafo e poi facciamo una pausa.
III,14. Mi trovo nella medesima condizione persino quando lascio avverarsi lo stato di eccezione nel quale penso sopra il mio stesso pensare.
Vale la stessa cosa: se io penso sul mio pensare, il pensare su cui penso è lo stesso che esercito attualmente? No, è della stessa natura ma non è lo stesso, e se fosse lo stesso non ci sarebbe nulla da osservare, perché starebbe ancora in creazione e se non c’è ancora non c’è nulla da osservare.
Per diventare osservabile deve essere percepibile, per essere percepibile non può essere attività ancora in divenire. Lo spirito umano vive l’evoluzione nel tempo proprio in questa scissione del pensare tra l’attività pura nel presente, come presenza di spirito che è attività pura, e il già pensato. Questa è l’esperienza del tempo, solo così possiamo sapere che c’è il tempo.
Uno parla e l’altro dice: ma l’hai appena detto! Che vuol dire: l’hai appena detto? Se si ripete vuol dire che il processo vivente che sforna fuori qualcosa di sempre nuovo si è arrestato, e adesso ci sono soltanto i relitti, torna al relitto: ma l’hai appena detto!
Se è vero che ripete quello che ha appena detto, vuol dire che il processo vivente, il processo di creazione vivente non c’è: creazione vivente significa che sorge sempre qualcosa di nuovo.
Per un pittore che sta dipingendo col pennello, per un Raffaello, è possibile una ripetizione in assoluto? No, non è possibile. Anche se tu vuoi intenzionalmente ripetere la pennellata tale e quale, non sarà mai tale e quale: e questa è un’immagine proprio del pensare, perché una ripetizione pura non esiste, altrimenti il pensare non sarebbe un’attività.
Dove c’è attività non esiste ripetizione pura. Anche un pianista che mi ripete cinque volte la stessa nota, non trarrà mai un suono del tutto uguale, è escluso.
Intervento: Quindi il pensare non è né percepibile mentre lo si sta svolgendo, né è pensabile. Né pensabile né percepibile.
Archiati: Quindi è per essenza l’inoggettivabile.
Replica: E per essere pensato o concepito deve essere oggettivato.
Archiati: Circoscritto, oggettivizzato. Quindi è puro movimento, pura creazione, però creazione in moto, creazione che crea, non creazione già creata. Non è il creato, è il creare. Siccome in tedesco il sostantivo fa anche da verbo, in italiano bisogna avere il coraggio di ricorrere ai verbi, perché il verbo è un’azione, quindi «il pensare» non è lo stesso che «il pensiero» o addirittura «il pensato», o «i pensieri». Noi, in fondo, stiamo cercando di riconquistare anche in italiano, perché di meglio non abbiamo, il concetto del pensare: questo è il concetto con cui abbiamo a che fare, in quanto attività creatrice, spirituale, artistica.
Replica: Un verbo all’infinito, anche.
Archiati: Il verbo all’infinito. Parlare del pensare è un po’ più difficile in italiano. Parliamo del dipingere: qual è il concetto del dipingere?, cosa vuol dire dipingere? Vuol dire essere nell’attività di dipingere, non la puoi circoscrivere perché è aperta: oppure smetti di dipingere. Ma se smetti di dipingere, hai finito di dipingere.
Allora cos’è il dipingere? Attività pura. In realtà, tutte le attività sono sempre impure, non possono mai essere pure del tutto perché hanno a che fare con un oggetto, con un materiale che ha delle leggi ben precise: l’unica attività che ha la possibilità di essere pura perché non consente nessuna passività, è il pensare.
Nel pensare avviene soltanto ciò che io creo, elementi di impurità non ci sono, non è neanche possibile, perché il non pensato non ha nulla a che fare col pensare, sta fuori, quindi va recuperato l’infinito, molto importante come fattore di linguaggio: il pensare. Tanto è vero che il linguaggio, il genio del linguaggio – la lingua italiana non è da poco –, ci consente di oggettivare l’infinito: il pensare.
Cos’è il pensare? L’attività del pensare. È un sostantivo «il pensare»? Sì è un sostantivo, però non circoscrivibile, perché è un infinito, è aperto, è in movimento, è in divenire.
III,14 «Mi trovo nella medesima condizione persino quando lascio avverarsi lo stato di eccezione nel quale penso sopra il mio stesso pensare».
(III,14) Non posso mai osservare il mio pensare presente {perché dovrebbe già esserci per poterci pensare sopra, per poterlo osservare}; io posso solo più tardi fare oggetto del pensare le esperienze che ho fatte riguardo al mio processo di pensiero. Se volessi osservare il mio pensare presente {vedete che qui usa l’infinito?} dovrei scindermi in due persone, una che pensa e l’altra che osserva sé stessa mentre pensa. Ma ciò non posso fare. Posso compierlo soltanto in due atti distinti {nel tempo, uno dopo l’altro}. Il pensare che deve essere osservato non è mai quello che si trova in attività, ma un altro {di altra natura, cioè ha finito di essere attività e quindi è diventato altro; però all’origine era della stessa natura, all’origine però, mentre veniva pensato}. Se a questo scopo io faccia delle osservazioni sul mio stesso precedente pensare, o se segua il processo di pensiero di un’altra persona, o se finalmente io presupponga, come nel caso del moto delle palle di biliardo, un processo fittizio di pensiero, è indifferente.
Quindi il pensare è quella creazione in movimento che non posso al contempo osservare, perché non è osservabile, è un creare puro.
Facciamo una pausa e poi diamo la parola a voi.
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Archiati: C’è qualcuno che ha qualcosa da dire?
Intervento: Volevo sapere qualcosa sui dodici sensi che noi abbiamo e di cui hai parlato ieri. Hai parlato di introspezione anche attraverso i sensi dell’anima. Io sono ferma a sei. Gli altri sei quali sono?
Archiati: Adesso non è il caso di dilungarci su questo dodici, perché sarebbe una scienza tutta a parte. Questi accenni che faccio sono un po’ di straforo, non riguardano La filosofia della libertà, ma li faccio per dire che La filosofia della libertà è un testo fondamentale sul pensare, e il pensare è la porta verso il primo elemento puramente spirituale, dove non c’è la percezione sensibile.
Il concetto fondamentale è questo: nella misura in cui l’essere umano coltiva e fa evolvere sempre di più il suo pensare, entra nella realtà dello spirito con la capacità di pensarci sopra.
Gli esseri spirituali che ci guidano, se ci sono, il Padreterno, perché aspettano a darci la percezione dello spirituale? Qual è la legittimità di avere una percezione? È legittimo avere una percezione soltanto quando si è capaci di pensarci sopra, perché una percezione su cui io non sono in grado di pensare non è una percezione, è nulla.
Quindi il pensare è il presupposto in assoluto: nella misura in cui una persona è arrivata a un certo livello del pensare, tutti i Padreterni di questo mondo, gli Angeli ecc., non aspettano altro che di potergli dare la percezione dello spirituale! Però, se uno ha la percezione senza essere capace di pensare, cosa gli tocca fare? Gli tocca crederci. E allora andiamo indietro, si ritorna bambini: il bambino deve credere al maestro, deve credere alla mamma, perché? Perché non sa pensare.
Steiner scrive un testo fondamentale di disciplina del pensiero, di evoluzione del pensiero e ti dice: guarda che nella misura in cui tu ti trovi a casa tua sempre di più nel pensare, poi ti salterà fuori che percepisci non soltanto sei sensi, ma addirittura dodici.
Il senso della vista cos’è? Una percezione, lo percepiamo il senso della vista. Il senso dell’udito lo percepiamo. Sappiamo di vedere, sappiamo di udire, quindi possiamo fare dei nostri sensi oggetto di percezione.
Ci sono sensi maggiormente spirituali, che colgono la realtà a livello più spirituale, e quelli li distingueremo come sensi nella misura in cui faremo evolvere il nostro pensare. Steiner ti dice: approdi poi a una dodecuplicità di sensi, così come sono dodici i segni zodiacali, perché da ogni regione delle stelle fisse vengono delle forze formanti. Sono dodici, e formano dodici modi di sentire il reale.
Quindi la scienza dello spirito rende molto più complesso il fenomeno senso, la sensorialità, e in questo senso molto più scientifico. Io ho fatto dei corsi interi, anche in Italia, ma soprattutto in Germania, sui dodici sensi, dove, sì, ci sono cose molto più complesse, molto più profonde da dire che non la teoria dei sensi che noi normalmente conosciamo.
Un esempio: il senso dell’io. C’è un senso dell’io. Un senso significa: c’è una percezione pura. Il vedere è una sensazione pura, perché la percezione del senso va presa nel momento in cui ancora non sopravviene il pensiero.
Il senso dell’io è il senso dell’io altrui, non del proprio io, perché il proprio io non viene colto con un organo di senso, il proprio io è l’esperienza di essere pensante in quanto spirito.
Cos’è che mi fa sapere che l’altro è un io? Non è un ragionamento, non è un processo di pensiero, è un senso, ed è un senso molto complesso.
L’organo di senso della vista – non dico che è ridotto all’occhio, perché ci sono dei ciechi che ci dimostrano che la luce vibra in tutto l’organismo per cui, a livello molto più diluito, tutto l’organismo è organo di senso della luce –, però l’organo di senso della luce è concentrato negli occhi, come l’organo di senso dell’udito è concentrato nell’orecchio.
L’organo di senso per cogliere l’io, l’altro come io, è tutto il corpo.
Replica: Un corpo sano.
Archiati: Lei chiede: il corpo sano? Tanto sano quanto deve essere sano l’occhio per vedere. Quando l’occhio non è sano viene compromesso l’organo della vista.
Intervento: Solo l’organo della vista.
Archiati: L’organo di senso della vista è molto più circoscritto, l’organo di senso per cogliere l’io dell’altro, invece, non è circoscritto, è in tutto il corpo, quindi è la vitalità di tutto il corpo. Questi sono solo accenni, non ci riguarda la questione dei dodici sensi, perché allora bisognerebbe proprio entrare in una scienza molto complessa: però la porta d’accesso è lo studio dei fenomeni del pensiero.
Intervento: Ieri hai detto che dopo Aristotele non sono stati creati più concetti. Io non so nel periodo di Aristotele quale parte spirituale dell’uomo si stesse sviluppando, ma adesso che siamo nel periodo dell’anima cosciente potrebbe succedere? Cioè è adesso che potrebbero nascere nuovi concetti?
Archiati: Prendiamo il concetto di causa. Succede un incidente stradale, e uno chiede: qual è stata la causa? I tempi di Aristotele – la scienza dello spirito parla di anima razionale, per quei tempi, ora parla di anima cosciente, ma non c’è bisogno di questa terminologia tecnica, basta che ci capiamo – risalgono a duemilatrecento anni fa circa: noi viviamo duemilatrecento anni dopo, e partiamo dal presupposto che l’umanità è in evoluzione, perché se l’umanità non fosse in evoluzione saremmo esattamente allo stesso punto di Aristotele, parleremmo greco.
Ora stiamo chiedendoci qual è la differenza – è un esercizio fondamentale – tra il concetto di causa di Aristotele e il nostro. Aristotele parla classicamente di quattro tipi fondamentali di causa e dice:
1. c’è la causa materiale: per esempio, per fare un incidente ci vuole la materia di almeno due auto che cozzano, ci vuole la materia della strada, ecc.
2. c’è la causa finale, che è il fine che uno si propone: in questo caso la causa finale a livello degli uomini non gioca nessun ruolo, perché nessuno si è proposto un fine attraverso l’incidente. Però può darsi che ci siano degli esseri spirituali, l’Angelo custode, che ha indotto il suo protetto a fare l’incidente perché si ripropone, poi, attraverso il processo di risanamento, di aiutarlo a raggiungere delle forze ecc.
3. c’è la causa formale, e l’esempio classico che porta Aristotele è la statua: i greci erano artisti sommi nella scultura. Per avere una statua di Giove, una statua di Pallade Atena, una statua di Ares, dice Aristotele, hai bisogno della causa materiale, il marmo, e hai bisogno della causa formale che è la forma che vuoi dare a Giove, a Pallade Atena. Devi sapere la forma che gli vuoi dare. Quindi la forma in quanto forma pensata è causante, concorre al fatto che salta fuori una statua. Poi c’è la causa finale, il fine che l’artista si propone di raggiungere, per esempio vuole guadagnare un po’ di soldi, ornare un tempio…, il fine però non è necessario che sia uno solo, uno può perseguire diversi fini.
4. c’è poi la causa efficiente, che è la più importante perché è colui che fa (facere), ed è l’artista stesso. L’artista ha del materiale, che è la causa materiale, ha dei fini, che sono la causa finale, ha la forma che vuole imprimere alla statua, come concetto, come forma mentale (forma mentis) da imprimere al marmo, ed è lui stesso che deve mettere in moto tutte queste cause per fare la statua.
Aristotele poi ti dice: guarda che questo elenco di quattro cause non vuol dire che ci sono soltanto quattro cause. È soltanto un’astrazione, un orientamento.
Adesso torniamo all’incidente: la causa? Un’enorme complessità di fattori: la causa è tutto il passato di questa persona che siede in una macchina, tutto il passato dell’altra persona che siede nell’altra macchina, tutto il passato dell’umanità che ha fatto sì di avere macchine, di avere strade, ecc… Tutto ciò che c’è stato finora nell’umanità, e soprattutto nei due che cozzano, è il complesso di cause che mi spiega l’incidente, perché causa è ciò che mi spiega. L’incidente è l’effetto e lo spiego in base alle cause.
Allora, qual è la causa di un incidente? L’anima razionale tendeva a semplificare, a dare dei primi orientamenti, mentre lo specifico dell’anima cosciente è la forza, la capacità di muoversi nel pensiero con maggiori complessità: la causa è il karma di quei due che si sono scontrati e il karma è complesso. Nel karma è già previsto anche quello che questo incidente potrà portare, se tutti e due ne fanno il meglio.
La cosiddetta anima cosciente è un tipo di pensare più evoluto che è capace di affrontare maggiori complessità del reale, un pensiero più profondo e più vasto. Se vuoi analizzare le cause di un incidente non arrivi mai alla fine, devi usare l’infinito, che è il pensare. Un incidente è un frammento di evoluzione, un piccolo frammento di evoluzione, e il tutto è la sua spiegazione.
Prendiamo l’organismo: dove trovo la spiegazione di una cellula? Qual è la causa di una cellula? È il tutto. La causa, se il cosmo è pensato organicamente, quindi intelligentemente, – e se non è organicamente pensato allora non c’è il pensare, perché il pensare è l’organo dell’organizzazione nel tutto –, la causa, la spiegazione esauriente di ogni minimo particolare è il tutto, e il tutto è inesauribile.
L’arte del pensare è l’arte di non accontentarsi mai delle risposte già date, è l’arte di trasformare ogni risposta in almeno quattro nuove domande, visto che Aristotele ci mette quattro cause principali. Allora va bene!
Detto così, vi rendete conto, è la fine di ogni dogmatismo, la fine di ogni ideologia, perché si è sempre in movimento. Com’è nell’arte del dipingere, nell’arte del far musica, nell’arte di amare il bambino, nell’arte di educare: non si possono costringere in concetti circoscritti, no! È un continuo divenire, è un processo aperto: il pensare è aperto in assoluto perché il mondo è aperto, l’evoluzione non è conclusa.
L’arte del pensare è il superare sempre di nuovo dogmi e ideologie, quali tentazioni che vogliono la pigrizia del pensare, che vogliono fermarla, vogliono sedersi… eh, è così difficile continuare sempre… Ma godilo, non dire che è difficile, godilo! E allora non ti andrà di fermarti.
Come un pittore che dicesse: oh che fatica, adesso un altro quadro, e un altro quadro… Ma allora non sei pittore, scusa! Allora va a pascere i gallinacci, fa qualcosa d’altro!
L’uomo è a casa sua nell’elemento del pensare soltanto nella misura in cui se lo gode, se lo gode, se lo gode. Non sopporta che si fermi, perché allora è finito il pensare. E questo essere sempre per strada non è arbitrarietà, è proprio l’opposto: è il superamento di ogni tentativo di rendere chiuso il pensare, perché ogni cosa che dice deve essere giusta. Non c’è arbitrarietà nel pensare, però deve avere il coraggio di non circoscrivere mai, di restare sempre aperto, perché la realtà è aperta da tutte le parti, all’infinito.
Uno dei giovani che discutono con Socrate espone un’argomentazione, se l’è costruita per bene, poi t’arriva Socrate e la fa scoppiare con uno spillo, pff, come fosse un palloncino, e dice: sì, sì è giusto quello che dici, ma a questo non ci hai pensato, ricomincia da capo. E questo rende il tutto vivente, vivente, vivente.
Pensare vuol dire godere maggiormente di ciò che c’è ancora da scoprire che non di ciò che si è già scoperto: ciò che si è capito è noioso rispetto a ciò che ho ancora da capire. Il capire è interessante, non l’aver capito: il capire è il dinamismo attuale, è aperto, è in movimento.
Soprattutto al nord c’è un fenomeno culturale proprio aberrante: la lezione universitaria. Perché si chiama lezione, lectio in latino, Vorlesung in tedesco? Perché tradizionalmente, soprattutto al nord, veniva letta: lezione significa lettura. Vuol dire che il professore, questo animale ruminante, prima se l’è mangiata nella sua stanzetta, l’ha scritta, e ora la rumina leggendola. Ma se la legge non può succedere nulla di nuovo, quindi è assolutamente morta.
La reazione spontanea dello studente che deve andare alla lezione è di dire: ma se tu stai leggendo, so leggere anch’io! Perché tutto questo dispendio di tempo per venire alla lezione e poi riandare a casa, con tutta l’anidride carbonica che immettiamo nell’aria ecc., quando mi basta comprare il libro che tu stai leggendo, me lo leggo in stanza mia, me lo leggo coi ritmi miei, senza il disturbo della tua voce.
Invece un processo vivente è quello dove non soltanto voi non sapete cosa io tirerò fuori fra un minuto, ma neanche io, perché se lo so già, è morto quello che ho da dire!
È più perfetta una lezione già pensata in tutte le sue parti, e scritta, o qualcosa di vivente? È molto più perfetta la vivente. Perché? Perché l’altra è morta. Il minerale è perfetto, le sue forme sono ben stagliate perché è morto.
Intervento: Se oggi dico una cosa, e ha un valore, è anche necessario che ci sia la fissazione, la morte – in un libro, per esempio –, perché così consento ad altri di meditare su ciò che ho detto io. Così lo sai anche tu, o no?
Archiati. No, tu adesso poni la domanda: qual è il fine umano del morto? È di fare da sostrato al vivente, quindi il senso del morto è il vivente. Se tu prendi un libro, un libro è morto, in quanto è il pensato di chi l’ha scritto, ma ha senso soltanto se, per te, fa da base a quello che ci metti tu. Un libro non è fatto per imparare qualcosa da quello che l’altro ha scritto.
Lo dico in un modo paradossale: lo scopo di un libro è di farmi venire una rabbia tale di fronte a ciò che è morto, che finalmente faccio sprigionare io, la vita. Allora funziona! Psicologicamente detto, questa è una lettura intelligente: il libro è come una partitura, e sulla partitura le note ci sono tutte e non c’è n’é nessuna. Il libro, come la partitura, ha un senso soltanto se io suono, altrimenti rimangono le note morte.
Tu, nel tuo discorso, presupponevi quasi che il libro avesse un contenuto oggettivo: no, non esiste! Il contenuto del libro è soltanto ciò che ogni testa ne fa. E il contenuto di origine se l’è dimenticato perfino l’autore, se ha continuato a pensare!
In altre parole, la tua riflessione ci aiuta a capire che noi ci siamo fissati un po’ troppo sul morto, perché è l’elemento di sicurezza, però abbiamo pagato uno scotto mandando il vivente troppo a ramengo: ci troviamo un’infinità di persone non soddisfatte, sempre più depresse.
Allora dobbiamo ritornare a capire che il senso di un libro non è nel libro, è in quello che io ne faccio, come lettore. E se io non ne faccio nulla, il libro non ha nessun senso per me. Lo scrittore di minore qualità è proprio quello che ti vuol dire qualcosa.
Intervento: Tu hai detto che il linguaggio è l’automatismo del pensiero, ma adesso il linguaggio si sta molto accorciando, per esempio gli sms sono pieni di simboli matematici: cosa vuol dire?
Archiati. Cosa vuol dire che il linguaggio si impoverisce? Il linguaggio si impoverisce nella misura in cui le persone, che prendono il linguaggio come punto di avvio di un arricchimento di pensiero che poi ritorna nel linguaggio – perché naturalmente il pensiero che diventa più ricco si esprime in un linguaggio sempre più ricco – coltivano troppo poco l’elemento creativo. Il processo di pensiero è fatto per arricchire sempre di più il linguaggio: cioè più l’umanità va avanti in termini di evoluzione di coscienza e più tutte queste conquiste le inscrive nel linguaggio.
Vi dicevo che il significato di Freiheit (libertà), in tedesco, si evince dall’esperienza di creatività artistica dello spirito umano, fatta soprattutto dagli idealisti, ai tempi di Goethe ecc… Queste esperienze, questi cammini dello spirito umano, hanno arricchito il linguaggio, e questo arricchimento così evidente nel linguaggio tedesco, non c’è in inglese.
Perché non c’è in inglese? Perché il linguaggio inglese è stato arricchito, tantissimo, da esperienze del mondo materiale: hanno immesso un sacco di parole tecniche nel linguaggio perché i macchinari sono diventati sempre più complessi. Però, in fatto di creatività dello spirito, non ci sono state queste esperienze nell’area di lingua inglese e quindi non hanno arricchito il linguaggio con questo tipo di parole che ti dà il significato di Freiheit, e perciò liberty o freedom sono termini molto meno ricchi. La lingua inglese non è stata arricchita più di tanto, rispetto a quanto la parola tedesca Freiheit ha arricchito la lingua tedesca.
L’evoluzione dello spirito umano è di riflesso un arricchimento del linguaggio all’infinito. Cos’è il linguaggio? È l’autoarticolazione dello spirito umano, è la sua autoespressione. Il linguaggio esprime l’interiorità, e più è ricca e articolata l’interiorità, più forza il linguaggio a diventare articolato. Perché nel linguaggio lo spirito vuol dire ciò che vive dentro di sé: più diventa complesso il pensiero e più diventa complesso il linguaggio.
La prospettiva è di un arricchimento dello spirito e dell’anima all’infinito, e se si impoverisce il linguaggio, addirittura, vuol dire che stiamo perdendo colpi. E questo è triste perché poi gli esseri umani non possono essere felici, e invece di dirsi: no, allora devo rimboccarmi le maniche, cominciano a scannarsi a vicenda, come se la colpa del mio essere infelice fossero gli altri, che è una stupidità proprio assoluta.
La soluzione è: allora mettiamoci per strada. I presupposti ci sono, ce li abbiamo tutti, e sono la facoltà del pensare. Facoltà del pensare vuol dire facoltà di essere creatori all’infinito, a tutti i livelli.
Grazie a tutti e buon viaggio a tutti!
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A proposito di Pietro Archiati
Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).
Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.
Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.
Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.
Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.
[1] Vedi: Pietro Archiati Sull’origine e il valore del pensare – Commento a “La filosofia della libertà” di Rudolf Steiner – vol. 1 dalla Prefazione al Capitolo II, paragrafo 2 – Atti del seminario tenuto a Rocca di Papa dal 15 al 18 febbraio 2007 – Archiati Edizioni, Torino 2009.
[2] In Pietro Archiati Sull’origine e il valore del pensare, op. cit. pag. 284
[3] Rudolf Steiner Alimentazione per vivere sani – Quattro conferenze tenute agli operai Archiati Edizioni, 2007.
[4] Rudolf Steiner Arte dell’educare, arte del vivere – Fondamenti di pedagogia Archiati Edizioni, 2007
[5] In: Rudolf Steiner Educazione e insegnamento fondati sulla conoscenza dell’uomo – O.O 302a – Editrice Antroposofica, Milano
[6] Rudolf Steiner Catastrofi naturali come responsabilità morale – L’agire della moralità umana sulla natura Archiati Edizioni, 2006
[7] Pietro Archiati Sull’origine e il valore del pensare, op. cit. pag. 49.
[8] Rudolf Steiner Verso un’etica della libertà – Archiati Edizioni, 2007
[9] Pietro Archiati Il bene e il male – Che cos’è? – Archiati Edizioni, Torino 2009.
[10] La trascrizione completa degli 11 incontri tenuti da Pietro Archiati su questo Vangelo dal 2001 al 2006, si trova in: Pietro Archiati Commento al Vangelo di Giovanni – 11 volumi, Archiati Edizioni, Torino.