ANGELI E MORTI CI PARLANO
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Questo testo è una nuova edizione profondamente riveduta di
Vivere con gli Angeli e con i morti, dello stesso autore.

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Archiati Edizioni, Cumiana (To), 2009
Terza Edizione
ISBN 978 - 88 - 96193 - 19 - 8
Archiati Edizioni
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Pietro Archiati
ANGELI E MORTI
CI PARLANO
Nuove prospettive
per la nostra vita
Indice
1.
COME SI DIALOGA CON GLI ANGELI
•
La soglia fra i due mondi.
• Perché il cristianesimo parla poco degli
Angeli?
• Il concetto di Dio è diventato rarefatto.
• Noi facciamo gli Angeli a nostra immagine
e somiglianza?
• I primi passi per dialogare con i Morti.
• Un Morto che parla con la bocca di un
vivo?
2. COME LAVORA L'ANGELO NELLA
NOSTRA ANIMA?
•
Il purgatorio: prima fase della vita del
defunto.
• Gli effetti della libertà umana nel dopo
morte.
• La crisi d’amore degli Angeli.
• Perché nell’umanità d’oggi scarseggiano i
geni?
• La coscienza dell’Angelo, dell’Io superiore
e dell’io normale.
• Il rapporto tra l’Angelo e il suo custodito
• “Angelo di Dio, che sei il mio custode...”
3. ANGELI E MORTI: UNA QUESTIONE
DI FEDE O DI SCIENZA?
•
La scienza oggettiva vale solo per il
mondo visibile?
• La via del cuore e la via della mente.
• Dionigi l’Areopagita e Scoto Eriugena.
• I cori angelici in Dante.
• “L’eterno riposo dona loro, o Signore...”
4.
LE GERARCHIE ANGELICHE AL
95
LAVORO NELLA NATURA E NELL’UOMO
•
I Morti vivono di fiducia e ringiovanimento.
• Come parlare ai Morti e come ricordarli
• I tre giorni dopo la morte.
• Tre modi di concepire l’evoluzione.
• Gli Angeli “caduti”, ovvero ritardatari.
• Quanti tipi di Esseri popolano l’universo?
• Gnomi, ondine, silfidi e salamandre: “i di
staccamenti” della terza gerarchia.
• Impronte nella natura della seconda e della
prima gerarchia.
• Come gli Angeli parlano fra di loro.
5.
ANGELO DEL SINGOLO, ARCANGELO DELLA COMUNITÀ,
SPIRITO DI UN’EPOCA IL NOSTRO
RAPPORTO CON LORO DA VIVI E DA
MORTI
• L’Angelo, guida sul cammino individuale.
• Il fenomeno dei medium.
• L’Arcangelo, guida delle comunità umane.
• I Principati, reggenti dell’alternarsi delle civiltà
• Vita interiore degli Angeli e mondo esterno.
• Veracità, amore scambievole e amore per l’autonomia dell’altro.
• “Anima dell’uomo!”
A proposito di Pietro Archiati
1
COME SI DIALOGA
CON GLI ANGELI E CON I MORTI?
La soglia fra i due mondi
Ovunque nel mondo si nota oggi un rinnovato
interessamento nei confronti dei cosiddetti Angeli. “Cosiddetti”, per
non dare in astratto per scontata la loro esistenza e per nota a tutti
la loro identità. Preferisco avvicinarli a poco a poco, dando la
precedenza alla descrizione concreta di alcuni fatti, per poi entrare
nei quesiti teoricoconoscitivi che ne ricercano la spiegazione e il
fondamento oggettivo.
Un conto, naturalmente, è constatare questa diffusa
curiosità per lo spirituale che spesso vive a livello di sensazione – nel sito di James Redfield, l’autore de La profezia di Celestino, ci sono più di duemila titoli sugli Angeli!
–, e un altro conto è coglierne il senso più profondo per
la nostra vita di ogni giorno. In questa direzione intendo
mettere a disposizione dei pensieri che spero siano in
grado di evocare in ognuno riflessioni personali.
Viviamo in un tempo in cui la tecnica ci permette di
fare cose mai sognate in passato, e di fronte a tante sollecitazioni esterne il nostro mondo interiore rischia di
diventare sempre più monotono e noioso. Se andiamo
indietro di due o trecento anni, la vita esterna era molto
più semplice e si viveva col sentimento di fondo che il
mondo fosse ancora tutto da scoprire. Oggi la vita va
di corsa, scienza e tecnologia offrono una straordinaria quantità di possibili sperimentazioni, e così il ritmo
accelerato dell’esistenza può bruciare prematuramente i
desideri e l’uomo approda alla noia.
Che altro c’è di nuovo?, è una domanda frequente. A
venticinque, trent’anni, se non prima, ormai si è assaggiato un po’ di tutto: il mondo appare scontato, e si va
perdendo il senso del futuro. La capacità di stupirsi e
d’incantarsi non è più di casa in chi si sente realista, e
con le forze della meraviglia scompaiono lo slancio e la
capacità di sorpresa.
Una frenesia insaziabile spinge l’uomo moderno ad
accelerare sempre di più i ritmi della vita fino a stordirsi,
e allora sorge un fenomeno che pure conosciamo bene:
la passione per l’esperienza del limite. Nella gioventù,
per esempio, c’è la tendenza a voler toccare le possibilità
estreme delle forze fisiche – la parola record vuol dire “limite”. Sul Time Magazine si poteva leggere che un tale ha
scavalcato il Gran Canyon in motocicletta nel punto più
stretto della gola: saranno stati tra i sessanta e i settanta metri. È la ricerca del brivido che dà la vertigine del
pericolo massimo e che si accompagna alla forza, alla
velocità, al rischio fisico.
Il limite assoluto della vita è la morte: dunque niente di
strano che, in questa spinta verso i confini ultimi, l’uomo
pervenga al desiderio di far propria anche la soglia di
tutte le soglie, quella che determina la frontiera tra due
mondi. Il concetto classico di “soglia”, infatti, è quello
di un limitare che separa il mondo della percezione sensibile, noto a tutti, dal mondo sovrasensibile, spirituale.
Questa è la soglia per eccellenza, della quale ogni altra
esperienza del limite vuol essere in fondo un’imitazione.
La ricerca del limite fisico dunque, è una
specie di versione laica del desiderio di varcare quella soglia che
separa il mondo fisico da quello spirituale. È una tensione in se
stessa profondamente religiosa anche questa, ma va a concentrarsi e
manifestarsi solo nel mondo fisico proprio perché ci siamo estraniati
dalla realtà spirituale. Resta il fatto, però, che nel profondo c’è il
desiderio d’incontrare l’altro limitare, di varcare l’altra soglia.
Soprattutto nei giovani si nota che il mondo fisico è vissuto come
troppo angusto e monotono, anche se non si comprende che è così perché
manca l’esperienza del sovrasensibile.
In chi, invece, è chiara l’aspirazione a cimentarsi con
le realtà spirituali, è presente anche il desiderio di non
restare al livello della fede o della pietà tradizionali. Costui vorrebbe poter indagare il mondo degli Angeli e dei
Morti con la stessa scientificità, con la stessa forza penetrante del pensare che lo spirito umano ha esercitato
ormai da secoli riguardo al mondo visibile.
La nostalgia odierna del rapporto con l’Angelo è anche quella di poter stabilire una comunicazione con un
Essere per il quale l’umano non può diventare noioso
ma è sempre una sorpresa, è sempre nuovo. Se gli Angeli vivono in una dimensione diversa dalla nostra, non
possono avere esperienza di che cosa significhi abitare in
un corpo di materia che sottostà alle leggi della natura,
non sanno che cosa voglia dire diventare vecchi e stanchi, lasciarsi alle spalle la pienezza delle forze vitali, tutta
l’energia della gioventù.
Se è vero che gli Angeli sanno di noi soltanto
quel che diciamo loro, e se è vero che “ci invidiano” l’umano che non
hanno, allora noi uomini, quasi in un inconsapevole scambio,
rispondiamo al loro stupore nei confronti di tutto ciò che è umano col
desiderio d’incontrarli, perché ci ridiano l’incanto e la meraviglia
del nostro stesso essere. In un tempo in cui l’umano sembra esaurito
nei limiti dell’immagine fisica che le scienze naturali gli
attribuiscono, ognuno desidera, anche se inconsciamente, lasciarsi
nuovamente narrare dagli Angeli la bellezza dell’essere uomini.
In un’antica leggenda ebraica Jahvè, dopo aver creato tutte e tre le gerarchie angeliche, tutti gli animali, le
piante e le pietre (come narra la Genesi),
dice agli Angeli: “Ora devo creare l’essere più importante di tutti
quelli che vivono sulla Terra!”. Gli Angeli si guardano intorno…: noi
non siamo importanti abbastanza? Serafini, Cherubini, Troni,
Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli, Angeli! … Eppure
dice che manca ancora sulla Terra la creatura più importante! Allora
Jahvè porta gli Angeli a vedere varie cose da lui create e chiede:
“Come si chiama questo animale?” e punta il dito verso una mucca. Gli
Angeli guardano, ma non conoscono il nome. “E come si chiama questo?”,
insiste Dio indicando un cristallo. Gli Angeli non lo sanno. “E
questo?” chiede ancora indicando un giglio. Silenzio. E Jahvè conclude:
“Ecco, vedete? Voi non sapete dirmi il nome delle cose. Perciò devo
creare un essere fatto apposta per dare un nome a tutti gli esseri che
vivono sulla Terra.”
Dare il nome alle cose signi
fica trovarne il concetto:
nel mondo visibile ci voleva un essere capace di percepire la realtà e di pensarla. Gli Angeli e tutti gli altri
Esseri spirituali naturalmente pensano, ma in tutt’altro
modo: il loro pensare non nasce dal vedere le cose con
gli occhi, dall’udirle con le orecchie, dal tastarle con le
mani… Per loro la conoscenza non si scinde da un lato
nella percezione dei sensi e dall’altro nel concetto che la
mente aggiunge.
La leggenda continua così: dinanzi agli Angeli
ancora perplessi, Adamo, la nuova creatura, guarda il firmamento e la
Terra. Jahvè chiede: “Adamo, come si chiama quell’animale?”, e lui: “È
una mucca, no?”. Gli Angeli sono stupefatti: ma come fa a saperlo? E
ancora Jahvè chiede: “E questo cos’è?”. “È un quarzo, non lo vedi?”,
risponde Adamo. “E questo?”. “È un bel giglio, perbacco!”.
Con un linguaggio adatto alla nostra epoca scienti
fi-
ca, una moderna scienza della realtà spirituale traduce
questa leggenda affermando che agli esseri umani è affi-
dato nell’evoluzione del mondo il compito di costituire
una nuova gerarchia angelica – la decima1. L’Umanità
è, nel suo divenire, la decima gerarchia, perché immette
nel co¬smo una dimensione di coscienza mai apparsa
prima. Proprio in questo suo apporto originale all’evoluzione dell’intero universo risiede la ragione stessa del
suo esistere.
Rilevando che c’è nell’umanità di oggi un interes-samento crescente nei confronti degli Angeli e di tutti gli
Esseri che vivono nei mondi spirituali – quindi anche dei
Morti –, dobbiamo aggiungere che la ricerca dell’esperienza della soglia, del limite, porta con sé anche una
profonda paura, per lo più inconscia.
È la paura dell’ignoto: noi ci rendiamo conto sempre
1
Secondo l’antica nomenclatura, le gerarchie angeliche propriamente
dette sono tre (cfr. la tabella alla fine del libro), ognuna costituita da tre
ordini o “cori” angelici, per un totale di nove. In questo senso l’umanità
costituisce il decimo coro, o decima schiera di Esseri spirituali gerarchici.
di più di essere degli analfabeti dello spirito, e perciò
temiamo le conseguenze per la nostra vita quotidiana
se cominciamo a prendere sul serio i moniti degli Angeli e dei Morti. Se non rimaniamo nella vaga teoria ma
iniziamo a occuparci delle loro ispirazioni per il nostro
concreto vivere, è quasi inevitabile il sopravvenire di una
sana e profonda inquietudine per i cambiamenti reali di
orientamento che ne possono derivare.
È altrettanto vero, però, che nel momento stesso in cui
cominciamo a far emergere nella coscienza questa paura, cominciamo anche a guarirla. Una paura che diventa
conscia viene per lo stesso fatto dimezzata nella sua forza paralizzante: lo sgomento più terribile e dannoso è
quello che rimane vago e oscuro.
Perché il cristianesimo parla poco degli Angeli?
Che cosa dice riguardo agli Angeli la religione tradizionale, soprattutto quella cristiana che è alla base della
cultura occidentale? Il metodo migliore per capire i vari
passi compiuti dall’umanità nel corso dei secoli e dei
millenni è quello di porre i fenomeni in chiave evolutiva.
Solo così si può mantenere attiva la libertà interiore di
chiedersi quale ulteriore cammino desideri oggi compiere l’essere umano, all’interno del cristianesimo stesso.
Le Scritture cristiane, i Vangeli, non contengono una
dottrina sistematica sugli Angeli, né sul dopo-morte:
l’esistenza degli Angeli e del mondo spirituale viene
semplicemente presupposta, cioè viene data per scontata. I Vangeli non sono interessati a propagare dottrine
bensì a dare all’uomo spunti esistenziali, aiuti efficaci per
il suo cammino quotidiano.
Favorire il cammino della vita è tutt’altra
cosa che propinare dogmi. Quando si vuol promuovere la trasformazione
reale dell’essere quale premessa per un comprendere più approfondito,
si danno delle indicazioni conoscitive di massima. È questo il caso dei
Vangeli, i cui autori ben sapevano che l’umanità doveva percorrere un
preciso cammino nel quale è compresa la tappa del materialismo e della
scienza moderna, in base alla quale poi sarebbe sorto quell’eros
conoscitivo che vuole affrontare con metodo scientifico anche la realtà
degli Esseri e dei mondi spirituali.
Con il trascorrere dell’evoluzione e grazie
alla conquista di nuove forze interiori, gli uomini saranno in grado di
comprendere sempre meglio i misteri racchiusi nelle Scritture. I testi
cristiani accennano alla presenza degli Angeli e dei Morti, come fosse
la cosa più ovvia di questo mondo, compreso il fatto che gli uni e gli
altri influiscono profondamente sul divenire terrestre. Il compito di
andare più a fondo nella conoscenza di queste realtà viene lasciato
all’evoluzione di ognuno. Ci sono pochi testi che lascino chi li legge
così interiormente libero come fanno i Vangeli. Non c’è in essi alcuna
norma morale: l’unica indicazione, che è stata intesa impropriamente
come un comandamento, è quella di amare, perché l’esperienza dell’amore
apre a tutto il resto.
“Vi do un comandamento nuovo”, dice il Cristo nelle
nostre traduzioni del Vangelo. Ma la parola greca entolè è proprio l’opposto di “comandamento”: en significa
dentro e tolè (da tèlos) è il fine. In realtà il Cristo dice: “Vi
indico in che modo l’essere umano entra dentro il fine
evolutivo del suo cammino, in che modo cioè raggiunge
la pienezza del suo essere: attraverso le forze dell’amore”.
È un comandamento? No, è un’indicazione conoscitiva
che dice: l’essenza dell’umano è l’amore. Nella misura in
cui ami entri nella pienezza finale del tuo essere, ma resti
libero di farlo o di non farlo. Traducendo “Vi do un comandamento nuovo”, si travisa un elemento conoscitivo
trasformandolo in un’ingiunzione morale.
Consideriamo, ora, la prassi di vita
cristiana. Negli ultimi secoli, e soprattutto negli ultimi tempi, essa
ha subito in tutto e per tutto l’irrompere del materialismo. La
caratteristica fondamentale del cristianesimo attuale è di essere
intriso di materialismo – e non poteva essere altrimenti, perché il
cristianesimo cammina con l’umanità. La conoscenza e la comunione con
gli Esseri spirituali sono quasi del tutto sparite anche nella prassi
di vita cristiana. Questa è la situazione attuale.
Sta di fatto, però, che ci troviamo in una fase di crescita in un certo senso molto positiva e privilegiata: poiché
non c’è più “un’anima di gruppo” che si lasci indirizzare
volentieri dalla religione nella vita sociale, e non c’è una
chiesa che sia in grado di amministrare la conoscenza
spirituale, proprio per questo l’individuo ha la possibilità
di cercare il sovrasensibile con le forze genuine del suo
amore.
L’antica ed ef
ficace forza paterno-materna della tradizione oggi tace nell’umanità; ugualmente, quando il figlio
comincia a crescere e a diventare autonomo, il genitore
si ritira. In questo senso anche la conduzione da parte
della chiesa, che si è sempre presentata come madre, è
giusto che si ritragga di fronte alla crescente autonomia
del singolo uomo che, diventato adulto, è in grado di
decidere le proprie sorti.
Siamo dunque immersi in un’atmosfera di materialismo cristiano anche nei confronti degli Angeli, e siamo
a una svolta: anche qui ci troviamo di fronte all’esperienza del limite. Molti non riescono più a sopportare né il
peso del materialismo né un cristianesimo così esangue
da ignorare la realtà degli Angeli, da non saper più distinguerne i vari cori, con i rispettivi nomi. Dante sapeva
ancora rivolgersi ai vari esseri angelici chiamandoli per
nome e descrivendoli uno per uno.
C’è anche un numero sempre maggiore di persone che
cadono nella depressione o nella violenza e spesso non
ne comprendono il motivo. Detto in modo aforistico,
chi vivesse in comunione reale col proprio Angelo custode non avrebbe mai bisogno di essere né depresso, né
aggressivo: non gli riuscirebbe proprio. Il respiro interiore diventa depresso, o compresso, quando manca l’aria
spirituale dell’Angelo custode, il moto della sua ala che ci
fa volare, che ci fa vedere tutto dal suo lato positivo.
È importante considerare gli effetti del materialismo
non solo come un disagio dell’anima, ma, più a monte,
come una vera e propria crisi di astinenza dallo spirito.
Se vogliamo curare la malattia animica della depressione
o dell’aggressività restando nella dimensione dell’anima,
non ci riusciremo mai. Un’anima depressa non è un’anima malata: è un’anima a cui manca la realtà dello spirito.
Serve a poco far terapie sull’anima: bisogna conoscere e
godere ciò che è spirituale. E dicendo “spirito” intendiamo tra l’altro la realtà degli Angeli e dei Morti, cioè di
tutti gli Esseri intermediari tra l’umano e il divino.
Nel cristianesimo tradizionale – e la cultura cattolica
italiana è una variante del cristianesimo – c’è un motivo
più profondo ancora che spiega l’aver dimenticato gli
Angeli. Si potrebbe addirittura dire che il cristianesimo
è la prima religione nell’umanità che ha perso di vista la
realtà delle gerarchie angeliche.
Ancora nella mitologia greca troviamo un Olimpo
popolato di Esseri divini. Gli dei del paganesimo greco
sono Esseri spirituali che, nella loro natura e nel loro
operare, mostrano di aver raggiunto non certo il livello
altissimo della Trinità e neanche quello delle gerarchie
angeliche superiori, ma quello degli Angeli e degli Arcangeli del cristianesimo. Nel linguaggio umano non è
mai questione di parole, ma sempre della realtà che le
parole vogliono indicare.
Come mai allora il cristianesimo tradizionale ha fatto
piazza pulita degli Esseri intermediari tra l’uomo e Dio?
C’è una ragione profonda e va capita perché fa parte del
cammino dell’uomo sulla Terra. Il cristianesimo è sorto
con al suo centro un grande compito: tutelare il monoteismo come fondamento necessario all’autoesperienza
dell’Io, cioè di quella forza divina unitaria e unificante che
vive anche nell’interiorità umana. Il cristianesimo è vissuto e vive tuttora nella paura che, qualora si sottolineino
i mediatori angelici, si finisca per ricadere nel politeismo
pagano, col rischio di far perdere all’uomo il senso del
Dio uno e unico e della sua immagine nell’Io umano.
All’inizio dell’era cristiana la conoscenza scienti
fica
delle gerarchie celesti è stata per questo motivo affidata da Paolo di Tarso a Dionigi l’Aeropagita, l’esponente
massimo della corrente esoterica del cristianesimo. Egli
descrisse tre ordini gerarchici, ognuno costituito da tre
diversi gradi di Esseri spirituali, cui lo stesso Dante fa riferimento cantando i nove Cori angelici nella sua Divina
Commedia.
Accanto a questa corrente esoterica, il cristianesimo
ufficiale mette in sordina la questione degli Angeli, anche se un Tommaso d’Aquino dedica un’opera non da
poco alle “Sostanze separate” – ma anche qui si vede
che la questione è più al livello di dottrina teologica che
di prassi di vita. Oggi il cristianesimo vuol riscoprire la
dottrina degli Angeli nella vita quotidiana.
Il pericolo che il monoteismo potesse venir
compromesso dalle schiere di Esseri spirituali intermedi, non è stato
il solo a determinarne l’oblio. La chiesa aveva un’altra
preoccupazione, poco ammessa ma non per questo meno pressante: quella
che gli uomini, sottolineando i vari gradi di trapasso tra l’umano e il
divino, e dunque della continuità reale tra l’uomo e Dio, si mettessero
in testa di poter diventare loro stessi divini – se non addirittura di
esserlo già! Dal punto di vista della prassi cristiana questo pericolo
è ben più allarmante della tutela del monoteismo: non sia mai che gli
uomini pretendano di aver parte davvero alla natura divina! L’autorità
della chiesa ci rimetterebbe non poco.
Se consideriamo le schiere angeliche come una scala di
Giacobbe che va dall’umano al divino, l’Angelo, rispetto
all’uomo, partecipa con intensità maggiore al divino. E
l’Arcangelo è ancora più divino dell’Angelo. Nelle Scritture è detto: “Tu hai fatto l’uomo di un gradino inferiore
all’Angelo”. Ma se l’uomo è in evoluzione, prima o poi
potrà salire al gradino superiore!
Si presenta qui una polarità propria di ogni
evoluzione: essa procede sia per graduali e lente trasformazioni, sia
per veri e propri salti qualitativi. Un esempio di salto qualitativo è
la morte: si passa repentinamente da una condizione incarnata a una
puramente animico-spirituale. Invece abbiamo a che fare con
trasformazioni graduali quando, per esempio, l’uomo passa dalla
giovinezza alla maturità, alla vecchiaia.
Il passaggio dalla condizione umana a quella angelica
è da comprendere come un lento processo di avanzamento che abbraccia uno sconfinato arco di tempo. Una
tale affermazione presuppone però la risoluzione di un
quesito che il cristianesimo ufficiale non ha finora affrontato: quello delle molteplici vite terrene concesse a
ogni uomo. Si è dato finora per scontato che si vive una
volta sola, e allora non può essere che pura illusione il
volere, in una vita, raggiungere il divino.
La riconciliazione della polarità che c’è tra il salto qualitativo e la lenta gradualità si ha alla fine di ogni ciclo
evolutivo: il risultato globale dell’evoluzione umana,
fatta di millenni e millenni, alla fine condurrà al cambiamento vero e proprio di livello. L’essere umano sarà
allora assunto al livello dell’Angelo.
Il cristianesimo tradizionale ha temuto che
gli uomini prendessero sul serio, o fraintendessero, la frase lapidaria
del Vangelo di Giovanni in cui il Cristo dice: “Voi siete dei”. Ma il
Cristo non vuole dire: voi esseri umani siete già e automaticamente
divini; il senso delle sue parole è che ogni uomo è potenzialmente un
essere divino, perché porta in sé il dinamismo evolutivo che gli
permette di partecipare sempre più pienamente al divino. E una volta
capito questo, diventa anche chiaro che l’evoluzione di ogni singolo
uomo non può che abbracciare la totalità dell’evoluzione terrestre,
dall’inizio alla fine.
La preoccupazione della chiesa di arginare la presunzione umana ha pure una sua giustificazione, perché è
reale la tentazione di ritenersi già più deificati di quanto
si sia realmente, trascurando così il compito di divenire
sempre più simili al divino. Questa inquietudine tutelatrice non è però più giustificata quando vuol proibire il
cammino spirituale consapevole della sua meta divina,
che è una vera e propria “chiamata evolutiva”. Che altro significa per l’uomo essere stato creato a immagine
e somiglianza di Dio, se non che è stata impressa nel
suo essere la chiamata a diventare sempre più divino nel
corso della sua lunga evoluzione?
Il concetto di Dio è diventato rarefatto
Il Dio di molti cristiani è una grande astrazione, o poco
più. Quando un cristiano oggi dice: è la volontà di Dio
che ha fatto succedere questo e quest’altro, la sua affermazione non si riferisce a nulla di concreto.
È come se, dopo aver mangiato una torta squisita,
per ringraziare la persona che l’ha fatta chiedessimo:
chi è questo bravo pasticcere? e ci rispondessero: è un
uomo, oppure: l’umanità. È una risposta sbagliata? No,
perché chi ha preparato quella torta fa certamente parte
dell’umanità; ma è talmente generica quest’affermazione
che non ci serve a nulla. Non ci permette di individuare
il pasticcere e perciò non possiamo ringraziare concretamente nessuno.
Oppure, immaginiamo che una persona mi chieda
che cosa si vede dalla finestra della mia stanza. Il mondo, rispondo
io. Non è una risposta sbagliata, perché c’è proprio il mondo, là
fuori; ma senza distinguere le macchine dalle case, le strade dai
giardini, le motociclette dagli esseri umani, la mia affermazione resta
vuota. Ugualmente, quando il cristiano dice: “l’ha voluto Dio”, questo
Dio è un’astrazione enorme che con la realtà concreta ha poco da
spartire.
L’umanità di duemila anni fa era ben diversa da quella attuale. Era un’umanità se vogliamo più “bambina” e
perciò il tipo di religiosità che le corrispondeva doveva
avere un carattere immaginativo e non ancora scientifi-
co nel senso d’oggi. Ogni conoscenza diventa scientifica
nella misura in cui sa distinguere e specificare, entrando
nei dettagli.
La differenza fra un pedagogo e una persona che di
pedagogia non si è mai interessata è che il primo non
può confondere il comportamento di un bambino di
due anni con quello di uno di tre, mentre l’altra persona
lo fa dal momento che vede soltanto i tratti generali e
approssimativi dei “bambini piccoli”.
Scienti
ficità significa crescente complessità. La scienza
richiede che i fenomeni vengano analizzati nei loro particolari, e necessita perciò di una terminologia articolata,
proprio per non restare al livello superficiale. Il passato
ci ha tramandato una religione fatta di generalizzazioni
che oggi non è perciò più in grado di soddisfare chi porta in sé l’aspirazione alla scientificità – una delle cose più
belle che abbiamo nel nostro tempo così difficile.
Rudolf Steiner afferma che se noi mettessimo
insieme tutte le caratteristiche che la religione tradizionale
attribuisce all’essere e all’operare di Dio, esse sarebbero a malapena
sufficienti per descrivere l’essere e l’operare di un Angelo. Le
rappresentazioni, i concetti adatti per riferirci all’entità e alla
creatività dell’Arcangelo, o del Principato, per non parlare dei Troni,
Cherubini e Serafini, o addirittura della Divinità, ci mancano del
tutto. Questa lacuna spiega anche perché, pure in ambito religioso,
permangano odio e guerra degli uni contro gli altri. Se, infatti, le
nostre rappresentazioni su “Dio” non vanno oltre la realtà dell’Angelo,
ed essendo l’Angelo un Essere di volta in volta diverso a seconda del
suo custodito, ci ritroviamo ciascuno con un proprio “dio” diverso,
fatto da ognuno a propria immagine e somiglianza. Lo chiamiamo Dio, ma
in effetti ognuno descrive il suo rapporto personale con il proprio
Angelo individuale.
Perciò, se vogliamo dialogare con gli Angeli e stabilire una reale comunione con loro imparando a viverci
insieme, dobbiamo prima conoscerli oggettivamente.
Ciò vale anche per gli uomini: come posso comunicare davvero con un altro uomo se non lo conosco? Che
esperienza facciamo noi quando, parlando con qualcuno, abbiamo l’impressione che non ci capisca, che non
ci conosca per niente? Constatiamo che manca la base
per una comunicazione vera e fruttuosa. Il fondamento,
l’atmosfera necessaria per ogni comunicazione, è la conoscenza.
La scienza dello spirito offre all’umanità nuovi e indispensabili elementi conoscitivi. La prima cosa da capire
è che per entrare in rapporto con gli Angeli e con i Morti
non esistono espedienti facili e immediati. D’altra parte,
la tendenza a voler ottenere risultati istantanei è molto in
voga nell’umanità d’oggi, abituata al mondo materiale.
A chi fosse alla ricerca di un modo sbrigativo per comunicare con gli Angeli sarebbe opportuno ricordare la
fatica che dobbiamo fare quando andiamo in un paese
straniero, dove la gente parla una lingua a noi del tutto
sconosciuta. Se vogliamo dialogare con loro dobbiamo
imparare la lingua, e una lingua non s’impara in un giorno. Per parlare con gli Angeli e con i Morti dobbiamo
ugualmente imparare un linguaggio nuovo. Il loro linguaggio.
Noi facciamo gli Angeli a nostra immagine e somiglianza?
Per intendersi con gli Angeli e con i Morti l’umanità si
deve dunque cimentare con l’apprendimento di un linguaggio completamente diverso, superando l’illusione
che con trucchi o espedienti si possano risparmiare gli
sforzi. In realtà si tratta di operare una vera e propria trasformazione del nostro essere, perché il linguaggio comprensibile agli Angeli e ai Morti non è fatto di parole, ma
di atteggiamenti dell’animo. Più li coltiviamo e più entriamo in sintonia con loro, raggiungiamo la loro stessa
lunghezza d’onda, per così dire, e possiamo farci capire
e percepire i loro messaggi.
Per la cura di questa reciproca intesa c’è un imprescindibile punto di partenza: dobbiamo renderci conto
che tutto quello che pensiamo e diciamo sugli Angeli
e sui Morti non può essere che antropomorfico. Noi
siamo uomini e non possiamo mai scavalcare l’umano:
dobbiamo fare gli Angeli a nostra immagine e somiglianza, se vogliamo trovare ciò che è, appunto, comune. E va
bene così, se esiste davvero una continuità evolutiva in
tutto l’universo. Gli antichi chiamavano questo criterio
conoscitivo “analogia”.
Ora, una caratteristica fondamentale
dell’essere umano è quella di vivere come in due mondi: uno è quello
esterno – gli altri uomini, i regni della natura, tutto ciò che cade
sotto la percezione fisico-sensoriale –, e l’altro è il mondo interiore
fatto di pensieri, sentimenti, atti della volontà che possono venir
comunicati o anche celati. Sarà così anche per gli Angeli? L’indagine
spirituale perviene all’affermazione che tutti gli esseri della terza
gerarchia – Angeli, Arcangeli e Principati – hanno anch’essi esperienza
di un mondo interiore, quale vissuto della loro anima, e di un mondo
che sentono a loro esterno, che è come se fosse fuori di loro.
Interessante è però la differenza tra la qualità dei due
mondi: per noi il mondo esterno, essendo spazialmente
fuori rispetto al nostro essere, ci appare come oggettivo;
il mondo interno ci sembra invece soggettivo, e ognuno
può tenere per sé ciò che pensa o sente. Noi abbiamo la
possibilità di mentire, per esempio, o di non far trasparire quello che viviamo dentro.
L’Angelo ha tutt’altra esperienza di sé: egli
percepisce un mondo esterno solo quando manifesta la sua interiorità
operando. Percepire l’uomo, per esempio, per l’Angelo significa
percepire il suo stesso agire dentro l’essere umano. Il mondo esterno è
perciò per lui la sua interiorità in quanto riversata, attuata
all’esterno. L’Angelo non può dunque mentire, perché se percepisse
qualcosa di diverso da ciò che interiormente vive, subirebbe un
oscuramento di coscienza, cadrebbe in una specie di svenimento. Egli
vive nella veracità perché può percepire soltanto quell’interiorità che
lui stesso rivolge genuinamente verso l’esterno.
Non meno interessante è la vita interiore degli Angeli:
essa non ha nulla di “angelico” in senso proprio, ma è
fatta di tutte le ispirazioni di pensiero, di sentimento e di
volontà che vi riversano dentro le gerarchie superiori: le
Potestà, le Virtù, le Dominazioni, i Troni, i Cherubini e
i Serafini. Un intero mondo di ideali, di mete evolutive
che riguardano anche l’umanità, piove giù nell’interiorità
degli Angeli come una grazia divina, e gli Angeli accolgono dentro di sé queste rivelazioni in modo fedelissimo.
Per comprendere una simile diversità tra la vita interiore ed esteriore dell’uomo e dell’Angelo, occorre rendere
vivente il nostro pensare, così da riuscire a invertire i
rapporti. Se non abbiamo la minima idea che l’Angelo percepisce all’esterno la manifestazione oggettiva del
proprio essere, e che il suo mondo interiore non conosce
egoismo e soggettività, non possiamo nemmeno iniziare
quel cammino di conoscenza grazie al quale il nostro
Angelo custode si sentirà sempre più in sintonia con noi.
Conoscendolo meglio, creiamo l’elemento comune che
permette a lui di manifestarsi e a noi di capirlo.
Se è vero che la “bontà” degli Angeli sta nell’interiorizzare la purezza cristallina delle ispirazioni e degli ideali
che sgorgano da Esseri ancora più alti, in che cosa consiste la “caduta” degli Angeli di cui parla la tradizione
religiosa? Se l’Angelo “buono”, non caduto, è quello che
nella sua interiorità alberga fedelmente le rivelazioni di
Esseri angelici superiori a lui, negli Angeli caduti dovrà
esser nato il desiderio di avere in sé qualcosa di proprio.
Il cristianesimo ha visto in questa caduta degli Angeli
un peccato di superbia, ma ciò significa porre le cose
in chiave moraleggiante. Chi di noi non conosce il desiderio legittimo di aver qualcosa di proprio? In fondo,
abbiamo partecipato anche noi alla caduta degli Angeli,
e per fortuna questo evento non ha solo risvolti negativi.
Ciò che nelle Scritture viene descritto come la tentazione perpetrata dal Serpente nei confronti dell’umanità,
ha infatti posto la condizione necessaria per la nascita
dell’autonomia dell’uomo, che lo ha reso capace di scegliere fra il bene e il male.
I primi passi per dialogare con i Morti
Anche per instaurare una comunicazione con gli
esseri umani che hanno oltrepassato la soglia della morte, il primo
passo da compiere è quello di conoscere la loro condizione d’esistenza.
Nell’umanità attuale manca quasi del tutto la consapevolezza delle
esperienze e delle regioni spirituali che i defunti attraversano dopo
la morte. Sulle tombe c’è scritto spesso R.I.P. (Requiescat in pace,
riposi in pace): non è un po’ poco augurare al defunto,
che ha goduto per tutta una vita la sua attività, di farsi
una bella siesta eterna? Il riposare in pace non si confà
alla creatività dello spirito umano e mostra quanto siano
povere le rappresentazioni che abbiamo dell’aldilà.
A questo riguardo la scienza dello spirito sorta tramite
Rudolf Steiner indica quattro sentimenti fondamentali
che rappresentano le categorie del linguaggio dell’anima
dei Morti. Li chiamiamo “morti”, ma in realtà sono molto più vivi di noi perché la coscienza umana si amplia e
si approfondisce quando lascia la prigione del corpo, che
permette di vivere soltanto in un determinato momento
e in un determinato posto. Nella dimensione dello spirito si può essere in tanti luoghi e in tanti tempi contemporaneamente.
Il primo sentimento che costituisce per il Morto un
elemento di vita è la gratitudine per tutti gli esseri e per tutte
le cose. Noi possiamo comunicare con i Morti soltanto se
riusciamo a comprendere che l’elemento in cui vivono,
la luce grazie alla quale essi capiscono ogni cosa, è la
gratitudine. I Morti vedono ogni essere e ogni evento dal
punto di vista della positività; noi, invece, siamo liberi di
considerare anche negativi gli eventi della vita.
La gratitudine è un atteggiamento di apertura interiore, presente anche nelle profondità dell’animo dei vivi, o
in quel sovraconscio che da sempre è stato chiamato Io
superiore, o Io vero. L’Io superiore di ogni uomo – diversamente dall’io ordinario, che è la normale coscienza
quotidiana – è grato per tutto ciò che la vita gli porta
incontro, perché è convinto che ogni evento ha lo scopo di renderlo più ricco e gli offre nuove occasioni di
crescita.
Noi forse non sappiamo che ancor prima che qualcosa accada, ancora prima che i nostri occhi si rivolgano
verso qualcosa che ci aspetta domani o dopodomani, il
nostro Io spirituale è già in quella realtà, immerso nella gratitudine, e dirige i nostri passi e i nostri organi di
senso per farcela percepire e farcela vivere al positivo.
L’Io superiore sa apprezzare anche la sofferenza, mentre
l’io ordinario spesso la rifiuta. I Morti, che gradualmente
riconquistano la coscienza del loro Io superiore, sanno
bene che dalla sofferenza nascono le conquiste più belle
dello spirito umano.
Per il nostro normale livello di coscienza è spontaneo
rimpiangere una persona cara che è morta: è una reazione più che umana, che però non ha nulla a che fare col
sentimento di gratitudine. Nell’animo di chi resta sulla
Terra pesa di più lo sconforto per ciò che ha perduto
che non la gratitudine per tutto ciò che ha ricevuto dalla
persona deceduta. Il Morto, invece, guarda pieno di gratitudine a tutto ciò che ogni giorno della vita trascorsa
con i suoi cari gli ha portato incontro.
Seppure in molte occasioni è dif
ficile recuperare l’atteggiamento della gratitudine, noi entriamo in
comunione con chi non vive più sulla Terra solo a mano a mano che
vinciamo la nostra sofferenza per la sua scomparsa. La sofferenza c’è,
è inevitabile di fronte alla morte di chi amiamo, però rischia di
chiuderci in un dolore che ci allontana da lui. Lui vorrebbe aiutarci a
fare spazio al sentimento della gratitudine, perché solo quello può
fargli dire: ecco, adesso la persona che mi è cara sulla Terra comincia
davvero a pensare come me, a capirmi, adesso può percepire i miei
pensieri e rispondermi.
Per il defunto i nostri pensieri e sentimenti
carichi di rimpianto sono pura ingratitudine, puro egoismo e negatività
nei confronti della sua decisione di porre termine alla vita. Il
dialogare con i Morti è un’attività molto concreta, e nessun espediente
può sostituire lo sforzo di trasformare il dolore in gratitudine.
Un secondo sentimento fondamentale nell’anima di
ogni Morto – anch’esso sovraconscio in noi viventi perché è parte integrante della coscienza dell’Io superiore
– è il senso di comunanza con tutti gli esseri e con tutte le cose.
Il morto vive un intimo rapporto con ogni essere, non si
sente fuori da nulla, è immerso in tutto l’universo come
un organo nel suo organismo. Noi cosiddetti vivi siamo
invece in grado di isolarci, possiamo decidere di non frequentare più una persona, possiamo tapparci in casa e
infischiarcene di quello che accade al nostro vicino.
Per farci un’idea di questa esperienza di comunione
universale pensiamo all’omicida: egli ha un bisogno quasi fisiologico di ritornare sul luogo del delitto perché si
è instaurato nel suo essere un legame persino con gli
elementi della natura di quel posto fisico. Con maggiore
o minore intensità, tutto ciò che noi facciamo su questa
Terra, tutte le cose che tocchiamo, tutti i luoghi dove ci
rechiamo, lasciano delle tracce indelebili nel nostro Io.
Ognuno di noi porta in sé almeno inizialmente una comunanza con tutti gli esseri e con tutte le cose.
Anche il Vangelo di Giovanni accenna a questo
mistero nell’episodio dell’adultera: i farisei sono pronti a lapidarla
scagliandole addosso delle pietre; il Cristo si china e scrive sulla
terra. Che cosa scrive? Egli traccia sulla terra il segno delle azioni
di ogni essere umano ed è come se dicesse: “O uomo, a cosa ti serve
giudicare? Ogni volta che tu ritorni sulla Terra rivisiti i luoghi
della comunanza universale, ritrovi i nessi con le azioni che hai
compiuto e con tutte le persone che hai incontrato”.
Vivere col sentimento d’appartenenza a tutto e a tutti
significa capire che tutto l’umano ha a che fare con me,
e io ho a che fare con tutto ciò che è umano. Ritrovare i legami con la Terra, con i regni della natura e con
tutti gli uomini favorisce la percezione sempre più viva
dell’umanità come un organismo unico. Il Morto lo sa e
lo sente: noi siamo membra gli uni degli altri e ogni atto
individuale, ogni singolo gesto interiore o esteriore, si
ripercuote sull’umanità intera, sollevandola o abbassandola nella sua natura. Perciò ogni volta che ci apriamo
alla reciproca appartenenza, possiamo capire meglio il
linguaggio dei Morti.
Un Morto che parla con la bocca di un vivo?
C’è uno strano caso, realmente accaduto in
Calabria parecchi anni fa. È un fatto interessante, che può dar adito a
molte riflessioni. In un giornale di allora si poteva leggere:
Il 5 gennaio 1939 una contadinella di 17
anni di nome Maria Talarico si reca in compagnia di sua nonna da Siano
alla vicina città calabrese di Catanzaro, dove vive temporaneamente sua
madre. Al ritorno, sul ponte che collega le due località, la ragazza
esita, si ferma al quarto pilone e guarda con attenzione la sponda al
di là del parapetto, come se lì si stesse svolgendo qualcosa di
interessante. La nonna non vede nulla e la esorta a proseguire. La
ragazza si gira con un’espressione di grande sgomento e corre indietro
spaventata a morte. Non ha ancora raggiunto la testa del ponte, quando
grida dal dolore, si afferra il ginocchio e cade a terra priva di
sensi.
Quando
finalmente riprende conoscenza è trasformata. Respinge
sua madre, che nel frattempo era accorsa, ed esorta i presenti a
chiamare una tal signora Caterina Veraldi. La voce e il contegno
della ragazza sono completamente cambiati: sembra un uomo con
la voce roca del fumatore e del bevitore.
Nell’ulteriore sviluppo dei fatti, ella afferma di essere il giovane
trovato morto tre anni prima sotto il ponte, considerato suicida dalla
polizia. Scrive lettere con una calligrafia che la signora Veraldi
subito riconosce essere quella del figlio morto, è al corrente dei
rapporti più intimi del defunto – che mai aveva conosciuto – e descrive
inoltre lo svolgimento dell’assassinio del giovane per mano dei suoi
amici.
La ragazza viene fatta incontrare
con gli amici dell’ucciso: li riconosce, li chiama con i loro
soprannomi e ricorda intimi particolari dell’amicizia passata. Infine
si reca sul luogo del crimine e mima con raccapricciante realismo lo
svolgimento dei fatti (l’indagine della polizia confermerà in seguito
la precisione della descrizione). Infine, la ragazza cade in
un’incoscienza profonda. Al risveglio non ricorda più nulla ed è ora la
semplice ragazza di sempre 2.
Nascono vari interrogativi da questo racconto: che cosa
ha vissuto quel defunto per tre anni, e dove è vissuto?
I fatti citati indicano una forte brama presente nella sua
anima: quella di riuscire a far sapere ai vivi di non essere
un suicida, ma la vittima di un omicidio. Perché?
Altra domanda: questa ragazza di 17 anni è da invidiare per le sue eccezionali capacità di interazione con i
2
Da: Otto Julius Hartmann Segreti dall’aldilà della soglia – A. Kienreich
Editore, Graz, 1956 – pagg. 50-51
Morti? In fondo, questa vicenda si è svolta molto tempo
fa, quando la corporeità umana era meno “indurita” di
oggi, grazie anche alla diversa e più sana alimentazione,
all’aria ancora non inquinata, alle abitudini di vita meno
stressanti ecc. Potremmo essere indotti a pensare che un
fenomeno del genere indichi una maggiore disposizione
naturale verso la realtà dello spirito, che sia un fenomeno positivo e oggi più raro proprio perché le condizioni
di vita negli ultimi decenni sono precipitate verso il disumano.
Eppure, una lettura spregiudicata di questo episodio,
fatta con gli strumenti conoscitivi di una scienza dello
spirito consona ai nostri tempi, mette in risalto che qui
abbiamo a che fare con una donna che deve aver avuto
una tale disaffezione rispetto all’incarnazione, una visione così negativa del corpo, da essersi incarnata, per così
dire, solo a metà, o di malavoglia. Per questi motivi ben
concreti il ragazzo morto è riuscito facilmente a estromettere dal corpo l’anima semi-incarnata della ragazza,
e ha potuto avvalersi della sua fisicità per i propri scopi,
ha potuto “incorporarsi” per un breve tempo così da
riuscire a parlare e scrivere attraverso il corpo di lei.
La paura dell’incarnazione non è un fatto infrequente: forse questa condizione si spiega anche in base a un
cattolicesimo che per secoli ha presentato il corpo quasi
unicamente in chiave negativa. Il fulcro del cristianesimo autentico, invece, è proprio l’incarnazione del Verbo,
e quindi l’amore per la corporeità in quanto strumento
privilegiato dello spirito umano incarnato!
Un’ulteriore domanda da porsi è questa: quando
lo spirito della ragazza ritorna nel suo corpo – che per un certo tempo
è servito da strumento a un’anima totalmente estranea a lei –, in quali
condizioni lo ritrova? La ragazza sentirà una corporeità ancora più
refrattaria di prima, ancora più estranea a lei, e ciò non potrà che
accrescere la paura e la diffidenza nei confronti dell’esistenza sulla
Terra.
E ancora: è opera dell’Io superiore del Morto tutta
questa faccenda? L’Io superiore è sempre un Io pieno di
amore. Come potrebbe allora impossessarsi del corpo di
un altro essere umano, estromettendone l’Io? E se non
è il suo Io superiore, quale altro elemento costitutivo del
Morto ha compiuto un tale atto?
Queste domande trovano una risposta solamente se
riflettiamo su un fatto di fondamentale importanza: il
materialismo contemporaneo ci porta a credere che ci
sia qualcosa soltanto dove c’è la materia. Dove non c’è,
pensiamo che ci sia il vuoto. Invece è proprio il contrario: non solo lo spirito compenetra ovunque la materia,
ma anche dove c’è vuoto di materia c’è pienezza di spirito.
In questa luce l’episodio riportato acquista un altro
significato: la ragazza è sul ponte, apparentemente in
compagnia solo della nonna, ma bisogna riuscire a toccare con mano la presenza fortissima dell’anima (non
dello spirito, cioè dell’Io superiore) del giovane morto
che vuole impadronirsi del suo corpo, e bisogna capire
quali siano, al contempo, le dimensioni costitutive della ragazza realmente presenti. Il suo spirito si ritrae dal
corpo, e anche la sua anima: rimane il corpo intriso di
forze vitali che si fa ricettacolo per l’anima del giovane
morto. Avviene una vera e propria bufera nel mondo
dell’invisibile su quel ponte, ma gli occhi fisici non vedono nulla.
Il mondo dello spirito che per noi è diventato vuoto,
i greci lo chiamavano il pleroma, la pienezza. La Bibbia
lo descrive come una scala vivente, quella di Giacobbe, costituita dagli Esseri delle gerarchie spirituali che
riempiono tutto lo spazio tra il Cielo e la Terra. L’uomo
partecipa sempre più alla “pienezza” riconoscendo la
propria missione, ascoltando la sublime chiamata a salire i gradini di luce che riconsegnano alla pienezza dello
spirito tutto lo spazio svuotato dal materialismo.
2
COME LAVORA
L'ANGELO NELLA NOSTRA ANIMA?
Il purgatorio: prima fase della vita del defunto
Per instaurare un rapporto con gli Angeli e con i Morti
è importante, come si accennava, cogliere la differenza
che esiste tra il nostro mondo interiore e il loro – una
diversità così radicale da costituire anche la difficoltà
principale per un vero dialogo. Noi abbiamo un tipo di
mentalità, e loro ne hanno tutt’altra.
Potremmo chiederci come mai gli Angeli e i Morti, se
è vero che hanno una coscienza molto più ampia della
nostra, non si diano da fare loro per comunicare con noi
nel modo migliore. Non sarebbe tutto molto più facile
se ci parlassero col nostro linguaggio anziché costringere noi a imparare il loro? Certo che sarebbe più facile,
ma proprio per questo sarebbe inutile per la nostra crescita. Abbiamo già intorno a noi tanti esseri umani con i
quali possiamo utilizzare il linguaggio che ci è familiare,
il tipo di conoscenza che ci accomuna e che già abbiamo
conquistato.
I bambini imparano a parlare un linguaggio a loro del
tutto sconosciuto, e nessun adulto penserebbe mai di
fare una buona cosa imitando il bambino nella lallazione. Ugualmente, se gli Angeli e i Morti facessero di tutto
per scendere al nostro livello, sparirebbe il loro contributo specifico alla nostra evoluzione. Sta a noi aprirci
gradualmente al loro modo di pensare, di sentire e di agire. È un processo di trasformazione interiore, lungo ma
non impossibile; e che sia nello spirito del nostro tempo
* Su questo argomento vedi in particolare Rudolf Steiner, Che cosa fa
l’Angelo nell’anima dell’uomo, Archiati Edizioni
ce lo fa intuire il grande desiderio che c’è di stabilire una
relazione più cosciente con i mondi dello spirito.
I Morti nel tempo dell’immediato dopo-morte non
possono che far di tutto per purificare la loro anima
dall’egoismo. Il purgatorio cristiano – la tradizione
orientale lo chiama kamaloca: il luogo del kama, cioè della
brama insaziabile – è quella fase di vita nel dopo-morte
in cui chi si è disincarnato deve sciogliere tutte le brame
congiunte con il corpo, non potendole più soddisfare.
Le fiamme del purgatorio sono un’immagine ben calzante per indicare i tanti desideri accesi che bruciano
nell’anima di chi, morendo, ha lasciato dietro di sé la
corporeità che poteva placarli.
Pensiamo a un buongustaio che nella vita si procurava
i vini più prelibati e se li sorseggiava soddisfatto a pranzo e a cena: lasciato il corpo al momento della morte, si
ritrova con l’anima ancora piena di voglia di bere perché
i desideri, le passioni, le brame, risiedono nell’anima e
non nel corpo! Per il fatto però che questa voglia non
può più soddisfarsi (vino e corpo non ci sono più), essa
viene a poco a poco necessariamente estinta.
Nei mondi spirituali non c’è più il corpo
fisico che
consente quel tipo di autogodimento che ci isola dagli
altri: tutti gli esseri vivono gli uni negli altri. Perciò più
ci sforziamo, anche sulla Terra, di vincere l’egoismo con
l’amore, più ci avviamo a capire i messaggi degli Angeli
e dei Morti, e più ci apriamo alle intuizioni che essi ci
inviano.
Un’altra differenza fondamentale è che i nostri pensieri
sono per lo più ignari delle necessità evolutive oggettive,
mentre gli Angeli e i Morti conoscono ciò che ci fa bene
ed è consono ai tempi. Le conquiste che oggi vengono
rese possibili all’uomo grazie alla tecnica del computer,
per esempio, l’Angelo le conosce molto bene: noi, invece, se non esercitiamo la libertà, possiamo stravolgerle
a nostro totale svantaggio. Allora diventa prezioso poter accogliere le ispirazioni che l’Angelo ci invia, perché
sono tutte nella direzione positiva del nostro cammino.
Gli effetti della libertà umana nel dopo-morte
Il cristianesimo vede nell’incarnazione dell’Uomo perfetto la svolta dei tempi: in ciò è la grande differenza
tra la matrice orientale e quella occidentale nell’interpretazione dell’evoluzione umana. Anche lasciando da
parte i riferimenti al religioso, il pensare occidentale in
genere ha fatto sorgere nell’umanità la consapevolezza
dell’evoluzione storica lineare. L’Oriente invece, in linea
generale, ha sempre privilegiato una concezione ciclica
del divenire: in un tempo senza inizio e senza fine, i cicli
della vita si ripetono sempre uguali, senza uno sviluppo
progressivo.
Quando si entra invece nella prospettiva di un’evoluzione con un inizio e una fine, si comprende anche
che dev’esserci la svolta. Prima della discesa dell’Essere
del Sole sulla Terra – non è necessario usare sempre la
parola “Cristo”, visto che in tanti evoca una confessione particolare che non corrisponde alla sua realtà
universale – tutta l’evoluzione ha avuto un carattere di
preparazione. Al momento della sua incarnazione la preparazione giunge al suo compimento. È questo il signifi-
cato della “pienezza dei tempi”, un termine tecnico della
scienza spirituale che vuol dire: i tempi di preparazione
sono pieni, sono compiuti. Ma cosa vuol dire questo?
Vuol dire che d’ora in poi non manca più nessuna condizione necessaria per l’esercizio della libertà umana.
Prima della svolta evolutiva l’umanità aveva un altro
rapporto con gli Angeli e col mondo spirituale. In quei
lontani tempi, quando l’uomo nasceva portava in sé il
ricordo dei mondi celesti, il sentimento della “preesistenza”. Platone è uno degli ultimi grandi pensatori che
ancora vedono le cose in questo modo: per lui “conoscere” significa ricordarsi di ciò che si sapeva nel mondo
spirituale ancor prima di nascere. Egli pone alla base del
senso della vita la certezza del vissuto spirituale dell’uomo antecedente alla nascita fisica.
La grande svolta dell’evoluzione consiste nel
fatto che ogni uomo comincia ora a portare oltre la morte il ricordo di
ciò che ha vissuto durante la vita terrena, dimenticando invece, al
momento della nascita, la sua preesistenza nel mondo spirituale. È una
vera e propria rivoluzione! All’importanza assoluta della realtà
spirituale che orientava l’esistenza, subentra il valore insostituibile
della vita terrena, ora pienamente degna di essere vissuta quale
palestra per conseguire un’autonomia forte abbastanza da sussistere
anche senza il corpo, dopo la morte.
L’evoluzione umana, anche quella che si ripete
nell’arco di ogni vita, ha due fasi: quella della guida dal di fuori
(dei genitori, dei maestri) e quella della guida dal di dentro. Il
passaggio dall’una all’altra è come una vera e propria “inversione” – a
questa si accenna col concetto di “svolta” dei tempi. Dopo la svolta –
dopo Cristo – la nostra libertà comincia a determinare ciò che ognuno
di noi è in grado di portare oltre la soglia della morte, proprio
perché se l’è conquistato sulla Terra. È evidente, allora, che il
compito della libertà è oggi quello di venire a conoscere durante la
vita terrena la realtà degli Angeli, dei Morti, dei regni spirituali
che ci attendono dopo la morte; di cercare il dialogo e la
conversazione con gli Esseri che vivono nell’aldilà, in modo da poterne
avere coscienza anche oltre la morte.
È un compito della libertà perché nessuno è costretto
a svolgerlo, anche se ognuno ha la possibilità di farlo.
Dopo la grande svolta dell’evoluzione, ogni uomo che
lascia la Terra è in grado di vivere una maggiore o una
minore comunione con gli Angeli e con i mondi spirituali, a seconda di quanta ne ha sperimentata in vita. Da qui
si comprende quanto sia fondamentale l’esercizio della
libertà durante la vita, perché dalla svolta in poi è riposta
in questo cimento ogni possibilità di evoluzione.
Questa straordinaria inversione che ha dato un
carattere del tutto nuovo alla vita sulla Terra, nei termini della
tradizione cristiana è espressa così: prima del Cristo c’era un’umanità
bisognosa di redenzione, dopo il Cristo c’è un’umanità in via di
redenzione.
Queste parole perdono però ogni signi
ficato se non
vengono riempite di conoscenza spirituale. La “salvezza” di cui parla il cristianesimo sta tutta nella riconquista
del senso di queste affermazioni tramite le forze libere
del pensiero umano. Solo un pensiero libero è un pensiero “redento”. La redenzione portata dal Cristo a tutti
gli uomini non è una sorta di cancellazione delle colpe
– e quali colpe, poi, poteva avere un’umanità bambina? –, ma è la facoltà di libertà, la capacità data all’Io, alla
coscienza umana, di decidere in autonomia.
È fondamentale capire che la svolta ognuno la compie
dentro di sé ogni volta che cessa di rimpiangere i tempi
in cui il rapporto col sovrasensibile era dato per sola grazia, ogni volta che capisce che ogni stadio evolutivo deve
avere un termine per far posto al successivo. E allora
s’intuisce anche l’immensa portata del fatto che chi nella
vita non ha creato alcun pensiero sugli Angeli, dopo la
morte farà fatica a riconoscerli, a comunicare con loro, e
vivrà nella solitudine spirituale. Ed è giusto che sia così,
altrimenti si vanificherebbe la libertà umana: essa è reale
solo se ha conseguenze reali.
Dopo la svolta dell’evoluzione, resta nel
dopo-morte la memoria del rapporto con gli Angeli quale è stato
instaurato durante la vita, secondo libertà. Prima della svolta
continuava, dopo la nascita, il ricordo di una comunione non libera
avuta con gli Angeli nei mondi spirituali, prima ancora di nascere.
Questo fa comprendere meglio perché gli esseri umani che oggi
apprezzano la libertà sentano anche l’appello interiore a un rinnovato
interessamento al mondo dello spirito.
Gli Angeli sono gli Esseri spirituali
gerarchici più vicini a noi. Se dovessimo cominciare con i Troni, o i
Cherubini o i Serafini, cioè gli Esseri della prima gerarchia, le cose
da conoscere sarebbero molto più complesse.
Quando noi diciamo “Angeli”, intendiamo di
solito tutti e nove i cori, anche se la parola Angelo si riferisce, in
senso più specifico, al solo nono coro. Salendo, incontriamo l’ottavo
coro, che sono gli Arcangeli; poi il settimo, i Principati; il sesto,
le Potestà; il quinto, le Virtù; il quarto, le Dominazioni; il terzo, i
Troni; il secondo, i Cherubini; il primo, i Serafini. Quando parliamo
di Esseri spirituali bisognerebbe perciò di volta in volta distinguere.
Ciò sarà possibile soltanto quando sapremo in modo scientifico unire al
nome delle gerarchie anche i caratteri più significativi della loro
specifica natura e del loro operare.
La crisi d’amore degli Angeli
La caduta degli Angeli è un fenomeno di
“crisi” che riguarda tutte le gerarchie angeliche, e non solo gli
Angeli propriamente detti. Esistono due categorie fondamentali: le
gerarchie angeliche del “bene” – quelle che noi chiamiamo in modo
generalizzato “Angeli” – e le contro-gerarchie, sorte per necessità
evolutiva al fine di offrire le controforze necessarie per l’evoluzione
– e che noi chiamiamo solitamente “Diavoli” o “Demoni”.
Ognuno di noi è accompagnato spiritualmente non
solo dall’Angelo custode, ma anche dal suo Diavolo. Io,
da piccolo, sapevo da mia mamma che l’Angelo custode
poggia sulla spalla destra di ogni uomo e il diavoletto
sulla spalla sinistra! Quando uno rigava “dritto” l’Angelo
era contento, quando guardava a sinistra aveva paura di
qualche “sinistro”! Ogni forza deve interagire con la sua
controforza in un mondo che sia in evoluzione. Ogni
realtà di bene può essere un bene concreto, cioè non
astratto, unicamente in proporzione al male corrispondente che riesce a vincere.
Un aspetto fondamentale della svolta evolutiva consiste nel fatto che tutte le gerarchie si sono scisse in due:
una metà è salita di un gradino e l’altra è discesa di un
gradino. Quando l’Essere del Sole ha deciso di incarnarsi dentro tutte le condizioni umane, con questo atto
di enorme portata cosmica ha indotto tutte le gerarchie
angeliche a prendere posizione, generando in esse una
sorta di “crisi” interiore.
Tutti gli Angeli, gli Arcangeli e fin su ai
Serafini, che hanno accolto in sé il Cristo, hanno capito che era
necessario che l’Essere pieno di amore si incarnasse dentro l’umano.
Essendo il nostro un cosmo d’amore, gli Esseri spirituali che si sono
schierati con il Cristo si sono messi al servizio dell’uomo e sono così
ascesi di un gradino nella loro evoluzione. Quelli invece che a
tutt’oggi si rifiutano di seguire il Cristo, per via di questo stesso
rifiuto sono caduti di un gradino.
Lo stesso Essere fatto tutto d’amore, quindi, alla svolta dei tempi ha causato in tutte le gerarchie la più grande
crisi, che è stata poi la loro crisi d’amore nei confronti
dell’uomo. Ci sono stati Angeli che si sono lasciati conquistare dalla dedizione dell’Essere solare verso l’umano,
sono andati con lui e si sono intrisi dello stesso amore.
Ce ne sono stati altri, anch’essi necessari, che si sono
opposti perché non hanno voluto, o potuto, capire l’importanza centrale dell’umano nell’evoluzione cosmica:
di quell’umano che conduceva l’Essere dell’Amore a
svestirsi della sua veste angelica di luce per rivestirsi di
quella umana, per ora greve e oscura.
Non è facile per noi capire quale prova interiore sia
stata questa per tutte le gerarchie angeliche! Ci sono Esseri spirituali altissimi che non riuscirono ad accettare
la centralità dello spirito incarnato, dello spirito che governa la materia abitandola – perché questo è il mistero
dell’uomo. Spiriti celesti che vissero un terremoto cosmico di fronte all’Essere dell’Amore che lascia lo stato
irraggiante del puro spirituale e s’immerge nell’abisso
dell’umano, per dichiarare di fronte a tutto l’universo
che quel regno di pietra è il nuovo regno della libertà
dello spirito, conquistata dentro la materia!
Se unendosi all’Essere d’Amore una metà degli Angeli
è ascesa ponendosi al servizio dell’uomo, l’altra metà ha
seguito l’impulso opposto: quello di servirsi dell’uomo
per la propria ulteriore evoluzione. Paolo, nella sua lettera ai Corinti, scrive: “Non sapete voi che noi siamo
la crisi degli Angeli? Non sapete che noi giudichiamo
gli Angeli?”. L’elemento umano diventa così il crinale
decisivo per tutte le gerarchie angeliche e gli spiriti si
dividono: o con l’uomo o contro l’uomo.
Se è vero che il concetto di evoluzione investe non
solo l’uomo ma anche gli Angeli e tutte le loro gerarchie – se cioè non solo l’essere umano ha come meta
del suo cammino il diventare Angelo, ma anche l’Angelo
ha quella di diventare Arcangelo, l’Arcangelo Principato e così via fino ai Serafini – allora c’è da chiedersi se
tutti questi Esseri spirituali hanno attraversato anch’essi
il gradino umano dell’evoluzione. Gli Angeli, prima di
essere Angeli, sono stati forse uomini come noi?
Rudolf Steiner risponde a questa domanda
iniziando col chiarire quale sia, al livello cosmico, il concetto di
“gradino umano”. Una creatura perviene al livello umano quando
acquisisce l’Io, quando, cioè, diviene capace di autocoscienza. Il
conferimento dell’Io è un atto di donazione della propria sostanza
spirituale da parte di Esseri superiori. Essendo infinita la fantasia
morale dei creatori divini, ci sono nell’universo diversi modi per
acquisire l’autocoscienza. I processi sono diversi e ognuno conduce,
nel prosieguo dell’evoluzione, a conquiste spirituali specifiche e
diverse.
La modalità nostra di acquisire l’Io e di percorrere il
gradino dell’umano è diversa da quella che fu propria
degli attuali Angeli. Gli Angeli non erano dentro un corpo fisico quando poterono dire a se stessi: Io sono un Io.
L’esperienza dell’acquisizione dell’Io tramite l’incarnazione nella materia riguarda soltanto la nostra vicenda:
di qui la grande crisi che si produsse in tutte le gerarchie
quando l’Essere dell’Amore decise di vivere tutto ciò
che fa parte della vita umana sulla Terra, in primo luogo
la morte.
Perché nell’umanità d’oggi scarseggiano i geni?
Dove sono andati a
finire tutti i geni che sono vissuti nel
passato? Tutta la storia è piena di uomini d’eccezione,
ma dove si nascondono oggi quegli Io lì?
Il fenomeno del genio diventa non solo sempre
più raro ma anche sempre più anacronistico. I grandi geni andavano bene
nella fase infantile dell’evoluzione umana: infatti, quando noi diciamo
che una persona è “geniale” – pensiamo a un Mozart, per esempio – che
cosa intendiamo dire? Intendiamo che quello che sa fare non se l’è
conquistato più di tanto col sudore della fronte. Agisce in lui una
forza sovrumana, la sua genialità è un dono che viene dall’alto – dal
“genio”, come lo si chiamava una volta.
La genialità si manifesta particolarmente
nell’infanzia o in gioventù, quando è ancora la natura a tenere le
redini, e molto di meno nella maturità, quando sopravvengono le
conquiste individuali della libertà. Un essere umano che comincia a
vivere le conquiste libere del suo stesso Io, non produce a tutta prima
cose geniali, ma modestamente umane: però esse sono il frutto
preziosissimo della sua libertà.
L’uomo che deve conquistarsi tutto con l’impegno e
l’ingegno della libertà è più povero del genio, ma questa
“povertà” tutta umana vale mille volte di più che non la
produzione straordinaria di cento geni messi insieme. È
questo il senso del detto evangelico: “beati i poveri di
spirito” – cioè i diseredati, i mendicanti dello spirito –,
perché hanno la possibilità di conquistarsi liberamente e
individualmente i tesori di cui sono alla ricerca.
L’opera del genio non è speci
ficamente umana: è l’ispirazione di Esseri superiori che compenetra la
coscienza di quest’uomo senza che ci metta più di tanto il suo libero
sforzo. È intrinseco alla dinamica del cammino evolu¬tivo che sia gli
Angeli, sia l’elemento puro del “genio” – che è poi l’Io superiore di
ogni uomo – nei tempi passati guidassero in modo più diretto l’umanità
ancora poco capace di iniziativa propria. Ora debbono ritrarsi sempre
di più per far posto alla libertà dell’io cosiddetto inferiore, cioè
quello che gestiamo noi nella nostra coscienza ordinaria. Questo
ritrarsi è, a partire dalla grande svolta, una decisione “cristica”
perché fa spazio all’autonomia dell’uomo. Un genio non soltanto è poco
libero perché dipende da chi lo ispira, da chi in un certo senso lo
possiede, ma per di più rende dipendenti da sé altri esseri umani.
Chiediamoci onestamente: di fronte alle creazioni del genio ci sentiamo
veramente liberi? In molti può nascere l’invidia: prima dipendenza. In
moltissimi altri nasce l’ammirazione: seconda dipendenza. Poi nasce il
desiderio di imitazione: terza brutta dipendenza. Ma l’essere umano non
è stato creato per ammirare o imitare o invidiare altri, bensì per
diventare lui stesso qualcuno: allora sì che mostra la sua vera
originalità. Perciò meno male che oggi di geni al mondo ce ne sono
pochi: significa che la democrazia della quale tanto ci vantiamo può
diventare sempre più vera.
Il principio della democrazia riconosce un’uguaglianza
fondamentale tra gli esseri umani, nel senso che ogni
uomo è a pari diritto di ogni altro uno spirito individuale e unico. E allora perché trascinarci questi elementi
di aristocrazia che vorrebbero farci inchinare di fronte ad altri, con l’idea errata che qualcuno sia per natura
“migliore” di altri? Non è un caso che attorno al genio
aleggi una sorta di “divismo”: gli appassionati di questo
o di quest’altro artista coltivano lo stesso atteggiamento
interiore che l’umanità bambina riservava al divus – imperatore o santo o poeta che fosse –, cioè a colui che
consideravano adombrato dal dio e attraverso cui il dio
si manifestava.
La coscienza umana in cammino è in grado di
comprendere, oggi, che nessun uomo è più degno di ammirazione di un
altro e nessuno lo è di meno: ammirare qualcuno significa in fondo
sottovalutare qualcun altro. Ogni essere umano è un vero e proprio
genio. Il genio di ognuno è l’Io superiore, l’Io vero. La meta
dell’evoluzione di ogni uomo è quella di mettersi in comunione sempre
più profonda col proprio Io vero, attraverso l’esercizio delle forze di
coscienza dell’io normale e quotidiano. E tutti gli Io superiori umani
sono intuizioni ugualmente “geniali” della Divinità che li ha
fantasiosamente e artisticamente creati.
L’io del quale abbiamo coscienza, è come un’immagine riflessa del nostro Io superiore, resa oscura dalla
materia. All’inizio dell’evoluzione questo riflesso era assai debole e perciò l’uomo era guidato – proprio come
un bambino – direttamente dal suo Io superiore e dagli
Angeli. A mano a mano che l’evoluzione è andata avanti,
questo fratello minore dell’Io si è sempre più rafforzato:
è nata la filosofia greca, è nato il pensare logico, è nato
l’egoismo...
Ma è anche nata la capacità di autonomia interiore. Parallelamente, la visionarietà dei primordi, che era di tipo
rivelatorio e conduceva l’umanità dal di fuori, è andata
ritraendosi. Gli uomini devono trovare sempre dentro a
se stessi le forze del pensiero e della volontà.
La grande scommessa sull’essere umano che il Cristo
ha voluto fare tra lo sconcerto di tutte le gerarchie angeliche, è stata quella di dare fiducia alla libertà umana che
può scegliere sia il bene che il male. Ognuno dei nove
cori angelici è una manifestazione dell’Amore divino: gli
esseri spirituali del decimo coro a venire, cioè noi, siamo
chiamati a diventare gli spiriti di quell’Amore specifico
che si esprime sprigionandosi dalla materia – proprio come
i Prigioni
di Michelangelo. Quest’opera immane di “sprigionamento”, di
liberazione, è la nostra progressiva evoluzione verso ciò che chiamiamo
libertà umana.
La coscienza dell’Angelo, dell’Io superiore e dell’io normale
Il duplice esito possibile dell’evoluzione
umana è di assurgere al gradino superiore angelico, oppure di omettere
su tutta la linea la fatica della libertà, disattendendo
sistematicamente l’umano fino a ricadere al gradino inferiore – quello
animale. L’Apocalisse lo chiama l’abisso
della Bestia. La duplice possibilità di ascendere o discendere deve rimanere per ognuno aperta, altrimenti non ci
sarebbe più libertà di scelta.
Uno dei tratti fondamentali dell’Angelo custode è che
il suo livello di coscienza è tale da abbracciare la totalità
dell’evoluzione terrestre del suo protetto, nel suo significato unitario. Egli accompagna ogni passo che il suo
protetto compie avendo presente l’armonia con l’inizio
e la fine del suo cammino.
L’io ordinario, invece, cioè la nostra
coscienza di veglia, è in grado di vedere i rapporti di causa-effetto
unicamente all’interno di una vita. Abbiamo coscienza di ciò che
abbiamo fatto ieri, l’altro ieri e l’altro ieri ancora, fin dove arriva
la memoria, e anticipiamo il domani e il dopodomani nelle nostre
intenzioni e nei nostri progetti. Una caratteristica fondamentale del
cosiddetto io “inferiore” è di abbracciare il corso di una vita a
partire dal sorgere della memoria.
L’Io superiore sta come in mezzo, fa da
intermediario tra la coscienza dell’Angelo, che abbraccia l’intera
evoluzione di un uomo, e quella dell’io ordinario, che abbraccia la
serie dei giorni di una sola vita, a mano a mano che vengono vissuti.
Il carattere fondamentale della coscienza dell’Io superiore è di
abbracciare con la sua coscienza il senso unitario di un’intera
esistenza ancora prima di viverla al livello di coscienza ordinaria
incarnata. Già prima di nascere egli ha fatto il piano di tutta
l’esistenza, ha architettato ogni evento, ha deciso se vuol vivere
trenta, cinquanta o ottant’anni.
La libertà dell’io quotidiano potrà apportare delle modifiche minori al progetto dell’Io vero, ma non potrà
mai, ad esempio, ridurre a vent’anni una vita pensata per
durarne settanta. Ciò che “mi capita” è ciò che il mio Io
superiore ha voluto per la mia crescita ulteriore; il modo
di reagire, facendone il meglio o il peggio, è lasciato alla
“libertà” dell’io normale in base alla quale l’Io superiore
“adatta” di continuo i suoi piani, un po’ come fanno i
genitori con i bambini piccoli.
Tutta la problematica che accompagna l’eutanasia e
l’accanimento terapeutico, per fare un esempio, nasce dal
fatto che non sta alla coscienza ordinaria decidere quale
sia il momento giusto per morire. Sapere quale lunghezza della vita sia quella giusta per una data persona è una
faccenda dell’Io superiore. Il disagio interiore che suscita
la questione dell’accorciare o prolungare la vita, deriva
dal fatto che l’umanità ha sempre saputo – seppure solo
al livello del sano sentimento – che l’io normale non è
ancora a quei livelli evolutivi così scevri di egoismo da
poter decidere quando sia bene per lui e per gli altri lasciare la scena di questo mondo.
È l’Io superiore di ognuno di noi ad avere uno
sguardo d’insieme sulla nostra esistenza quale unità organica. Il modo
in cui poi quest’esistenza verrà intessuta nell’insieme dell’evoluzione
millenaria della nostra individualità, viene lasciato all’Angelo
custode. Dopo la morte l’Io superiore entra nei mondi spirituali per
ricevere dall’Angelo le ispirazioni che gli consentono di architettare
la vita successiva.
Il rapporto tra l’Angelo e il suo custodito
C’è una domanda che forse risuona un po’
strana alle orecchie del cristianesimo tradizionale: qual è la
differenza tra il demone di Socrate e l’Angelo custode cristiano? Io,
nato in seno al cattolicesimo, da piccolo recitavo l’Angelo di Dio più volte al giorno. E mi piaceva molto.
Poi, al liceo, mi sono beato altrettanto a leggere in Platone le cose che Socrate dice sul suo demone: ne parla
in termini così belli, Socrate, lo presenta come un genio
in tutto e per tutto benevolo... Il cristianesimo, invece,
ha negativizzato il dàimon socratico, e infatti la parola demone, in italiano, indica uno spirito nefasto. Ancora più
negativa è la parola “Demonio”, riservata al fratello più
robusto del demone.
Eppure il
dàimon dava a Socrate le ispirazioni più belle e più alte! Ciò
significa che il grande filosofo greco è stato un vero precursore
dell’evoluzione proprio per il suo rapporto cosciente con l’Essere
angelico che lo custodiva. Per questo non è facile capire come mai il
cristianesimo abbia liquidato il dàimon di Socrate presentandolo
come roba da diavoli.
C’è però una differenza fondamentale fra il demone di
Socrate e l’Angelo custode “del buon cristiano”: mentre
Socrate, 400 anni prima della svolta, riusciva ad accogliere le ispirazioni del suo demone, il demone a sua volta
non poteva ancora accogliere l’Essere pieno di amore,
che non era ancora entrato nella Terra. Per l’Angelo
del “cristiano” le cose si invertono su entrambi i fronti:
l’Angelo ha accolto il Cristo, mentre invece il suo protetto, a differenza di Socrate, non è ancora in grado di
ascoltare le sue ispirazioni – cosa che dovrà imparare
sempre a fare meglio in futuro.
Dopo la grande svolta, l’Angelo e l’uomo sono in un
certo senso ancora più strettamente accomunati nel loro
cammino, tanto che oggi si presenta per tutti e due un
elemento nuovo di ascesa o di caduta. Gli esseri umani, a partire dal nostro tempo che vede sorgere per la
prima volta la possibilità reale di una scienza dello spirito, cominciano a dividersi in due “razze morali”, cioè
in due diverse configurazioni animico-spirituali. Alla
prima, apparterranno coloro che dedicheranno pensieri
alla conoscenza dello spirituale, alla seconda coloro che
rifiuteranno di farlo.
In stretta connessione con questo evento,
anche una metà degli Angeli salirà di un gradino e l’altra metà lo
scenderà – si tratta naturalmente non di una metà aritmetica,
quantitativa, ma qualitativa. Questo salire o scendere sarà opera
comune dell’uomo e dell’Angelo, avendo l’Angelo guidato il suo
custodito fino al punto di poter prendere o no sul serio la realtà
dello spirito.
Quella parte degli uomini che scende verso il
basso rifiutandosi di accedere a una scienza dello spirituale porta in
basso anche l’Angelo, che deve sempre restare congiunto col suo
protetto. L’evoluzione del suo custodito è infatti anche il risultato
della sua stessa evoluzione. L’uomo che si riduce ai determinismi di
natura meccanizzando il suo spirito, lasciando vegetare la sua anima e
rendendo del tutto istintivo il suo corpo, tira in basso anche
l’Angelo.
Ecco, di nuovo, il signi
ficato della frase di Paolo: noi
giudichiamo gli Angeli, noi siamo la crisi degli Angeli –
la parola “crisi” viene dal verbo greco krìno che significa
“giudico”, “scevero”, “separo”. Anche questo elemento
di ascesa o caduta nostra e degli Angeli fa parte di un
processo evolutivo lunghissimo che regge il nostro mondo, la cui legge fondamentale è la libertà dell’uomo.
“Angelo di Dio, che sei il mio custode...”
Angelo di Dio che sei il mio custode,
illumina,
custodisci,
reggi,
governa
me, che ti fui affidato dalla pietà celeste.
Amen.
Tanti di noi da piccoli hanno recitato questa preghiera.
Vorrei riproporla alla luce di quanto è stato detto.
Angelo di Dio che sei il mio custode
: in greco ànghelos significa “messaggero”. Gli Angeli sono, a tutti i livelli,
messaggeri tra la Divinità e l’uomo. La Divinità vuole
entrare in contatto con noi, ma questo contatto è fatto
di Esseri viventi, non di pensieri astratti. Dio, quando
pensa, crea Esseri. Noi non siamo in grado di comunicare direttamente con Dio, perché la coscienza che ha
il nostro io normale è di tipo riflesso e astratto. Siamo
abituati a pensare quello che ci pare, a formulare i pensieri più vari, giusti, sbagliati, campati per aria, malevoli...
tanto, così ci diciamo, all’esterno non succede niente, le
cose non cambiano.
Dio pronuncia i propri pensieri viventi e i
Sera
fini, i Cherubini e i Troni li accolgono; poi li passano – un po’
semplificati, altrimenti non li capirebbero – alle Dominazioni, alle
Potestà e alle Virtù che, semplificandoli ulteriormente, li porgono ai
Principati, agli Arcangeli e agli Angeli che li semplificano ancora un
po’ per permettere a noi di portarli al nostro livello di pensiero. Se
noi fossimo in grado di capire tali e quali i pensieri viventi di Dio,
saremmo noi Dio!
La coscienza divina crea esseri e crea mondi! Che cosa
capiamo noi del creare mondi? Nulla! I pensieri divini, sostanza viva d’amore e di saggezza, devono venire
“umanizzati” e giungono a noi attraverso nove trasformazioni successive. L’Angelo è la nona trasformazione
delle creazioni divine e accompagna la decima trasformazione che ognuno di noi è chiamato a compiere nella
sua mente e nel suo cuore.
Illumina
, custodisci, reggi e governa me, continua la
preghiera: è straordinaria l’esattezza scientifico-spirituale di questo quaternario di verbi! L’Angelo di Dio è una
preghiera che io non so quando sia stata coniata, ma
sicuramente in un tempo in cui si avevano ancora conoscenze oggettive delle realtà spirituali.
Illumina
si riferisce allo spirito vero e proprio, perché
l’azione del chiarire col pensiero, del fugare le tenebre
dell’ignoranza è propria dello spirito;
custodisci
si riferisce alla realtà dell’anima, perché è
nell’anima che si annida il pericolo dell’egoismo e lì devono essere custoditi, curati, i nostri pensieri, i nostri
sentimenti, le nostre volizioni. Tutto il cammino di purificazione è un custodirci dal male. Proteggi la mia anima
in modo che non soccomba al maligno;
reggi
: il reggere ha a che fare con ciò che la scienza dello spirito chiama il “corpo eterico”, cioè l’insieme delle
forze vitali, architettoniche e plasmatrici che edificano e
mantengono in vita il nostro corpo fisico che, altrimenti,
invece di “reggersi” si decomporrebbe, come accade al
cadavere;
governa
: il governare ha a che fare con le leggi delle
forze fisiche – gravità, elettricità, magnetismo... – e si
riferisce alla costituzione specificamente terrestre dei
corpi. Il greco kübernào (governo), il semitico GBR (da
cui il cristiano “Gabriele” e la moderna “cibernetica”) si
riferiscono all’insieme delle forze telluriche che i misteri
di Samotracia esprimevano negli dei Kabiri. È sempre
la stessa serie consonantica gbr, che compare nel latino
gubernare;
me, che ti fui af
fidato dalla pietà celeste: ecco qui la risposta
a una domanda che aleggiava da un pezzo. Chi ci ha
assegnato l’Angelo custode? La pietà celeste, cioè la grazia divina. Quando? Qui le cose si complicano perché
dobbiamo ancora una volta confrontarci col cristianesimo tradizionale. L’idea che l’anima umana non esista
prima della nascita e venga creata da Dio al momento
del concepimento, è uno degli aspetti più problematici
del cristianesimo tradizionale. Che cosa è contenuto implicitamente in un’affermazione del genere? Che non è
lo spirito a decidere quando deve nascere il corpo, ma è
l’elemento corporeo a decidere quando lo spirito, anzi
l’anima, deve venire creata da Dio.
Invece le cose stanno in ben altro modo in un cristianesimo inteso correttamente. La creazione di tutti gli Io
umani è avvenuta all’inizio dell’evoluzione terrestre: ogni
Io umano è uno spirito che partecipa a tutta l’evoluzione, proprio perché è stata avviata apposta per lui! Gli
Io umani sono sorti come tante intuizioni morali della
fantasia del creatore: di queste intuizioni faceva parte
anche quella di affiancare a ogni essere umano l’Angelo
custode.
La preghiera dice: O Angelo custode, a te è stato af
fi-
dato fin dall’inizio dall’amore divino il compito di offrirmi pensieri che illuminino la mia mente, il mio spirito, di
custodire la mia anima proteggendola dal male, di reggere le mie forze di vita tenendole nel giusto equilibrio,
e di governare nel modo più sano tutte le forze fisiche
che mi permettono di operare sulla Terra.
Come tutte le preghiere, anche questa è stata pronunciata con le forze del cuore nello stadio infantile
dell’evoluzione umana. Nello stadio adulto si può aggiungere alla fede, che è la forza del cuore, la luce della
conoscenza. In questo modo diventiamo adulti. Dà gioia
profonda constatare che certe preghiere – ce ne sono
anche altre! – illuminate dalla scienza dello spirituale risultano spiritualmente giuste. La scienza che si aggiunge
alla fede in questo caso ci fa vedere che i quattro verbi
non sono messi lì a caso, ma si riferiscono in modo oggettivo e preciso allo spirito, all’anima, all’eterico-vitale,
al fisico minerale.
3
ANGELI E MORTI:
UNA QUESTIONE DI FEDE O DI SCIENZA ?La scienza oggettiva vale solo per il mondo visibile?
Fin qui, nelle mie ri
flessioni ho semplicemente presupposto l’esistenza degli Angeli. A questo punto bisogna
però affrontare alcuni quesiti di carattere metodologico.
Comincio col riportare un articolo su Sandra Adler, una
donna che percorre gli Stati Uniti in lungo e in largo
cercando di convincere gli altri della realtà degli Angeli,
indicando anche i modi concreti in cui ci si può mettere
in contatto con loro.
“Un tempo scettica, ora insegna agli altri
come trovare il proprio Angelo”
“Sto diventando pazza”, pensava Sandra Adler. Da
anni sentiva delle voci. Suo marito le disse che aveva
bisogno di aiuto. Così cominciò a frequentare uno psichiatra. Ma le voci non scomparivano.
Finché un giorno, su suggerimento di qualcuno del
suo gruppo di terapia, Sandra Adler andò ad ascoltare una conferenza sugli Angeli. “Ero arrivata a un
punto della mia vita in cui ero depressa e mi attaccavo
a qualsiasi cosa”, ricorda.
Quella conferenza, oltre 30 anni fa, segnò un punto
di svolta nella sua esistenza. Sandra Adler si persuase
che le voci che le risuonavano in testa erano i suoi
Angeli custodi che cercavano di comunicare con lei.
Oggi Sandra Adler gira gli Stati Uniti e il mondo per
diffondere il suo messaggio: tutti noi abbiamo Angeli
custodi che cercano di raggiungerci.
Dalla quantità di gente che attira, è chiaro che molte persone credono, o vogliono credere, all’esistenza
degli Angeli. Sandra Adler, che ha un master in consulenza all’Università del Michigan, è una dei tanti
conferenzieri entrati con successo nel mercato della
“nuova spiritualità”.
Secondo la Adler la grande sfida è riconoscere l’appello degli
Angeli. La pelle d’oca o un brivido improvviso, dice, sono in realtà
segnali provenienti dagli Angeli.
“Gli Angeli ci si avvicinano per farci sapere che sono lì a
proteggerci o che stiamo facendo la cosa giusta”, dice Sandra Adler,
che è vicepresidente dell’Inner Peace Movement, un’associazione senza
scopo di lucro, fondata nel 1964 e con sede a Washington, che organizza
seminari sugli Angeli. “Molti hanno fatto l’esperienza di avere un’idea
improvvisa o un’intuizione e di verificare che funziona. Ecco, questo è
uno dei modi in cui gli Angeli ci aiutano”.
L’Inner Peace Movement afferma di avere insegnato negli Stati Uniti
a circa centomila persone a comunicare con i loro Angeli custodi.
Sandra Adler, che vive a Las Vegas, ammette tranquillamente che molte
persone trovano le sue idee difficili da digerire. È questa una delle
ragioni per cui viaggia tanto. All’inizio anche lei nutriva molti
dubbi. “Ero la più grande scettica del mondo. Facevo l’insegnante e non
insegnavo certo questo a scuola”, dice.
Oggigiorno gli Angeli sono i protagonisti di numerosi film e libri. La serie-tv Touched by an Angel
(Toccato da un Angelo), in cui gli Angeli vengono in
aiuto di anime in difficoltà, è uno dei successi della
CBS. Decine di libri sugli Angeli riempiono gli scaffali delle librerie riservati ai testi New Age e alla nuova
spiritualità.
Gli Angeli occupano un posto centrale nel cattolicesimo romano e nella religione ebraica e se ne parla
nella Bibbia come di messaggeri celesti. Alcuni teologi sostengono che non si può dimostrare l’esistenza
degli Angeli con la logica, altri che non se ne può neanche dimostrare l’inesistenza.
Secondo Sandra Adler, ci sono quattro modi in cui
gli Angeli custodi cercano di mettersi in contatto con
noi:
1. attraverso l’intuizione, quando sentiamo una voce
interiore;
2. attraverso una visione, quando cogliamo un’ombra con la coda dell’occhio;
3. attraverso la profezia, quando abbiamo sogni premonitori o sappiamo
per esempio chi ci sta chiamando al telefono prima di alzare la
cornetta;
4. attraverso quella che la Adler chiama “sensazione viscerale” (o istintiva). Alcuni descrivono la
sensazione: “qualcuno mi ha battuto sulla spalla, mi volto e non c’è nessuno”.
Sandra Adler racconta l’episodio di una donna che
ha assistito a una sua conferenza a Jackson. La donna
era in ospedale in attesa di essere sottoposta a un’operazione chirurgica per la rimozione di un tumore al
seno. Mentre aspettava, stesa, che le facessero una
radiografia aveva sentito una mano che le toccava,
dietro, il collo. “Quando guardarono la radiografia
il cancro non c’era più”, racconta la Adler. “Chiese
ai dottori chi le avesse toccato il collo e quelli dissero
che nessuno l’aveva toccata. In quel momento seppe
che era stato il suo Angelo”3 .
La prima osservazione che vorrei fare su questo articolo
è che anche Sandra Adler – che l’autore dell’articolo avvicina al movimento New Age – l’esistenza degli Angeli
semplicemente la presuppone e non si pone il problema
di dimostrarla. “Gli Angeli ci si avvicinano...ci aiutano”.
Colpisce in questo testo il desiderio sincero di incontrarli, questi Esseri di luce, la spontaneità con la quale
viene affermata la loro esistenza e lo sforzo per ritrovare
un aggancio, un contatto. Manca però la consapevolezza
della complessità che comporta questo dialogare: non
meno che fra gli esseri umani. C’è un’evidente tendenza
a semplificare le cose.
La Adler parla di quattro modi
essenziali di manifestarsi degli Angeli. Dobbiamo aver fede in lei che
afferma queste cose? O c’è una possibilità di verificare
scientificamente la sua affermazione? Questa domanda sorge spontanea
leggendo un testo di questo genere. La Adler parla di intuizioni: ma
come si fa a sapere se un’intuizione è vera o errata? Parla di visioni:
ma tanti sono gli esseri umani che dichiarano di vedere qualcosa di
insolito... dobbiamo fidarci di tutti? Anche quando fanno affermazioni
che si contraddicono a vicenda?
Di fronte al fenomeno delle visioni la cosa più im
3
Da un articolo di Pedro Ribadeneira pubblicato sul Boston Globe il
27/2/1999
portante è il saper distinguere tra la percezione e
l’interpretazione pensante che se ne fa, altrimenti si rischia di
cadere in un anacronistico riemergere di antiche chiaroveggenze spontanee.
Per esempio: una persona vede
un Essere di luce e ritiene di essere trasportata in una dimensione
diversa. Dice: ho visto un Angelo; oppure: ho visto il Cristo. Ora, è
importante sapere che l’Essere di luce che le viene incontro lo fa
secondo le leggi del suo essere, indipendentemente dalla presa di
posizione pensante di chi percepisce. Ugualmente, la persona che
percepisce interpreta ciò che vede in base alla sua compagine
animico-spirituale. Del resto, anche nella vita sensibile, un bambino
che veda per la prima volta un elicottero, potrebbe dire: ho visto un
calabrone enorme che mi voleva assalire!
Nell’umanità di oggi i due
livelli della percezione e dell’interpretazione concettuale vengono
quasi sempre confusi per cui quando una persona dice: io ho visto un
Angelo, ho parlato con un Angelo, la prima cosa da chiedere sarebbe:
come fai a sapere che era proprio un Angelo? E se fosse stato un
abbagliante Diavolo? Tu pensi che sia un Angelo: può darsi che sia
vero, ma rimane pur sempre un’interpretazione tua.
Il primo passo da compiere, quindi, dovrebbe essere
quello di rendere puro l’elemento percettivo, cercando
di descrivere ciò che si vede prima di immettervi le categorie interpretative che sono il patrimonio conoscitivo
di colui che vede.
Se nell’umanità di oggi sono sempre più numerose le
persone che hanno percezioni sovrasensibili, questo fenomeno non significa che aumenti nell’umanità anche la
capacità pensante per decifrarle. Anzi, il materialismo è
proprio un’esasperazione, un’inflazione del dato di percezione che induce pensieri sempre più automatici, con
un conseguente sottovalutare e negligere l’attività creativa e attiva del pensare stesso. Questo significa che ci
sono uomini che sentono sempre più cose, ma che hanno
una capacità sempre minore di sapere oggettivamente di
che cosa si tratti.
Il compito del pensiero è quello di cogliere l’oggettività di un fenomeno, non di attribuirgli il significato che
uno vorrebbe che avesse. Se mi pare di vedere un Essere
di luce o addirittura di udire delle voci, non è affatto
escluso che si tratti di “qualcosa” di reale, se non addirittura di Esseri spirituali veri e propri. Ma fa una bella
differenza se io penso che sia una persona cara morta
mentre invece è l’Angelo, o il mio Io superiore o qualche
altro Essere ancora.
Il disagio dell’umanità
attuale sgorga da una vistosa disparità tra una quantità esorbitante di
elementi di percezione e l’atrofizzarsi dell’elemento del pensare, che
non ce la fa più a distinguere e a vagliare. E c’è più attività
percettiva che pensante per il fatto che la percezione viene da sola,
si presenta da sé. Basta restare inerti, passivi e arrivano mille
percezioni; basta sedersi di fronte al televisore o navigare in
Internet e ne arrivano di ogni specie. Il pensare vero e proprio
richiede invece attività interiore, è una presa di posizione
individuale che cerca l’oggettività dei fenomeni.
Premesso tutto questo, c’è da
domandarsi se può esistere una scienza oggettiva anche riguardo al
mondo spirituale. Solitamente si risponde che solo al mondo fisico è
applicabile il metodo scientifico. Ma chi ha decretato che le cose
debbano stare proprio così? E in base a che cosa si fa un’affermazione
del genere?
La
fiducia nella sola scienza materiale è il risultato di
tutta la cultura occidentale, soprattutto quella degli ultimi secoli. Ciò deriva dal fatto che l’esperienza di sé ha
portato l’uomo a stabilire che le certezze scientifiche, valide per tutti, sono possibili solo per ciò che riguarda il
mondo materiale, mentre la sfera spirituale e quella del
religioso sono considerate puramente soggettive, costituiscono una faccenda personale.
Esiste una scienza vera e propria, oggettiva e universalizzabile, per il mondo visibile – così si pensa; per il
mondo dello spirito bisogna accontentarsi della fede. E
siccome la fede è puramente soggettiva e ognuno può
credere a quello che vuole – perché non può provarlo scientificamente –, rimane relegata nella sfera privata
della vita.
Si rileva, però, che all’inizio del nuovo millennio c’è un
forte aumento di esperienze sovrasensibili. Perché non
deve essere possibile una conoscenza scientifica e valida
per tutti anche nel campo dello spirituale? Quali sono i
criteri della scientificità? Come si fa a stabilire l’oggettività dei fenomeni?
Al polo opposto di una Sandra
Adler, che non si pone queste questioni di metodologia e interpreta le
sue percezioni dicendo senz’altro che sono gli Angeli a manifestarsi
così e così, c’è un Rudolf Steiner che complica non poco le cose
affermando che se c’è una scienza oggettiva dello spirituale, essa deve
fondarsi sulle stesse basi
della scienza valida per il mondo visibile.
Ora, il metodo scienti
fico invalso negli ultimi secoli
per indagare il mondo materiale, poggia su due colonne:
la percezione e il pensare che trova il concetto che le corrisponde.
Scientifico viene considerato tutto ciò che può mostrare da un lato
l’elemento di percezione sensibile, accessibile a tutti, e dall’altro
la sua comprensibilità tramite il pensiero che interpreta questa
percezione in modo ugualmente accessibile a tutti.
Per procedere scienti
ficamente nei riguardi di ciò che
è spirituale, dobbiamo avere sia la percezione del sovrasensibile sia il pensare rivolto ad essa. Molti diranno:
allora dovrò aspettare fintanto che avrò io stesso qualche percezione del sovrasensibile e per adesso è inutile
perdere tempo. Quello che dice Sandra Adler e quello
che dice l’iniziato Rudolf Steiner io li metto sullo stesso
piano.
Però, se è vero che la
percezione o si ha o non si ha, ciò non vale per il pensare: la facoltà
di pensare ce l’ha ogni essere umano – cosa bellissima e incoraggiante.
E non solo: il procedere del pensare è esattamente lo stesso sia che
pensi sul visibile, sia che pensi sulle percezioni sovrasensibili. In
altre parole, sia che uno Steiner percepisca mucche, pietre o
lapislazzuli, sia che percepisca Angeli e Arcangeli, la sua attività
pensante, in tutti e due i campi, resta la stessa. Fondamentale per la
scientificità di qualunque conoscenza non è dunque la percezione, ma la
capacità del pensiero di dire che cosa quella percezione sia
oggettivamente. Uno scienziato non ha bisogno di percepire lui stesso
tutti gli esperimenti fatti da un altro per metterli al vaglio del
proprio pensiero.
La via del cuore e la via della mente
La questione complessa che riguarda l’esistenza e l’operare degli Angeli e dei Morti richiede che si compia una
nuova sintesi di scienza e di fede. Il futuro rapporto con
lo spirituale, sta nell’imparare ad avere fiducia – questo
è il vero significato della parola “fede”, dal greco
pìstis – nel pensare umano.
La religione del passato si fondava sulla fede, sulla rivelazione divina che l’uomo sapeva accogliere più che
altro passivamente; la scienza moderna si è fondata, di
contro, sulla diretta comprensione delle cose, e ha scartato la fede.
L’uomo religioso moderno usa soltanto il cuore e mette da parte la testa; in quanto scienziato, usa soltanto la
testa e dimentica il cuore, perché gli crea solo pasticci.
Si è instaurata una religione con un cuore senza testa, e
una scienza con una testa senza cuore. A farne le spese
è l’uomo che si vive solo a metà, sia come scienziato sia
come uomo religioso.
Però sia la testa sia il cuore sono indispensabili all’uomo: la testa è indispensabile perché sa pensare e il cuore
perché sa amare. Il passo in avanti è quello di una fede
che si illumini sempre di più grazie alla scienza, e di una
scienza che si approfondisca con le forze del cuore.
In fondo, la testa senza il cuore fa comodo: la scienza
da sempre ha cercato di affrancarsi dall’etica, e ci riesce
sempre meglio. La scienza oggi si preoccupa solo del
vero astratto, scartando il bello e il buono, e la religione,
che si è preoccupata solo del buono, ha trascurato non
poco il bello e il vero.
Bisogna cominciare a usare testa e cuore insieme. Ciò
che la testa non riesce ancora a capire in fatto di Angeli e di Morti, lo può intuire il cuore; ciò che il cuore,
con le forze dell’amore, non riesce ancora a distinguere,
lo sa fare la mente. Soprattutto parlando di Angeli e di
Morti, se la mettiamo solo in chiave di fede viviamo nel
puro sentimentalismo e se mettiamo la ricerca soltanto
in chiave di scienza rimaniamo nel puro dilettantismo. Il
materialismo è dilettantismo là dove si tratta di affrontare ciò che è spirituale.
Allora, è possibile
dimostrare l’esistenza degli Angeli e
dei Morti? Possiamo tentare una duplice risposta: una
della mente e una del cuore.
La mente in fondo ci dice che non è possibile dimostrare nulla, perché quel che è reale si può soltanto mostrare.
Gli esseri reali sono fatti per essere vissuti e sperimentati,
e se una persona non ha mai fatto l’esperienza della presenza dell’Angelo, per lei l’Angelo semplicemente non
esiste. L’intento di dimostrargliene teoricamente l’esistenza è illusorio: questa persona continuerà a dire che
gli Angeli non esistono – e per lei è la pura verità. Però,
quella stessa mente, nel momento in cui fa posto anche
al cuore, fa un’altra constatazione: se è vero che non si
può dimostrare l’esistenza degli Angeli è altrettanto vero
che non si può dimostrare la loro non-esistenza!
Chi ritenesse di poter dimostrare la non-esistenza degli Angeli, è altrettanto dogmatico e non-scientifico di
chi volesse dimostrarne l’esistenza. Attraverso questa seconda, più libera, affermazione della mente, superiamo
la presunta autosufficienza del pensare logico. Questa
modestia ci fa rivolgere alle forze del cuore per chiedergli: che cos’hai da dire, tu? Se la mente non è capace di
decidere né per l’esistenza né per la non esistenza degli
Angeli, qual è l’esperienza che fa il cuore?
Prendiamo le mamme di due bambini piccoli: il cuore
di una mamma è convinto che il suo bimbo sia protetto dall’Angelo custode e l’altra mamma ignora l’Angelo,
proprio non ci pensa. Queste due mamme vivranno il
rapporto col loro bambino in modo del tutto diverso.
La prima passa giornate tranquille, senza la paura che
al figlioletto possa succedere qualche disgrazia da un
momento all’altro, è piena di fiducia, sa che al suo bambino capiterà solo ciò che è previsto nell’amore di un
essere angelico, e a lui lo affida. La seconda mamma,
invece, forse vive dalla mattina alla sera nell’ansia che il
suo bambino si ammali, che cada dalla finestra o vada a
finire sotto un’automobile.
Il rapporto con la realtà dell’Angelo custode è dunque
di tipo esistenziale: sono io a decidere se voglio vivere
così o così. E, restando a questo esempio, ognuno può
chiedersi che tipo di mamma avrebbe preferito avere.
Una mamma piena di fiducia – che naturalmente non
significa una mamma irresponsabile –, o una mamma
costantemente in allarme? Chi preferirebbe una mamma
divorata dalla paura? Qui si arriva al limite del dimostrare, anzi, a questo punto non c’è più nulla da dimostrare:
il capire al livello del cuore non avviene per astrazione
logica, ma un è modo di vivere.
Affermare l’esistenza dell’Angelo custode si confà a
un atteggiamento interiore pieno di positività, che vive
in un mondo di sapienza e di aiuto reciproco.
Dionigi l’Areopagita e Scoto Eriugena
Ci sono testi che risalgono al VI secolo, contenenti una
dottrina ben articolata sulle gerarchie angeliche. Furono
attribuiti per lungo tempo a Dionigi l’Areopagita, vissuto nel I secolo dopo Cristo. La scienza degli ultimi
150 anni ha poi sentenziato che questi testi non possono risalire a quel Dionigi, che fu discepolo di Paolo di
Tarso. Sostiene che sono stati fabbricati a bella posta da
un falso Dionigi – passato alla storia come lo pseudoDionigi –, appunto nel VI secolo.
Se ci rifacciamo alle antiche conoscenze esoteriche –
con le quali, come vedremo, Dante aveva ancora dimestichezza –, veniamo a sapere che Paolo incaricò Dionigi
di fondare ad Atene una scuola di esoterismo cristiano
per tramandare, a chi avesse i necessari presupposti conoscitivi e morali, una conoscenza scientifica delle gerarchie celesti.
Era previsto che il cristianesimo uf
ficiale – quello essoterico, cioè accessibile a tutti – non mettesse in primo
piano una tale scienza, prematura e pericolosa quando
mancano le capacità morali di farne buon uso. Ne sarebbero derivati soltanto pesanti dogmi di fede col rischio
di mettere a repentaglio il monoteismo. Per questo motivo si affidò al filone esoterico, che è sempre rimasto
nelle catacombe della cultura occidentale, la conoscenza
scientifica degli Esseri angelici.
Nei tempi passati tutto ciò che aveva un carattere
scientifico-spirituale doveva essere coltivato dai pochi
che avevano sviluppato prima del tempo quelle capacità
che il resto dell’umanità avrebbe conquistato solo più
tardi. E c’era una regola fondamentale, cui fa accenno
già Platone: le verità più profonde, quelle che solo più
tardi possono diventare patrimonio di tutti, dovevano
essere tramandate per via orale e non per iscritto.
Se i moderni esegeti conoscessero le leggi della tradizione esoterica, capirebbero perché le conoscenze di
Dionigi sono state tramandate per cinque secoli solo
oralmente. Poi, nel VI secolo, sorse la necessità – anche
perché la capacità di memoria andava scemando sempre
di più – di fissare quei contenuti nella forma scritta per
evitare che andassero persi o che venissero alterati.
Gli iniziati che misero su carta quei testi nel VI secolo
sapevano bene che i contenuti risalivano al Dionigi vissuto al tempo di Paolo. Lo pseudo-Dionigi è stato perciò
inventato dagli pseudo-scienziati! Lo stesso Tommaso
d’Aquino ha fatto un commentario bellissimo sul testo
di Dionigi, perché nel medioevo era fondamentale nello
studio della teologia.
Un altro frammento di scienza degli Angeli andata
persa risale a una personalità interessantissima, Scoto
Eriugena, vissuto nel IX secolo. Scrisse un libro importante: De divisione naturae (Sulla divisione della natura).
Scoto divide la realtà complessiva della natura, cioè del
reale, che abbraccia anche la Divinità, in quattro settori
fondamentali. Parla di una natura naturans non naturata,
poi di una natura naturata et naturans, poi di una natura
naturata et non naturans, e in quarto luogo di una natura non
naturata et non naturans.
1. La
natura naturans è una natura che crea, è la Divinità
non naturata, cioè non creata a sua volta. La Trinità – a lei si riferisce questa prima definizione – è
una natura, l’essere divino, che crea altre nature ed
è increata.
2. Il secondo livello della creazione è la
natura naturata
et naturans: sono le gerarchie angeliche! Da un lato
create dalla Divinità suprema, e dall’altro esse stesse creatrici del mondo a loro sottostante.
3. Al terzo gradino troviamo gli esseri umani:
natura naturata et non naturans, creata e non creante. Ci
troviamo adesso al momento della storia in cui
quest’affermazione di Scoto va ripresa in chiave evolutiva: gli uomini sono a tutta prima nature
create ma non capaci di creazione. Sono destinate,
però, grazie al loro cammino evolutivo, a diventare
a loro volta sempre più creatrici. Gli uomini sono
chiamati a diventare essi stessi esseri “naturanti”,
cioè creanti; come punto di partenza sono natura
naturata et non naturans, creata e non creante.
4. Il quarto livello della creazione è la
natura non naturata et non naturans: non creata e che non ha più
bisogno nemmeno di creare, perché rappresenta il
compimento ultimo di tutta l’evoluzione. Ecco di
nuovo la Divinità: essa è all’inizio creante e alla fine
è compimento della creazione stessa.
I cori angelici in Dante
Veniamo adesso a Dante: potremmo bearci degli interi
canti XXVIII e XXIX del Paradiso, oltre a tutto il resto,
in quanto il Paradiso dantesco è tutto popolato di Esseri
angelici. Sulla Luna, per esempio, ci sono gli Angeli e tra
i Morti gli Spiriti votivi; su Mercurio ci sono gli Arcangeli, e tra i defunti gli Spiriti operanti; su Venere ci sono i
Principati, e gli Spiriti amanti; sul Sole abitano le Potestà
con gli Spiriti sapienti; su Marte le Virtù, Spiriti militanti;
su Giove le Dominazioni, Spiriti giudicanti. Poi viene
Saturno con i Troni e gli Spiriti contemplanti, poi c’è
il Cielo delle Stelle fisse popolato dai Cherubini, Spiriti
trionfanti, e infine il Cielo cristallino, o Primo Mobile,
dove vivono i Serafini immersi nella divina essenza. Al di
là del Cielo cristallino c’è l’Empireo, il cielo di fuoco, che
non si muove più nel tempo, ma vive nell’eternità.
All’inizio del canto XXVIII,
Dante pone a Beatrice un importante quesito. Egli ha già passato in
rassegna tutte le gerarchie celesti distribuite nello spazio, in quanto
abitano i vari pianeti, salendo fino a Saturno; poi ha incontrato le
Stelle fisse, poi il Primo Mobile e l’Empireo. Al di là di tutto ciò
che è nello spazio, ha poi contemplato il puro spirituale che si fissa
in un punto solo, non dimensionabile, che è la Divinità. Ciò che Dante
non riesce a capire è perché nel mondo puramente spirituale ci sia una
totale inversione dei rapporti.
Nel mondo materiale il centro è la Terra, poi vengono
la Luna, Marte, Venere, il Sole ecc., secondo la concezione tolemaica, che muove dal punto di vista della nostra
esperienza reale e pone la Terra al centro – e non il Sole,
come nella concezione copernicana. Noi il Sole lo percepiamo in rotazione attorno alla Terra, intorno a noi
stessi, e ognuno di noi in realtà si sente posto al centro
del mondo.
Nel mondo
fisico il centro è costituito di forze gravitazionali: il centro è la Terra, dove c’è il massimo di
gravità. Il primo cerchio attorno alla Terra è quello che
gira più lentamente, perché è più vicino alla gravità. Più
ci si allontana dalla Terra e più aumenta la velocità.
Ora, lasciato alle spalle
tutto il mondo visibile, Dante contempla lo spirituale puro e vede che
lì è tutto all’opposto: il centro, che è la Divinità, è un punto
invisibile, e i più vicini ad essa sono gli spiriti più alti e “veloci”
(Troni, Cherubini e Serafini) e non i più bassi. Quello che Dante non
riesce a capire è perché gli spiriti più vicini al punto centrale
(cerchiamo di trasporre tutto nello spirituale, anche se ci tocca usare
immagini spaziali) siano quelli che si muovono più velocemente. Più si
va lontano dal centro spirituale e più c’è lentezza nel movimento.
La risposta di Beatrice all’interrogativo di Dante è che
spiritualmente non può essere che così: più si va lontano
dalla velocità massima e “concentrata” dello spirito che
pensa e crea, e più ci vuol tempo per capire qualcosa.
Questa velocità diminuisce in proporzione alla distanza
dal punto centrale, cioè “con-centrato”, dell’intuito puro
dello spirito creatore.
Dante distingue allora due ordini fondamentali
nell’universo in cui viviamo: il primo è l’ordine che vige
nel mondo visibile, dove la massima concentrazione di
materia fa da centro di gravità, e più le si è vicini e più si
vive la lentezza, la pesantezza. A mano a mano che ci si
allontana dalla materia si diventa veloci nello spirito.
Il secondo ordine è quello spirituale, dove avviene
l’opposto: più lo spirito è concentrato e più è veloce,
immediato nell’intuizione creatrice e nell’agire; più ci
si allontana dallo spirito (Dominazioni, Virtù, Potestà,
Principati, Arcangeli, Angeli), più si procede lentamente
nella conoscenza e si è meno liberi nell’agire. In altre
parole Dante ci vuol dire: le leggi fondamentali del regno della materia sono l’opposto di quelle dello spirito:
la gravità nella materia è antigravità nello spirito, che è
leggerezza assoluta, movimento di massima libertà.
Leggiamo ora il canto XXVIII dal verso 94 alla
fine.
È un testo bellissimo che merita di venir meditato più e
più volte.
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene alli ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre foro;
e quella che vedea i pensier dubi
nella mia mente, disse: “I cerchi primi
t’hanno mostrati Serafi e Cherubi:
così veloci seguono i suoi vimi
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e possono quanto a veder son sublimi.
Quelli altri amor che dintorno li vonno
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ’l primo ternaro terminonno.
E dèi saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogni intelletto
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato nell’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda;
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Ariete non dispoglia,
perpetualemente “Osanna” sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.
In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi èe.
Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
Questi ordini di su tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
E Dionisio con tanto disìo
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’io;
ma Gregorio da lui poi si divise,
onde, sì tosto come gli occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch’ammiri;
ché chi vide qua su lil discoperse
con altro assai del ver di questi giri”.
Dante,
Paradiso XXVIII, 94-139
Beatrice dice alla fine: e se c’è stato in Terra un mortale,
cioè un uomo (Dionigi) che ha espresso una tale verità
per i più sconosciuta, nascosta, (secreto ver), non voglio
che tu te ne stupisca. È stato Paolo a rivelargliela (lil discoperse), quel Paolo che l’ha osservata quassù. Dionigi ha
saputo queste cose da Paolo il quale racconta di essere
stato rapito al terzo cielo.
Dante mostra qui chiaramente di sapere come stanno le cose: sa che gli scritti di Dionigi risalgono a quel
Dionigi l’Areopagita che fu discepolo di Paolo; sa che
Paolo era un iniziato e che aveva affidato a Dionigi un ver
secreto (verità segrete), cioè delle conoscenze esoteriche
che non era ancora possibile comunicare a tutti, ma che
andavano coltivate nascostamente, in attesa che i tempi
maturassero.
Con altro assai del ver di questi giri
: Dante intende dire che
Donigi aveva imparato da Paolo molte più cose di quelle
che ha poi tramandato. Questi ultimi quattro versi documentano con evidenza che Dante parte dal presupposto
che esisteva nella corrente esoterica del cristianesimo
una conoscenza scientifica, dettagliata e articolata, delle
gerarchie celesti.
Ripartiamo ora dall’inizio:
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene alli ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre foro;
Il punto
fisso è la Divinità, quale centro spirituale che
tiene ogni gerarchia angelica al proprio posto (alli ubi).
A ogni gerarchia di Angeli viene cioè affidata una posizione, cioè una mansione, che vale per tutta l’evoluzione
terrestre e che è una specie di eternità nel tempo.
e quella che vedea i pensier dubi
nella mia mente, disse: “I cerchi primi
t’hanno mostrati Serafi e Cherubi:
così veloci seguono i suoi vimi
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e possono quanto a veder son sublimi.
Beatrice, dice Dante, che vedeva il dubbio nei miei pensieri, ora mi spiega che nel mondo spirituale il centro è il
punto massimo di velocità e più ci si allontana da esso e
più si perde in velocità, contrariamente a ciò che avviene
nel mondo dei pianeti visibili.
I Sera
fini e i Cherubini seguono velocissimi, senza tergiversare, i legami (i vimi) d’amore e di sapienza che li
uniscono alla Divinità, sono i più strettamente “legati”
alla Trinità, sono spiritualmente più versatili e mobili
nella loro attività creatrice. Essi assomigliano al centro
spirituale quanto più è possibile (quanto ponno) a una
creatura: tutte le gerarchie sono create, ma i Serafini e i
Cherubini sono simili al divino in modo sommo. Di più
non sarebbe possibile a natura creata. E questa capacità
di assimilarsi al divino risulta dalla loro capacità eccelsa
di scandagliare il divino stesso (e posson quanto a veder son
sublimi).
Quelli altri amor che dintorno li vonno
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ’l primo ternaro terminonno.
Che bella concezione dei Troni ha Dante! Il trono sulla
Terra mette in evidenza la gravità che tira verso il basso:
mi ci siedo sopra, faccio sentire il mio peso ed esercito il
potere. Dante dice: i Troni sono quelli che completano
in basso la prima triade gerarchica e sono chiamati Troni
perché spingono in su! Spingendo essi in su, si siedono
sul loro Trono quelli che stanno sopra di loro: i Cherubini, i Serafini e la Divinità.
Quando ci si siede sul trono
fisico tutto preme in giù; i
Troni delle gerarchie, invece, accompagnano verso l’alto.
La concezione del “Trono” nel mondo delle gerarchie è
che gli Esseri spirituali, in base al dono che fanno di se
stessi, salgono spiritualmente: c’è una levitazione spirituale che è fatta di immolazione di sé, e questo sacrificio
è il supporto della Divinità e degli Esseri spirituali più
alti.
E dèi saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogni intelletto
La beatitudine non viene
direttamente dall’amore, ma dal pensare. Dante è un genuino tomista, e
la corrente tomistica, per un certo verso in opposizione a quella di
Bonaventura e dei francescani, dice: l’uomo, che è chiamato a diventare
lui pure sempre più uno spirito libero, può conseguire le forze
dell’amore soltanto in base all’intelletto, alla conoscenza degli
esseri che vuole amare. Può amare soltanto in quanto capisce e soltanto
ciò che capisce. Si può vedere il bene dell’altro solo nella misura in
cui lo si conosce. La dignità e la libertà della persona umana stanno
nel fatto che la conoscenza deve sempre di più precedere l’amore: si
approfondisce nell’amore, ma non c’è vero amore senza conoscenza.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato nell’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda;
La beatitudine si fonda sul pensare. L’amore viene dopo
(poscia seconda)
la conoscenza: se cerchiamo l’amore senza conoscenza non otterremo né
l’uno né l’altra; se cerchiamo la conoscenza vera, di necessità essa si
approfondisce tramite l’amore. Dove c’è vera conoscenza c’è anche amore.
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
Questa terzina contiene la
risposta a chi si domanda: ma gli Angeli sono liberi o no? La caduta
degli Angeli avviene liberamente o solo perché la Divinità, nel quadro
generale dell’evoluzione, considera necessario che qualche Essere resti
indietro? Questo complesso quesito Dante lo risolve elegantemente in
tre versi: il criterio che decide quale misura di visione beatifica
ogni coro angelico può avere, è il merito (mercede).
E il merito si sostanzia di due cose: di grazia divina – che ci vuole sempre, perché senza di essa non
si può far nulla –, e di libera volontà (buona voglia), che
è la libertà della volontà volta al bene, cioè buona. Ci
vogliono tutt’e due le cose: per Dante è scontato che
la grazia non si pone in contrapposizione alla libertà e
la libertà non può opporsi alla grazia. Da una parte la
Divinità offre le condizioni evolutive (grazia), e dall’altra
la creatura risponde con la propria responsabile libertà
(buona voglia). E così si procede di grado in grado: i diversi cori angelici rappresentano gradi diversi dell’operare
della grazia divina, e di buona voglia, di libertà, di merito
da parte della creatura.
L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Ariete non dispoglia,
perpetualemente “Osanna” sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.
In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi èe.
Potestà, Virtù,
Dominazioni suonano in tre ordini di letizia, in una primavera che non
viene mai abolita dall’inverno, come accade nel mondo sensibile, perché
è la primavera eterna dello spirito. Anche qui c’è una realtà ternaria
di Esseri spirituali: è bello che Dante non abbia nessuna remora
cattolica a chiamare non solo dei, ma addirittura dee, al femminile, le
Potestà, le Virtù e le Dominazioni! Qualche spirito gretto potrebbe
accusarlo di paganesimo, se non addirittura di panteismo!
Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
Questi ordini di su tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
Il rapimento di questi nove ordini è nel loro volgersi in
alto verso le cerchie superiori e verso la Divinità, per
bearsi nel contemplarla, mentre tutti attirano in alto
quelli che stanno sotto. Tutti sono tirati in su dall’Essere
Sommo, che è la Divinità, e tutti tirano chi sta sotto. I
Serafini tirano gli altri otto ordini gerarchici più gli esseri
umani; e così via, scendendo in giù, ognuno ha da tirare.
È giusto e bello quello che Dante dice: tutti tirati sono e
tutti tirano. Ogni gerarchia riceve dall’alto e dona verso
il basso; anche l’uomo è chiamato a tirar su i regni della
natura, quello animale, vegetale e minerale.
E Dionisio con tanto disìo
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’io;
Il desiderio che mosse Dionigi l’Areopagita a vivere con
gli Esseri angelici sta rinascendo nell’umanità attuale,
perché i tempi sono maturi per questo. Dante dice che
una delle cose più belle per l’uomo è di generare e vivere
in sé il desiderio, la gioia, l’amore per la conoscenza degli
Esseri angelici, per la comunione e la conversazione con
loro, per il sentirsi guidati e ispirati da questi nove cori
di sapienza divina.
ma Gregorio da lui poi si divise,
onde, sì tosto come gli occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
Dante nel
Convivio aveva seguito la distinzione delle gerarchie operata da Gregorio: poi, nel corso della vita e
della composizione della Divina Commedia, cambiò idea
e si rivolse a Dionigi, soprattutto grazie all’influsso di
Tommaso d’Aquino. E qui dice: Gregorio si è sbagliato riguardo all’ordinamento dei nove cori, ma niente di
male, perché dopo la sua morte è venuto qui in cielo e
s’è rimesso le idee a posto; nel vedere come stanno veramente le cose ha riso di se stesso.
“L’eterno riposo dona loro, o Signore...”
Il
Requiem aeternam è una preghiera nata nella tradizione
cristiana della fede, della devozione del cuore e della pietà verso i Morti.
L’eterno riposo dona loro, o Signore,
e splenda ad essi la luce perpetua.
Riposino in pace. Amen.
Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
Requiescant in pace. Amen.
Anche questa breve
preghiera, per come è strutturata, risale ai tempi in cui gli iniziati
esprimevano in formule – che sono poi delle vere e proprie meditazioni
– l’oggettiva esperienza che fanno i Morti.
Questa preghiera si divide in due parti: nella prima si
parla del tempo che il Morto passa nel mondo dell’anima, dove avviene la purificazione dalle passioni e dalle
brame; nella seconda si parla del mondo vero e proprio
dello spirito.
Le esperienze dell’anima
subito dopo la morte sono, stando anche alle descrizioni di Rudolf
Steiner, in connessione con la sfera lunare; quando poi il defunto
entra nella sfera solare, si apre alla dimensione dello spirito vero e
proprio. Nel mondo personale e soggettivo dell’anima il Morto deve
ripercorrere la sua vita a ritroso, deve portare a chiara coscienza ciò
che del suo vivere e del suo operare nel mondo gli è rimasto inconscio.
È questo uno dei signi
ficati del detto evangelico: se non
diventerete come bambini non potrete entrare nel regno dei cieli.
Questa frase descrive tra l’altro il cammino dei Morti:
essi sono nel processo di ridiventare come bambini in
quanto ripercorrono la loro vita a ritroso, dalla morte
fino alla nascita. Finché non completeranno tutto il percorso da fare riguardo al mondo della loro anima, non
potranno entrare nei mondi oggettivi e universali dello
spirito.
La sfera dell’anima ha come
carattere fondamentale l’irruenza delle passioni di un animo umano che
non ha ancora trovato il suo giusto equilibrio e la sua armonia.
Concedi o Signore, dice la preghiera, al nostro caro defunto di trovare
nel mondo dell’anima la pace che si raggiunge tramite la purificazione
interiore.
Percorsa questa sfera fatta di
esperienze dell’anima e che dura circa un terzo della vita – se si
muore a novant’anni, il purgatorio dura circa trent’anni –, conquistata
la pace nell’anima grazie al fatto che la nebbia delle brame è stata
spazzata via dalle “fiamme” purificatrici, il Morto può entrare nel
regno dei cieli, nella visione dell’oggettivo spirituale. E splenda ad essi la luce perpetua:
si tratta qui del mondo dello spirito vero e proprio. Dopo aver dato
requie all’anima liberandola dagli egoismi personali, si acquisisce
l’organo solare di percezione che coglie l’oggettività del mondo
spirituale.
Perché si parla di pace “eterna” e di luce “perpetua”?
C’è forse una differenza tra ciò che è eterno e ciò che
è perpetuo? La parola “eterno” viene da aeviternus che
significa: che dura un evo (in greco aiòn, che vuol dire
“eone”); la pace che il Morto conseguirà non dura infatti “per sempre”, ma per un evo, per un eone. L’evo, o
eone, che qui si intende è il periodo che va dalla morte a
una nuova nascita.
La parola
perpetuus significa “ininterrotto”, “incessante”, “inintermittente”, cioè qualcosa che dura senza
interruzione; le corrisponde il greco pètomai, “volare”,
che è appunto un procedere senza intermittenze, altrimenti si cadrebbe giù. Lo spirito è un “continuo” esser
presente a se stesso. Ciò che appartiene allo spirito permane sempre, vive nel regno della durata, non viene mai
a mancare.
Testi come questi sono precisi e scienti
fici. Si chiede
per l’anima una requie eterna, quella che serve a creare i
presupposti per una nuova esistenza; la luce dello spirito, invece, è perpetua perché non dura solo per un singolo
evo, ma per sempre.
La nostra cultura occidentale
ha conferito anche alla parola “eterno” il significato di “per sempre”,
perché si è persa la conoscenza di quegli “evi” che indicano
l’alternarsi di stato incarnato e stato disincarnato. Ritornando sulla
Terra, l’anima avrà a che fare con nuove brame e nuovi desideri –
minori o maggiori, a seconda del cammino fatto. Continuerà sulla Terra
la crescita che fa acquisire all’uomo sempre più la sovranità dello
spirito, di ciò che è duraturo e “perpetuo”.
Un’altra legge dell’evoluzione si evidenzia da quanto
stiamo dicendo: l’uomo può crescere interiormente soltanto nello stato incarnato, soltanto sulla Terra. Tutto il
periodo passato nel post-mortem non consente passi reali
verso la pienezza dell’umano, ma serve a fare il bilancio della vita trascorsa e a progettare, insieme agli esseri
umani karmicamente congiunti e insieme alle gerarchie
spirituali, tutte le occasioni di crescita da proporre alla
propria libertà nell’incarnazione successiva. Perciò invochiamo per l’anima la “pace”: il defunto non può fare
un ulteriore progresso nel suo cammino. Quello potrà
avvenire solo al suo ritorno sulla Terra.
Il
Requiem aeternam può costituire per il cristiano moderno un bel
testo di meditazione. La preghiera tradizionale è stata intesa per il
cuore, la scienza moderna si rivolge solo alla testa: la meditazione
offre l’occasione di far la sintesi fra testa e cuore, è fatta per la
gioia del sentire e per approfondire il pensare. Meditando il Requiem
aeternam se ne coglie la giustezza scientifico-spirituale; in
questa piccola preghiera non c’è nulla da cambiare, ogni
parola è al posto giusto.
Sul
requiescant in pace (riposino in pace) abbiamo già
detto: questa frase è senz’altro un’aggiunta posteriore,
perché non fa che ripetere l’anelito alla pace espresso
all’inizio, fermo restando che il riposo e la pace dell’anima sono solo i primi passi che il defunto è chiamato a
compiere nel suo cammino verso la luce dello spirito.
L’eterno riposo dona loro, o Signore,
e splenda ad essi la luce perpetua.
Amen.
Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
Amen
4
LE GERARCHIE ANGELICHE
AL LAVORO
NELLA NATURA E NELL’UOMO
I Morti vivono di fiducia e ringiovanimento
I due atteggiamenti interiori,
già prima descritti, necessari per intendersi con i defunti, vanno
integrati con un terzo e un quarto che non sono meno importanti dei
primi due. Si tratta di coltivare degli atteggiamenti dell’animo che
corrispondono ai sentimenti di fondo in cui sono immersi i Morti e che
nell’Io superiore – dunque al livello sovraconscio – vivono anche in
ogni essere umano incarnato. Il primo atteggiamento era quello della
gratitudine per tutte le cose e per tutti gli eventi, e il secondo
quello della co-munanza e della reciproca appartenenza fra gli esseri.
I pensieri che i Morti vogliono comunicarci sono tutte
variazioni sul tema del primo sentimento – quello della
riconoscenza e della comunione con tutti gli esseri. Il
trapassato ci parla sempre, è sempre in comunione con
noi: il problema è che noi possiamo cogliere i suoi messaggi solo se lavoriamo a stabilire coscientemente nella
nostra anima un comune terreno di dialogo, fatto di atteggiamenti interiori. Del resto, il compito della libertà,
il cammino della coscienza ordinaria è proprio quello di
conquistarsi il senso della comunanza e della gratitudine
che l’Io superiore, la sovracoscienza, da sempre vive.
Il terzo tema della sinfonia con la quale i Morti ci parlano è il sentimento di assoluta fiducia nella vita. La gratitudine per ogni cosa si riferisce maggiormente al passato:
a conti fatti, se guardiamo con spregiudicatezza a tutto
quel che abbiamo attraversato nella vita, ci risulta di dover essere grati per ogni cosa. Il sentimento di fiducia
nella vita, invece, ci apre maggiormente verso il futuro e,
sebbene sia chiaramente un’estensione del primo, questo
stato d’animo può essere visto anche come una bellissima polarità nei suoi confronti.
È importante per noi sapere che dopo la morte ogni
uomo vive sempre più nell’assoluta fiducia nei confronti
di tutti gli esseri. Significa che ogni volta che ci sentiamo
depressi o scoraggiati, ogni volta che perdiamo la fiducia
nella vita, ci precludiamo l’accesso al defunto perché egli
non riesce più a trovare l’elemento comune per inviarci
i suoi messaggi.
Aver
fiducia nella vita non significa trovar tutto roseo
o pensare che tutto va bene. Fiducia vuol dire invece che
qualunque sia la situazione in cui ci troviamo, per quanto
“male” vadano le cose, ci è sempre offerta la possibilità
di fare qualcosa di buono e di crescere interiormente.
C’è sempre la possibilità di trasformare anche il male
più tremendo in un autentico bene. Magari ci vorrà del
tempo, magari ci vorranno secoli, ma la possibilità c’è.
Il sentimento della
fiducia si fonda sul convincimento
che il male umano – e, per quanto ci riguarda, noi uomini possiamo avere a che fare solo con il male relativo
alla nostra evoluzione – non è in se stesso qualcosa, ma
è sempre un’assenza di bene.
Tutta la tradizione occidentale, da Platone ad Aristotele, ad Agostino,
a Tommaso d’Aquino, interpreta il male non come qualcosa a sé stante,
ma come mancanza del bene.
Se il male fosse qualcosa di reale non potremmo avere una fiducia assoluta nella vita; invece, sapendo che
il male umano può rappresentare soltanto una carenza
di bene, e sapendo che il bene è sempre possibile attuarlo – perché un bene impossibile non è affatto un
bene –, proprio queste convinzioni di fondo ci infondono una fiducia illimitata nei confronti dell’esistenza.
La certezza della positività del futuro ci fa vivere in
sintonia con la sapiente provvidenza: siamo tutti accompagnati da una “pro-videnza” che “pre-vede” tutto ciò
di cui abbiamo bisogno per la nostra crescita e “provede” a darcelo. Viviamo in un’evoluzione che merita
fiducia perché a nessuno viene fatto mancare ciò di cui
necessita per il suo cammino.
Che poi noi, nella dimensione dell’io ordinario, non ci
avvaliamo di una buona occasione perché non ci piace
o perché vorremmo qualcosa d’altro, questa è tutt’altra
faccenda. Ma il mondo di sapienza e d’amore nel quale
viviamo ci sta a dire che tutti i fattori evolutivi che ci
circondano sono fatti apposta per favorirci. Comprese
le malattie, le cosiddette disgrazie e tutti quegli eventi
che quando ci capitano fanno dire alla nostra coscienza
ordinaria: ma perché proprio a me? ma che cosa ho fatto
di male?
La
fiducia è come un organo conoscitivo, una facoltà
che il defunto mette in atto concretamente quando ci
invia le sue ispirazioni. Egli ci ispira continuamente il
pensiero che ci dice di affidarci alla saggezza di ciò che ci
capita, di ogni incontro, soprattutto quando vorremmo
fuggire. Chi ha passato la soglia della morte può ormai
vedere come stanno veramente le cose. Perciò, nella misura in cui noi coltiviamo l’atteggiamento fondamentale
della fiducia nei confronti della vita, edifichiamo in terra
una nuova reale facoltà, non soltanto affettiva ma anche,
e soprattutto, conoscitiva.
Possiamo considerare il dialogo fra noi e i defunti come
una melodia suonata su un violino a quattro corde, e la
quarta corda è quella che parla di un ringiovanimento continuo. In vita, il corpo non può fare a meno di invecchiare,
come ogni altro corpo vivente nella natura; ma questa
legge non vale per l’anima nel dopo-morte. È un oscuramento della mente dovuto al materialismo quello che
ci fa ritenere che con l’indebolimento del corpo fisico di
necessità si affievoliscano e vadano in declino anche le
forze dell’anima. Non è vero! L’invecchiamento animico
è possibile, certo, ma non è necessario che avvenga, né è
dovuto alle sorti del corpo: anzi, col passare del tempo,
l’anima tende a ringiovanire sempre di più se non glielo
impediamo.
Parallelamente al consumarsi del corpo
fisico, ognuno
può vivere un ringiovanimento delle forze dell’anima,
per non parlare del risuscitare continuo dello spirito! Il
Morto è colui che vive in un continuo ringiovanimento
della sua anima, che lo fa rinascere nello spirito. E questa
freschezza interiore i Morti vorrebbero condividerla con
noi.
Non è poi così dif
ficile farla nostra, giorno dopo giorno. Se per esempio ci interessiamo
veramente non soltanto alla pagnotta materiale ma anche al pane
spirituale, possiamo fare, nel corso della vita, una reale esperienza
di ringiovanimento. Quando l’anima trova il modo di rinnovarsi, lo
spirito si riaccende e noi diventiamo interiormente più giovani,
ritroviamo la gioia e l’entusiasmo degli ideali giovanili. È possibile
avere la struttura interiore di un bambino che va incontro alla vita
ogni giorno con rinnovata meraviglia anche a cinquanta, sessanta,
ottant’anni. È possibilissimo, e quando non lo facciamo ci perdiamo il
meglio della vita.
Possiamo ogni mattina cominciare con slancio la giornata immaginandola piena di belle sorprese, come ci
è accaduto a quindici, sedici o vent’anni, quando cantavamo infilandoci la camicia e ci precipitavamo fuori
di casa per non far tardi all’appuntamento con la vita.
Possiamo fare lo stesso a sessant’anni, forse ancora più
sinceramente, perché abbiamo dentro tutto il portato
dell’esistenza, c’è in noi lo spessore morale di una libertà
conquistata. Più andiamo avanti negli anni e meglio possiamo capire le cose della vita: e questa è pura gioventù,
che non ha più bisogno di far sfoggio di sé con la vitalità
scontata delle forze fisiche.
Aver
fede vuol dire aver fiducia nella vita; il ringiovanimento è la speranza che la vita ci dà, quella che ci permette
di non rassegnarci mai e di restare aperti al destino, con
rinnovato amore per la vita. I Morti lavorano per aiutarci
a restare capaci di sorpresa, di stupore e di meraviglia,
come i bambini. Del resto, essi stanno ripercorrendo la
loro stessa vita a ritroso, verso quell’infanzia che li rende
giovani nello spirito.
Se il nostro corpo
fisico invecchia, sono affari suoi; noi
non siamo il corpo, ma abbiamo un corpo. Quando invece
lo spirito ringiovanisce, quelli sì che sono affari nostri,
perché questa nuova gioventù è una nostra conquista,
non viene mai da sola.
Il corpo, sia quando è giovane che quando invecchia,
lo fa necessariamente, per natura, che noi lo vogliamo
o no. La giovinezza dello spirito è come il canto della
libertà di un cigno, che si fa più bello e più forte man
mano che va verso la fine dell’esistenza.
Come parlare ai Morti e come ricordarli
Si può anche diventare più concreti riguardo al modo di
comunicare con i Morti. I quattro atteggiamenti di fondo a cui è stato accennato ad alcuni possono sembrare
ancora troppo astratti. In realtà sono concretissimi, solo
che vanno conquistati a poco a poco e ci vuol tempo
prima di poterne cogliere i frutti concreti nell’esperienza
quotidiana.
Vediamo allora se c’è qualche modo più immediato per
comunicare con i Morti. Entriamo qui in un campo di
indicazioni un po’ più spicciole, che hanno meno peso
rispetto al lavoro interiore di cui si è parlato prima.
La scienza dello spirito, così
come è stata inaugurata da Rudolf Steiner, ci avverte che il trapassato
non può avere nessun rapporto con le astrazioni del linguaggio terreno,
soprattutto con i sostantivi. Già dai primi giorni dopo la morte,
quando sulla Terra risuona nel linguaggio un sostantivo, il defunto non
percepisce nulla, proprio perché ogni sostantivo è un’astrazione. Forse
non è facile per noi capire il perché: le parole “mare”, “terra”,
“mela” ci sembrano ben concrete, perché nella nostra mente sorgono
subito rappresentazioni ben chiare di cose realissime. Un po’ meno
immediati possono apparire i sostantivi come “veridicità”, o
“velleità”, o “pensiero” perché non abbiamo un’immagine
rappresentativa: ma anch’essi, comunque, ci sembrano molto ricchi di
contenuto. Perché per i Morti non è così?
È perché i sostantivi sono il fondamento del pensare
terreno che, considerato dall’altra parte della soglia, è un
pensare a cui manca la realtà spirituale. Soprattutto le
parole legate al mondo fisico non trovano nel defunto un’eco interiore, perché la cosiddetta materia, per il
Morto, non esiste più. Il mondo fisico si accende nelle
sue forme, nei colori, nei suoni, nel calore, soltanto per
chi è dotato di organi corporei: occhi, orecchie, pelle...
In altre parole, il mare e la mela in quanto materialmente
visibili non esistono per il defunto. Quando noi pronunciamo i nomi delle cose e ne abbiamo automaticamente
l’immediata rappresentazione, è perché ci riferiamo al
mondo terreno, materiale e visibile.
Un Angelo e l’uomo dopo la morte hanno l’
idea vivente di “mare” – vedremo più avanti che cosa significa –, mentre il mare per noi reale, quello visibile al quale
pensiamo quando qualcuno pronuncia la parola “mare”
(una distesa d’acqua azzurra, con onde, pesci, coste... vedete? altri sostantivi!) per loro in fondo non esiste.
Quando invece pronunciamo dei
verbi, questi risuonano già meglio per il defunto: se noi diciamo
“correre”, per esempio, abbiamo la rappresentazione reale
dell’affanno – e se corriamo davvero sentiamo l’affanno –, dell’intento che vogliamo raggiungere entrando
nel movimento, dello stato di tensione interiore che
l’accompagna... Tutto ciò è già più reale per l’anima del
defunto.
Prendiamo la parola
“veridicità”: mentre io la pronuncio i Morti non provano nulla, anche
perché di certo non la odono con le orecchie fisiche. È una parola che,
esprimendo un concetto non corrispondente a un oggetto esterno, può
rimanere vuota anche per un vivo. Se traduciamo in espressioni verbali,
allora il sostantivo “veridicità” diventa, poniamo, “sforzarsi di
restare aderenti alla realtà nel proprio parlare, di non mentire”.
Compaiono i verbi, e tutto il contesto di significato diventa per i
Morti più vivo e dinamico. Allora il cosiddetto morto esclama: ah ah,
mi ricordo cos’è il parlare, cos’è il mentire, cos’è lo sforzarsi...
Nel dopo-morte, allora, spariscono per prima cosa i
sostantivi, più tardi gli aggettivi, gli avverbi e le varie parti del discorso; l’ultima cosa che sparisce per il Morto
sono le interiezioni, le esclamazioni: ahh!! ohh! uhh! ehh!
ihh! Quando un essere umano sulla Terra dice: ahh!!, per
il morto si accende come una luce perché c’è l’intensità
del vissuto in quell’interiezione, la densità del sentimento che per il Morto è una realtà, non un’astrazione.
Per comunicare con i Morti bisogna rivolgersi a loro
creando nella nostra fantasia le immagini più vivaci
che ricordiamo del loro atteggiarsi fisico nella vita. Per
esempio mi rappresento in modo vivissimo come il mio
amico morto stava seduto a tavola, con la schiena dritta,
le mani appoggiate a destra e a sinistra del piatto, l’indice
che picchiettava sulla tovaglia e gli occhi puntati verso
la porta della cucina, pronti a salutare l’apparizione del
cibo...
Oppure il suo modo tipico di
leggere il giornale, la maniera caratteristica in cui reagiva quando io
interrompevo la sua lettura. Immaginiamo che cosa vuol dire avere viva
nella fantasia una scena come questa: “Hai saputo del nuovo capufficio
di Antonio?”, “Ma lasciami leggere in pace ’sto giornale!”. Nel momento
in cui io, da vivo, ricreo vivacemente l’espressione del suo volto
nella mia fantasia, con intensità e nitidezza, questa rappresentazione
è come una luce che si accende nel mondo del Morto e lui mi sente
accanto a sé.
Questa indicazione concreta vale anche per comunicare con coloro che sono morti da piccoli: nel caso loro è
importantissimo riuscire, per esempio, a rievocare scene
di giochi fatti in comune. Ma questo è davvero possibile
solo se noi abbiamo giocato con loro con animo bambino, se abbiamo sentito in noi stessi la gioia con cui il
mondo infantile si anima nel giocare. Il dialogo con i
defunti poggia in altre parole su ciò che noi abbiamo
vissuto e condiviso con loro nella vita trascorsa insieme,
nei sentimenti vissuti stando con loro.
Ci sono tanti Morti che cercano nel buio i loro cari che
hanno lasciato indietro: poiché questi vivono in terra intrisi di materialismo e non portano in sé alcun pensiero
che si riferisca al soprasensibile, non può avvenire nessun incontro. I Morti dicono: io ho lasciato sulla Terra
genitori, fratelli, amici... ma dove sono? I nostri pensieri
aridi e meccanici, i nostri sentimenti egoistici, i nostri
progetti intrisi di opportunismo e di avidità utilitaristica – cioè tutto il modo di vivere che tiene conto solo del
mondo materiale – sono come una densa tenebra per i
Morti, perché per loro il mondo fisico non esiste più.
La cultura indiana da sempre ha affermato che il mondo materiale è maya: maha a-ya vuol dire il grande nonessere, la grande illusione. I Morti sanno che è vero. E
se i pensieri dei loro cari sulla Terra sono rivolti soltanto
al mondo visibile – mangiare, bere, comprare una casa,
assicurarsi la pensione ecc. –, essi vivono come nel buio
e sentono una profonda sofferenza. Invece, ogni rappresentazione viva che sia in grado di riprodurre un tipico
atteggiamento di chi in terra non c’è più, accende una
luce nelle regioni dove l’anima del Morto vive. E si rende
possibile la comunicazione.
Quando il defunto riesce a stabilire il contatto con
noi attraverso la porta della nostra fantasia, del ricordo
inconfondibile di lui, in quel momento egli è presente
a noi con la sua coscienza e gli possiamo comunicare
tutto quello che vogliamo. Gli possiamo leggere una
conferenza di Rudolf Steiner che parla degli Angeli, per
esempio, e lui ha la gioiosa possibilità di far suoi tutti i
pensieri che leggiamo e che gli rischiarano la strada che
sta percorrendo.
Prima però dobbiamo convocarlo
attraverso la porta della nostra connessione karmica con lui, che rende
presente alla fantasia un frammento di ciò che abbiamo vissuto insieme.
Non è necessario che queste scene evocate nella fantasia raccontino
qualche fatto rilevante: importa, invece, che rievochino quelle
abitudini, quei gesti che ognuno immette nella vita in modo unico e che
l’amore di chi gli sta attorno coglie perlopiù col calore della
confidenza del cuore, senza portarli a piena coscienza.
La scienza dello spirito che
sta ora nascendo nell’umanità è il primo linguaggio davvero comune sia
ai vivi che ai Morti. Quando noi, sulla Terra, facciamo risuonare la
parola “corpo eterico”, per fare un esempio, il Morto capisce subito di
che si tratta, è una realtà che ormai conosce bene: siamo noi che
stiamo appena cominciando a sapere di che si tratta. Uno dei caratteri
più rivoluzionari di questa scienza dello spirituale inaugurata da
Rudolf Steiner è la sua capacità di instaurare un linguaggio
tecnico-scientifico a proposito dei fenomeni della vita e
dell’evoluzione, della materia e dello spirito, che è comprensibile in
ugual misura sia ai vivi sia ai Morti.
I tre giorni dopo la morte
La morte, si è sempre detto, è
la sorella maggiore del sonno. Quando ci addormentiamo avviene una
separazione tra le nostre quattro dimensioni costitutive: il corpo
fisico e le sue forze vitali (corpo eterico) rimangono nel letto,
mentre lo spirito vero e proprio e l’anima lasciano il corpo ed entrano
nei mondi spirituali.
Finché le forze vitali rimangono connesse col corpo
fisico, restiamo in vita; l’elemento specifico della morte
è infatti la fuoriuscita dal corpo fisico non solo dell’anima e dello spirito, ma anche delle forze vitali, cioè del
corpo eterico. È un processo di separazione, questo, che
dura tre giorni circa. Più precisamente, il tempo che il
corpo vitale-eterico impiega a distaccarsi definitivamente dal corpo fisico al momento della morte corrisponde
al periodo di tempo che la persona morta sarebbe stata
capace di restare sveglia, quand’era in vita. C’è chi riesce
a star sveglio per tre giorni o più di fila, c’è chi dopo uno
solo crolla.
Con una media di tre giorni queste forze vitali si liberano definitivamente dal fisico e proiettano
nell’etere – una parola che nell’antichità si usava e che
oggi possiamo ripristinare – tutte le scene della vita trascorsa come in una specie di panorama. Questa visione
panoramica della vita trascorsa è possibile per il defunto
finché le forze vitali mantengono un certo rapporto col
cadavere.
In quei primissimi giorni dopo la morte egli ha davanti a sé, in modo vivissimo, tutte le scene della sua
vita. È così incantato da queste visioni da non poter ancora notare nient’altro. Le forze vitali sono come delle
correnti antigravitazionali che durante la vita il corpo
fisico orienta verso la Terra; una volta liberate da esso,
tendono per natura a espandersi nell’etere cosmico fino
a che, dopo circa tre giorni, le immagini mnemoniche si
ingrandiscono al punto da dissolversi, e il defunto non
vede più nulla di esse.
Per questo motivo,
fino a non molto tempo fa, si aspettavano tre giorni prima di fare il funerale – retaggio di
antica saggezza –, in modo che potesse essere presente
l’anima stessa del trapassato, cosa che non può far bene
prima, perché nei primi tre giorni vive come stordita dalle immagini della vita trascorsa.
Dopo i tre giorni, l’uomo entra nel mondo dell’ani-ma,
nel kamaloca (o purgatorio), di cui abbiamo già parlato.
Una cosa importante da sapere è che egli dapprima può
instaurare un rapporto soltanto con gli esseri umani con
cui ha avuto a che fare in vita, siano essi ancora vivi
o siano già morti. Il defunto lavora a pareggiare il suo
karma personale, e perciò in un primo momento tutto il
resto dell’umanità per lui è come se non esistesse.
Lo stadio successivo al kamaloca, quando l’anima si è
purificata e l’Io entra nei mondi dello spirito, consiste
proprio nell’allargare lo sguardo a una cerchia sempre
più vasta di esseri umani, anche a quelli non legati al
proprio karma. Il mondo dello spirito vero e proprio ci
aiuta a vivere la comunanza universale. Lì il defunto può
entrare in comunione un po’ alla volta con tutti gli esseri
umani e, per quello che riguarda noi cosiddetti vivi, non
è più indispensabile avere rappresentazioni karmico-animiche di un vissuto comune per comunicare con lui.
Tre modi di concepire l’evoluzione
C’è una massima invalsa particolarmente ai tempi della
scolastica medievale, e che dice: bonum est diffusivum sui, il
bene è per natura sua diffusivo di sé. Il bene, ciò che è
buono, tende per natura a comunicarsi. Un bene tirchio
non esiste. Se il bene sommo è il creare divino, allora
la Divinità non solo crea delle creature, ma le crea con
l’intento di renderle a loro volta creatrici. Un creatore
che negasse alle sue creature la capacità di creare a loro
volta, non sarebbe diffusivum sui. La Divinità, se è piena
di bontà, vuol conferire alle creature il meglio di sé, cioè
la capacità di creare.
Noi siamo inseriti in questo movimento dell’amore
che tende per natura a diffondersi, siamo immersi in un
dinamismo del divenire che ci permette di trapassare
sempre più realmente dall’essere creature all’essere anche noi creatori.
È questo un altro carattere
fondamentale della svolta di ogni evoluzione: noi la viviamo ogni volta
che dall’essere passivi e ricettivi, dal sentirci pure e semplici
creature create da Dio, ci trasformiamo interiormente e diventiamo a
nostra volta creatori, per lo meno in qualche ambito della vita. Ogni
volta che creiamo qualcosa di nuovo diventiamo, se pur in minima
misura, dei co-creatori nelle vicende del mondo.
In una prospettiva d’incessante evoluzione l’universo
va compreso non come un casuale aggregarsi di materia,
spuntata fuori da non si sa dove, ma come la manifestazione di una sapiente attività creatrice svolta da Esseri
divini.
Il rigido monoteismo afferma: esiste un solo creatore,
Dio, e tutti gli altri esseri sono pure creature. A nessun
altro essere viene data la possibilità di assurgere al livello
di co-creatore, di avvicinarsi gradualmente alla Divinità.
Il vero senso della Trinità divina è invece proprio la
partecipazione di sé, l’attualizzazione del bonum est diffusivum sui. È come in un organismo in cui i singoli membri
siano a loro volta singoli Esseri spirituali capaci di creare
a vari livelli.
Gli Angeli “caduti”, ovvero ritardatari
Nella tradizione cristiana si parla di una “caduta” non
solo dell’uomo, ma anche degli angeli. Questa caduta
non è come un piombare di botto dal tetto al pianterreno, ma si riferisce a un processo evolutivo molto lento
e graduale. Per l’evoluzione dell’uomo è necessario che,
a tutti i livelli delle gerarchie, ci siano degli Esseri che
restino indietro, che siano dei “ritardatari” rispetto alle
loro reali possibilità evolutive.
Abbiamo visto in Dante che
l’elemento della libertà, pur diverso dal tipo di libertà
specificamente umana, è presente in tutti gli Esseri spirituali non
meno che nella Trinità divina – perché uno spirito senza libertà
sarebbe un controsenso: dove c’è spirito c’è libertà. La libertà però è
di natura diversa in quanto specificamente umana, ancora diversa in
quanto libertà degli Angeli, diversa ulteriormente in quanto libertà
degli Arcangeli e via salendo. La libertà consente in altre parole vari
gradi di profondità, se così si può dire, ma c’è dappertutto dove c’è
lo spirito.
Se la libertà, pur essendo presente in tutte le gerarchie
angeliche, è meno perfetta che nella Trinità divina, deve
avere anche la possibilità di omettere qualche bene che
le sarebbe possibile conseguire: solo una libertà del tutto
perfetta non omette nessun bene possibile. Quando una
Potestà, o una Dominazione o un Arcangelo..., invece di
fare tutti i passi evolutivi che la Trinità gli rende possibili
ne omette anche solo qualcuno, diventa “ritardatario”.
Se è vero che gli Esseri spirituali che sono adesso Angeli lo sono gradualmente divenuti nel corso di una lunga
evoluzione, ci devono essere oggi due specie fondamentali di Angeli: quelli che nell’evoluzione trascorsa hanno
completato il cammino per diventare Angeli, e quelli che
sono rimasti un po’ indietro – cioè non sono divenuti
Angeli a tutti gli effetti e sono come rimasti per strada.
Anche noi, nell’evoluzione umana, abbiamo la possibilità di acquisire nel corso del tempo tutto l’umano che ci
è reso possibile, ma possiamo anche omettere tante cose
e restare indietro anche noi.
Da un lato ci sono allora Angeli “completi” e dall’altro ci sono i cosiddetti “Diavoli”, cioè Esseri spirituali
che nella fase evolutiva precedente erano per strada per
diventare Angeli, ma hanno omesso delle dimensioni
dell’angelico. Se dunque sono diventati Angeli solo a
metà, o per un quarto o per un terzo, che cosa stanno
facendo, adesso? Devono far di tutto per recuperare il
tempo perduto, e lo fanno servendosi dell’aiuto degli
uomini, che sono a loro volta in via di diventare Angeli.
Il criterio che distingue gli
Angeli “buoni” dagli Angeli “cattivi”, o “caduti” è allora che quelli
buoni, non avendo nulla da recuperare per se stessi, possono dedicarsi
al cammino degli esseri umani. Invece gli Angeli ritardatari sono presi
dall’assillo del loro recupero, sono preoccupati più del proprio
divenire che del nostro. Gli Angeli normalmente evoluti sanno porsi al
nostro servizio, mentre ai Diavoli, poveretti, tocca servirsi di noi
per la loro evoluzione.
L’immagine del Vangelo che raf
figura il Cristo inginocchiato davanti agli apostoli a lavare loro i piedi, mostra
come l’amore agisce nell’universo: l’Essere più evoluto
si pone al servizio del meno evoluto. E lo stesso Cristo
caccia i Diavoli che “possiedono” gli uomini usandoli
per i loro intenti.
Se i cosiddetti Diavoli non hanno ancora in sé
quell’amore cristico che si dona agli altri e si servono di
noi per recuperare, che cosa vogliamo farci? Vogliamo
impedirglielo? Anche noi sappiamo che cosa vuol dire
dover recuperare: quando perdiamo dei colpi, spesso ne
diamo a nostra volta a destra e a manca per riassestarci.
E non ci serviamo, forse, giorno dopo giorno, degli animali, delle piante, dei minerali per la nostra evoluzione?
E il bambino piccolo non si serve dell’amore gratuito
della madre per la propria crescita? Non facciamo troppo presto a mettere le targhette morali del buono e del
cattivo?
In un mondo tutto in evoluzione, bisogna provvedere
al cammino di tutti gli esseri, non soltanto di quelli che
vanno avanti spediti: sono importanti anche quelli che
zoppicano o che inciampano. Quando capita a me di
zoppicare, sono ben contento che non mi si dia un’ulteriore botta per il fatto che gli altri sono andati più avanti
e io sto qui ad arrancare, e do pure fastidio. In fondo, chi
zoppica ha tutto il diritto di chiedersi: ma perché non mi
sono state date le gambe giuste per camminare come si
deve? Chi è responsabile del mio zoppicare? È proprio
vero che dipende tutto e solo da me? Questo tipo di
magnanimità che usiamo verso noi stessi, possiamo imparare a usarla anche verso gli altri.
Gli esseri umani, nella misura in cui veramente non
perdono colpi, possono acquisire una magnanimità tale
da cominciare ad aiutare perfino quegli Angeli che sono
rimasti indietro. Potremmo chiederci come ciò sia possibile, visto che l’uomo, nella scala evolutiva, ha comunque
un livello di coscienza non sempre superiore a quello di
qualunque Diavolo.
È un vero mistero, questo: il ritardo di un essere (il
Diavolo) può diventare per un altro (l’uomo) un sacrificio, un’offerta di sé, un ostacolo che è occasione di
crescita. Gli esseri ritardatari, infatti, nelle gerarchie che
ci precedono nell’evoluzione, immettono nel nostro cosmo un elemento importantissimo e necessario: la controforza. Per quanto riguarda loro stessi sono ritardatari;
per quanto riguarda noi, invece, ci offrono un elemento
evolutivo indispensabile: la forza dell’ostacolo, senza il
quale non sarebbe possibile l’esercizio della libertà.
Senza controforza, nessuna forza è in grado di irrobustirsi ulteriormente. Il ritardo diventa, nella saggezza
d’un universo pieno di amore, un sacrificio cosmico. E il
male nostro, per quanto ci riguarda, non sta nel fatto che
questi ostacoli ci vengano incontro, ma sta nel lasciarci
vincere da essi, invece di vincerli noi stessi. Soccombere
all’ostacolo, far prevalere la controforza, è sempre evitabile: sempre possiamo vincere la gravità della materia e
sperimentare la levità dello spirito.
Se la solerzia nasce solo vincendo l’inerzia, è evidente
che l’elemento di pesantezza deve esserci, se vogliamo
poterlo vincere. Nel momento in cui operiamo in libertà
e non permettiamo al Diavolo di soggiogarci, gli offriamo concretamente l’occasione di non servirsi più di noi,
e questo è anche per lui un aiuto per il recupero dei passi
perduti.
Quanti tipi di Esseri popolano l’universo?
Per orientarci fra le miriadi di Esseri che vivono nel
mondo, pur nell’estrema complessità, possiamo suddividerli in quattro categorie fondamentali:
1. Esseri che hanno
spirito e anima: sono tutti gli esseri
divini, tutte le Gerarchie Angeliche, che non hanno
un corpo fisico.
2. Esseri costituiti di
puro spirito. L’anima è la chiamata
allo spirito, il desiderio dello spirito; lo spirito è atto
puro, non conosce la potenzialità del divenire, che
è sempre volta a colmare specifiche carenze. Allo
spirito puro non manca nulla, è attualità pura. Dove
c’è l’anima, invece, – e tutti gli esseri angelici hanno un’anima – vige l’anelito al perfezionamento, in
quanto l’anima aspira allo spirito, non basta a se
stessa.
3. Esseri costituiti di
corpo, anima e spirito. Siamo noi
uomini, e così fatti siamo soltanto noi, in tutto il
cosmo! Esiste nell’universo un solo tipo di spirito,
che opera direttamente nella corporeità fisica: quello umano.
4. Esseri che hanno
corpo (fisico) e anima. A questa
quarta categoria non appartengono gli esseri
umani – come comunemente si pensa, avendo dimenticato la dimensione spirituale dell’uomo –, ma
gli esseri che reggono le sorti della natura. Essi non
hanno uno spirito individualizzato e quindi devono
essere governati da fuori, dagli spiriti delle Gerarchie Angeliche. Non hanno pensieri propri, non
hanno scopi propri: sono gli esseri che lavorano alle
piante, agli animali.
Gnomi, ondine, silfidi e salamandre: “i distaccamenti”
della terza gerarchia
In tutto il mondo della natura, nei suoi quattro elementibase – terra, acqua, aria, fuoco – sono all’opera quattro
schiere di esseri, che la scienza dello spirito chiama esseri
elementari o degli elementi. Sono miriadi di gnomi, di ondine, di silfidi e di salamandre e si occupano dei trapassi
da un elemento all’altro: dal solido al liquido all’aereo al
calorico.
Gli
gnomi vivono e operano nei minerali, nei metalli;
le ondine nell’elemento dell’acqua; le silfidi nell’aria; le salamandre nel fuoco, nel calore. Questa quaterna di
esseri della natura sono “distaccamenti” della terza gerarchia – Principati, Arcangeli, Angeli – che li governa
e dirige dal mondo dello spirito. Non hanno una vita
autonoma e nemmeno un’evoluzione individuale.
Non sono delle “creature” vere
e proprie, non sono esseri destinati ad accogliere un Io individuale,
lo spirito. Vivono come incantati nel mondo della natura, ne sono come
prigionieri, e per questo ardono dal desiderio di ritornare a far parte
della realtà degli Angeli, degli Arcangeli e dei Principati dai quali
si sono come “distaccati”. La terza gerarchia, infatti – lo vedremo più
avanti – non ha ancora una vera e propria capacità di creare esseri a
loro volta indipendenti, come invece fanno la seconda e la prima
gerarchia.
Gnomi, ondine, sil
fidi e salamandre sono al lavoro
là dove, per esempio, c’è da trasformare il seme in una
pianta. Nella terra-madre, ricca di umori stillati dall’alto,
gli gnomi lavorano al seme dove è compresso l’elemento
paterno del fuoco. Gli gnomi (vere e proprie levatrici
delle piante!) cominciano a trasfondere gli elementi minerali all’intorno perché possa rivestirsi di forma ciò che
è concentrato nel seme. Spunta così la radice.
Subentrano poi le ondine che lavorano nell’elemento
acqueo e la piantina comincia a crescere; intanto le silfidi
apportano le forze dell’aria e della luce sviluppando la
forma della pianta, mentre sullo stelo spuntano le foglie
fino a formare il calice e il fiore. All’interno del fiore, nel
nuovo seme, deve potersi raccogliere ancora una volta
la forza maschile-paterna del calore: ecco allora le salamandre che, al momento opportuno, traggono d’ogni
dove il calore e lo comprimono nel nuovo seme. Questo,
reimmesso nella terra, farà ricominciare il processo di
riproduzione della pianta.
Il materialismo degli ultimi secoli ha perso di vista tutti questi esseri della natura e li ha relegati, spesso con
scherno, nel mondo delle fiabe. E non a caso la scienza
dello spirito vede nelle fiabe autentiche un prezioso patrimonio di conoscenza spirituale.
Impronte nella natura della seconda e della prima
gerarchia
Gli Esseri della seconda gerarchia – le Dominazioni,
le Virtù e le Potestà – hanno anch’essi dei “discendenti” nei regni della natura: sono le cosiddette “anime di
gruppo” degli animali e delle piante. Qui si verifica una
vera e propria attività creatrice da parte delle Gerarchie
Angeliche. La terza gerarchia non crea ma “distacca” da
sé degli esseri elementari che restano in tutto e per tutto
dipendenti da loro. Le anime di gruppo delle piante e
degli animali, invece, sono degli esseri con un alto grado
di autonomia, sono le idee archetipiche, cioè le “specie”
animali e vegetali che, nel nostro mondo fisico, “si condensano” poi nelle varie forme visibili delle specie.
Gli Esseri della terza gerarchia – Angeli, Arcangeli,
Principati – non sono capaci di concepire, con le forze
della loro fantasia morale, l’evoluzione globale possibile
di un’intera specie animale o vegetale. L’architettare, il
condurre e il portare a fine questo tipo di evoluzione
è faccenda specifica degli Spiriti della Forma (Potestà) – perché ogni specie deve avere la sua forma –;
degli Spiriti del Movimento (Virtù) – perché le specie
devono subire continue trasformazioni –; e degli Spiriti
della Saggezza (Dominazioni) – perché occorre l’intuito
morale capace di creare dal nulla il leone o la rosa in un
mondo dove prima non c’era né il leone né la rosa. È una
cosa meravigliosa meditare su questa armonia universale
delle Gerarchie che lavorano agli esseri della natura!
Troni, Cherubini e Sera
fini, infine, hanno un compito
ancora più sublime, che svolgono tramite i loro discendenti nel mondo della natura che sono gli spiriti che reggono
i periodi ciclici, cioè i ritmi della natura e le rivoluzioni dei
pianeti. Quando gli antichi dicevano che ogni ora del
giorno e della notte è retta da uno spirito particolare,
dalle diverse “Ore”, avevano ancora la percezione che il
passare del tempo non è questione di automatismo, ma
è la manifestazione dell’operare di Esseri spirituali tutti
diversi gli uni dagli altri. In ogni ora che passa è all’opera
un Essere spirituale che conduce gli impulsi opportuni
e previsti; nell’ora successiva lascia il posto a un altro
Essere, perché le cose da fare in essa sono diverse, i giochi di luce e di ombra del sole, per esempio, saranno del
tutto diversi che non nell’ora precedente.
Quando il giorno è
finito e deve venire la notte, chi
comanda agli Esseri che fanno il giorno di ritirarsi per
far posto a quelli che fanno la notte? Sono i Troni, i
Serafini e i Cherubini. Ogni ritmo, ogni ciclo della natura, è governato dalla più alta delle Gerarchie Angeliche:
anche la nascita e la morte dell’uomo. Ciò vale anche
per l’alternarsi delle stagioni: gli Esseri della primavera
lasciano il posto a quelli dell’estate, ai quali subentrano
poi gli Esseri dell’autunno e dell’inverno, e tutti lo fanno ubbidendo alle ispirazioni che provengono dai Troni,
dai Cherubini e dai Serafini.
La conduzione delle alternanze e dei ritmi della natura
si rifà alla sapienza angelica più alta, perché ogni ciclo
naturale della Terra non è isolato nell’universo ma è in
perfetta armonia con le orbite di altri pianeti.
La prima gerarchia è in grado di armonizzare gli esseri di un intero pianeta nel suo rapporto con gli altri
pianeti del sistema al quale appartiene. In questo senso
arriviamo, da un’altra via, al mistero dell’universo quale
organismo unitario, dove si tratta di armonizzare fra di
loro interi sistemi planetari, con le loro stelle fisse di riferimento. Tutto ciò che nel firmamento appare ai nostri
occhi come fatto di materia – ammassi di minerali e di
gas, come crede la scienza – è in realtà l’espressione a
noi visibile di Esseri spirituali. L’antica sapienza vedeva
negli astri i corpi degli dei.
Aristotele, colui che ha
inaugurato il pensare logico-astratto, ha tradotto così questo gran
lavorare cosmico degli Esseri spirituali: ha chiamato causa materiale tutto
quello che fanno gli esseri degli elementi (terra, acqua,
aria, fuoco) retti dalla terza gerarchia; quel che avviene
nelle anime di gruppo, nelle specie delle piante e degli
animali – che Platone chiamava idee –, e che fa capo agli
Esseri della seconda gerarchia, l’ha chiamato causa formale; poi ha chiamato causa finale il dinamismo e la meta di
tutta l’evoluzione, che si manifesta nei vari ritmi, nei cicli
e nelle alternanze retti dalla prima gerarchia; infine ha
chiamato causa efficiente, cioè causa originaria vera e propria di tutto il divenire, gli Esseri spirituali in quanto tali,
nella loro capacità di pensare, di volere e di agire.
Aristotele traduce così in
concetti astratti ciò che in Platone, e ancora prima di lui, era
riferito agli Esseri spirituali gerarchici, agli artisti divini creanti
(causa efficiente) che si avvalgono della causa materiale (terra acqua
aria fuoco), della causa formale (le idee delle anime di gruppo dei
minerali, delle piante e degli animali) e degli spiriti delle
alternanze, dei ritmi e delle rivoluzioni orbitali per conseguire le
mete evolutive che si propongono, e che sono la causa finale
dell’evoluzione.
Come gli Angeli parlano fra di loro
C’è un testo di meditazione che Rudolf Steiner ha composto verso la fine della sua vita, uno dei più belli che io
conosca. Lo chiamo “dialogo d’Angeli” e ne propongo
una mia traduzione dal tedesco.
DIALOGO D’ANGELI
ANGELI:
Gli esseri umani pensano!
Ci occorre la luce delle altezze
Per poter rilucere nel pensare.
VIRTÙ:
Ricevete la luce delle altezze
Affinché possiate rilucere nel pensare
Quando esseri umani pensano.
ARCANGELI:
Gli esseri umani vivono!
Ci occorre il calore dell’anima
Per poter vivere nel sentimento.
DOMINAZIONI
E POTESTÀ:
Ricevete il calore dell’anima
Affinché possiate vivere nel sentimento
Quando esseri umani vivono.
PRINCIPATI:
Gli esseri umani vogliono!
Ci occorre la forza delle profondità
Per poter operare nel volere.
DOMINAZIONI,
VIRTÙ
E POTESTÀ:
Ricevete la forza delle profondità
Affinché possiate operare nel volere
Quando esseri umani vogliono.
Con questo testo ci
è dato di gettare uno sguardo sulla vita interiore di due gerarchie,
quella degli Angeli, Arcangeli e Principati e quella che sta
immediatamente sopra di loro – Potestà, Virtù, Dominazioni –, e dalla
quale ricevono le ispirazioni necessarie alla conduzione delle vite
degli esseri umani.
Chiunque le mediti con un atteggiamento di venerazione scoprirà in queste parole tesori sempre nuovi. Le
cose che vengono dette in questo testo sono intese come
oggettivamente vere in senso scientifico-spirituale. Gli
Angeli lavorano nell’elemento del pensiero umano, gli
Arcangeli lavorano nel cuore, dove vivono i sentimenti,
le brame, i desideri, le speranze, le sofferenze, le gioie…,
e i Principati lavorano nell’elemento della volontà degli
uomini, degli impulsi che conducono all’agire.
Una differenza fondamentale, quindi, fra un Angelo e
un Arcangelo è che l’Angelo è in grado di reggere le sorti evolutive del nostro pensare, perché “è più facile” che
non condurre l’evoluzione dei sentimenti umani. Nella
sfera del pensiero, infatti, noi siamo molto più autonomi
e individualizzati che non nel sentimento. Per il pensare c’è bisogno delle luce e questa l’Angelo invoca a sua
volta presso le Virtù, affinché ne sia sempre lui stesso
illuminato e ricolmo, così da poter ispirare l’uomo.
Il sentimento è quella
dimensione di comunanza e di reciproco influenzamento fra le persone
che la nostra coscienza può capire solo fino a un certo punto. Nel
pensiero non possiamo influenzarci a vicenda, e se questo accade, vuol
dire che qualcuno accoglie i pensieri di un altro con le forze del
sentimento. L’atto del pensare che ci fa pervenire alla comprensione di
qualunque cosa, ognuno deve farlo per sé. Se io permetto a un altro di
pensare al mio posto, vuol dire che dipendo da lui nella sfera del
sentimento e non m’importa tanto di capire di testa mia le cose, quanto
di essere in accordo con quella persona. Il pensiero è un fattore
eminentemente individuale e autonomo, il sentimento è un reciproco
influenzamento che resta semiconscio.
Il mondo dei sentimenti umani
è troppo complesso per l’Angelo e allora subentra l’Arcangelo, che è
l’Essere angelico in grado di reggere gli influssi reciproci fra le
persone di intere comunità. L’influenzarsi reciprocamente in una
comunità avviene a livello inconscio o semiconscio, più al livello del
sentimento che del pensiero. L’Arcangelo è all’opera dove non si tratta
solo del singolo, ma del karma comune che lega fra loro vari uomini. Il
destino che ci porta a incontrare determinate persone noi non siamo
ancora in grado di comprenderlo interamente – altrimenti saremmo
Arcangeli. Gli Arcangeli sanno però anche che le ispirazioni originarie
che occorrono per lavorare nel sentimento che accomuna gli uomini, sono
quelle che provengono dalle Potestà e dalle Dominazioni, e perciò si
rivolgono a loro.
Meditando su un testo come questo, ci si rende conto di svolgere un cammino eminentemente individuale
quando si fanno dei passi in avanti nel pensiero, e chi
può aiutarci in questo è l’Angelo.
Quando invece si tratta del vissuto del cuore, quando
abbiamo a che fare con i misteri comunitari delle simpatie e delle antipatie che intessono un mondo di influssi
reciproci fra gli esseri, non basta più l’Angelo, bisogna
rivolgersi all’Arcangelo.
Se poi consideriamo gli impulsi della nostra volontà, ci
accorgiamo che sono del tutto inconsci. Di ogni azione
che compiamo noi conosciamo soltanto, grazie al pensiero, lo scopo che vogliamo raggiungere. Se io penso:
voglio prendere in mano questo orologio, ho in me solo
la rappresentazione di prendere l’orologio; poi prendo
l’orologio e ho la rappresentazione dell’orologio che ora
sta nella mia mano. Però la forza dinamica reale, l’impulso della volontà che muove i miei muscoli, io non sono
in grado di recepirla nella mia coscienza. Nell’elemento
di operatività degli arti si esprimono i Principati, in greco Archài: archè, al singolare, significa “l’inizio”, il nuovo
inizio. La volontà pone sempre nuovi inizi, porta all’essere qualcosa che prima non c’era, anche nei più piccoli
gesti, nelle minime azioni.
I pensieri pensano cose già da sempre pensate: i pensieri umani non possono a tutta prima che ripensare, in
forma astratta, i pensieri viventi della Divinità. Invece
nella volontà noi siamo in grado, anche se per ora solo
a livello inconscio, di porre nuovi inizi: in ciò consiste
il principiare dei “Principati”. La volontà crea sempre
qualcosa di nuovo, anche quando si esprime nel più
semplice movimento.
I Principati hanno, a loro volta, una venerazione così
profonda di fronte ai misteri del volere umano nel quale
sono chiamati a lavorare con le loro ispirazioni, che si
inginocchiano spiritualmente di fronte alle Potestà, alle
Virtù e alle Dominazioni – tutte e tre insieme! – dicendo
loro: Gli esseri umani vogliono! Ci occorre la forza delle profondità per poter operare nel volere.
E che cos’è la forza delle
profondità? È l’insieme delle forze della natura: il volere umano è
reso possibile dal corpo che traduce gli intenti della volontà in
azioni avvalendosi delle forze della Terra, della gravità o
dell’antigravità. Per fare anche solo un passo noi interagiamo con le
forze della natura: solleviamo il piede (forza antigravitazionale),
poggiamo il piede (forza gravitazionale).
La volontà umana si esprime nell’interazione con le
forze della natura, invece il pensiero si rivolge alla luce
delle altezze, dove rifulgono i pensieri divini. Il pensiero
ci fa ascendere alle altezze, la volontà ci fa immergere
nelle profondità della Terra, cioè nelle forze di natura,
per trasformare il mondo. Il sentimento, che fa la spola
fra il pensiero e la volontà, si rivolge al sistema solare, ai
pianeti che ci girano attorno con i ritmi che ben conosciamo e che ci danno gioia. Il sentimento stesso è un
ritmo che va e rivà dalla simpatia all’antipatia, dalla gioia
al dolore; vive nel pulsare del cuore, nell’aria che entra e
poi riesce dai nostri polmoni.
5
ANGELO DEL SINGOLO,
ARCANGELO DELLA COMUNITÀ
SPIRITO DI UN’EPOCA:
IL NOSTRO RAPPORTO CON LORO
DA VIVI E DA MORTI
L’Angelo, guida sul cammino individuale
Negli Stati Uniti, a Denver, due studenti liceali fra i 17
e i 18 anni un bel giorno sono andati a scuola armati e
hanno cominciato a sparare e a lanciare ordigni uccidendo dodici compagni e un insegnante. Poi si sono uccisi.
Di fronte a una tragedia come questa c’è stato sgomento in tutta la nazione e nel mondo, accompagnato dalla
bruciante domanda: come si può spiegare un fatto di
tale portata?
La rivista
Time titolava: “I mostri dell’appartamento accanto”. A me è
parsa terribile la definizione “mostri”, perché sembra voler dire che
si tratta di un caso di assoluta eccezione, mostruoso appunto, e che
noialtri, che per fortuna siamo uomini normali e non dei mostri, siamo
a posto. Così si cerca di mettere in pace la coscienza senza riflettere
sul fatto fondamentale che questi due giovani sono un prodotto della
nostra società, e se rappresentano una cellula degenerata del nostro
organismo sociale, allora questa malattia coinvolge tutto il sistema.
Dal diario di quei ragazzi è emerso che per un anno
intero hanno pianificato la loro tragica impresa: non è
stato un colpo di testa improvviso. E avevano stabilito
che l’azione dovesse svolgersi il 30 aprile, anniversario
della morte di Hitler, e quindi c’era anche un retroscena
ideologico.
Due domande mi paiono fondamentali: in tutti i mesi
durante i quali questi ragazzi hanno progettato l’orrore,
come mai nessuno si è accorto di quello che stava avvenendo? Non si evidenzia qui la misura della solitudine
in cui oggi vive l’uomo, soprattutto in una società tecnologicamente avanzata? Questi due ragazzi passavano
innumerevoli ore davanti al computer e ai videogiochi:
colloquiando con l’intelligenza artificiale gestita da un
potere reale ma impersonale, avevano imparato a costruire le bombe che poi hanno usato.
La seconda domanda si chiede: dov’erano e che cosa
facevano gli Angeli custodi di questi due ragazzi e di tutti coloro che sono morti nell’eccidio? Sicuramente erano
presenti e non c’è dubbio che abbiano fatto di tutto per
comunicare le ispirazioni giuste e per evitare il disastro,
senza però riuscirci. Una tragedia come questa deve allora avere un lungo e non meno tragico passato.
In un’umanità consapevole della presenza sapiente e
amorevole degli Angeli – e la si può costruire, questa
umanità! –, eventi così tragici si potrebbero evitare; ma
se continuiamo a ignorare gli Angeli, questi episodi non
potranno che moltiplicarsi. L’esistenza degli Angeli e
l’urgenza di comunicare con loro è una questione di vita
o di morte per tutti.
Andiamo tutti incontro a una vita sociale sempre più
minacciosa, sempre più piena di sofferenza, se perdiamo
di vista il senso vero dell’esistenza, quello che gli Angeli ci vorrebbero comunicare. E come c’è un profondo
desiderio di rinnovamento nell’umanità, così c’è anche
una resistenza altrettanto tenace, perché il cambiamento
necessario richiede l’impegno costante della libertà individuale di ciascuno.
Degno dell’uomo è lo sforzo di
lavorare alla propria crescita interiore e di aiutare ciascuno a
diventare sempre più autonomo. Il pensiero è l’elemento di autonomia
per eccellenza ed è al pensare che è bene per tutti fare riferimento,
alla capacità di giudicare le cose con la propria testa. Soprattutto
quando si parla di Angeli e di Morti, che non sono tangibili come le
nostre macchine, ma sono reali come i pensieri che ci ispirano, quelli
capaci di creare le macchine.
Ci siamo detti che ogni uomo è un Angelo in potenza
e che questo lo caratterizza nel suo nucleo più profondo
ed essenziale. Siamo nel mezzo dell’evoluzione verso il
gradino di coscienza “angelico” e sentiamo il desiderio
di poter contemplare l’ala dell’Angelo che non cammina
pesante sulla Terra ma vola da un mondo all’altro. Proprio come i pensieri, che ci avvicinano all’Angelo perché
anche noi, pensando, siamo capaci di volare.
Il fenomeno dei medium
A proposito dell’autonomia che ci dà il pensiero, voglio
accennare al fenomeno di un medium ora famoso negli
Stati Uniti, James van Praagh, che ha scritto recentemente un libro Toccare il cielo col dito (Reaching to Heaven), e
che compare spesso nei programmi televisivi americani.
Nel suo libro racconta, tra le altre cose, che una volta,
in una piccola compagnia di persone che assistevano a
una delle sue sedute medianiche, c’era anche uno scettico che non credeva alla possibilità di comunicare con
i Morti. Verso la fine dell’incontro van Praagh si rivolse
a lui e cominciò a raccontargli di un suo amico – amico
non di van Praagh, ma del suo interlocutore! – morto
tragicamente da piccolo, accennando a dei particolari
così precisi e significativi (dalla marca della bicicletta al
loro gergo infantile) che era impossibile li avesse saputi
da qualcun altro.
Van Praagh rievocò la scena in cui, per sbaglio, quello
spettatore scettico aveva ucciso, a dieci anni, il suo amichetto mentre armeggiava col fucile del padre. Di questa
tragica morte non s’era mai più dato pace mentre l’amico morto, tramite il medium, adesso voleva comunicargli – così gli diceva van Praagh – di stare tranquillo, che
tutto era perdonato e di smetterla con l’inutile rimorso
per una disgrazia successa senza volerlo. Alla fine quel
signore crollò e dovette riconoscere di essere davvero di
fronte a un uomo del tutto singolare, perché in grado di
dialogare con un morto.
C’è da chiedersi se nel fenomeno medianico avvenga
un vero e proprio dialogare con i Morti. Visto che un
essere umano trapassato è una realtà molto complessa,
se vogliamo rimanere nella concretezza delle cose dobbiamo chiederci: il medium
parla con l’Io vero del Morto, con la sua parte costitutiva spirituale,
oppure con tutt’altre componenti del suo essere? L’Io superiore del
Morto può mai voler entrare in dialogo indiretto con l’io ordinario del
suo amico, rendendolo dipendente da un medium e compromettendo così, di seduta in seduta, la
sua capacità di evolversi in piena libertà?
Non può essere l’Io vero del
Morto a rendere dipendente anziché libero chi è in Terra: per quanto
affascinante possa essere il caso citato, esso comporta un elemento
morale estremamente ambiguo. Se io non sono capace di entrare in
rapporto reale con i Morti e ho bisogno di un intermediario, del medium, non mi rimane altro che la
fede nell’intermediario stesso, ed io vengo gestito dal di
fuori. Non importa se colui a cui “credo” sia un profeta,
un santo, un illuminato nel deserto o un medium.
Con le sedute medianiche i vivi non fanno che disturbare le anime dei Morti nel loro processo di purificazione,
non li aiutano affatto a distaccarsi dal mondo terreno. I
Morti vengono al contrario costretti a immettere nell’atmosfera della Terra correnti animiche che ostacolano
l’evoluzione del pensiero autonomo in chi è incarnato.
Un bambino piccolo è un
medium, nel senso tecnico
della parola, finché non acquista l’autonomia del suo Io.
Il fenomeno medianico risale all’infanzia dell’umanità,
quando l’uomo era uno strumento di cui si avvalevano altri Esseri, un canale sempre aperto verso i mondi
dell’anima e dello spirito. Cinque o seimila anni fa eravamo tutti dei bravissimi medium! Ora siamo chiamati a sviluppare le forze del pensiero individuale e autonomo.
L’Arcangelo, guida delle comunità umane
Dovunque ci sia una comunità di uomini – un popolo,
una famiglia, un gruppo di amici, un’istituzione con scopi comuni, un’associazione, un’azienda – è all’opera un
Arcangelo: in tutto ciò che gli uomini vivono a livello
semiconscio nei loro rapporti reciproci.
Accade molte volte che delle persone si mettano a lavorare o a vivere insieme, senza però creare una realtà
spirituale comune. Ognuno rimane al suo livello singolo,
e dunque gli Esseri spirituali di riferimento rimangono
gli Angeli dei singoli individui. Quando le cose stanno
così, prima o poi la comunità si scioglie per il semplice
fatto che non c’era mai stata più di tanto.
Gli Arcangeli offrono le ispirazioni che ci consentono di esser d’aiuto e di sostegno gli uni per gli altri; gli
Angeli inviano invece messaggi del tutto individuali. Gli
Arcangeli sanno armonizzare fra loro tanti cammini
individuali, sanno creare un organismo di cui i singoli
sono i membri.
Un compito importante degli Arcangeli è la creazione
dei vari linguaggi che fanno di tanti individui un popolo
con una cultura che porta l’impronta della sua lingua.
Gli italiani, per esempio, hanno in Dante un ricettacolo
esemplare delle ispirazioni dell’Arcangelo che ha creato
la lingua italiana.
L’Arcangelo è all’opera negli in
flussi reciproci che gli
uomini hanno gli uni sugli altri quando instaurano i rapporti più svariati. L’Arcangelo di una famiglia svolge un
compito più modesto rispetto all’Arcangelo di un popolo, che è come il principe di tanti Arcangeli minori.
Se l’Angelo regge l’evoluzione
di ogni singolo essere umano, la controforza necessaria per conquistare
liberamente la comunione con l’Angelo è l’egoismo del singolo. Tutte le
ispirazioni dell’Angelo custode sono allora ispirazioni morali che
riguardano i tanti modi di superare l’egoismo individuale.
Come l’egoismo del singolo è
bello in quanto amore di sé ma è negativo se manca l’amore per gli
altri,
così l’egoismo di gruppo – per esempio il nazionalismo – va benissimo
per quanto riguarda la solidarietà che ci fa apprezzare le qualità e le
doti all’interno del proprio popolo, mentre l’elemento che dapprima
manca, perché va conquistato da ognuno in libertà, è la capacità di
apprezzare le doti degli altri popoli. L’egoismo di gruppo fa parte
della nostra natura. Va bene l’amore spontaneo per quelle specifiche
qualità dell’umano che si esprimono in modo esemplare nella cultura del
proprio popolo: nessuno di noi può vivere senza questi elementi di
comunanza. Ma l’umanità non potrebbe esistere se non ci fossero anche
le sfaccettature dell’umano quali s’incarnano in tutti gli altri
popoli.
Anche qui vale il detto: ama gli altri popoli come ami
il tuo. È questa la massima fondamentale dell’Arcangelo
che ispira il rapporto fra gruppi di persone, così come la
massima dell’Angelo che ispira il rapporto tra individui
dice: ama il prossimo tuo come te stesso. Gli Arcangeli
dei popoli italiano, tedesco, afgano, americano, iracheno, indiano... fra di loro si amano, mica si osteggiano a
vicenda!
Gli Arcangeli ci ispirano la gratitudine per quello che
siamo in quanto popolo, in quanto parte dell’organismo
dell’umanità, e ci danno l’apertura alla conoscenza e
all’apprezzamento delle qualità degli altri popoli. Come
l’egoismo del singolo ci è dato per natura mentre l’amore per l’altro va conquistato, così l’egoismo di gruppo
ce lo ritroviamo per natura e l’amore per gli altri popoli va conquistato liberamente. Lo spirito nazionalistico
è nocivo nell’organismo dell’umanità perché si arrocca
sull’egoismo di gruppo, e non vuol riconoscere quelle
qualità dell’umano che in modo esemplare vivono negli
altri popoli.
I Principati, reggenti dell’alternarsi delle civiltà
Il Principato, l’
Archè, è lo Spirito del Tempo, lo spirito comune a tutti i
popoli di una data epoca storica. I diversi Arcangeli di popolo di una
data epoca vengono ispirati da un unico Spirito del Tempo. Egli non fa
preferenze di popolo: è lo Spirito comune a tutti i popoli che vivono
sulla Terra in un dato tempo.
Il Principato del nostro tempo è diverso da quello del
medioevo, per esempio, che si è ritirato al momento opportuno per far posto al Principato che avrebbe dato
“principio” all’era moderna, al tempo nostro. Il Principato del medioevo con le macchine e i computer non ci
si raccapezzerebbe proprio! Invece lo Spirito del nostro
tempo sì: è proprio lui che ci invia le ispirazioni per le
tante invenzioni tecnologiche che realizziamo. Ci offre
anche le ispirazioni per usarle a favore dell’umano.
L’ispirazione fondamentale che ci manda il Principato
del nostro tempo la possiamo capire solo paragonando
il nostro tempo con epoche passate. Per quanto bella e
importante sia la tappa storica attuale, con tutte le sue
possibilità evolutive specifiche, è comunque un tempo,
un’epoca tra altre, non è il tutto dell’evoluzione.
Noi viviamo nell’epoca del
materialismo e se è vero che il nostro è un tempo che apprezza quasi
esclusivamente il mondo materiale, dobbiamo fare lo stesso ragionamento
di prima: la parte positiva della nostra epoca è l’amore per il mondo
della materia che ci ha portato ingegnerie meccaniche, elettroniche,
edili, aeronautiche, navali, astronautiche, chimiche, mediche ecc.; ciò
che manca è l’amore per lo spirito. E l’ispirazione complessiva dell’Archè del nostro tempo è quella di aggiungere
all’amore spontaneo per il mondo visibile, l’amore libero per quello invisibile. Ci ispira a conoscere e amare
la materia in modo così profondo da vederla e volerla
dappertutto intrisa di spirito.
La scommessa della nostra epoca – la più dif
ficile perché rappresenta al contempo una grande svolta nella
storia – è quella di ricongiungere spirito e materia nella
mente e nel cuore di ogni uomo, perché egli finalmente
si riconosca e si viva come uno spirito incarnato. Seppure a
livello istintivo, abbiamo visto che esiste oggi il desiderio
di integrare la scienza del mondo fisico con una scienza
non meno rigorosa dello spirituale. Certo, siamo all’inizio, ma il compito è appassionante, fatto proprio per noi
che viviamo in questo tempo.
L’ambito della coscienza di un Principato è ancora più
vasto di quello dell’Arcangelo: proviamo a immaginare che cosa comporti far sorgere nell’umanità lo spirito
di un’epoca, cui concorrono armonicamente tutti i vari
popoli, in sintonia con tutte le epoche precedenti e con
tutte quelle che verranno, nel contesto globale dell’evoluzione umana! Questi pensieri possono far nascere in
noi una profonda gratitudine verso il Principato che ci
guida svolgendo una missione di saggezza e di amore
tale da donarci l’esperienza reale di essere uomini del
nostro tempo.
Chi ha fatto sorgere quegli splendori della cultura che
noi chiamiamo civiltà greca, egizia, assira, caldeo-babilonese, persiana, indiana? Se non ci fossero stati da sempre
questi Esseri gerarchici di sublime altezza, i Principati,
capaci di uno sguardo sovrano sul divenire umano universale, non sarebbero sorte queste variazioni epocali
sul tema inesauribile dell’umano. Esse si sono articolate
in una sequenza perfetta, scandita dall’Essere Solare che
visita, segno dopo segno, tutto lo Zodiaco del cielo e
lo porta sulla Terra avvalendosi di un Principato dopo
l’altro.
Il Sole impiega 2.160 anni per
passare da segno a segno. E questi 2.160 anni sono per i Principati il
tempo del loro lavoro: sanno quando devono cominciare e quando devono
far posto al successore. Così, ogni 2.160 anni circa, un nuovo
Principato immette nell’umanità condizioni evolutive del tutto nuove,
inaugurando una cultura completamente diversa dalle altre.
Il Principato ci aiuta anche a
superare l’egoismo proprio di una data epoca, ci fa vincere la tendenza
ad assolutizzarlo. L’egoismo specifico del nostro tempo, per esempio,
consiste nel fatto che molti pensano: “ma quanto era bambina l’umanità
al tempo dei Greci! In fatto di scienza non ci capiva niente, viveva di
favole e di miti! Ma per fortuna è arrivata la scienza moderna, la
prima e l’ultima che ha saputo e saprà come stanno veramente le cose.”
In questo consiste l’assolutizzazione dello spirito di un’epoca!
Fra 2.160 anni ci saranno uomini che diranno: ma
com’erano ingenui e dilettanti quelli dell’inizio del millennio! Credevano in una scienza degli astri del tutto
mitologica e inventata di sana pianta – la chiamavano
sistema copernicano –, e non si rendevano conto che
esisteva soltanto nella loro fantasia!
Vita interiore degli Angeli e mondo esterno
C’è un testo di straordinaria bellezza che propongo per
la meditazione quotidiana di chi volesse apprezzarlo.
Inesauribile com’è nei suoi risvolti che si vanno scoprendo a mano a mano che ci si lavora, prima di presentarlo
devo fare una specie di introduzione che serva da orientamento.
Per avere un punto di riferimento e di raffronto nella
considerazione dei nove cori angelici, ci siamo riferiti
alla nostra stessa autoesperienza che ci porta a distinguere tra vita interiore e mondo esterno. Se dovessimo
spiegare a un marziano che cosa vuol dire essere uomini, non potendo riassumere in poche parole qualcosa
di estremamente complesso, andremmo in cerca di caratterizzazioni fondamentali, una delle quali senz’altro
sarebbe: noi uomini viviamo in due mondi.
Uno è il mondo esterno, quello
fuori di noi. Lo troviamo già fatto così com’è e ne riceviamo
continuamente notizia attraverso le porte dei sensi fisici. L’altro
mondo è quello interiore, quello della nostra anima: non si vede coi
sensi, ma noi, caro marziano, ti possiamo assicurare che esiste. Ognuno
di noi porta dentro di sé un’infinità di pensieri, di sentimenti e di
impulsi volitivi che lo muovono all’azione.
Su questa falsariga ci siamo chiesti se anche per l’Angelo valga questa doppia realtà, e abbiamo visto che la
scienza dello spirito è in grado di rispondere che sì, anche gli Angeli hanno una vita interiore e un mondo a
loro per così dire esterno. Gli Angeli, gli Arcangeli e i
Principati vivono nel loro interno le ispirazioni di Esseri
a loro superiori, e nel mondo esterno esprimono in piena veridicità il loro mondo interiore.
Saliamo ora di un gradino
fino alla seconda gerarchia:
Dominazioni, Virtù e Potestà. Anche per queste Entità
c’è una vita interiore e un mondo esterno. All’esterno
creano esseri: inizia così al livello della seconda gerarchia
il processo vero e proprio della creazione, che trova la
sua perfezione nella Trinità divina.
La qualità speci
fica di questa creazione è di dar vita a
Esseri distinti da chi li crea, ma che rimangono sempre
del tutto dipendenti dal loro creatore. Dominazioni, Virtù e Potestà non smettono mai di operare sugli Esseri
che creano, e questi esistono per il tempo in cui la seconda gerarchia opera in loro.
Un esempio che può in qualche
modo aiutarci a capire questo tipo di rapporto tra creatore e creatura
è la gestazione umana. Durante i nove mesi la creatura, il bambino, è
in tutto e per tutto dipendente dall’osmosi di forze che gli provengono
dal creatore – dalla mamma. Ciò che succede alla mamma succede anche al
bambino che essa porta dentro di sé. Sono due esseri, sì, ma ancora in
tutto e per tutto interdipendenti.
Quando invece attraverso la
nascita avviene il distacco fisico fra madre e figlio, e quest’ultimo
comincia un’esistenza indipendente dalla madre, perveniamo al livello
di creazione proprio della prima gerarchia. Serafini, Cherubini e Troni
creano in modo tale da dar vita a Esseri che pongono fuori di sé, con
l’intento di renderli sempre più indipendenti. Solo la prima gerarchia
è capace di creare Esseri dotati di potenzialità verso l’autonomia –
naturalmente mai a tutti i livelli perché l’indipendenza e la
creatività suprema è propria soltanto della Trinità divina.
Riassumendo:
— la terza gerarchia non crea Esseri ma lavora nei
pensieri, nei sentimenti e negli impulsi volitivi di
Esseri – per esempio gli uomini – creati da gerarchie ancora superiori;
— la seconda gerarchia crea Esseri distinti da sé che
però restano per tutta la loro esistenza dipendenti
dal creatore, cioè esistono solo nella misura in cui
opera in essi il creatore;
— la prima gerarchia crea Esseri ai quali sa conferire
autonomia interiore, che possono divenire sempre
più creativi a loro volta.
Il dinamismo complessivo della
creazione, la meta del divenire universale, è di far sorgere Esseri
spirituali sempre nuovi che diventino a loro volta capaci di
indipendenza e creatività. La creatività spirituale è ciò che di più
bello la Divinità abbia: è per natura creatrice e vuol dare alle sue
creature il meglio di sé.
La vita interiore della
seconda gerarchia – Potestà Virtù Dominazioni – s’incentra
sull’esperienza della propria vitalità di creatori. Questi Esseri
spirituali si sentono vivi interiormente nella misura in cui creano,
come la mamma si sente tale nel trasfondere la propria vita alla
creatura che porta dentro di sé.
La vita interiore della prima
gerarchia è invece tutta incentrata nel suscitare in altri Esseri
l’autonomia spiri-tuale, non soltanto la vita. Creare Esseri
individuali, dotati di un Io e che evolvendo si rendano sempre più
autonomi, è per i Troni, i Cherubini e i Serafini al contempo
autocreazione. Creando le condizioni dell’autonomia altrui fanno
l’esperienza interiore di rigenerare se stessi, di venire sempre più
pienamente all’essere come creatori. Che cos’è, infatti, che dà al
creatore la percezione interiore di essere, appunto, creatore? È il
creare Esseri da lui indipendenti. Finché ciò che io creo resta parte
di me, io resto dentro di me, non esco da me stesso. Mi vivo come
creatore solo nella misura in cui la mia creatura cessa di far parte di
me e diventa a sua volta capace di creare.
Veracità, amore scambievole e amore per l’autonomia
dell’altro
A questo punto diventa importante la domanda su come
si possano mai avvicinare Esseri spirituali così sublimi.
Con la terza gerarchia, quella a noi più vicina degli Angeli, degli Arcangeli e dei Principati, un’idea ce la siamo
fatta. Ma con le altre gerarchie, come si fa?
La scienza dello spirito di Rudolf Steiner indica tre
cammini interiori che ognuno di noi può percorrere:
uno crea la comunione con la terza, uno con la seconda
e il terzo con la prima gerarchia degli Angeli. Sono tre
cammini che in fondo già conosciamo ma che vanno
affrontati da una nuova angolatura.
1. Il primo cammino, che porta alla comunione con
Angeli, Arcangeli e Principati, è quello della veracità.
La veracità è la responsabilità morale nei confronti della verità. Il
genio della lingua, distinguendo tra verità e veracità, intende dire
che la verità è la capacità di comprendere, affermare e confermare le
cose così come sono; la veracità è invece l’atteggiamento interiore di
responsabilità morale nei confronti della verità stessa.
Un essere umano è verace quando, conosciuta la verità,
la immette nella pratica della vita, facendosene carico nel
suo cammino interiore. L’Angelo, l’Arcangelo e il Principato non possono mentire perché non possono che
riversare fedelmente all’esterno, attraverso il loro agire,
ciò che hanno dentro, altrimenti gli mancherebbe la percezione di sé. Nella terza gerarchia vigono dunque verità
e veracità allo stato puro. Nella misura in cui noi viviamo
coscientemente nell’elemento della veracità, creiamo la
lunghezza d’onda giusta per entrare in comunione con
la terza gerarchia.
2. La seconda gerarchia vive nella
reciprocità d’amore tra
essere ed essere, in un continuo scambio di forze che danno
vita. L’amore, come noi lo intendiamo normalmente, è
proprio quello che troviamo a questo secondo gradino.
La seconda gerarchia ama intervenendo nell’altro, amorevolmente: è l’amore materno, l’amore che risponde al
bisogno dell’altro e ha bisogno dell’altro. Il cammino interiore per creare la lunghezza d’onda adatta a cogliere
le ispirazioni delle Potestà, delle Virtù e delle Dominazioni è quell’amore reciproco che instaura un continuo
scambio fra gli esseri.
3. Il terzo cammino rappresenta la perfezione dell’amore, è il conferire all’amato capacità di autonomia.
Per concedere autonomia all’altro ci vuole un amore ancora più intenso,
perché bisogna avere la forza morale di accettare gli abissi della
libertà altrui. La perfezione dell’amore è la capacità di tirarsi
indietro per far posto all’altro, è l’offerta di sé, e quella noi quasi
non la conosciamo. Noi conosciamo quasi esclusivamente l’amore che
vorrebbe premurosamente gestire l’altro: è un amore che sa ancora di
paternalismo perché chi ama come fa un genitore ritiene di sapere
meglio dell’amato ciò che è bene per lui.
Fare qualcosa per l’altro è
l’inizio dell’amore; lasciar fare l’altro è la perfezione dell’amore.
L’amore è compiuto quando io amo al di sopra di ogni cosa l’autonomia
dell’altro, quello che l’altro fa traendolo dalla sua creatività
propria. Quando amo ciò che compio io nell’altro amo ancora me stesso:
per amare veramente l’altro, e non me in lui, mi devo ritirare, devo
amare la sua autonomia. E questa autonomia non potrà sorgere senza
errori e senza ferite da parte sua, che io non voglio risparmiargli
bensì rendergli possibili, perché sono indispensabili all’acquisizione
della libertà.
Questo terzo cammino di trasformazione interiore ci
consente di entrare sempre più in sintonia con il mondo dei Troni, dei Cherubini e dei Serafini. È l’esercizio
dell’intuizione morale che ci rende capaci di metterci nei
panni dell’altro. È un lasciar essere l’altro nella sua alterità. E quando riesco a farlo le cose stanno esattamente
come l’altro le vive: basta che io faccia mio il suo punto
di vista. Questo tipo di comunione è il più profondo che
vi sia.
La creazione dei Troni, dei Cherubini e dei Sera
fini,
i più vicini alla Divinità, si esprime nella loro capacità
di diventare tutto e tutti. Al livello umano ciò per me
significa non amare l’altro intervenendo dal di fuori o
facendo qualcosa in lui e per lui, ma diventare lui, senza
annullarmi, perché poi voglio diventare un altro ancora
e ancora e ancora.
Ogni nuovo punto di vista che facciamo nostro è un
entrare in comunione con quell’essere che vede e vive le
cose da quel punto di vista. E saper vedere le cose da tutti
i punti di vista contemporaneamente – cosa che per ora
sa fare solo la Divinità –, vuol dire essere in comunione
con tutti gli esseri.
“Anima dell’uomo!”
Il testo di meditazione cui ho accennato è stato creato
da Rudolf Steiner. È un mantram – o anche una preghiera, se si vuole – che compendia tutto il reale e il tutto
dell’evoluzione. Eccolo:
ANIMA UMANA!
(traduzione di Pietro Archiati)
MENSCHENSEELE!
Questo bellissimo testo di meditazione è composto di
tre “colonne”: la colonna a pag. 146 tratta del mondo
di Dio Padre, quella a pag. 147 si volge all’operare del
Figlio, e quella a pag. 148 ha a che fare con lo Spirito
Santo. Le ultime strofe poi racchiudono il mistero del
Figlio che si fa uomo. Così come il mantram è riportato
nelle pagine precedenti, le colonna di sinistra, di centro e
di destra (p. 146, 147, 148) e le strofe finali (p. 149) sono
indicate rispettivamente con i numeri 1), 2), 3) e 4).
Padre, Figlio e Spirito Santo non sono nella Trinità divina tre Esseri semplicemente distinti, perché una
delle qualità più essenziali dello spirito è l’unità: dove
è all’opera lo spirito non si ha pace finché non si crea
l’unità in qualsiasi tipo di molteplicità. Lo spirito è l’arte
di creare nessi: finché si distinguono nella Divinità tre
Esseri diversi senza intuire in che modo siano al contempo un Essere solo, neanche lo spirito umano, cioè il
nostro pensare, può ritenersi soddisfatto. Creati a immagine di Dio, noi non possiamo trovar pace nella mente
finché non riconduciamo all’unità ciò che il mondo della
percezione ci presenta come frammentato.
La Divinità si manifesta e opera nel mondo, cioè nel
processo della creazione, in tre modi diversi, la Trinità
di Dio sono i tre modi d’interazione della Divinità col
cosmo. L’unità del tutto non è perciò qualcosa di astratto: si esprime nella molteplicità concreta degli esseri che
vivono nel mondo. Il molteplice è bello perché è articolato e concreto, ma non ci dà quiete finché lo vediamo
solo disperso.
Lo spirito pensante è in perenne cammino di ritorno
verso l’unità: ogni tipo di spirito, e dunque anche lo spirito umano, vive di questo respiro, di questa diastole e
sistole che si muove tra unità e molteplicità. L’unità senza molteplicità è vuota astrazione, la molteplicità senza
unità è dispersione, è carenza di senso. Tra la complessità e l’unità trova il suo respiro il pensare umano.
Nella colonna 1) c’è il mondo del Padre, il mondo della prima gerarchia, quello dei Troni Cherubini e Serafini,
con tutto il mistero dei regni di natura. La terminologia qui usata è di matrice cristiana, e c’è un motivo ben
preciso. Si può dire che le religioni pre-cristiane non distinguevano fra loro i tre modi sostanzialmente diversi
dell’operare della Divinità nel mondo. Le antiche Trinità
sono in realtà tre modi di operare del solo Padre: sia
Shiva, sia Brahma, sia Visnù, per esempio, si riferiscono
tutti e tre al modo di operare di Dio Padre. Con la stessa
necessità di natura Dio crea (Brahma), mantiene in vita
(Visnù) e fa perire (Shiva) tutte le cose.
Nella matrice cristiana, invece, il Padre opera nell’elemento di natura; il Figlio, l’Essere dell’Amore (il Cristo)
fa invece sorgere nell’uomo la capacità di libertà, trasforma cioè l’anima umana facendone una potenzialità
allo spirito; e lo Spirito Santo è l’esperienza dello spirito
attuato, cioè raggiunto e realizzato qui e ora dall’uomo
singolo con le forze della sua libertà. L’esperienza del
Figlio e dello Spirito Santo non compare nelle religioni
pre-cristiane proprio perché sarebbe stata prematura da
un punto di vista evolutivo.
L’amore del Cristo consiste nel fatto che ci rende capaci di libertà, ce ne dà la facoltà, ci pone nelle condizioni
di poter essere liberi; ma gli atti tramite i quali io realizzo
e attuo questa facoltà di libertà sono per me l’esperienza
vera e propria dello Spirito Santo.
E sono due tipi di autoesperienza ben diversi. Ognuno
di noi ha ricevuto, in modo uguale, la capacità di essere
libero grazie all’Essere dell’Amore, ma rendere reale la
libertà traducendola nella pratica della vita non è un obbligo. L’esperienza dello Spirito Santo può anche essere
omessa dal singolo individuo.
Il Padre lavora nell’elemento di natura, pone il fondamento dell’evoluzione umana che è il determinismo di
natura. Tutte le lingue antiche, e l’esoterismo delle religioni, usano la stessa parola per indicare Dio Padre e la
pietra: Pater – petra, in latino; Aba – abanin,
in ebraico. Il Padre opera nell’elemento corporeo del cosmo, il Figlio
opera nell’anima umana per renderla potenzialità di spirito e nella
libertà realizzata individualmente c’è l’esperienza dello Spirito Santo.
La prima triade – Troni Cherubini e Sera
fini – è la gerarchia del Padre che lavora dentro l’elemento di natura
per eccellenza. Abbiamo poi la seconda gerarchia (nella
colonna 2) – Potestà Virtù e Dominazioni – che opera
in comunione particolarmente con il Figlio e lavo¬ra
nell’anima umana per renderla capace di accogliere lo
spirito. C’è infine la terza gerarchia (colonna 3), quella
dello Spirito Santo – Angeli, Arcangeli e Principati – con
la quale ci mettiamo in comunione ogni volta che facciamo l’esperienza individuale della libertà dello spirito.
In questa meditazione l’anima umana si rivolge a se
stessa. È come un autorisveglio, un’esperienza di autocoscienza. Sono presenti tutte le gerarchie, c’è il mondo
della natura e ci sono anche i Morti, perché anch’essi vivono in questa realtà complessiva del cosmo. La colonna
4) racchiude il quarto elemento, l’uomo: è la Divinità
incarnata, il Verbo del Padre che si esprime nel Figlio e
che suscita lo Spirito dentro gli esseri umani.
Le tre colonne vanno messe
l’una accanto all’altra perché ogni rigo della colonna del Padre ha il
suo corrispondente nello stesso rigo di quella del Figlio e dello
Spirito Santo. Per esempio:
I misteri del Padre riguardano tutto ciò che avviene
nello spazio; i misteri del Figlio si riferiscono a ciò che
avviene nel corso del tempo; i misteri dello Spirito sono
quelli dell’eternità e del ritorno di ogni spirito umano
all’unità. Il Padre regge ciò che è eterno, immutabile; il
Figlio regge il mondo che è in divenire, il susseguirsi
di un’epoca dopo l’altra, il nascere e il morire; lo Spirito Santo è pura interiorità, è il mondo morale attuato
nell’agire del singolo uomo.
Questi sono solo alcuni cenni di lettura: la scoperta
degli infiniti aspetti racchiusi in questo testo (in cui non
manca nulla!) è lasciata alla meditazione quotidiana di
ognuno. Chi prova gioia nel meditarvi sopra, magari
ogni giorno, si stupisce di percorrere ogni volta cammini sempre nuovi.
Un altro breve esempio:
A sinistra c’è la volontà, che si esprime tramite il corpo;
al centro c’è il sentimento, ciò che si vive nell’anima; a
destra il pensare, che è puro spirito – un’altra triade fondamentale.
Oppure:
1) Esercita
il ricordare dello spirito
Nelle profondità dell’anima,
Dove nell’essere governante
Creatore di mondi
L’Io proprio dell’uomo
Viene all’essere
Nell’Io di Dio;
E in verità tu vivrai
Nell’essere del mondo umano.
2) Esercita
il riflettere dello spirito
Nell’equanimità dell’anima,
Dove le uttuanti gesta
Del divenire cosmico
L’Io proprio dell’uomo
Congiungono
Con l’Io dei mondi;
E in verità tu sentirai
Nell’operare dell’anima umana.
3) Esercita
lo scrutare dello spirito
Nella quiete dei pensieri,
Dove le mete eterne degli dei
La luce dell’essere cosmico
All’Io proprio dell’uomo
Donano
Per un volere libero;
E in verità tu penserai
Nelle profondità dello spirito umano.
Esercita il ricordare dello spirito
: l’elemento di natura del Padre rappresenta il passato dell’evoluzione, e il passato
vuole essere “ricordato”. Il verbo “ricordare” esprime
una bellissima intuizione del genio della lingua italiana
e significa “riportare dentro al cuore”. Tutto ciò che il
Padre ha compiuto ponendo i fondamenti di natura va
amato col calore della gratitudine. Nel regno del Padre
l’uomo sperimenta il vivere, l’essere plasmato dalle forze
della vita che però sono ancora oscure, sfuggono alla
coscienza, vivono, appunto, nelle profondità dell’anima
governate ancora dai creatori dei mondi.
La colonna centrale, quella del Figlio nella Trinità cristiana, comincia con: Esercita il riflettere dello spirito. Ci
esercitiamo a riflettere lo spirituale quando viviamo nella
nostra anima, nella nostra interiorità, che vuol essere un
“riflesso” puro e terso del mondo circostante. Nell’anima non viviamo nell’Io vero e proprio, che è il nostro
essere spirituale eterno, ma nel suo riflesso, che è l’autocoscienza. La coscienza dell’Io è l’immagine riflessa del
nostro Io vero dentro la nostra anima.
Ma è proprio la coscienza di aver in noi solo un ri
flesso
del nostro Io vero che ci fa cercare la sua realtà: l’anima
vive l’anelito verso lo spirito. Nell’immagine riflessa c’è
infatti tutto e nulla della realtà che si riflette: c’è il tutto
della sua immagine e il nulla della sua realtà vivente e
operante.
Il mondo dell’anima, delle immagini speculari prive di
realtà, ci rende capaci di libertà proprio perché quelle
rappresentazioni non possono fare nulla – e non ci possono fare nulla! Tocca a noi conferir loro realtà spirituale
attraverso il nostro spirito pensante. Le forze della volontà vengono “vissute” come un oscuro pulsare di vita,
il tessere dell’anima viene “sentito” nei sentimenti veri e
propri, che sono meno oscuri del volere e meno chiari
del pensiero.
La colonna di destra (p. 148), la 3), è quella dello Spirito Santo. Esercita lo scrutare dello spirito, esercitati, cioè,
a intuire ciò che è realmente spirituale. L’attività pura
del pensare non conosce gli ondeggiamenti dell’anima,
lascia dietro di sé simpatie e antipatie e cerca l’oggettività
delle cose. L’anima vive sempre al presente, in una specie di autogodimento, come fa il bambino, ma lo spirito
guarda in avanti, concepisce mete del divenire universale
che da idee si trasformano in ideali. Pensare e volere
diventano, nell’esperienza dello spirito, una cosa sola:
l’intuire diviene amore puro, e l’amore pura intuizione.
Le triadi più svariate si
schiudono all’occhio dello spirito che medita questo testo: natura,
cultura, individualità; essere, divenire, autocoscienza; stazione
eretta, parola, pensiero; mondo della terra, del sistema solare, dello
zodiaco. E altre ancora…
La prima e la terza colonna esprimono tutta una serie di
polarità.
Troni, Cherubini e
Sera
fini – che Rudolf Steiner chiama anche Spiriti delle forze, delle forze
di natura, appunto – portano giù i pensieri di Dio Padre nelle
profondità oscure dei regni di natura, in un movimento che va dall’alto
al basso e che è proprio dell’amore universale che crea.
Gli Angeli, gli Arcangeli e i
Principati – Spiriti delle anime, cioè che sono al lavoro nelle anime
degli uomini – rispondono con un movimento inverso che va dal basso
verso l’alto, verso la luce delle gerarchie superiori e della Trinità:
essi accolgono e innalzano la risposta umana alla vita stessa,
spiritualizzando nel pensare umano tutta la natura. Questa risposta si
esprime nelle conquiste interiori della conoscenza: l’uomo ascolta il
richiamo dell’essere (della vita) che vuole essere compreso e
illuminato da lui, riscaldato dalle forze del suo cuore e riconsegnato
alle altezze come Spirito Santo, come spirito attuato nella libera
volontà umana.
Nel mezzo la seconda gerarchia
– chiamata anche gerarchia degli Spiriti della luce – opera col Figlio
nei movimenti dei pianeti, dalla periferia, e porta sulla Terra
l’operare del sistema solare abbracciando l’intera Umanità. Il Figlio
entra nei ritmi evolutivi dei cuori umani, del vissuto umano, quale si
esprime nell’alternarsi delle epoche storiche, effondendo la “grazia”,
cioè mettendo a disposizione di epoca in epoca tutte le condizioni
necessarie per l’esercizio della libertà. Lì avviene lo scambio fra
uomo e uomo, lì l’Oriente incontra l’Occidente, la luce incontra la
forma – è il mistero dell’incarnazione dello spirito nella materia –,
lì la dispersione dell’umano si ricompone nel reciproco completarsi,
come avviene con i membri di un organismo vivente.
Queste tre formule – che in latino suonano così:
Ex deo
nascimur; In Christo morimur; Per Spiritum Sanctum reviviscimus – contengono la quintessenza della saggezza rosicruciana, una corrente profondamente cristiana che si è
espressa a livello esoterico, cioè di catacomba, in tempi
in cui sarebbe stato prematuro offrire le sue conoscenze
alla cultura ufficiale. Questi tre detti rosicruciani sono
densi di verità e di bellezza, in quanto descrivono le tre
manifestazioni della Divinità:
Da Dio Padre trae l’essere l’umanità
: tutto nasce dal Padre,
la natura è il creato del Padre, come anche il passato
dell’uomo e dell’intero universo.
In Cristo la morte diviene vita
: il Figlio è all’opera ogni volta che c’è una morte, ogni volta che
nel divenire incessante qualcosa o qualcuno cessa la sua specifica
mansione per far posto a ciò che deve ancora venire. Ogni morte si può
trasformare in resurrezione se è compiuta nel Cristo che ci fa
risorgere sempre a nuova vita. Nel Cristo moriamo con l’intento di
tornare all’essere in ciò che viene a nascere come creazione dal nulla,
come qualcosa di nuovo.
Per mezzo dello Spirito Santo si risveglia l’anima
: qui si esprime la totalità del divenire proiettata nel futuro. Il
significato globale di tutta l’evoluzione umana è la “resurrezione
della carne” operata dallo spirito, il risorgere dello spirito umano
incarnato che riporta la materia allo stato di polvere cosmica perché
ha saputo volerla, amarla e conoscerla vivendoci dentro.
Tutte e tre queste formule si concludono con l’invocazione:
Questo odono gli spiriti degli elementi
All’est, all’ovest, al nord e al sud:
Possano udirlo gli uomini.
Di nuovo un appello alla responsabilità dell’uomo che
racchiude in sé i destini del mondo e al quale lavorano
in ogni dove – all’est, all’ovest, al nord, al sud – gli spiriti
degli elementi, che anelano a risorgere con noi per rituffarsi nella sostanza divina.
L’ultima parte del mantram, la 4), riguarda la decisione
del Figlio di farsi uomo per rendere ognuno di noi capace di accogliere in sé, nel corso del tempo, i misteri della
Trinità divina.
Alla svolta dei tempi
La luce dello spirito cosmico entrò
Nella corrente dell’essere terreno;
L’oscurità della notte
Aveva terminato il suo dominio;
Chiara luce del giorno
Rifulse in anime umane;
Luce,
Che riscalda
I cuori semplici dei pastori,
Luce,
Che illumina
Le menti sagge dei re.
Luce divina
O Cristo, tu Sole,
Riscalda i nostri cuori,
Illumina le nostre menti,
Affinché divenga buono
Ciò che vogliamo fondare coi cuori,
Ciò che vogliamo condurre alla meta
Con menti risolute.
Come i pastori di Betlemme, anche noi abbiamo un
cuore pieno di povertà che anela alle ricchezze dello spirito, tutti siamo mendicanti dello spirito, e ognuno di noi
è anche un saggio nella sua mente, perché la sua facoltà
pensante anela alla sovranità della conoscenza. Il cuore
cerca l’amore e la mente cerca la saggezza: il Figlio del
cielo è sceso, si è incarnato, per riscaldare il cuore e per
illuminare la mente di ogni essere umano.
Possiamo chiederci un’altra volta: l’esistenza degli Angeli e dei Morti è una questione di fede o di scienza?
L’uomo vuole sia la fede sia la scienza: il cuore cerca la
fede e la mente cerca la scienza. Ma devono andare insieme: la mente da sola non basta e neanche il cuore da
solo. Riscalda i nostri cuori, illumina le nostre menti.
Af
finché divenga buono
Ciò che vogliamo fondare coi cuori
Ciò che vogliamo condurre alla meta
Con menti risolute.
Con un’in
finita fiducia nelle risorse di ogni uomo si
conclude questa meditazione nella quale ognuno può
sempre nuovamente ritrovare il senso del suo esistere,
la meta che la Divinità una e trina ha inscritto nel suo
cuore e nella sua mente. E mentre noi ci offriamo alla
trasformazione interiore che queste verità operano in
noi, gioiscono gli esseri umani che ci hanno preceduto oltre la soglia della morte. E le gerarchie angeliche
ci inondano con i loro doni in un movimento cosmico
che Goethe nel Faust descrive così (in una traduzione
mia che non può essere che un balbettio a confronto
dell’originale), guardando al cielo con gli occhi sapienti
del suo cuore di poeta:
Greco
(Dionisio
Areopagita)
Latino
(Tommaso
d’Aquino)
Italiano
(Dante
Alighieri)
Scienza
dello spirito
(Rudolf Steiner)
1.
Seraphim
Seraphim
Sera
fini
Serafini
Spiriti dell’amore
2.
Cherubim
Cherubim
Cherubini
Cherubini
Spiriti dell’armonia
3.
Thronoi
Throni
Troni
Troni
Spiriti della volontà
4.
Kyriotetes
Dominationes
Dominazioni
Kyriotetes
Spiriti della saggezza
5.
Dynamis
Virtutes
Virtù
Dynameis
Spiriti del movimento
6.
Exousiai
Potestates
Potestà
7.
Archai
8.
Archangeloi
Principatus
Archangeli
Principati
Arcangeli
Exousiai
Spiriti della forma
Archai
Spiriti del tempo
Spiriti della
personalità
Arcangeli
Spiriti dei popoli
Spiriti del fuoco
9.
Angeloi
Angeli
Angeli
(Angeli custodi)
Angeli
Angeli custodi
Spiriti del crepuscolo
Figli della vita
10° grado delle gerarchie angeliche: l’Uomo
Pietro Archiati
è nato nel 1944
a Capriano del Colle (Brescia). Ha
studiato teologia e filosofia alla
Gregoriana di Roma e più tardi
all’Università statale di Monaco
di Baviera. È stato insegnante nel
Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).
Dal 1974 al 1976 ha vissuto a
New York nell’ambito dell’ordine
missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.
Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di
Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito ― destinata a diventare la grande passione
della sua vita ― indaga non solo il mondo sensibile ma
anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia
alla religione di fare un bel passo in avanti.
Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.
Dal 1987 vive in Germania come libero professionista,
indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono
dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue
inesauribili risorse intellettive e morali.

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Finito di stampare nel mese di Giugno 2009
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