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giuda ritorna

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www.liberaconoscenza.it

ISBN 3-937078-29-0

Paolo Agnello ∙ Pietro Archiati

GIUDA RITORNA

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Questo disse ancora,

ma intorno il nostro amico non vedeva nessuno.

Si volse allora verso la terra,

e gli sembrò di vederla come una navicella

sperduta in un mare,

ed era invece solo cielo quello,

mentre veleggiava verso il nulla.

Poi, d’un tratto, eccola accendersi e

splendere come un sole,

ed era una enorme raggiera di luce adesso,

e da lì uscivano i pensieri e le azioni di tutti gli uomini.

Ma lui era lontano, troppo distante,

e allungava le braccia

e avrebbe voluto avere gambe cuore e sangue,

per correrle dietro, salirci sopra.

Ma del suo corpo non restava più niente.

Il pulmino saliva a fatica. Visto dall’alto sembrava un lucertolone stremato da una lunga corsa; perso lo slancio, procedeva per inerzia, sempre più a rilento. Dopo un interminabile viaggio, la dozzina di ragazzi, o poco più, da ore stipati là dentro, sperava di farcela ad arrivare finalmente a destinazione. Anche il grassone abbarbicato al volante, a dire il vero ci sperava. Ma ad ogni metro la probabilità di vincere la scommessa fatta in partenza, quella cioè di portarli a destinazione giusto in tempo per la cena, scemava. Con loro c’era anche un uomo, più anziano; il capogruppo forse. E se gli altri avevano ancora forza per ridere e scherzare, lui s’era tirato fuori, standosene in disparte pensoso ed accigliato. La speranza, come il motore, era l’ultima a morire.

Dài, ancora un po’ e ce l’hai fatta, un piccolo sforzo soltanto e siamo arrivati, implorava l’uomo al catorcio che gli ansimava sotto i pedali, dài che Spoleto non è poi così lontana. Ma neppure l’estremo lembo della guarnizione era altrettanto lontano dall’esser divorato dal calore che ribolliva da tutte le parti, specie dal cofano da cui usciva un denso vapore bianco. L’uomo dai capelli grigi seguiva sottecchi tutta la scena, accartocciato in un bilioso silenzio. Perché se lo sentiva lui, per quell’intuito che hanno gli uomini della sua età nel cogliere l’aspetto più ingrato della vita ma anche il più vero, che sarebbe finita a quel modo. Da un pezzo i ragazzi lo prendevano in giro, per quel suo sadismo nel cogliere i risvolti negativi delle cose, le zone d’ombra. Per il suo irrimediabile realismo. Davvero non volevano sentirlo uno come lui che cercava di spegnere i loro sorrisi, soffiare sugli entusiasmi, piegarne l’ali.

Il conducente intanto sudava e taceva. Contando sulla sua facilità a perdersi dietro a banali divagazioni non riguardanti la meccanica del pulmino su cui poggiava, e meritatamente, le sue robuste chiappe, cercava di mantenere quell’aria rassicurante e beata appiccicatosi addosso fin dalla partenza. Ma adesso, che le cose stavano mettendosi male, senz’accorgersene s’era leggermente curvato sul volante. Era da sempre la sua unica certezza quella; oltre al cambio il motore e tutto il resto là sotto, beninteso. Gli bastava una drizzatina qua e là, un colpo di freno o d’acceleratore ogni tanto, perché anima e cuore sbalzassero sul nastro ondeggiante della strada, a seguire i dettami di regole e segnali. Li conosceva a memoria lui e da una vita. Certo non era un artista come loro, ma le curve sapeva farle, eccome, e se quelle non le fai bene, sai dove finisci? Ho un mestiere io, non come quegli sciabordati là dietro, quelle teste campate per aria. Artisti. Bah! Tutti alla pala li manderei, a vangare... Ve la do io l’arte. E così, vendicandosi degli sfottò di poco prima, acqua olio e benzina niente vino di mattina, andava avanti, rimuginando risposte ancor più feroci, ma che non sarebbe mai riuscito a dare.

E mentre lui correva dietro a fantastiche rivincite, i ragazzi a modo loro correvano, sì, ma dietro alle loro parti; ripassandosele a memoria. Mesi di prove, sacrifici, ritiri. Avevano rinunciato a tante cose per questo viaggio, ed ora rischiavano di non arrivare in tempo a Spoleto. Avevano una reputazione da difendere, erano degli improvvisatori; solo in parte però. In fondo il canovaccio era quello, ma la successione dell’entrate non veniva stabilita in partenza. E anche le parole, non tutte erano previste. Questa la novità. Uno poteva ficcarcisi all’improvviso nella battuta dell’altro, dire quel che gli passava per la testa, e il compagno doveva sapersi adattare, interrompere il suo discorso per riprendere il filo, al momento giusto. Una specie di duetto improvvisato. L’altr’anno era andata benissimo, ed ora li aspettavano gli organizzatori, gli applausi e una sacrosanta doccia. Ma soprattutto la buona cucina umbra: ruspante e genuina. Un pensiero come questo bastava a tenere su il morale, alle cinque di sera. Ancora poco ed era fatta.

Dài Giacomino, portaci a magnà, gridarono a un tratto. Lui si volta e sorride. Solo con la bocca però, che il morale, assieme al suo orgoglio d’autista di lungo corso, gli si stava spandendo dentro irrimediabilmente; come cera di candela colava da tutte le parti. Poi, rivolti al capo, Tu è meglio che non dici niente, tanto porti sempre iella, e giù risate. Ma lui nemmeno ci badò. La testa poggiata al finestrino, osservava un punto preciso sui bordi altalenanti delle colline. Al di là di essi, Spoleto, quel dramma scritto da lui, le proposte, i contratti, forse qualche rappresentazione all’estero. Anche lui ha i suoi sogni, ma non li dice a nessuno, neppure a se stesso vuol confessarli.

L’autista, soddisfatto di non essere il solo a venire preso per i fondelli, sorride sì, ma lo spirito è quello d’un cane che da un momento all’altro s’aspetta la sua brava bastonatura. Sa che l’ora è giunta, quando, di sguincio, vede quello che non vorrebbe vedere: il pannello del cruscotto. La temperatura a mille e passa. Non sa se mettere ancora acqua, lo ha già fatto due chilometri prima, metti a birra che vai più veloce, gli avevano detto. Meglio fermarsi allora, smontare la ventola, cambiare la cinghia che forse s’è allentata, per questo il motore è surriscaldato, oppure è il raffreddamento che non riparte, o chissà che cos’altro sarà...

Il pulmino arrancava su per i tornanti. Cento chilometri a Spoleto, dice il cartello. Non sarebbero niente, e invece sono un’eternità. E sbuffa, e litiga con bulloni, guarnizioni, spessori, dadi, diodi, triodi, centraline periferiche, circuiti centrali, gligè, candele, ceri, santi e madonne, litiga con tutto Giacomo, col mondo intero leticherebbe pur di non darla vinta a quelli dietro. E continua a guidare senza dir nulla; ma le spie, quelle carogne, parlano per lui. Per questo si chiamano spie. Inchiodate sul rosso non si scostano da lì, proprio davanti a lui, messe apposta per tradirlo.

«Allora che facciamo?» fece l’uomo dai capelli grigi.

«Non so dottò, lei che pensa?»

«Beh, se non lo sai tu...». La voce dell’uomo pareva rassegnata, come il motore che implorava di fermarsi. Un poco soltanto sarebbe bastato per fargli riprender fiato. «Fermiamoci allora» dice l’uomo. «Noi nel frattempo andremo là».

«Dove c’è quello spiazzo, dottò?» e indicava una conca verde incastonata tra una selva di alti faggi.

«Sì, io e i ragazzi andremo laggiù. Per il resto vedi tu cosa puoi fare. Siamo nelle tue mani».

Giacomo prese una stradina sterrata a destra. Il pulmino sobbalzava sulle pietre come avesse le convulsioni, poi a un certo punto scaracchiò, lo fece più volte di seguito e poi basta. Quindi, sfrigolando, rallentò fino a fermarsi a lato di un declivio. Un lungo rantolo misto a un sibilo catarroso salì dal suo muso schiacciato. Sembrava lì lì per morire.

«Pensi di poter fare qualcosa Giacomo?»

«Aspetti che si raffreddi e glielo dico.»

«Va bene allora, noi intanto andiamo». E si guardava intorno per trovare il sentiero più breve per arrivare a quel punto. «Quello spiazzo laggiù, vero?», e puntava l’indice su un occhiello luminoso in mezzo alla macchia del bosco. L’altro fece cenno di sì. «Bene. Quando avrai qualcosa di buono da dirci fatti vivo, e buona fortuna».

Giacomo fece scorrere il portellone. I ragazzi si catapultarono ad uno ad uno dal buco apertosi sulla fiancata del pulmino. Cadevano a terra liberandosi al volo dei giubbotti, rimbalzando come castagne che nell’impatto schizzan fuori dai loro gusci. Poi giù di volata, lungo il costone verso il prato. Li richiamava il verde, la luce, l’idea di una corsa dopo ore di viaggio ed immobilità. O era semplicemente la gioventù. L’uomo dai capelli grigi veniva dopo, senza fretta, osservandoli mentre scapicollavano come puledri usciti dal gabbio, e intanto taceva. In giro tanta confusione, grida, risate. Nomi e voci si rincorrevano, ma lui paziente guarda i suoi ragazzi e aspetta. Poi, senza dire una parola, li richiama col suo invisibile bastone e li fa sedere in circolo. Con un semplice gesto della mano li governa, come un pastore fa col gregge.

Dopo poco, cose e uomini tornarono al loro posto e il silenzio fu quasi totale. Il pulmino, fermo sul ciglio della strada, visto da lì sembrava una docile creatura, rassegnata a farsi leccare le ferite da Giacomo che, infilato il suo cespuglioso testone in quella bocca da foca ammaestrata, con pinze e chiavi inglesi smanettava come un dannato. L’intervento sarebbe stato di certo lungo; i pezzi poi chissà se ci saranno tutti nel paese più vicino. Spoleto li aspetta oltre quelle colline che tagliano un cielo di carta stropicciata con sopra batuffoli di nubi come di garza slabbrata. In fondo al prato circondato da un filare di betulle con dietro ciuffi di vecchi castagni, l’uomo se ne sta tranquillo al centro del cerchio dei ragazzi accovacciati intorno.

«Giacomo ce la farà», disse, «e noi in un modo o nell’altro vedrete che arriveremo a destinazione».

«Sì, domani...», fece uno, e giù tutti a ridere.

«No amico, stasera. E perché niente vada perso, diamoci una mossa e cerchiamo di ripassarci le parti». Un brusio accompagnò quest’ultime parole. «E’ tutto di guadagnato, credetemi». La cosa non li entusiasmava più di tanto.

«Ma via su, lo faremo domani. Che fretta c’è!» disse qualcuno.

«No!», rispose l’uomo, «meglio adesso. Avete dentro la grinta giusta, la dose di rabbia che ci vuole. Il canovaccio già lo conoscete». Poi, tirato fuori il copione, prese a sfogliarlo fermandosi ogni tanto. Gli altri zitti a guardarlo. Quindi, trovata la pagina che cercava, si rivolse a uno in particolare:

«Vedi?», disse indicandogli un punto preciso. «Qui, quando Giuda parla di sé, la parte deve scorrere liscia come l’olio, prevedibile come due più due fa quattro, tanto tutti la conoscono la storia. Un classico in cui la gente deve dirsi: ecco la solita menata col predicozzo finale, una sequela di scene trite e ritrite, col pistolotto religioso, la morale, la chiesa e così via. Si deve arrabbiare il pubblico, capito? deve pensare d’aver pagato il biglietto per niente, mandarvi a quel paese insomma. Tutto deve aspettarsi, fuorché quello che verrà dopo. E’ questo il segreto del nostro lavoro. Siamo o no degl’improvvisatori? Perché Giuda è l’uomo di oggi, che tradisce le sue idee e in fondo anche la vita che avrebbe voluto vedere avvitarsi in un certo modo e invece gli va storta, costringendolo ad accettarla così com’è. E’ un idealista Giuda. Venderebbe sua madre per veder realizzato quel sogno con cui s’è trastullato; ed alla fine non trova niente e nessuno con cui realizzarlo. E così si uccide e oltre il maestro, tradisce anche se stesso. E tutto questo mio caro» sempre rivolto al solito ragazzo che l’ascoltava senza fare una piega, «lo devi sentire dentro di te; talmente forte da scivolarti nelle parole quella forza. Nemmeno devi cercarle tanto ti vengono facile, spinte dalla passione che ci metterai dentro. Capito? Tu sai bene com’è finita la storia, per questo ti devi arrabbiare, e sul serio. Giuda mica lo sapeva. Ogni uomo non sa come finisce la sua storia. E allora facciamoglielo capire diamine che ciascuno ce l’ha dentro un po’ di Giuda, anche se non lo sa».

Dopo questa sparata, nessuno aveva voglia di fargli osservazioni. I giovani, a gambe incrociate, guardavano il centro del cerchio. Ancora un po’ di raccoglimento e la rappresentazione avrebbe avuto inizio. Giusto il tempo di dare un’ultima scorsa alla parte. Silenzio completo adesso, solo lo sferragliare distante di Giacomo si sentiva, sfogarsi coi suoi arnesi sul motore, non concedendosi un attimo di tregua. Anche l’aria si era fermata. L’aria di settembre coi rimasugli dell’estate ancora dentro, con parte della sua luce e dei suoi fragorosi colori che ora, invece, si adagiavano quietamente sulle cose, senza più addosso la forza esplosiva di prima. Denso come un tuorlo d’uovo, il sole indugiava in un cielo alto, non avendo alcuna voglia di cadere su quell’orizzonte privo del tripudio incandescente delle serate d’agosto...

Fu forse quel ronzio insistente, la posizione scomoda con quel bozzo ispido di terra sotto la schiena, o altro ancora, a svegliarlo da quella specie di sonno. Da una remota periferia gli s’avvicinava un indistinto rumore, sottile come una fibra di vetro, vibrando per un’ottusa coscienza col suo invisibile diapason. Poi divenne più grande e spesso, sempre più vicino, vicinissimo ora. Una miscela di suoni confusi. Come quando da bambino, accostato l’orecchio alle grandi conchiglie, ci sentiva la voce del mare. Fece fatica a mettere insieme quei rumori frammentati, dargli un senso, ed anche ad aprire gli occhi faceva fatica. Uno straripante sonno otturava ogni poro del corpo; nemmeno riusciva a sollevare il capo. Cosa gl’era successo? Si girò di lato, e vide un pulmino ai bordi di una stradina, qualche centinaio di metri più avanti, grigio, avvolto da polvere e fumo. Con quel suo indefinito colore, si staccava nettamente dal verde degli alberi cresciuti lungo il fianco della collina. Era distante, eppure talmente distinto nei particolari da sembrare trovarsi lì, soltanto a un metro da lui. Tutto questo gli diceva un pensiero balordo in cui ogni cosa appariva senza uno schema definito; come fosse appena uscito da una sbornia tremenda. Lui ch’era astemio. Cosa ci faceva mai in mezzo alla campagna, lungo disteso per terra, in mezzo a una macchia di corbezzoli, come un uccello impigliatosi nelle maglie d’un roccolo?

E intanto scorgeva i ragazzi spuntare dai finestrini, come tanti lombrichi da uno scatolone pieno di buchi. Si sporgevano in fuori con tutto il tronco, quasi cercassero qualcosa; poi d’un tratto erano scesi. Ce n’erano di tutti i tipi; bianchi, neri, biondi, rossi, con collane, orecchini, pircing, tatuaggi e senza, maschi e femmine. Cercavano uno spazio per un picnic forse, o per prepararsi ad una scampagnata, o per trascorrere lì il pomeriggio, o chissà cos’altro avevano in testa. Il posto era ben riparato, fuori dal gran traffico. Si dirigevano adesso verso di lui, di volata, proprio nello spiazzo erboso antistante. Non sapeva davvero cosa fare. Si sentiva imbarazzato all’idea di uscire allo scoperto e dire, ehi ragazzi, ci sono anch’io qui. Non aveva certo niente da nascondere, eppure il disagio se lo sentiva dentro, come di una cosa strana o fuori posto, piombata lì, in quella macchia, da un altro mondo, tanto quella realtà, dei giovani ad una decina di metri da lui, pareva distante dalla sua. Un clandestino entrato in un territorio proibito.

Intanto i ragazzi s’erano messi in cerchio e parlavano animatamente fra loro, poi era sopraggiunto un uomo più anziano, i capelli grigi stretti da un lacciòlo di cuoio, un lungo codino gli scendeva dietro la nuca. Si era messo a parlare, e stranamente, nonostante fosse distante un ventina di metri, il nostro amico sentiva tutto quel che diceva, parola per parola; come fosse lì, a un metro da lui. Così, anche volendolo, non poteva perdersi una frase di quel discorso, né un gesto. Nascosto nell’ombra di rami e foglie e quelli in mezzo al prato, alla luce del sole, si sentiva in colpa, quasi fosse un ladro. Un ladro d’innocue parole certo, son di tutti le parole, ma tale si sentiva. E allora lo smarrimento, il disagio, quella lacerante confusione in testa, s’invilupparono in un pericoloso miscuglio tirandogli i muscoli come corde di violino. Se ne stette così per un pezzo, a pelo ritto, simile a un cane di fronte a un invisibile pericolo.

L’uomo nel frattempo aveva detto a uno dei ragazzi cosa dovesse fare. Quello ascoltava a capo chino, in raccoglimento, e per rilassarsi scuoteva impercettibilmente mani e piedi, come s’accingesse a partire da un momento all’altro per un viaggio immaginario. Proprio quest’ultime parole usò l’uomo col codino. E allora, d’improvviso, si ricordò vagamente di qualcosa, senza riuscire a distinguere cosa fosse quella virgola di luce che gli aveva sfrigolato dentro per un attimo, lasciandogli una gora di fosforo incandescente che però subito s’era spenta. Da quanto tempo dormiva per essere così rincoglionito? E poi dove sono, e che mese è? E giù altre domande e stava quasi per alzarsi, andare dai ragazzi e dire, ehi voi, ero là per caso, vi stavo ascoltando, scusate, quando s’accorse che, se la mente era sveglia, il corpo non aveva nessuna voglia di seguirlo. Aspetta ancora un po’, dài, sembrava dirgli lo stesso baluginìo di un attimo prima, suvvia aspetta e vediamo cosa succede. Ma fu alla parola «Giuda» gridata con forza dall’uomo col codino al ragazzo a fianco che aveva raccolto senza batter ciglio, che il nostro amico decise di non farne più di niente di quell’idea lì. Parlavano di cose troppo serie quelli, per badare a lui. Non era il caso; per adesso almeno. I ragazzi osservavano in silenzio...

Poi il Giuda, il ragazzo dai capelli ammassati e neri, stretti da un cordino attorno alla fronte, si portò in mezzo al cerchio. Il volto segnato da due solchi profondi, d’un bianco spento come di calce viva crepata da un sole a picco, se ne stava immobile ora. Ma quella quiete, trattenuta a lungo mentre l’uomo gli aveva parlato, scomparve in un battibaleno. S’incrinò come un cristallo contro cui aveva sbattuto al termine d’una lunga rincorsa; in mezzo gli spuntò uno strano sorriso, nemmeno più suo. Stonava con quel corpo lungo e nodoso, così mite, all’apparenza, nei gesti di poco fa. L’uomo dai capelli grigi gli disse d’aspettare un momento ancora. Sembrava tenerlo per un’invisibile catena. Un attimo soltanto, ed avrebbe liberato l’ombra che gli scalpitava dentro.

«Domani sera ti toccherà recitare davanti a un pubblico vero, tienti in esercizio con la mente, dev’essere scattante, pronta a rispondere. Dopo aver letto il testo in cui descrivi la tua morte, facendola rivivere così come credi l’abbia vissuta lui, Giuda, mettiti a descrivere quel che ti passa per la mente. Parla! Senza peli sulla lingua, senza riguardi per nessuno. Dacci dentro a tutta forza».

Non se lo fece dire due volte il ragazzo. L’uomo gli aveva tolto il laccio e lui avrebbe potuto finalmente scapicollarsi quanto voleva, fiondandosi per quel campo immenso che gli si spalancava davanti ogni volta che veniva sciolta la briglia alla sua inquieta genialità. Gli piaceva soprattutto la parte del cattivo, poter esibire la prodigiosa libertà di pensieri che gli partivano in tromba quando entrava per bene nel ruolo, allungandosi per la mente come purosangue lanciati ventre a terra, con le parole sopra, attaccate alle criniere. Gli galoppavano così veloci i pensieri, che a volte rischiavano di perdersele le parole. Nel volto però lo s’intuiva l’eco di quegli zoccoli, si percepiva, nella voce, il sussulto di quella corsa scapicollata. Era forse il migliore della compagnia, lui; di sicuro il più sanguigno. Bravissimo comunque nell’improvvisare. Tornò al centro del cerchio, allargò le braccia e cominciò.

Le parole uscivano con solennità da dietro la sua maschera scura, come un attore greco dinanzi a un pubblico che sembrava, adesso, l’immagine stessa dell’umanità. Raccontava loro come si fosse allontanato dal suo maestro e perché avesse deciso di farlo. Aveva tradito le loro attese, lui, promesso alla sua gente che sarebbe diventato il signore di questa terra, per realizzare il sogno suo e di tanti altri giovani come lui: quello di avere finalmente un re in terra di Palestina. E riscattare così il sangue d’un popolo schiavo, le ferite delle secolari umiliazioni, il giogo d’una eterna sottomissione. Una nuova fuga dalla terra di Egitto, per fondare un nuovo impero capace di liberarli dagli odiati romani. Ecco, questo voleva lui; ma, al momento dell’azione, quello non aveva mosso nemmeno un dito. Eran dunque solo parole le sue?

Fu il giorno dopo la sua condanna a morte, mentre portava quelle due travi inchiodate fra loro, che d’un tratto s’accorse del suo corpo; come l’avesse scoperto per la prima volta. Eppure quante volte lo aveva visto! Mentre veniva immerso nelle acque del Giordano, nella controluce di quel giorno, in cima al monte, quando aveva predicato alle folle, nella trasparenza del lino in cui stava avvolto come fosse dentro una nuvola, tant’era bianco. Mai però l’aveva visto così smagrito, quattr’ossa rinsecchite a sostenere quel che gli era rimasto addosso. E ora, la croce sopra le sue spalle, era un niente al confronto di tutto il resto che gli pesava dentro. Una forma purissima il suo corpo, proprio come doveva essere nella mente di Dio alle origini del mondo.

E mi sentii oppresso da quella visione, una specie di colpa. Mi sembrava di portarne mille di croci, mi schiacciavano, e mi sentivo sfibrato come fossi una mela marcia, e allora corsi al tempio e vi scagliai contro i miei trenta denari. Che qualcuno se li riprenda, gridavo. Ho sbagliato, sì ho sbagliato, tutti possiamo sbagliare, che qualcuno fermi questa follia, voi potete farlo, vi prego fermateli, continuavo a ripetere. E invece le porte rimasero chiuse, e dietro credetti di scorgervi il tempo fuggire via, anch’esso terrorizzato dalla mia presenza. Nessuno poteva afferrarlo il tempo che correva portandosi via tutto, come nessuno poteva oscurare la rappresentazione di quel dramma che si concludeva lontano da me. Io l’avevo iniziato e solo io potevo fermarlo; ma non potevo farci niente ormai. Allora tutto sembrò allontanarsi da me, come fossi un appestato. Come le monete che rotolavano sulle scale, scintillando a tratti, portandosi via col loro argento le meraviglie e le ricchezze che avevo creduto di scorgervi dentro.

Allora tornai indietro e vidi Pietro ai piedi di un muro. Ci stava appoggiato contro e piangeva; ma io dentro non avevo nulla che potesse uscirmi fuori, ed attenuare l’angoscia che mi soffocava. Nemmeno il sollievo delle lacrime mi restava. E’ terribile andare in cerca del proprio cuore e trovarlo vuoto! Vuoto ed arido come una giara seccatasi ai venti del deserto. Poi il cielo si oscurò, il sole scomparve, e la terra cominciò a vibrare e quei sussulti squassarono non solo ogni angolo di mondo, ma ogni cellula del mio corpo, ed io ne ero atterrito. Sembrava che nessuno fosse rimasto in piedi intorno a me. Allora corsi via senza sapere dove. M’accorsi che ero rimasto solo, io e la mia ombra, appiccicata ai piedi e talmente rimpicciolita, che nemmeno lei sembrava volesse farsi vedere da nessuno.

Poi scese la sera. Cercavo di convincermi che un attimo di follia non si dovesse pagare a quel modo, e non era giusto che ad esso non vi fosse rimedio. Parole aride come le mie labbra. Mi misi allora in cerca di qualcuno cui dirle queste cose, ma ero stanco, dentro e fuori di me; stanco di tutto. Alla fine caddi, non per stanchezza, ma per qualcosa che m’era uscito fuori come una pietra schizzata dal ventre di un vulcano. E mi vedevo di nuovo davanti alle porte del tempio e chiedevo di entrare, ma orribili maschere spuntavano oltre l’orlo delle mura, guardandomi da quei buchi neri. Sembrava che tutto il mondo stesse a spiarmi, per inorridire all’enormità della mia colpa. Non mi restava altro che trovare un buio ancor più profondo, in cui nascondermi per non uscire mai più.

Cosa c’è di più buio della morte, se non la morte di questo pensare che già mi uccide? mi chiesi. Ma prima di lasciarmi cadere nel vuoto, avrei voluto gridare, a coloro che non vedevo ma che di sicuro erano lì intorno a guardarmi dalle loro orbite di zolfo incandescente ed anche agli abitanti di Gerusalemme, un mare di fiammelle le tremule luci della città, che se il baratro verso cui sarei precipitato poteva sembrare infinito, ci sarei stato pur sempre io, Giuda l’Iscariota, a far da sponda alla loro disperazione. Sono io quel fondo! gridavo, e se vorrete risalire dalle vostre cadute, è su di me che dovrete poggiare i vostri piedi, su me Giuda! E prima che tutto scomparisse, proprio in quell’attimo ebbi una visione.

E mi vedevo salire in alto, verso Gerusalemme, e sui monti, e sul mare. Mi spandevo nella vastità del cielo come il calore nell’aria, e giunto in cima scorsi una porta fatta d’oro e rubini. Ed era il paradiso. Una tremula raggiera di luce partiva dal centro di essa, un punto incandescente in cui si dissolvevano le piccole ombre degli uomini e le altre larve gelatinose sospese nel vuoto che si stavano dirigendo verso di esso. Tornavano in quell’ombelico di cielo, tondo e intollerabile per gli occhi tant’era intenso, come dentro un buco di fuoco che risucchia ogni cosa. Lì sparivano e tutto diventava pace e luce. E mentre anch’io risalivo lungo quel canale di luce azzurrina, una voce mi accompagnava dicendomi che una volta c’erano un uomo e una donna, ed ebbero un figlio e lo chiamarono Giuda e quel bimbo avrebbe adempiuto le parole pronunciate da Jahvè mentre segnava la fronte di Caino per salvarlo dalle vendette degli uomini. Avrebbe dato origine a tutti i miti dei pagani, e avrebbe permesso al Messia di compiere la sua missione chiedendogli con un bacio il pegno della sua vita. Sarebbe poi andato errando per il mondo, di popolo in popolo, a raccontare ad ogni uomo la storia più bella, la vera storia dell’Amore sceso in terra per realizzare i sogni degli uomini. I sogni di Caino, di Edipo, di Giuda, dell’Ebreo errante... E anche che ogni essere umano deve attraversarla quell’esistenza in cui gli tocca tradire la sua natura, andarle contro fino a negarsi alla vita, per capire cosa ci sia dietro l’altra faccia del dolore, e che s’impara assai più in una vita di lotta e di sofferenze, che in una che scorre via piatta come uno stagno, questo diceva la voce.

Il ragazzo s’era fermato a riprendere fiato, dopo quella corsa prodigiosa in cui a volte leggeva ed altre andava di testa sua, dimenando il copione per l’aria come fosse una frusta con cui stuzzicare un pensiero spesso indolente. Poi tirò fuori un lungo sospiro, fece due passi in avanti ed emise un uff... prolungato. Pareva avesse esaurito tutta la carica. Le braccia ciondoloni lungo il corpo, lo sguardo fisso per terra, sembrava non avesse proprio null’altro da aggiungere.

Anche il nostro amico aveva esaurito, e da un pezzo, la voglia di poco prima di uscire allo scoperto, e dire a tutti che c’era anche lui. Troppo interessanti le cose udite, troppo frastornata la testa in cui ronzavano mille ipotesi slegate fra loro e francamente inverosimili. Poi tornò improvvisa la questione di prima, di dove fosse e che giorno ed altro ancora gli rimestava per il capo. E di botto si sentì confuso e spaventato della sua stessa confusione. Un pensiero trafelato gli annaspava per un cervello andato in pappa, come una quaglia impelagatasi nella palude cercava di scollinare oltre il bordo d’una torpida coscienza. Una ridda di pensieri inviava segnali appena percepibili in mezzo a quel marasma entro cui però spuntava un’ombra indefinita. Scossa dalle parole del ragazzo, era venuta su come dal nulla, e un improvviso barlume gli era zigzagato per il cervello. Per un attimo una tremula lucina vagolò alla ricerca d’un gancio cui attaccarsi, prima che un soffio cattivo potesse spengerla del tutto...

«Sì, tutto vero, perfino bello quello che ci hai raccontato, e bene per giunta. Detto così sembreresti tu, Giuda, la vittima; ma hai pur sempre tradito mio figlio. Ed è questo quel che conta alla fin fine». La voce dell’uomo col codino sbucò all’improvviso da dietro il gruppo che all’unisono s’era girato verso di lui, quasi una mano invisibile gli avesse piegato il capo in quella direzione. A quel punto giunse da lontano la voce di Giacomo. Dimenava le braccia dal bordo del viottolo mentre parlava.

«Dottò, ho trovato un passaggio per Spoleto. Mi serve un pezzo di ricambio, vado e torno». Un altro camioncino gli stava accanto lungo il ciglio della stradina, il motore scosso da una tormentata fibrillazione, forse la marmitta bucata.

«Vabbene vai» disse l’uomo. Giacomo montò. Si sentì la portiera sbattere, il motore salire su di giri, per ripartire trascinandosi dietro una scia polverosa. Man mano che spariva dietro gli alberi divenne sempre più rada, e anche il rumore si fece più indistinto. Poi, tutta quella estraneità di rumori e voci diverse, scomparve dietro la collina ed ogni cosa tornò come prima.

Il ragazzo intanto s’era messo a guardare i suoi compagni, fissandoli senza dire una parola. Li passava in rassegna ad uno ad uno, lentamente, come un cobra che incanta la sua preda. Fermandosi ogni tanto davanti a ciascuno, gli parlava sottovoce. Di certo diceva parole sferzanti come scudisciate, a giudicare dal sibilo trattenuto nella voce, a malapena percepibili da chi gli stava accanto.

Il nostro amico cercava di non perdersi neppure una parola del Giuda; ma non è che facesse poi una gran fatica a stargli dietro. Accadeva infatti, con sua grande meraviglia, di ritrovarsi una sconosciuta capacità di percezione. Poteva regolarlo a piacere l’udito, come fosse la manopola d’un ricevitore. Quasi si trovasse proprio nel mezzo di quei ragazzi seduti in cerchio, ed invece erano distanti diverse decine di metri. Visti da dove si trovava, apparivano come sagome di giocattoli di celluloide galleggianti nell’aria acquosa di quel tardo pomeriggio. Scorgeva nitidamente i minimi particolari di quel gioco di curve e linee disegnati da gambe e braccia, riusciva a distinguere gl’impercettibili movimenti delle loro labbra, cogliendone ogni segreto bisbiglìo. Ed ora, attratto dalla voce graffiante del Giuda, si sforzava di capire il senso profondo di quel che aveva detto il ragazzo dal fisico agile e nodoso...

Si girava attorno inquieto il Giuda, come un mestolo in un gran calderone che gira l’impasto di sguardi e bocche che dal bordo di quel perimetro lo fissavano in gran silenzio. Poi si fermò, e rivolto all’uomo dai capelli grigi seduto fuori dal cerchio, il mento poggiato sulle braccia strette attorno alle ginocchia e che finora aveva osservato la scena senza intervenire:

«Che significa dirmi che ho tradito tuo figlio?», gli gridò Giuda. Quasi quello fosse il dio difeso da un mare di nubi e da una smisurata distanza, ma con cui adesso poteva finalmente sfogarsi e parlargli da pari a pari. «Tu il gran dio, che da sempre se ne sta fuori dalla mischia, fuori dal girone di questi dannati qua intorno che poveracci sgomitano, incalzano, cercano spazio, cercano di farsi sentire, e tu nemmeno li ascolti. Si contagiano pure dei loro umori, odori, malattie, odi e vendette, che tutto questo spicinìo sembra bastargli. E sembrano pure contenti, ogni tanto, mentre rimani tranquillo e beato, in disparte, a guardarli. Ne hai di spazio tu, puoi startene qui o andartene altrove, fare quello che vuoi insomma. Che tanto sei il capo, sai tutto tu, sai quando dovremo alzarci, quando arrivare, partire, quando morire. Ebbene sapevi pure che volevo tradirlo, o no? E cosa hai fatto, dimmi. Per tre anni sono vissuto accanto a tuo figlio, ed ho ancora davanti agli occhi lo spettacolo straordinario dei suoi miracoli, uno più magico dell’altro, come ad esempio, tanto per dirne uno, quello dell’amico Lazzaro. Davvero una cosa mai vista prima. Ma dico, non poteva mostrare ai Giudei quello di cui era capace, o, meglio ancora, non poteva esercitare quel potere sui Romani? Se l’avesse fatto poteva liberarci, sì proprio così dico, liberarci tutti. Scrollarci di dosso consoli, proconsoli, prefetti, sacerdoti, e la cialtronesca masnada di parassiti che ci succhiava il sangue. Poteva diventare lui il re, poteva farlo in un battibaleno, così...» e dette un gran schiocco con le dita, e guardava dritto negli occhi l’uomo col codino dai capelli grigi, mentre faceva quel gesto lì. Ma quello non batté ciglio, restandosene immobile a braccia conserte, avvoltolato nei suoi jeans sdruciti, a bocca chiusa, rimandandogli uno sguardo altrettanto dritto e deciso. Stettero per un bel pezzo a incrociarsi a quel modo. Poi il ragazzo si rivolse agli altri.

«E invece no; non contavamo un bel niente per lui. Lo capite vero? proprio nulla valevamo noi! Per tuo figlio solo tu eri importante. E’ di fronte a te che gl’interessava far bella figura. Semplici comparse eravamo, e basta; come questi poveri diavoli seduti qua intorno; tutti zitti e buoni come pecore...». Un lieve brusio seguì quell’ultime parole, e crebbe appena cominciò a fare il giro indicando i compagni ad uno ad uno, e divenne un sibilante mugugno quando gli puntò il dito contro ripetendo di continuo: pecore, pecore. Un uh... prolungato cercava di coprire la sua voce; ma lui nemmeno ci badò. Ne aveva di voce di riserva, e tanta. Alzatala allora d’un tono, riprese a parlare più forte di prima.

«Sentili come belano questi pecoroni qua sotto appena qualcuno li mena fuori dello stazzo! E io insisto a dire che invece di toglier di mezzo quei farabutti che sfruttavano la buona fede del popolo, invece di gettare a mare i Romani, quello ha pensato bene che la cosa migliore da farsi era lasciarsi ammazzare. Docile come un capretto, docile come questi qui che sono digiuni da un pezzo e nemmeno protestano. Per poi abbandonarci; offesi e perseguitati più di prima. Certo lo posso solo immaginare questo, perché io non c’ero più; ma di sicuro andò a quel modo. Il gran figlio di Dio per me è stato un gran vigliacco, ecco cos’è stato. E’ lui il traditore, non certo io!» E si passò il dorso della mano sulla bocca per nettarsi di qualcos’altro, e non solo della saliva che gli s’era aggrumata in un sottile filo bianco attorno alle labbra.

Da lontano saliva un inquieto gracidare di grilli. Il sole stava calando e pencolava sull’orizzonte come un’albicocca sfatta, ancora poco e sarebbe precipitato dietro la fila degli alberi in fondo alla radura. Anche l’estate era agli sgoccioli, presto sarebbe spuntato l’autunno. Dal bosco alle pendici della collina sortivano ad intervalli gli ultimi richiami del giorno che ancora lo animava. Un altro mondo, quello della notte, già stava in agguato, pronto a prenderne il posto. In quella pausa uno ragazzo del cerchio all’improvviso si alzò.

«Mi sembra che tu stia esagerando; non credi? Andare a ruota libera va bene, ma così sei fuori tema. Il problema è un altro amico mio. E’ il destino di Giuda che dovresti farci capire meglio. Davvero non riesci ad andarci in quella direzione, e giri a vuoto, come se qualche rotella ti si fosse inceppata proprio qui» e si batté più volte le nocche della mano sul capo. Quel toc ripetuto, risuonò cupo in mezzo al cerchio, come il rame d’un gong fra un atto e il successivo.

«Senti amico, qui il Giuda sono io e non voi che non avete la più pallida idea di quale pasta sia fatto. Se lo volete ipocrita e bacchettone è affar vostro; ma lui è così e così rimane. Lo saprò ben io come son fatto, no?», disse con orgoglio, come se quel personaggio gli fosse entrato davvero nelle viscere, per riempirlo di forti pensieri e parole dissacranti anche per lui, così religioso in fondo in fondo. Quasi qualcuno gliele suggerisse di volta in volta quelle parole e quale direzione dovessero prendere.

«Quel tradimento però qualcosa t’ha fruttato credo...» se ne uscì l’uomo dai capelli grigi. Scandiva le parole ad una ad una, quasi fosse moneta da poter contare. «Perlomeno trenta denari, e credo quell’argento te lo sia preso. O sbaglio forse?»

«No, amico, quel maledetto denaro l’ho ributtato nel tempio e tu questo lo sai bene. Nessuno ha mai comprato Giuda!»

«Vuoi forse dire che il denaro non significava niente per te? Tu che fra i dodici amavi tanto gestire la cassa comune, amministrare il denaro. O non ti piaceva?»

«Io non ho niente contro il denaro. E’ un mezzo come un altro per raggiungere un certo fine. Cos’altro dovrebbe essere secondo te?»

Ci fu un momento di stallo. Nessuno dei due si decideva adesso a prendere la parola. Se ne stavano di fronte, a breve distanza, simili a due spadaccini tenuti a fatica dagli attacchi tirati come corde, pronti a darsi la stoccata decisiva: quella del punto vincente. E l’uno aspettava la mossa dell’altro, per prenderlo in contropiede, in quel gioco fra studio e attesa.

Il nostro amico, tutto preso da quello scambio di battute, si sforzava di cogliere quel che, un altro sé, gli stava adesso suggerendo e, come quei due davanti, sembrava smanioso di uscire per dire la sua, quasi fosse anche lui di carne ed ossa. Un impercettibile sussurrìo gli attraversava la mente, incomprensibile però. E allora aspettava, per capire meglio. Anche i ragazzi in fondo al prato aspettavano.

Intanto il vento, in quell’ora del tramonto, s’infilava a raffiche fra le cime degli alberi. Un soffio più forte degli altri s’era portato via alcune foglie. Per un po’ rimasero sospese in aria luccicando come frammenti di carta argentata a sprazzi, poi vennero spazzate via. Le guardava estasiato staccarsi dai rami, allontanarsi oscillando come barchette su d’un mare in tempesta. Per un attimo immaginò se stesso sul punto d’allontanarsi allo stesso modo; sentiva che poteva capitargli da un momento all’altro, e invece avrebbe voluto trovarsi in mezzo a quei ragazzi, dir loro di non badare a lui e, quasi non fosse successo nulla, continuassero la recita...

Una ragazza nel frattempo s’era alzata. Accostatasi al nostro Giuda, gli aveva messo le braccia attorno al collo. Scintillavano al sole i cerchi d’oro appesi alle orecchie e pure la rosa, tatuata sul braccio, pareva d’un carminio più denso delle labbra semichiuse, e il corpo sotto denso e flessuoso, tutte le sue cose sistemate al posto giusto, mentre se lo guardava fisso, con quei suoi occhi furbi e chiari.

«Perché poi ti sei ucciso, che bisogno c’era di farlo, dimmi; non bastava non essere d’accordo, dire di no ed andarsene?» Aveva davvero un bel volto mentre gli parlava a quel modo, con sopra uno smagato sorriso, di chi sa che con quello poteva farci ogni cosa. E poi si capiva, dal modo in cui gli aveva appoggiato le mani ai fianchi, che fra i due c’era ben altra intimità del gesto appena fatto. «Come hai potuto odiare i tuoi giorni, pensare di negarti allo splendido sole di stamattina, per esempio, al tepore di questo tramonto, alle stelle della notte che presto verrà, e negarti a me, alle mie promesse. E non li vedi i cari visetti delle persone qui attorno, nemmeno loro ti dicono niente? e io allora?» e gli si accostò e lo strinse a sé.

«Suvvia, dagli una strizzatina giusta, che così si calma un po’», fece lo stesso ragazzo di prima. «Stai sicuro che poi neanche quella gli basta; ci vuole ben altro per il nostro Giuda...».

«Non li vedi come sono fantastici questi tuoi amici, e che paroline gentili hanno per te», disse rivolta con un mezzo sorriso a colui che aveva parlato. Poi si fece seria. «Io la capisco l’amarezza del tuo cuore mentre scoprivi che lui rifiutava di fare della terra il suo regno, e di voi i sudditi d’un mondo migliore. Ho saputo poi di quel tuo bacio disperato e inutile.. Perché hai permesso alla tua delusione di distruggere la vita che amavi? Perché l’hai tradita togliendole quel tanto che aveva da offrirti?»

«Già, ben detto. Perché l’hai fatto» le venne in aiuto sempre lo stesso ragazzo di prima, quello della strizzatina. S’era adesso alzato, andando incontro ai due con quel suo passo di sfida, più che dinoccolato. S’era messo di fronte al Giuda come se ce l’avesse con lui in particolare e lo fissava a muso duro. «Oltre che per la morte del suo maestro, lui va condannato anche per il suo suicidio. Non dimentichiamolo questo» disse agli altri. «E poi ha il coraggio di rivolgersi a noi come un’anima bella, come se non avesse fatto niente di male. Senza dire del resto che n’è seguito, e che ben conosciamo!».

Ma il Giuda nemmeno gli badava. A lui stava a cuore soprattutto la ragazza; unicamente a lei pensava in quel passaggio decisivo.

«Allora è della mia vita che ti preoccupi?», chiese come niente fosse; ma dentro aveva una gran paura di farsi del male alla sua risposta. «E’ a me dunque che pensi?» insistette. Gli stava terribilmente a cuore quella domanda, sapeva di giocarsi tutto con essa; ben più della sua reputazione d’improvvisatore. «Non m’accusi di aver tradito il mio maestro e basta? Se fosse così, allora vuol dire che c’è dell’altro di cui debbo render conto, altro è il peso che mi porto dentro».

Passava e ripassava lo sguardo su di lei lasciandoci sopra tutta la sua ansia, e ogni tanto lo gettava sui compagni, quasi avessero qualcosa di segreto da dirgli, quasi ciascuno nascondesse la piccola parte d’una grande verità, un minuzzolo da aggiungere a un mosaico incompleto, e non soltanto alla storia di Giuda il traditore.

«Mi sono sempre chiesto dove sia andata a finire quella mia vita lasciata a rinsecchirsi su un albero, lì lì per cadere come un frutto marcio, evitato poi da tutti. Mi par di vederla quella mia vita ciondolare come un sacco vuoto su un cielo basso come questo, scorrere appena per un attimo negli occhi dei passanti, uno soltanto però, come la scia d’una cometa che s’illumina un istante e subito scompare. Cosa sarà di essa se niente è rimasto di me?» e guardava la ragazza mentre diceva quelle parole che però ne comprendeva altre, impossibili da pronunciare, lì, davanti a tutti. «Da vivo non potevo certo vederla io, ci stavo dentro alla vita. E chissà poi perché quando ci si ritrova dentro a qualcosa, ci si abitua e non la si vede proprio, tanto conta poco. Anzi nemmeno si pensa d’averla la vita. E invece volevo divorarla alla mia età, succhiarne la polpa con la voglia che mi ritrovavo addosso, consumarla fino all’ultima goccia. Ancor più di quel che mi spettava. Sì, lo confesso, ho perfino rubato, in un mondo pieno d’imbroglioni e millantatori, usato l’inganno, l’astuzia, in quel gregge d’incapaci che gli correva dietro; ma lo facevo con uno scopo preciso. Perché valevo qualcosa io, accidenti se valevo. Ero Giuda io!» E quell’io e quel Giuda gridati forte, risuonarono nell’aria azzurrina di quel tardo pomeriggio. C’era dentro la voce qualcosa di nobile che voleva scuoterla quell’aria, assieme alle coscienze, farle riflettere meglio. Come se il suo fosse un ammonimento gettato in mezzo a quel cerchio in cui ciascuno si dibatteva con se stesso. Così tutti non avrebbero potuto fare a meno d’interrogarsi assieme a lui, e darsi una risposta.

Come altrettanto immobile non avrebbe voluto rimanere il nostro amico. Per stare al gioco cui s’era costretto fin dall’inizio, perseverava nel suo silenzio e nel ruolo d’invisibile spettatore. Osservava la scena con i ragazzi e il Giuda nel mezzo, quasi fosse al di qua d’un impalpabile sipario. Quasi si trovasse comodamente seduto a teatro, col cuore in subbuglio davanti a un dramma in cui dentro c’era anche lui; un bozzolo di sentimenti così vividi, e da cui si sentiva avvolto. Eppure sembravano non toccarlo nel profondo, non lo trascinavano in quelle zone d’ombra dove la passione, come quella del ragazzo lì davanti, sta in agguato pronta ad afferrarti; una pericolosa serpaia capace di far suoi quei sentimenti, appena s’avvicinano. Non provava cioè gioia o dolore per quel che vedeva ed ascoltava, non quel brivido che solitamente gli faceva tintinnare il corpo e tutti gli annessi, quasi si trattasse d’una vetrinetta piena di chincaglierie, appena uno gli passava accanto.

Circondato da una luce rarefatta, i colori accesi ma stranamente senza ombre, i suoni giungevano indiretti, come filtrati. E mentre loro parlavano, strane immagini si assemblavano in testa, dai contenuti diversi da quelli cui era abituato, e francamente inverosimili. E così, d’un tratto, sa – come lo sa? – che non sarebbero venute fuori se lui non fosse stato lì. Ma dove si trovava, cosa ci faceva in quel posto? La mente si dannava su quell’inciampo erto come un pontaio che arrivava fino a un certo punto, ma non riusciva ad andare avanti di quel tanto sufficiente per affacciarsi oltre a quel bordo. Ad ogni sforzo scivolava indietro e tutto svaniva di nuovo, quasi fosse appena uscito da un brutto sogno.

Quando poi quella ragazza s’era alzata, al solo sentire il suo nome, Maria, aveva provato un violento scossone e qualcosa gli era precipitato dentro. Perché, in quella specie di polverone, credette di rivederla per davvero, proprio lì, in carne ed ossa, la sua donna, davanti a sé. Ecco finalmente un ricordo, il primo, che cadeva lucido in mezzo alla ghiandola del cervello, d’un bianco elettrico, come folgore. Quei capelli della ragazza lunghi fino in vita, i suoi gesti delicati e irresistibili, eran gli stessi di lei! Come aveva fatto a non accorgersene prima? E via di seguito altre immagini dietro, una cascata inverosimile, tante da esserne travolto, ed altre ancora, lo attraversavano come uno stormo di colombacci che uno alla volta rientra in piccionaia, ognuna gli ritornava in testa, per ricollocarsi al proprio posto. E adesso rivedeva tutto, fin da quand’era partito dal suo paese per quel lungo viaggio verso il Sud e poi all’arrivo, l’improvvisa apparizione di quella Madonna sul baldacchino, tentennante sulle spalle degli uomini e dietro quel nero verminaio, e tutta la città che s’era fermata quel giorno. Proprio non se l’immaginava bardata a quel modo, lui protestante; non certo con addosso quella santità barocca, e la processione, e le invocazioni, e i pianti con quel gridare convulso, quello sbracciarsi, e poi i baci, le lacrime e tutto il seguito.

Fu poco dopo che se la ritrovò davanti la ragazza, dentro la chiesa dov’era stata portata la madonna, in quell’afoso pomeriggio d’estate. Un’apparizione ritagliata di netto nella luce polverosa al centro della navata, con l’incenso che le saliva da dietro, i vetri colorati dell’abside sullo sfondo, mentre cercava di mettere a fuoco l’obbiettivo della sua Nokia, comprata da poco. Gli piacevano le chiese, specie gli altari e le altre cose dentro, per quello ci era andato. Andava sempre a vederle quando poteva farlo, in ogni luogo in cui capitava. Quell’aria solenne e senza tempo, aveva un fascino che non ritrovava nelle sue chiese asciutte e fredde. Ma quella ragazza sbucata dal nulla, o dalla fervida mente della provvidenza come se ci fosse entrato per davvero nel tabernacolo con l’arca gli angeli il luogo santissimo e tutto il resto, non ne aveva molta di santità addosso, pigiata com’era in quel suo corpicino come in un vestito troppo stretto, che davvero non c’è limite alla divina provvidenza gli venne da pensare. E giusto in chiesa. Quando poi per caso se la ritrovò accanto, senza nemmeno accorgersene le sorrise; e lei fece lo stesso, e guarda caso si chiamava Maria, come la cattedrale dove si trovava, come la madonna rimessa sull’altare, come il paradiso in cui gli sembrò di ritornare, quella sera in cui uscì con lei. Un paradiso dove, per la prima volta, ci stavano bene tutti: cattolici e protestanti, cristiani e pagani, atei e credenti.

E poi si erano incontrati una seconda volta e si erano conosciuti meglio, ma ancora non abbastanza, e poi una terza, per studiarsi più a fondo stavolta e così via di seguito, fino a quell’ultima volta, quel viaggio in Sicilia, la prima sera, appena arrivati, non un’anima viva lungo la battigia, solo acqua sale e scogli, e loro due, al centro dell’universo, e sopra uno spolverio di stelle. Fecero anche l’amore quella notte, e lui ci s’immerse in quel paradiso, tra santi e Marie, con lei nel mezzo, una specie di battesimo, come quelli in chiesa sua, e dietro il coro, degli angeli forse, stasera. E le sentì davvero le voci quella notte, e invece erano le onde che si frangevano sulla battigia, e lui non voleva più uscire dall’acqua, dal paradiso, dal ventre di lei soprattutto: un mare caldo e schiumoso. Anche la terra quella notte pareva essersi sollevata apposta per lui, un gigantesco Polifemo sembrava, con quella luna piena per occhio conficcato in mezzo a una fronte di scuro cobalto. Ed erano invece monti quelli che l’osservavano dall’alto dei loro crinali sorridendo con quei denti intervallati in cielo. E allora decisero di mettersi insieme e per sempre. Sarebbe tornato ancora, ma per restarci di più stavolta, poi sarebbero risaliti al Nord, si sarebbero sposati.

Ecco perché si trovava lì, finalmente l’aveva capito! Era in viaggio per andare dalla sua donna accidenti! Ecco finalmente un senso giusto da dare alla vita; giusto e inappellabile. Altroché Giuda che la capiva ma a modo suo, e non fino in fondo. Solo una parte ne vedeva, perché lui non ce l’aveva una donna; ecco perché era sempre così scontroso. Mentre lui, invece, l’aveva afferrato quel segreto, ci stava dentro alla vita, eccome. Da quando aveva conosciuto Maria ogni cellula del suo corpo ne aveva afferrato il significato, tenero e non ostile, come gli avevano sempre raccontato in casa. Erano di un verso elicoidale le sue cellule, avevano ali di farfalla, si avvitavano verso l’alto, ben oltre il tetto del cielo, e sarebbe schizzato ben oltre di esso, con quel suo DNA impazzito. Se l’era improntato nei geni il senso scapestrato della vita lui, e Maria le aveva lucidate per benino, quelle stupende ellissi da un pezzo mezz’addormentate, fatto capire lei come dovevano funzionare. E allora, se c’era uno che poteva interpretare il dolore di quando la vita ti scorre davanti senza lasciar traccia, nemmeno un suono ché questo sarebbe stata la sua esistenza senza di lei, un pentagramma senza note, se insomma c’era uno che da quel primo incontro aveva assaporato tutto, fino all’ultima briciola, senza buttar via niente proprio niente, ebbene quello era lui. Spiccicato.

Nessuno poteva capirlo allo stesso modo, e fremeva dalla voglia di gridare che proprio così stavan le cose. Eccome se avrebbe voluto farlo! Ci sarebbe riuscito meglio di quell’attore che si dimenava là in mezzo fingendo d’aver perso una cosa di cui nessuno, meglio di lui, poteva coglierne il senso. Di questo era certo. Non riusciva a render bene l’idea, quel Giuda lì; le sue parole non erano sufficienti, niente era sufficiente abbastanza. Ci si sarebbe fiondato lui con tutto il cuore, frattaglie e annessi vari, là in mezzo, a battere mani e piedi, uno strepito infernale, per scuotere quei ragazzi dal loro torpore, perché non si poteva restare impassibili davanti a così tanto... E invece l’aria restava testardamente ferma, niente si muoveva nel silenzio generale seguito alla parole del Giuda. E lui da dietro a quella specie di cristallo fremeva, costretto com’era a tacere, senza riuscire a provocare l’impercettibile clic capace di far perlomeno girare il capo a qualcuno. Niente. Tutto restava immutabile e resisteva a quell’inspiegabile distanza...

«Cosa vuoi allora da me?» se n’uscì a un tratto l’uomo dai capelli grigi. Aveva la voce solenne d’un giudice, adesso, o di un dio immaginario «Dovrei forse premiarti per aver sbagliato tutto, fare un’eccezione per te?». Non la finiva mai di provocarlo il suo amato Giuda, quella sua creatura che non si dava mai per inteso; sempre la riposta pronta. Infatti, ci pensò su un poco, e subito ripartì di slancio.

«E tu saresti dunque quello che si prende cura degli uccelli del cielo, dei gigli del campo e di tutte le altre creature della terra. Il cosiddetto dio dell’amore. Che si preoccupa perfino di questi sciamannati qua sotto, pensa un po’...» e non poté fare a meno di sorridere mentre lo diceva. E gli altri giù, fischi e imprecazioni. «E li chiami pure figli. Già dimenticavo, son tutti tuoi; anch’io allora, se tanto mi da tanto, lo sono. No? L’hai plasmata tu questa vita di noi uomini, e poi ci hai soffiato pure sopra, convinto. O non è così? Tu sei colui che m’ha drizzato la schiena per farmi camminare su questi piedi. Mi basta girare il capo ed ecco che posso vedere le tante cose intorno, come i bei visi dei miei fratelli qua sotto. Son tutta opera tua. Ma se poi qualcosa non va, e la maggior parte delle volte non va, credimi, allora sono affari nostri, e tu le chiami prove. Le nostre arrabbiature, disgrazie, sconfitte, i torti della vita insomma, son semplicemente prove! Ma per arrivare dove, per capire cosa? Molte volte mi chiedo se non sarebbe stato meglio non vedere un bel niente, e tornarcene a muso all’ingiù, come le bestie. Sì sarebbe stato molto meglio credo...» e a quell’idea si fermò. Gli sembrava importante rimuginarsela per benino, e cercava le parole giuste; ma non gli venivano. Al loro posto gli saliva invece una gran rabbia, una rabbia immotivata a bloccarlo. E allora, come frastornato, si ripassò l’uomo davanti che sembrava non avesse alcuna voglia di rispondergli e che, a sua volta, lo guardava senza fare una piega.

«Sai cosa ti dico, io figlio tuo?» gli fece allora, visto che quello insisteva a tacere. «Ho sbagliato, va bene? Eccome se ho sbagliato e tanto pure. Ti sta bene questa confessione? a te che ami tanto le confessioni... Sappi però che sono stufo d’essere costretto a voltarmi sempre indietro, sbattere il muso contro la solita storia, la realtà d’un Giuda dannato, inossidabile come una statua di bronzo. La mia figura d’eterno traditore. E Giuda qua e Giuda là, e porco qua e porco là. Basta! Voglio guardare avanti io, avere una strada nuova da percorrere, per una volta ancora... Una seconda almeno, capito? Ecco cos’è che mi rode. Ho sbagliato, d’accordo. Ma quel ch’è fatto è fatto; tutti possiamo sbagliare. Però, non poterci rimediare ai miei errori, ebbene questo proprio non mi va giù! Lo capisci, perfettissimo d’un dio, che la rivoglio indietro la mia vita e tutta per me stavolta? Un’altra possibilità me la devi pur dare. Altrimenti che perfezione è la tua...», e tirato su col naso, si ripassò una seconda volta la manica della camicia sulla bocca. Un gesto secco, a render più nette la parole.

«E no mio caro, sappi che c’è un premio eterno per chi fa qualcosa di buono della sua vita, come c’è anche un’eterna punizione per chi la offende. Così sta scritto!» ribatté secco l’uomo.

«Ah è così? e tu saresti il Dio dell’amore. Te lo dico io chi sei: un falso Dio! Perché se mi spalanchi le porte dell’inferno sei tu che mi uccidi, ma se mi togli per sempre la vita che mi hai dato, sei allora tu a tradirmi. Eh no, di qui non si scappa! Rivesti i fiori di abiti ogni volta diversi, i tramonti di spennellate dai colori ineguagliabili lasciandoci sopra un ché d’indefinibile, quasi ci avessi scritto qualcosa che gli occhi non vedono e la mente non sa ripetere. Tu così generoso con questi gelsi tempestati di bianco», ed indicava gli alberi e le altre piante sparse un po’ dappertutto, «tu che hai riguardo per dei banali cardi, per l’insulse formiche, le petulanti cicale, perfino per le serpi in mezzo a quei cespugli hai riguardo, e pure tutte l’altre creature che fra qualche mese magari non ci saranno più. Ma a noi uomini ci pensi? Dove saremo noi quando loro, fra un anno, torneranno ad essere gelsi e cardi e formiche e cicale e serpi, e così per mille altre volte ancora, all’infinito? Ma a me dimmi, a me che son Giuda, non la vuoi ridare la vita, vero? Sei un dio avaro e spietato, ecco cosa sei!». Ed allungò il braccio, le dita della mano divaricate e per un po’ le tenne così, poi, di botto le richiuse. «In me hai ficcato un’anima piena di voglie, di fantasie, di ideali; ma vedi come una vita non basti a realizzare il niente che tengo stretto in questo pugno». Si diresse quindi verso l’uomo seduto fuori del cerchio col braccio in avanti, sempre a pugno chiuso e lentamente riaprì la mano, mostrandogli un bianco palmo. «Una vita non basta per realizzare quel che c’è dentro e che nemmeno vedi. Noi uomini moriamo col sapore della vita ancora addosso, e tu ci precludi il futuro, ci uccidi la speranza!», disse con forza.

«Proprio tu parli, tu che l’hai gettata via la vita, ed ora hai anche la faccia tosta di chiedermene un’altra. Tu Giuda il suicida!». Sembrava arrabbiato adesso l’uomo col codino. Lo dimenava nell’aria mentre diceva queste cose con voce più sonora del solito.

«E’ stato un attimo di disperazione il mio. Solo questo è stato! Non lo capisci? Sapevi bene cosa c’era dentro di me. Tu sei dio!».

Era vero, aveva ragione lui diamine! Non è giusto che sia un attimo, un attimo soltanto a determinare il destino di un uomo, pensava il nostro amico. E di fronte al braccio teso di Giuda, s’era all’improvviso ricordato del quadro ricevuto da suo padre, quello appeso dietro la scrivania: la parabola del seminatore. Ogni volta lo aveva colpito, quel braccio aperto allo stesso modo, i semi gettati attorno, a migliaia. E chissà poi cosa sarebbero diventati, se grano, zizzania, o forse niente. Era il destino di ciascun uomo quello! Solo adesso lo capiva, e lucidamente.

Perché da quegl’impercepibili semi sarebbe venuta fuori una distesa di frumento, come pure, da una microscopica cellula, un uomo. E quella sproporzione lo sconvolgeva; gli pareva un inspiegabile mistero quello. E anche lui ne faceva parte. E il particolare del gesto del seminatore gli tornava in mente, e anche quello dei suoi, la sera prima di partire, così minuziosi nell’ordine assillante con cui aveva rimesso a posto la scrivania, allineato i libri, disposto le penne una accanto all’altra, e poi le pietre, e anche i fossili, con insolita pignoleria, le carte chiuse nel cassetto, le lettere di lei nascoste dietro i volumi sugli scaffali, affinché nessuno potesse leggerle. Una precisione innaturale per lui, una concatenazione di sequenze eccessivamente rigorosa, quasi non dovesse più tornarci in quella stanza...

«E’ stato un attimo soltanto, credimi. Ma dopo quell’attimo come avrei potuto trattenerla la vita, mentre il cappio me la strappava irrimediabilmente? Avrei voluto tagliarla quella corda, come si fa con il cordone ombelicale, e nascere di nuovo, diverso. Questo avrei voluto in quel momento, altroché morire! Sai bene però che non è possibile tornare indietro; ed ora vorresti cacciarmi all’inferno. Ma se è la terra il mio inferno Dimmi allora tu, che comandi il mondo, se è vero o no che nei tuoi disegni non è prevista un’altra vita per me, che quel dannato inferno è solo una tua vendetta alla fin fine».

«Tu non sai quel che dici! E pretenderesti di leggere i destini dell’uomo. Non ti sono certo mancati sulla terra gl’insegnamenti, gli esempi, le parabole; ma le tue orecchie e il tuo cuore restavano chiusi, caro il mio Giuda!».

E al racconto della sua morte, di quella cieca corsa verso il vuoto, e lo strappo, e la svolta repentina e poi il nulla; ebbene l’aveva avvertito anche lui uno strattone, quasi il collo di Giuda fosse il suo. E quando poi quello aveva raccontato d’essersi pentito, e che avrebbe voluto tornare indietro, per vivere un’altra volta, per ripetere tutto daccapo, fu come ricevesse un’altra spinta il nostro amico, più robusta delle altre; ma definitiva stavolta. Risalito alla superficie di una realtà del tutto nuova, si guardava intorno come fosse lui il Giuda che sognava di risalire la china, ed invece s’accorse di precipitare in un vuoto irreparabile; verso la morte.

E allora si voltò per sfilarsi da qualcosa d’invisibile e soffocante che fin’allora l’aveva costretto. Spaesato e impaurito, appena vide fra i rami lampeggiare una strana luce rossa, che aveva un qualcosa di famigliare in quella pallida intermittenza. Piano piano si fece coraggio, e allora s’alzò, e s’accorse che non faceva nessuna fatica. E pensare che da un pezzo se ne stava fermo in quella posizione, nemmeno tanto comoda poi. S’arrampicò sulla ripida scarpata alle sue spalle salendo senza sforzo, come fosse senza peso il suo corpo, e non faceva alcun rumore, nemmeno una frasca gli crepitava sotto i piedi. Niente.

E così, arrivato in cima, vide un paese trapunto qua e là dalle prime luci della sera. Bucavano un’aria viola, tremolando impercettibilmente. Una simmetria sbilenca dei tetti che gli sembrò nota, cogli alberi sullo sfondo dell’abitato, che confondevano, con le loro cime, i tratti sconnessi delle mura antiche; anche quelle famigliari. E poi il campanile, tutto scorticato, un dito a indicare la cima del colle con una croce sbilenca in vetta, e poi la falda dei detriti ai lati, e la macchia gialla delle case dalla parte opposta. Tutte cose già viste!. E d’improvviso quel mondo gli si rovesciò addosso penetrandogli dentro come una saetta e l’affresco che aveva davanti si screpolò, veniva via a pezzi dagli occhi, appena intuì potesse essere il suo paese quel borgo antico. Lo conosceva bene quell’intersecarsi di linee, di gobbe, vertici di mura. E dopo quel momento d’incerto smarrimento, provò uno strano senso di leggerezza; e non era paura, ma ansia per un qualcosa che sfuggiva alla sua mente e ci batteva contro come un moscone al vetro d’una finestra. Tornò allora indietro di corsa, al posto di prima, e se lo sentiva in cuore quel lontano galoppo che conosceva bene, altre volte gli era capitato, ed ora gli rimbalzava in gola, non come al solito però, bensì più stemperato. Come ci fosse qualcosa di mezzo, fra lui e il pensiero di sé; una specie di suono lontano il rintoccare di quei battiti dietro lo sterno. Più che sentirlo era come lo vedesse, ma dal di fuori. Tutto se stesso era collocato al di fuori.

Dopo lo strappo, il cappio aveva preso a serrarsi attorno al collo, così aveva raccontato il Giuda, e man mano che si stringeva una rapidissima successione d’immagini sortiva da quel nodo. E a lui, ora, succedeva lo stesso. Tutto così in fretta, troppo in fretta perché potesse metterle in ordine quelle figure che gli roteavano davanti come in un film girato dalla mano d’un pazzo. Ma nonostante la velocità smisurata, riusciva a guardarsele lo stesso le immagini e, in quel precipitare di sequenze, cercava di distinguere i particolari per capire com’era potuto accadere. Vederli in modo nitido, uno dopo l’altro, e poi se stesso vedere, nell’attimo in cui s’era spezzato il nastro che fino a un momento prima scorreva a velocità normale. A quel botto, le immagini avevano preso a pigiarsi fra loro precipitando una sull’altra, come una folla che fugge via impazzita dal terrore. E si passava e ripassava la scena, tornando insistentemente sullo stesso punto sporco e confuso; un nastro di registratore difettoso. Anche lui sarebbe impazzito se non riusciva a sciogliere il grumo di quella scena dai personaggi contorti e sovrapposti.

Rivide allora la sua partenza per il sud, quel viaggio programmato da un pezzo, quindici giorni tutti per loro; quindici gemme staccate dalla collana di giorni dedicati agli altri. Non chiedeva che questo, e inoltre di poter fotografare quello stralcio di vita meridionale, un attimo prima di imbarcarsi sul traghetto che l’avrebbe portato da lei. Che poi se la sarebbe rivista al ritorno a casa quella prima sequenza di viaggio, assieme all’ansia racchiusa in ogni minimo gesto, e anche la sua donna si sarebbe riguardata, ogni sera, dopo il lavoro. Il sole del suo paesino al nord, opaco come un cerchio giallo disegnato dal gessetto di un bambino, l’avrebbe lasciato dietro al portone richiuso alle sue spalle, assieme ai cieli bassi che quasi potevi toccarli, ora che lei stava dentro quell’immagini conservate come un dono prezioso. E poi la neve sarebbe caduta, e in abbondanza, a cancellare ogni colore; ma solo fuori. Un giorno però ci avrebbe pensato lei a portare la vita in quel piccolo mondo che d’inverno gli s’aggrumava intorno, irrigidendogli il corpo, il cuore, e tutti i sentimenti.

Con questo pensiero girava per le strade della città diretto verso il mare, al porto. E ovunque vedeva lei, e ovunque filmava e non pensava ad altro. Fu così che svoltò quell’angolo, attratto da un movimento, dal bianco di lenzuoli appesi fra le case, o da un cielo che così azzurro non aveva mai visto prima. Stranito da quei colori, dalle voci che s’inseguivano di balcone in balcone, da un’aria frizzante che da sotto la camicia gli entrava dappertutto, nel naso, in gola, giù nei polmoni, mista a iodio e sale, e lui che naso all’insù se ne stava a sognare, quando sentì quello strappo violento, e poi un volto di ragazzo vide, mentre scappava con in mano la sua macchina fotografica, la borsa e tutto il resto. Dentro c’era anche il regalo per lei, una promessa di matrimonio nel marsupio di cuoio che s’allontanava assieme al ragazzo. C’era tutto lì dentro, questo pensò mentre gli correva dietro come un disperato. Ed alla fine l’aveva acciuffato, e allora di slancio lo gettò a terra, e gli aveva ripreso anche la borsa, la macchina fotografica e tutto il resto e urlava, il braccio alzato per picchiarlo con tutta la rabbia che aveva dentro, quando un uomo sbucò da dietro un portone.

E poi lo sparo.

Se lo sentì penetrare nelle spalle quel colpo, si spandeva nell’aria, s’inerpicò in cielo, lucido come l’acciaio, luminoso come un fuoco d’artificio, per poi lentamente cadergli dentro lentamente fino a spengersi. Un tremolio di figure, un sibilare lontano, un freddo improvviso, e gli faceva male. Poi grida, sempre più distanti, e subito dopo, tutta la luce di prima e le altre immagini colorate si ripiegarono su se stesse, a riccio, fino a farsi piccole e spente, fino a diventare un unico puntino nero e lui che ci correva dietro a quel puntino, ed ogni cosa era tornata buia e fredda e lontana.

E da quello spazio, che spazio non era, si chiedeva adesso com’era stato possibile. Sarebbe bastato lasciar fare, farsi derubare e non sarebbe accaduto nulla. Un’altra macchina fotografica da comprare, qualche soldo, qualche grammo d’oro in meno, due giorni di lavoro in più, forse tre. Era questo il succo della faccenda. Avrebbe potuto vivere il seguito di quel fantastico giorno, senza fotografie magari, che poi sarebbe stato lo stesso, perché quella luce e quel calore gli sarebbero rimasti dentro comunque, ne avrebbe viste altre di cose e anche di storie. E invece quel gesto, nemmeno pensato, gli era uscito da solo. Un gesto di follia. Se fosse riuscito a vedere oltre, un tantinello appena, si sarebbe fatto spogliare di questo e d’altro, in cambio della vita. E invece per quell’attimo di rabbia aveva perso tutto. E tornava di continuo su quell’idea difficile da mandar giù, e intanto guardava i ragazzi, Giuda soprattutto, chiedendo all’invisibile regista che gli aveva fatto scorrere davanti agli occhi tutta la vita, di ripassare il punto in cui era uscito di scena, perché quell’attimo gli era in parte sfuggito. Distorto o troppo affrettato.

«Mi hanno raccontato un mucchio di storie, ecco cos’è». La voce del Giuda spuntò dalla sterminata caterva di quei rimpianti. Ancora non si capacitava della sua condizione. Sperava fosse un sogno, una specie di follia, o un’allucinazione. La speranza era l’ultima a morire, in tutti i sensi. Il Giuda continuò...

«Più cercavo di crederci e più puzzavano di mezze verità le cose che mi dicevano. Tu lo sai che sotto sotto c’è un mezzo imbroglio, quando ci riveli brandelli di conoscenza, perché in fondo vuoi tenerci al buio, come la notte che presto verrà a coprire ogni cosa. Perché allora c’inganni, perché non ce la dici per intero la nostra realtà? Non importa quello che io ho creduto quando ogni giorno mi ramenavo fra mille domande, torcendomi fra sterminati dubbi. Quel che conta adesso, è che capisco quale misura di bene e di saggezza pretendi da noi e mi domando se avrai il coraggio di negarmi il diritto di rifarmi dei miei sbagli e farmi riprovare un’altra volta a vivere da uomo».

«Non le rammenti, Giuda, le parole pronunciate dal tuo maestro prima che lasciasse la tavola dell’ultima cena?» gli chiese qualcuno del gruppo. «Quel che devi fare fallo presto, ti disse se ricordo bene. Non intendeva forse farti capire che dovevi eseguire il compito della tua vita, e senza tante esitazioni?».

«Sì che lo ricordo, e il mio compito era quello di indicare il maestro a chi lo stava cercando. Fu così anche durante l’ultima cena, quando disse chiaramente che uno di noi l’avrebbe tradito. Ed era colui a cui avrebbe porto il pane il traditore, e lo porse a me quel pane. E mentre lo mangiavo una forza oscura s’impossessò di me, e da quell’istante le mie azioni non furono più mie, ma di quell’ameba misteriosa che m’era entrata dentro, per succhiarmi la volontà, il cervello e il resto di me stesso. Quella cosa misteriosa mi costringeva, e l’anima era come svuotata e tutto di me era vuoto. Perché allora mi s’incolpa di quanto successe poi; me, diventato schiavo di demoni? «Quel che devi fare fallo presto». Nemmeno te l’immagini il tormento che sono costretto a rivivere ogni volta che ripenso a quelle parole...»

In quel momento si sentì il ronzio di un motore da dietro la collina. Il ragazzo, appena l’udì, smise di parlare; tutti s’erano voltati in quella direzione. Da mezzo agli alberi spuntò il muso d’una macchina. Ne scesero due uomini; uno era Giacomo.

«Dottò, c’è il meccanico e anche il ricambio. Due orette e ripartiamo».

«Vabbene, ma che siano due, però».

«Allora facciamo tre e non se ne parli più».

Cominciava a scurire. Il sole era tramontato da poco e l’aria s’era addensata. Come qualcosa si fosse retratto dalla terra e stava adesso lì, ferma ad aspettare. Non più cicale né grilli; nemmeno gli uccelli cantavano, mentre a volo radente tornavano nei loro rifugi nel bosco. Presto altre creature avrebbero animato quel mondo deserto a quell’ora. Una fresca brezza aveva spazzato via il tepore di prima, giocando con le cime degli alberi, con l’alta erba intorno, impigliandosi nei capelli delle ragazze.

«A proposito, è meglio che qualcuno vada a cercare un po’ di legna. Qui ci vuole del fuoco, se no il nostro Giuda si raffredda...», fece l’uomo col codino mentre si sgranchiva le gambe. Tutti risero. Due si alzarono e si diressero verso la macchia. Poi l’uomo fece un giro intorno al cerchio dei ragazzi con al centro il Giuda, rimasto fermo in mezzo allo spiazzo. Era in attesa d’una risposta, ma nella testa ancora girava la frase di prima, «Quel che devi fare...». Di certo quelle parole se n’andavano a tastoni per le complicate architetture che erano il suo cervello, tra neuroni, dentriti stellati e no, gangli e snodi, la città sotterranea di ciascun uomo, alla ricerca d’una risposta diversa. Un fitto tramestio di scambi là dentro, travasi e messaggi, c’è da giurarci, perché il ragazzo è sveglio, eccome. Ma stavolta tutto quel fervore, quel suo darsi daffare, sembrano non bastare a mettere insieme uno straccio di risposta, e infine, come rassegnato, aspettava adesso docile come un agnellino. L’uomo gli si fermò a fianco, al di là di quella specie di linea di confine rappresentato dai corpi dei ragazzi.

«Via, non te la prendere Giuda. Il tuo maestro lo sapeva bene che uno di voi doveva tradirlo. Quel tuo gesto non fu un incidente di percorso, diciamo così, come ad esempio quello del nostro pulmino, troppo vecchio ormai, e che oggi s’è rotto. E nemmeno fu una disgrazia, o un momento infelice in tutta la vostra storia...», e intanto si lisciava i capelli pensando alle parole che doveva far seguire, e tornò sui suoi passi, per fermarsi proprio sul punto dove stava prima, ripensando alla frase appena detta. Quindi, senz’alcuna fretta, si rimise a sedere.

«Beh se proprio devo essere dio, potrò prendermi un po’ di tempo» aggiunse emettendo un lungo sospiro. «Non sono forse il signore del tempo io? o avete qualcosa da ridire anche su questo...», e allungate le gambe, stiracchiò il tronco flettendo la testa dietro le spalle. Rimase così per un bel pezzo, appoggiato al palmo delle sue grandi mani ben piantate a terra, e guardava in alto, come a cercare una risposta, una di quelle buone, in un cielo che qua e là cominciava a creparsi e, in mezzo a quei minimi pertugi, già si affacciavano le prime stelle.

«Ad essere sincero...», sembrava non riuscisse ad andare oltre a quell’incaglio che solo lui scorgeva. «Vedete come spesso si parla a vanvera! Per necessità sono costretto ad essere sincero, sono la verità per eccellenza io, accidenti, questo non dovete dimenticarlo», ma con quel girarsi attorno alle parole, giocarci a rimpiattino, stava però dicendo altro che non una banale battutina.

Perché gli piaceva da morire baloccarsi con esse, gli servivano a prendere tempo le parole, ma ancor più spesso ci moriva dietro. Aveva passato la vita in teatro, s’era innamorato del loro suono, e c’era il pericolo di non percepire sempre quel che ci stava dentro alle parole. Dette poi in un certo modo, erano veramente belle in determinate situazioni, talmente perfette, disposte fra botta e risposta. Ah, che vigliacche sono, che femmine perverse, una bellezza da farti girare la testa, da perderti! A questo pensava l’uomo, e anche alla sua vita, a quel correre dietro alle sue suggestioni, ai suoi fatali bisticci fra cuore e mente. Veri tradimenti anche questi, e pure lui, in fondo, era un Giuda. E tale si sentiva. Per questo ed altro si ritrovava solo, per questo voleva un gran bene a quei ragazzi. In qualche modo erano anche figli suoi; gli unici. E intanto continuava a guardare in cielo e cercava una risposta ed a tant’altre cose ancora pensava. Ma durò tutto un attimo, un breve, doloroso zigzag, e poi basta.

«Lasciamo stare il seguito, e riprendiamo il discorso» disse a quel punto. «Vedi Giuda, io non ho mai pensato che sarebbe stato meglio che tu non l’avessi fatta quella cosa lì. In fondo è questa la verità: qualcuno doveva pur tradire, qualcuno deve tradire prima o poi la parte migliore che si porta dentro. E’ questo il punto, capito? Solo chi è passato attraverso un stretto tunnel, infido e pauroso, chi si è spogliato di tutto per sfangarcela, chi s’è fatto veramente male in quel passaggio, può capire cosa significa essere uomini...», e qui si fermò. Il passo era difficile; non per lui che l’aveva provata quella cosa lì, ma per i suoi ragazzi che, a tutti i costi, dovevano capirlo per bene il senso. Ed aveva raddrizzato il capo per guardarseli ad uno ad uno, ed anche la voce aveva alzato per farsi intendere meglio.

«Questo non sta scritto da nessuna parte nel copione, hai voglia a cercare. Lo si deve capire dentro e basta! E poi me lo sono inventato io. Posso fare questo ed altro io, senza che gridiate ogni volta al miracolo; fa parte della mia parte insomma... Perché sopra di me non c’è nessun regista, come su ciascuno di voi non ci dev’essere nessun altro a guidare i vostri pensieri. Le parole sì che posso correggervele; quelle soltanto, e neppure sempre però, e non se voi non lo volete. Sopra ogni uomo non c’è altro che il suo io, ricordatelo. Piccolo, spesso impaurito, smarrito per lo più...» e si fermò tutto serio e non si sentiva volare una mosca tanto erano intenti a quel discorso i ragazzi. Poi «V’è piaciuta la frase vero?» disse sorridendo stavolta, e anche i ragazzi sorrisero, e si sentiva meglio ora che aveva dette quelle cose lì. «E allora diciamo pure che tu, Giuda, dovevi solo mostrare il buco nero che ogni creatura deve attraversare in questa terra. Mettiamola così e basta».

Davanti a questa sparata, il ragazzo lì per lì si sentì perso. Non sapeva davvero cosa rispondergli; s’era preparato a ben altro lui. Così, senz’accorgersene, mezzo frastornato com’era, si stava rigirando il copione fra le mani, accartocciandolo ancor più. La sua proverbiale prontezza era stata messa k.o. da quel robusto ceffone seguito a ruota da altri che l’uomo gli aveva rifilato senza nemmeno poi troppa fatica. Neanche il tempo di riprendersi gli aveva lasciato, ed ora non si raccapezzava su cosa mai potesse dirgli.

I due di prima se ne stavano intanto tornando con la legna stretta fra le braccia. Procedevano a fatica. Appena arrivati la fecero cadere tutta insieme in mezzo al cerchio, e un gran polverone si sollevò da terra, simile allo zampillo di una fantasmagorica fontana. Quando poi quella specie di fuliggine si fu quietata, uno di loro si chinò e, presa della carta, l’accese. S’era chinato soffiando su un angolo della catasta. due o tre volte di seguito, ma un fastidioso venticello ci passava sopra con folate insistenti, in quel primo imbrunire, e il fuoco non prendeva. Allora il ragazzo si raggomitolò tutto facendo scudo col suo corpo, e subito una timida fiammella prese ad affacciarsi da sotto i rami. Allungava le sue dita giallastre, finché un crepitio non guizzò con forza dal centro del rovo e un altrettanto chiarore si rifletté sul volto dei ragazzi. Tutti osservavano la scena in silenzio, quella del fuoco, rivista mille volte; ma ogni volta che accadeva un pensiero nuovo passava per la testa di ciascuno, e gli occhi a quel riflesso s’accendevano. Il nostro Giuda s’era intanto messo a scartabellare il suo copione; aveva scoperto qualcosa di buono finalmente.

«Ecco» cominciò a dire tutto soddisfatto. «Sulla terra mi hanno ripetuto fino alla nausea che un abisso divide te da me. Il tuo dio regna nei cieli non lo puoi avvicinare, né tanto meno capire, così sta scritto, mi dicevano. E poi, come non bastasse, mi spiegavano che io mi ritrovo confinato in questo piccolo spazio, il mio corpo, e lui invece di spazio ne ha tanto da buttar via. Io invecchio, e per lui il tempo non scorre mai; anche questo sta scritto. Così dunque stanno le cose, se ho letto e capito bene. Dov’è allora la tua saggezza, dimmi. Non t’accorgi di come ti contraddici?». Per via della poca luce gli occhi scorrevano a strappi sul copione, quasi tentasse di cavarci le parole con quel dito sopra, ma ancora non bastava. Allora allungò il capo verso il fuoco e prese a leggere lentamente, a voce alta. «Perché infierisci su di me che sono una creatura finita, addossando alle mie azioni conseguenze e strascichi infiniti? Perché imprimi il sigillo dell’eternità ai gesti effimeri delle tue creature, e vuoi rendere immortale l’attimo in cui ho deciso della mia morte? Rispondimi, mio Dio!»

Era una buona domanda quella, non c’è che dire, e non avrebbe potuto porla meglio il nostro Giuda che se ne stava soddisfatto accanto al fuoco, fra il silenzio generale, convinto d’aver fatto un buon lavoro e colpito giusto. Ed ora attendeva una risposta, chiedendosi in qual modo gli avrebbe reso la pariglia quel diabolico di un dio che gli stava davanti osservandolo con uno sguardo perplesso, e un’espressione più ferma del solito. Sembrava ci avesse messo una maschera di gesso sopra, tant’era duro il volto.

«Nessuno ha deciso per te Giuda, nessuno t’ha reso schiavo. Insieme ai comandamenti hai ricevuto anche la libertà di scegliere fra il rispettare le leggi e il non farlo; fra l’agire bene e l’agire male. Hai la possibilità di cogliere al volo questa mia volontà di volerti libero, come pure di respingerla. Non credi ?».

«Certo, è così. E allora ridammi la vita, perché possa di nuovo rimettermi in gioco. Ho ancora molto da imparare in terra; voglio scoprire cosa mi rende felice e cosa infelice. Vedi come gli uomini lavorano, oziano, soffrono, si divertono, sbagliano, amano, dormono, sognano. Tutto cambia continuamente laggiù, tutto si muove. A forza d’immaginarmi di nuovo in terra, è come se morissi una seconda volta. Ah le cose che potrei fare... Laggiù c’è il futuro, e io me l’immagino una storia diversa, tutta da riscrivere. Purtroppo però sulla terra mi sono giocato tutto, perché il patto l’ho stretto col diavolo. Ma ora te ne propongo uno io, e una volta che ci saremo combinati, vediamo se Dio sa mantenerle per davvero le sue promesse!»

Anche il nostro amico s’era giocato tutto in quell’attimo. O il demonio lo aveva fatto per lui... gli era entrato dentro quello, senza nessun tipo di patto quando aveva gettato a terra il ragazzo... Ah, le cose che anche lui avrebbe potuto fare se solo fosse vissuto ancora un poco! E invece se ne stava al confine di quel mondo vagando come un’anima in pena. Simile a un bambino col naso spiaccicato contro una vetrina, guardava i ragazzi un centinaio di metri più avanti, come fosse anche lui lì, ai bordi di quel cerchio. E cercava di afferrare qualche briciola della loro vita, di quei discorsi in cui s’accapigliavano, cogliere una sensazione corposa che desse consistenza alla larva che si sentiva d’essere e rimpolpare quella specie di lenticchia rinsecchita sospesa nel nulla in cui navigava il suo io. Perché con tutto quello che loro possedevano, non valeva davvero la pena d’azzuffarsi a quel modo.

Gli sarebbe bastato un rimasuglio di pensiero, piccolo piccolo, uno di quelli scartati da quegli attori che gli si dimenavano davanti, mentre i suoi, appena formati, si sbocconcellavano come carta crepata dal fuoco. Che poi, magari, uno di essi poteva essere buono: la chiave giusta per violare il codice segreto che racchiudeva la verità. Anche se aveva sempre creduto nell’assoluta inconsistenza di quella parola.

E guardava oltre quella specie di vetrata posta tra i due mondi, seguendo il rincorrersi perfettamente inutile del Giuda, del grigio, e degli altri ragazzi seduti in cerchio. Eppure tutta quella sceneggiata, vista da lì, non era poi del tutto assurda. Erano vicini a un impercettibile qualcosa; mancava solo una scintilla a perforare quel minimo spessore. Un lampo breve come uno schiocco di dita, avrebbe svelato l’altra realtà e pensò che anche a lui era mancata, allora, quella specie d’illuminazione.

Non c’è solo un verso da cui guardare, avrebbe voluto gridare a quei ragazzi che si fronteggiavano, rimandandosi gesti e parole. Quasi abitassero una specie di casa, in cui non esisteva solo un lato di essa, da cui si sporgevano difendendo ciascuno le sue buone ragioni; ma ce ne stava un altro dietro di loro. E purtroppo non lo sapevano. Ci si può affacciare da tutte e due le parti in quella casa, questo avrebbe voluto dire. Solo adesso l’aveva capito, lui che non aveva mai creduto alla vita dopo la morte!

E lui invece, per un attimo d’irriflessione, un puro istinto di difesa, per colpa della sua natura insomma, non aveva avuto il tempo necessario ad afferrare l’altra faccia della realtà, ed ora si ritrovava privato di tutto. Sarebbe bastato ancora un poco forse, e avrebbe capito! Non aveva avuto orecchie, a quel tempo, né prestato sufficiente attenzione, proprio come Giuda. Non aveva afferrato a sufficienza, udirle soltanto non basta; bisogna smembrarle le cose, andarci dentro a vedere come sono fatte, non fermarsi all’apparenze. Lui in chiesa l’aveva sentito svariate volte questo, ma non compreso a sufficienza che non contava granché la loro intrigante bellezza; c’era ben altro cui dar importanza. Luoghi comuni certo, a forza di ripeterli; privi di valore, inflazionati com’erano. E lui, per qualche grammo d’oro, per una macchina fotografica, s’era fatto derubare di tutto. Bello scambio... Possibile che non ci fosse modo di rimediare?

L’incontenibile effervescenza di quel mattino, l’attesa di Maria dilatata allo spasimo, quel languore dentro a divorarlo, ma in cui stava parte della bellezza del momento, e che solo il suo arrivo avrebbe sciolto, possibile fossero andati tutti persi? Un sentimento così dilagante, capace di smuovere i mondi, e adesso nemmeno riusciva a spostare un granello di quell’aria d’indifferenza che gli s’affollava intorno...

«Quale patto vuoi propormi tu, con quella faccia tosta con cui osi parlare al tuo dio?».

«Vedi come qualunque cosa io dica o faccia, ai tuoi occhi sono sempre il peggiore degli uomini?» si lamentò il ragazzo scuotendo il capo con aria sconsolata. «Fa niente; la vita va avanti lo stesso. Già, solo per gli altri però...»

«Non fare la vittima Giuda...».

«Va bene, andiamo oltre e pensiamo al dopo», e si girò dall’altra parte. Il fuoco crepitava, solo le fiamme si sentivano mentre mangiavano il secco della legna, il loro riverbero segnava la schiena di Giuda in un gioco d’impercettibili ombre. Trascorse qualche secondo, poi d’improvviso si voltò e prese a parlare a voce molto alta, scandendo le parole, a una a una.

«Ti prometto, mio dio, che se mi darai una nuova vita, alla mia prossima morte te la riporterò migliore. Questo è il patto. Accettalo e manterrò la mia parola» e si fermò a guardare dritto negli occhi l’uomo davanti a sé. «O forse hai paura di perdere la scommessa, dimmi, eh?». Aveva il fiato grosso mentre diceva queste parole, come se qualcosa gli corresse dentro a gran carriera. Poi diresse lo sguardo sul fuoco, lo stesso fuoco di migliaia d’anni fa, lo stesso mistero della vita che si consuma e di continuo si rinnova. E chissà il terrore quando, per la prima volta, balenò negli occhi attoniti dei primi uomini. Paura, magia, venerazione, per quei guizzi che sibilavano gemendo in improvvise fiammate. Splendevano come diamanti in mezzo alla capigliatura d’un dio spuntato dall’anima della terra, o forse era solo uno spirito colpito da lampi e precipitato al suolo, o un frammento del sole che ogni giorno tagliava col suo carro luminoso il cielo, da orizzonte ad orizzonte. Per secoli aveva eccitato la fantasia degli uomini quel fuoco, alimentato le loro paure, distrutto città, vite, bruciato pestilenze e anime dannate, ed ora un dio sconosciuto, lo stesso di sempre, scaldava il cuore a lui attore nato, e una specie di tumulto gli ribolliva nelle viscere, e saliva, saliva, fino a battere un’invisibile grancassa in mezzo alla cupola del petto. Era così ogni volta che recitava. Ed ora, sempre guardando il fuoco prese a parlarsi sottovoce, ripetendosi la parte quasi volesse illuminare della sua fiamma scene e pensieri che a malapena baluginavano per la mente. Il vento adesso ci soffiava sopra al falò, e da alcuni pertugi di luce venivan fuori vortici di faville, a sprazzi, con dentro immagini nuove, e fantastiche.

A quel punto l’uomo dai capelli grigi, costretto alla difficile parte di dio e da un pezzo costretto pure a quella specie di forzata estraniazione dal gruppo, d’improvviso, si sentì davvero come fuori dal loro mondo. E la cosa non gli piacque. Si fece allora strada fra due ragazzi, e spostatili delicatamente andò nel mezzo del gruppo, per poterselo vedere da vicino il suo Giuda. Una volta accanto, gli batté una gran pacca sulla spalla.

«Senti Giuda, che ne diresti se anziché all’inferno ti spedissi direttamente in paradiso, eh?» disse con un mezzo sorriso, tanto per chiudere lì il discorso ed anche perché, così facendo, s’era calato in terra, a modo suo certo, ma perlomeno s’era lasciato alle spalle la scomoda parte del dio. Ma l’altro ci stava bene, dentro alla sua, con anima e cuore. Senza tanti complimenti gli rispose a tono.

«Non mi garba il tuo paradiso a dirtela tutta, mi ripugna quanto l’inferno, lo sai? Dimmi che ci farei io nel regno dei perfetti? Diventare sapiente o, d’improvviso, buono e tranquillo, e starmene così, a contemplare a bazza pendula le infinite cerchie d’angeli a cantare in coro, per l’eternità e, per giunta, senza poter muovere un dito. Ci pensi? Visto il mio carattere, se mi conoscessi soltanto un po’, sai bene che m’annoierei da morire. Che poi neanche questo mi sarebbe permesso... Mi sento fiero d’essere uomo io. Non saprò certo volare, non ho le alucce, né la coroncina, né alcuno dei tuoi mirabili marchingegni, ma due zampe ce l’ho, eccome, e pure robuste. Mi son bastate per scarpinare in lungo e in largo per un mondo che a dire il vero più bello di così non avresti potuto farlo. E debbo anche ringraziarti, perché con queste mani ho toccato altre mani, e anche la terra, l’erba, il mare e tant’altre cose ho toccato, e non solo una corda da impiccato. Vedi padre mio, pensando a quelle cose lì, mi vien da dire che paradiso e inferno sono così perfetti nella loro completezza, che io dentro ci morirei per assoluta mancanza di desideri».

«Certo che hai una bella faccia tosta a parlarne come se già li conoscessi. E poi dici che sono testardo e ingeneroso perché non ti offro un’altra occasione di riscatto. Vedi che nemmeno tu mi conosci?»

«E dammelo allora l’inferno, dammelo su questa terra però! Non mi spaventa una vita difficile, né l’idea della sofferenza, del sudore, dei travagli che ci hai promesso, a carrettate; che poi son l’uniche promesse che hai saputo mantenere... Sono un uomo io! Ma lo divento ancor più io, quando il mio geniaccio, l’anima e tutti gl’impalpabili annessi con cui ci hai cuciti, ricamati e confezionati, riescono a incastrarsi per bene in questo mio corpo; come in un vestito su misura. Solo così mi sento uomo! Chiedilo pure a tuo figlio e ti dirà se è vero. E’ sulla terra che vivono i miei simili, quelli che ho sfruttato, imbrogliato, offeso, ma che vorrei incontrare di nuovo. Sulla terra però, per confrontarmi con quella parte canagliesca di me, e vincerla una buona volta!». Poi scartabellò in tutta fretta il suo copione e trovato il punto che voleva, si mise a leggere con voce meno scanzonata del solito. «Solo l’innocenza di un bimbo, o il perfetto fragore di un’invincibile tempesta, come pure la testarda determinazione di uno come me, o un amore sconclusionato com’era il mio, potrebbero contrastare quella parte di me assetata di potere». Poi si fermò. «Guarda che queste cose le hai scritte tu e non io».

Le parole del Giuda restavano come sospese nell’aria densa della sera. Il buio s’era trascinato dietro il respiro d’un lontano torrente, e il suo fiato umido ricadeva su tutti. Cominciava a far freddo. I ragazzi tacevano, e anche il nostro amico frastornato da quei discorsi osservava e basta. Non era più abituato a scontri del genere, e quindi, nemmeno alla lontana, riusciva a raccapezzarsi su come si sarebbero conclusi. Di religione ne aveva masticata abbastanza, ma da bambino. Da adolescente ancora qualcosina, sempre meno però; finché all’università aveva messo da parte quelle astratte teorie che non servivano a niente. Bastavano gli studi a schiacciarlo a dovere, e poi di seguito la preoccupazione del posto di lavoro, del guadagno e del domani. Pensieri sempre più pesanti, che lo facevano andare ancora più sotto a quella linea immaginaria oltre la quale si sarebbe ancora potuto vedere il cielo con tutti i suoi splendori dietro. E invece niente, sempre di meno, sempre più in basso. Le cose belle da immaginare e, se non proprio da sognare, da credere almeno possibili, erano scomparse. Dissolte del tutto in quella landa nebbiosa ch’era divenuto il suo pensiero incapace di volare.

Ed ecco che un giorno, per miracolo, il mondo s’era come rigirato di nuovo, c’era dell’altro di stupendo da guardare. Quella donna meravigliosa che dal giorno in cui era apparsa aveva cominciato a rodergli il cervello, era stata mandata non per fargli male, ma solo per lasciare entrare un po’ di luce, in quella specie di grillaia che aveva in testa. E d’improvviso gli sembrarono attuali le cose d’un tempo. Quasi che, la realtà che aveva davanti, si fosse spostata in blocco da dove si trovavano i ragazzi per venire incontro alla sua; quasi che, al di qua di quest’invisibile vetro, gli oggetti e le persone assumessero connotati più definiti, diversi da come li sapeva prima. E non c’era più niente da discutere, né altro da aggiungere a quel che vedeva; né spazio per interpretazioni o pareri diversi. Era così e basta. Una sconvolgente scoperta, o una pazzia, o forse semplicemente un’intuizione. Bello sarebbe stato tornare indietro, risalire come un salmone la corrente degli sterminati momenti che gli turbinavano davanti come rapide d’un fiume, con l’argento dei gorghi, il cristallo dei rimbalzi, il loro frangersi dirompente. Rifarlo una seconda volta quel tragitto, ma con gli accorgimenti giusti, per evitarne i vortici, gli abbrivi tumultuosi, i fatali scogli.

E adesso afferrava bene quell’idea testarda di Giuda che voleva tornare in terra a rammendare quello strappo, proprio in quel punto; avere un’altra chance. Una seconda volta sarebbe bastata. Un’idea eccitante davvero. Ed altre ancora gli venivano, a iosa. Una schiumosa esuberanza di immagini sgorgava da una testa in bollore, come spuma di latte che sguscia da tutte le parti, colando inarrestabile dalla perimetria del suo cervello rigido come un pentolino. Ma prima che diventassero croste bruciacchiate, afferrò una di quelle immagini, più intrigante e particolare delle altre. Come fosse una delle figurine che gli regalavano in chiesa il sabato mattina, e lui a metterle via, che poi si sarebbe perso dietro alla sua collezione, a quei minuti disegni dai tratti finissimi, la patina lucida, i forti colori, passava sopra ore e ore a contemplarle... E adesso, l’idea che l’aveva così colpito, combaciava con una delle figurine del sabato mattina; alla perfezione. Ed era quella di Lazzaro. Tre giorni di assenza e poi di nuovo fuori. Una specie di arresto domiciliare in chiave moderna.

No amico, pareva sentirla la voce di lui, ho solo dormito, checché ne pensi. Tre giorni e tre notti ho dormito, d’uno strano sonno, e man mano che le forze mi si sfilavano, di pari passo s’impastavano con un’altra parte di me. Accanto, sopra, sotto, chissà di preciso dov’era quella parte di cui prima non me n’ero accorto. D’un tratto compresi che si trattava del mio spirito; fin’allora, credimi, non sapevo proprio cosa fosse. Come sta accadendo a te in questo stesso momento. Inutile girarci intorno, tu sei morto mio caro. Irrimediabilmente morto, tanto per usare una parola illuminante anche se spiacevole. Eppure, devi riconoscerlo, i tuoi pensieri non sono mai stati così vividi e lucidi. E vedrai che ti piacerà sempre più colloquiare con quella specie di nebulosa che a sprazzi scantona da dietro l’angolo d’ogni tuo pensiero e che da laggiù in terra, molti chiamavano «luce» con la elle maiuscola, visione, santità, oppure pazzia. Senza in fondo sapere bene di che si trattasse.

Non capiva il nostro amico, anzi non si raccapezzava per niente circa la sua nuova dimensione. E si dava il caso che gli venisse il dubbio, mai successo prima questo, che la concretezza vera, il nocciolo delle cose cioè, stesse più nell’impalpabile luce azzurrina al di qua di questa specie di vetro, che non in mezzo all’indubbia, fino a poco fa, consistenza di gesti, voci, e corpi dei ragazzi seduti attorno al fuoco che se ne stavano immobili su quel certo fotogramma, come per un guasto della macchina da proiezione. Talmente rincitrulliti dai loro stessi pensieri, che parevano una batteria di manichini abbandonati in un deposito di magazzino, ora che si attrezzavano a rispondere al nostro Giuda.

Ma l’illusione, o la follia, continuavano ad incalzarlo, e quella voce fuori campo a parlargli. Forse era sua quella voce e, come il Giuda là, girandosi intorno come una fiera in mezzo all’arena, anche lui adesso s’era calato nel suo personaggio: quello di Lazzaro per l’appunto. Vedi amico, diceva, io ho strappato il velo che ci separa dal mondo dei morti. Per tre giorni e passa ho ficcato il naso tra gl’inviolabili segreti della vita, il mio sogno di sempre credimi, il sogno di tutti gli uomini in fondo. Dài, confessalo che un tempo sarebbe piaciuto anche a te! Togliersi lo sfizio di sbirciare al di là del sipario e capire cosa accadeva dietro. Nessuno prima c’era mai riuscito. Ricordo come i miei pensieri avessero preso a svincolarsi, a fatica si liberavano dalla gravità della terra, per risalire prepotenti ad abbracciare le cose più disparate, quelle più lontane e inimmaginabili, vederle tutte insieme. Ed era incredibile! Come raggrumate sullo stesso piano dove il tempo non le separava più, e nemmeno lo spazio, mi sentivo dappertutto. Eppure dentro conservavo il calore del mio stesso sangue, e l’onda del respiro m’accompagnava ancora in questo irripetibile balzo, mentre il corpo giaceva a terra. Lo vedevo come un vestito smesso che impercettibilmente cominci a sciuparsi, senza me dentro però. A quel punto non m’importava più di niente, né di esso, né delle lacrime di chi mi piangeva, né d’altro ancora, perché non c’era motivo. Stavo bene là dov’ero! Poi m’è stato detto di uscir fuori. E allora da quell’altezza, dai confini di un mondo smisurato, come un aquilone colorato con ancora addosso gli occhi incantati dei bambini, il filo fra le dita sì, ma il resto di loro lassù, in quella macchia di colore, a giocare col sole, tra luce e sogno, ebbene così mi sentivo io, e non volevo più scendere da dove mi trovavo. Lazzaro vieni mi dicevano, fallo per amor nostro, riporta da noi le immagini di quello che hai visto, o quello che t’è rimasto, raccontalo agli uomini! Alla fine solo per questo, per chi mi voleva bene, mi voleva accanto, sono tornato, ad infilarmi di nuovo in quel mio vecchio vestito.

Ma anch’io potrei tornare, si diceva il nostro amico pensando a sé allo stesso modo. Tornerei per amore, perché è sempre per amore che si fa qualcosa e neanche ci si pensa. Non erano ancora trascorsi tre giorni da quel pomeriggio; volendo si faceva ancora in tempo a rimettere insieme gli spezzoni di quel nastro. Sarebbe bastato tagliare un piccolo tratto di pellicola, mica di più, gettarlo via, e nessuno si sarebbe accorto di niente. Su centinaia di metri, migliaia anzi, cosa contava un metro più, un metro meno di quel nastro? Non avrebbe influito più di tanto. E mentre rimuginava su quella cosa, strizzandosi come un panno fradicio perché proprio non riusciva a rassegnarsi alla sproporzione fra quell’attimo e la vita incompiuta che veniva dietro, altre scene correvano frammiste a gesti e parole. Tutte cose inesistenti, ma che sarebbero seguite se solo non avesse reagito a quel modo. Guarda la mente che fa, si diceva, invece d’aiutarti che scherzi ti combina. Per forza poi uno si fa male, e magari la fa finita.

E allora, proprio mentre s’aggirava in mezzo a quest’ossario di pensieri, uno dei ragazzi si alzò, e puntando il dito contro il Giuda, gli disse d’andare a quel paese. Per quanto lo riguardava, era meglio non fosse mai nato. E non era il solo a dirlo, perché stava pure scritto da qualche parte ch’era un maledetto lui! Ma subito dietro un altro s’era alzato e aveva preso le difese di Giuda, rispondendo che non si poteva dargli la colpa d’esser nato, perché lo stesso allora lo si poteva dire di Hitler, di Stalin e dei tanti filibustieri disseminati per i libri di storia, come pure di tutti i criminali e gli assassini. E’ Dio che ci fa venire al mondo, amico, e ha dato a Giuda la stessa opportunità offerta agli altri. Se poi uno la vita se la brucia a quel modo, lo fa per libera scelta. Ma che Dio sarebbe mai questo? gli ribatté quello di prima, se non dovesse entrarci per nulla nel destino degli uomini standosene in disparte a guardare come niente fosse, quasi dipendesse tutto unicamente da noi. Te lo immagini?...

Sembrava che adesso più nessuno avesse la voglia o la forza di dire la sua. L’uomo dal codino continuava imperterrito a tormentarsi la barba, ripetendo quel gesto come se il pensiero gli si fosse incagliato su quel certo nodo, finché dall’angolo più lontano, un mingherlino non si alzò.

«Ragazzi», disse, «forse non ve ne siete accorti, ma qui c’è aria di disfatta. Sembra vi siate arresi. Nessuno che dica qualcosa, nessuno che ci difenda a noi uomini. Se è così, vuol dire allora che il male ha vinto. Eccome, se ha vinto!».

Giuda a quelle parole, puntò dritto verso lo smilzo. Gli andava incontro veloce e deciso come volesse travolgerlo. Nemmeno il tempo di finire la frase, che già l’aveva afferrato per il bavero sfrigolandogli in mezzo al viso un’occhiataccia da mille e passa volts, quasi volesse incenerire il cumulo di scempiaggini nascoste là dietro. Poi capì che non sarebbe servito a niente, e mollò la presa e il ragazzo cadde a terra come un sacco vuoto.

«Infernale è la vostra teologia» disse tutto d’un fiato rivolto agli altri. Quella parte l’aveva ripetuta un’infinità di volte, gli piaceva da morire, tanto da saperla ormai a memoria. «Per millenni ha costretto Giuda al suo inferno. Una teologia malata che ha avuto bisogno di me per sentirsi buona. Ma il vero ginepraio è questa vostra religione, un dedalo di rovi, di sterpi spinosi che cercano di difendere dagli uomini la loro stessa voglia di capire, il fiore della libertà che gli si nasconde dentro». Poi quasi avesse perso il filo, s’era messo a sfogliare come un matto il copione che gli cadeva a pezzi dalle mani. Trovato poi il punto esatto, poté finalmente leggerlo senza saltare una parola e ogni tanto alzava gli occhi, per osservare la reazione dei suoi compagni.

«Insuperabili cattedrali incombono su di voi per schiacciarvi con la loro maestosità tenendovi inchiodati a terra e voi a guardarle a bocca aperta. In nome di Dio vogliono richiamare i suoi figli perduti, raddrizzargli la schiena, intimorirli delle loro stesse paure. Attento, sembrano dire, non pensare troppo, afferrati a noi, al salvagente dei nostri dogmi, altrimenti affogherai piccolo uomo! E io, Giuda, il fiore all’occhiello del loro potere, il dannato da tener lontano, sono messo bene in vista sui pulpiti per svergognare l’uomo, affinché si spaventi della sua stessa ombra» e si fermò come se gli mancasse il fiato, e la voce gli tremava e tutto il corpo vibrava d’una impercettibile tensione.

Un tiepido vento scendeva intanto a folate, scuotendo la cime degli alberi, accanendosi contro il fuoco che rispondeva con crepitii minacciosi rigando l’aria con vortici di faville, come volesse lanciarle contro un invisibile nemico. L’uomo più anziano della compagnia da un pezzo taceva, ma a un tratto s’alzò, come non ce la facesse più a starsene zitto, e anche la sua voce s’era alzata più del solito.

«Il tuo tradimento Giuda, il tuo suicidio, annunciavano un suicidio ben più vasto, e un rinnovato tradimento. Quello degli uomini che vanno incontro all’appuntamento conclusivo: la distruzione del proprio sé! Finché dai loro cuori non sorgerà una forza nuova, capace non di arrancare, ma di concludere, continuerà ad essere così, purtroppo. Ma duemila anni sono trascorsi, tra poco il sole visiterà un altro segno zodiacale, e allora tutto muterà» disse come se leggesse un suo invisibile testo. E per un po’ rimase con quel braccio alzato, immobile nel suo silenzio, e guardava i suoi ragazzi, uno ad uno, quasi ne cercasse qualcuno in particolare. S’era fatto serio come non mai.

«Possibile che non ci sia una donna che dica la sua?», se ne uscì un tratto e girava lo sguardo soffermandosi su ciascuna donna del gruppo. Non era più il dio buono e paziente di prima; d’improvviso s’era rifilato addosso uno sguardo severo, ed anche Giuda, cui piaceva la sua parte di bastian contrario, aveva capito che il vento era cambiato, e se ne stava buono e tranquillo in disparte, adesso. Come gli altri del resto, rassegnati a fare da spettatori ed a sopportare passivamente ogni cosa, ma fino a un certo punto; perché ciascuno, pur non ammettendolo, s’era portato dentro un po’ dell’uno e un po’ dell’altro di quei personaggi, e da un pezzo avvertiva, in un lontano scantinato, quei due scazzottarsi per bene, ma senza darlo ad intendere. E mentre l’uomo dai capelli grigi aspettava che qualcuno gli rispondesse e Giuda insisteva a tacere, loro continuavano a starsene chini, intenti solo ad ascoltare se stessi.

«Allora, non c’è nemmeno una donna capace di venire qua in mezzo? Tutte senza lingua quando è il momento di dir la loro...». Gli ovali del viso dei ragazzi s’affacciavano al balcone di quella notte densa e nera, come candele in attesa d’un colpo di vento che ne muovesse la fiamma. Anche l’aria era ferma. Il fuoco si contorceva con sottili stridori, lamentandosi in un interminabile borbottio. Solo questo si sentiva, quando dal nulla spuntò la voce di Giacomo. Stava scendendo dal pendio e si puliva le mani con un lungo straccio.

«Dottò, ancora un’oretta e poi ce n’andiamo; guardi che non è stato facile. Se non fosse stato per lui» indicando una luce sul bordo della strada. Due buchi gialli foravano la notte, e dietro l’ombra d’un uomo con un aggeggio in mano che andava e veniva tagliando di continuo due colonne di luce puntate in cielo. «E’ proprio in gamba, sa. Una fortuna averlo trovato. Se non ci si fermava, ancora un centinaio di metri e si fondeva tutto».

«Grazie Giacomo. Quando siete pronti chiamateci, d’accordo?»

«Quando ci siamo le do un fischio. Donne e motori, gioie e dolori...» disse allontanandosi e ancora borbottava qualcosa, mentre s’arrampicava lungo il pendio.

I ragazzi seguivano l’uomo trascinare la sua robusta pancia fin sul bordo del costone. Poi scomparve dietro il pulmino e il silenzio ritornò nel prato. Solo il ticchettio intervallato del metallo e le voci distanti degli uomini si sentivano, nulla più. Nessuno s’era intanto accorto delle ragazza che senza far rumore s’era portata al centro dell’arena. Ché proprio questo sembrava il cerchio segnato dai corpi dei ragazzi, senza leoni né gladiatori certo, ma dove si parlava di vita e di morte. La ragazza, la stessa di prima, si rivolse al Giuda.

«Se è per questo ci sono io a risponderti. Immagina pure sia io la Maddalena che conosci. Come immagine di donna, lei m’è sempre piaciuta. Ma non vorrei lasciarti andare avanti senza dirti prima alcune cosette. Vedi tu ragioni con qualcosa dentro che ti confonde la mente, quando dici che per amare si debba togliere l’amore a qualcun altro. Sarebbe povera cosa l’amore, se avesse bisogno di concentrarsi su di un solo punto per esistere. So bene come stanno veramente le cose, io che costruivo questo sentimento sulle rovine di quelli finiti». E lo si capiva chiaramente dall’intensità con cui se lo fissava, che fra loro c’era ben altro da scambiarsi, che un semplice gioco delle parti. Con la storia di Giuda e Maddalena, gli voleva ribadire un’idea che si trascinava dietro da un pezzo e adesso poteva finalmente completarla, senza paura d’esser zittita.

«Te la ricordi Giuda la tua infedeltà? Cosa pensi fosse se non lasciare intendere, al di là delle parole dette e ridette con forza, che una sola donna non può bastare?» un nodo le era salito in gola e a quel punto si fermò. Poi andò a prendere il suo copione, giusto il tempo di rimandare giù quel groppo, e si mise a leggere.

«Chi parlava in te era una voce che non conosce confini. Era il tuo spirito quello. La carne che invece ti porti addosso, è fatta di limiti e di divieti. La mela che tu mordi non posso mangiarla io, come chi vuole ascoltare me, non può ascoltare te allo stesso tempo. Puoi forse dividerlo il sole, puoi dire che un pezzo della sua luce sia mio e l’altro tuo, che quel calore è per me e quello per te?» .Sollevò gli occhi dal testo e guardava l’uomo che le stava davanti. «E allora ti dico che se credi di conquistarti l’amore, come fosse un collage fatto di tanti pezzettini da mettere insieme, rischierai di restar solo, mio caro», disse, ma senza leggere stavolta. Quelle parole semplici, pronunciate senza una particolare animosità dentro, trapassarono invece il ragazzo da parte a parte, come la stocca di un fioretto. E non ci fu scampo per lui. Gli bruciavano da morire quelle parole, gli precipitavano addosso come una grandinata improvvisa, in testa tutto un ticchettio di frasi rotte, lettere deformate, ma non voleva farlo vedere; anche per questo non gli venne subito la risposta giusta. Non c’era abituato e allora afferrò la prima che gli passava in mente, una qualunque. Un vento rancoroso soffiava dietro a quel pensiero.

«E tu allora, non sei forse rimasta sola? Quanti uomini hai attratto nella tua casa, quanti ne hai intrappolati? Così, tanto per dirne una...» disse di slancio, il fiato grosso gl’ingroppava la voce, e per un po’ si sentì il suo respiro andare su e giù: poi si chetò. «Vedi, quel che dici avrebbe senso se gli uomini fossero una specie bionica fatta di aria, di spirito e di qualche altra diabolica miscela; ma abbiamo questo corpo addosso, accidenti!» e si batté la mano sulla coscia due o tre volte, un rumore secco e ritmato, come d’uno stecco che si spezza. Risuonò strano quel suono, rimbalzò sulle facce bianche e immobili dei ragazzi. Pensava di scuoterli, s’illudeva che alle sue parole cadesse qualche frutto da quei rami, e invece niente. Non fecero una smorfia quelli, come parlasse al vento e allora ci dette dentro con più rabbia.

«E’ un corpo in carne ed ossa questo, o non è così? Non possiamo cambiarlo con qualcosa di diverso. Come poi funzioni, è un altro discorso; difficile capirlo. Io c’ero quando lui parlava... » cercò le parole giuste, ma sul più bello gli mancarono. Aveva disperatamente bisogno di qualcuno che gli desse una mano, lei era troppo bella, ogni tanto addirittura sconvolgente; non doveva perdere la testa in un momento come quello, davanti a tutti poi. Chinò lo sguardo e si mise a leggere. «...parlava, cercando di spiegarci tutte le stramberie, i tribolati marchingegni della nostra condizione umana, e che siamo fatti di parti diverse, costretti a viverci assieme a quelle parti, come separati in casa, un matrimonio abborracciato, un ramenarsi fra staccionate invalicabili, quello il nostro stato di uomini. Ed ecco poi che all’improvviso spicchiamo voli inverosimili, per subito ricadere in terra, portandoci però dietro ricordi stupendi. Ma com’è possibile essere così? Eppure, la cosa più assurda è che, pur facendo a pugni fra loro, ne hai disperatamente bisogno di queste due parti: la prigione della carne e la sconfinatezza dello spirito. Quando poi si cerca di costringere l’una alle leggi dell’altra, allora è come essere fra le mole d’un frantoio. Stai tranquillo allora che a codesto punto un qualcosa di doloroso ne uscirà fuori di sicuro.»

«Bè, questo è vero» la voce di lei s’era fatta dolce adesso, accomodante quasi. «L’amore, il filo finissimo con cui è tessuta la stoffa del vestito che ci portiamo addosso, da lassù dove ti trovi tu, puoi distinguerlo benissimo. Ma qui, amico mio, scorgi solo la superficie della nostra realtà, le azioni, le premure, le omissioni; solo quel ch’esce fuori puoi vedere. E lo giudicherai buono o cattivo; ma come siamo dentro non potrai saperlo. Non puoi vederlo l’amore! La vita ti condurrà verso colui che hai scelto, ed a lui solo riuscirai a dare quel che ti porti nel profondo. Le nostre mani non possono accarezzare tutti; per i tuoi occhi, speciale è solo uno fra i tanti.»

«Come è accaduto a te vero Maria? quando al tuo cuore lui solo era caro e noi non eravamo niente per te..», disse con acido sarcasmo. C’era dell’altro in quelle parole dette con rabbia maggiore di quanto gli consentisse il testo. Una voglia dentro di colpire, di far male. «Ma dimmi cosa ti ha attratto così tanto di lui. La sua bellezza forse?», disse con aria di sfida. La provocazione era stata violenta, e altrettanto fu il gesto con cui gettò via il copione, distante da sé. Al diavolo tutti, sembrava voler dire con quella mossa inaspettata, era giunto il momento di tirar fuori le unghie, di far vedere come stavano veramente le cose..

«Ti sembrerà strano, ma era la sua vicinanza che desideravo» rispose lei tranquilla. L’amore ha una forza delirante, una sua particolare dissolvenza con cui scorre sul profilo degli accadimenti, aspetta ad entrarci dentro, prima di farsi o fare del male; ma ha pure una caparbia volontà di sopportazione. «Avevo bisogno di sentirmi protetta, di qualcuno che avesse cura di me, di non dover più guardarmi in giro alla ricerca di chissà cosa. E a un tratto mi scoprii felice di essere così com’ero. Non condannava il mio corpo lui, non lo considerava un male se un uomo credeva di trovarci la felicità. Per molti essa consisteva nel solo possesso del mio corpo. Ma lui sapeva aprirmi mente e cuore, era un signore che scoprivo giorno dopo giorno, un uomo coi desideri d’un re e non con le paure di uno schiavo. Con lui cominciai ad intuire cosa fosse la vita, e quanto povera me l’ero immaginata fin’allora», disse tutto d’un fiato, con un’aria di rivalsa negli occhi che non gli aveva staccato di dosso per un solo momento.

«Ma come sei brava Maria! sei diventata un’altra, pari una santa...» e si sforzò di sorridere e cercava di provocarla. La rabbia che da giorni gli si rigirava dentro, trasudò da uno sguardo gonfio di rancore, e lo girava intorno in cerca di consensi;che almeno qualcuno gli desse ragione. Ma le facce dei ragazzi se ne stavano immobili in attesa del resto, curiosi di vedere come andava a finire la storia. Un’improvvisazione vera e propria quella di loro due, niente da dire, e se le stavano dando di santa ragione. «Non sarà che questa forza diversa che ti ritrovi addosso non sia voglia di potere, eh Maria?» insistette lui. «Vedi, per me il potere è stato sempre un assillo, per tutta la vita. Lo vedevo una cosa buona quando serviva a difendermi da chi mi voleva schiacciare; e, quando reagivo, allora sì che andavo avanti a testa alta. Ma era come morire per me, quando lui, che di potere ne aveva tanto, si rifiutava di tirar fuori quella sua forza. Non se n’è mai servito, nemmeno per difendersi. Incredibile.».

«Io il potere l’ho già provato Giuda. Non solo quello degli altri su di me, ma anche il mio sugli altri», e qui la ragazza si fermò. Il momento era difficile; improvvisare le riusciva meno bene che al compagno. Si chinò allora a raccattare il suo copione e, tornata accanto al fuoco, cominciò a sfogliarlo. Gettato il capo all’indietro, i lunghi capelli caddero oscillando sulle spalle, mentre cercava la luce del fuoco per illuminare la pagina che non trovava. Un ciuffo scivolava di continuo davanti agli occhi, un po’ per il vento, e un po’ perché muoveva di continuo la testa in quel lento sfogliare. Mollò allora il copione e, afferrati i capelli con la mano, se li annodò sulla nuca, mostrando per intero il suo volto. Era bella davvero Maria Maddalena, bella e sensuale, con quel corpo avvitato in una gonna lunga fino a terra. Poi, trovato finalmente quel che cercava, si mise a leggere.

«... Gli uomini passavano davanti a casa mia ogni giorno, e si fermavano per coprire il mio corpo degli avanzi della loro vita. Io sono qui a disposizione di tutti, avrei voluto dire; ma voi non siete i miei veri padroni. Mai che l’abbia detto però questo. Non mi restava che raccogliere i loro desideri, lanciare distante quei tizzoni ardenti, su una sterpaglia di rami secchi, vederli avvampare al falò delle loro passioni. In me respirate il vostro bisogno di sentirvi vivi e potenti, questo pensavo, ma sono io a darvi quell’aria e non potete farne a meno voi quando tornate ancora e ancora di nuovo, senza sosta, i corpi pregni di voglie e di sudore, un’infinità di volte a gettarvi insaziabili fra le mie braccia. In esse avete riso e pianto, osato al di là d’ogni legge, così avrei voluto dire, ed invece era solo una voce a sussurrarmi che era il sangue d’una stirpe maledetta quello che cercava il mio ventre. Ma poi quel nazareno è apparso un giorno sulla porta di casa, vestito di niente. Anche tu vuoi i miei doni? gli chiesi. Sono io il tuo dono, rispose lui. E quando lo vidi mescolarsi tra storpi e mendicanti, parlare di nuovi cieli e nuove terre, e tutto il mondo corrergli dietro per ricevere da lui niente, solo semplici parole, m’accorsi che l’impronta dello sguardo di quel primo giorno mi era rimasta appiccicata addosso. Attenuava, ma solo in parte, i dolori dell’inferno che mi s’era acceso dentro, fin da quando l’avevo visto la prima volta. Uno sconosciuto senso di colpa che mi divorava. E’ questo il tuo dono, Nazareno? avrei voluto chiedergli. Se è così allora ti avrò, giurai a me stessa, ti avrò e mi vendicherò. Fu così che lo seguii. Per sette giorni e sette notti lasciai che il suo sguardo penetrasse dentro di me. Credevo di poterlo stregare come avevo fatto con tutti gli altri, e invece, poco alla volta, l’inferno che mi portavo dentro si placò. E rammentavo la mia presunzione d’un tempo, di quanto prima mi sentissi irresistibile di fronte ad ogni uomo, di come mi piaceva vederli capitolare dinanzi a me. Una droga quella falsa identità che mi stordiva, una specie di oscura vendetta. Ma adesso questo gioco non funzionava più; quello che un tempo mi esaltava, mi dava la nausea. Avevo passato il confine al di là del quale c’era il mio stesso potere. Così, strappata la maschera, mi vidi d’un tratto come in uno specchio, nuda e inerme, stanca d’ogni gioco. Ed era l’ultimo giorno. Mi vedevo schiava del mio stesso corpo in quello specchio, non meno schiava di chi mi prendeva, perché anch’io dipendevo da esso, da una forza seduttrice che non era mia. Addio Maddalena mi dissi allora, tante volte sei morta in questi anni, ma stavolta sarà diverso. La voglia di usare i vecchi arnesi, i trucchi di prima, tornava ancora, la forza dell’istinto ci riprovava a colpire; ma la testa diceva di no. Quel meccanismo s’era irrimediabilmente rotto. Solo chi se l’è tolta la vita, come te Giuda, può capire il baratro in cui si precipita quando vien meno il terreno su cui si poggia. Tu ti sei tolto la vita una volta, ma io nel pensiero l’ho fatto un’infinità di volte! E in quei momenti, quando mi odiavo da morire, tornavo da lui, e scoprivo che quello che apprezzava in me, era proprio ciò che io odiavo. La mia impotenza di fronte al mio potere. E questa povertà dell’anima lui la vedeva identica in ogni uomo; per questo amava tanto i poveri, i peccatori, i miserabili della terra. Ed io mi scoprivo l’essere più abbietto di tutti; mi sentivo una di loro. Imparai così a capire cosa vedevano i suoi occhi quando guardavano i miei. Il mio cuore era il cuore di tutti, e voleva trasformare in amore la mia vecchia voglia di potere.

Così un giorno presi un vasetto di unguento profumato e m’avviai verso la casa dove sapevo che l’avrei incontrato. Era a tavola assieme ad altri e quando entrai, con me entrò pure la mia vergogna; m’accompagnava dappertutto quella. E c’eri anche tu Giuda, e nessuno disse niente, nemmeno tu dicesti qualcosa. Nessuno ebbe il coraggio di fermarmi quando m’inginocchiai ai suoi piedi bianchi di polvere ed io li lavai, e li unsi d’olio profumato e li asciugai coi miei capelli. Solo allora tu mi dicesti: Donna perché sprechi dell’olio così prezioso? potremmo venderlo e col ricavato sfamare qualche povero... Te lo ricordi Giuda? Lui invece disse che i poveri li avremmo avuti sempre, mentre lui no. E disse pure che il mio gesto era bello, era un gesto d’amore. Dimmi, chi sei dunque? gli chiesi di nuovo. Il tuo dono, rispose lui. Quello io sono per te».

Il ragazzo fissava adesso Maria, tutti la guardavano, ora che aveva detto quelle parole «Io sono». Come se in esse ci fosse un insondabile segreto, il nome dell’uomo. D’ogni uomo. Ciascuno dei ragazzi l’aveva udito quel suono e gli riecheggiava dentro, ed anche a Giuda era successo lo stesso. Percepì un confuso richiamo davanti alla ragazza dai lunghi capelli, che ora gli appariva diversa dal solito. Avrebbe dato la vita, e chissà di quant’altre cose si sarebbe privato, pur di farle intendere lo sfarfallio di colori che gli baluginavano dentro al solo vederla. Farle capire ch’era lei la donna che voleva accanto a sé, l’unica, e per tutta la vita. E invece era distante anni luce da lui, almeno così credeva; per questo non s’era accorta di quanto disperato fosse il suo amore, di quanto inutile ogni suo gesto.

Anche il nostro amico aveva seguito quello struggente rincorrersi di sentimenti e fantasie inespresse. S’era bevuto ogni parola e ne aveva tanta di sete, e di fame, e di voglia di riprovare su di sé quel disperante incrociarsi di passioni. Quasi credeva di vederle attraversare quel breve spazio di mondo, come fossero lì, reali, pronte ad entrargli di nuovo dentro, e poi correr dietro all’invisibile sagoma abbozzata dal vortice di faville che si staccavano con forza dal fuoco rigando l’aria di brevi bagliori, e poterla finalmente raggiungere la sua donna, al termine del viaggio. L’avrebbe anche lui cosparsa d’olio profumato e ben altro di sé le avrebbe dato, se non ci fosse quell’abisso fra loro, irraggiungibile. Come sembrava insuperabile lo spazio che divideva i due in mezzo al cerchio, ora che, uno di fronte all’altro, tacevano facendo finta di leggere ciascuno il suo copione, quasi non avessero davvero nient’altro da dirsi...

Le cose a quel punto s’erano complicate per davvero; ma Giuda aveva ancora qualcosa in serbo da chiedere. Si decise allora a farlo, con aria rassegnata alla sconfitta, ma dietro c’era anche un’infinita tenerezza che non voleva fosse notata da lei. Ne traspariva soltanto un po’, nella voce in particolare.

«Dimmi Maria, cosa t’è rimasto poi di tutto quell’amore sconfinato che un tempo sembrava non esigere niente, ma solo dare. Cosa di quell’amore che anch’io ho sempre cercato con altrettanta forza, con tutto me stesso?»

«Solo questo m’è rimasto, ma non è poco, credimi», rispose, gli occhi sul copione, la voce flebile di chi si sente vicino alla resa. «Ecco, ho compreso finalmente come esso ami i disperati, i miserabili, quelli che non hanno niente ma intuiscono quanto sia inesauribile la vita che gli manca. E la cercano allora e si consumano nel farlo, come i piedi di lui che ho unto di olio prezioso». Poi smise di leggere. C’era qualcosa di diverso nel timbro della voce, quando si rivolse direttamente a lui; ed erano sue le parole adesso. «Quei piedi per me erano anche i tuoi, e così la sua stanchezza, e la solitudine, anch’esse eran le tue. Soltanto dopo l’ho capito. Ecco, solo questo m’è rimasto. Affamati d’amore come noi due credo al mondo non ci sia nessun altro e solo chi non ha bisogno di noi può saziarci. E questo è l’amore, quello che si offre e si dona». C’era della speranza in quelle parole, qualcosa che prima lui non aveva afferrato, per stupidità, per orgoglio, o per altro ancora. O semplicemente perché non aveva capito.

«Ma questo amore io non lo vedo Maria. Ed invece vorrei toccarlo quel tuo fantastico corpo, vorrei le tue carezze, i tuoi baci...». Le si era avvicinato il ragazzo adesso, stava lì lì per prenderla. La voce, incrinata d’un tantino appena, non riusciva ad andare avanti, ma in quella pausa stava ben altro che il suo silenzio.

«Non ci devi mettere tutta quella passione Giuda. Tu, sei cattivo per antonomasia, ricordatelo» disse l’uomo dai capelli grigi. «Come pure devi ricordati che il corpo non ce l’hai. Ahimè, quelle cose non le senti più... Puoi solo pensarle». Da un pezzo li osservava senza intervenire, ma adesso s’era deciso a dire la sua. Capiva che doveva rompere quel certo filo fra i due; non andava bene per lo spettacolo. «Continua pure Giuda...».

«Tu non immagini quanta nostalgia ho per quel manichino lasciato appeso a un albero, quanto mi manchi essere uomo. D’amore in terra ce n’è tanto, ci viene incontro a ogni passo; c’è sempre qualcuno che val la pena di abbracciare. Ed io vorrei tornarci sulla terra, fare un altro giro, avere insomma un’altra occasione per riparare ai miei sbagli. Questo, se c’è un Dio giusto, mi dovrebbe venir concesso!».

E si fermò e guardava l’uomo col codino, e non s’era accorto che intanto Maria era tornata una ragazza come le altre. S’era mischiata in mezzo al gruppo, un volto fra i tanti, un ovale bianco sul tessuto della notte, identico a quelli dei ragazzi come palloncini in fila, appesi al nulla. Dietro quella facciata continuavano a rimuginare ipotesi e soluzioni, le più strampalate, e così, sul filo delle loro fantasticherie, ciascuno, a modo suo, srotolava l’ingarbuglio dei propri pensieri.

Si sentì un fischio venire da lontano, seguito da un altro. Tutti si voltarono. Era Giacomo che col braccio faceva segno di venire. Il pulmino era sempre sulla strada, ma con i fari e il motore accesi.

«La risposta te la darò di sicuro Giuda; ma dovrò prima pensarci, e per un po’. Dormirci sopra insomma. Domani sarà un altro giorno e chissà che non l’abbia una vita nuova di zecca per te. Sono dio in fondo, e le mie vie sono infinite; lo sai bene questo, no?» e gli dette una gran pacca sulle spalle.

I ragazzi intanto si erano alzati dirigendosi verso il pulmino. Il fuoco stava quasi per spengersi, quando abbandonarono il cerchio. Ma in mezzo non c’erano rimaste soltanto braci semispente ad occhieggiare con pupille di zolfo che ad ogni passar del vento si aprivano, per subito richiudersi, pigramente. Anche il nostro amico c’era. Non s’era perso una parola, e si tormentava chiedendosi se alla fin fine non fosse proprio quel Giuda lì ad aver ragione. La sua idea d’una seconda volta e magari di altre ancora, era certo difficile da mandar giù; ma essa aveva una tale suggestione, ch’era difficile resisterle, e la stessa forza del fuoco che, ad uno ad uno, s’era mangiati tutti quei ciocchi. Perché in fondo non gli pareva giusto che per un momento andato storto, uno soltanto, un uomo dovesse bruciarsi a quel modo, senza remissione, e in una volta sola, come con quel fuoco lì. Un gioco impari e improponibile. Che dio era mai questo? Un turbine di pensieri s’accavallavano uno sull’altro rigirandogli in testa come una ruota impazzita, e sui bracci di quella ruota vedeva se stesso in quell’attimo così ultimo e irrimediabile, e subito dietro l’uomo che sparava. Tornavano più volte, tutti e due insieme, roteando in cielo come su una giostra illuminata da lampadine di tutti i colori, e la gente sotto a guardare. Chi mangiava, chi rideva, chi si spingeva o non faceva niente, trascinandosi comunque per quel gran verminaio che è la folla quando va a ramengo in un giorno di festa.

Anche l’uomo che l’aveva ucciso era dunque una vittima! Solo adesso lo capiva. Perché tutti coloro che uccidono, per rabbia, amore, disperazione, vendetta, dovere, denaro, ideali, fame ed altro ancora, son vittime anch’esse, alla fin fine. Che quello era il solo modo, forse, con cui potevano dire le complicate cose che altrimenti non riuscivano ad esprimere. Artefici essi stessi del vuoto che, con quel silenzio, si erano scavato dentro, giorno dopo giorno, i giusti sentimenti timidamente schiacciati ai margini di quell’insensato spazio, muti ad osservare. Nessuno aveva mai parlato loro dell’anima, dello spirito, dell’amore e d’altre cose ancora. E allora si uccide quando s’incrina quel sottile contenitore che imbriglia l’istinto, si ruba, si fa ogni sorta di violenza. Basta un attimo soltanto. Ma perché a quell’attimo non c’è rimedio? Perché non dovrebbe esserci un antidoto alla follia racchiusa nella disperazione, nel dolore, nel terrore o nell’amore? Che poi è stato un gesto, uno e basta accidenti, e neanche finito, un punto fallato sulla trama di un tessuto integro e ordinato. Una mera intenzione, capisci? E se ogni cosa accadesse così, scesa dall’alto come la pioggia, la neve, i cicloni, i terremoti, le carestia, o la ricchezza o il successo o le luci, o la gloria, e uno non ci può far niente a tutto questo, perché allora avrei dovuto conoscere Maria, provare tutto quello struggimento, una corda agganciata al cuore con lei dall’altra parte a tirarmi, con nelle mani quella disperata forza di stare insieme, che sentivamo?

Fantasie d’amore le nostre, soltanto abbozzate e basta, senza averle mai provate dentro. Dimmi allora, questo gran turbinio di gesti, parole, colori, suoni, volti irraggiungibili, desideri, son solo granelli di sabbia di quel gran polverone ch’è stata la mia storia, una somma di coincidenze e basta? E la voglia poi di correrci dietro a questo grumo di vita con le mie incompiute vicende annodatesi intorno, anno dopo anno, simile a un cespuglio nel deserto spinto dal vento verso un’irreparabile distanza. Che senso ha, dimmi? E si vedeva vittima d’una macchina che precipitava in avanti tra un forsennato tramestio di bielle e pistoni; smisurata e infernale. Tritato da quella sua enorme bocca che bocca non era, ma una cavità senza spazio né tempo che ingurgitava tutto quel che trovava intorno. E lui e gli altri come lui, più o meno uguali, buoni cattivi, così e così, tutti uomini comunque, tutti accuratamente maciullati da quell’invincibile macchina, che pareva di vederla la caterva di storie rigirarsi in quella bocca, in un appiccicoso impasto di esseri viventi d’ogni specie, a rimescolarsi per benino.

Solo una parte amico, perché l’altra sta dietro e non la vedi. Non sai che ce n’è un’altra di parte; una dove le cose accadono, ma solo in ispirito. E’ l’altra faccia della realtà, quella; come di un’ombra su uno schermo. E su di esso si proiettano scene di un altro mondo, simili a figure cinesi che s’agitano dietro un bianco lenzuolo e che, finito lo spettacolo, quando le luci si accendono e il telo viene sollevato, li riconosci allora gli uomini che prima recitavano nascosti dentro le loro ombre.

Già, ma il ricordo di me, il mio nome, che solo quello io sono, tutto ciò che mi sono costruito intorno, gli affetti, gli amici, e lei poi, Maria, non ci sarà più. Che servirà tornare se non mi ricorderò di niente, gli veniva da rispondere. Sì ma forse la vita vera, quella che serba intatto il filo delle memorie, potrebbe esser proprio dove ti trovi adesso, e di tanto in tanto tornarci, in terra, per mettere a posto qualcosa lasciata in sospeso, concludere una storia, farla meglio magari, e poi dimenticare quel breve tratto che chiami vita, la tua vita. Che ne pensi?

Così diceva la voce, e il nostro amico pensava, e pensiero dopo pensiero ripercorreva tutta la sua vita. Presto anche lui si sarebbe allontanato da dove si trovava, come i ragazzi che stavano adesso risalendo il crinale, e giunti sulla cima del dosso s’infilavano ad uno ad uno nel portellone. Presto sarebbero partiti, per ripetere domani la scena di oggi. Altre ancora ne avrebbero recitate, chissà quante!

E fu come se gli si fossero aperti gli occhi, pensò a Giuda. Identico a lui, quando aveva risposto con quel gesto di violenza, così simile al suo. Uno tradisce se stesso in quel momento. Come chi non se la sente d’aiutare il prossimo, o non ne ha voglia, né tempo di vedere la miseria, il dolore e per comodità, per vigliaccheria si gira dall’altra parte, finendo per tradire se stesso. Fa come Giuda in fin dei conti; perché per un verso siamo identici a lui, della stessa pasta. Ma la voce gli diceva, che ce n’era pure un altro di verso; perché, nemmeno quando l’uomo appare così malvagio, lo è in fondo realmente. Cerca solo di riempire il vuoto che scava in sé, quando cerca il bene che non trova, permettendo a forze oscure d’impossessarsi di lui. E’ allora che sembra cattivo. Ne ha avuto di coraggio Giuda per gettarsi in quella notte senza stelle, perdersi in essa, morire e insieme restare vivo in quell’immenso buio. Un tempo incommensurabile. E poi, pian pianino, vedere accendersi la fiammella della nostalgia, il richiamo della terra, vederla crescere quella scheggia di luce, e intuirsi libero pur sapendosi prigioniero. Buono e cattivo allo stesso tempo.

Gli stavano racchiuse dentro quelle parti che non sapeva, bisticciavano di continuo fra loro, senza capire perché... Adesso però amava il Giuda in sé, quello che aveva tradito; grazie ad esso s’è smosso il mondo. Di certo si guardava indietro, un lungo cammino alle spalle, tutte le volte vissute sulla terra; quelle in cui sarebbe tornato. E nell’Iscariota ci vide Caino, e anche Edipo, e scopriva che la mano che aveva ucciso il fratello aveva ucciso anche il padre, e infine gli s’era rivolta contro. E’ sempre la stessa mano quella che uccide; il male che uno fa gli si rigira sempre contro alla fin fine. Il suo suicidio era dunque l’altro volto dell’omicidio. Ognuno diventa più umano e più vero, quando impara che il male che compie all’altro, gli ricadrà addosso.

E come si fosse destato da un sogno, o da un incubo, fa niente cosa fosse, il cuore gli s’allargava. E non provava più le strette feroci, né l’indefinito tormento di un tempo, quando s’aggirava inquieto, cercando, senza sapere perché. La mente d’improvviso tersa e libera, come quando sotto un albero, tra foglia e foglia ci passava il sole coi suoi raggi, una cascata di fili d’oro, ad avvolgerlo come fosse un bimbo, coprendolo di tepore e di dimenticata tenerezza. Provava allora una gran quiete in quella specie di dormiveglia, e la terra sembrava cielo e il cielo terra. E così ora. Tutto gli sembrava bello e si chiedeva perché non potesse restare lì per sempre. Come un fanciullino che non sa di ieri, che non sa di domani e sente, vuole e pensa tutto nell’attimo che vive, giocando tutto di sé in quel momento. Ogni vita come un giorno, nel tempo pensato dal suo spirito. Ogni nascita un risveglio in terra, a preparare una nuova storia per il dopo, con l’innocenza di quel che siamo stati.

Questo ha vissuto Giuda, ma anche tu riuscirai a superare i tuoi confini, ad amare, a ritrovarti libero e compiuto, diceva sempre la voce. Pensa un po’. Poter attraversare la morte, quasi fosse uno steccato da cui filtrano solo bande di luce, sottili strisciate di realtà e basta. Ebbene immagina di vederlo tutto insieme il paesaggio dell’umanità intera che sta nascosto dall’altra parte. Ti accorgerai allora che tu solo manchi, come un tempo mancava Giuda, perché nell’amore ci si appartiene come s’appartengono i rami d’uno stesso albero, perché felicità è sentirsi parti di un corpo solo. Questo diceva la voce. Se imparerai questo, l’amore ti riempirà a tal punto da strariparti dentro come un fiume, e scorrerà in mille rivoli quel fiume. E sarà festa nei boschi, nelle pianure, fra mandrie di armenti, nel ventre degli oceani, sulle cime di monti, tra le guglie del cielo, e fra le altre creature sparse per la terra.

Questo disse ancora, ma intorno il nostro amico non vedeva nessuno. Si volse allora verso la terra, e gli sembrò di vederla come una navicella sperduta in un mare, ed era invece solo cielo quello, mentre veleggiava verso il nulla. Poi, d’un tratto, eccola accendersi e splendere come un sole, ed era una enorme raggiera di luce adesso, e da lì uscivano i pensieri e le azioni di tutti gli uomini. Ma lui era lontano, troppo distante, e allungava le braccia e avrebbe voluto avere gambe cuore e sangue, per correrle dietro, salirci sopra. Ma del suo corpo non restava più niente.

A proposito di Pietro Archiati

Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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