La forza della positività

Tre conferenze tenute in diverse città della Germania,

rivedute dal relatore anche nella traduzione italiana

Collaborazione alla redazione: Letizia Omodeo Salè

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www.liberaconoscenza.it

ISBN 978-3-86772-649-8

Pietro Archiati

La forza
della positività

In tempi di sfide a misura d’uomo

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Indice

Prima Conferenza

la forza della positività

L’arte di volgere ogni cosa al meglio

(Traduzione: Irene Gelbrich Gatti)

Seconda Conferenza

scena e retroscena

della situazione mondiale

(Traduzione: Silvia Nerini)

Terza Conferenza

la lotta per la propria anima

Sulla via dell’evoluzione interiore

(Traduzione: Silvia Nerini)

A proposito di Pietro Archiati

Prima Conferenza

La forza della positività l’arte di volgere ogni cosa al meglio

Carissimi ascoltatori,

viviamo in un’epoca in cui positività e fiducia scarseggiano, ma appunto perciò vengono così cercate. Per molti, oggi, ci sarebbe motivo di crescente apprensione e preoccupazione, basta guardarsi attorno e osservare tutto quello che si presenta nella quotidianità o nella vita professionale. Probabilmente è rara la gente che può affermare in prima persona di guardare verso un futuro sicuro. Non molto tempo fa, molti erano convinti che il denaro fosse qualche cosa di affidabile degno della massima fiducia: bastava averne abbastanza e poterlo investire per incassare determinati interessi. Nel frattempo però, non sono pochi quelli che si sono dovuti amaramente ricredere, facendo l’esperienza che anche il denaro ci può tradire. Promette un aumento continuo, ma tirando poi le somme, diviene costantemente più scarso. Un’esperienza amara, ma forse anche salutare, che ci offre la possibilità di cercare qualcos’altro che sia degno di maggiore fiducia che non il denaro.

Forse faccio bene ad accennare subito a ciò che per me merita più fiducia del denaro, e questo vi renderà più curiosi rispetto alle motivazioni della mia convinzione. Ciò che a parer mio merita notevolmente più fiducia che non il denaro, è semplicemente l’essere umano. Ora molti di voi ribatteranno: “Ma questo non è vero. Le persone mi hanno più volte deluso!”. Certo, può essere senz’altro possibile che anche le persone ci deludano, ma questo non è un motivo sufficiente per negare all’essere umano la fiducia, tanto più se questa è oggi diventata un bene raro.

Un atteggiamento interiore di fiducia non si realizza da un giorno all’altro come per incanto, con un pensiero sognante; ci vuole un lungo esercizio quotidiano. Ritengo che un principio oggi diffuso nella società si possa formulare così: ”La fiducia va bene, ma il controllo è meglio” e io penso che il mio compito sia proprio di mostrare come questo “meglio”, ossia il controllo, non sia altro che una mancanza di fiducia: si vogliono controllare le persone perché non ci si fida di loro. Il mio compito sarà quindi di partire dal presupposto che la vera fiducia presente è ben poca, e di riflettere se non sia meglio per tutti noi averne di più. Sorge poi la domanda in quale modo sia possibile esercitare la fiducia nella vita di tutti i giorni e nella vita professionale, rafforzandola così di giorno in giorno.

Una prima riflessione si riallaccia al pensiero di molti, e cioè che sarebbe senz’altro bello avere più fiducia nei confronti degli altri. Questa, non sarebbe una cosa veramente positiva? Ora però faccio una affermazione che vi sorprenderà: sono del parere che non sarebbe affatto meglio se nel mondo vi fosse più fiducia! La cosa non sarebbe affatto da prendere positivamente per una ragione molto semplice: quello che già esiste, che già c’è, donato in certo qual modo dalla natura stessa, non vale un fico secco rispetto a ciò che non esiste ancora, affidando a noi il compito tutto positivo di conquistarlo in libertà. Ciò che possiamo conquistarci ci dà molta più gioia di tutto quanto ci è già dato.

Il bambino possiede la fiducia come dono naturale. Perché mai questa bella fiducia infantile scompare con l’andar del tempo? Perché l’adulto deve avere la possibilità di conquistarsela a nuovo, liberamente e in modo del tutto individuale. Questo è meglio ancora, è più positivo, perché contribuisce maggiormente alla realizzazione di sé rispetto a tutto ciò che è già nostro in partenza.

Se volgiamo uno sguardo retrospettivo ai nostri genitori, ai nonni, o a un passato ancora più remoto, scorgiamo delle persone del tutto ignare dei problemi che oggi ci affliggono. Probabilmente hanno esperito maggiore positività di noi, sicuramente avevano meno a che fare con lo stress e la nostra frenesia. Una vita sotto costante pressione per rendere di più non è il massimo della positività, e non è ciò che dà più fiducia. Certo, chi trae profitto dalla pressione alla quale sono sottoposti gli altri per aumentare la produttività non si stanca di sottolineare quanto tutto questo sia positivo. Ma questa opinione non può essere in tutti i casi condivisa da quelli che la subiscono questa pressione!

La vita pubblica, i giornali, la radio e la televisione, pongono in primo piano soprattutto ciò che è negativo; allora, proprio lì può sorgere maggiore positività. Basta aprire un giornale, lì non ci vien detto né nei titoli né negli articoli quanto amore o quanta fiducia si trovano nel mondo. Si parla dappertutto solo di guerra e di violenza. Gli argomenti positivi non sono interessanti per un giornale – e forse annoiano anche molti lettori. Anche se qualcuno viene definito un vincente, l’informazione “positiva” sarà, per quelli che hanno perso, piuttosto in chiave negativa. Qui la considerazione è la stessa: quando nel mondo esterno incontriamo molta negatività, il positivo consiste nell’offrire a ciascuno la possibilità di scoprire per conto proprio ciò che è positivo ed è presente ovunque, di metterlo in evidenza e di riuscire a crearne il più possibile nella propria vita.

Sotto quest’aspetto è solo salutare ed è del tutto “positiva” la graduale scomparsa della positività spontanea e naturale diffusa un tempo. Oggi ciascuno è libero di scoprire il senso positivo di ogni cosa e di realizzarlo nel suo agire. La vita non diventa positiva agitandosi per ciò che è negativo, lamentandosi e dicendo: “Una volta c’erano persone che non avevano bisogno della sveglia. Si alzavano di buon’ora e appena sveglie sentivano una gran voglia di affrontare la giornata. Perché mai mi servono due o tre sveglie che regolarmente metto a tacere una dopo l’altra per rigirarmi nel letto? Perché non ho la stessa motivazione, il medesimo impulso ad alzarmi e ad essere attivo? Perché mai devo frequentare costosi seminari per trovare una motivazione quando so già che la mia situazione sarà tra una settimana – al massimo – quella di oggi? Come può essere positivo tutto questo?”

Gli stimoli all’azione, gli ideali, gli impulsi volitivi creati da noi stessi, sono molto più positivi e ci forniscono molta più forza di tutto quanto ci giunge dall’esterno. Essi potranno agire più a lungo e più saldamente anche nel resto dell’umanità. Il loro effetto così rincarato richiede più tempo e un maggiore esercizio perché si realizzino in noi.

La positività istintiva, spontanea, è quella “minore”, invece la positività conquistata liberamente è quella “maggiore”. Nella vita fornisce un sostegno più vigoroso. Una persona che risveglia ogni giorno in sé tutte le forze buone, che con il suo pensare ogni giorno si riconquista a nuovo il senso della vita, si basa su convinzioni proprie e diventa sempre meno dipendente da una guida esterna, di qualsiasi natura sia. Quando trova in sé la forza di crearsi ideali sempre più belli per la sua vita e motivi sempre nuovi per il suo agire, sperimenterà la vita in tutta la sua positività. Acquisterà fiducia non solo in sé, ma anche nell’uomo ideale che si cela in ogni persona. Non metterà mai in dubbio che ogni individuo si fonda su ciò che vive in lui come capacità: il suo pensare, la sua capacità di amare, la sua gioia nel creare nell’impegno per le persone e per il mondo.

Questo ci permette di sostenere: l’essere umano è degno della massima fiducia perché in lui c’è una gran ricchezza di forze positive. Questa non subisce cambiamenti dall’oggi al domani, diversamente dalla fortuna legata al denaro o al successo esteriore. Un individuo può avere molto denaro oggi e un domani, come già detto, solo la metà. Ma una capacità umana, un talento maturato forse per lungo tempo, resta un patrimonio costante che non gli può mai venir tolto dall’esterno. Di questo ogni persona può esserne certa. Non può che meravigliare quante delle nostre disposizioni, della nostra vera ricchezza, noi lasciamo inattive. Adesso non ho il tempo di approfondire questo pensiero, lo propongo solo come pulce nell’orecchio “positiva”: ogni individuo porta in sé possibilità di sviluppo all’infinito.

Il meglio della vita, l’individuo non può trovarlo in ciò che gli viene incontro dall’esterno, in quanto gli accade, in ciò che egli trova passivamente per opera di altri. Ciò che incontro nel mondo senza la mia cooperazione non può essere per me né positivo né negativo, è semplicemente così come è. Per colui che lo ha realizzato, sì che può essere positivo o negativo, secondo quella che è stata la sua esperienza in proposito. Ciò che riguarda me stesso potrà essere determinato soltanto dal mio atteggiamento nei confronti di tutto l’esistente, dal mio comportamento in una certa situazione, che può essere positivo o negativo. Sarà positivo se giova alla mia evoluzione, se mi fa progredire, sarà invece per me negativo se col mio agire non sarò arricchito nell’anima. Il lato tutto positivo del mio atteggiamento nei confronti del mondo va cercato innanzitutto nel fatto che sono libero nel modo in cui mi rivolgo alle cose. Ciò che penso della mia situazione di vita, come la vivo e come agisco dipende dal mio libero arbitrio. La situazione stessa in cui mi trovo non potrà mai essere positiva o negativa in sé, ma solo il mio atteggiamento interiore al riguardo e quello che ne farò. Se traggo il meglio possibile da una situazione – qualunque essa sia – la mia vita non potrà essere più positiva di così. La domanda importante resta se sia davvero possibile a ciascuno di cavare il meglio da qualsiasi situazione. La risposta non può essere che una sola: è sempre possibile!

Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma no, la mia situazione è talmente brutta che mi riesce ben poco di fare quello che vorrei, quello che ritengo che sia positivo per me. Impossibile che questo sia il meglio per me!” Un individuo di questo tipo si è messo in testa che per lui sarebbe meglio trovarsi in una situazione di vita del tutto diversa, e poter fare cose del tutto diverse da quelle che gli sono realmente possibili. Solo che queste cose ora sono impossibili per lui, e l’impossibile non potrà mai essere positivo proprio perché non è realizzabile neppure in una sua minima parte. Se la presunta positività che voglio realizzare non mi è possibile qui e in questo momento, allora questa non è per me veramente positiva. Il bene impossibile è in realtà il peggio che c’è, semplicemente per il fatto che non è possibile. In qualsiasi situazione c’è un ottimo realizzabile, ed è il meglio che ci sia per me, per il fatto stesso di essermi possibile. Teoricamente può esserci naturalmente qualche cosa di meglio, ma questo, essendo per me qui e ora irraggiungibile, non potrà essere meglio per me.

Sotto questo aspetto un individuo depresso che si lamenta sempre è un semplice “teorico” il quale vive continuamente nelle astrazioni: guarda a tutte le cose per lui impossibili e non fa che lamentarsi della sua situazione. Invece di esercitare l’arte della positività e di dedicarsi a quanto sta nelle sue possibilità, preferisce guardare all’impossibile per avere una scusa per non fare nulla e per lamentarsi soltanto. Anche questo atteggiamento sgorga in fin dei conti da una sua libera decisione: potrebbe decidere anche diversamente, esercitandosi di più a guardare alle cose buone per lui possibili. Ma questo richiede da parte sua uno sforzo per metterle in atto effettivamente.

Naturalmente esistono persone, in particolare il tipo malinconico, che a questo punto avranno da dire: “La vita per me è già abbastanza faticosa, mi costa già fatica farcela a stento ogni giorno, e ora mi si presenta un tizio col suo imperativo della positività, pretendendo da me di affrontare il disagio di “dover” pensare tutto assolutamente in positivo. Quindi un altro dovere, come se non ce ne fossero già abbastanza. Preferirei essere lasciato in pace da questi missionari della positività. Che tutto quel parlare della positività suoni così logico a me non interessa per niente, perché nella vita non si tratta della logica, ma che ognuno cerchi di cavarsela come meglio può”.

Contro un’obiezione di questo stampo non c’è naturalmente niente da replicare, non essendo tanto legata alla logica, quanto alla vita. Fino a quando una persona vuole avere quest’atteggiamento, non si può che concederglielo. Solo quando comincia a esserne insoddisfatta cercherà liberamente di trovare qualcosa che la soddisfi di più. E questo è possibile – proprio per un malinconico. La positività della malinconia consiste nel fatto che ha una funzione importante nell’evoluzione umana, come tutto il resto. Non sarà certo molto positivo se il malinconico si augura d’essere diverso da quello che è, perché non può riuscirci. La positività consiste nel fatto che proprio l’atteggiamento animico nel quale ci si trova – qualunque esso sia – rappresenta per ognuno il miglior punto di partenza per cavarne il meglio. Se il malinconico è in grado di dirsi: va benissimo che io sia melanconico, ecco che egli vive nella positività. La lotta con se stesso fa parte del compito del malinconico, né più né meno che del collerico, del sanguinico o del flemmatico. Ognuno deve lottare con se stesso, perché tutti abbiamo come punto di partenza una certa unilateralità che ci dà il compito tutto positivo di avvicinarci sempre di più all’universalità. La fiducia e la positività, riferite alla persona, significano essere convinti dell’effettiva capacità di cammino di ogni uomo in tutte le direzioni, che ogni situazione offre la possibilità di andare oltre.

Può esistere una situazione dove sono chiuse tutte le porte, dove non ne resta aperta neanche una? Una situazione così non esiste mai. Ogni persona in qualsiasi situazione può creare, per esempio, mille pensieri buoni e sensati, avrà sempre la libertà di farlo – e questo sarebbe già molto positivo in un’epoca in cui i pensieri positivi sono un bene raro. Una depressione consiste in fondo in pensieri negativi – al di fuori di questi non esiste altro! La guarigione può consistere solo nel pensare pensieri buoni e positivi.

Neppure la morte è in grado di chiudere tutte le porte. Proprio quando per l’agire in questo mondo si chiudono tutte le porte, ecco che si spalancano tutte le porte per agire nel mondo spirituale. Qualcuno potrebbe dire: le porte dell’aldilà non m’interessano. Ma questo appartiene di nuovo al suo libero atteggiamento. Uno potrebbe nutrire tutt’altri pensieri sulla morte, molto più positivi. Socrate si dichiarò felicissimo di poter condurre finalmente “di là” una vita più positiva che non con quelli che l’hanno condotto a morte.

Ovviamente nessuno è in grado di ricavare il meglio da una situazione limite – per esempio in caso di una malattia grave, di una disoccupazione inaspettata o della perdita di un amico – senza essersi esercitato a lungo giorno per giorno. Di meglio non c’è che la vita di tutti i giorni per prepararsi ad affrontare proprio situazioni così gravi. Se io mi esercito ripetutamente nelle piccole cose a ricavare da ogni evento che mi viene incontro quanto è possibile, per escogitarvi la positività e agire di conseguenza, riuscirò anche nelle situazioni più difficili a fare il meglio possibile – proprio perché il meglio “possibile” non è “impossibile”.

Se ci poniamo la domanda perché qualcuno voglia fare di meglio, oppure qualcosa di più positivo di quanto gli sia concesso qui e ora, la risposta può essere una sola: questo tizio cerca una scusa per non fare quello che di fatto può. Furbo, no? Quando ci si rende conto di questo fatto, questo non può essere che positivo: capire la furbizia alla quale ricorre la natura umana e quali scuse questa può inventarsi per giustificare la sua inerzia naturale. Chi di noi non vorrebbe migliorare il mondo? Ogni riformatore del mondo però, si rende conto ben presto delle difficoltà della cosa, e così si disarma abbastanza rapidamente. Sono poche le persone che pensano a migliorare se stesse, per il semplice fatto che ciò è possibile e perché non si può trovare nessuna scusa per non farlo.

Ciascuno si trova in una certa situazione e in ogni situazione c’è un meglio possibile che può essere tratto dalla situazione stessa. Nessuno dispone di circostanze di vita diverse da quelle in cui giusto giusto si trova. Solo da queste gli sarà possibile ricavare il meglio. Per esempio: qualcuno vorrebbe che io scomparissi per qualche ora dalla sua scena. Un desiderio che posso subito esaudire! Il che non si deve necessariamente al fatto che io sia “impossibile”. Può darsi che questa persona desideri semplicemente un po’ di tranquillità. Allora la lascerò in pace. Perché mai non dovrebbe essere positivo che io scompaia per un po’, per concederle un po’ di tranquillità? Può essere molto positivo comportarsi così con sincero amore. Oppure viceversa: un amico si sente solo e desidera passare qualche ora in mia compagnia. Farò allora il possibile per accontentarlo.

Che cosa sarà per me più positivo: diradare la mia presenza o fare compagnia a qualcuno? Per una persona è positiva una cosa, per un’altra l’altra. Entrambe le volte, ossia in ogni caso, potrò comportarmi positivamente. Quanta positività può esserci in ogni aspetto della vita! Che cosa potrebbe indurmi ad allontanarmi da chi cerca la mia compagnia, oppure a impormi a colui che desidera stare da solo? Solamente il fatto che io ritenga le mie necessità più importanti di quelle degli altri. In certi casi questo potrebbe essere giustificabile. Basta considerare l’amore di sè la premessa indispensabile per amare il prossimo. Allora può essere molto positivo anche questo. In tal caso sperimento sempre più positività proprio cercando il giusto equilibrio tra amore di sè e amore del prossimo. La mia fiducia in me aumenta quando mi rendo conto di riuscire sempre meglio in questo intento.

Non esiste una maggiore positività che affrontare la situazione del momento e chiedersi: “Che cosa è il meglio che posso fare qui e ora per me e per gli altri?” Non “cosa potrei fare, se…” – ma cosa posso fare effettivamente, pensato in modo del tutto realistico. Si tratta veramente di porsi sempre nuovamente questa domanda, e di sforzarsi in ogni singolo caso per trovare il meglio possibile e per attuarlo poi davvero.

Prendiamo l’esempio dei famosi “errori”, degli sbagli che facciamo. Si possono considerare il massimo della positività! Quest’affermazione è consentita naturalmente solo a chi non sia cresciuto in Germania, perché in Germania gli errori vengono visti come qualcosa di molto grave. Per esempio, una persona tiene una conferenza che contiene migliaia di frasi e può succedere che una frase sia proprio fuori posto. Potete essere sicuri che molte persone alla fine della conferenza ricorderanno solo quella frase. La positività negli sbagli che facciamo consiste proprio in ciò che da essi si può imparare. Da un errore, però, posso imparare qualche cosa soltanto se l’ho commesso. Questo non significa che io debba fare quanti più errori possibili. No di certo, sarebbe più che sufficiente il rendermi conto di quelli che ho commesso e correggerli. Ho conosciuto persone intenzionate ad imparare una lingua straniera, ma che volevano aspettare a parlarla finché non avessero smesso di fare errori. Però, quelli che non erano disposti ad aspettare hanno fatto progressi più velocemente.

La cosa più bella nella vita è ciò che una persona impara, e ciascuno riesce ad imparare soltanto non stancandosi di provare e riprovare. Nessuno può prevedere fin dall’inizio tutte le conseguenze del suo agire. Neppure il buon Dio, si legge nella Bibbia, sapeva fin dall’inizio come sarebbe riuscita la sua creazione. Ha continuato a creare, e alla fine leggiamo testualmente: “E Dio vide che era cosa buona.” Il fatto è che per non commettere errori si dovrebbe rinunciare ad ogni attività. Questo però, sì che sarebbe un errore, dove a furia di non far nulla c’è “mancanza” di tutto! Invece di temere di commettere errori, ognuno può esercitarsi ad avere fiducia nella possibilità d’imparare da tutto qualche cosa. Questo è possibile a chiunque, ogni persona è capace di apprendere.

Guardiamo ora più concretamente all’essere umano e alla sua tripartizione – come individuo che pensa, che vive e che agisce. Esiste una particolare positività nel mondo dei nostri pensieri, un’altra nella sfera dei sentimenti e una terza nei nostri impulsi volitivi che sfociano nel nostro agire. Questa triplice positività è la base per la triplice fiducia che possiamo avere nei nostri confronti e negli altri, per il semplice fatto che ognuno può sperimentare senza alcuna limitazione la positività nel pensare, nel sentire e nel volere.

In che cosa consiste la particolare positività dei nostri pensieri? É la nostra capacità di cercare sempre in ogni cosa il senso, e di trovarlo: difatti nulla può essere più positivo di una vita condotta con un senso, e di trovare un senso in quello che ci capita e che si fa. Chi non vorrebbe trovare il senso positivo – persino in una malattia o in una prova della vita? E che cosa presupponiamo quando vorremmo trovare un senso? Supponiamo che il senso debba “trovarsi” già nascosto da qualche parte. Vediamo il nostro compito limitato semplicemente alla sua ricerca e al “trovare”, cioè scoprire questo senso. Ma non è un po’ comodo voler trovare semplicemente un senso già esistente, limitandosi a volerlo scoprire? Ritrovare qualche cosa è molto meno positivo e meno soddisfacente dell’escogitarlo! Il senso della mia vita può essere inventato solo da me, come lo potrebbe prestabilire un altro? Il senso della mia vita è il buono che riesco a far sprigionare da qualsiasi situazione nella quale mi vengo a trovare. Questo senso però non è mai preesistente, non si nasconde da qualche parte per farsi scoprire da me. Sono io in prima persona che devo crearlo. Ognuno può soltanto darsi da fare ogni giorno per donare un significato alla sua vita. Sarà sensata – piena di senso – solo quella vita arricchita dalla persona stessa in modo del tutto individuale. Non esiste persona che possa trovare il senso della vita, ognuno lo deve inventare a modo suo.

Si potrebbe obiettare: “Ma questo è difficile da farsi!”. Proprio lì sta la positività! Proprio per questo può essere sorgente di gioia dare un senso ad ogni azione. Confessiamolo pure: di cosa si può gioire di più, di ciò che riesce facilmente o di quello che non è facile? Quando viene al mondo un bambino è più felice la madre o il padre? Se il padre ritiene di essere altrettanto felice della madre è perché non è madre. Può darsi che la madre sia così carina da perdonarglielo, ma in nessun caso gli potrà dar ragione.

Prendiamo l’esempio del rapporto tra due persone. Come potrà essere di per sé sensato, senza che entrambe le persone si diano da fare giorno dopo giorno per renderlo sensato? Ciò che ieri è stato positivo per la relazione, oggi potrebbe essere nefasto. Forse conoscete la definizione dell’amore: “Amare significa dire mille volte ‘io ti amo’ senza mai ripetersi.” Questa è la positività dell’amore, la sua inesauribile inventiva.

Una relazione è ritenuta sensata da molti, se i due hanno l’impressione d’essere fatti l’uno per l’altro, di completarsi vicendevolmente. Quando però diventa difficile, ci si chiede: “forse ho scelto la persona sbagliata”. Vivere con la persona sbagliata non è sicuramente molto positivo, perciò ognuno vorrebbe “trovare” assolutamente quella giusta. Ed ecco di nuovo il trovare, il voler trovare qualcosa! Anche qui vale però il fatto che quello giusto non può essere mai semplicemente “trovato”, perché nessuno è la persona giusta, a meno che non si lavori ogni giorno su di sé per diventare quella giusta. La positività sta qui nel fatto che questo non vale solo per l’altro, ma anche per me. L’altro “trova” in me la persona giusta solo se in ogni situazione lo saprò diventare, con un comportamento positivo e grazie alla flessibilità e all’interesse per l’altro. Così renderò la relazione sempre di nuovo sensata e positiva. Acquisterò in tal modo sempre più fiducia in tutte quelle forze di cui dispongo sia io, sia l’altro.

Cercare un senso in ogni situazione della vita significa trattare con fantasia i propri pensieri. Ognuno ha la capacità di diventare nel suo pensare sempre più inventivo, proprio in base alle molte esperienze della vita, compresi gli errori fatti, indipendentemente dalla “gravità” che si attribuisce loro. Quando una persona chiede: “Che cosa debbo fare in questa situazione?”, lo fa perché vorrebbe evitare di rispondere lei, preferendo avere una risposta dagli altri. Basterebbe che riflettesse su quanto sarebbe opportuno che crei lei stessa la risposta adatta, anche se questo vuol dire sforzarsi, lottare forse per un bel po’ per trovarla. Lo sforzo è proprio la cosa migliore, quella più bella e positiva della vita. Come può un’altra persona sapere quale dovrebbe essere il mio comportamento in una certa situazione? Si tratta di un individuo completamente diverso da me e che non si trova nella mia situazione. Ciascuno può solo restare fedele a se stesso in qualsiasi situazione e agire in conformità al suo spirito.

Anche questa fantasia del “creare un senso” richiede un esercizio quotidiano. Oggi viene poco esercitata, convinti come siamo di dover fare assolutamente prima questo o quello. Corriamo dietro a un sacco di cose togliendo del tempo che servirebbe a plasmare la vita e i nostri rapporti umani in modo sempre più sensato. Pensare che i fatti esteriori siano più importanti dei nostri pensieri è semplicemente assurdo. Fare qualcosa è più facile che pensare qualcosa, intendendo per pensare più di un fantasticare a vanvera. Ho appena detto che ciò che è più difficile ci dà più gioia, rende la vita più positiva e sensata. La positività e la gioia della vita stanno anche qui nello sforzo interiore, nell’attivarsi dell’anima.

La positività della facoltà pensante, insita in ogni essere umano, si dimostra ad esempio considerando il famoso “caso” – il nuovo dio inventato dalle scienze naturali. Quando non si trova una risposta alle domande da dove, per quale motivo e perché, entra in gioco il caso. Come si verifica una catastrofe naturale? “Perché si spostano ‘casualmente’ le placche tettoniche”. L’esercizio della positività consiste in questo caso nel dirsi: parlare di caso non dà una spiegazione. Si tratta solo di un “vuoto” nel pensare. Ricorrere al puro caso offende la ragione, contraddice la saggezza operante ovunque nel mondo.

Se il minuscolo coleottero o la più piccola foglia sono pura saggezza cristallizzata, come può una catastrofe naturale essere senza ragione, avvenire alla cieca e semplicemente “a caso”, contraddicendo ogni sapienza? Com’è possibile che anche una sola persona possa perdere in un caso del genere la vita “fortuitamente”, senza spiegazione e senza motivo? In effetti, non esiste in nessun luogo il cosiddetto caso, tanto meno nella vita e nel destino umani. Il pensare ci è stato dato proprio per constatare sempre di nuovo: ogni situazione nella quale mi trovo, tutto quello che mi succede non è mai a caso, ma mi è stato destinato dalla saggezza che agisce dappertutto, perché è per me il meglio possibile – in considerazione del fatto che potrò trarne il meglio. La cosiddetta casualità nella mia vita è in realtà ciò che, nel miglior senso della parola, mi “tocca” perché meglio adatto a me. Se anche una sola volta mi succedesse ciò che per me rappresenta meno che il meglio, vivrei in una realtà dove non è possibile il meglio, per me il mondo sarebbe improvvisamente irragionevole e imperfetto. Possibile? Se dappertutto, nel mondo minerale, vegetale e animale, ogni cosa è fondata con schiacciante saggezza, quando in ogni organismo tutto armonizza perfettamente – come potrebbe essere diverso per la vita umana?

C’è ancora una cosa che ci colma di positività e di fiducia per quanto riguarda il pensare: si tratta del fatto che ogni persona ha piena capacità di giudizio in merito a tutti i campi della vita. Forse obbietterete immediatamente: “Altro che! Ci sono molti settori nei quali la capacità di giudicare resta riservata agli specialisti, per esempio la medicina, la giurisprudenza, il mondo finanziario e fiscale, gli alimenti geneticamente modificati, l’energia nucleare e così via.” Per capacità di giudizio non s’intende però che ogni uomo possa essere attivo in tutti i campi, poiché a tale scopo è indispensabile una formazione specializzata. Per capacità di giudizio si intende che ognuno, grazie alla forza del suo pensare, può valutare e giudicare l’operare degli specialisti e l’effetto di tale operare sugli esseri umani e sull’ambiente. In questo senso è possibile effettivamente a ognuno un giudizio in merito a tutti i campi della vita – anche qui si tratta solo di tenersi allenati. Avere fiducia nell’essere umano dotato di spirito pensante significa fare il possibile per favorire questa capacità di giudizio in ogni uomo e di gioire del fatto che questa capacità sia in crescita in tutti noi. Il problema non consiste tanto nell’incapacità di giudizio delle persone, ma nel fatto che chi ha in mano il potere nei diversi settori della vita fa spesso di tutto per ostacolare la capacità di giudizio degli altri, magari per non essere smascherato e per perseguire indisturbato i propri scopi. Un medico può emettere una ricetta nell’intenzione di renderla comprensibile a ogni paziente, ma può anche scriverla volendo tenere all’oscuro il paziente, rendendo cioè illeggibili le sue parole. C’è una bella differenza fra il medico che, per quanto possibile, cerca di chiarire al paziente il suo stato di salute e quello che gli propone, consigliandolo al meglio – e quel medico che invece comunica il meno possibile.

Passando dalla sfera del pensare a quella del sentimento la cosa si fa ancora più interessante. Si potrebbe affermare che la positività sia piuttosto una peculiarità del pensare, e la fiducia una peculiarità più legata al cuore e alla disposizione animica. Soltanto sperimentando la fiducia, quella originaria riposta nell’uomo come persona, la vita acquisisce tutta la sua “positività”. L’essere umano non nutre solo dei pensieri, ma anche dei sentimenti, delle emozioni, vive un mondo di esperienze interiori. Nel nostro pazzo mondo dominato più da uomini che da donne, il pensiero razionale gode di maggiore considerazione rispetto ai sentimenti, il freddo intelletto conta di più del calore del cuore. Questo fa soffrire soprattutto molte donne. Per questo può essere importante far capire un po’ ai maschi in che cosa consiste la specifica positività del cuore e dei sentimenti. La logica dell’amore è ben diversa da quella puramente intellettuale – proprio questo è ciò che molti uomini non “comprendono”. L’intelletto può afferrare soltanto il senso e il positivo di un mondo già esistente, mentre l’amore è la forza che dà fiducia a un mondo che nasce, che è in divenire e che si svilupperà completamente solo in futuro. Amare significa avere fiducia nelle inesauribili predisposizioni e capacità latenti in ogni persona.

L’immagine più bella di quella fiducia che solo l’amore può sperimentare è forse il modo con il quale una madre rivolge la sua attenzione al suo piccolo bambino. Per ora non vede nulla di ciò che dal suo bambino potrà nascere in futuro, ma ha piena fiducia che ne salterà fuori qualcosa di bello, e farà di tutto affinché il bimbo possa dare il meglio di sé. Ciò che una madre vive spontaneamente può essere conquistato da ogni persona mediante l’esercizio – con la prospettiva positiva di rendere le sue forze di amore capaci di estendersi a sempre più persone, donando loro tanta fiducia come una madre al suo bambino. Perché mai non dovrebbe essere possibile? La positività dell’essere umano e del suo sviluppo stanno proprio nell’illimitatezza, nella inesauribilità della fiducia che ciascuno può riporre nell’altro.

Qui può sorgere la domanda: come si comporta un individuo nei confronti dei suoi simili quando in lui vive un forte sentimento della dignità umana? In che cosa consiste in fondo la cosiddetta dignità umana presente in modo uguale in ognuno in quanto uomo? Consiste nel fatto che ogni essere umano è in realtà uno spirito eterno, con un lungo passato alle spalle e con un futuro non meno lungo davanti a sé. L’essere umano è non soltanto capace di giudizio per quanto riguarda tutte le cose della vita, ma può attingere dal suo spirito anche intuizioni morali o etiche del tutto individuali e nuove. In ogni situazione può sapere, grazie alla sorgente della moralità che è in lui, come comportarsi e cosa fare. Da adulto non gli serve nessuna autorità che lo guidi dall’esterno. Le leggi universalmente valide hanno per lui validità soltanto come condizioni necessarie, come premessa per poter fare ciò che la sua fantasia morale gli suggerisce per il singolo caso. Esattamente questo si vuole intendere per “individualità”, la convinzione che in ogni cuore umano, in ogni anima umana si trova una sorgente inesauribile d’intuizioni morali. Si tratta di saper attingere da questa sorgente con crescente fiducia.

Qui sorge l’altro problema: se la sorgente interiore dell’essere umano è buona, com’è che così tante persone commettono spesso e ripetutamente azioni cattive e orribili, azioni di violenza o disumane? Succede perché queste persone hanno perso il contatto con la propria sorgente interiore. Le sorgenti della moralità ci sono in ogni essere umano, ma possono essere seppellite, tanto da non vederle più e di conseguenza possono diventare inattive. Però ci sono in ognuno. La fiducia nell’essere umano si basa sulla convinzione che ognuno può sempre ritrovare la sua sorgente interiore, per quanto si sia allontanato da essa. Quando una persona ha perso di vista la bontà che si porta dentro, le giovano in modo particolare quelle persone in grado di portarle incontro la positività, e che confidano saldamente nella sue risorse interiori. Tutto questo dipende naturalmente dal nostro atteggiamento interiore. La disposizione d’animo ha un ruolo guida. La ricchezza d’animo non è qualcosa che si improvvisa. In questo campo è importante soprattutto l’educazione che una persona riceve.

Proprio nell’educazione è della massima importanza la fiducia nella persona, quando l’insegnante di fronte al bambino intride la sua anima col pensiero: “noi due non proveniamo da questo mondo fisico, non siamo affatto il solo prodotto genetico o dell’eredità; veniamo entrambi da un mondo spirituale, ci siamo prefissi un compito individuale ben preciso, che ognuno di noi sulla Terra vuole assolvere. Il nostro spirito, l’Io superiore in noi, confida del tutto in questo compito, ritenendolo il meglio per l’evoluzione propria e degli altri. Ogni persona porta in sé tutto ciò che le serve per la sua vita; non le verrà a mancare mai ciò che fa parte del suo essere. Tutto ciò che non ha, lo possiedono gli altri per lei”.

Un ulteriore motivo di fiducia, di positività, è la convinzione che tutti gli uomini insieme formano un grande organismo spirituale vivente. Essi sono creati gli uni per gli altri e si completano armonicamente tra loro come le cellule e le membra di un organismo naturale. Nel rapporto tra l’insegnante e l’alunno, tra uomo e donna, tra amico e amico le cose non stanno diversamente che nella relazione tra gli organi di un organismo. L’unica differenza consiste nel fatto che alla salute dell’organismo naturale ci pensa la natura, mentre la salute dell’organismo dell’umanità è affidata alla libertà dell’uomo.

Per quanto riguarda il sentimento della fiducia di fondo ci si può chiedere: da dove proviene la diffidenza, la paura che oggi c’è in tante persone? Forse deriva dal fatto che, senza accorgersi, la testa intelligente manda a monte i moti del cuore, nel tentativo di convincersi che la fiducia nei confronti delle persone è da ingenui. Senza accorgersi si applica il luogo comune : “La fiducia va bene, ma il controllo è meglio”.

Come facevano le persone tempo addietro ad avere tanta fiducia? Avevano la spontanea convinzione che la natura dell’essere umano è completamente buona. L’essere umano era considerato creazione di un Dio colmo di amore. Si era convinti che la forza primigenia dell’uomo sia l’amore. Oggi invece molte persone sono convinte che la forza prima dell’uomo sia l’egoismo – oppure la libido, l’istinto sessuale secondo il parere di Freud. Kant parla in merito alla natura umana addirittura di un “male radicale”. Il bene non sarebbe radicato nella natura umana, e occorre la legge per farla diventare buona. Per sua natura l’uomo vuole il male – così pensano in molti – e solo per dovere può volere il bene. La moralità è sotto quest’aspetto un addomesticamento dell’uomo che per sua natura sarebbe “selvaggio”. Mi pare che questo tipo di moralità spieghi bene la totale diffidenza nei confronti dell’uomo. É una “moralità” quanto mai immorale!

Questo ci fa anche capire perché l’antica fiducia nella natura dell’uomo sia venuta a mancare, e questo è il punto giusto per tornare a esercitare la positività. La diffidenza “spontanea” delle persone d’oggi è del tutto comprensibile, perché altrimenti non potrebbero “darsi da fare” per conquistarsi la fiducia. L’uomo d’oggi crea in sé fiducia soltanto perché ha una diffidenza da vincere. Questo è il lato positivo della cosa! Acquistare fiducia nelle persone significa “confidare” in se stessi e negli altri di ottenere ogni positività possibile. La parola fiducia è parente di fede: di quel fidarsi dell’uomo che presuppone la sua “affidabilità”. Quando si afferma di “credere” un altro capace di ogni sorta di negatività, questo è un abuso del linguaggio, perché ciò non esprime fiducia, ma al contrario sfiducia.

Quando vado incontro agli altri con poca fiducia, la reazione inevitabile, e anche conseguente, sarà la sfiducia che riceverò di rimando. Se invece mi accosto all’altro con sincera fiducia, risveglierò la fiducia anche in lui, evocando il meglio anche da lui. Molti ora ribatteranno: “Come faccio a essere sicuro che anche l’altro mi venga incontro con fiducia?” Proprio questo è il punto: posso fidarmi solo se non ho alcuna certezza che lui non approfitti della mia fiducia. É questo che voglio esercitare ogni giorno. Se dovesse capitare che l’altro approfitta della mia fiducia, potrò esercitarmi a considerare questo un problema suo, perché la mia gioia nel vivere la fiducia è più grande di tutti gli svantaggi che mi possono derivare dal cosiddetto sfruttamento.

E le grandi ingiustizie nel mondo? La fiducia è possibile anche in questo caso? Qual è qui la reazione di una sana disposizione d’animo, del buon cuore? Se una persona non si fa abbagliare dal freddo intelletto e dà piuttosto ascolto alla voce che sale dal profondo del suo cuore, dovrà dirsi: “Non è possibile che io viva in un mondo pieno d’ingiustizia. L’ingiustizia sarebbe irragionevole, mancanza di saggezza. Il mio cuore mi dice che posso avere fiducia, che tutto il bene e il male trovano il loro giusto pareggio – forse non nel breve periodo che posso osservare con la mia coscienza, ma certamente nei cicli più lunghi dell’evoluzione che gli spiriti più elevati degli uomini possono signoreggiare con la loro coscienza più vasta”. Una persona che nutre nella sua anima questa profonda fiducia nella giustizia del mondo, non la potrà “dimostrare” ad un freddo intelletto, ma resta ugualmente un fattore convincente portante della sua vita. Il cuore dell’uomo sa che ci sono delle cose che il freddo intelletto non capisce.

Ora resta solo la terza sfera di cui ho promesso di parlarvi. Dopo il pensiero e il sentimento viene la volontà e l’agire. Per non perdere il filo riassumiamo brevemente quanto detto:

Per quanto riguarda la positività sul pensare si tratta di:

• trovare il senso, e più ancora inventare il senso;

• pensare in positivo tutte le cose;

• capire che il puro caso non esiste;

• favorire la capacità di giudizio di ogni persona in tutti i campi della vita.

Per quanto riguarda il sentimento abbiamo parlato:

• della riconquista della fiducia di fondo;

• ogni essere umano è in fondo alla sua anima buono;

• la fiducia riscuote fiducia;

esiste una giustizia per tutti anche se a lunga scadenza.

Se mi concedete ancora un po’ del vostro tempo e della vostra pazienza – mi auguro vi rendiate conto di quanta positività comporti per voi questo esercizio di pazienza! – vorrei esprimere qualche pensiero anche sulla terza sfera della vita alla quale ho accennato, cioè sul volere e sull’agire. E se vi pare che la conferenza sia troppo lunga, vi prego di ricordare che per quanto riguarda il parlare stringato, questa volta sono nato nel Paese sbagliato. Ma in questo caso per voi sarà del tutto positivo il fatto che invece siete nati nel Paese giusto. Anche questo prova che tutto ha anche un lato buono. Dove si tratta del volere e dell’agire, la domanda che si pongono ripetutamente le persone è questa: “Cosa debbo fare?” Siccome i pensieri non li vede nessuno, nessuno si domanda: “Cosa devo pensare?” Lo stesso vale anche per il sentimento, per tutta l’esperienza interiore. Ma l’agire di una persona si può vedere, ha delle precise conseguenze per sè e per gli altri perciò tutti vogliono essere certi di fare la cosa “giusta”. Altrimenti gli altri potrebbero reagire in un modo non del tutto “positivo”.

Prendiamo l’esempio di una persona che vive con uno fortemente depresso o che addirittura nutre pensieri di suicidio. Ovviamente ci si chiede: cosa devo fare, come mi devo comportare con una persona così? Siccome ognuno vuole mantenere la sua libertà, quello che possiamo “fare” direttamente o esteriormente l’uno per l’altro, resta molto limitato. Possiamo metterci reciprocamente a disposizione gli strumenti esteriori della vita. Ognuno può attivarsi molto per l’altro, ma l’effetto sull’interiorità dell’altro sarà ben limitato. L’altro decide se accettare o meno l’aiuto, per quanto benevola sia l’intenzione. La cosa più positiva resta che la libertà interiore di ognuno non si tocca.

La difficoltà consiste nel fatto che consideriamo come aiuto dell’altro solo le azioni esteriori. Non ci rendiamo conto che proprio i nostri pensieri e i nostri sentimenti sono atti ad ottenere il massimo dagli altri e per gli altri, senza ferire la loro libertà. Questo vale in particolare nel caso dei bambini. Ciò che il genitore o l’insegnante fa esteriormente con il bambino, agisce sul bimbo meno di ciò che essi sono nell’animo, nel loro mondo di valori e ideali, nella loro minore o maggiore forza di amore. La stessa cosa vale nel caso di una persona depressa in lotta con pensieri suicidi e che cerchi aiuto. I pensieri a lei dedicati agiscono di gran lunga più intensamente di tutte le azioni esteriori, delle quali in fondo fa parte anche il parlarle, perché spesso anche ogni sforzo diretto a consolare o a incoraggiare con parole è vissuto come ingerenza nella sfera della propria libertà.

Forse può meravigliarvi il fatto che sottolinei di nuovo il pensare proprio in merito al volere e all’agire. Esattamente questo però fa parte della positività della vita: che l’essere umano può diventare massimamente attivo proprio nel pensare e che questo “agire col pensiero” diventa efficace anche verso l’esterno raccogliendo il maggior “successo”. Nel mondo dei suoi pensieri ognuno può fare e disfare con la massima libertà e creatività. Volere qualche cosa in fondo non significa altro che essere così entusiasti di un dato pensiero, da non poter fare a meno di trasformarlo in azione.

Supponiamo che io sia seduto in una stanza e che in quella accanto si trovi un mio amico molto depresso. Posso dedicarmi con tutte le mie forze a questo pensiero: “Ho piena fiducia in te perché vedo in te una persona colma di forze positive, non meno degli altri. La tua depressione consiste nel fatto che adesso ti è difficile pensare pensieri belli e vedere tutto il bene che porti in te. A maggior ragione voglio dedicarmi io a questi pensieri, con intensità, anche in tua vece. Ti potrà meravigliare di avere in te quanto occorre per uscire da questa depressione. Vorrei compiere per te il pensiero più importante come un’azione spirituale e inviartelo. É il pensiero che dice: «Una depressione può essere una cosa molto positiva per l’uomo. Accolta con gratitudine e perseveranza può generare delle forze che sono del tutto sconosciute a chi non è depresso. A chi può di più, si può anche chiedere di più». Tu puoi offrire per l’umanità attuale la tua sofferenza, con amore. Può essere per l’umanità l’aiuto migliore per vincere quel materialismo che considera importante solo il successo esteriore. Ogni sofferenza approfondisce l’animo. In fondo, ogni essere umano vale moralmente solo quanto ha sofferto. Quando l’uomo buono che è in tutti noi vede che abbiamo ricavato sufficiente positività da una depressione, ce ne libera. Come la guida della nostra vita sa farci entrare in quello stato, così ci aiuterà a uscirne quando sarà il momento. La nostra coscienza ordinaria fin troppo umana non ha che da attendere quanto duri la positività della depressione. Possiamo sempre confidare che nessuna depressione duri in eterno. I pensieri sono forze reali. Sono convinto che questi pensieri, pensati da me per te, siano portati a te dagli esseri spirituali che ci accompagnano e che ti diano tutta la forza che ti occorre”.

Un’enorme difficoltà percepita da molte persone riguardo al loro volere ed agire, è il sentirsi oberati, cosa di cui ci si lamenta dappertutto. Sempre più persone si sentono semplicemente stressate: “Devo sbrigare la tal cosa, non devo dimenticarmi della tal’altra, sono assolutamente responsabile della terza, la quarta mi viene richiesta, mi sono impegnata a fare il numero cinque, sei non lo voglio perdere, sette ho sempre atteso che accada e per tutto il resto non ho semplicemente il tempo”. Molti pensano persino: ”Non sarebbe una bella cosa se la giornata avesse 48 ore?” No, non sarebbe affatto positivo: per quelli che si sentono stressati, sarebbe solo un doppio stress, un raddoppio della pressione sul loro rendimento. Già arranchiamo da mattino a sera e ci lamentiamo di tante cose, quindi 24 ore al giorno sono più che sufficienti.

Ora però dobbiamo chiederci onestamente. Che cosa significa sentirsi oberati di lavoro? Significa che l’individuo si ritiene responsabile per delle cose per le quali non lo è. Nessuna persona e nessun dio possono ragionevolmente pretendere da me ciò che io non sono in grado di fare. Quello che però posso e so fare, non può essere oggetto di un’eccessiva pretesa. Basta che richiami alla memoria ripetutamente – però almeno 24 volte al giorno – il seguente pensiero: “Quello che effettivamente non sono capace o non posso fare non mi riguarda”. L’eccessiva pretesa non significa quindi mai che il mondo pretende troppo da me, ma sempre e soltanto che sono io a chiedermi troppo. Ognuno deve solo riflettere realisticamente su cosa è capace di fare nella sua situazione e di che cosa egli sia effettivamente responsabile.

Se non si è sempre in grado di valutare subito cosa ci compete e cosa no, allora fa parte anche questo della momentanea incapacità. Basta avere un po’ di pazienza con se stessi dandosi il tempo sufficiente per capire sempre meglio cosa rientra nella propria responsabilità e cosa invece no. Ci si dovrà rendere conto sempre di più che l’arte di vivere consiste nel conquistarsi l’equilibrio, quello giusto, tra le proprie capacità e le richieste altrui. Ognuno è responsabile delle necessità degli altri nella misura in cui ha le effettive capacità di soddisfarle. Altrimenti il risultato è un doppio stress che ci pone sempre di nuovo il compito di vincerlo: la persona subisce un primo stress quando ritiene di avere i talenti adatti o di doverli avere e invece non li ha. In base alla risposta degli altri – se prende sul serio la loro soddisfazione più o meno grande – egli imparerà a valutare sempre meglio per che cosa è veramente tagliato.

Il secondo tipo di stress lo vive la persona che si crede competente per tutti i bisogni degli altri. Il lato positivo sta qui nel fatto che ben presto ci si accorgerà che nessuno è in grado di soddisfare ogni richiesta altrui. Ci si può esercitare nell’avere la massima fiducia anche nei talenti degli altri, affidando a loro il compito di soddisfare tutte quelle necessità per le quali non bastano le proprie forze. Soprattutto nel cercare l’equilibrio tra i talenti propri e i bisogni altrui, non si può fare a meno di una continua sperimentazione che è alla portata di tutti, anzi, sperimentare si può ogni cosa! Ho già parlato della positività insita anche nei cosiddetti errori. Questo rende sicuramente positiva la vita e basta per avere fiducia nelle persone!

In merito allo stress, sembra che non poche persone siano convinte di essere insostituibili nel loro ambiente. Per quale motivo si danno tanta importanza? Forse hanno paura che si scopra che il mondo va avanti anche senza di loro? Questa paura cela probabilmente qualche cosa d’altro: il mondo può fare a meno del lavoro esteriore di chicchessia – anche perché tutti dobbiamo prima o poi morire –, ma nessuno può fare a meno di lavorare su di sé. La paura, della quale si diventa coscienti solo in parte, può derivare solamente dal fatto che si viene confrontati brutalmente con l’indispensabilità del lavoro interiore su se stessi, appena diventa chiaro che la propria attività esteriore non è indispensabile. Nell’epoca del materialismo si tratta di una pretesa certamente eccessiva per molti di noi! Per il lavoro da farsi sulla propria anima, non abbiamo ricevuto in sostanza nessuna formazione e di conseguenza non ci siamo esercitati molto in questo senso. Ma ecco nuovamente l’inganno quando riteniamo che questo sia un impegno eccessivo per noi, perché questo lavoro su noi stessi è sotto un duplice aspetto quello più positivo e più bello di tutti. Anzitutto ognuno lo può iniziare in qualsiasi momento e nel modo a lui più consono, e in secondo luogo è il lavoro che dà maggiore soddisfazione.

Un altro elemento che per quanto riguarda il volere e l’agire è oggi particolarmente diffuso, è la bramosia del “successo”. Ognuno vuole avere successo. Non sono poche le persone che soffrono perché hanno l’impressione di aver fallito nella vita o, peggio, perché si sentono considerati da altri come “esistenze fallite”. Si sperimenta allora non solo una pressione che riguarda il proprio rendimento, ma anche una forte pressione dovuta alle aspettative. Qui dobbiamo porci però sinceramente la domanda: cos’è il successo? La parola rivela un nesso con quello che succede, dove l’importante non è ciò che si fa al presente, ma la sua conseguenza desiderata, il successo! Questo significa però che nel presente non si potrà essere mai felici e appagati, se la felicità interviene successivamente e si spera di trovarla in un qualche momento futuro di “successivo successo”.

La vita non può essere positiva se la felicità è rimandata sempre al futuro, dovendosi accontentare nel presente della fatica che si fa per raggiungere il successo. A quest’interpretazione materialistica del successo, puramente esteriore, si contrappone un’alternativa estremamente positiva. É la decisione di sentirsi soddisfatti in ciò che si sta facendo, nel vivere ogni momento nell’amore per l’azione. Il bambino vive così quando gioca e anche ogni artista quando crea veramente con il suo ingegno. Non pensa a qualche successo esteriore, che dovrà arrivare forse solo in un secondo momento, ma vive la gioia del creare. Avere fiducia nelle persone significa soprattutto sapere che ogni essere umano è nel suo nucleo più intimo un autentico artista. Vivere come un artista ingegnoso anche nelle più piccole attività è il massimo della felicità, il più elevato successo che si può raggiungere nel corso della vita.

Naturalmente molti avranno da dire: “Va bene tutto, ma la mia professione non mi offre alcuna possibilità per realizzare questo. Sarebbe bello se avessi un lavoro che mi permette di sentirmi un po’ più libero, che mi concede più spazio di libertà. Ho soltanto la libertà di guadagnare più o meno denaro, anzi, ho solo la libertà di guadagnare sempre di più se voglio mantenere la mia famiglia. Dove sta la bella libertà dell’artista della quale qui si parla con tanta enfasi?”

Diciamo pure che la situazione sul mercato del lavoro non è sempre la migliore. Proprio lì però è sorto negli ultimi tempi qualche cosa di assolutamente positivo. Le nostre macchine, sempre più perfette, provvedono al lavoro che prima svolgevano le persone, lasciando loro sempre più tempo libero. Perfino i milioni di disoccupati potrebbero essere visti sotto un’angolatura positiva, se le persone avessero solo un po’ più di fiducia in se stesse. Se le macchine fanno sempre meglio il lavoro necessario, resta sempre più tempo libero alla persona per occuparsi del lavoro da compiere in piena libertà.

L’esercizio di una professione può subire un corrispondente cambiamento positivo. Nei tempi passati l’uomo spesso si identificava con la sua professione – realtà esteriore – che le conferiva una posizione ben precisa nella società. Oggi occorre essere disposti a sviluppare una maggiore flessibilità interiore, dedicandosi magari a varie professioni o a lavori che si susseguono, essendo diventata la professione solo il mezzo per raggiungere lo scopo. La professione è un mezzo e la persona è lo scopo, perché l’unità tra loro è andata persa. Esercitare varie professioni al servizio della vocazione interiore significa: qualunque cosa una persona faccia esteriormente, la vocazione di uomo è e resta sempre l’evoluzione interiore, che potrà essere sperimentata in modo del tutto individuale e indipendentemente dal tipo di attività.

La professione di infermiera o di madre può essere esercitata da milioni di persone, ma la vocazione interiore di ogni uomo consiste nel realizzarsi nel suo modo specifico e unico di essere infermiere o madre. La professione è cosa si fa nella vita, la vocazione è il come lo si fa. Nel Faust di Goethe si leggono le bellissime parole: “Rifletti sul che cosa, più ancora però sul come”. Non in cosa io faccio posso trovare la felicità, bensì nel come lo faccio. Avere fiducia nella persona significa convincersi che ogni individuo è una “specie” umana del tutto particolare, perché ognuno ha il suo modo speciale di fare le cose.

Fa parte del materialismo l’aver disimparato a distinguere la persona dalle sue azioni. Ciò che una persona è e ciò che fa, sono due realtà diverse. Il problema per noi consiste nel fatto che resta invisibile quello che l’individuo è – per noi è come se non esistesse –, mentre le azioni esteriori sono ben visibili. Spontaneamente identifichiamo quindi la persona con le sue azioni. La madre si comporta però diversamente con il suo bambino. Le azioni “cattive” del bambino le sono tanto più odiose quanto più grande è il suo amore per lui. L’atteggiamento materialistico comporta allora una duplice fatalità. Da un lato ci sono i “tolleranti” che riescono a tollerare l’individuo soltanto includendo anche ogni sua azione insensata e distruttiva. Questo comportamento lo chiamano ”political correctness”, e sono convinti che non tollerando le azioni non si tollera neppure la persona. Dall’altro ci sono gli “intolleranti” – più in là in occidente si parla di “tolleranza zero”. Non fanno neppure loro una distinzione tra le cattive azioni delle persone e le persone stesse, e odiano non solo le azioni cattive, ma anche le persone che le compiono. Non considerano cattiva solo l’azione o l’atto, ma la persona stessa, dividono gli esseri umani in buoni e cattivi. Quelli buoni hanno il diritto di vivere, i cattivi vanno fatti sparire.

Ora sarete curiosi di sapere quando farò la cosa per voi tutta positiva di concludere finalmente la mia conferenza! Se è stata un po’ troppo lunga rivolgete la vostra antipatia contro la mia azione abominevole, ma non contro la mia persona. In fondo era questo un po’ il senso di quanto ho cercato di dire. Si può trovare il lato buono anche in una conferenza mal riuscita, e precisamente nel fatto che gli interventi degli ascoltatori in chiave di dibattito possono essere più interessanti della conferenza stessa. Sono perciò curioso di sentire cosa avrete da dire dopo la pausa.

Seconda Conferenza

Scena e retroscena
della situazione mondiale

Gentili ascoltatori, cari amici,

desidero ringraziare le persone che si sono adoperate per rendere possibile questa serata. Mi fa piacere che siate venuti qui ad ascoltare le mie riflessioni su un argomento che ci riguarda tutti da vicino. Penso di soddisfare le vostre aspettative esprimendo apertamente le mie idee, anche se forse su alcune cose non tutti vorranno o potranno essere del tutto d’accordo. Ciò rende ancor più importante il dibattito conclusivo, che permetterà a chiunque lo desideri di esprimere altrettanto liberamente le proprie opinioni.

Per caratterizzare almeno a grandi linee la situazione mondiale, dovrò limitarmi a estrapolare solo alcuni degli avvenimenti del nostro tempo. Cercherò allora di scegliere eventi sintomatici e rappresentativi, che siano in grado di far luce su molte delle attuali vicende mondiali.

Un primo importante fenomeno, al quale ultimamente viene dato grande rilievo dai media, è il contrasto fra mondo occidentale e Islam. Verrebbe quasi da dire fra “mondo cristiano” e Islam, ma preferisco andar cauto nel definire senz’altro “cristiano” il mondo occidentale.

Ci troviamo indubbiamente di fronte a due culture e a due religioni ben distinte, che presuppongono due modi di vita completamente diversi, anche nell’organizzazione sociale. Negli ultimi tempi questi due mondi si stanno scontrando in modo sempre più violento. Ci si chiede: come andrà avanti? Che cosa si nasconde realmente dietro a questo conflitto? È possibile, se non addirittura necessario, passare dalla lettura degli eventi più esteriori e superficiali al senso spirituale più profondo di questa contrapposizione?

È indiscutibile che nell’Islam la religione, con il Corano come punto focale, rivesta un ruolo decisamente più importante nella vita quotidiana e nell’organizzazione sociale di quanto non accada nel cristianesimo occidentale. Non è un’esagerazione affermare che nei paesi occidentali, America compresa, la religione non abbia quasi più la forza di dare la sua impronta alla vita di ogni giorno. Viene infatti praticata in modo sempre più marginale, e da un numero di persone che va decrescendo.

È importante rendersi conto che nell’Islam il rapporto con Allah, il Dio onnipotente, esercita una funzione ben più incisiva di quella riservata alla Divinità in occidente. Non mi riferisco al singolo individuo, ma alla cultura in generale: ci troviamo in presenza di un occidente pressoché areligioso, molto impegnato nelle scienze naturali, nella tecnica e nella gestione del potere terreno, e che ha relegato il rapporto col divino nell’estrema periferia della vita.

Un altro sintomo è la globalizzazione – termine che non va considerato come un semplice slogan, ma come un ben preciso fenomeno del materialismo moderno, sotto cui è possibile classificare molti degli avvenimenti attuali. È infatti significativo che non siamo di fronte all’apertura delle frontiere culturali e politiche, o a una nuova solidarietà fra le genti, ma al salto del potere economico dal livello nazionale a quello multinazionale e mondiale.

La nostra civiltà è talmente orientata verso gli strumenti materiali dell’esistenza da aver globalizzato, e progressivamente uniformato, tutti e tre i settori dell’economia: produzione, distribuzione e consumo delle merci e dei servizi. L’idea che vi sta dietro è che la mondializzazione possa rendere tutto più facile, che tutti i prodotti possano cioè costare per tutti sempre di meno.

La globalizzazione ha avuto inizio con la divisione del lavoro nella fase industriale del capitalismo. Al giorno d’oggi questo spezzettamento del processo di produzione si è talmente ramificato – un paio di scarpe da ginnastica possono essere prodotte con materiale africano, tecnologia americana e manodopera asiatica –, che globalizzazione in pratica significa: stati e governi hanno possibilità sempre più limitate d’intervenire nella vita economica. Le multinazionali, i “global players”, sono in grado d’imporre le loro decisioni al mondo intero. Sorge allora la domanda: dove porta tutto questo? Vedremo che per rispondere sarà necessario occuparci del ruolo dell’individuo, del singolo essere umano.

Qui, io mi sto rivolgendo alle singole persone: non vedo affatto davanti a me un gruppo omogeneo o sfocato. Parlo a ogni singolo spirito umano perché solo quello può intendermi. Non s’è mai visto un raggruppamento di esseri umani – sia esso popolo, chiesa, azienda, o pubblico in sala – che, come un tutt’uno, sia in grado di concepire anche un solo pensiero. La caratteristica di ogni gruppo è proprio quella di non poter produrre pensieri, provare sentimenti, nutrire impulsi volitivi e compiere azioni.

Solo l’individuo può pensare, sentire, volere e agire. È più che mai necessario, oggi, rendersi conto che ogni raggruppamento genera inevitabilmente dei condizionamenti, perché la volontà di pochi singoli viene imposta a tutti gli altri. Ogni contesto lavorativo, ogni progetto culturale (l’educazione, per esempio) o religioso-confessionale, tende per natura sua a inglobare l’individuo, ad assoggettarlo ai propri scopi.

Nella misura in cui l’individuo omette di coltivare pensieri propri, di far valere i propri obiettivi, viene travolto dal rullo compressore degli interessi del gruppo. Gruppo significa infatti l’insorgere di vincoli sempre maggiori. E non può essere altrimenti, è un puro dato oggettivo: compito di ogni singolo è allora darsi da fare affinché la comunità sia al servizio dell’individuo, non meno di quanto l’individuo sia al servizio della comunità.

Sta di fatto, però, che in ogni società sono indispensabili le norme e le leggi vincolanti per tutti. E allora il male non consiste nell’esistenza di fattori universali di vincolo, bensì nell’omissione della dimensione individuale della libertà. Il male lo troviamo laddove l’individuo trascura di aggiungere, a ciò che è e dev’essere obbligatorio per tutti, un elemento libero e individuale, un apporto originale che solo lui può creare e che non deve necessariamente venire all’esistenza.

Di fronte alla pesantezza di una vita sociale piena di “mi tocca fare questo, quanto vorrei fare quest’altro”, nessuno ha il diritto di lamentarsi e di sentirsi vuoto se non si preoccupa di generare dalla propria interiorità contenuti individuali e autonomi.

Ho parlato di cultura cristiana e islamica – e concorderete con me sul fatto che questo scontro culturale fra occidente e Islam è solo agli inizi. Poi ho introdotto il termine globalizzazione con particolare riferimento all’economia. Il terzo sintomo distintivo della situazione attuale che desidero portare alla vostra attenzione è il materialismo, di cui è impregnata tutta la nostra cultura.

Se voi, cari amici, mi chiedeste: secondo te, che cosa caratterizza nel modo più oggettivo e sostanziale il nostro tempo? risponderei senza esitazione: il fatto evolutivo che ovunque nel mondo gli uomini abbiano quasi del tutto perso ogni capacità e possibilità di fare una vera esperienza del sovrasensibile, dello spirituale. Questo è il materialismo: una pesante condizione esistenziale e di coscienza, che però non va criticata come se fosse qualcosa di negativo di per sé. Il materialismo è una necessità evolutiva per l’uomo, e i suoi effetti dipendono dall’uso che ne fa il singolo.

Prima di tutto dobbiamo renderci conto che materialismo significa che l’uomo d’oggi, in particolare l’uomo occidentale, non sa che farsene del cosiddetto “spirito”, perché non sa nemmeno più che cosa stia a significare, questa parola. Al massimo sfodera un sorrisetto di sufficienza, o d’imbarazzo, quando si parla di spirito. Materialismo significa essere del tutto ignari di ciò che le generazioni passate consideravano reale – cioè il mondo invisibile, quello che non si può fotografare, né toccare, né raggiungere con lo Shuttle.

L’uomo moderno crede che sia reale solo ciò che si può percepire con i sensi corporei. Se un antico greco piombasse all’improvviso in questa nostra epoca storica e sentisse a cosa ci riferiamo quando parliamo di realtà, gli verrebbe un infarto. Per non parlare delle antiche culture orientali, secondo le quali il mondo terreno materiale era maya, era illusione, era il grande non-essere. La parola maya significa proprio: “il grande non-essere”. Per quegli uomini la realtà era lo spirito, la vita sovrasensibile, mentre il mondo fisico era solo la sua manifestazione più bassa, “condensata”, irrigidita e passeggera.

È tuttavia necessario che l’umanità attraversi questa “passata” di materialismo: solo grazie al fatto che per natura non ci è data alcuna esperienza dello spirituale, ognuno di noi è di fronte alla sfida, all’opportunità di mettersi in cerca dello spirituale in maniera del tutto libera, individuale e creativa. Ce n’è da fare!

L’evoluzione non torna indietro. L’uomo moderno, che ha formato il proprio pensiero attraverso le conquiste delle scienze naturali e della tecnica volte al solo mondo visibile, quest’uomo scientificamente istruito, non potrà più ritornare alla vecchia fede. Non sarebbe più in sintonia con il suo livello d’evoluzione quel puro credere allo spirituale, come fosse una realtà avvicinabile soltanto dall’animo, dal sentimento, e non dal pensiero, dalla conoscenza scientifica.

Finora si è dato per scontato che sia impossibile indagare il sovrasensibile con la stessa fondatezza e scientificità con cui si studia il sensibile. Quest’affermazione categorica della teologia è stata volentieri assunta dalle scienze naturali, che si sono sentite così ancor più autorizzate a ignorare lo spirito.

Visto che per la religione era una presunzione assoluta voler penetrare la realtà spirituale per mezzo del pensiero umano, la scienza ha stabilito di lasciarlo perdere e di occuparsi del mondo fisico, sicura che lì questo fantomatico spirito non ci fosse. Il materialismo è infatti l’incapacità di vivere lo spirituale nelle cose della realtà quotidiana, esattamente come se la materia fosse priva di spirito – in pieno accordo con una religione che ha collocato lo spirito fra le nuvole, a distanza di sicurezza dalla materia.

Ma cos’è lo spirito? Sembra una domanda che richieda una tale risposta stratosferica da dover rinunciare anche solo a porsela. Invece questa ritrosia indica la profonda mortificazione del pensiero umano, e si spiega col fatto storico-evolutivo che l’uomo d’oggi fatica a capire che lo spirito è la sua stessa capacità di pensare in autonomia, e di tradurre ogni conoscenza in una responsabilità morale, tutta individuale. E che ogni responsabilità diventa concreta e viva, quando egli arriva ad amarla a un punto tale da volerla riversare nelle azioni della sua vita.

Il rilievo dato all’elemento materiale e corporeo fa sì che nella coscienza dell’uomo moderno il suo spirito non rivesta un ruolo preminente, non appaia sufficientemente concreto. Ciò determina un altro aspetto fondamentale degli avvenimenti del nostro tempo: se gli uomini sperimentano solo ciò che è materiale, allora sono costretti a vivere sempre più in contrapposizione fra loro, perché una delle caratteristiche fondamentali della materia è l’esclusività, l’esclusione. Se su quella sedia sei seduto tu, non posso sedermici contemporaneamente anch’io. Se questa giacca la indosso io, non puoi adesso indossarla anche tu. Tutto ciò che è materiale si esclude a vicenda.

E allora una cultura che conosce solo la materia, che non fa più l’esperienza del sovrasensibile, porta inesorabilmente in sé un mondo in cui vige la legge del “tutti contro tutti”. A meno che non si voglia imprimere un cambiamento di rotta. Per indicare questa situazione di fondo che ci pone l’uno contro l’altro, abbiamo oggi coniato il termine meno brutale di “concorrenza”. Abbiamo fatto l’abitudine a un tipo di società dove impera il diritto del più forte, e ci sembra quasi ovvio che nella vita ognuno debba accollarsi una certa dose di stress.

La fissazione sulla materialità genera inoltre paura e incertezza – ovunque. Soprattutto paura di non farcela a tener dietro alla vita impazzita del denaro. Basti pensare all’andamento della borsa negli ultimi tempi. E il superamento della paura può avere inizio solo se capiamo da dove arriva. Dobbiamo renderci conto che a chi non fa l’esperienza dello spirito dentro di sé, cioè non riesce a vivere in modo sufficientemente energico la realtà autonoma e creatrice del proprio stesso essere, a costui non rimane altro che l’avere: il denaro, l’accumulo di proprietà e il potere.

Se oggi togliessimo a molte persone ciò che è materiale, in particolare il denaro con tutto quel che rappresenta, forse non gli resterebbe niente, cadrebbero in una vita priva di senso. Per loro sarebbe la rovina. Ma, ciononostante, nessuno ha il diritto di esortare un altro a limitarsi nei suoi guadagni, a moderarsi nel desiderio delle cose materiali.

Da tutte le parti si sente dire: le casse dello Stato sono vuote, le casse delle regioni sono vuote... Sembra che lo siano, ma in realtà molte montagne di denaro sono state trasferite in borsa. Sappiamo come si forma una montagna, in borsa. Dapprima la curva sale ripidamente verso l’alto, a zig zag verso l’alto, fino a raggiungere un culmine – la cima della montagna –, dopo di che la curva precipita altrettanto ripidamente verso il basso, e la montagna non c’è più. Questo spostamento delle montagne non è però come quello biblico, perché lì la montagna scompare davvero. Le montagne di denaro invece non si dissolvono: passano semplicemente dalle tasche più piccole a quelle più grandi, dai numerosi piccoli investitori ai pochi reali fruitori, enormemente ricchi. Dove dovrebbero andare a finire, altrimenti?

Ed ecco che, dopo che i pochi “grandi” hanno incassato abbastanza e i molti “piccoli” sono rimasti a bocca asciutta, ci vengono a dire che dobbiamo limitarci. È un’assurdità! Per l’uomo ha senso ridurre il proprio desiderio di guadagno e di possesso solo quando trova qualcosa di meglio a cui tendere.

Se mi si dice che devo contenere le mie aspirazioni materiali ma non mi si mostra niente di meglio, allora si tratta di un moralismo privo di senso: è come invitare un affamato a rinunciare a un pezzo di pane secco solo perché è secco. Se i beni materiali sono l’unica cosa di cui un uomo dispone, e si pretende che rinunci anche a quelli, cosa gli rimane? Un bel niente.

Il reale passo in avanti che io, come individuo, posso fare è quello di porre autonomamente dei limiti ai miei possedimenti materiali quando, e solo quando, avrò trovato qualcosa che mi soddisfi maggiormente. Quando mi verrà a noia una vita in cui gli averi giocano il ruolo principale, quando non vorrò più una vita del genere perché ho trovato di meglio, solo allora andrò avanti.

Il genio della lingua ci fa notare che ciò che possediamo ci possiede a sua volta, cioè ci rende dei posseduti. Che cosa vuol dire, infatti, “possedere”? Che devi star seduto sopra quello che hai per far sì che non ti venga portato via. Ma se ci stai seduto sopra non ti puoi muovere liberamente, non puoi fare nient’altro. Non puoi distogliere l’attenzione dal tuo malloppo, se non vuoi rischiare di perderlo.

Detto questo, cari amici, non ho nessuna intenzione di star qui a predicare sulla felicità illusoria delle cose materiali. Preferisco piuttosto affermare che esiste qualcosa di meglio e che è ora di scoprirlo, questo meglio. Perché chi giunge al convincimento che esiste qualcosa per cui val la pena di lottare più che per le cose esteriori, questo qualcosa vorrà andarselo a cercare da sé. La tragedia dell’odierna situazione mondiale consiste proprio in questa contraddizione di fondo: l’uomo non ha più la minima idea delle cose migliori della vita, ma nello stesso tempo egli stesso è fatto in modo da potersi sentire appagato solo dal meglio che esiste, e di cui è a conoscenza – o forse per voi non è così?

Riguardo ai retroscena spirituali delle vicende del nostro tempo dovrò essere ancora più breve – per fortuna degli ascoltatori nessun oratore riesce mai a dire tutto in una sola conferenza! È anche evidente che non mi sarà possibile far espresso riferimento a tutte le ipotesi di lavoro, e a tutti i presupposti da cui nascono le mie riflessioni – e tanto meno motivarli.

Uno di questi presupposti, come avrete certamente notato, è che noi non viviamo solo in una realtà percepibile attraverso i sensi, ma anche in un mondo pieno di Esseri spirituali. Ne era convinto già Goethe, che si sentiva in sintonia con la certezza genuina di tutte le culture passate, quella che consentiva agli uomini di non mettere mai in dubbio la realtà dello spirito. Basti pensare a Dante, a Tommaso d’Aquino, a tutta la tradizione cristiana: ovunque troviamo l’affermazione secondo cui il nostro mondo è popolato dai più svariati Esseri spirituali, sia buoni che ostili nei confronti dell’uomo.

Vanno allora ricercati anche gli scenari invisibili dell’attuale situazione mondiale: ovunque devono essere all’opera potenze e contropotenze spirituali, a favore o a sfavore della libera evoluzione spirituale di ogni singolo uomo. Se è vero che l’individuo è chiamato a diventare qualcosa di più che un semplice essere di natura, se è destinato a pensare e a volere autonomamente, devono esistere degli Esseri e delle forze che gli rendano possibile l’evoluzione sia nel bene che nel male.

Nel Faust di Goethe Mefistofele rappresenta in modo artisticamente perfetto le controforze che vengono offerte all’uomo per corroborare la sua forza. Mefistofele è lo Spirito che nega, che contraddice, che si mette sempre contro l’uomo. Dice di sé: “Io sono una parte di quella forza che vuole sempre il male e opera sempre il bene”. È infatti quel che l’uomo compie in libertà, superando gli ostacoli, ad essere decisivo per la sua evoluzione morale.

I risvolti spirituali dei fatti del mondo moderno sono la titanica lotta che si svolge a livello invisibile per la libertà del singolo uomo. E allora devono esserci Esseri spirituali “buoni”, volti a promuovere l’evoluzione di ognuno di noi, ma anche potenze avverse che fanno di tutto per limitare e ostacolare la nostra libertà. Se non avessimo ostacoli da superare, la nostra libertà non avrebbe compiti, non avremmo nulla da fare.

Gli Spiriti “buoni” sono quelli che fanno di tutto per aiutare l’uomo. Non possono dargli la libertà, perché una libertà ricevuta in dono senza essersela conquistata non avrebbe valore, non sarebbe davvero libera; essi mettono però a disposizione dell’uomo tutti gli strumenti e tutte le condizioni indispensabili affinché possa creare liberamente.

L’insieme di queste condizioni è ciò che noi chiamiamo “mondo” – ma raramente ci rendiamo conto di tutto quel che concorre a mantenerlo in vita. Consideriamo il nostro mondo come la cosa più scontata che ci sia, come se fosse in grado di reggersi da solo e noi avessimo il diritto di viverci senza fare assolutamente nulla per esso. Il materialismo vede soltanto la forma esteriore della realtà, e ignora lo spirito che gli dà l’anima e la vita. È assurdo, è esattamente come scambiare un cadavere per un uomo – cosa che del resto facciamo sempre quando in una persona percepiamo come reale solo il corpo fisico.

Ciò che avviene sulla scena di questo mondo, quel che vediamo esteriormente, è solo la manifestazione di qualcos’altro. Come la rosa che ci viene offerta in dono non è l’amore che esprime, così il mondo non è lo spirito che manifesta. Tutto ciò che vediamo è simbolo, è apparenza, è scena: la realtà che in esso vive resta invisibile. E questo io chiamo il retroscena spirituale degli avvenimenti mondiali.

Si può domandare: come faccio a distinguere gli Spiriti “buoni” da quelli “cattivi”? Per poterlo fare devo sempre sapere per esperienza diretta che cosa è buono e che cosa è cattivo per me. Non è buono che io m’inganni, per esempio, è invece buono che colga nel segno. Allora, gli Spiriti cattivi sono quelli che fanno di tutto per farmi sbagliare, per abbindolarmi; gli Spiriti buoni sono invece quelli che vogliono aiutarmi a trovare la verità. E c’è ancora un altro criterio di discernimento: io sperimento che una persona mi favorisce quando non lede la mia libertà, mentre un’altra mi danneggia quando pregiudica la mia libertà. E allora, gli Spiriti buoni devono essere quelli che promuovono la mia libertà, e gli Spiriti cattivi quelli che vogliono costringermi nell’azione.

È molto più facile, però, notare le cose a cui vengo costretto piuttosto che quelle che posso scegliere liberamente. È per questo che i giornali sono pieni di notizie su ciò che non va; le loro pagine sarebbero alquanto vuote se vi si scrivesse solo ciò che di buono fanno o possono fare gli uomini.

Partiamo quindi dal presupposto che gli spiriti ostili all’uomo agiscano contro la libertà umana. Il loro luogo d’azione privilegiato, allora, sarà quello delle forze di natura in noi, quelle che ci determinano secondo leggi prestabilite e immutabili. Questi Spiriti vorrebbero che l’uomo “funzionasse” nella sua anima e nel suo spirito con la stessa prevedibilità, regolarità e controllabilità delle leggi di natura. Vorrebbero che, come di sicuro ogni giorno l’uomo deve mangiare, bere, dormire, vestirsi, curarsi..., altrettanto di sicuro provasse sentimenti e desideri preordinati – il fenomeno della pubblicità ne è un esempio. E soprattutto vorrebbero che l’uomo impiegasse le forze del suo spirito – intelligenza, inventiva, ingegno... – solo nella direzione del mondo visibile. In una parola: questi spiriti intendono ingenerare nell’uomo degli automatismi, vogliono far di lui un vero e proprio automa.

Gli Spiriti favorevoli all’uomo, invece, – in particolare gli Spiriti dei singoli uomini, gli Spiriti dei popoli e lo Spirito del tempo attuale – fanno di tutto per aiutarlo a mettere in pratica la sua creatività individuale e responsabile. In altre parole, la legge fondamentale del loro operare è il rispetto della libertà umana: per niente al mondo vogliono interferire in essa. Anche quando nel mondo si verificano avvenimenti tragici – quelli che un certo cattolicesimo ancora chiama “punizioni divine” –, si tratta sempre delle conseguenze necessarie del libero agire dell’uomo, e mai di una violazione della sua libertà da parte degli Esseri spirituali.

Per comprendere meglio la cosiddetta “libertà”, occorre prendere in esame quel che la contraddistingue dai fatti che accadono per necessità. Innanzi tutto la necessità non può essere omessa, proprio perché non può che esserci per tutti; la libertà invece sì. Tutto ciò che è libero, per essere veramente tale dev’essere anche omissibile. Trascurare ciò che posso fare liberamente è molto più facile che intraprenderlo. Per omettere qualcosa non ho bisogno di far niente, non devo certo affaticarmi. Ma per realizzare ciò che posso scegliere in libertà devo radunare tutte le mie forze spirituali, psichiche e fisiche, e darmi da fare. Oltre a ciò che la natura compie già da sola in me, devo aggiungere il mio contributo attivo, devo fare qualcosa anch’io.

Per quanto riguarda i risvolti spirituali generali dell’attuale situazione mondiale, possiamo quindi partire dal presupposto che siano in azione uno Spirito del tempo buono e uno cattivo. Quello buono è sempre stato chiamato semplicemente Spirito del tempo, mentre quello cattivo Dèmone del tempo. Lo Spirito del nostro tempo che ama l’umanità – potremmo dirlo “filantropico” – si adopera affinché ci giungano tutte le ispirazioni che generano il bene per tutti gli uomini di quest’epoca.

È da lui che hanno origine i pensieri che ci dicono come organizzare la globalizzazione a scopo di solidarietà e di rispetto per l’ambiente. È lui che cerca di suggerire la forma davvero umana per capire e risolvere il conflitto in corso fra islamismo e cristianesimo. Tutti i compiti della nostra epoca per il superamento del materialismo sono ispirazioni e intuizioni morali che ci vengono dallo Spirito del tempo. Se il singolo individuo si sforzerà di ascoltarne la voce, capirà sempre meglio la missione del tempo in cui vive.

Il Dèmone del tempo, la potenza evolutivamente necessaria che si oppone allo Spirito del tempo, ha invece il compito di farci pervenire tutte le contro-ispirazioni. Come Mefistofele, deve esistere per garantirci la libertà di scelta. L’ispirazione preponderante del Dèmone del tempo è oggi ciò che chiamiamo “materialismo”. È lui che dice agli uomini: la materia è l’unica realtà che c’è. All’opposto, l’ispirazione preponderante dello Spirito del tempo consiste nella missione di spiritualizzare tutta la cultura, cosa che può avvenire solo se ogni singolo individuo riscopre lo spirito.

Ognuno di noi, che lo sappia o no, ha costantemente a che fare con queste due entità spirituali. Se non presta ascolto spontaneamente allo Spirito del tempo, viene involontariamente governato dal Dèmone del tempo – che ne sia consapevole o meno. L’uomo non si rende conto che vive molto di più dentro l’invisibile e lo spirituale che non fra le cose visibili.

Tutti gli Esseri spirituali hanno pensieri propri e perseguono obiettivi propri; intervengono negli avvenimenti del mondo in maniera molto più efficace di quanto l’uomo materialista dei nostri tempi riesca a vedere. Ma se ignoriamo la loro attività e la loro realtà, verremo condotti dalle ispirazioni che intendono perpetuare la cultura materialistica, e precipiteremo sempre più nel dolore, poiché la legge fondamentale del materialismo è, come dicevo, l’esclusione, l’opposizione – o io, o tu. In esso regnano il vantaggio dell’uno a scapito dell’altro, la brama di profitto e l’esercizio del potere. Lo Spirito del tempo, invece, ci aiuta ad avere rapporti sempre più umani fra di noi, e ispira tutti gli uomini nello stesso modo.

Gli Spiriti dei popoli sono invece delle entità spirituali – la tradizione cristiana li chiama Arcangeli, mentre denomina Principati gli Spiriti del tempo e Angeli gli Spiriti del singolo – che ispirano e realizzano la particolare missione di un popolo in armonia con gli altri, nell’organismo vivente dell’umanità. Ma naturalmente ci sono anche i Dèmoni dei popoli che operano per suscitare concezioni nazionalistiche, affinché un popolo si contrapponga ad altri. E così, invece di porre al loro servizio le sue peculiari caratteristiche – come fa ogni nostro organo rispetto al restante organismo –, quel popolo cerca di dominare gli altri popoli, di sfruttarli a proprio vantaggio sentendosi superiore.

Proprio attraverso l’esperienza dolorosa del materialismo, l’umanità odierna viene esortata a rendersi conto che sullo sfondo spirituale degli avvenimenti mondiali agisce non solo una schiera di Spiriti dei popoli, ma anche una schiera di Dèmoni dei popoli. Nel caso in cui le parole “Spiriti” e “Dèmoni” non vi piacciano, cari ascoltatori, ne potete certamente scegliere altre. Qui non si tratta di parole, ma di realtà, di Esseri reali e della loro azione molto concreta e riconoscibile. Si tratta di cominciare a prendere sul serio la loro esistenza, perché l’uomo d’oggi ne ha troppo poca coscienza.

Un gruppo etnico agisce in modo antiumano quando non tiene conto dei due massimi valori umani: l’individuo nella sua libertà e l’umanità intera quale unico organismo. È buono il popolo che si pone al servizio del singolo e dell’umanità; agisce in modo demoniaco il popolo che strumentalizza il singolo per nuocere all’umanità. Grazie a questo fondamentale criterio è possibile distinguere le ispirazioni provenienti dallo Spirito di un popolo da quelle provenienti dal suo Dèmone.

Per capire sempre meglio che cosa serve all’individuo per evolversi, occorre conoscere sempre più in profondità l’essenza dell’uomo. La strumentalizzazione del singolo operata da un gruppo in cerca di potere – sia esso un popolo, una chiesa, un’istituzione, un’azienda... – costituisce la quintessenza del male. Ogni raggruppamento che si serve del singolo individuo per raggiungere i propri scopi non potrà mai essere al servizio dell’umanità. Considererà se stesso come fine e vorrà sfruttare non meno l’umanità intera per i propri interessi.

La massima del nazionalismo e del Dèmone di popolo – e anche quella di ogni esercito – dice: “Tu non sei nulla, il tuo popolo è tutto!”. Quando invece ascolta lo Spirito buono del suo popolo, il singolo può dire: com’è bello che il mio popolo possa offrire il suo particolare contributo (la sua lingua, per esempio) all’arricchimento di tutta l’umanità, quel contributo che nessun altro saprebbe dare. Senza il mio popolo l’umanità sarebbe più povera, tutti gli uomini sarebbero più poveri. In questo modo il mio popolo esprime amore nei confronti del genere umano.

Possiamo quindi dire che l’ispirazione di tutti gli Spiriti di popolo è l’amore per l’intera umanità, e che ogni Spirito di popolo ama e apporta doni in modo diverso. Per poter fare questo, lo Spirito del popolo deve anche conoscere molto bene il compito specifico di ogni membro all’interno della missione del popolo stesso.

La concezione nazionalistica, nel cui nome un uomo si sente superiore agli altri in virtù della sua appartenenza a un determinato popolo, comporta le stesse tragiche conseguenze che sperimenteremmo se un organo qualsiasi del nostro corpo si ritenesse migliore degli altri, e cominciasse a rafforzarsi a loro danno. Nell’organismo non ci sono organi migliori o peggiori, superiori o inferiori, ma solo organi indispensabili. Lo stesso vale per tutti i popoli della terra.

Sulla scena spirituale del mondo, allora, lo Spirito e il Dèmone del tempo offrono all’uomo l’occasione evolutiva di scegliere fra materialismo e spiritualizzazione della cultura. Gli Spiriti o i Dèmoni dei popoli offrono la scelta fra nazionalismo e cosmopolitismo. E quale sarà l’apporto specifico dello Spirito del singolo, di cui dicevo prima?

È questo lo Spirito che sovrintende all’evoluzione del singolo uomo e che la tradizione chiama Angelo, o Angelo custode. E naturalmente ciascuno di noi ha anche il proprio Dèmone, il proprio Diavolo personale. Compito di questi due opposti Spiriti è permettere all’uomo di scegliere fra il lasciarsi trascinare dalla natura e l’agire in modo libero, individuale e creativo. L’ispirazione del Dèmone individuale è l’egoismo, quella dell’Angelo protettore è il superamento dell’egoismo mediante le forze dell’amore.

In questo modo abbiamo individuato le tre grandi sfide lanciate alla libertà umana: il superamento del materialismo come compito fondamentale del nostro tempo e che riguarda tutta l’umanità, il superamento del nazionalismo come compito di ogni popolo, e il superamento dell’egoismo come compito del singolo individuo. È importante però capire che né l’umanità in senso generale né alcun popolo come gruppo possono comprendere e affrontare questa triplice sfida: solo il coraggio del singolo lo può.

E allora, se mettiamo insieme gli elementi della scena visibile e quelli del retroscena invisibile della situazione mondiale attuale, ci accorgiamo che in questo periodo è in corso una colossale battaglia per la libertà dell’individuo singolo. E mi sembra che questo sia il fattore più importante del nostro momento storico. Sia nel mondo sovrasensibile che in quello sensibile infuria da decenni, se non da secoli, la più grande battaglia di tutta l’evoluzione: la lotta per le sorti della libertà dell’individuo. Gli Spiriti favorevoli all’uomo desiderano promuoverne l’evoluzione, quelli a lui ostili lo vogliono intimidire per asservirlo ai loro voleri.

Riguardo a questi ultimi, ci basti pensare a tutto quel che viene fatto per mantenere in vigore due dogmi basilari della nostra cultura. Il primo dice che il singolo è capace di giudicare solo nell’ambito della sua specializzazione; il secondo afferma perentoriamente che l’uomo è del tutto condizionato, non può agire con libertà e autonomia in nessun campo, perché è sottomesso a ogni genere di costrizione.

Sapete senz’altro che cos’è uno specialista. È qualcuno che ne sa sempre di più in un settore sempre più limitato: tanto il suo campo di ricerca si restringe, tanto si approfondisce. E lo specialista perfetto è quello che sa tutto... di niente!! (Ilarità in sala).

Non c’è niente che riesca a intimidire l’uomo come questo dogma secondo cui egli non è capace di giudizio in quasi nessun ambito della vita, e quindi non è autorizzato a dire la sua. Viene zittito: se non hai studiato tutto ciò che sanno gli specialisti, non ha senso che tu intervenga nella discussione. È un qualcosa di profondamente disumano, questo, di assolutamente “demoniaco”, giacché proprio il contrario è vero: ogni spirito umano è stato creato per diventare sempre più capace di giudizio in tutte le cose che riguardano la vita umana. Certo, nessuno ha le conoscenze professionali necessarie per lavorare in molteplici settori, ma ciascuno ha sufficiente esperienza dell’umano per valutare se ciò che fanno i vari specialisti è buono o non è buono per lui e per l’umanità.

E che dire, cari ascoltatori, dell’impotenza per quanto riguarda l’economia? Ovunque – sui giornali, in televisione, alla radio – troviamo rassegnazione e depressione, dappertutto vediamo crescere la paura perché sempre più persone si dicono: io non conto niente. Già faccio fatica a capire come vanno le cose, figuriamoci se posso modificarle. Mi trovo di fronte a potenze gigantesche: non si tratta solo del colosso americano, ma anche delle grandi multinazionali da cui dipendono economicamente innumerevoli persone. Mi sento come Davide davanti a Golia. Che cosa posso fare? Un bel niente. E dunque non mi rimane che rassegnarmi.

E cosa ne dicono gli Spiriti buoni? Lo Spirito del tempo, lo Spirito del popolo e lo Spirito individuale dicono: cari uomini, proprio perché siete uomini, ognuno di voi ha la capacità di giudicare ogni cosa che riguarda l’umano. Ciò che vi rende capaci di giudicare l’operato di un medico non è una laurea in medicina: osservando il modo in cui questo medico lavora, siete sicuramente in grado di farvi un’idea dell’efficacia del suo agire sugli uomini.

Nessuno ha bisogno di una biblioteca medica per sapere se il suo medico va bene o no, per lui. Le nozioni tecniche sono necessarie per lavorare nel proprio campo, ma ogni essere umano è dotato di capacità di giudizio per valutare le conseguenze di ciò che fanno gli esperti. Il problema, allora, non è la mancanza di capacità di giudizio, bensì la volontà di ostacolarne la formazione – sono già abbastanza numerosi gli specialisti che fanno di tutto perché il loro lavoro non possa essere capito e penetrato. Un medico può facilmente scrivere una ricetta in modo da non far intendere nulla al paziente – e gli fa comodo dire sbrigativamente che tanto non ne capisce niente, di medicina.

Prendiamo l’esempio della responsabilità nei confronti dell’ambiente: ognuno di noi è in grado di giudicare ciò che stiamo facendo alla Terra e ai suoi prodotti alimentari manipolando le forze della natura. Ogni uomo, proprio in quanto uomo, è capace di giudicare queste cose! Ma se trascuriamo di coltivarla ogni giorno, questa capacità – perché di certo non nasce da sola –, vuol dire che siamo pigri nella mente e nello spirito. L’uomo non è responsabile solo dei suoi comportamenti disumani, ma anche del bene che potrebbe fare e che omette di fare. Di questo fa parte in primo luogo la responsabilità morale per la qualità del suo pensiero, cioè per la sua capacità di giudizio.

La seconda intimidazione dice all’uomo: visto che nel pensiero non hai capacità di giudizio, nel volere e nell’agire sei impotente. Tutti sono esposti a questa specie di terrorismo, e ciascuno si deve chiedere: qual è il senso di queste controforze che vogliono paralizzarmi nel pensiero e nell’azione?

Il senso positivo sta nel fatto che contengono una duplice sfida. La tentazione di Mefistofele che mi dice: “Non sei capace di giudizio” – “tentazione” nel senso che è comodo ritenersi esonerati dal dover dire la propria –, mi offre al contempo la possibilità di esercitare davvero la mia opposizione. E nel profondo, io proprio questo desidero. Per poter superare una tentazione, consolidando così le mie forze, è necessario che la tentazione ci sia; io devo assolutamente venirle esposto. Davanti ai tentativi intimidatori non mi limiterò a coltivare la mia forza di conoscenza, ma farò anche tutto il possibile perché altri progrediscano nella loro. In ogni situazione cercherò di mettere a disposizione degli altri il maggior numero possibile di parametri di valutazione, senza tuttavia voler imporre i miei giudizi.

E per quanto riguarda la libertà d’azione, ognuno deve capire che non è possibile essere liberi, non è possibile agire e plasmare in autonomia la propria vita, senza pagare un prezzo. Chi non ha la forza di superare il materialismo dentro di sé, non potrà diventare uno spirito libero. Non è possibile ritenere prioritarie cose esteriori come il potere, il possesso, la posizione sociale, il denaro, ed essere anche interiormente liberi. La libertà d’azione può essere ottenuta solo con una scelta: o la cosa che più mi sta a cuore è lo sviluppo delle mie capacità e dei miei talenti, oppure è il denaro, la carriera. Nessuno può servire due padroni. Tutto va per il meglio quando si è disposti a rinunciare volentieri ad alcune cose materiali, dal momento che ciò che si consegue in tal modo è infinitamente più bello e ci rende molto più felici.

Ora desidero illustrarvi, basandomi sulle tre religioni monoteiste, quella che ho chiamato la lotta spirituale per la libertà dell’individuo, per l’individualismo etico – cioè per la reale possibilità del singolo di concepire e realizzare le proprie libere decisioni morali. E così facendo ritorniamo al conflitto fra mondo occidentale e Islam.

Nell’umanità sono presenti tre religioni monoteiste che possono essere ricondotte ad Abramo: l’ebraismo, il cristianesimo e l’islamismo. Esse hanno in comune l’affermazione: esiste un solo Dio. Qual è il loro senso? Gli antichi Greci veneravano un mucchio di Divinità: non erano certo monoteisti, bensì politeisti. L’ebraismo è sorto proprio in contrapposizione al politeismo dichiarando che non ci sono molti dèi, ma che esiste un solo e unico Dio: Jahvè.

Nel corso dell’evoluzione il monoteismo è nato perché l’uomo ha fatto l’esperienza di essere un Io. Finché l’umanità si trovava al suo stadio infantile, l’uomo si viveva come anima, non ancora come spirito individuale e caratterizzato dall’Io – e ciò vale ancor oggi per ogni bambino. Nell’anima di ogni essere umano, però, adulto o bambino che sia, si muove una molteplicità di desideri, istinti, passioni, sentimenti, emozioni... In questo senso ogni anima è “politeistica”, è il riflesso umano di una varietà infinita di forze e d’impulsi divini che l’attraversano, comparendo e scomparendo in un variopinto disordine. Più l’uomo procede nella sua evoluzione, più fa l’esperienza di viversi non solo come anima ma anche come un Io, come uno spirito unitario, e più diventa capace di dominare le diverse forze della propria interiorità, di metterle tutte d’accordo.

L’Io è l’elemento unificante perché è la mente stessa dell’uomo, è il suo spirito che pensa. L’Io può armonizzare tutte le forze dell’anima perché le vive come un appello a lui rivolto, come una tensione che lo chiama sempre in causa. L’uomo in quanto anima è passivo, assorbe e subisce; in quanto spirito diventa attivo e capace di proporre. Come anima viene guidato, come spirito assume la guida di se stesso. Come anima è ancora legato al gruppo, come spirito diventa un individuo. Come anima gli basta credere, come spirito cerca anche la conoscenza. Come anima si aspetta che tutto gli arrivi per grazia di Dio, come spirito si assume la sua parte di responsabilità. Come anima viene manovrato, come spirito è libero.

L’uomo che si vive come Io “monoteistico” non sarà più disposto a dire: non posso farci niente; cercherà piuttosto d’individuare gli ambiti in cui può intervenire. Non dirà più: il prossimo mi fa arrabbiare, mi dà sui nervi; dirà invece: io mi arrabbio, e così come mi arrabbio posso anche farmi passare la rabbia. Non potrà più dire: qualcosa da fuori ha agito dentro di me e mi ha mandato in collera; oppure: è la natura che suscita in me questa emozione. Ma si dirà: io stesso sono responsabile di tutti i miei pensieri e sentimenti, e anche delle mie azioni.

Nel momento in cui, nel corso dell’evoluzione – e dapprima nell’ebraismo, come la storia documenta –, l’uomo ha cominciato a viversi come spirito individuale e non solo come anima, ha con sicurezza attribuito questa meravigliosa caratteristica anche alla Divinità, dato che ogni uomo si è sempre sentito creato a immagine e somiglianza del suo Dio. Finché ha vissuto in sé l’esperienza di essere un’anima piena d’impulsi diversi e anche contraddittori, ha cercato l’origine divina di ognuno di essi – e così in Grecia, tanto per fare un esempio, ne è scaturito un movimentato Olimpo. Un’invenzione? No. Davvero l’uomo di quei tempi era mosso da molteplici Esseri divini, senza un reale “coordinatore” unitario – perché Giove, lo sappiamo bene, aveva il suo bel da fare a governare in casa sua, tra una saetta e l’altra!

Non appena però l’uomo ha cominciato a viversi come “monomio”, come Io, è passato a una concezione monoteista della Divinità. La nascita del monoteismo esprime e suggella che l’uomo ha coscienza di essere uno spirito creativo individuale. È per questo motivo che nelle tre religioni monoteiste imperversa più che in ogni altra la lotta per la libertà dell’individuo, di cui abbiamo parlato prima.

Nell’ebraismo e nel cristianesimo la Divinità monoteistica non è del tutto sola: nell’ebraismo è strettamente collegata al “Messia” promesso e atteso, e nel cristianesimo al “Cristo”, al Figlio che si è incarnato. Perciò il Corano di Maometto, comparso nel settimo secolo dopo Cristo, non ha potuto ignorare questo “Figlio di Dio”, ma ha dovuto prendere posizione nei suoi confronti. E allora in una delle affermazioni fondamentali del Corano dice: “Allah è l’unico e non ha nessun figlio”. Questa negazione del “figlio” si riferisce palesemente al Figlio di Dio di cui parlano i Vangeli cristiani.

Il concetto di Messia, del Figlio di Dio, si rifà al mistero dell’uomo. Ogni uomo è “figlio di Dio” nel senso che nell’umanità e nel singolo la Divinità ha realizzato il suo miglior “prodotto” – per quel che riguarda il nostro mondo. È per questo che l’affermazione fondamentale cristiana sul Figlio di Dio è che Egli si è fatto uomo. Il Cristo ha sempre preferito definirsi “Figlio dell’uomo”, ad indicare che anche l’uomo è destinato a “produrre”. Nel Vangelo viene detto che Dio manda suo Figlio nel mondo, e questo significa affidare all’uomo una missione autonoma.

Ecco allora che tutte e tre le religioni monoteiste ruotano non solo intorno all’unico Dio, ma soprattutto intorno alla questione su come si debba intendere l’uomo in quanto “figlio di Dio”. Tutto culmina nella domanda: qual è il rapporto fra l’onnipotenza di Dio e la libertà dell’uomo? E da questa ne conseguono altre, di domande: a che scopo il Dio unico e onnipotente ha creato l’uomo? L’ha creato per tenerlo eternamente a freno, come fa con tutti gli esseri di natura – pietre, piante e animali? La Divinità agisce anche nell’uomo con la stessa prevedibilità delle leggi di natura, oppure nel suo infinito amore ha deciso di dare all’uomo libertà di pensiero, di sentimento e di volontà? Se è vera quest’ultima ipotesi, la Divinità deve allora aver liberamente rinunciato all’onnipotenza e all’onniscienza nell’interiorità dell’uomo. Solo così può rendere possibile e reale la libera creatività umana.

In una traduzione moderna e comprensibile a tutti la frase cristiana “Il Padre manda il Figlio” significa: la volontà della Divinità è che l’uomo sia un essere responsabile, dotato di Io e creatore. Oppure, per dirla nel linguaggio delle scienze naturali: il senso della necessità di natura (il Padre) è che ad essa si aggiunga la libertà umana (il Figlio). Il determinismo di natura non ha lo scopo d’impedire la libertà umana; al contrario, il suo scopo è proprio quello di fungere da condizione necessaria e base di partenza per lo sviluppo della libertà dell’uomo.

Il materialismo culturale che viviamo qui in occidente è il punto zero del cristianesimo, il suo temporaneo fallimento. Le scienze naturali, uniche sovrane, hanno stabilito il dogma laico per cui ovunque è all’opera la necessità di natura, e la libertà umana non è che un’illusione. L’onnipotenza di Dio è stata soppiantata dall’onnipotenza della natura, ma la conseguenza fondamentale per la nostra vita non cambia: in entrambi i casi ne risulta l’impotenza totale dello spirito dell’uomo.

Viste in questo modo, le scienze naturali dei paesi occidentali cosiddetti cristiani sono molto più islamiche che cristiane. Presumono l’onnipotenza assoluta del Dio-Natura. E la teologia cristiana, dal canto suo, ha prosperato per duemila anni sulla paura della libertà umana. Ci siamo abituati a chiamare cristianesimo questa tradizione, ma in sostanza non ha niente a che spartire con lo spirito del Cristianesimo vero.

Il singolo “cristiano”, però, potrebbe dire: ma che bella cosa che il cristianesimo come fenomeno religioso di gruppo sia giunto a questo punto zero! Solo così, infatti, l’individuo ha la possibilità di far vivere dentro di sé, e di propria iniziativa, lo spirito cristico in modo nuovo e individuale. Il senso della morte culturale del cristianesimo è la sua rinascita e resurrezione nello spirito del singolo.

Le scienze naturali odierne sono pervase dallo spirito del Corano – Dio è onnipotente e la libertà dell’uomo non esiste –, e non hanno la più pallida idea dello spirito cristico. Che l’uomo sia dominato da Dio, da Allah o dalla Natura non fa nessuna differenza.

Perché il Cristo si è definito “Figlio dell’uomo” e non “Figlio di Dio”? Perché prima di Lui c’erano già stati abbastanza figli e figlie di Dio, persone che si vivevano come pure creature, e per le quali solo l’operare della Divinità contava qualcosa. La domanda più importante, allora, quella decisiva per la libertà umana, è se nell’evoluzione successiva al Cristo cominceranno a esistere anche figli e figlie dell’uomo – esseri umani che si assumeranno la loro parte di responsabilità per l’evoluzione della Terra e dell’umanità.

Andiamo ora a osservare più da vicino le tre affermazioni fondamentali dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islamismo riguardo al Figlio. La parola ebraica Messia significa l’Unto, e la parola Cristo ne è la traduzione letterale greca. In entrambi i casi si tratta di un’entità d’importanza centrale per l’evoluzione, inviata all’umanità da Dio.

Fino ad oggi l’ebraismo ha affermato: il Messia non è ancora arrivato.

Nel cristianesimo, invece, è valsa finora l’affermazione opposta: il Messia, il Cristo, è già venuto duemila anni fa, ha attraversato la morte e da allora vive da risorto nel mondo spirituale.

E infine il Corano dichiara: questo Messia, come inviato di Jahvè, e questo Cristo, come Figlio di Dio, non esistono. Allah è l’unico e non ha figli.

Cari amici, sono costretto a sintetizzare; se avessi più tempo, certo potrei spiegare le cose in modo più dettagliato. Ma ammettiamo che Maometto, come profeta dell’Islam e come uomo, abbia avuto la legittima preoccupazione che la Trinità cristiana potesse costituire una minaccia per il monoteismo. In essa si poteva ravvisare il rischio di una ricaduta nel politeismo. Forse Maometto riteneva che “la generazione del Figlio” – come si dice nel credo cristiano – potesse venire interpretata in modo troppo materialistico. Come fa un Dio a diventare padre? Non è possibile. Può darsi che questi pensieri abbiano giocato un ruolo nell’uomo Maometto.

Ma qui mi preme parlare di qualcos’altro, e precisamente della fonte d’ispirazione del Corano, da Maometto chiamata “Gabriele”. La domanda importante è: che intenzioni ha questo Gabriele, visto che ha ispirato a Maometto la frase fondamentale “Allah è l’unico e non ha nessun figlio”? Questa ispirazione può servire soltanto a portare nel mondo la controforza necessaria al Figlio, giacché la frase nega direttamente ed esplicitamente l’esistenza del Figlio di Dio, del Cristo. Ho già accennato a come il compito delle controforze non sia di per sé né buono né cattivo, ma semplicemente necessario per l’esercizio della libertà umana. Se non ci fosse il Corano con la sua negazione del Figlio, all’umanità mancherebbe un’importante controforza per l’operare di questo Figlio. E l’uomo non potrebbe scegliere tra forza e controforza, non potrebbe esercitare la propria libertà. È esattamente questo il ruolo di Mefistofele nel Faust di Goethe.

Non sono la forza o la controforza ad essere buone o cattive: solo l’uso che ne fa l’uomo può essere per lui buono o cattivo. Per l’uomo è un bene entrare in contatto con le potenze ostili all’umanità e contrarie alla libertà, se riesce a smascherarle e a intraprendere un’azione contro di loro. È invece un male se si lascia “abbindolare” da esse, e si consegna completamente alle forze onnipotenti della natura, senza esercitare la sua libertà. Questo farsi ingannare non è tuttavia imputabile alle controforze, ma solo alla libertà umana: l’inganno comincia precisamente quando l’uomo pensa che la sua libertà sia un’illusione. Se pensa questo, è già stato abbindolato – e le potenze ostili possono prorompere in una risata di scherno. Come Mefistofele, possono convincersi di aver vinto la scommessa con Dio sulla libertà umana.

Adesso mi domanderete: quale di queste tre religioni ha ragione? Il cristianesimo, che dice: “Il Messia è già venuto”; l’ebraismo che dice: “No, non è ancora venuto”; o l’islamismo che dice nel Corano: “Allah non ha nessun figlio”?

E la mia risposta è: hanno ragione tutt’e tre! La loro lotta reciproca deriva dal fatto che tutt’e tre si sono lasciate ingannare dalle controforze, e non riescono a vedere che ciascuna loro affermazione è fondata solo se accetta e fa sue anche le altre due. Detto in un altro modo: sia il cristianesimo, che l’ebraismo, che l’islamismo hanno vissuto fino ad oggi una tragica unilateralità. Il “peccato originale” intellettuale dello spirito umano è sempre l’unilateralità. Tutti gli errori non sono altro che unilateralità di pensiero.

Adesso sarete sicuramente curiosi di sentire come faccio ad armonizzare delle affermazioni così contrastanti. Niente di più facile! Se vediamo l’evento del Messia, del Cristo, come fatto storico, oggettivo e valido per tutti, allora è vera l’affermazione del cristianesimo: questo Essere spirituale, questo “Figlio di Dio”, si è fatto uomo duemila anni fa, ha “piantato la sua tenda” sulla Terra (come viene detto nel Prologo del Vangelo di Giovanni) e ha fatto l’esperienza della morte, come ogni uomo. Da allora, ogni spirito umano nel corso della propria evoluzione dovrà e potrà, prima o poi, prendere posizione rispetto a questo fatto storico.

Ma il senso di questo evento non è solo ciò che il Cristo ha compiuto per tutti duemila anni fa, ma anche ciò che il suo operare ha reso e rende possibile alla libertà di ogni singolo individuo. Il punto zero del cristianesimo d’oggi consiste proprio nell’aver perso quasi completamente di vista l’annunciato ritorno del Cristo, avendo preferito concentrarsi solo sulla sua prima venuta. Il ritorno del Cristo è la sua “venuta” dentro la coscienza di ogni uomo, che si verifica quando il singolo vive e comprende l’amore del Cristo in modo da ridestare nella propria anima il desiderio di creare spiritualmente.

Il Figlio di Dio conferisce all’anima di ogni uomo la facoltà della libertà, cioè la possibilità di fare l’esperienza dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo è lo Spirito stesso del Cristo che non viene più vissuto dall’uomo come un Dio esterno, ma come il nucleo vero del suo stesso essere. Questo è lo Spirito Santo, cioè la forma in cui il Cristo torna per la seconda volta. Ma come si fa ad interiorizzare il Cristo e vivere il suo ritorno come Spirito Santo? Il Cristo viene in me quando la mia libertà da “possibile” diventa reale, diventa un’esperienza concreta, perché io ho reso sempre più creativo il mio pensiero e ho permeato di volontà e di amore le mie azioni.

Se ci chiediamo quanto il cristianesimo abbia finora vissuto di questo ritorno del Cristo, dobbiamo risponderci onestamente: quasi niente. Per quanto riguarda questo secondo tipo di venuta, ancora più importante della prima per l’individuo singolo, l’affermazione fondamentale dell’ebraismo è allora molto più vera di quella del cristianesimo: il Messia deve ancora venire, siamo ancora in attesa di questa venuta. Gli uomini non hanno ancora cominciato a capire la natura del ritorno, e tanto meno a vivere in base a esso.

In questi duemila anni, infatti, si è sempre parlato di un secondo avvento del Cristo, ma non è stata posta la domanda: a che scopo una seconda venuta, se ce n’è già stata una? E la risposta è una sola: la venuta storica, oggettiva e valida per tutti, non avrebbe senso se con essa il Cristo non avesse cominciato a operare rendendo possibile in ogni uomo la sua seconda venuta – molto più importante dal punto di vista morale. E questo ritorno, lo ripeto, è il modo in cui lo Spirito del Cristo viene da ogni uomo interiorizzato e individualizzato, attraverso le libere azioni della sua vita .

E ora vi chiedo, cari amici, senza preoccuparmi di sapere se siete cristiani, ebrei o musulmani: pensate che il ritorno del Figlio dell’uomo, la possibilità per il singolo di vivere davvero come “figlio di Dio”, cioè come uomo pervaso di forze divine, pensate che questa venuta interiore e individualizzata abbia già avuto luogo? Potremmo essere contenti se fosse almeno cominciata.

In questo periodo di offuscamento della coscienza prodotto dal materialismo, l’umanità ignora quasi del tutto la seconda dimensione della venuta del Messia, del Cristo. In questo senso è vera l’affermazione fondamentale dell’ebraismo: “Deve ancora venire”. Per poter dire davvero “il Messia è qui”, ogni uomo deve prima imparare a distinguere i suoi due avventi, e poi rendersi conto che il secondo non dipende solo dalla grazia divina, ma anche dalla sua libertà.

Il primo avvento del Cristo, quello storico e valido per tutti, è stato interamente opera della sua grazia: il senso di questa grazia consiste nel rendere possibile al singolo uomo, come missione della sua propria libertà, il secondo avvento. La parola greca per “seconda venuta” è parusìa, che letteralmente significa “presenza”, essere presente in spirito. Ma a livello spirituale il Cristo non ha mai lasciato la Terra e l’umanità: il cosiddetto secondo avvento riguarda allora il singolo uomo, che apre liberamente le porte della sua coscienza al Cristo, rendendolo così spiritualmente presente in sé.

L’ebraismo afferma, in fondo, che tutta la seconda metà dell’evoluzione sarà occupata dalla venuta del Messia nella coscienza e nelle forze del cuore dell’uomo. Lo scopo stesso dell’evoluzione umana è di farsi pervadere sempre più a fondo dallo Spirito del Messia, del Cristo. Quando questo processo di compenetrazione avrà termine, finirà anche l’evoluzione della Terra, e se ne aprirà un’altra. Ciò spiega l’affermazione dell’ebraismo: il Messia giunge alla fine dei tempi, la sua venuta significa il compimento dell’evoluzione nel tempo. Quest’affermazione viene fraintesa – e in tal modo si fa torto sia all’ebraismo che al cristianesimo – se la si percepisce in contrasto con quella del cristianesimo, secondo cui il Messia è già venuto. Nessuno infatti potrebbe affrontare la seconda venuta del Cristo, quella individualizzata e interiore, se Egli non fosse già venuto, se non fosse già attivo in tutte le forze della Terra. Il Cristo sta agendo da duemila anni nella Terra e nell’umanità affinché, grazie alla sua opera sovrasensibile, ogni uomo riceva la facoltà di fare l’esperienza interiore del suo ritorno. Il Messia venturo può essere riconosciuto e amato solo per mezzo della grazia di quello che è già venuto

E come la mettiamo con l’affermazione del Corano: “Allah non ha figlio”? Se ognuno si rende conto che le affermazioni del cristianesimo e del Corano hanno senso solo se considerate insieme, allora si può individuare un senso positivo anche in quella del Gabriele islamico – un senso che dev’essere inteso correttamente, e deve soprattutto mostrare la sua fecondità nella vita.

Ogni essere umano che si ritiene “figlio di Dio” – indipendentemente dalla sua formazione musulmana, ebraica o cristiana – può replicare a questo Gabriele: hai perfettamente ragione, Gabriele! Se Allah avesse un figlio, se avesse già generato questo figlio, io non avrei più niente da fare. Ma è proprio il compito della mia vita dare un figlio ad Allah nel mio pensiero, nel mio cuore e nel mio modo di vivere. Questo figlio lo devo e lo voglio far nascere dentro di me. Come uomo sono destinato a diventare figlio di Dio in modo sempre più profondo e autentico.

Forse ricordate quel che accade nel Faust di Goethe quando Faust scopre che il mondo non ha solo un primo piano visibile, ma anche uno sfondo spirituale e ben più decisivo. Faust ha una percezione del “regno delle Madri”, cioè delle forze spirituali generatrici di tutto il reale visibile, e vuole assolutamente recarsi in quel regno. Per Mefistofele la faccenda comincia a farsi critica: accidenti, se Faust arriva alle Madri, se riesce ad avere un’esperienza diretta della realtà dello spirito, per me è finita! Scoprirebbe in che senso io sono lo Spirito che “vuole sempre il male e opera sempre il bene”.

Mefistofele è realmente preoccupato: è un diavolo coi fiocchi, uno che prende sul serio il compito che Dio stesso gli ha affidato. Deve far di tutto affinché l’uomo non penetri nella realtà dello spirito. E allora cosa fa? Per evitare che Faust s’inoltri nel regno delle Madri gli dice: ah, Faust, là non troverai un bel niente. Non potrai sentire i tuoi passi, non vedrai le nuvole, non sentirai il profondo frangersi delle onde. Ti troverai di fronte al nulla. E conosciamo la risposta di Faust: “Io spero di trovare, nel tuo nulla, il tutto”.

Così ognuno può dire a quel Gabriele che ha ispirato il Corano: caro Gabriele, con la tua affermazione intendi dire che Allah non ha ancora un figlio, o che non ne potrà mai avere per tutta l’eternità? Se vuoi dire che questo figlio di Allah non può esistere, che è un nulla, allora io ti dico: nel tuo nulla, spero di trovare il tutto. Voglio generare in me stesso la realtà di questo figlio nel corso dell’evoluzione, poiché se per me questo figlio esistesse già, non avrei la possibilità di farlo nascere dentro di me ogni giorno, in modo sempre nuovo.

A questo punto potreste replicare: ce ne vorrà di tempo prima che arrivino dei musulmani in grado di leggere il Corano in questo modo, di cantarle in musica al loro Gabriele! Ma proprio questo è lo scopo dell’evoluzione. Di sicuro nemmeno la maggior parte dei cristiani è così spregiudicata da riuscire a interpretare in questo modo l’affermazione del Corano. A maggior ragione, allora, può essere nostro compito evolutivo guardare queste religioni in modo che le loro affermazioni smettano di escludersi a vicenda.

Il singolo deve diventare nella propria mente e nel proprio cuore il luogo di riconciliazione di tutt’e tre: è vero che il figlio di Dio è già venuto; è altrettanto vero che deve ancora venire; e non è meno vero che Allah può avere un figlio soltanto nella misura in cui ogni uomo lo diventa quotidianamente. Il tragico destino e le numerose sofferenze che queste tre religioni si sono inferte a vicenda, derivano dal fatto che ciascuna ha combattuto l’affermazione dell’altra ritenendola un errore, diventando in tal modo vittima, a sua volta, di un errore di pensiero, di una visione unilaterale della vita.

Questo modo di considerare le tre religioni monoteiste non verrà mai al mondo mediante uno spirito di gruppo qualunque. Mai una chiesa o una sinagoga o una moschea, come gruppo omogeneo di persone, sarà in grado di riconoscere la piena verità delle altre due religioni. Perché ciò accada, un gruppo, che in quanto tale esclude sempre chi non gli appartiene, dovrebbe eliminarsi. Solo l’individuo può diventare veramente universale; lui solo ha la possibilità di racchiudere in sé l’umanità intera. Non importa se ha avuto una formazione islamica, ebraica o cristiana: come essere dotato di pensiero autonomo ha il compito di prendere posizione non solo nei confronti della sua religione, ma anche delle altre. È in grado di riconoscere la conciliabilità delle loro affermazioni. Proprio con l’esempio della sua vita può mostrare che solo tramite la loro riconciliazione si giunge alla piena verità sull’essere umano, e che solo così gli uomini la finiranno di combattersi.

Pensiamo al tragico rapporto fra il popolo cristiano mitteleuropeo e quello ebraico, che tanti orrori ha prodotto nel secolo scorso. Pensiamo a quanti eventi tragici si verificano attualmente fra il popolo ebraico e l’Islam, in Medio Oriente. Queste tre religioni devono davvero condividere un terribile destino! Fino ad oggi si sono combattute perché non hanno ancora capito che solo l’insieme delle loro tre affermazioni fondamentali contiene la verità completa sull’uomo, e sulla sua evoluzione.

Ripeto: questa evoluzione di coscienza in direzione della riconciliazione può essere compiuta solamente dal singolo individuo. Proviamo a immaginare cosa succederebbe se nell’umanità molti individui – migliaia, milioni, centinaia di milioni – compissero questa evoluzione interiore, realizzassero questo incontro tutto positivo fra le tre religioni monoteiste.

È da qui che arriviamo alla domanda fondamentale che molti si pongono: che cosa posso fare io nell’attuale situazione mondiale? Ognuno di voi potrebbe dirmi: è bello stare ad ascoltare quello che hai da dire sulla situazione mondiale e i suoi risvolti spirituali; ma dimmi anche cosa posso fare io, concretamente, e con quali conseguenze nella mia vita di ogni giorno. Dimmene il significato nel mio rapporto con gli altri.

Posso rispondere sinceramente a questa domanda solo a livello personale. È questo l’unico modo che mi permette di evitare di dirvi cosa “dovreste” fare. Io stesso, cari ascoltatori, sono profondamente grato per aver potuto scoprire venticinque anni fa qualcosa che è diventata sempre più parte integrante della mia vita. Si tratta della scienza dello spirito di Rudolf Steiner. All’epoca avevo trentatré anni e oggi, venticinque anni dopo, posso dirvi che ho l’assoluta certezza che nei prossimi secoli questo impulso spirituale agirà sull’umanità in maniera non meno incisiva di quanto abbia fatto a suo tempo la rivoluzione copernicana. Come accade al cospetto di ogni nuovo impulso possente, gli uomini hanno difficoltà ad appropriarsene. Tutti i poteri consolidati devono rivestire il ruolo della controforza, e lo fanno in modo massimamente efficace cercando di screditare o di ridurre al silenzio tutto ciò che è nuovo. Senza gli impulsi di cui sono debitore a Rudolf Steiner, non sarei mai stato in grado di parlare dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islamismo come ho fatto stasera.

Il motivo per cui vi rimando a questo impulso scientifico-spirituale è che in esso non viene detto ciò che si “deve” fare, ma si trovano gli strumenti conoscitivi per pervenire giorno dopo giorno a un nuovo grado di coscienza, come compito della propria libertà. Si tratta soprattutto di studiare il mondo sovrasensibile e di comprenderlo con sempre maggiore profondità, avvalendosi di un pensiero che si basa sul rigore scientifico – proprio come si è fatto con il mondo materiale grazie alla rivoluzione copernicana. Una conoscenza del sovrasensibile scientificamente fondata fornisce a ogni uomo le basi migliori per sapere qual è la sua missione nel mondo, e dove sono le priorità per superare il disumano prodotto ovunque dall’aridità del materialismo.

Non c’è tempo per aggiungere altre riflessioni, ma forse posso ancora porvi una domanda: secondo voi quali sono le radici profonde della paura e della depressione, oggi in così costante aumento? Io credo che la loro origine sia il materialismo, cioè il fatto che il sovrasensibile, lo spirituale, non sia più una realtà nella nostra cultura e nella nostra esperienza quotidiana. È chiaro che l’uomo si senta solo e abbandonato, se per esempio ignora la presenza del suo Angelo custode, se non sperimenta più l’amore e la saggezza degli innumerevoli Esseri spirituali che l’accompagnano. Per Goethe era ancora del tutto ovvio che ovunque in natura fossero all’opera delle creature spirituali: coboldi, silfidi, ondine, salamandre… Se una persona si sentisse accompagnata dai molti Spiriti che amano l’uomo – non solo in teoria, ma anche nella vita concreta – si sentirebbe anche protetta e sorretta. Non avrebbe paura, non si deprimerebbe mai.

Ognuno di noi è circondato da questi Esseri spirituali, ai quali il potere terreno non può fare alcun male, e che a loro volta non vogliono esercitare alcun potere sull’uomo, ma solo sostenerlo amorevolmente e aiutarlo a diventare migliore. Come può l’uomo aver paura in una simile situazione? Non può sentirsi solo. È in questa riscoperta della realtà sovrasensibile che consiste il grande compito dell’umanità moderna, e ogni uomo può affrontarlo subito, qui e ora.

Alla domanda “cosa posso fare in concreto?”, possiamo allora anche rispondere: se il materialismo per sua natura tende a privilegiare la realtà fisica e a tenere poco in considerazione il valore del pensiero umano, forse il primo compito amorevole e stimolante nei confronti dell’umanità è proprio quello di diventare sempre più creativi e vivaci nel nostro pensare. Ciò significa nello stesso tempo indagare sempre più a fondo gli avvenimenti mondiali, e riconoscere sempre meglio i bisogni autentici degli uomini. Questo è il primo compito. Se non uso il pensiero per sviscerare gli eventi, se non ho idea di cosa sia necessario e cosa superfluo, a che mi serve agitarmi e dimenarmi, a che mi serve agire esteriormente? Sono convinto che nel mondo d’oggi si faccia più che abbastanza, ma che si pensi troppo poco. Anche questo è un tratto fondamentale del materialismo: spingere all’infinito l’azione esteriore, visibile, e trascurare lo sviluppo interiore della coscienza e del cuore.

Se si trattasse solo di schizzare da una parte all’altra, allora un gatto sarebbe molto più bravo di me: ma io sono un essere pensante, e questo dovrebbe fare la differenza. La povertà del pensiero attuale consiste nel fatto che si pensa solo a ciò che è materiale. Ma come gli ultimi secoli sono serviti a concentrare il pensiero sul mondo fisico, così i prossimi dovranno servire a indagare quello spirituale, in modo non meno vasto e penetrante.

Non si può rispondere alla domanda “cosa devo fare?” senza porre nel contempo anche l’altra: “cosa devo abbandonare?”. C’è qualcosa che molti potrebbero abbandonare, e subito, ed è il loro attribuire la massima priorità al denaro. Chissà quante volte ve lo sarete già detto, questo, senza considerare il fatto che di questa specie di uovo di Colombo sono già pieni molti libri di filosofia, di psicologia, di sociologia. Eppure, si finisce sempre per pensare che sia un’utopia.

Cominciamo allora col vedere i risvolti pratici e immediati che comporta mettere il denaro al primo posto: la mia scelta della professione, per esempio, sarà completamente diversa da come potrebbe essere se per me esistesse qualcosa di più importante del denaro – quello che mi piace e so davvero fare, i miei ideali, la bellezza che la mia anima cerca, il desiderio di rapporti umani più veri... Al giorno d’oggi sono in molti a scegliere la professione con il criterio di far più soldi che possono. Ma che cosa succede nell’umanità se ci sono innumerevoli persone che lavorano solo per guadagnare il massimo possibile, e quelle che guadagnano poco sognano di poter finire prima o poi in qualche azienda dove i soldi si facciano davvero? Succede che l’individuo diventa impotente perché “non può” mostrare quello che vale, ed è costretto a elemosinare “un posto”, rimettendo nelle mani di pochi l’arbitrio arrogante di stabilire le regole del gioco.

Direte: ma c’è gente che il lavoro nemmeno ce l’ha, e si adatterebbe a tutto pur di guadagnare quel che gli serve per vivere! E io vi rispondo che anche la disoccupazione è una drammatica conseguenza sociale dell’importanza assoluta che il denaro ha nella mentalità occidentale: è proprio la corsa affannata all’accumulo di ricchezze che non fa circolare il denaro, e stravolge il senso del lavoro cancellando molte delle sue possibili espressioni. “Cerco lavoro e non lo trovo”, si dice: come se il lavoro fosse qualcosa di esterno alla persona, una concessione che qualcuno le fa, e non invece il suo autonomo mettere a disposizione dei bisogni altrui i suoi talenti e le sue capacità.

Ma si può anche cominciare a dire: d’ora in poi smetto di considerare il denaro come il valore supremo della vita – e questo lo possono dire sia i ricchi sia i poveri. Ciò non significa che tutt’a un tratto il denaro non avrà più nessuna importanza – certo che continuerà ad averla. Ma il mondo apparirà completamente diverso, a seconda che gli uomini considerino il denaro un fine o un mezzo.

Io ho una proposta su cosa mettere al primo posto nella scala delle priorità, se il denaro scendesse almeno al secondo (vedete, non voglio metterlo mica all’ultimo posto!). Ci metterei l’uomo. È proprio questo che abbiamo dimenticato: cosa significhi dare la precedenza all’uomo stesso nel pensiero e nell’azione. Le conseguenze sulla vita sarebbero enormi.

Se vogliamo entrare nel concreto, e mostrare quale può essere la forza reale dell’uomo di fronte alla situazione mondiale, possiamo porci per esempio questa domanda: dove faccio, io, i miei acquisti? Cioè: chi e che cosa favorisco facendo la spesa? Ogni acquisto è un reale esercizio di potere che può avere nel mondo conseguenze sia buone che cattive. Pensiamo a cosa significhi per l’ambiente e per l’umanità il fatto che centinaia di milioni di persone acquistino i prodotti nei posti in cui la merce è più a buon mercato, mettendo ancora una volta il denaro al primo posto. Molti consumatori (e non mi riferisco di certo ai cosiddetti poveri) preferiscono pagare di meno le più svariate merci – dai prodotti alimentari, ai detersivi, alle stoffe, agli utensili – a rischio di introdurre direttamente o indirettamente dei veleni nel proprio corpo. Lo preferiscono, piuttosto che spendere di più a tutto vantaggio e sostegno sia della propria salute, sia del lavoro di quei coltivatori, allevatori e artigiani che hanno a cuore la genuinità dei cibi, il rispetto per la terra, la cura nella produzione degli oggetti. È follia allo stato puro: l’uomo d’oggi non è più capace nemmeno di sano egoismo, del necessario amore di sé. Come possiamo pretendere che ami il prossimo?

Un’altra cosa che chiunque può abbandonare, per poter poi cominciare a “fare” qualcosa per migliorare l’attuale situazione mondiale, è la frattura interiore che gli provoca la cultura stessa. Quasi tutti si sono abituati, durante l’orario lavorativo, a seguire inesorabilmente le leggi del denaro e del potere. E dato che una vita siffatta è ben squallida, in che modo ci si rifà? Fuori del lavoro quotidiano si cerca di vivere una seconda vita in cui sia possibile fare l’esperienza opposta: quella di una cultura, di una religione o di un’attività artistica o sportiva che servano solo a dimenticare l’altra esistenza. L’importante è che in questo secondo tipo di vita non si parli dell’altra. Il mondo reale è quello della lotta brutale, dove il denaro e il possesso sono al primo posto, mentre il mondo sano viene sentito come nient’altro che una pausa. La vita dura e ingrata serve a guadagnare i soldi per pagarsi le pause.

Ho tenuto conferenze e seminari su argomenti culturali e religiosi, e vi ha partecipato un sacco di gente. Allora mi sono detto: forse, proporre temi sociali, di vita lavorativa, potrebbe essere perlomeno altrettanto fondamentale e interessante; forse verrebbero molte persone – anzi, addirittura di più. E così ho proposto dei seminari sul sociale e sull’economia: ebbene, le presenze si sono ridotte drasticamente. Questo significa che le persone vengono per passare due ore piacevoli, che aiutino a dimenticare la vita: ritrovarsi di nuovo fra i piedi la realtà quotidiana, quando si vorrebbe “staccare”, è assolutamente fuori luogo.

Per me questa schizofrenia interiore è l’ultimo stadio della debolezza dello spirito, quello coltivato nel paese dei sogni parlando di begl’ideali e di valori morali senza alcuna intenzione di cambiare davvero qualcosa nella vita reale, senza voler trasformare la qualità umana del proprio lavoro – e dicendo questo non ho affatto l’impressione di esagerare.

Desidero concludere con queste riflessioni: in occidente, a differenza che nel mondo islamico, abbiamo dato un rilievo considerevole alla libertà e alla responsabilità del singolo nella vita professionale e sociale. La mia impressione è che nel mondo islamico, data la configurazione complessiva della cultura, per l’individuo sia più difficile entrare in azione, esercitare la propria responsabilità individuale. Dobbiamo tuttavia aggiungere subito che la libertà dell’occidente è ancora ben lontana dall’essere la libertà dell’amore, dell’aiuto e dell’incoraggiamento reciproci: è ancora in prevalenza egoistica, è quella dei molti individui che pensano solo a se stessi.

Eppure, il primo passo per l’evoluzione verso la libertà dev’essere proprio l’egoismo: ogni uomo deve attraversare questo stadio. È un tipo di libertà al negativo, che pone limiti agli altri per poter costruire e difendere il proprio campo di vita e di azione – è una libertà paragonabile alla fase prepotente della pubertà. Dal punto di vista culturale, gli uomini occidentali si trovano proprio in questo periodo adolescenziale della libertà, e ciò rende difficile e faticosa la convivenza. Ma è necessario che ogni individuo attraversi questo stadio di coscienza.

Sta di fatto, però, che l’Islam è sfavorevolmente colpito da questa libertà egoistica dell’occidente. Anche nel mondo islamico, seppure a livello inconscio, ogni uomo prova un profondo desiderio di libertà individuale perché quest’aspirazione appartiene alla natura umana. Ma mentre guarda alle “libertà” occidentali, il musulmano forse si spaventa per il modo in cui gli uomini vivono in continuo conflitto fra di loro, nella lotta per l’esistenza. Questa potrebbe essere la sua visione sconfortante di quello che noi chiamiamo capitalismo. Mi sembra di riscontrare qui il risvolto più profondo del rapporto paradossale esistente fra l’Islam e l’occidente. Da un lato il riconoscimento della dignità dell’individuo è addirittura parte integrante del cristianesimo, ma dall’altro, poiché questo riconoscimento è ancora in una fase iniziale e precaria, suscita nell’altra cultura una grande delusione sul modo in cui viene praticato. L’Islam vede solo gli effetti distruttivi che comporta questa libertà dall’impronta ancora decisamente egoistica.

Possiamo quindi dire che l’elemento più importante della vita è il modo in cui gli uomini entrano in rapporto fra di loro: se quando s’incontrano pongono al primo posto l’uomo, oppure no. Ciascuno può compiere dei passi in questa direzione se vuol vedere l’altro per ciò che è concretamente, non per la sua etichetta di musulmano, ebreo o cristiano. Ciò significa interesse e attenzione, che non possono prescindere dalla disponibilità ad accogliere chi ci viene incontro senza frapporre pregiudizi o schemi prestabiliti.

Se sempre più uomini troveranno la forza di vedere nel prossimo non l’albanese, l’americano o il tedesco, oppure il musulmano o il cristiano, ma piuttosto l’uomo come individualità, ecco allora che la convivenza potrà assumere tratti più umani. Se ci fermiamo all’appartenenza al gruppo perdiamo di vista l’individuo. Abbiamo bisogno di una cultura della solidarietà, in cui ciascuno abbia la forza di chiedere, quando incontra l’altro: amico, chi sei? Non voglio vederti solo attraverso i caratteri del tuo popolo o della tua religione: voglio scoprire cosa vive in quell’individualità unica e irripetibile che tu sei. Voglio che ai miei occhi tu sia uno spirito diverso da ogni altro, un’anima speciale che mi porta incontro un frammento prezioso di umanità.

Terza Conferenza

La lotta
per la propria anima
l’arte di volgere ogni cosa al meglio

Gentili ascoltatori,

mi fa piacere che il nostro argomento di oggi – La lotta per la propria anima negli ingranaggi della quotidianità – abbia incontrato così tanto favore. Tutti noi ci troviamo negli ingranaggi della quotidianità e sono sempre più numerose le persone che se ne sentono stritolate. A me sembra, però, che questa sensazione di terribile logoramento derivi soprattutto dal fatto che al giorno d’oggi si fa tutto per la cura del corpo e quasi nulla per la salute della propria anima.

Chiediamoci quante delle ventiquattrore quotidiane a nostra disposizione vengono dedicate al benessere del corpo. Tutte e ventiquattro! Tanto per cominciare, in media si dormono otto ore. A chi serve il sonno? Al corpo, serve appunto a ricostituirne le forze. Nelle altre ore si lavora, si accudiscono i figli, si fa jogging, si sistema la casa, si fa la spesa, si cucina, si mangia, si va in vacanza, e così via: tutto è volto all’esterno. Quanto tempo dedichiamo alla nostra anima nel corso della giornata? Se siamo onesti risponderemo: quasi niente, o niente del tutto. È proprio così.

L’attenzione rivolta a ciò che è materiale è pienamente giustificata, in particolare quella al proprio corpo che va mantenuto in salute il più possibile. Ma se l’esteriorità ci assorbe tutta la giornata e le energie, allora per l’anima, per lo spirito, per tutto ciò che vive nel nostro intimo non rimane più tempo né forza. Il mondo dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, la qualità dei nostri rapporti, il calore di un’amicizia, l’anelito alla conoscenza o all’arte… tutto ciò ha ben poco a che vedere con la materia. Il nostro atteggiamento interiore nei confronti della vita, l’impegno per conoscere sempre meglio una persona, la capacità di dedicare del tempo al prossimo: tutto ciò ha invece molto a che fare con la nostra anima, e il corpo in queste situazioni ha il ruolo di strumento.

Sono convinto che ai nostri giorni le depressioni e l’aggressività siano in aumento proprio per il fatto che troppe persone trascurano completamente la loro anima. Tutti ci lamentiamo della crescente indifferenza sociale, della vita che è sempre più disumana, e intanto si continuano a sfornare proposte su cosa andrebbe cambiato nelle istituzioni sociali – fuori nel mondo, insomma – per migliorare la situazione. Ma a che serve tutto questo se l’uomo continua a non fare almeno un po’ d’ordine nella sua interiorità, nella sua anima? Il lavoro sulla propria anima è l’unica via per rendere più umano anche l’esterno, visto che l’inverso non funziona mai: fuori, nel cosiddetto sociale, le cose non possono mai essere migliori di quel che sono dentro l’uomo.

Se fossimo fatti esclusivamente di corpo, dovremmo poter vivere felici dedicandoci solo alla cura di esso: in questo caso l’unico stile di vita sensato sarebbe proprio quello materialistico. Non ci si dovrebbe occupare più di niente, la dedizione al corpo dovrebbe bastare a dar senso alla vita. Supponiamo ora che l’uomo non abbia solo un corpo, ma sia fatto anche d’anima – e so bene che oggi sono in molti a provar disagio quando sentono parlare di anima. E nemmeno son pochi quelli che chiedono: l’anima? Che cos’è? Non si mangia, non si beve, non è nemmeno un indumento… ma si può sapere che cos’è di preciso quest’anima?

Per molti una qualunque realtà non materiale e non visibile non è altro che aria fritta. Ed è proprio in questo che consiste il cosiddetto materialismo: nel dare rilievo solo a ciò che si vede e si tocca. Eppure, se una persona è infelice, se si sente aggressiva o depressa, la causa va ricercata nel fatto che forse ignora o trascura qualcosa che riveste un ruolo importante nella sua vita. La felicità di un essere umano dipende molto di più dai pensieri e dai sentimenti che dal benessere fisico. In fin dei conti il corpo, per quanto prezioso e indispensabile, è solo uno strumento. Un uomo può ottenere la vera felicità solo grazie a ciò che vive nella sua anima, che è l’eco interiore di tutto il suo vissuto.

Non serve quindi a molto dire alla gente: dovete fare questo o quello. Sono già più di duemila anni che il «tu devi» viene largamente predicato nei paesi cristiani. E con che risultati? Scarsi, molto scarsi! Il motivo è che nessun individuo ragionevole è disposto ad accettare un imperativo dai suoi simili. Mi sento disposto a fare una cosa solo se mi rendo conto che mi fa bene. Se prendendo a cuore la mia interiorità, la mia anima, ne ricavo qualcosa di buono, continuerò a farlo spontaneamente, non avrò bisogno di un’autorità che me lo imponga. Se un’azione mi rende felice, la faccio di mia spontanea volontà, non perché devo. Si può predicare il «tu devi» rispetto a qualcosa solo se si parte dal presupposto dogmatico che gli uomini non la vogliano fare.

Visto che è inutile dettar leggi morali, sarà molto meglio dire: se ritieni di poter essere felice occupandoti esclusivamente del tuo corpo e dei suoi annessi – la casa, il mutuo della casa, l’automobile, lo shopping, i pranzi della domenica, le cenette del sabato… – provaci, sii coerente fino in fondo. Ma se poi giungi al risultato di non essere felice con una vita che mette il corpo in primo piano e dimentica l’anima, allora puoi anche cambiare idea e provare qualcosa di diverso. E comunque l’uno o l’altro comportamento avranno valore solo se agirai di tua iniziativa.

In fin dei conti la felicità può essere solo un’offerta, non può mai essere trasformata in un precetto. Una legge può solo imporci una lista di divieti, di cose che non possiamo fare impunemente, ma non è in grado di stabilire delle norme positive, che ci dicano che cosa «dovremmo» fare per vivere felici. La felicità rimane una questione individuale per ciascuno di noi. Quando mi accorgo di essere infelice spetta a me modificare la mia vita. E a questo proposito si è sempre detto che se uno dedica abbastanza tempo ed energia alla propria anima, al proprio mondo interiore, proverà gioia e pienezza. Tutti quelli che l’hanno fatto sono d’accordo con questa affermazione.

Qualcuno potrebbe obiettare: «Per carità! Con tutto quello che ho già da fare non mi si venga a dire che devo pure occuparmi dell’anima, e magari meditare!». E avrebbe ragione a brontolare, perché quella che viene chiamata meditazione ha senso solo se viene compiuta volontariamente. Si può cominciare in maniera tranquilla: tre, quattro, cinque minuti di raccoglimento al giorno. Il se e il come farlo dipendono dal singolo individuo. Chiunque può introdurre qualche minuto di riflessione nella sua giornata: se poi si accorge che la cosa gli fa bene, non vorrà più stare anche un solo giorno senza fare un po’ di meditazione. Non ne potrà più fare a meno, perché sentirà la mancanza di qualcosa di bello e benefico. Ma sottolineo ancora una volta che non avrebbe senso meditare solo per dovere: se lo si decide liberamente, prima o poi arriverà davvero il giorno in cui stare senza meditazione equivarrà al forte dispiacere di non mangiare per due o tre giorni.

Si è mai visto qualcuno che mangi solo perché lo deve fare, soltanto perché, per esempio, Immanuel Kant ha promulgato l’imperativo categorico: devi mangiare ogni giorno? Sarebbe una vera follia. Ognuno di noi mangia perché gli va e gli fa bene, perché non può vivere senza cibo. La meditazione, i momenti di riflessione, sono un nutrimento per l’anima, proprio come gli alimenti lo sono per il corpo. Se non viene nutrita ogni giorno, l’anima si comporta come il corpo a cui non venga dato da mangiare: deperisce, muore a poco a poco. E oggi infatti sembra che l’anima di molti esseri umani si sia quasi spenta. Ci sono persone che non hanno il minimo collegamento con le loro sensazioni, con tutti gli echi e i colori del vissuto, e quando sono costrette a confrontarsi coi loro sentimenti, con la forza delle loro emozioni, si spaventano, perché hanno completamente disimparato a rapportarsi con esse.

Capita che un membro del consiglio direttivo di un’azienda viva per anni sotto una pressione enorme solo perché il volume d’affari e il profitto dell’impresa devono continuare a crescere. Ogni anno tutto deve aumentare, velocizzarsi, migliorare. Anche per le nazioni si sente di continuo parlare di «sano aumento del prodotto lordo»: guai se non si produce una crescita almeno del due o tre percento! Si grida subito alla catastrofe. Ma è stupido come affermare che un corpo è sano solo se aumenta ogni anno di almeno cinque chili: un cinquantenne non soffocherebbe forse nel suo «sano aumento del prodotto di lardo», se ogni anno dovesse garantire una crescita di cinque chili? Ugualmente, un manager costretto ad una «crescita» all’infinito (e non si tratta purtroppo di casi isolati, ma vale quasi per ogni tipo di amministrazione) non ha tempo di occuparsi delle sue ansie e delle sue paure, che a loro volta non possono che «crescere», fino a soffocarlo, fino a farlo crollare.

Arriva allora lo psicologo – che dovrebbe essere l’esperto dell’anima, visto che in greco «psiche» vuol dire anima – e cerca di aiutarlo a guardare un po’ nel suo intimo, cosa che finora non ha mai fatto. L’interessato si rende conto che non si tratta di un’attività che si può improvvisare da un momento all’altro; non la si può nemmeno svolgere sporadicamente – una volta all’anno durante le ferie, per esempio: adesso ho un po’ di tempo e dò un’occhiata all’anima… È un esercizio che va praticato ogni giorno, come ogni giorno si dà da mangiare al corpo.

Vorrei perciò attirare la vostra attenzione su due possibilità di nutrire bene l’anima, di produrre un’armonia interiore: una è la lettura di libri, l’altra è la meditazione.

Non è certo una grande scoperta che una buona lettura sia un nutrimento molto giovevole per l’anima. Bisognerebbe sempre ritagliarsi uno spazio di tempo, possibilmente quotidiano, in cui, dopo aver spento la radio e il televisore, ci si possa dedicare indisturbati ad una lettura ricca di significato. Non mi sto riferendo ad una lettura d’intrattenimento, quale potrebbe essere un romanzo di quelli che si leggono d’un fiato (che non voglio certo criticare, ma che in questo contesto non c’entrano). Sto parlando di un vero e proprio genere di lettura che affronti i grandi enigmi della vita e aiuti l’uomo moderno a progredire interiormente, a penetrare il senso dell’esistenza. Molti immaginano che sia possibile avere una mente fertile e un cuore felice senza bisogno d’imparare niente dalla saggezza e dall’esperienza degli altri.

Sto pensando per esempio agli scritti del Dalai Lama. I suoi libri sembrano molto in voga, due sono stati per mesi in cima alle classifiche di vendita. Uno s’intitola L’arte della felicità, e non è un libro leggero – mi sono chiesto se la gente lo legge davvero oppure se lo tiene solo sullo scaffale. Con questo libro viene data all’uomo una bella lavata di capo. Il tenore è più o meno questo: caro amico, o ti dai una mossa, o lavori su te stesso quotidianamente, o da te non verrà mai fuori niente di buono e non avrai il diritto di lamentarti della tua infelicità. Anche l’altro libro intitolato I consigli del cuore contiene una grande saggezza. Al centro di tutte le sue considerazioni c’è la necessità di dedicare ogni giorno un po’ di tempo alla propria anima, per esempio con una lettura sostanziosa. Un libretto come I consigli del cuore è indicato per trascorrere un’oretta con se stessi.

Ho scelto appositamente due esempi accessibili a tutti i lettori, altrimenti ci si potrebbe rivolgere a un autore un po’ meno popolare, per esempio – udite, udite! – Goethe, che per me è uno degli uomini più profondi mai esistiti. Ogni suo testo mi sembra estremamente edificante, non solo dal punto di vista artistico, ma anche e soprattutto da quello morale e religioso. Direte che è questione di gusti (e per questo sono partito prima col Dalai Lama), e non so che cosa penserete se vi dico che da quasi trent’anni le opere di Rudolf Steiner sono la mia lettura preferita! Ma in fin dei conti quel che voglio dire è che l’importante per ognuno è leggere ciò che fa per lui, quel che lo aiuta a progredire interiormente e lo incoraggia ad evolversi.

Per mezzo della lettura entro in contatto con i pensieri di un altro uomo, invece la meditazione fa sì che i pensieri abbiano origine da me stesso. La meditazione non è affatto difficile: basta praticarla, e con l’esercizio si diventa sempre più bravi. Si prende un testo molto breve, in cui sia contenuta una grande saggezza: si tratta di un «mantra», di una frase da meditazione. Abbiamo di fronte solo qualche riga e tutto il lavoro dipende da noi. Una meditazione sarà tanto più proficua quanto più sovente si mediterà sulla stessa frase. Che noia, obietterà qualcuno. Eppure non è affatto noioso se ogni volta si riesce a pensare qualcosa di nuovo, a provare qualcosa di nuovo. E quando davvero arriva la noia, quando non ci viene in mente più nulla di nuovo, possiamo passare a un altro testo: c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Prendiamo ad esempio una persona cresciuta nella fede cristiana che soffre vedendo lo spirito del cristianesimo rischiare di andar perduto a causa di questo folle materialismo. Cosa può fare questa persona? Può dirsi: si è sempre sostenuto che il prologo del Vangelo di Giovanni produca miracoli, quindi ci provo. Si tratta di un vero e proprio mantra, una delle più grandi frasi da meditazione. Dice:

In principio era il Verbo,

e il Verbo era presso Dio,

e il Verbo era un Dio.

Egli era nel principio presso Dio.

Moltissime cose sono racchiuse in queste parole, ma ha senso meditarci sopra solo per chi sente di potervi accedere interiormente. Ci sono persone che non hanno nessun rapporto coi Vangeli, quindi con loro non funzionerà, prenderanno qualcos’altro… per esempio la formula più nota del ventesimo secolo, la formula di Einstein, che si addice non meno alla meditazione:

E = mc²

E sta per energia, m per massa – per la materia, quindi per il peso – e c è la velocità della luce, nientemeno 300.000 km al secondo!

Si può usare questa formula come tema di meditazione, è possibile. La formula può aiutare a immergersi nei misteri dell’interazione fra energia e materia, nei mille modi in cui l’una si trasforma nell’altra. Il mondo in cui viviamo ci offre due tipi di esperienza: talvolta sperimentiamo la realtà come «materia», come massa ponderabile, talaltra come «energia» (vitale o psichica) che non ha niente a che fare con la gravità. Eppure questi due mondi si corrispondono, si compenetrano in mille modi! Questo solo per dirvi che non è detto che l’inizio del Vangelo di Giovanni debba per forza andar meglio di una formula fisica quando si tratta di fare meditazione. Tutto dipende dal lavoro di pensiero svolto da chi medita. Che cosa accade in effetti durante la meditazione? Il fattore decisivo è costituito dalla calma e dalla tranquillità interiori, dall’esperienza della felicità. Con la pratica ognuno scoprirà qual è per lui il modo migliore di progredire, come dovrà organizzare di volta in volta la sua meditazione.

Sono in molti a non provare quasi mai la felicità, perché si sentono sfiancati dallo stress e dall’obbligo di rendimento – questi due furfanti che ti rubano per di più il tempo che spetta all’anima. Allora bisogna avere il coraggio di dire: per un’ora smetto di esistere per il mondo, voglio leggermi qualcosa di bello. …Sì, d’accordo, ma… i bambini? E qui occorre rispondere: no, durante quest’ora non sono reperibile neanche per i bambini.”

È vero che c’è sempre qualche faccenda da sbrigare: finché si è in vita c’è sempre da fare. E in aggiunta ognuno può sentirsi indispensabile, sotto diversi punti di vista. Ma quando il buon Dio spedisce qualcuno all’altro mondo, questo mondo qui se la cava benissimo anche senza di lui, non smette certo di girare in sua assenza. Se il mondo può fare a meno di me per omnia saecula saeculorum dopo la mia morte, è evidente che può farlo anche adesso per mezz’ora. Eppure ci sono persone convinte che il mondo non possa andare avanti senza di loro neanche per un’ora. Il fatto è che il mondo può servirsi di ogni uomo, ma può cavarsela altrettanto bene senza di lui, dato che prima o poi tutti devono uscire di scena. Innumerevoli esseri umani sono vissuti prima di noi, oggi non ci sono più e noi andiamo avanti lo stesso.

Forse è il materialismo che ha portato con sé questo tipo di mentalità: oppresso anche dall’ansia di sentirsi indispensabile in molte situazioni, l’uomo trascura la cosa più importante, e cioè la sua interiorità, l’unica realtà che continua a vivere dopo la sua morte. Peccato, perché così deve rinunciare proprio alla felicità.

Vorrei allora proporvi sei esercizi che svolgono un ruolo fondamentale sulla via verso la felicità. Sono chiamati «esercizi complementari» – cioè esercizi da fare in aggiunta alla meditazione e alla lettura (ovviamente chi non ama la parola «esercizio» può sceglierne un’altra). In pratica si tratta di esperienze di pace ed equilibrio interiori. Sono sei possibili attività interiori che servono a rendere l’anima sempre più bella e gioiosa, a fare ordine in se stessi e anche a rendersi più graditi al mondo intero. Se infatti per un po’ di tempo lasciamo perdere il mondo per fare ordine dentro di noi, chi ne ricaverà vantaggio? Ma di certo anche il mondo, non solo noi! Chi non si occupa mai di far pulizia nell’anima diventa sempre più insopportabile per i suoi simili. Un individuo privo di armonia interiore crea al mondo più problemi di quanti ne risolva.

Il tempo che dedico alla mia anima, al mondo dei miei pensieri e dei miei sentimenti, è allora un tempo che devo in egual misura a me stesso e agli altri, i quali hanno tutto il diritto di non volersi sempre confrontare con le difficoltà che io porto all’esterno, perché ciò rende infelici anche loro. Per amore di me stesso e degli altri mi prenderò allora dei periodi di raccoglimento.

Da questo punto di vista il rapporto con la propria anima presenta due aspetti contemporaneamente: è sia amore per sé che amore per il prossimo. Un uomo che diventa migliore renderà migliore anche il mondo, farà un po’ più felice il mondo intero. Ma chi non trova il proprio equilibrio interiore non fa altro che rendere la vita difficile a chi gli sta vicino, semina solo infelicità intorno a sé – e questo non va bene. La regola della lotta per la propria anima è che ognuno tenda verso l’armonia. Ogni uomo ha la possibilità di trovare un momento di riflessione nella sua quotidianità. Chiunque lo può fare – e oggi, non domani. Sappiamo tutti che «domani» è quel giorno che non verrà mai: quando arriva è già diventato un «oggi», e per questo molte persone lo aspettano in eterno. La cosa consolante è proprio che ciascuno può cominciare subito a lavorare su di sé: basta non aspettarsi di diventare un Dalai Lama dalla sera alla mattina.

La prima delle sei occupazioni sulla via verso la felicità dice: stai attento ai tuoi pensieri, osserva un po’ più da vicino il mondo del tuo pensare, dedicagli una maggiore attenzione. C’è da stupirsi a vedere cosa accade in un solo giorno nella testa di un essere umano. Anticamente questo primo esercizio veniva chiamato «controllo dei pensieri»; la parola «controllo» non mi sembra molto bella: si può anche dire «dominio», sovranità sui pensieri.

Si tratta in pratica dell’arte di avere in pugno sempre meglio i propri pensieri. Perché? Mettiamoci la mano sul cuore (in questo caso meglio sarebbe sulla testa): quali sono le condizioni generali del mondo dei nostri pensieri? Perlopiù regna una grande confusione, i pensieri svolazzano in ogni direzione come lucciole e farfalle. Il dominio sui pensieri, detto anche «concentrazione», significa che la cosa decisiva per la gioia di vivere, per riempire di significato la vita, è saper guidare sempre meglio la propria mente, i propri pensieri. Questo nel nostro pazzo mondo è tutt’altro che facile, ma il più delle volte il difficile è meglio del facile. Se è difficile raggiungere qualcosa di buono, se si fa più fatica, allora si hanno più cose buone da fare e si può anche provare una gioia più grande.

Un esercizio per la concentrazione nei pensieri consiste nel prendere in mano un oggetto, il più insignificante possibile: per esempio un pezzetto di carta. Ci si concentra per uno o due minuti su questo oggetto, pensando esclusivamente ad esso: alla sua forma, al colore, a come è stato realizzato ecc. Osservo questo pezzo di carta e penso al suo riguardo solo ciò che voglio io e nell’ordine che stabilisco io. All’inizio bastano pochi minuti perché si noterà presto un affaticamento interiore. Se ripeterete questo esercizio ogni giorno vi stupirete dei progressi possibili nell’arte del pensare. Si comincia a capire meglio il senso di molte cose perché si raggiunge una disciplina sempre maggiore sui propri pensieri.

Grazie a questo esercizio la vita sembra più bella, perché gradualmente si diventa sempre più capaci di giudicare. Plasmare i propri pensieri in modo sempre più ragionevole è qualcosa di molto importante nella vita, dato che da essi dipende tutto il resto. Chi ha buoni pensieri se la passa bene, chi ne ha solo di cattivi si fa cattivo sangue. Quante volte ci si chiede se la vita abbia senso, senza però passare al pensiero successivo, che è questo: se la vita avesse già un senso, a me resterebbe solo il compito noioso di scoprirlo. Posso provare gioia soltanto se mi accorgo che sono io stesso a inventare ogni giorno il senso della mia vita, che altrimenti resta priva di significato. Molti vorrebbero trovarsi il senso della vita bell’e pronto, perché sono troppo pigri per realizzarlo loro stessi, di volta in volta.

In virtù del pensiero ogni uomo è in grado di valutare le cose e nessuno deve dipendere dal giudizio altrui. È vero che non tutti dispongono delle conoscenze tecniche necessarie per far funzionare una centrale nucleare: in questo caso non tutti hanno una capacità di giudizio adeguata. Tutti però sono in grado di giudicare gli effetti delle centrali nucleari su uomo e ambiente. A questo proposito ciascuno dovrebbe fidarsi dei propri pensieri, e si accorgerebbe così di come la vita acquista significato e diventa bella.

Cosa vuol dire infatti dipendere in tutti i campi dal giudizio degli esperti? Significa sentirsi costantemente in balia di qualcun altro. Come può un uomo essere felice se dipende sempre dal giudizio altrui, se non può mai aver voce in capitolo? Un risultato fondamentale di questo primo esercizio, il dominio sui pensieri, è il piacere di diventar capace di esprimere giudizi fondati in ambiti sempre più numerosi della vita. La capacità di giudizio rende l’uomo felice, la dipendenza dal giudizio altrui lo rende infelice.

Il contrario della concentrazione è la distrazione, che tutti ben conosciamo. Siamo distratti quando le percezioni da noi incamerate – e al giorno d’oggi subiamo un vero e proprio bombardamento di sollecitazioni sensorie, da tutti i fronti – decidono al posto nostro quali idee o associazioni di idee devono sorgere in noi. Questo accade ogni volta che la nostra attività pensante è assente e perciò non siamo noi a stabilire i nostri pensieri. Per esempio, leggo un articolo sul giornale e non mi accorgo di tralasciare una mia presa di posizione, di farmi un’idea personale sul suo contenuto. Mi limito ad assorbire i pensieri esposti sul giornale, senza operare nessuna distinzione fra i miei e quelli di un altro.

Le forze del pensiero si disperdono in continuazione qua e là, questa è la distrazione. Per pensare è quindi importante la concentrazione, che si ottiene solo con l’esercizio. Ci si esercita a rimanere in tema, e ciò vuol dire: anche se perdo il filo dei pensieri cento volte, me ne accorgo sempre più rapidamente e ritorno all’oggetto della mia attenzione – per esempio al pezzetto di carta. Proprio questa forza di volontà rende il pensare sempre più intenso ed energico.

Il secondo esercizio riguarda la gestione della volontà. (in questa sede posso solo darvi dei cenni: quel che mi interessa è stimolare la vostra curiosità di provare questi esercizi.). È un esercizio oggi più importante che mai, poiché un tratto fondamentale dello stile di vita materialistico è proprio la volontà debole. Il motto dell’uomo dalla scarsa forza di volontà è: «vorrei». Vorrei questo e quello, ma non ce la faccio… mi piacerebbe fare questo e quello, ma non ci riesco… Non ci si immagina quanta infelicità sia causata dalla mancanza di volontà! Forse avete già sentito parlare della differenza che c’è fra le piastrelle dell’inferno e quelle del paradiso: su tutte le piastrelle del paradiso c’è scritto «voglio», su quelle dell’inferno «vorrei».

Che ditte e imprese nazionali e internazionali vogliano vendere, e soprattutto guadagnare, è un segreto di Pulcinella. Devono quindi influenzare la volontà dei cittadini affinché acquistino i loro prodotti. I consumatori vengono in pratica omologati, indotti a desiderare ciò che i produttori vogliono vendere, e le varie televisioni, riviste e giornali hanno appunto lo scopo d’impedire che il singolo individuo diventi troppo eccentrico o bizzarro. Chi ha una propria volontà e un proprio modo di pensare è ritenuto destabilizzante, «negativo», perché non si lascia facilmente sottomettere per soddisfare gli scopi altrui.

L’uomo diventa infelice nella misura in cui non ha un controllo sufficiente della sua volontà. È infelice quando si deve dire continuamente: sarebbe bello se potessi farlo, ma non ci riesco. «Non ci riesco» vuol dire: la mia forza di volontà non è sufficiente. Una delle leggi della vita dice che la volontà si rafforza soltanto esercitandola ogni giorno.

Com’è un esercizio per la volontà? Molto semplice: bisogna fare qualcosa in cui l’iniziativa della propria volontà sia decisiva. Ci si prefigge per esempio un’azione completamente pazza, un’azione così assurda che per compierla c’è bisogno di tutta la propria forza di volontà. Mettiamo che ci sia un vaso di fiori a un capo della mia stanza: io lo prendo e lo porto all’altro capo della stanza e da lì lo riporto dove stava prima. Non basta: riporto il vaso dall’altra parte, passo dopo passo, con grande risolutezza, e poi lo riporto al suo posto – il tutto per cinque o dieci volte. Che cosa ho ottenuto? Che il vaso si trovi esattamente dov’era all’inizio.

Eppure tutto ciò è estremamente sensato! L’assurdità dell’azione è per l’appunto il suo senso. Dato che una simile azione è del tutto inutile, l’unico motivo per cui la compio è che lo voglio! Negli esercizi di questo tipo è all’opera la forza di volontà allo stato puro. Se l’azione avesse senso, se servisse a qualcosa, il motivo per compierla sarebbe la sua utilità, ma ciò ridurrebbe considerevolmente la forza di volontà da mettere in azione. Per fare qualcosa di completamente folle e inutile ho bisogno di una notevole forza di volontà.

Avete ragione di ridere, ma quello che vi sto raccontando è molto serio e importante! Il modo più efficace di rafforzare la volontà è ripetere lo stesso esercizio ogni giorno alla stessa ora, con la massima puntualità. L’importante è scegliere un momento della giornata in cui siamo sicuri di non essere visti da nessuno, altrimenti finisce il divertimento. Immaginate di essere al terzo spostamento del vostro vaso di fiori quando sulla porta si affaccia un vostro amico e vi chiede: «Ma che fai con quel vaso?». E se gli rispondete: «Sto facendo un esercizio di volontà» è probabile che vi dica: «Vieni, che ti porto dallo psicologo». Fate quindi in modo di eseguire i vostri esercizi di volontà quando sapete di essere indisturbati. La massima tensione della forza di volontà si ottiene rispettando scrupolosamente la propria tabella di marcia: mancano ancora quattro minuti e mezzo, ancora due, adesso 35 secondi… ancora dieci secondi – si comincia l’esercizio senza neanche un secondo di anticipo o di ritardo –… via col vaso di fiori!

Per rafforzare la volontà bisogna anche prestare attenzione al fatto che quanto si ha in programma sia davvero fattibile. Ogni decisione non eseguita, ogni progetto non portato a termine indebolisce la volontà. Sarebbe meglio non prendere decisioni piuttosto che lasciarle svanire per strada. Pensate a come rafforza la volontà il prendere solo decisioni che si è in grado di realizzare.

Per esempio, se io decido che mi farebbe proprio bene un po’ di moto e stabilisco di cominciare oggi stesso con un’ora di corsa campestre, dopo cinque minuti crollerò a terra stremato, perché mi manca l’allenamento. Mi sono proposto di fare qualcosa d’impossibile, e questo non è un bene per il rafforzamento della volontà. Un’unica cosa dovrebbe far recedere una persona da una decisione presa: l’ammissione di essersi sbagliata, il convincimento che continuare a perseguire quell’obiettivo non va più bene. Mai, però, l’insuccesso. Un proposito può anche fallire cento volte, ma se l’atto di volontà è abbastanza forte si ricomincerà cento volte da capo, imperterriti.

Mentre per il dominio sul mondo esteriore l’uomo odierno procede con una volontà ferrea nel campo della scienza e della tecnica, è invece molto poco grintoso in ciò che concerne l’evoluzione della sua anima. Non ha la più pallida idea di che cosa deve fare. Però questo dato di fatto finisce di essere negativo se si decide di cominciare subito il lavoro su di sé. Per un’umanità più antica, dotata di un legame più profondo con il mondo spirituale, il cammino interiore era più facile. Per nostra fortuna noi abbiamo la vita più difficile – dico per fortuna perché così ci viene data la possibilità di evolverci a partire da un forte atto di volontà. Una cosa è certa: le difficoltà, se superate, rendono più felici delle comodità.

Bene, dopo aver provato per un mesetto il dominio sui pensieri, all’inizio del secondo mese si aggiungerà l’esercizio di volontà ora descritto: dapprima una sola azione al giorno, poi più di una. Sottolineo che nel secondo mese non si smette di praticare il dominio sui pensieri: si aggiunge ad esso l’esercizio di volontà. Arrivati al terzo mese si unisce ai primi due l’esercizio che si occupa dei sentimenti. È importante mantenere questa successione: prima il pensiero, poi la volontà e infine il sentimento.

L’esercizio che riguarda il mondo dei sentimenti è l’equanimità, la calma interiore. La calma non è uguale all’indifferenza, poiché quest’ultima, che oggi abbonda, è simile ad una stasi interiore, alla morte dell’anima. Nell’individuo indifferente accade poco o nulla. Essere calmi e sereni non significa allora non provare sentimenti, bensì saperli vivere in maniera corretta. In ognuno di noi continuano a formarsi sentimenti – gioia o dolore, simpatia o antipatia ecc. –, ma nessuno di noi è responsabile per il sorgere di questi sentimenti. Essi nascono spontaneamente, senza essere chiamati, e noi non esercitiamo praticamente nessun influsso sulla loro comparsa.

Il modo di gestire i sentimenti che si presentano è invece proprio una questione di esercizio, di allenamento. Una persona che si abbandona del tutto alle proprie sensazioni, che si lascia trascinare dalle emozioni, si chiude in se stessa, diventa insensibile al resto del mondo e finisce per suscitare antipatia nei propri confronti. Ecco perché è così importante saper gestire bene i propri sentimenti. Vivere con calma e spassionatezza vuol dire essere sempre in grado di ristabilire l’equilibrio fra l’euforia smodata e la tristezza più nera. La calma è la ricerca di una giusta misura nel modo di esprimere le proprie energie emotive.

Come dicevo, i sentimenti sorgono in noi senza chiederci il permesso, ma per esercitare la calma dobbiamo renderci conto con la massima rapidità possibile di quali sentimenti stanno nascendo in noi. Ci sono persone che montano in collera senza accorgersene, senza averne coscienza, e se qualcuno chiede: «Ma perché sei così arrabbiato?», rispondono: «Cosa? Io arrabbiato? Ma niente affatto!». Esercitare la calma significa accorgersi il più presto possibile di quali emozioni si stanno formando dentro di noi: solo così si può gestire la loro manifestazione verso l’esterno. Chiunque può esercitarsi in questo.

Una cosa è ad esempio la sensazione di tristezza e un’altra è la manifestazione di questa tristezza con un pianto incontrollato e involontario. Il pianto può essere controllato tramite l’esercizio – fra l’altro piangere può procurare un grande sollievo e ad alcuni maschi farebbe molto bene imparare a piangere. Ci si può dire: mi sento molto triste e se fossi solo piangerei tanto volentieri, ma adesso sono in compagnia, non posso imporre agli altri la mia tristezza; è meglio allora per me aspettare un paio d’ore, poi potrò piangere a piacere nella mia stanza. Questo fa parte dell’esercizio, dell’allenamento in vista della calma interiore.

Non limitarsi a subire la spinta o anche l’impeto dei sentimenti consiste allora nell’avere un controllo sempre maggiore sulla loro espressione verso l’esterno. Se per esempio mi accorgo subito della mia collera posso dirmi: «Io a quello gli farei … ma non ora, forse domani. Domani avrò un’occasione migliore di fargli sentire la mia collera». E se poi l’indomani la collera è sparita, va bene lo stesso.

Abbiamo messo insieme tre meravigliosi esercizi: uno per il pensiero, il controllo dei pensieri; uno per la volontà, l’iniziativa nel volere; e uno per i sentimenti, la calma interiore. Qualcuno potrebbe dire: è più che sufficiente. Con pensiero, sentimento e volontà abbiamo l’uomo nella sua interezza! Invece la cosa non finisce qui.

Se mettiamo insieme pensiero e sentimento troviamo un quarto esercizio, che si chiama «positività». Positività non vuol dire che tutto è positivo, o che bisogna vedere tutto roseo. Se uno fa delle fesserie io non sono tenuto a considerarle positivamente: le fesserie sono e rimangono fesserie. Positività non significa quindi considerare tutto come buono, bensì ricavare qualcosa di buono da tutto (anche dal letame, come fa il contadino). La vita risulta completamente diversa se per me quel che non va ha un peso assoluto, o se invece attribuisco valore a tutto ciò che di buono si può ricavare da ogni situazione, per quanto brutta o difficile. Ognuno può ottenere il meglio possibile da ogni situazione, dato che il meglio possibile non è certo il «meglio impossibile»! Una cosa teoricamente migliore, che però di fatto non è possibile, come può essere davvero la migliore, se non si può neanche fare? Quando invece diciamo: peggio di così non è possibile!, allora le cose vanno di nuovo bene perché non possono che migliorare – visto che peggio di così non si può.

La domanda fondamentale è quindi sempre: come procedere? Cosa posso ricavare di positivo dalla mia situazione attuale? L’esercizio della positività consiste nella convinzione di poter costruire sempre qualcosa di buono. «Ma quel tipo strambo è assolutamente intrattabile, non riuscirò mai a cavar fuori qualcosa di buono dalla collaborazione con lui». Chi parla così può anche provare a capovolgere il suo pensiero in questo modo: più l’altro è ostico, più stimolante è per me l’occasione di esercitare l’autocontrollo, la calma, e quindi anche la positività. Sì, ma quello poi se ne approfitta…. È un problema suo: l’importante è che io lo prenda con calma e ne faccia un’occasione di crescita. Anche l’essere costretto a porre dei limiti all’egoismo altrui ha un lato tutto positivo: viene offerta l’opportunità di intraprendere qualcosa contro l’egoismo umano. Ditemi un po’ se non è una cosa bella e positiva! Ci viene dato il compito positivo di porre fine a qualche assurdità del nostro mondo.

Con questo intendo dire che esistono persone addirittura geniali nel vedere tutto nero, nel prendere ogni cosa dal lato negativo. Questo atteggiamento sembra perfettamente in sintonia con i loro gusti. Certo è che se vogliamo vedere tutto negativo non dobbiamo sforzarci granché: al mondo non c’è nulla di perfetto, tutto è difettoso, tutto è in evoluzione. Per vedere tutto da un punto di vista negativo, basta che io concentri la mia attenzione solo sui difetti degli uomini. Cosa ne ricaverò? Mi verrà sempre incontro quel peggio che vado cercando, e mi lamenterò che mi tocca rimetterci sempre! Chi invece scopre e fa risaltare il positivo dappertutto, non è necessariamente uno che ignora il negativo. Anche lui lo vede, solo che dice: non mi serve a niente porre l’accento sul negativo, divento solo più triste e infelice. Preferisco costruire sul positivo, che è presente sempre e ovunque, non meno di ciò che è imperfetto.

Al pensiero positivo appartiene per esempio la convinzione che le richieste fatte a un essere umano non debbano mai superare le sue forze. Tutti possono pretendere troppo da se stessi, e lo fanno ogni volta che si assumono la responsabilità di cose che non gli competono: è la cosiddetta pretesa eccessiva. Per non cadere in questa trappola, basta che ciascuno valuti in maniera sempre più realistica che cosa è davvero in grado di fare e cosa no. Ognuno deve sapere di che cosa è realmente responsabile e di che cosa, invece, non può e non deve essere reso responsabile. Ciò che non siamo in grado di fare non ci riguarda: appurato questo, non ci ritroveremo più ad essere sovraccaricati di richieste.

La situazione è analoga per i sensi di colpa, che inducono a ritenere certe difficoltà della vita come una specie di «punizione». Ma in realtà il destino non può mai punire un uomo per qualcosa: ciascuno riceve solo le migliori opportunità per progredire nella propria evoluzione. Un fegato malato a causa di un eccessivo consumo di alcool non ha niente a che vedere con il castigo: è invece il miglior aiuto per gestire meglio il bere in futuro, per trattare un po’ più «umanamente» il proprio fegato, dato che la vita è più bella se c’è la salute.

Narra una bella leggenda persiana che un giorno il Cristo se ne andava per la propria strada con i dodici apostoli. Lungo il cammino si imbatterono nella carogna di un cane che puzzava terribilmente per la putrefazione. Gli apostoli distolsero lo sguardo disgustati, ma il Cristo, vedendo i denti del cane che splendevano bianchissimi alla luce del sole, esclamò: «Guardate che meravigliosi denti aveva questo cane!». Ci si poteva accorgere di entrambe le cose: della puzza nauseabonda e dei bellissimi denti. È davvero questione di gusti se l’uomo decide di prendere la vita dalla parte della puzza – e allora la vita gli apparirà davvero puzzolente! – o dalla parte luminosa, senza tuttavia estraniarsi dal mondo. Chi costruisce sul vero e sul bello non per questo dev’essere una persona fuori dal mondo, incapace di coglierne i tanti aspetti da migliorare. Costruire sul positivo è il miglior rimedio a tutta la negatività. Come si fa, altrimenti?

Ecco quindi il quarto esercizio, la positività, anch’esso da praticare in modo sistematico, cioè regolarmente, per un mese. Tra l’altro questi esercizi vengono vivamente raccomandati da tutte le religioni, sia nella tradizione cristiana, che in quella buddista, taoista, induista ecc. Laddove l’evoluzione interiore dell’uomo è stata presa sul serio, ci si è sempre occupati di queste virtù fondamentali. Niente infatti può essere più importante per l’uomo del mondo dei suoi pensieri, delle sue volizioni e dei suoi sentimenti.

Nel quarto esercizio, nella positività, abbiamo l’interagire del pensiero col sentimento, nel quinto, invece, il pensiero si rapporta con la volontà: è l’esercizio dell’apertura, della spregiudicatezza. Essere aperti nel pensiero e nella volontà significa essere sempre disponibili a nuovi pensieri e nuove azioni. Il contrario dell’apertura è il rimanere schiavi dei pregiudizi e delle abitudini fisse. Chi ha sempre pensato e agito in un certo modo continua col solito tran tran e diventa incapace di qualsiasi innovazione. Apertura, tensione evolutiva, significa invece avere il coraggio di pensare cose nuove, di provare qualcos’altro! L’apertura di mente vuol dire restare ricettivi nei confronti di conoscenze sempre nuove, disposti ad imparare per tutta la vita.

Alcuni temono di contraddirsi se non pensano e non parlano esattamente come l’anno precedente. Ma non è terribile pensare e parlare esattamente come 365 giorni fa? A che scopo sono trascorsi, allora, tutti questi giorni? Che altro significa se non che non si è imparato un bel niente? Un uomo che mantiene la stessa opinione per anni si oppone massimamente alla natura umana, che tende sempre ad andare avanti.

Ecco un classico esempio di spregiudicatezza: un tale va da un amico e gli dice: «Ehi, hai sentito? Questa notte il campanile della chiesa si è inclinato di dieci gradi». Al che l’altro risponde: «È impossibile. Assolutamente impossibile!». Cosa si nasconde nella reazione che dice: impossibile? Una mancanza di apertura mentale. Sarebbe infatti meglio mantenere sempre uno spiraglio aperto e dire: chissà? Magari non conosco ancora tutte le leggi della natura… forse una cosa del genere può davvero verificarsi...

Non aver pregiudizi vuol dire allora non emettere troppo rapidamente un giudizio definitivo, ma restare aperti su tutti i fronti. Una persona aperta e duttile è determinata a non lasciar passare giorno senza apprendere qualcosa di nuovo. Così la vita diventa avvincente e ogni giorno è degno di essere vissuto. Se interiormente sono convinto di sapere già tutto, non sarò più in grado di farmi sorprendere da nulla. A proposito, per scherzare si dice che esistano solo due tipi di persone (ovviamente ci riferiamo solo a quelle che non fanno questi esercizi!): del primo gruppo fanno parte le persone che sanno tutto e del secondo quelle che lo sanno ancora meglio!

L’esercizio della vittoria sui pregiudizi consiste nel dire a se stessi: amico mio, la cosa migliore è che tu faccia come Socrate che affermava di se stesso: io so di non sapere nulla. Intendeva dire, tra l’altro, che gli altri, a differenza di lui, non si erano ancora resi conto di sapere tanto poco.

Un uomo che sa di non sapere niente non smetterà mai di imparare, e così facendo proverà una gioia sempre più grande. Quante volte ci capita di doverci dire: ho espresso un giudizio troppo affrettato, avrei potuto procurarmi altro materiale per formarmi un giudizio più maturo. Adesso che mi sono esposto con questo giudizio così precipitoso non mi va di tirarmi indietro e fare brutta figura… e allora faccio finta di non aver niente da ritrattare. Accade realmente così: molti perdono la capacità di aprirsi a nuove angolazioni della realtà perché non vogliono recedere da quello che hanno affermato in una qualche occasione.

Questo per quanto riguarda l’apertura di pensiero, di giudizio. Passiamo ora alla mancanza di preconcetti nell’agire. Nel corso della propria vita ognuno di noi entra in una certa routine, acquisisce un certo stile di vita. Ognuno ha i suoi comportamenti fissi, le sue abitudini. Va osservato che l’uomo tende facilmente a diventare schiavo delle proprie abitudini: restare sempre adattabile e flessibile nell’azione significa allora provare deliberatamente a fare in modo diverso dal solito certe cose che fanno parte della ripetitività quotidiana. Magari ho percorso per vent’anni lo stesso tragitto per recarmi al lavoro e oggi voglio provarne uno completamente diverso. La nonna dice al nipotino: «Bambino mio, il Natale l’abbiamo sempre festeggiato così, per una vita intera…», e il bambino risponde: «Nonna, allora è proprio arrivato il momento di provare qualcosa di nuovo!».

Sicuramente conoscete la risposta che si usa dare in Germania quando qualcuno chiede a un altro: «Allora, come va?»: sovente ci si sente dare questa esauriente risposta: «Grazie!». Per molti stranieri, e non solo per loro, rimane un mistero se quel «grazie» voglia dire «bene, grazie» o «male, grazie». Forse il dare una risposta così enigmatica dipende dal fatto che molti ritengono che lo star bene o male sia una loro faccenda privata, che non riguarda nessun altro. Se infatti rispondessimo «bene, grazie», potremmo vederci costretti a raccontare come mai. Peggio ancora se la risposta fosse «male, grazie»: in questo caso apertura potrebbe voler dire esporsi al mondo, all’altro che manifesta il suo interessamento alla mia situazione, chiedendomi come sto. E io a mia volta posso rispondere con la mia apertura, con il mio interesse per lui.

Mente aperta non significa dover gettar via da un momento all’altro tutte le nostre buone vecchie abitudini. Si vuole piuttosto dire: caro mio, non potrai essere felice se non riesci a introdurre sempre qualche novità nel tuo comportamento. Tra parentesi, che cosa pretende da noi il mondo del lavoro al giorno d’oggi, proprio in virtù della crescente disoccupazione? Una sempre maggiore flessibilità! Se uno è in grado di esercitare svariate professioni invece di una sola, sarà sempre meno obbligato a identificarsi con una professione esteriore, a dipendere da essa, e potrà porgere maggiore attenzione alla sua reale vocazione, alla sua «chiamata» interiore. La professione è «che cosa» un uomo fa, la vocazione consiste nel «come». Migliaia di persone fanno la stessa cosa, esercitano la stessa professione – per esempio l’insegnamento –, ma ognuno lo fa in modo del tutto diverso dagli altri.

Ogni uomo è adatto a svolgere molte attività, non è vero che può riuscire in un solo lavoro: forse di questi tempi riceviamo un’educazione troppo riduttiva, troppo specializzata. Se formassimo esseri umani completi, poliedrici, e non solo specialisti schematici e goffi in tutti i campi diversi dal loro, ognuno potrebbe mettere in pratica non solo la propria versatilità, ma anche e soprattutto la propria unicità. La scienza moderna pretenderà sempre di più che il singolo provi piacere a fare un po’ di tutto per la collettività. L’identità più profonda di un essere umano non consiste nella sua attività esteriore, ma in ciò che vive interiormente svolgendola. Ogni attività che esercito – fossero anche dieci professioni, una dopo l’altra – deve portare l’impronta unica della mia individualità.

Oggi in Germania ci sono più di quattro milioni di disoccupati. Che mancanza di fantasia! Gente a cui «il papà Stato» deve servire un lavoro su un piatto d’argento, altrimenti non sa che fare di sé. È pazzesco. Un individuo minimamente sveglio sa sempre cosa fare, trova sempre mille occupazioni che si possono svolgere per gli altri. Per esempio potrebbe fare la spesa per dieci persone anziane, chiedendo in cambio il denaro necessario. Se non lo pagano s’inventerà qualcos’altro. Non c’è che l’imbarazzo della scelta rispetto a quel che c’è da fare gli uni per gli altri: basterebbe solo darsi una mossa dove c’è bisogno di un servizio.

L’esercizio dell’apertura nel pensare e nell’agire è la ricerca del giusto equilibrio fra la comodità che non vorrebbe abbandonare le vecchie abitudini e l’impazienza irruente che vuol buttar tutto per aria tre volte al giorno. È il giusto equilibrio fra la sclerosi e la rivoluzione. Ci sono persone che da giovani vorrebbero cambiare il mondo ogni due giorni, ma che poi nel corso degli anni si fossilizzano nelle loro abitudini. L’esercizio della spregiudicatezza e della flessibilità è l’arte del costante rinnovamento interiore, da cui emerge che non è tanto il mondo a dover cambiare quanto l’uomo. È sufficiente che ognuno si rinnovi dal di dentro, formulando nuovi pensieri e mantenendosi aperto, capace di imparare da tutti e di adattarsi a tutte le situazioni. È questo a rendere la vita bella e degna di essere vissuta.

Il sesto esercizio non aggiunge niente di nuovo, è in pratica un compendio dei primi cinque. Di nuovo c’è che vengono esercitati tutti insieme – cosa non da poco. Si chiama esercizio dell’armonia interiore, dell’equilibrio interiore. Adesso abbiamo sei esercizi che servono a farci acquisire a poco a poco sei meravigliose virtù:

1. Dominio sui pensieri (controllo dei pensieri)

2. Iniziativa della volontà (controllo della volontà)

3. Imperturbabilità nella vita emotiva (calma interiore)

4. Pensare e agire in modo costruttivo (positività)

5. Apertura nel pensiero e nel comportamento (spregiudicatezza, flessibilità)

6. Armonia delle energie interiori (equilibrio interiore)

Se nel primo mese ci si è esercitati nel controllo dei pensieri, nel secondo si aggiungerà l’iniziativa della volontà, nel terzo la calma, nel quarto la positività e nel quinto la spregiudicatezza; nel sesto mese, in cui si eseguono tutti e cinque gli esercizi contemporaneamente, si dovrebbe sperimentare sempre più l’armonia dell’anima, un crescente equilibrio delle energie interiori. Alla fine dei sei mesi ci si può riprendere dallo strapazzo ricominciando da capo, quindi esercitando solo il dominio sui pensieri…

La morale tradizionale ha dato un valore particolare ai precetti e ai doveri validi per tutti. Tanto per fare un esempio, i dieci comandamenti di Mosè sono obbligatori per tutti allo stesso modo. Ma oggi viviamo in un’epoca di sempre maggiore individualizzazione. In passato l’umanità nel suo complesso ha attraversato per così dire una fase infantile, e adesso si trova in quella della pubertà – ancora ben lungi dalla maturità, come si può ben osservare ovunque! –, in cui ognuno esige sempre più libertà individuale e possibilità di muoversi a modo suo.

Le persone anziane ricorderanno che cinquanta o più anni fa gli esseri umani erano più disponibili ad ubbidire alle regole generali. Non era né meglio né peggio, era semplicemente diverso. E oggi? Riscontriamo una disponibilità decisamente minore a sottomettersi alle regole vigenti. Come mai? Perché la peculiarità del singolo individuo si fa sentire in maniera sempre più netta. Ognuno pretende oggi molto di più dalla vita che non nei tempi andati.

In futuro la morale universalmente valida dovrà essere vista come presupposto di base per l’emergere dell’individualità, non potrà più avere un valore assoluto. Per uomini davvero adulti la legge vincolante per tutti rappresenta solo la condizione necessaria, seppur preziosa, per rendere possibile il cammino unico di ogni singolo individuo. Se la morale comune fosse l’unico fondamento del vivere, nessuno potrebbe essere felice perché gli verrebbe richiesta soltanto la sottomissione, mentre la sua creatività individuale, la sua peculiarità, verrebbe vista come pericolosa sovversione dell’ordine pubblico. In questa nostra epoca dobbiamo trovare sempre di più il coraggio d’inventare una morale che esorti ogni uomo a crearsi un mondo tutto suo, un’opera solo sua – quell’opera che, unica, lo può rendere felice, poiché costituisce un vero arricchimento anche per gli altri.

È come per le norme di circolazione stradale: guai se non raggiungessimo un accordo! Ma quando mi metto al volante della mia auto non lo faccio allo scopo di osservare le norme di circolazione; quelle le rispetto, ma la mia intenzione persegue gli obiettivi che voglio io. E lo stesso vale per tutti gli altri automobilisti: ognuno va dove ha deciso di andare.

La morale tradizionale si limitava a prescrivere ciò che tutti dovevano fare o evitare. Non era in grado di tenere abbastanza conto delle particolarità di ogni individuo, dato che nei tempi andati l’importanza del singolo non era così accentuata. Perfino uno come Immanuel Kant conosce quasi solo comandamenti morali validi per tutti allo stesso modo. Il suo famoso «imperativo categorico» – che espone ad esempio nella sua breve opera intitolata Fondamenti della metafisica dei costumi – sostiene che ognuno dovrebbe comportarsi in modo che la massima del suo agire possa valere da criterio per tutti gli uomini. Per l’uomo che, pur rispettando ciò che è universalmente valido, anela ad aggiungervi la ben più preziosa unicità tutta sua, una simile affermazione equivale a dire: puoi indossare solo pantaloni che vanno bene a tutti gli altri uomini!

La felicità di un essere umano consiste in ciò che realizza a proprio modo: la sua individualità e unicità sono la sua creazione. Ognuno è in grado di comportarsi in maniera unica in ogni ambito della vita, in ogni situazione. Il sesto esercizio, quello dell’armonia e dell’equilibrio interiore, consiste appunto nel prendere in mano la propria attività pensante, le proprie energie volitive e i propri sentimenti – e ciò in virtù del rispetto delle leggi universalmente valide – così da gestirli in maniera sempre più creativa, sempre più personale. Ognuno farà questi esercizi a modo suo, non perché c’è un comandamento che glielo impone, ma perché non potrà farne a meno, proprio come non può fare a meno di mangiare o di bere.

Questi sei esercizi possono anche essere applicati a qualsiasi fattore o circostanza della vita. Prendiamo l’avidità di denaro, per esempio. Possiamo accennarvi brevemente.

Dominio sui pensieri: che il denaro debba essere un fine o un mezzo dipende molto dalla capacità che una persona ha d’intuire ciò che l’avidità causa nella sua vita e nell’umanità. Questa intuizione è soprattutto una questione di pensiero.

Iniziativa della volontà: questa persona può decidere che da questo momento il denaro sarà la sua seconda priorità nella vita, e l’uomo, ogni essere umano, la prima. Ciò comporterà un cambiamento, all’inizio forse piccolo, nella vita di ogni giorno. Ma per mantenere nel tempo questa decisione occorrerà una volontà forte, in grado di sopportare le conseguenze della propria scelta; un tipo di volontà che si acquisisce solo con l’esercizio quotidiano.

Calma interiore: il nostro filantropo in erba andrà presto a sbattere contro degli ostacoli che minacciano di rovinargli l’esistenza, ma grazie al terzo esercizio eserciterà un controllo sempre maggiore sui sentimenti e comincerà addirittura a godere di ogni resistenza. Sta anche imparando a gestire sempre meglio la sua paura di rimanere senza soldi un giorno o l’altro.

Positività: se il nostro ex avido di denaro avrà l’impressione che la sua nuova vita sia decisamente più difficile di quella vecchia, la positività potrà fargli assumere quell’atteggiamento interiore per cui finirà per dirsi: più è difficile e meglio è!

Apertura d’animo: se un giorno si dovesse sentire abbattuto perché gli sembra che tutto sia inutile, che il mondo non migliori, potrà rinnovare il suo idealismo e la sua speranza per mezzo dell’esercizio della spregiudicatezza e malleabilità.

E se resterà onesto nel suo impegno il risultato finale sarà che l’egoismo della sete di denaro verrà nella sua vita gradualmente superato e all’amore sarà concesso uno spazio maggiore. Quell’uomo scoprirà che il vero successo non consiste mai in qualche evento futuro, ma nell’onesto camminare che avviene qui ed ora. Questa scoperta lo colmerà di gioia, ed egli sperimenterà l’armonia e l’equilibrio interiore nel momento presente.

Ho già accennato a Rudolf Steiner, il fondatore della moderna scienza dello spirito, a cui sono infinitamente grato. Credo di aver trovato nei suoi scritti, tra le altre cose, anche la descrizione più moderna di questi sei esercizi. E per quanto riguarda la meditazione, egli ha coniato una gran quantità di massime meravigliose, scritte per il nostro tempo.

Per concludere desidero leggervi l’ultima parte di una sua massima detta della «pietra di rifondazione», perché può far da fondamento ad ogni nuovo inizio sia personale sia comunitario. Comincia con le parole «Anima umana!», e da lì si apre un vero e proprio mondo! Per esperienza posso dirvi che declamandola anche solo una volta al giorno, possibilmente ad alta voce, ci si stupisce di quante cose vi si possono scoprire. È strutturata su tre colonne: la prima si riferisce a Dio Padre, che opera insieme alle gerarchie angeliche più alte: Troni, Cherubini e Serafini. In mezzo c’è la colonna del Figlio, il Cristo, insieme alle gerarchie angeliche medie, in italiano chiamate Potestà, Virtù e Dominazioni. A destra c’è infine la colonna dello Spirito Santo con gli angeli inferiori: Angeli, Arcangeli e Principati, che sono più vicini all’uomo. Nell’uomo l’azione del Padre si manifesta nelle energie volitive, quella del Figlio nel mondo dei suoi sentimenti e quella dello Spirito Santo nella vita del pensiero.

Dopo le tre «colonne» c’è ancora un breve testo (quello che desidero leggervi), che fa riferimento alla svolta dell’evoluzione avvenuta grazie al Cristo. La svolta dei tempi viene vista nel fatto che duemila anni fa si è concluso il periodo di preparazione e ha avuto inizio quello del compimento. Il periodo preparatorio è durato finché sono state create tutte le condizioni per l’esercizio della libertà umana. Con «libertà» s’intende la facoltà del singolo individuo di pensare autonomamente e agire responsabilmente. Il compimento, la pienezza dei tempi, comincia quando non manca più nessuna condizione per l’esercizio di questa libertà individuale. Nel breve testo che sto per leggervi si parla dei tre re e dei pastori dei Vangeli. Rappresentano la polarità più bella dell’umanità e di ogni singolo uomo: da un lato le forze del cuore, dell’amore – nei pastori –, e dall’altro le forze della mente, della saggezza – nei re, i magi venuti dall’oriente.

Alla svolta dei tempi

La Luce dello spirito cosmico entrò

Nella corrente degli esseri umani;

L’oscurità della notte

Aveva terminato il suo dominio;

Chiara luce del giorno

Rifulse in anime umane;

Luce,

Che riscalda

I cuori semplici dei poveri;

Luce,

Che illumina

Le menti sagge dei re.

E il tutto finisce con una grandiosa semplicità, con parole che mi sembrano adatte ad accompagnare l’uomo per tutta la vita:

Luce divina,

O Cristo, tu Sole,

Riscalda i nostri cuori;

Illumina le nostre menti;

Affinché divenga buono

Ciò che vogliamo fondare con i cuori,

Ciò che vogliamo condurre alla meta

Con menti risolute.

Immagino che chi ha un rapporto aperto con il cristianesimo possa trarre vantaggio meditando su queste parole. Come ho già detto, l’importante è che ognuno si scelga un testo da meditazione in cui si sente a casa.

Ricapitolando: l’unica via sicura per raggiungere la felicità è quella di lavorare alla propria anima. Né la vita esteriore del singolo né quella sociale possono mai risultare migliori o peggiori dell’interiorità dei singoli individui. All’esterno si manifesta soltanto ciò che è presente nell’animo umano. I pensieri e i sentimenti degli uomini – i loro ideali e valori, ma anche le loro paure e i loro egoismi – determinano le loro azioni, e queste a loro volta le istituzioni, la forma complessiva dell’organismo sociale. Dal punto di vista sociale un pensiero non è meno importante o efficace di un’azione. Augurare ogni bene a una persona o regalarle dei soldi hanno il medesimo effetto incoraggiante e l’organismo sociale viene danneggiato in egual misura dal mio odio per una persona e dal mio prenderla a botte. Il picchiare fisico è una conseguenza dell’odio animico, mai il contrario.

Se il consiglio direttivo di una ditta finanziariamente forte imbroglia tanti piccoli investitori con la scusa dell’ineluttabilità delle condizioni oggettive, con la motivazione di non poter agire diversamente se vuole imporsi sulle altre aziende, spesso si finge di non vedere che il fattore scatenante dell’intero processo altro non è che la brama egoistica di denaro. E la brama di denaro è fatta dei pensieri e delle aspirazioni volitive degli uomini, e ciascuno è responsabile dei propri pensieri e valori. Nessuno deve essere avido di denaro, lo è solo se lo vuole, se ha scelto di fare del denaro la cosa più importante della sua vita, a prescindere dal fatto che ne sia cosciente o meno. Prendere sul serio la propria anima significa prima di tutto prendere coscienza di quali sono le priorità della propria mente e del proprio cuore, e di conseguenza della propria vita.

Se per molti uomini il denaro occupa il primo posto non ci si può aspettare che nell’organismo sociale salti fuori fior di solidarietà. Preferire la solidarietà al denaro è possibile, solo che bisogna fare esercizio, non è una cosa che può spuntare dall’oggi al domani. Perché la gioia dell’aiuto reciproco diventi la mia vita di dopodomani devo assolutamente cominciare oggi a fare qualcosa per la mia anima.

Il miglior «impresario» è quello che intraprende il meglio per l’evoluzione della propria anima. La vera identità di un uomo non consiste nella posizione che occupa a livello sociale, e tanto meno in una qualsiasi carica o in un titolo onorifico conferitogli dall’esterno. Un uomo che è solo il prodotto dell’eredità di famiglia o del mondo esterno non vale niente come individuo. Il valore morale di un essere umano consiste nell’unicità della sua anima, nel suo anelito a risultare ogni giorno vincitore nella lotta per la propria anima.

A proposito di Pietro Archiati

Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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