Pietro Archiati
i fattori
della vita
Commento a
La filosofia della libertà
di Rudolf Steiner
Volume 8
dal Cap. VIII, al Cap. IX, par. 18
Rocca di Papa ( RM) 30 settembre- 3 ottobre 2010
N.B. Trascrizione integrale del parlato,
NON redatta e NON rivista dall’autore
Indice
Giovedì 30 settembre 2010, sera
Venerdì 1 ottobre 2010, mattina
Venerdì 1 ottobre 2010, pomeriggio
Sabato 2 ottobre 2010, mattina
Sabato 2 ottobre 2010, pomeriggio
Domenica 3 ottobre 2010, mattina
A proposito di Pietro Archiati
Giovedì 30 settembre 2010, sera
Benvenuti a tutti di nuovo, questa volta cominciamo con la seconda parte della Filosofia della libertà finalmente. La prima parte è intitolata “La scienza della libertà” e la seconda parte si intitola – cosa bellissima – “La realtà della libertà”. La differenza si evince proprio da questo modo così essenziale di esprimere queste due dimensioni. Il pensare, il riflettere, il ragionare ci fa capire, ci dà la scienza, la conoscenza, il sapere riguardo alla libertà, cosa ci dice la scienza della libertà? Si può riassumere in un enunciato, in una frase, la scienza della libertà ci dice tutta la prima parte che la libertà è l’essenza dell’uomo, e che la libertà è nel pensare. L’uomo è l’essere pensante e poiché è l’essere pensante è l’essere che è libero, essere liberi e essere pensanti è la stessa cosa. Però a che mi serve sapere in chiave di scienza, di conoscenza che la libertà è l’essenza dell’uomo se non la realizzo? Quindi la libertà non è soltanto un fatto di conoscenza, che io vengo a sapere, ma è un fatto morale, la libertà diventa reale solo nella misura in cui l’uomo la realizza. Quindi questa seconda parte, realtà significa la realizzazione, il rendere reale la libertà, esercitarla, portarla all’essere, non soltanto sapere tutto sulla libertà ma vivere da liberi. E perciò ci dicevamo che la seconda parte in un certo senso, è ancora più interessante, più micidiale, perché si tratta adesso di vedere in che modo l’individuo realizza, fa della libertà conosciuta una realtà, la realtà della sua vita, la realizza, proprio la crea, la seconda parte è il creare la realtà della libertà, viene creata, la libertà è qualcosa che l’uomo crea, e se non la crea non c’è. Ognuno ha tanta libertà quanta ne crea, quanta ne realizza, e potenzialmente ognuno la può realizzare all’infinito, non ci sono limiti alla realizzazione della libertà. Un altro modo di riassumere la prima e la seconda parte, la prima parte Steiner la riassume in tedesco con la parola …. un monismo di pensieri. Il monismo del pensare, quindi la prima parte esprime la logica del pensare, cos’è il mondo? È il pensare del Logos, il più grande logico pensatore che ci sia, i greci lo chiamano Logos, il pensatore divino, il pensatore supremo, il pensatore più artistico più creatore che ci sia, ha sfornato col suo pensare il mondo. Cosa sono le cose? concetti del Logos, idee del Logos, pensieri del Logos, un bel giorno ha avuto il pensiero della rosa e la rosa fu! Perché cos’è la rosa? Un pensiero. Ha avuto un pensiero della giraffa, e la giraffa fu! Cos’è la giraffa? Un pensiero. Tutto è pensiero, ogni cosa è una struttura di pensiero. Anche una macchina una Gilera, io ho fatto quattro anni a Roma in Gilera, poi si è rotta e gli altri cinque anni li ho fatti in bicicletta, allora ho notato che ci sono sette Colli a Roma! Una Gilera cos’è? anche una bicicletta cos’è? una struttura di pensiero realizzata, se non c’è alla base una struttura di pensiero non salta fuori una macchina, anche una casa è una struttura di pensieri. Quindi tutto è all’origine pensare creatore, il pensare come potenzialità all’infinito e i pensieri, i singoli concetti sono attualizzazioni puntuali di questa facoltà all’infinito del pensare. E il pensatore a livelli astronomici, i greci lo chiamavano il Logos, ma non soltanto i greci anche il Vangelo di Giovanni dice: en archè en o Lògos all’inizio di tutto ci fu, c’era, c’è sempre il pensare creatore, il pensare che crea intuitivamente. Noi creature del Logos, fatte a immagine e somiglianza del Logos partecipiamo di questa facoltà creativa, artistica in assoluto che è il pensare. La differenza tra la prima parte della filosofia della libertà e la seconda parte, sta nel fatto che l’allenamento del pensare sta dapprima nel pensare le cose che sono già state pensate dal Logos. Le cose che ci sono, il mondo che c’è, questo appunto è stato fatto diverse volte: ma se noi possiamo soltanto pensare le cose che sono già state fatte, già state pensate, già state realizzate, non siamo liberi! Io non sono libero nel creare a modo mio, come pare a me la rosa, sono determinato in un certo senso da quella struttura di pensiero che il Logos ha messo alla base della rosa, non posso inventarla io in un modo diverso la rosa! Imparando a conoscere, venendo a sapere che all’origine, alla base che la scaturigine di tutto ciò che è conoscibile in quanto già esiste, c’è il pensare che per natura sa pensare cose che non ci sono, le crea, allora dico: allora ci deve essere un’altra dimensione, una seconda dimensione del pensare che si riferisce alla creazione che io immetto nel mondo e che ancora non c’è. E che cos’è che l’uomo crea in assoluto perché prima non c’è mai stato? Ciò che fa lui individualmente se lo fa non copiando nessuno, inventando qualcosa di nuovo che prima non c’è mai stato. Adesso lo dico in nuce, lo dico cogliendo la cosa nel centro: ognuno di noi ha la percezione, il pensare si accende sempre nella percezione, ha la percezione della sua situazione di vita. Prima di tutto la mia situazione di vita è unica, non ci sono due situazioni di vita uguali, perché compresa nella mia situazione di vita c’è la compagine di tutte le mie forze fisiologiche, fisiche e quindi il mio corpo in tutti i suoi miliardi di frammenti non può essere paragonato a un altro corpo. Poi nella mia situazione di vita c’è la mia compagine animica del mio cuore, del mio animo, del mio sentimento che non si può paragonare. Poi tutti gli intrecci karmici di destino con altre persone, è chiaro non c’è bisogno di tirarla lunga, la situazione di vita di ognuno è unica, e adesso uno dice che faccio? Se per sapere cosa fare si rivolge a delle norme generali, a dei comandamenti, cosa legittima finché si è bambini non ancora creatori. Finché si rivolge a delle norme di comportamento generali non è un creatore, non crea un comportamento, un modo di realizzare qualcosa nel mondo, di realizzare se stesso che è del tutto nuovo. Però ciascuno di noi lo sa che ha la possibilità, ha la potenzialità, la capacità di dire: no, momento ciò che io faccio in questa situazione di vita, in questo momento ecc. lo voglio cogliere, lo voglio creare io intuitivamente! E l’intuizione, il concetto di un’azione è un concetto come tutti gli altri, è un concetto se io lo creo intuitivamente non copiando nulla, non ubbidendo, non ripetendomi ecc. è una creazione dal nulla, nuova, da qualcosa di nuovo. E questa possibilità che è la più sublime che ci sia dell’essere umano in chiave morale, nel vessante morale, – la prima parte della filosofia della libertà è il vessante intellettuale, intellettivo di conoscenza del mondo –, questa è il risvolto morale, questa capacità di realizzarsi in modo intuitivo, unico, del tutto individuale Steiner lo chiama “individualismo etico”. Monismo di pensieri cioè un cosmo oggettivo di pensieri come lo ha creato il Logos e aperto alla realtà, alla realizzazione della libertà in chiave morale ad ogni individuo è l’individualismo etico. La legge – che poi non è una legge –, la legge di comportamento dell’individualista etico è: io faccio, io voglio fare quello che l’artista in me crea in quanto comportamento, in quanto azioni, in quanto realizzazioni, crea come qualcosa di mai esistito prima. E questo artista che crea in assoluto qualcosa che prima non c’è mai stato, potenzialmente c’è in ogni essere umano. Questo livello della moralità è quello più sublime, quello più morale, quello più buono, moralmente buono che ci sia, tutto il resto serve a rendere possibile, e vedremo lo accenno solo adesso come piccola introduzione, che un’etica degna dell’uomo deve imparare, noi abbiamo un’etica non soltanto da Immanuel Kant, anche dal cattolicesimo abbiamo un’etica che diventa sempre più anacronistica, un’etica di sottomissione, di ubbidienza. L’etica dell’ubbidienza va bene per il bambino perché il bambino non può ancora attivare questa sorgiva creatrice della moralità che realizza la libertà. Per gli adulti un’etica di ubbidienza è massimamente immorale perché cancella addirittura, presenta come immorale, l’apice supremo della moralità che è la realizzazione dell’individualità nella sua unicità, un arricchimento dell’umanità che io solo posso dare. Tutta l’etica che noi conosciamo, se facciamo un’eccezione con questo libro, con questo testo fondamentale sulla libertà è un’etica che diventa sempre più anacronistica, sempre più disumana. La legislazione, poi c’è sempre subito chi dice: ma allora se ognuno fa quello che vuole succede il caos, vedremo nel IX capitolo già in questi giorni come Steiner continua proprio a rispondere, a rintuzzare questi obiettivi che vengono fatti alla libertà. Il compito della legge, della deliberazione sempre aperta, un pensiero che ho espresso diverse volte che va sempre di nuovo esercitato, la legge ha solo il diritto di stabilire azioni proibite. In campo di norma generale si possono solo proibire certe azioni, vi ho già spiegato altre volte che non è possibile comandare un’azione. I famosi dieci comandamenti di Mosè, non sono dieci comandamenti, sono dieci proibizioni: “non rubare, non uccidere”. Quali azioni vanno per legge proibite? Con la possibilità, anzi col dovere di mettere in prigione, di limitare la presunta libertà che poi non è libertà, ma è prigionia dell’istinto, quali azioni vanno proibite? Le azioni che ledono la libertà, e basta! E azioni che ledono la libertà la persona libera non le vuole! non le ha mai volute, non le farà mai, quindi resta libero. Nella misura in cui impariamo ad omettere, a non fare azioni che ledono la libertà dell’altro è permesso tutto, ogni azione che non lede la libertà altrui ha ragione di essere, manca il motivo per proibirla perché l’unico motivo per proibire un’azione è che lede la libertà. Questo come accenno alle cose grosse che ci aspettano in questa seconda parte della filosofia della libertà. La prima parte conoscere il mondo che c’è, la seconda parte creare un mondo che non c’è, e così come la legge del creare per il Logos, lo Spirito del Sole emana luce di pensiero, emana calore dell’amore. Quindi l’origine del creare è il pensiero che crea cose così belle che vengono amate, e perciò vengono realizzate. Nella Bibbia si legge all’inizio: «e Dio vide che tutto era bello, tutto era buono», bello e buono in ebraico e in greco sono la stessa parola…
Quindi nell’individualismo etico ognuno realizza la realtà della libertà sono io, il mio io, la realizzazione dell’Io, in quanto arricchimento unico e irripetibile dell’organismo dell’umanità. VIII capitolo I fattori della vita: Ricapitoliamo tutto quello che, nei capitoli precedenti, abbiamo acquisito. Il mondo si presenta all’uomo come una molteplicità, come una somma di singolarità{frammenti di percezione all’infinito}. Una di queste singolarità {singole percezioni}, un essere fra esseri, è egli stesso. {percepisco me stesso, parlo di io}. Noi designiamo questo aspetto del mondo semplicemente come dato, e, in quanto non lo sviluppiamo noi per mezzo di un’attività cosciente, ma ce lo troviamo davanti, lo designiamo come percezione.
Tutto quello che trovo già fatto lo chiamo percezione, lo percepisco, c’è già, mi sta davanti. E quando percepisco me stesso è anche una percezione, mi percepisco, percepisco che ci sono anch’io, sono una percezione tra tante altre. Poi si scopre che in questa percezione c’è qualcosa che io non trovo nelle altre percezioni, quando io percepisco l’albero percepisco l’albero, e non mi accorgo perché lo faccio io, che io percependo l’albero ci aggiungo il concetto e dico: è un albero, ma quando percepisco l’albero non percepisco che l’albero sta pensando. Invece quando percepisco me stesso, se mi percepisco più profondamente, scopro che in me percepisco qualcosa che non è soltanto percezione. Percepisco qualcosa che creo io, ed è il pensare. Lo percepisco anche in un altro? No, no, no, quando un altro come sto facendo io adesso mi esprime i suoi pensieri, io percepisco i pensieri che lui ha pensato, ma non posso mai percepire il suo pensare in quanto attività interiore creativa. Il pensare in quanto attività interiore creativa ognuno lo può percepire soltanto in se stesso. Lo dice qui:
(VIII,1) Entro il mondo delle percezioni noi percepiamo noi stessi. Questa auto percezione resterebbe semplicemente come una delle tante altre percezioni, se dal mezzo di essa non emergesse qualcosa che si dimostra atto a collegare fra loro le percezioni in generale sta parlando del pensare naturalmente, e quindi anche la somma di tutte le altre percezioni con quella del nostro sé. Questo qualcosa che emerge non è più percezione pura e semplice, non è soltanto percezione, e neppure ce lo troviamo davanti come le percezioni. Esso sorge per opera di un’attività. {Diventa percezione solo nella misura in cui noi lo creiamo, in noi stessi possiamo percepire soltanto il pensare e i pensieri pensati che noi attivamente, con l’attività del pensare costruiamo, che noi creiamo}. In un primo tempo appare legato a ciò che noi percepiamo come nostro sé. Ma, per sua intima natura, si estende al di sopra del sé.
In altre parole, io penso e mi sembrerebbe dapprima che questo pensare, questa attività, questo movimento artistico creatore del pensare sia legato a me, sia qualcosa che io produco. No, si esprime in me ma non lo produco io, ha delle leggi immanenti, se io sto pensando alla rosa mi sto tuffando in questo pensare universale che non è fabbricato, non è legato all’individuo. Quindi il pensare si esprime nell’individuo ma non è individuale, è universale, è assoluto, è oggettivo, è interpersonale. Cos’è allora il pensare? È l’operare oggettivo dei pensieri del Logos, che si esprime anche in me, io colgo questo operare, lo percepisco in me, si esprime anche in me lo percepisco in me ma si manifesta in me. Lo percepisco in me come qualcosa che non sorge da me, ma che si manifesta in me, che è universale. I pensieri, il pensare può essere qualcosa di così reale che opera? L’architetto ha in mente, costruisce questa struttura di pensieri, queste forme lunghezza, tante finestre, tanti piani ecc. questa struttura di pensieri che è una casa. Sono capaci questi pensieri, sono talmente una realtà questi pensieri che muovono tutto il corpo, muovono le braccia ecc. e fanno saltar fuori la casa, quindi cos’è operante nelle braccia che si muovono a costruire la casa? I pensieri, il pensare come sostanza vivente operante, indipendente da me, si manifesta in me. La scienza dello spirito questo livello del mondo, dove i pensieri divinamente pensati operano, vivono, strutturano, fanno sorgere la rosa, fanno sorgere il tulipano, fanno sorgere tutte le cose, lo chiama la sostanza eterica del mondo. L’etere è la realtà dei pensieri viventi operanti, è una dimensione reale del cosmo in cui viviamo, però prima di credere a un Rudolf Steiner che c’è questo etere, questa terminologia esoterica la possiamo lasciar da parte. La filosofia della libertà ci porta in chiave di pensiero quello che abbiamo tutti in comune senza essere iniziati o esoterici, e ci dice ma il pensare noi lo cogliamo, lo percepiamo sempre più genuinamente, sempre più oggettivamente, dobbiamo cogliere il pensare come una realtà operante, anche indipendentemente da me, che si manifesta in me.
(VIII,1) Alle singole percezioni aggiunge qualifiche di natura mentale, {di natura di pensiero, intellettuale, di natura ideale,} che sono in rapporto le une con le altre e che si fondano sopra un intero. Qualifica mentalmente, come fa per tutte le altre percezioni, anche quello che risulta dall’autopercezione, e lo contrappone agli oggetti come soggetto, come «io». Questo qualcosa è il pensare, e le qualifiche mentali ideali sono i concetti e le idee. Il pensare comincia dunque a manifestarsi nella percezione del sé; ma esso non è soltanto soggettivo; infatti il sé {– l’io –} si designa come soggetto soltanto con l’aiuto del pensare. {L’abbiamo esercitato diverse volte nella prima parte della filosofia della libertà, che il pensare è sovra soggettivo, e crea i concetti di soggettivo, di oggettivo, è meta soggettivo, al di là del soggettivo}. Questo rapporto mentale, pensante con se stessi è una qualifica, una qualificazione di vita della nostra personalità. Per esso conduciamo un’esistenza puramente in idee, per esso ci sentiamo esseri pensanti. Questa qualificazione di vita rimarrebbe puramente concettuale, {(peraltro potete cancellarlo)}, logica se non intervenissero altre qualificazioni del nostro sé, saremmo allora esseri la cui vita si esaurirebbe nello stabilire rapporti puramente mentali fra le varie percezioni, e fra le percezioni e noi stessi. Se chiamiamo conoscere, {se si denomina conoscere,} lo stabilire un simile rapporto mentale, e se si chiama sapere lo stato del nostro sé che si ottiene per mezzo di esso, noi dovremmo considerarci col verificarsi della suddetta ipotesi, se fosse vera la suddetta ipotesi come esseri puramente conoscenti e sapienti.
Come un computer o internet che raccoglie Google, che raccoglie un’infinità di elementi conoscitivi, li pone in un sistema, li cataloga, li sistematizza ma resta puramente una faccenda conoscitiva. Invece non è vero che con l’Io abbiamo un rapporto puramente mentale, conoscitivo col mondo, c’è un’altra sfera, una seconda, una terza sfera importantissima, oltre al pensare c’è il sentimento, le emozioni, il mondo delle emozioni e c’è il volere. Quindi sono tre i modi di rapporto col mondo: ci poniamo in rapporto col mondo pensando, le cose del mondo suscitano il sentimento la sfera del cuore, dell’animo e poi gli arti braccia e piedi sono la volontà. Pensiero, sentimento e volontà sono tre modi spiccatamente diversi di porsi dell’uomo in rapporto col mondo. E in fondo la prima parte della filosofia della libertà ha considerato soltanto il modo pensante di porsi in rapporto col mondo, adesso dove si tratta di simpatie e antipatie, di sentimenti, di ciò che ci piace o non ci piace, in base al sentimento poi la volontà. La seconda parte fa emergere in modo molto più forte il sentimento e la volontà. Cosa c’è prima del pensiero che viene dal mondo? Cosa c’è tra Io e mondo? La percezione. La percezione viene dal mondo e accende o io accendo in base alla percezione i concetti col pensiero. L’interiorità umana è triplice: pensiero, sentimento e volontà, da fuori viene la percezione e verso fuori va l’azione, l’azione è di nuovo un rapporto dall’Io al mondo. Quindi percepire mette in moto il pensiero, da pensiero si fa sentimento, dal sentimento alla volontà; e pensiero, sentimento e volontà mettono in moto l’agire e l’agire ci riporta nel mondo, l’agire è un intervenire sul mondo, far qualcosa nel mondo, cambiare qualcosa nel mondo. Quindi l’interiorità dell’uomo è fatta di queste tre dimensioni fondamentali che sono: il pensiero, il sentimento e la volontà. La percezione viene dal di fuori e va dentro, l’azione parte da dentro, il voluto, la volontà come tale è ancora interiore, ciò che io voglio è un pensiero. Cos’è un atto di volontà? È un pensiero carico di sentimento e carico di impulsi volitivi, quindi con una carica volitiva che tende verso l’agire, verso il realizzarsi, altrimenti resta un puro pensiero e la cosa mi lascia indifferente. Vuoi venire al cinema? Ehm… si ferma al pensiero, cinema è un concetto. Vuoi venire al cinema a vedere L’albero degli zoccoli? Un americano che mi conosceva, io ero appena tornato dal Laos, mi ha detto Pietro è uscito un film al cinema “L’albero degli zoccoli” di Olmi, forse ve lo ricordate, descrive proprio alla perfezione la mia infanzia, e lui mi ha detto prenditi almeno due fazzoletti quando vai a vederlo! E io cosa ho detto? Sì, sì voglio, voglio! La volontà e sono andato a vederlo. Quindi c’è una struttura molto bella tra il pensiero, sentimento, volontà e l’agire, però alla base del pensiero c’è sempre una percezione, c’è un’interazione tra l’interiorità dell’Io e il mondo in chiave di percezione che va dentro, entra nell’interiorità, e in base al pensiero, sentimento e volontà ritorna fuori e incide sul mondo con l’azione agendo.
(VIII, 2) Ma l’ipotesi non regge, {quindi l’ipotesi che noi abbiamo soltanto un rapporto di pensiero col mondo, l’ipotesi non regge perché abbiamo un rapporto di sentimento e di volontà col mondo}. Noi non riferiamo le percezioni a noi soltanto in modo ideale per mezzo del concetto, ma anche per mezzo del sentimento, {certe cose ci piacciono altre non ci piacciono, certe cose evocano in noi simpatia, altre antipatia} come abbiamo veduto. Non siamo quindi esseri con un contenuto di vita puramente concettuale. Il realista ingenuo primitivo vede anzi nella vita del sentimento una più reale vita della personalità che non nell’elemento puramente ideale del sapere, e dal suo punto di vista egli ha tutte le ragioni di prospettarsi le cose a questo modo.
Perché il realista ingenuo vede nel sentimento una realtà molto più immediata che non in questa rarefatta realtà dove ci sono soltanto pensieri che non sono realtà? Perché il sentimento è più immediatamente percepibile che non il pensare, tanto è vero che noi percepiamo il pensare solo in via di eccezione, perché normalmente disattendiamo il pensare perché lo produciamo noi. E disattendere il pensare significa non percepirlo. Quindi per il realista ingenuo siccome l’uomo ordinario non percepisce il suo pensare perché lo crea, ci vive dentro, ma percepisce il sentimento: mi accorgo di aver rabbia, allora il realista ingenuo, che siamo tutti noi in partenza, pensa che io nel sentimento ho una realtà più densa, ho una realtà più completa che non in un pensiero, un pensiero è solo un pensiero ma un sentimento? un pensiero non è una realtà, la rabbia quella sì! Tutta la mistica per esempio, è fondata sull’affermazione che dice: ma smettiamola con questo speculare, tutte questioni di lana caprina, tutto questo disquisire intellettuale, le cose vanno vissute! Oppure in teologia: ma che m’interessa chi è il Cristo in sé e per sé, l’importante è il mio rapporto con lui! Il mio rapporto con lui è ciò che io sento. E implicitamente si vuol dire finché vogliamo disquisire chi il Logos ecc. in chiave di puro pensiero non ci intenderemo mai, ma un rapporto lo sento quando io lo venero questo Cristo, allora col Logos, il vangelo di Giovanni lo chiama Logos, però il credente normale diciamo un po’ squattrinato, non lo vuol chiamare Logos, perché quella è una cosa così rarefatta, intellettuale. E questo povero Cristo se lo fa ognuno a modo suo, l’importante che gli voglia bene, l’importante che senta le sue lacrimucce quando prega il Cristo… Una persona che rende il sentimento più importante che non il pensare ha soltanto se stesso e ha perso tutto il mondo. Perché il sentimento è puramente personale, ognuno ha un mondo di sentimento suo, chiuso in se stesso. Nel sentimento ogni essere umano è un mondo a sé, chiuso in sé, un sentimento non è comunicabile in assoluto, e ci siamo detti diverse volte che la gioia di una persona non è mai la stessa gioia di un’altra. La gioia di chi ha vinto all’otto è tutt’altra gioia dell’amico che ha gioia perché quell’altro ha vinto o perché gli dà una piccola parte. Perché anche se gli regalasse tutto è la gioia di chi riceve, tutta diversa dalla gioia di chi dà. Se l’essere umano si riducesse al sentimento avremmo una frantumazione assoluta o una incomunicabilità assoluta fra gli esseri umani; e sottolineare il sentimento vuol dire aumentare l’isolamento, la solitudine e l’incomunicabilità. Cosa stiamo facendo adesso? Sto esprimendo pensieri sul sentimento, il concetto del sentimento, quindi anche il sentimento è una percezione e diventa qualcosa soltanto se ci aggiungiamo i concetti. Il concetto di sentimento è che percepisco qualcosa che è del tutto personale, del tutto individuale se volete, qui Steiner usa la parola individuale come sinonimo di personale. Nel sentimento ognuno è un compartimento stagno incomunicabile, di fatti il pensiero dovuto all’interazione con la percezione ci aggancia sempre col mondo, la volontà se è vera volontà, non soltanto desiderio che è un sentimento, la volontà ci aggancia al mondo attraverso l’azione. Ciò che ci chiude, cosa legittima però i concetti devono essere giusti, ciò che ci chiude in noi stessi è il sentimento, naturalmente anche il sentimento ci deve essere perché se non ci fosse il sentimento la persona si perderebbe nel mondo in chiave di pensiero, si perderebbe nel mondo in chiave di volontà e di azione, e non avrebbe la capacità di chiudersi in se stesso, di avere una fisionomia propria. Però ipertrofizzare, esaltare, esagerare la dimensione del sentimento e sminuire l’importanza del pensiero, e l’importanza di volontà significa chiudersi più del necessario in se stessi più di ciò che è giusto. Secondo il principio fondamentale del realismo primitivo attestante che è reale tutto ciò che può essere percepito, il sentimento è la garanzia della realtà della propria personalità. Anche perché il pensare lo percepiamo nel nostro soggetto ma non è qualcosa di personale, invece il sentimento è veramente qualcosa di personale, quindi il sentimento è molto più garante della propria personalità che non il pensare. Il pensare si manifesta nella mia personalità, ma non è proprietà della mia personalità, invece il sentimento è proprietà esclusiva, proprietà privata della mia personalità, lo percepisco proprio come proprietà privata della mia personalità. Ma il monismo qui inteso deve attribuire al sentimento lo stesso completamento che reputa necessario per la percezione se vuol rappresentarsela come realtà compiuta. Quindi bisogna creare anche il concetto del sentimento ed è quello che stiamo facendo il concetto del sentimento, che il sentimento è qualcosa di puramente interiore, puramente individuale e personale. Per questo monismo il sentimento è una realtà incompleta in quanto percepito, in quanto percezione, che nella prima forma in cui ci è data non contiene ancora il suo secondo fattore il concetto o l’idea. Per tale motivo altrettanto come la percezione il sentimento sorge dovunque nella vita prima della conoscenza. In un primo tempo abbiamo il sentimento della nostra esistenza, e soltanto nel corso del graduale sviluppo ci apriamo il varco fino al punto in cui in mezzo alla nostra esistenza oscuramente sentita ci appare il concetto del nostro sé. Quindi cominciamo a pensare anche sul sentimento, a creare il concetto del sentimento. Ciò che per noi sorge solo più tardi, il pensare, il concetto è però originariamente congiunto in modo inseparabile col sentimento. Per effetto di questa circostanza l’uomo primitivo arriva all’opinione che l’esistenza si presenti a lui direttamente nel sentire e indirettamente nel sapere. La formazione della vita del sentimento gli appare quindi più importante di ogni altra cosa, egli ritiene di aver afferrato la connessione del mondo soltanto quando l’ha accolta nel suo sentire. E come mezzo alla conoscenza egli cerca di servirsi non del pensare ma del sentire. Tanti parlano dell’intuizione del cuore, come opposto dell’intuizione della mente, per intuizione del cuore intendono un qualche tipo di sentimento vago, perché il concetto diventa preciso solo quando sorge al livello del pensiero. E come mezzo alla conoscenza egli cerca di servirsi non del sapere ma del sentire, non del pensare ma del vivere, poiché il sentire è cosa del tutto individuale o personale da mettere alla pari con la percezione, il filosofo del sentimento eleva a principio universale un principio che ha un significato soltanto dentro la sua personalità. Cerca di impregnare il suo proprio sé il mondo intero, riduce il mondo al suo vissuto, la realtà è ciò che vivo, la realtà è ciò che ognuno vive, questa è la massima del filosofo del sentimento. Il filosofo del sentimento cerca di raggiungere col sentimento ciò che il monismo, come qui è inteso, vuole afferrare nel concetto. E considera tale sua comunione con gli oggetti come la più immediata. Il sentimento noi lo cogliamo prima come percezione, come tutte le altre cose, l’albero lo colgo prima come percezione, e poi in un secondo momento col pensare ci aggiungo il concetto. Ma nella percezione non ho una realtà completa, perché il concetto appartiene, la rosa senza concetto non esiste, il sentimento in quanto percezione senza il suo concetto non esiste, e dove sono insieme e non uno dopo l’altro il sentimento come percezione e il sentimento come concetto? Ripeto la domanda: noi quando ci poniamo di fronte al sentimento abbiamo prima la percezione del sentimento, della gioia come per tutte le altre cose, e poi col pensiero diciamo: è gioia, il concetto. E tutta la prima parte della filosofia della libertà è servita a dirci: sta attento che quello che tu scindi in due e poi riunisci insieme, in origine si appartiene, sei soltanto tu che scindi per poi darti la possibilità di ricongiungere, ma in origine sono insieme, non esiste la rosa in quanto percezione senza il concetto della rosa, non sarebbe mai sorta la rosa. Allora rifaccio la domanda: dove esistono sentimento in quanto viene percepito, in quanto percezione e sentimento in quanto concetto del sentimento, non uno dopo l’altro ma insieme? Nel creatore dell’uomo. Colui che ha creato l’uomo, il Logos per esempio, supponiamo che sia il Logos che ha creato l’uomo, si è fatto il concetto di sentimento, non può far sorgere il sentimento per noi come percezione, senza averne avuto il concetto. Quindi in un certo senso è proprio l’opposto: prima c’è stato il concetto del sentimento: voglio creare un essere capace di sentimento, e questo concetto ha fatto saltar fuori l’uomo che è un essere capace di sentimento. Questo sentimento che è percezione e concetto per noi, dove la percezione viene prima e il concetto viene dopo, lo interpretiamo come tutte le altre cose e diciamo in origine c’è però il concetto. Quindi anche il sentimento in quanto percezione non ci sarebbe se non ci fosse stato qualcuno che ha creato il concetto di sentimento, il sentimento sia e il sentimento fu, e per dire il sentimento sia deve avere il concetto di sentimento. Devo creare un’anima capace di sentire all’interno gioia, dolore, simpatia, antipatia ecc. allora ripeto: il realista ingenuo pensa che avendo la percezione del sentimento ha una realtà immediata! No, non si accorge che sta creando il concetto di sentimento, ed è soltanto all’inizio e si sbaglia perché pensa che il concetto di sentimento sia una percezione pura. Ma una percezione pura non è una realtà, ogni percezione è soltanto un lato di una realtà, e il concetto mi dà la realtà completa. Faccio la domanda in un altro modo: il sentimento è una percezione o un concetto? Diventa una realtà soltanto quando percezione e concetto si uniscono in una unità. Se ho soltanto la percezione non ho una realtà, se ho soltanto il concetto di sentimento e non diventa percezione non ho la realtà del sentimento. La realtà del sentimento è l’insieme di percezione e di concetto, come tutte le altre cose, però l’essenza me la dà il concetto non la percezione, perché la percezione è un sentimento puro. La percezione è il sentimento della carenza del concetto, e la carenza di un concetto cos’è? sentimento mi manca qualcosa, lo sento che mi manca qualcosa, quindi nella percezione pura sento che mi manca qualcosa. Sto cercando adesso psicologicamente di dire cose, perché non si può dire cos’è la percezione, perché non è nulla, è una mancanza. Però sento che mi manca qualcosa, un sentimento. Ci siamo tante volte detti ma allora se la percezione non è una realtà, diventa una realtà soltanto in base al concetto, allora cos’è la percezione? Un senso di carenza, un sentimento di carenza, sento che mi manca qualcosa, questo sentimento di carenza è qualcosa o non è qualcosa? È paradossale la cosa! Perché quando sento che mi manca qualcosa, c’è il sentimento ma manca il concetto appunto. Quindi la percezione pura è un senso di insoddisfazione, e questo senso in italiano si chiama sentimento: manca, manca, manca crea il concetto allora hai la realtà. Il sentimento in quanto pura percezione è un senso di insoddisfazione, ci aggiungo il concetto come abbiamo cercato di fare adesso, allora ho la realtà del sentimento, dico in chiave di pensiero cos’è il sentimento, e ci siamo detti che ogni concetto è molto complesso.
(VIII,3) La tendenza qui accennata, la filosofia del sentimento, viene spesso designata col nome di mistica. L’errore di questa maniera mistica di vedere costruita solo sul sentimento, consiste nel fatto che essa vuole sperimentare, {vuole vivere, vuole sentire} quello che deve sapere, {che deve conoscere, che deve pensare,} e vuole elevare un elemento individuale {anzi personale}, il sentimento, ad elemento universale.
Importantissimo che ci rendiamo conto che il sentimento non ci dà nessuna base di intesa. Se vogliamo un minimo di comunità, di comunanza, di intesa dobbiamo rivolgerci all’elemento oggettivo, il sentimento è il puro soggettivo. Non c’è nulla di sentimento che sia uguale da un essere all’altro, invece nell’elemento del pensiero è tutto universale, se è veramente pensiero è lo stesso in un soggetto e lo stesso in un altro. Tant’è vero che dicevamo che il pensare si manifesta nell’individuo ma è oggettivo, è universale, non ci sono due concetti di triangolo, ce n’è uno solo. E il percepito del sentimento ce ne sono tanti quanti sono gli esseri umani, ciò che una persona percepisce nel suo mondo di sentimento è tutto diverso su tutta la linea, non c’è nulla dove ci si possa intendere, creare qualcosa di comune che non nel mondo del sentimento dell’altro. Quando uno dice: ma cerca di capirmi! Il capire è una faccenda del pensare non del sentire. Cerca di capirmi non intellettualmente, cerca di immedesimarti in me! Ehm… chiedi un po’ troppo! Dovrei terminare di essere io, dovrei far sparire te e diventare io te al tuo posto! Val la pena? A parte che non funziona la cosa. Il mondo del sentimento dell’altro è un sacrario intoccabile, ed è bello che sia così, e ognuno può dire all’altro sul mondo dei miei sentimenti tu non hai nulla da dire, ed è bello che sia così. Invece in chiave di pensiero continuiamo a martellare finché no, no, non è così, cioè vogliamo cogliere ciò che è oggettivo, dove tutti siamo d’accordo. Se ci fosse solo questo non ci sarebbe il mondo sacro di ognuno, è l’eco del mondo interiore di ognuno ed è diverso in ognuno in assoluto su tutta la linea. Il mondo dei miei sentimenti non ti riguarda per nulla, e il mondo dei tuoi sentimenti non mi riguarda per nulla. Tu sei pieno di gioia certo che io posso gioire con te, ma non è un carpire la tua gioia, è un venerare con gioia il tuo modo sacro intoccabile di gioire. Immaginiamo quante violenze noi facciamo sul mondo dei sentimenti gli uni sugli altri, vorremmo sindacare, è proprio il mondo intoccabile in assoluto, dove nessuno può sindacare in assoluto. Però appunto per questo non è in assoluto il mondo, l’elemento di intesa, l’elemento di conoscenza dell’oggettività del mondo. Il modo di vivere il mondo di ognuno è cosa sua, non c’è nulla da dire, sui sentimenti di una persona non c’è nulla da dire. Ha detto che peccato! Un sentimento suo! Su questo tuo sentimento noi non abbiamo nulla da dire! Che peccato, ah non è più un peccato.
I. che peccato, perché siamo proprio degli estranei nonostante tutto rimaniamo estranei, è questo che mi spaventa un po’, ci possiamo anche incontrare da un punto di vista di pensiero ma.
A. guarda che siamo estranei perché questa sfera del pensiero è atrofizzata del tutto, perché se questa sfera del pensiero si esplicasse all’infinito, altro che estranei!
I. vabbè aspetto! Mi fido, aspetto vediamo.
A. se noi avessimo espresso altrettanto fortemente il pensare quanto abbiamo il sentimento, diremmo l’opposto, che peccato che siamo soltanto oggettivi, vorrei avere un mondo tutto mio, non ce l’ho, non ce l’ho, non ce l’ho! Quindi si tratta del giusto equilibrio, resta il fatto che il concetto del pensare è che è universalizzante, crea comunione. E il concetto del sentimento è che crea la delimitazione di qualcosa che è soltanto mio, e tutti e due sono ugualmente importanti.
I. mi sembra che possiamo assaggiare quest’altra qualità del sentimento ogni tanto, non sempre, magari parlando con qualcuno e intendendosi veramente su una cosa, raggiungendo un traguardo che riguarda la sfera logica, raggiungendolo insieme possiamo gioire insieme dello stesso sentimento, insomma i due sentimenti sono in qualche modo simili.
A. certo tu dici due persone che sentono gioia, in quanto è gioia in A e gioia in B
I. cioè per la stessa conquista di pensiero.
A. A è pieno di gioia, B è pieno di gioia, cos’hanno in comune? Il concetto del sentimento della gioia, ma il lato di percezione del sentimento della gioia è del tutto diverso. In altre parole la gioia che B percepisce in sé, questa percezione è tutta diversa dalla gioia che A percepisce dentro di sé. Il concetto è lo stesso, ma il concetto fa risalire alla sfera del pensare. Tu dici il concetto di gioia non è soggettivo, è universale, certo ma soltanto il concetto, e il percepito e la percezione è unica in ognuno diversa. Tu percepisci la gioia dell’altro? No, e l’altro percepisce la tua gioia? No e basta.
I. ?
A. sì soltanto il concetto è universale.
I. dicevamo l’altra volta che nell’altro possiamo percepire non la gioia ma dicevi la manifestazione.
A. certo, B descrive a A la sua gioia, cosa percepisce A? la descrizione della gioia non il sentire, ha la percezione dell’espressione della gioia, non della gioia in B, la gioia in B la può percepire solo B, io percepisco le parole che mi dicono che cosa lui vive, ma cosa lui percepisce come vissuto suo, è suo, è logico.
I. la ragazza dice una cosa che è interessante, cioè è come dire è vero che la percezione interiore ognuno ha la sua dei suoi sentimenti, però è come se ci fossero delle famiglie, fra amici, tu hai come una famiglia di sentimento, cioè tu ti accorgi che in quel momento quello che provi tu e quello che prova lui è molto simile, poi è individuale sicuramente, ma nei momenti di comunanza anche come dice lei, per il raggiungimento di una conquista di pensiero insieme, tu ti accorgi che hai partorito un sentimento dentro di te che immagini forse che sia molto simile al suo, perché lo vedi manifestarsi in un modo che è molto simile al tuo. Come se ci fossero delle famiglie che si assomigliano in questo vivere un certo sentimento.
A. no, no, no siamo fuori, è difficile da spiegare. Mi servo di due immagini: abbiamo 30 pere e 30 persone, ognuno mangia una pera, mangiano qualcosa di simile? No, ogni per è un’altra pera, lui mangia un’altra pera, non è che mangia qualcosa di simile a ciò che mangio io, mangia un’altra pera. Cioè il suo mangiato è tutt’altra cosa che il mio mangiato.
I. questo è certo, hai ragione.
A. ecco, sta attento, quindi anche se a livello di concetto la gioia è paragonabile, a livello di percezione è un altro percepito. Così come le pere son tutte pere, però quella che mangia lui non è per nulla di quella che mangio io, e quella che mangio io è nulla di quella che mangia lui! 30 giovani fanno il tifo per il Milan e vedono una partita di calcio, la gioia, l’eccitazione ecc. è paragonabile? Il concetto coglie ciò che è comune, ma ognuno mangia la sua gioia, è come una pera che ognuno mangia la sua. Il concetto coglie ciò che è comune, ma il concetto siamo fuori dal sentimento, proprio questo è il punto.
I. perché per il singolo individuo è così importante pensare che l’altro percepisca qualcosa di simile?
A. se siamo in 30mila che guardiamo una partita di calcio, è ben chiaro che percepiamo.
I. certo la partita la stiamo guardando, siamo tifosi della stessa squadra.
A. però sta attenta, anche a livello di percezione percepiscono tutti la stessa cosa?
I. secondo me no, perché però mentre ci ragioniamo, sembra quasi che noi volessimo pensare che percepiamo la stessa cosa, perché c’è questa necessità nella persona, nell’uomo?
A. la percezione pura è un sentimento, solo il pensare è universale, è comune, solo i concetti, non la percezione, e tu lo confermi dicendo no, anche 30mila persone che guardano la stessa partita, ognuno ha una serie di percezioni del tutto individuali, del tutto diverse, ed è giusto perché la percezione è un sentimento, in quanto tale è un sentimento. Il pensare ci aggiunge una dimensione che è universale, ma solo il pensare, se io tolgo il pensare nella percezione, nel sentimento, anche negli impulsi volitivi, il senso del pensare è tutto assolutamente soggettivo. E lo vedremo che soltanto in base al pensiero, c’è nel sentimento e nella volontà l’elemento oggettivo, soltanto grazie al pensare. E la stessa cosa vale per la percezione, come ho definito io prima la percezione pura senza concetto? Un senso di carenza, un senso di insoddisfazione! Un senso di insoddisfazione è un sentimento, e siccome in questo senso di insoddisfazione sono prigioniero di me stesso, sono chiuso in me stesso e non ho nulla di oggettivo, cerco il concetto, e nel momento in cui cerco il concetto cerco una comunanza, cerco una oggettività dove tutti dobbiamo essere d’accordo, altrimenti non è il concetto.
I. se io posso trovare un concetto del sentimento, vuol dire che quel tipo di emozione è concettualizzabile per cui ha un’oggettività.
A. no, tutto è concettualizzabile, anche la pera che io mangio, però quello che io sento dentro di me, interagendo con questa pera, ciò che io sento dentro di me, è tutt’altra cosa di ciò che sente l’altro mangiando la sua pera.
I. ma il fatto che io gli posso dare un concetto a questo sentimento, cioè chiamandolo in un certo modo e aggiungendo la parte di pensiero che ha lo devo per forza rendere.
A. no, qual è il concetto del sentimento.
I. cioè se torniamo alla margherita, per aver la realtà della margherita ho la percezione e il concetto, mettendoli insieme ho la margherita però.
A. no, sta attento ridacci il concetto di sentimento, qual è il concetto di sentimento?
I. il concetto di sentimento è il vissuto individuale.
A. il vissuto che non è comunicabile, e questo concetto di non comunicabilità è oggettivo e vale per tutti, ma è il concetto di non comunicabilità, non lo rende il concetto opposto.
I. ma io come faccio allora a dargli un nome?, è incomunicabile però io nello stesso momento posso dargli un nome, lo chiamo in qualche modo.
A. il concetto è comunicabile non il sentimento, il concetto di sentimento è comunicabile non il sentimento. Il concetto di gioia è comunicabile, non la mia gioia.
I. ah sì, sì.
A. è di questo che stiamo dicendo, tu parli come se il sentimento come tale fosse comunicabile, no il concetto è comunicabile ma non il sentimento. Non mollando ci arriviamo un po’ alla volta, le cose vanno masticate, però questo è molto importante, altrimenti se noi non distinguiamo che anche di fronte al sentimento in quanto percezione noi creiamo il concetto di sentimento, e non distinguiamo, noi rischiamo di dare sempre e di nuovo più importanza al sentimento che non al pensare. E distruggiamo ogni possibilità di creare veramente intesa e comunanza.
I. ma questa insoddisfazione può essere generata anche da questo isolamento? questa carenza che ci dà il sentire, può essere generata anche da questa percezione dell’isolamento? di una cosa che non puoi comunicare e quindi esige di arrivare a un concetto che.
A. quindi la percezione del sentimento.
I. ci isola? Avvertiamo l’isolamento, la chiusura di questa cosa e ci genera insoddisfazione per questo anche?
A. e genera in noi il desiderio di assurgere all’altra dimensione che è comunicabile. E se noi avessimo solo questa dimensione, ci mancherebbe la possibilità di avere un mondo mio, sennò vengo gestito sempre dal di fuori, e avremmo ugualmente il desiderio ognuno di chiudere la porta e di essere con se stesso. Perciò si tratta del giusto equilibrio tra questi tre elementi: di pensare quando va pensato, di sentire quando va sentito, di volere quando va voluto, di agire quando s’ha da agire. Quella è la saggezza della vita.
I. se partiamo da quello che abbiamo affermato adesso: il concetto di sentimento è che non è comunicabile. Poi gioia, rabbia, entusiasmo sono tutte percezioni diverse, però hanno in comune lo stesso concetto che non sono comunicabili?
A. no, sono concetti di singoli sentimenti.
I. sì ho capito ma se il concetto di sentimento è l’incomunicabilità.
A. e se gioia è un sentimento.
I. gioia è un sentimento per cui il concetto di gioia è l’incomunicabilità della gioia; il concetto della rabbia è l’incomunicabilità della rabbia, cioè hanno in comune, diversi sentimenti hanno in comune questo dato dell’incomunicabilità, che diventa singolo perché uno è l’incomunicabilità della gioia, l’altro è l’incomunicabilità della rabbia.
A. nel concetto di sentimento hai preso una metà di questo concetto che è l’incomunicabilità, ma l’altra metà adesso l’abbiamo un pochino messa da parte che è un vissuto, è un vissuto incomunicabile. La gioia è un particolare vissuto incomunicabile, la rabbia è un particolare vissuto incomunicabile. Se tu hai soltanto nel concetto di sentimento l’incomunicabilità.
I. no, io lo rendevo singolare per ciascun sentimento, proprio per dire la gioia è un vissuto o un sentimento incomunicabile, la rabbia è un sentimento o un vissuto incomunicabile.
A. quindi? È un sentimento quindi incomunicabile, però prima tu hai parlato dell’incomunicabilità come se l’incomunicabilità fosse il tutto del concetto di sentimento, è un aspetto del concetto l’incomunicabilità.
I. e l’altro aspetto del concetto qual è?
A. che è un vissuto, qualcosa che io vivo dentro di me, la rabbia è qualcosa che io vivo dentro di me, non basta dire è incomunicabile, perché se tu mi dici che è incomunicabile, io ti chiedo cos’è che non è comunicabile? È un vissuto.
I. tu l’hai chiamato il vissuto io l’ho chiamato il sentimento di gioia, è la stessa cosa.
A. sì però parlavamo del concetto di sentimento, tu non mi puoi dire che il concetto di sentimento è che è un sentimento, nella definizione di un concetto non devi usare la stessa parola, è un vissuto incomunicabile, cercavamo il concetto di sentimento perché se tu mi dici il concetto di sentimento è un sentimento, allora non va avanti il pensare.
I. però il concetto di gioia mi trova d’accordo, il concetto di gioia è unico, è uno.
A. certo il concetto di gioia è uno, il concetto di gioia è che la gioia è un particolare sentimento che quindi è incomunicabile come tutti gli altri sentimenti, è un particolare sentimento, un particolare vissuto, incomunicabile come tutti gli altri vissuti.
I. la mia gioia è incomunicabile.
A. cioè il mio vissuto, la mia gioia in quanto mio vissuto non posso comunicarlo.
I. ma la gioia come concetto è comunicabile.
A. no, io non posso comunicare a voi dei concetti, è universale, è passibile di essere colto.
I. che differenza c’è fra la gioia e il dolore? se sono tutti e due incomunicabili?
A. un concetto non si può comunicare, lo si può solo pensare. Se i concetti fossero comunicabili voi non avreste che da star lì, e io vi comunico tutti i concetti che ho, e ve ne andate via di qua che ce li avete tutti quanti! No eh! Un concetto è un frammento di pensiero passibile di essere colto da ogni essere pensante, che poi tu lo faccia o no sono affari tuoi, ma di concetto di gioia ce n’è uno solo. Ma un pensatore non lo può comunicare all’altro, perché se lo comunicasse all’altro per l’altro sarebbe percezione, l’opposto di un concetto. Cioè il concetto di concetto è che ognuno lo può creare soltanto col suo pensare. Così come ci intendiamo che la pera che mangi tu è una pera e anche quella che mangio io, ma un concetto che creo io te lo posso mettere dentro a te?
I. no però la mia comunicazione che ti do può essere un’occasione di pensare tuo che arriva al concetto. Cioè io ti do una percezione mia del mio vissuto che tu ripensandola, mettendo in moto il tuo pensare, ti fa arrivare al concetto di gioia ad esempio.
A. perciò dicevamo che il pensare, l’attività del Logos, è sovra, è universale. Adesso qui abbiamo due persone, una esprime un concetto se esprime un concetto è qui, non è qui dentro di sé. L’altro dice: – ed è questo che tu stavi dicendo – ti capisco, siamo nello stesso elemento universale. Cioè quando noi creiamo concetti siamo oltre questa sfera individuale, siamo nell’elemento comune del pensare. Colui che pensa il concetto di triangolo, l’abbiamo detto nella prima parte, il conoscitore nell’atto del conoscere e il conosciuto nell’atto di venir conosciuto sono la stessa cosa, quindi colui che pensa il concetto di triangolo è questo concetto in quanto spirito pensante. E l’altro che ti dice: ti capisco è triangolo, in quanto pensano il concetto di triangolo sono tutti e due spiritualmente triangolo. Qui c’è l’uomo A e qui c’è l’uomo B, l’uomo A dice: che gioia! È tornato qui, l’altro dice: che gioia! È tornato qui, la gioia di B è tutta in B, la gioia di A è tutta in A
I. però quando tu dici se io penso concetto divento triangolo.
A. come spirito pensante e in quel momento non sono senziente, sono puramente spirito pensante. Nel momento in cui dico: che gioia! Sono ripiombato dentro di me, e lì sento la gioia, ma mentre penso al concetto di triangolo io non sento nulla, penso, sono puro pensiero, altrimenti non ci sarebbe il pensare puro scusate! Nell’istante in cui io penso il concetto di triangolo sono puro pensiero, sono oltre l’individuale o il personale.
I. e quando penso alla gioia?
A. costruisco il concetto di ciò che percepisco dentro di me.
I. quel concetto che ho costruito è fuori di me.
A. no, no quando tu pensi alla gioia, hai finito di dire: che gioia! Stai costruendo il concetto di gioia, allora ritorni su, e l’altro dice: sì, sì questo è il concetto di gioia. Adesso di fronte al concetto di gioia compreso così bene l’uno dice: ah che gioia che ho il concetto della gioia! E torna in sé, e l’altro dice: che gioia che ho capito il concetto di gioia, e ritorna in sé.
I. quindi non comunico l’esperienza della gioia, ma posso comunicare a un altro, cioè dargli lo spunto per pensare la stessa cosa della gioia?
A. no, posso esprimere i miei pensieri.
I. sì e con quelli lui pensare la gioia.
A. se esprimo pensieri puri sono qui, che l’altro entri qui o no sono affari suoi.
I. sì, se lo fa però arriva dove sono arrivato io, se pensa al concetto di gioia giunge nello stesso posto dove sono arrivato io.
A. se io penso il concetto di gioia in questo istante, ma il concetto puro però eh, cosa non da poco, e l’altro pensa il concetto di gioia puro, siamo nello spirito una realtà unica, non siamo due. E questo era uno dei concetti fondamentali della Scolastica già a partire da Aristotele, e vanno esercitati sempre e di nuovo.
I. mi viene in mente forse può aiutare, un amico fisico tanti anni fa mi fece riflettere su una cosa, mi disse: ma tu pensi che il colore rosso che tutti chiamiamo rosso, sia effettivamente per te lo stesso rosso che vedo io?
A. e non lo è, lo stesso rosso che vedo io è detto sbagliato, sarebbe meglio dire: lo stesso rosso che vivo io, che sento io. Allora è chiarissimo che il rosso che sento io, che poi non è che io sento il rosso, sento un sentimento, non può essere lo stesso che sente l’altro.
I. … da piccoli ci hanno insegnato che quella cosa lì che tutti vediamo è rosso per tutti, ma quello che è in me quel rosso non lo posso spiegare a nessuno, e non è detto che sia la stessa cosa per gli altri, il fisico me l’ha spiegata meglio devo dire.
A. sta attenta, in quanto pura percezione di sentimento è diversa in ognuno, anzi è un altro mondo, però certo che quello è rosso per tutti, perché il concetto di rosso è oggettivo, rosso è un concetto.
I. ma non so se questo possa contribuire alla definizione che stiamo cercando di trovare, siamo tutti persuasi che ognuno è individuo ed è unico.
A. è complesso quello che tu stai dicendo, però supponiamo che ci capiamo.
I. ecco, supponiamo di essere tutti abbastanza d’accordo sul fatto che ognuno di noi è unico e assolutamente diverso quindi dall’altro. Se stiamo parlando di un sentimento come di vissuto, mi pare che questo sia conseguente al fatto della nostra unicità, e cioè siccome ognuno di noi è tutta una sommatoria di vissuto, di esperienze, di modo di vedere, di leggere ecc.
A. di emozioni.
I. di emozioni, sembrerebbe conseguente che appunto anche la sfera del sentimento rientri in questa unicità.
A. tu dici sennò dove siamo unici? Nel pensare no, nell’azione siamo confrontati con l’oggettività del mondo, e tu dici sì in effetti è la sfera del sentimento.
I. … l’unicità del sentire mi sembra che il pensiero non sia così importante allora per definirmi rispetto a un altro, cioè se la confluenza del pensare e il confrontarsi così del pensare non toglie niente né aggiunge niente a nessuno, questo avviene nel sentire.
A. sta attenta, adesso colgo la cosa da un altro lato, non faccio un discorso troppo lungo, cerco di venire al nocciolo della questione. Il pensiero è la sfera dello spirito, il sentimento è ciò che noi chiamiamo anima, e la volontà si riferisce all’interazione con la corporeità del mondo. Quindi volere e agire ha a che fare con ciò che noi chiamiamo corpo, senza corpo non ci può essere azione. Allora tu dici lo spirito lì mi perdo nell’universale, nel comune; la volontà lì vengo istruito, vengo preso dall’oggettività del mondo corporeo. Nell’anima sono io. Il concetto di anima – adesso uso le mie parole però cercate di capirmi – è che uno può avere un’animuccia piccola, piccola, piccola, e uno può avere un’anima grande, ma come anima. L’animuccia piccola, piccola gretta e ristretta è quell’anima che non si arricchisce come anima del mondo dello spirito e del mondo della corporeità. Invece un’anima che si apre alle gioie che soltanto lo spirito può dare, e alle gioie che soltanto l’agire può dare, diventa un’anima molto più grande. Allora tu vuoi un’animuccia se dici che l’anima è così importante, o vuoi un’anima bella grande? Quindi io ti sto dando ragione che a un certo livello l’importante per me è l’anima, a che mi serve lo spirito se non ne vivo nulla? se mi resta aereo? A che mi serve tutto il corporeo se non crea un eco dentro di me? Però la risposta è che, un’anima che si chiude in sé diventa sempre più povera, e la ricchezza dell’anima, quindi le grandi gioie, le grandi conquiste sono nell’aprirsi allo spirito e nell’aprirsi alla corporeità, altrimenti l’anima diventa sempre più tisica, sempre più povera.
I. mi perdoni, vado oltre, c’è bisogno del pensare anche per conoscere i propri sentimenti. Io, faccio un esempio così senza rimanere troppo nel teorico: se sono figlio di un arrabbiato mi faccio una rappresentazione mia della rabbia, e vivo un sentire da arrabbiato, pure forse non essendolo, perché vivo di rappresentazioni di rabbia che io ho ereditato da mio padre. Per conoscere il vero sentimento, mio, unico, della mia individualità, devo andare nel pensare che può portarmi al superamento delle mie rappresentazioni di rabbia, e superare la rabbia stessa, e conoscere che il mio sentimento non è quello di arrabbiato. Quindi non è l’unicità anche a un livello più basso non è nell’anima, io anche per conoscere un livello più basso della mia anima ho bisogno del pensare.
A. giusto, io direi per la domanda che aveva fatto lei, la risposta che ho cercato di dare io aiuta di più, perché lei diceva ma per quanto mi riguarda l’anima è importante. Adesso tu hai travalicato questa sfera e ci hai portati su allo spirito, ma lei diceva no, lo spirito mi serve soltanto nella misura in cui mi arricchisce l’anima, era questo che lei stava dicendo. Quindi per la maggior parte delle persone come sono oggi, quello che tu hai detto è un po’ astratto, è giusto quello che tu hai detto, ma un po’ astratto, portalo nel vissuto, questo che la gente vuol sentire, portalo giù nel vissuto. Tu ci hai portato, giustamente, dal sentimento come percezione al sentimento come concetto, però il sentimento come concetto non è la completa realtà del sentimento. Perché il concetto da solo non mi dà la realtà, così come la percezione da sola non mi dà la realtà, allora qual è la realtà del sentimento? Il vissuto non comunicabile, tu hai sottolineato il non comunicabile e hai mandato a ramengo il vissuto. E io dicevo questo vissuto non comunicabile, che è così importante, che è la cosa più cara che abbiamo perché è l’unica cosa che ognuno ha veramente per sé, diventa sempre più povero nella misura in cui l’anima non si apre allo spirituale e al corporeo, diventa sempre più ricco come sentimenti, anche come ricchezza di sentimento perché in fondo noi quello che cerchiamo per la nostra anima è la ricchezza di sentimento. E il concetto della ricchezza di sentimento è che il sentimento diventa ricco soltanto nella misura in cui l’anima, il sentimento, si apre verso lo spirito, si apre verso il mondo della percezione. Il corpo è il mondo della percezione, lo spirito è il mondo dei concetti, l’anima crea l’unione.
I. quindi per passare dal sentimento allo spirito, bisogna superare l’egoismo da quello che capisco.
A. sì se vuoi, bisogna superare l’egoismo, in questi due concetti di superare e l’egoismo son due concetti molto.
I. non in senso negativo, nel senso che oggi come siamo strutturati noi riportiamo tutto al contenuto di vissuto che poi ci dà, e invece è questo riportare che alla fine non ci dà niente.
A. e diventiamo sempre più poveri; c’è una differenza tra creare per quest’anima che si chiude in sé non si apre allo spirito non si apre al corporeo, il concetto di egoismo è moraleggiante. Invece il concetto di povertà, più povertà o più ricchezza è pulito. Quindi non serve a nulla che tu mi dica guarda che se ti riduci all’anima diventi sempre più egoista, e se mi va bene? No, sta attento che non sarai contento perché diventi sempre più povero, allora mi convince. Perché nessuno vuol diventare sempre più povero nel suo vissuto, perché è la cosa più bella che abbiamo. Un concetto può diventare un vissuto? No dici? E Archimede te lo sei dimenticato? Ha avuto il concetto come prima persona, il concetto della gravitazione, era al bagno con il piede nell’acqua, ah è più leggero…i corpi sono nell’acqua più leggeri che non fuori! Concetto! È sorta una gioia tale che è corso per tutta Atene nudo, ho trovato! ho trovato! Eureka! tu dici no non ha nulla a che fare col sentimento! Eureka eureka! Il pensare intuitivo, creatore è quello che dà gioia all’anima, la arricchisce più di ogni altra cosa. I sentimenti senza lo spirito sono sentimentucci, perché? Perché sono solo affari tuoi.
I. ma quindi la comunicabilità è un’illusione?
A. la comunicabilità del vissuto certo.
I. la comunicabilità del concetto è impossibile, perché ci può essere una comunione?
A. per natura.
I. la comunicabilità del vissuto è impossibile, quindi a livello sensibile, sotto il livello spirituale, la comunicabilità è un’illusione dell’uomo?
A. certo, è una prevaricazione, è una manipolazione.
I. quindi questa grande confusione che ci permea, di cui è pregna la socialità è questa illusione di comunicazione.
A. proprio questo, che diventa un soverchiarsi a vicenda, un manipolarsi a vicenda, io l’ho chiamato il sacrario intoccabile di ognuno il suo vissuto. E perché ci facciamo violenza a questo livello? Perché non esercitiamo, non viviamo, non conosciamo la sfera della comunanza, del comunicabile, e la cerchiamo là dove è contro natura. E questo come tu dici, spiega tantissimo di ciò che va a rotoli nel sociale, certo.
I. e tra l’altro è proprio la civiltà della comunicazione!
A. proprio questo, una violenza continua all’animo che dovrebbe essere intoccabile.
I. quando Steiner dice: non dire come soffro ma così parla il dolore, cos’è un passaggio dal concetto al sentimento?
A. no, l’opposto dal sentimento al concetto di dolore. Quindi ogni pretesa che l’altro dovrebbe capirmi nella sfera del sentimento, è un ricatto visto oggettivamente. E ognuno ha il diritto di avere il vissuto interiore che ha, e se noi lo rispettassimo come qualcosa di sacro non ci sarebbe nessun problema. Perché non disturba nessuno il vissuto di una persona? Perché resta tutto dentro di lei, quindi non può disturbare nessuno, è nel concetto del sentimento che non può disturbare nessun altro perché non può uscire da me.
I. quando si parla di comunione dei sentimenti? non esiste, è una prevaricazione completa, è una prevaricazione sociale.
A. ed è un’illusione.
I. però si usa spessissimo questa espressione.
A. certo, una certa comunione di sentimenti vale per bambini piccoli, dove non c’è ancora, è soltanto potenziale questa sfera del pensiero. E quali sono queste comunità che sottolineano queste comunioni? Sono quelle che vorrebbero gestire gli esseri umani come bambini: la Chiesa, lo Stato ecc. In fondo scusate non è una critica, il modo di gestire la politica di un Berlusconi, io lo vedo profondamente paternalistico. La Angela Merkel in Germania fa proprio l’opposto, sta zitta e lascia fare. Quindi è molto importante se noi ci trattiamo come bambini, allora vogliamo fare tutta una pastafrolla, se siamo adulti nel suo mondo interiore ognuno è intoccabile. E comunichiamo a questo livello, e perciò va coltivato, altrimenti ci violentiamo continuamente nella sfera dell’anima. E in fondo tutte le difficoltà dei rapporti, stanno in questi tentativi di gestire l’anima dell’altro, e l’altro deve ribellarsi e dire no, la mia anima non è gestibile dal di fuori. Però se noi non creiamo una sfera gestibile oggettivamente da tutti, creando concetti, ci resta soltanto questo continuo prevaricare la sfera del sentimento dell’altro. Però bisogna avere anche la forza interiore di vivere a piene mani la sfera dello spirito, che crea la forza interiore di dire: senti io adesso sto passando delle giornate veramente terribili, ma a te che te ne frega? Questa è una cosa bella, sennò ricatto l’altro adesso deve occuparsi di me, non può far nient’altro deve occuparsi di me! Non ti riguarda, che ti riguarda che io sto passando giornate difficili? che c’entri tu? sono affari miei, ti informo sono affari miei, altrimenti quello subito diventa il terapeuta che mi dice devi far così, devi far così, devi far così! Ma gli do un calcio nel sedere scusa, me le sto godendo io queste giornate difficili me le vuol portar via!
I. però girandola nel positivo.
A. ah io l’ho tirata in negativo?
I. no, perché uno vive questa cosa solo nella versione del prevaricare l’altro, ma per esempio a me ha colpito molto Steiner quando fa quelle conferenze al nord, lui all’inizio fa invece proprio appello ad un sentimento di fratellanza, di condivisione di ideali, proprio per favorire invece il fatto attraverso un sentimento di essere più aperti invece a dei concetti poi che lui porta.
A. fammi un esempio concreto, io non so di che cosa stai parlando, non ti capisco.
I. allora l’introduzione a quelle conferenze, non riesco a dirti quali siano, c’è tutto questo pezzo in cui Steiner dice: in questi giorni vi parlerò come amici, non so come dire, si capisce che lui fa appello a un sentimento di condivisione di un ideale, di un idealità per camminare insieme poi nel pensiero, però attraverso il fatto che noi condividiamo.
A. il tuo punto di riferimento è problematico, prima di tutto perché non sappiamo a cosa ti riferisci, in secondo piano tu lo sai, adesso sono quattro, cinque, sei anni in cui l’Archiati Verlag sta veramente dimostrando con manoscritti ecc. che soprattutto l’introduzione, ma tutta la redazione di tante conferenze di Steiner è sta costruita dai redattori, quindi lascia via questo punto di riferimento, dicci tu quello che vuoi dire, lascia perdere Steiner, cosa vuoi dire?
I. io voglio dire che nel momento in cui tu condividi un sentimento di fratellanza, nel senso che condividi un idealità, adesso noi siamo qua questa sera perché.
A. adesso stai farfugliando, condividi qualcosa di ideale o condividi qualcosa di sentimento?
I. le due cose camminano parallele però, nel momento in cui io ho un ideale questo mi dà una gioia.
A. no, no, no sta attento, noi vedremo alla fine della filosofia della libertà alla fine del testo, nell’appendice in base a Eduard von Hartmann che non aveva capito ecc., Steiner descrive come avviene l’interazione tra due persone e dice: l’interazione fra due persone quando si capiscono, quando son d’accordo ecc. avviene così che in un lampo quando io ascolto l’altro, l’altro ha il suo mondo di pensieri, io mi tuffo là dentro e divento una cosa sola col suo spirito, un centesimo di secondo dopo ritorno in me, e penso a ciò che penso su di lui, e continua avanti e indietro così. Quindi sono un centesimo di secondo nei suoi pensieri, provate l’introspezione in questo momento a farla a livelli molto svegli, voi vi accorgerete che in continuazione ma velocissimi, un attimo siete in quello che sto dicendo io per capirlo sennò, e un centesimo di secondo dopo ma cosa sta dicendo? Siete qui, lui A e B è nel suo spirito e pensa a ciò che lui pensa su ciò poi di nuovo qui, poi di nuovo qui. Una cosa analoga avviene tra il mondo dell’anima e il mondo dello spirito, un centesimo di secondo ci intendiamo su un concetto, un centesimo di secondo dopo io sento la mia gioia, tu senti la tua gioia, però ognuno ritorna nell’anima, è un cambiamento di registro, è un cambiamento di sfera. Così come nella comunicazione ma proprio in un movimento di lampo avanti e indietro, io sono in un secondo una cosa sola coi tuoi pensieri, sennò non posso dire che ti capisco, e neanche un secondo dopo sono nei miei pensieri, e penso a ciò che io penso su quello che lui ha detto, ma come sta dicendo baggianate, adesso sono nei miei pensieri, adesso sto di nuovo ascoltando sono nei suoi pensieri. Questa osservazione, questa percezione molto più sottile, molto più scientifica della comunicazione e dell’interagire tra la sfera dello spirito e la sfera dell’anima, a questo livello veramente scientifico, che io sappia esiste soltanto in Rudolf Steiner. Anche perché secondo un mio convincimento, lui aveva la percezione non soltanto quella che noi abbiamo, ma la percezione diretta dei fenomeni animici e la percezione diretta dei fenomeni spirituali. Noi, l’uomo normale ha soltanto la percezione della sfera corporea del mondo, quindi quando una persona sente un sentimento, quindi percepisce in sé un sentimento è fuori dalla sfera dello spirito, proprio fuori, è uscita. E quando crea un concetto è fuori dalla sfera dell’anima, è nella sfera dell’universale, dell’oggettivo. Quindi un sentimento, il vissuto è al 100% soggettivo e nulla ha di oggettivo; e un concetto è al 100% oggettivo e nulla ha di soggettivo, è proprio un assoluto cambiamento di registro. Così come la pera che mangio io è nulla della pera che mangia l’altro, e la pera che mangia l’altro è nulla della pera che mangio io.
I. però tu non pensi che il fatto che noi abbiamo un sentimento di amicizia, faciliti il fatto che poi noi possiamo conquistare una capacità anche attraverso la fiducia, attraverso il fatto che partecipiamo a un percorso di studio, di pensiero, ci faciliti i nostri pensieri, il fatto di raggiungere una certa capacità pensante, perché ti metti in una predisposizione costruttiva invece che oppositiva, cioè il sentimento che vuole costruire insieme una cosa, va al di là poi della somma delle cose che tu stai costruendo, perché il tuo sentimento ti dà la voglia, la forza, il piacere.
A. non necessariamente, tu hai usato il concetto di amicizia, però non hai creato il concetto di amicizia come sentimento, qual è il concetto di amicizia?
I. il concetto di amicizia è un po’ quello che diceva questa ragazza, il fatto che un po’ ti capisci e un po’ ti vuoi bene, cioè sei vicino in due sfere anche diverse. L’amicizia è che mi piace quello che fai tu, mi piaci tu perché dici delle cose che mi piacciono, ma anche ci assomigliamo però nel nostro vivere le cose spesso.
A. il concetto di amicizia tra A e B significa che A e B hanno fatto per secoli o per millenni cammini dello spirito e cammini dell’anima insieme. I cammini dello spirito insieme hanno creato insieme oggetti che sono universali, i cammini dell’anima fatti insieme, ognuno ha vissuto il suo però ci sono stati influssi reciproci. Il fatto che io non possa vivere il vissuto dell’altro non significa che io non ho nessun influsso sul suo vissuto, son due concetti diversi. Ognuno di noi ha un influsso enorme sull’anima di chi gli sta accanto, ma non può vivere nulla di ciò che vive l’altro. Quindi il concetto di non comunicabilità non significa che è un concetto di non influenzabilità, le anime si influenzano eccome! Il concetto è nessuno può vivere ciò che una persona vive dentro di sé, il suo vissuto è soltanto suo, questo è il concetto di sentimento. Buona notte a domani.
Venerdì 1 ottobre 2010, mattina
Una buona giornata a tutti! Ieri sera ci siamo occupati del sentimento, una realtà mi par di capire che in Italia ha una certa importanza il sentimento, niente di male. In fondo del sentimento noi cogliamo soltanto ciò che, perlomeno incipientemente, cogliamo col pensare. È possibile che uno abbia una rabbia senza sentirla? La domanda l’ho pensata bene stanotte, non siete sicuri, ho posto la domanda in un modo che non si può rispondere subito con sicurezza! Ripeto la domanda pensateci bene: è possibile avere una rabbia senza sentirla? Alcuni dicono decisamente no, altri dicono decisamente sì, e hanno ragione tutti e due. Se noi usiamo la terminologia della filosofia della libertà, la domanda andrebbe posta un po’ più precisamente: è possibile avere una rabbia senza percepirla? È possibile! Perché la percezione non è mai necessitata, nessuna percezione è forzata, avviene di necessità. Nel momento in cui io la percepisco, mi manca il concetto di rabbia, la percezione è un sentimento di carenza, mi manca il concetto. Però uno può darsi che di fatti è arrabbiato ma non fa nessuna attenzione al suo stato d’animo, è possibile, per certi istanti eh, non dico che lo farà per mezz’ora, perlomeno all’inizio è possibile che sorga la rabbia ma non viene colta. Quindi il sentimento è un percepibile come ogni altra realtà del mondo che è percepibile; quando diventa percezione sento vivo il bisogno di appiccicarci il concetto e dico: rabbia, rabbia è un concetto non è una percezione. Quindi si potrebbe dire la percezione pura è un sentimento puro, un vissuto puro, e diventa una realtà piena anche il sentimento, il vissuto, ciò che percepisco in me come vissuto diventa una realtà piena solo attraverso il concetto. E quando aggiungo il concetto lo porto a coscienza, quindi soltanto una rabbia di cui ho coscienza è una rabbia piena a cui non manca nulla. Se non l’ho portata a coscienza, se non l’ho colta, non l’ho percepita è una rabbia? Aristotele direbbe che è una rabbia potenzialmente, ha la possibilità di essere trasformata in un vissuto reale conscio di rabbia, ma finché non la percepisco non c’è, è un istinto, un pulsare organico. La digestione avviene anche senza che noi la percepiamo, sono processi reali, e concomitante la digestione l’organismo vive, sente tante cose, ma non è necessario che io ponga l’attenzione a questo vissuto. Tutto questo ci fa capire di nuovo che l’elemento nel quale l’uomo sveglio, nel momento in cui mi addormento questa rabbia incipiente o potenziale è sparita. Quando sono sveglio sono sempre nell’elemento del pensare, e non me ne accorgo perché è un’attività che compio io stesso. Ieri eravamo arrivati al 3 paragrafo, Steiner pone la domanda in questo VIII capitolo: i tre fattori, le tre realtà della vita sono: il pensare, il sentire, il vissuto – il problema con la parola sentire in italiano è che sentire è sinonimo di udire, il sentimento è il vissuto, senti un po’, mi senti, il sentire. La parola tedesca ritorna al greco, l’immagine della parola greca è il palpare, il senso del tatto come senso primigenio, che io a contatto con qualcosa di esterno sento me, sento la mia interiorità, il tatto, il sentire, sento me stesso. Ogni percezione è un contatto col mondo e l’eco di questo contatto interiore è un sentimento, una sensazione interiore.
I. se mi consente, in toscano quando uno ha male dice: mi sente qui.
A. bello, Dante sarebbe contento – mi sente qui –, oppure l’altra parola italiana che non si può tradurre in tedesco: un sentore, non si può tradurre in nessuna lingua questa parola, ho un certo sentore. L’italiano lo sa è una parola complessissima, alla base c’è il sentire, una parola che non si può tradurre in nessun linguaggio, non potete spiegare a nessuno cos’è un sentore, dimmi cos’è un sentore? Il sentore è un’anticipazione di un sentimento… sto andando a trovare un amico ma ho un certo sentore che la casa sarà vuota, cosa sento con questo sentore?
I. un sentire che non è fisico.
A. neanche il sentimento è fisico, un sentimento di gioia non è fisico, o di dolore, o di rabbia. Quindi nel sentore c’è l’indistinto, il diffuso che anticipo nel sentimento, mi aspetto qualcosa per lo più negativo di ciò che mi aspetta, il pre-sentimento, presentire è un sentire in anticipo, è un anticipare quello che mi aspetta, però quello che mi aspetta in chiave di vissuto. Un avvertimento che viene da fuori è un richiamo a far attenzione, ti avverto, sei stato avvertito. Invece io ho un avvertimento: è un presentimento a metà strada col pensare, quindi ho un presentimento sento in precedenza quello che vivrò, penso in antecedenza quello che accadrà oggettivamente, ho un presentimento. Naturalmente non sta in primo piano quello che io sentirò, ma ho un presentimento, un avvertimento che le cose andranno così e così. In Germania ho sempre detto che in fatto di vissuto, la fenomenologia dell’anima il linguaggio italiano è più ricco di quello tedesco, quello tedesco è più cargo, invece è molto più ricco tutta la fenomenologia che riguarda lo spirito. Bastano queste parole scritte alla lavagna per farvi vedere la complessità anche dei fenomeni del sentimento. – Dicevamo i tre modi dell’uomo di porsi in rapporto col reale sono: il pensare, il sentire e il volere. Il pensare si apre verso lo spirito, il sentire è l’unico elemento veramente chiuso in se stesso che è l’anima, l’anima chiusa in se stessa, e il volere di nuovo si apre verso l’esterno. I pensieri che noi pensiamo si esprimono nell’interno in ciò che sentiamo, in ciò che avvertiamo nei sentimenti e nelle emozioni, e i sentimenti che noi sentiamo nell’anima… Dallo spirito entrano nell’anima tutti i pensieri che ci facciamo, le cose che capiamo, le cose che pensiamo in continuazione. I pensieri suscitano sentimenti, i sentimenti suscitano impulsi volitivi volontà, e con la volontà, con l’agire si ritorna nel mondo. Quindi la sorgente dei pensieri è il mondo, mondo intriso di spirito fa nascere i pensieri, nell’anima sorgono sentimenti come eco interiore. E ci siamo detti ieri sera, era il pensiero più importante di ieri sera che il mondo interiore di ognuno è tutto diverso dal mondo interiore di un altro, nel mondo interiore ognuno è un mondo a sé, non c’è nulla del mondo interiore di una persona dentro all’altra, e non c’è nulla dell’altra dentro alla prima. Ma lui parlando, comunicando mi dice quello che ha dentro! Cosa ottengo io di ciò che lui ha dentro? Attraverso le sue parole una percezione, io percepisco ciò che lui mi dice ma non posso percepire i suoi sentimenti. Posso io percepire ciò che l’altro sente? È un’assurdità assoluta! Percepisco le parole che usa per descrivermi ciò che sente, ma ciò che sente resta il mistero, l’ho chiamato il sacrario intoccabile del suo essere. Altrimenti non ci sarebbe nulla che ci dà veramente il senso dell’individualità, cioè l’individualità in fondo è qui nell’anima. L’individualità di una persona è la sua anima, e una individualità è povera, la sua anima è povera nella misura in cui tira giù poco dal mondo reale, spirituale e nella misura in cui inserisce nel mondo poco, ed è chiusa soltanto in sé. Quindi più l’individuo si chiude in sé e più si impoverisce, perché le due sorgenti di ricchezza sono una che va dentro che è il mondo esterno, che viene colto e crea i suoi echi in chiave di pensiero e l’altra che va fuori con gli atti di volontà, dove il sentimento di gioia diventa un impulso di volontà a interagire, a intervenire nel mondo, e con la volontà, con l’agire si rientra di nuovo nel mondo. Ciò che l’uomo compie nel mondo diventa di nuovo frammento di percezione.
I. è come una legge idraulica!
A. è come una legge idraulica per usare un paragone terra terra, però mi prendi per l’umano un’analogia che non è né nell’animico, né nel vitale ma addirittura nel minerale morto. Però se i paragoni, le analogie le prendiamo dal lato dove non zoppicano, ma dove marciano allora va bene, ogni paragone zoppica ovviamente. Ieri sera dicevamo alla signora che diceva: ma è giusto dire che il sentimento per quanto mi riguarda è la cosa più importante che ci sia! In un certo senso ha ragione però la sfera del sentimento, la sfera dell’anima, il mondo tutto mio individuale, dipende in tutto e per tutto dal mio rapporto pensante col mondo, e dal mio rapporto di volontà e di azione col mondo. Quindi la sorgente di ricchezza interiore non è nell’interiorità, l’interiorità umana che si chiude al mondo diventa sempre più povera, l’ho chiamata un’animuccia. E tra l’altro una persona che si chiude soltanto in se stessa, fa passare a tutti la voglia di avere a che fare con questa persona, perché non resta più nulla di aggancio di comune. Il suo vissuto non lo posso raggiungere, lei non ha voglia di aprirsi al mondo, a me ecc. e che mi resta da fare? Nulla! Quindi è interessante interagire con una persona nella misura in cui questa persona è aperta al mondo comune verso lo spirito, e al mondo comune verso il mondo della materia. Ma il mondo comune è il mondo dello spirito, dei concetti, del pensare ed è il mondo della materia, dove agiamo, dove le azioni si compiono. Lo ripeto un’altra volta il mondo dell’anima non è comune, ognuno ha il suo. Te mi vieni incontro soltanto col mondo dell’anima? Ti do un calcio nel sedere, non mi porti incontro nulla che mi interessi, che mi riguardi, che abbiamo in comune ecc. Vuoi soltanto che io cancelli me stesso per occuparmi di te, ma non posso neanche farlo perché non posso occuparmi di te, del tuo vissuto, è una cosa che non è comunicabile. Quindi la sorgente del naufragare di tanti rapporti è proprio questo, che io adesso ve l’ho espresso in concetti, ma prendiamo il risvolto animico, una persona con questa bella pretesa che il suo mondo di sentimento è la cosa più importante che ci sai, per lui certo personalmente, la persona va incontro con l’esigenza, con il diritto che tutti dovrebbero occuparsi del mio mondo di sentimenti perché è la cosa più importante! È la cosa più importante per te. Quindi l’arte del comunicare è l’arte di sparire, di rendersi del tutto secondari, e di rendere importante ciò che è comune, sopra e sotto. Il mondo cosiddetto spirituale che poi è il mondo reale, e il mondo delle percezioni. Il mondo delle percezioni ce lo abbiamo in comune, il mondo del pensare ce l’abbiamo in comune, il mondo dell’anima è un mondo tuo. Quindi in un certo senso, lo dico paradossalmente la persona interessante è la persona che dice i miei sentimenti è la cosa meno interessante che ci sia! A chi interessano i miei sentimenti? E se mi interessa tantissimo il mondo in quanto spirituale, e il mondo in quanto mondo di percezioni, la mia anima è sempre di più il risvolto, il risvolto di ciò che vivo nel pensare, di ciò che vivo nell’agire. E questo risvolto fa l’opposto, cioè se nell’anima sento la gioia, la forza, l’entusiasmo di questo bel mondo che è tutto da pensare, di questo bel mondo che è tutto da creare, (l’agire è la seconda parte della filosofia della libertà), sono sempre più ricco nel sentimento, sempre più pieno di entusiasmo, ma non mi incentro sull’entusiasmo, sul sentimento e di nuovo e sempre per ritornare, per ritornare. L’innamoramento più micidiale che ci sia è innamorarsi del mondo, e per far quello bisogna diventare a se stessi sempre meno interessanti, però il paradosso sta nel fatto che mi godo l’innamoramento più bello che ci sia, ma non è quello che voglio mi viene dato un sovrappiù. In altre parole prendiamo la categoria dell’amore, la categoria dell’amore è centrale, il sentimento fondamentale è l’amore, il sentimento di tutti i sentimenti è l’amore, e l’antipatia non è qualcosa è mancanza di amore, la simpatia è amore. Le due forze primigenie dell’anima sono simpatia e antipatia, simpatia è amore, qualcosa mi piace, la voglio, mi va bene e antipatia manca l’amore. Quindi prendiamo la categoria dell’amore, come fulcro di tutto il vissuto animico, la forza centrale dell’anima, del sentimento è il sentimento dell’amore. Cosa vuol dire amare? Vuol dire dimenticare se stessi, e colui che dimentica se stesso, vive se stesso, grazie all’amore, al livello più intenso che ci sia, ma gli è dato come regalo proprio perché dimentica se stesso. Quindi la sfera più profonda del sentimento la vive colui che si dimentica, che ama il mondo, che ama tutto quello che c’è.
I. l’amore non è solo un sentimento però, ha una componente di oggettività, cioè l’amore è qualcosa che esiste anche fuori dalla mia anima, è come la luce, è qualcosa che è al limite fra i due mondi, non è solo un sentimento, è quello che provoca forse la gioia dentro di me come sentimento, però l’amore è qualcosa che.
A. ci arriviamo adesso, soprattutto nell’aggiunta a questo corto VIII capitolo, c’è un’aggiunta dove parla di questo. Anticipo questa aggiunta con la domanda: qual è la forma somma dell’amore? Amare vuol dire diventare uno con l’essere amato, qual è la forma suprema del diventare uno? L’intuizione del pensare, una forma più alta di amore non è mai esistita e non esisterà mai. E questa forma suprema di amore, dove io amo talmente l’altro essere che nel concepirlo nel mio pensare divento uno con lui, crea come eco, però soltanto come risultato nell’anima la gioia più grande che ci sia. Però come eco, e questa eco non c’è se non c’è la sorgente di questa eco. Perciò nella prima parte della filosofia della libertà abbiamo fatto un esercizio, ve lo ricorderete, dove io ho chiesto cosa ti fa sentire più gioia? che l’altro ti dice “ti amo” o che l’altro ti dice “ti capisco”? se l’altro mi dice “ti amo” vive se stesso, resta dentro di sé, vive il suo amore. Se l’altro mi dice “ti capisco” sta perlomeno sforzandosi, col pensare, di entrare nel mio essere, di intuirmi in quello che sono. E questo è un molto maggiore amore che non godersi il suo amore “ti amo”. Quando uno mi dice ti amo io dentro di me dico: eh allora sei bello tu! cosa ha a che fare con me? Se invece mi dice ti capisco, allora sì è arrivato a me, se veramente cerca di capirmi. Quando dice ti amo è importante lui, quando dice ti capisco sono importante io. E vi ho detto anche che in Germania ho fatto questa domanda, la maggior parte dei maschi dicono no, no a me sta molto meglio quando l’altro mi dice ti capisco, quando mi dice ti amo affari suoi. Invece le donne la maggior parte dicevano no, no, no è molto più bello quando l’altro mi dice ti amo.
I. ieri ha detto che ci sono dei momenti di relazione con l’altro in cui si entra nell’altro, si entra nello spirituale, quindi un momento di annullamento.
A. hmm… annullamento è una parola un po’, diventare uno.
I. dimenticarsi di sé diciamo.
A. la propria anima, non sé.
I. della propria anima, del proprio sentire ed entrare per una frazione di secondo nell’altro, quindi è un momento di amore quello.
A. no, no devo purtroppo fermarti perché è veramente non giusto quello che tu dici… io dicevo quando lui sta pensando è fuori di sé, fuori dalla sua anima, è nell’oggettività del mondo e sta pensando triangolo. Se penso triangolo anch’io dico “ti capisco”, sono uno con te.
I. però ha detto che succedeva anche in maniera diretta in certi momenti, cioè dall’uno all’altro.
A. no, no sta attento, adesso c’è la comunicazione, adesso anticipiamo cose che sono dette nella filosofia della libertà alla fine, in appendice e sono molto complesse. Ti metto qui la coscienza a metà come mondo suo, a metà come mondo spirituale oggettivo, perché nella sua coscienza c’è il pensare, il sentire, il volere. Quando lui mi esprime un concetto di un sentimento suo, quando parla con me io posso cogliere soltanto quello che è spirituale di lui. Allora con la mia coscienza io esco dalla mia coscienza, resta vuota, ed entro qui.
I. quindi è sempre nella sfera spirituale.
A. sempre, sempre, sempre, se uno lo afferra è logico, non posso io entrare nel sentimento di un altro, nel suo vissuto, è chiarissimo. Qualsiasi cosa mi venga da lui articolata con le parole per me è percezione, e in base alla percezione io creo sempre concetti, e i concetti sono tutti nello spirituale, e devono essere oggettivi. Però lui adesso mi sta parlando della sua rabbia, io ho il concetto di rabbia, e col concetto di rabbia sono uno con lui. All’improvviso ritorno qui e dico ma cosa dice della rabbia, adesso faccio i miei pensieri sulla sua rabbia, e va velocissimamente indietro e avanti. Però la freccia verticale a la freccia orizzontale è la stessa, non è spaziale il fenomeno. Quindi ogni tipo di comunione, ogni tipo di unificazione è un trascendere l’animico, perché l’animico è per eccellenza uno staccarsi, e tutte e due le cose sono importantissime. Perché una persona che non ha la capacità di chiudersi in sé non è nulla, è diffuso nel mondo.
I. quindi si potrebbe dire che l’anima è un’interprete?
A. tu stai cercando di ridurre il mistero grandissimo, complesso dell’amore ad un concettino! Troppo complesso. L’anima è amore, e l’amore è l’intenzionalità, il desiderio di oggettività. Quindi l’eros, Socrate nel Simposio di Platone, questi sette discorsi sull’eros, sull’amore, l’eros è il paradosso di avere e non avere, desiderare. Prendiamo la parola desiderare: ciò che desidero ce l’ho o non ce l’ho? Tutti e due, perché se non ce l’avessi per nulla non potrei desiderarlo. Quindi è nella natura dell’amore, nella natura del desiderio di vivere nella tensione tra il già e il non ancora. L’anima è la tensione verso lo spirito, ce l’ha e non ce l’ha, ce l’ha e non ce l’ha, lo è e non lo è. Senza questa tensione non ci sarebbe il tempo, non ci sarebbe l’evoluzione del tempo, del prima e del dopo. Quindi anima significa vivere, il vissuto dell’intenzionalità evolutiva, del desiderio di capire sempre meglio, di unirsi sempre di più, di diventare come eco sempre più ricchi dentro di sé. Però sempre per paradossi, perché in un certo senso il volere e l’agire hanno una certa fisionomia sua, lo spirito ha una certa fisionomia sua, invece l’anima è paradossale proprio perché è lì in mezzo, media. Quindi lo spirito lo si può definire in rapporto a se stesso, l’anima non la si può definire in rapporto a se stesso, l’anima è una relazionalità, una categoria di relazione, l’amore è una categoria di relazione. Un concetto non è una categoria di relazione è una categoria dell’essere: triangolo è un essere non è una relazione, quindi l’individualità umana è una tensione continua verso lo spirito.
I. quando diciamo individualità, intendiamo dire Io?
A. certo, ma l’io è una tensione, non è una realtà statica, c’è un Io superiore, il mio Io superiore attira me, la mia anima verso lo spirito. Il mio io inferiore, tu dici la categoria di io, ma devi inserire anche nella categoria di io la tensione, il dinamismo dell’evoluzione. L’io inferiore per pigrizia, per forza di inerzia vorrebbe mandare a ramengo tutto questo sforzo continuo di cogliere lo spirito, vorrebbe godere soltanto se stesso e si impoverisce sempre di più. Quindi l’io è la tensione polare tra la voglia di aprirsi sempre di più al mondo, e la voglia di godere sempre di più, soltanto se stessi.
I. questa tensione deve essere fatta in maniera tale che entrambe le cose ci debbono essere sempre, altrimenti si corre il rischio di una rottura.
A. sì, nella prima parte della filosofia della libertà abbiamo fatto anche l’esercizio sul concetto di equilibrio, e abbiamo detto che il carattere fondamentale dell’equilibrio, quindi ciò che fa parte essenzialmente del concetto di equilibrio, è che ogni equilibrio deve essere labile, quindi in tensione, soggetto continuamente a sbilanciarsi. Se non fosse soggetto a sbilanciarsi continuamente non sarebbe un equilibrio, sarebbe una stasi, e nella stasi si è morti. Prendiamo l’analogia con il corpo fisico, quando noi mangiamo eccediamo nel troppo, quando digeriamo e abbiamo fame, la fame eccediamo nel troppo poco, è possibile stabilire un equilibrio per cui resta tutto sempre stabile? No, sei morto! È questo che si intende con dinamismo, che ogni equilibrio dove ci sono delle polarità di forze opposte, comportano la gioia di una tensione, di un equilibrio che è sempre labile. E ci dicevamo qual è la cosa più importante di fronte a un equilibrio? Adesso parliamo dell’equilibrio tra vivere nel mondo e vivere la propria forza interiore. La cosa più importante è essere svegli nel pensare in modo da accorgersi, più alla svelta possibile, adesso sono diventato unilaterale nel dedicarmi al mondo, e mi impoverisco. Oppure adesso sono diventato unilaterale nel vivere soltanto dentro di me, nel voler godere solo me stesso. Se uno ci mette molto più tempo invece a cogliere che sta diventando unilaterale, diventa molto più unilaterale. Adesso sono stato tre ore in stanza, perché mi sento triste? Perché ho voglia di tornare nel mondo e vedere un pochino cosa succede. Se uno non se ne rende conto continua nella stanza e diventa sempre più depressivo, e non ha capito che il motivo è che mi sono occupato troppo a lungo soltanto di me stesso, e questo mi impoverisce, mi rende triste. E l’unico modo di uscire da questa tristezza è di riaprirmi al mondo, però se io faccio adesso l’eroe dei due mondi e voglio dedicarmi al mondo: alla causa della pace, alla causa dell’ambiente ecc. e mando a ramengo tutto il mio mondo interiore, mi svuoto in un modo tale che non avrò più nulla da dare, e tutti mi mandano a quel paese perché mi dicono ma senti un po’, fa un po’ di pulizia nella tua anima! E dopo vediamo quello che puoi fare per gli altri.
I. perché non dà lo stesso ruolo di tensione all’amore? Come quanto ne dà all’io con l’identificazione di io inferiore e io superiore, questa tensione che è vera di ciascuno di noi con quella tendenza di andare all’io superiore, perché circoscrive l’amore nel campo del sentire?
A. no, io ti ho tradotto la nostra parola amore con eros.
I. l’eros però lei lo vede come amore.
A. eros, tra l’altro noi oggi l’erotica riferiamo questa parola eros soltanto alla sfera corporea, ma nel simposio di Platone eros era sia agape, le tre parole dell’amore, sia filia, sia eros tutte e tre nel simposio di Platone, le tre forme dell’amore: agape è l’amore a livello spirituale, filia è l’amore a livello dell’anima e eros è l’amore a livello delle forze del corpo. Eros è figlio di Poros e Penìa, Penìa è la povertà e Poros è la ricchezza, suo padre è la ricchezza, sua madre è la povertà, perché? Perché Eros significa avere e non avere; amare significa avere e non avere, perché se io ho già tutto non c’è più nulla da amare. Quindi la categoria dell’amore è la categoria centrale della tensione, e tutto l’animico è tensione.
I. e quando si vince quella tensione.
A. no non è da vincere è da vivere!
I. e la si vive completamente.
A. no, completamente soltanto alla fine dell’evoluzione poi cominciano altre cose, bisogna restare nella tensione, però c’è un’alta tensione e una bassa tensione. L’alta tensione è quando l’amore va verso l’alto, il godimento massimo, è quando l’anima si apre verso lo spirito. La bassa tensione, la depressione è quando l’anima si chiude e va verso il basso.
I. quindi l’amore diventa oggettivo? Quando sto nel pensare sto anche nell’amore, quell’amore è oggettivo, uguale per tutti.
A. sì, sì, sì lo vedremo alla fine, non servono martellate, bisogna stai facendo riassunti di cose che sono molto complesse. Io dicevo la forma suprema di amore è l’intuito, però ciò che noi chiamiamo amore è l’eco di gioia nell’anima, di essere diventato uno, ah l’ho colto, l’ho capito! L’ho capito è il versante spirituale, la gioia di averlo capito è l’eco dentro l’anima, e l’amore è tutte e due. Solo che il linguaggio italiano essendo centrato sui fenomeni dell’anima, coglie del mistero dell’amore quasi solo la realtà animica. E proprio questo capitolo, soprattutto nell’aggiunta, ci apre alla dimensione spirituale dell’amore, che è quella dell’intuito pensante, dove noi diciamo “ti capisco”. Che c’entra “ti capisco” con l’amore?
I. ?
A. io ieri ho detto la pera che mangi te, non ha nulla della pera che mangio io; e la pera che mangio io non ha nulla della pera che mangi te! Ci siamo? Sei d’accordo?
I. questo corteggiamento lo rifiuto io.
A. corteggiamento di che?
I. corteggiamento dell’individualità!
A. vorresti per forza costringermi a mangiare metà della mia e darti l’altra metà a te, e tu ne mangi metà e ne dai l’altra metà a me? È questo che vuoi dire?
I. voglio dire che come essere pensante, posso avere la capacità di condividere questa pera che stai mangiando tu e che non è la mia, ma che comunque corrisponde al livello di pensiero condividerla. Invece sembrava che si corteggiava, io tutta stanotte non ho dormito.
A. se otteniamo che una persona non dorme tutta una notte, in base a un’ora e mezza di filosofia della libertà, va tutto benissimo eh! Tu stai parlando del concetto di pera, il concetto di pera ce n’è uno solo. E se tu nel tuo pensare in questo momento pensi il concetto di pera e io penso il concetto di pera, siamo spiritualmente una realtà sola, sei tu pera sono io pera. Però io avevo preso l’immagine delle due pere diverse, distinte e separate in riferimento all’animico, al vissuto, al sentimento. La tua pera sentimento, ciò che senti tu, ciò che vivi tu è chiuso in se stesso e non ha nulla di quello che vivo io, e quello che vivo io non ha nulla di ciò che vivi tu. Sono due mondi distinti e separati l’uno dall’altro, attraverso la corporeità sono proprio separati l’uno dall’altro, altrimenti tu non avresti mai la possibilità di parlare di “io”. Perché se questo io fosse sempre diffuso nel mondo, che significa io? Non significa più nulla.
I. ma attraverso l’amore si può veramente condividere il sentimento dell’altro, quindi soffrire con l’altro?
A. quando tu soffri con l’altro, quando il bambino piccolo, piccolo è ammalato di una brutta malattia, la mamma soffre col bambino, ciò che la mamma vive dentro di sé è tutt’altra cosa di ciò che il bambino vive dentro di sé, questo è il concetto. Adesso però andiamo avanti, perché la fine del discorso di questo VIII capitolo è che il pensare è la forma suprema più intensa che ci sia di amare, lì arriveremo. Però bisogna masticare un pochino via!
(VIII,3) La tendenza qui accennata, la filosofia del sentimento viene spesso designata col nome di mistica. L’errore di questa maniera mistica di vedere, costruita solo sul sentimento, consiste nel fatto che essa vuole sperimentare, vuole sentire, vuole vivere animicamente, interiormente, quello che deve invece sapere, conoscere, capire, pensare, e vuole elevare un elemento individuale, personale, esclusivo, chiuso in se stesso, il sentimento, a elemento universale.
(VIII, 4) Il sentire è un atto puramente individuale, {perciò qui ho usato anche la parola individualità, individuale, personale, soggettivo,} è la relazione del mondo esterno col nostro soggetto {l’eco interiore che il mondo suscita dentro di me, il mio vissuto in base, come risultato del mio rapporto col mondo, il mio rapporto pensante, il mio rapporto agente col mondo suscita dentro di me un vissuto}. Il sentire è un atto puramente individuale, è la relazione del mondo esterno col nostro soggetto, in quanto tale relazione trova espressione in un’esperienza puramente soggettiva, {che è il vissuto, il sentimento}.
(VIII,5) Vi è anche un’altra manifestazione della personalità umana. L’io partecipa alla vita generale dell’universo per mezzo del suo pensare, e per mezzo del medesimo si riferisce in modo puramente ideale (concettuale) le percezioni a sé e sé alle percezioni. Nel sentimento sperimenta un rapporto degli oggetti col suo soggetto; nella volontà si ha invece il contrario. Nel volere abbiamo ugualmente una percezione davanti a noi, e precisamente quella del rapporto individuale del nostro sé con gli oggetti.
Quindi la volontà è il rapporto del mio io, della mia anima col mondo, attraverso l’agire. Il volere sfocia nell’agire e interviene nel mondo, e la domanda della seconda parte della filosofia della libertà è la domanda del volere: cosa faccio? Qual è il mio compito? Chi sono io nel mondo? Come mi devo comportare? Qual è la mia missione? ecc. Cioè cosa ho da fare? Quello che nella volontà non è fattore puramente ideale è ugualmente soltanto oggetto di percezione, come accade per qualsiasi cosa del mondo esterno. Quindi il volere e l’agire lo percepisco; quando una persona dice voglio visitare un amico, cosa fa? Percepisce in sé un atto di volontà, constata, percepisce dentro di sé che c’è un atto di volontà: voglio visitare l’amico. È possibile desiderare di visitare l’amico senza saperlo? Certo che è possibile, è un impulso che non viene portato a coscienza. Quando io dico: voglio visitare l’amico, indirettamente intendo dire che un secondo prima c’era la voglia, una voglia non percepita è un pulsare inconscio. Nel momento in cui io questa voglia la colgo diventa una volontà; quindi la voglia è una volontà incipiente, una volontà potenziale che resta solo nell’animico. E la categoria voglia, è di nuovo una cosa che è difficile tradurre in tedesco per esempio, perché la voglia è puramente animica, nel momento in cui comincia ad aprirsi verso il mondo diventa volontà. Tant’è vero che, la parola voglia serve meglio quando è negativa: non c’ho voglia di nulla! non c’ho nessuna voglia! Quando diventa positiva non diciamo: che voglia hai? Diciamo: che vuoi? Ho voglia di una tazza di caffè, non è giusta del tutto: la vuoi o non la vuoi la tazza di caffè? Allora dico: voglio una tazza di caffè. Quindi questa voglia, la voglia è in italiano una bella parola, proprio perché è così difficile, così complessa, è questo passaggio di nuovo dall’anima al mondo concreto, con la volontà. Una voglia che diventa conscia diventa volontà: vuoi o non vuoi? Uno che vuole che l’altro si decida, noi non chiediamo: hai voglia o non hai voglia? Perché sarebbe un capitolare di fronte al gioco dell’altro che vuole e non vuole, diciamo: vuoi o non vuoi? Quindi in un certo senso la voglia è un volere del tutto indistinto, incipiente, potenziale che resta nell’anima. La voglia è un volere che vorrebbe godere se stesso, avrei voglia. Adesso prendete il plurale di questa parola: le voglie, dite a un tedesco cosa sono le voglie! Soltanto il linguaggio italiano ha la possibilità di creare questo plurale, che non si può spiegare a nessuno, già è difficile capirsi tra noi! Le voglie è uno stato d’animo di una persona che vuole tutto e nulla.
I. … sia talmente distante dalla sfera del pensare, lo si vede dal fatto che si dice: guarda quello c’ha una voglia sul corpo, è una voglia di fragola, è una voglia di… cioè una manifestazione corporea, cutanea, quindi materializzata, che è l’esatto contrario del polo del pensare, quindi è un sentire vago che si somatizza in fondo.
A. si rende corporeo, un toscano che parla eh! Gli concediamo, i toscani il linguaggio l’hanno ricevuto da Dante, ad un livello più genuino.
I. tant’è vero che più che ho voglia di, si dice: avrei voglia di, un sentimento vago, qualcosa di poco definito, tant’è vero che diventa una voglia del corpo, dice: guarda come mai quel bambino ha quella macchia sul corpo? È stata la mamma che ha avuto una voglia di.
A. quindi la voglia è una volontà, un volere potenziale che non vuole concretizzarsi per continuare a godere se stessa, perché nel momento in cui si concretizza devi fare quello che vuoi, e allora deve passarti la voglia, devi concentrarti sul fare. Quindi la voglia è un auto godimento, una forma di auto godimento, altrimenti faccio sparire la voglia e devo volere qualcosa, ma se voglio qualcosa devo anche farla, altrimenti non l’ho voluto.
I. la voglia va soddisfatta per evitare…
A. come si soddisfa la voglia?
I. una donna incinta se le viene la voglia di caffè, dalle nostre parti si dice dalle il caffè, perché se non si soddisfa in questa voglia, nel bambino nasce una macchia di caffè!
A. e se ha voglia di fumare? Lasciala fumare?! complessa la cosa! Bisogna anche vedere biologicamente ciò che fa bene al bambino a partire dalla madre, e ciò che non gli fa bene.
I. mi viene in mente di inserire in questa discussione la parola obbedienza, nel senso di resuscitare questa parola, obbedire a una voglia che senti dentro, in questo discorso potrei ridare un nuovo significato alla parola obbedienza.
A. obbedienza viene dal latino ob…. che significa udire, ascoltare, ascoltare un desiderio per esempio, significa acconsentire.
I. significa passare dalla sfera dell’anima alla sfera della volontà?
A. esatto, in italiano c’è obbedire es-audire, audio è udire, sentire, cosa vuol dire esaudire? Acconsentire, ma c’è l’udire nell’esaudire, e la categoria di obbedienza è la stessa cosa. Solo che la categoria dell’obbedienza è stata riferita alla volontà di un altro e io ubbidisco alla volontà di un altro. Invece nella libertà, o io la libertà di un altro, supponiamo che sia una volontà spirituale, o la faccio mia come pensiero e allora resto autonomo, resto libero, oppure fare la volontà di un altro è la negazione, la distruzione della libertà in senso assoluto. Quindi l’ubbidienza così come viene normalmente compresa è il fenomeno archetipico dell’immorale, perché distrugge l’autonomia, la libertà. Le cose sono importanti, sono fondamentali, dicevo ieri che abbiamo una morale del tutto antiquata, del tutto anacronistica, che ancora non comprende neanche i fondamenti della libertà.
(VIII, 5) Vi è anche un’altra manifestazione della personalità umana. L’io partecipa alla vita generale dell’universo, per mezzo del suo pensare e per mezzo del medesimo riferisce in modo puramente ideale, (concettuale) le percezioni a sé e sé alle percezioni. Nel sentimento sperimenta un rapporto degli oggetti col suo soggetto; nella volontà si ha invece il contrario. Nel volere abbiamo ugualmente una percezione davanti a noi, e precisamente quella del rapporto individuale del nostro sé con gli oggetti. Quello che nella volontà non è fattore puramente ideale, è ugualmente soltanto oggetto di percezione, come accade per qualsiasi cosa del mondo esterno. {E lì ho preso l’esempio: voglio visitare l’amico, percepisco in me un volere, constato in me un volere.}
(VIII,6) Tuttavia il realismo primitivo crederà anche qui, di avere davanti a sé un’esistenza molto più reale di quella che si può raggiungere per mezzo del pensiero. Vedrà nella volontà un elemento in cui si scopre direttamente un divenire, un causare, {un fare, un intervenire, un cambiare il mondo} in opposizione al pensare che prende il divenire soltanto in concetti.
Quindi il realista ingenuo che siamo tutti in partenza dice: nel volere che poi sfocia nell’agire ho qualcosa di reale, nel pensare sono solo pensieri, non ho nulla di reale. Riprendiamo l’affermazione il realista ingenuo dice: nel volere ho qualcosa di reale, cosa sta facendo? Lo sta pensando, volere è un concetto, reale è un concetto. Perché un bambino piccolo, piccolo non può volere? Perché non può pensare, quindi la realtà del volere è il pensare, non posso volere qualcosa senza pensarlo, ogni voluto è un pensato, oppure non è voluto, se non lo penso non lo posso volere. E ritorniamo alla realtà assoluta del pensare; il volere senza intervento del pensiero è una percezione pura, non è nulla, perché il cane non può volere? Perché non pensa.
I. si può essere indotti a volere qualcosa senza pensare?
A. uno agisce per istinto.
I. quando sei così condizionato che non pensi più, vuoi qualcosa che non hai pensato.
A. quindi non è un volere, qualcun altro vuole servendoti di te. Per esempio esseri spirituali che agiscono nelle forze della natura, si servono di te per agire attraverso queste forze della natura, ma tu in quanto essere pensante, autonomo sei via. È questo l’impoverimento di cui dicevo, nella misura in cui l’anima, il volere, volere e amare è la stessa cosa, si può amare qualcosa senza volerlo? Posso amare l’altro senza volere la sua pienezza? Senza confermare la sua esistenza? Però siete tutti un po’ interdetti perché il linguaggio italiano riferisce la parola – amare amore –, quasi solo alla sfera animica, e adesso siete presi in castagna perché vi rendete conto che il volere costringe di nuovo l’amore ad aprirsi sopra e sotto. Perché per volere qualcosa devo conoscerla e devo fare qualcosa per favorirla, per volerla quindi devo uscire da me. Quindi un amore che non diventa volere è puro auto godimento, dove l’individuo si impoverisce sempre di più. Ciò che l’io compie con la sua volontà rappresenta, per questo modo di vedere, un processo che viene sperimentato in modo diretto. Il seguace di una tale filosofia crede di aver veramente afferrato per un lembo, nella volontà, il divenire del mondo. Il famoso filosofo Arthur Schopenhauer, la filosofia della volontà dice: nella volontà, nel volere, nell’agire ho la realtà in un modo diretto. Contrapposto a Hegel, (Hegel era un contemporaneo di Schopenhauer), che invece vedeva la realtà nell’idea, nel pensare. Mentre può seguire gli altri avvenimenti soltanto dal di fuori per mezzo della percezione, nella sua volontà egli crede di poter sperimentare in modo assolutamente immediato un divenire reale. Quando una persona dice: smettiamola di discutere, facciamo qualcosa! E in questo facciamo qualcosa ritiene finalmente di uscire dalla sfera del non reale, di questo mondo fatiscente dove ci sono soltanto pensieri, e di entrare nella realtà. Facciamo qualcosa! Lì sì che c’è veramente realtà, altrimenti non abbiamo nessuna realtà finché si pensa soltanto, questo è un grosso inganno, una grossa illusione. Perché nel momento in cui dice: facciamo qualcosa, la domanda è subito: che cosa? Adesso andiamo al rallentamento un momento, una persona dice: basta discutere facciamo qualcosa! Cosa vuole? che voglia ha? Questo sforzo di uscire da sé per vivere nel mondo al livello del pensare, gli è diventato uno sforzo tale che vuole tornare a godere se stesso, quindi “facciamo qualcosa” è un sentimento, il desiderio di auto godimento. Perché se questo fare qualcosa si riferisce veramente all’oggettività del mondo, allora bisogna chiedersi: sì ma, qual è la cosa giusta da fare? qui in questo momento, in questa situazione da parte mia? e allora devo ricominciare a pensare, perché non serve a nulla dire facciamo qualcosa, se poi fai una cosa che è ancora più distruttiva di quello che già c’è come distruzione! E l’impazienza dell’attivismo è molto forte dove c’è una tendenza a godere soltanto se stessi, l’attivismo è una delle forme somme di auto godimento, perché l’attivista non si preoccupa di vedere veramente se le sue azioni sono quelle giuste, o se sarebbe meglio che ne lasciasse via il 99% di quelle che fa, o forse il 100% delle volte.
I. questo equilibrio, questa tensione in cui siamo chiamati a vivere.
A. non è che siamo chiamati a vivere, in cui viviamo.
I. in cui viviamo, quando viviamo in questa tensione viviamo in povertà, castità, obbedienza?
A. già abbiamo abbastanza carne al fuoco, adesso tu ci porti i tre voti dei religiosi in campo, lasciamoli perdere dai! Qualcuno diceva: la gioventù d’oggi poche idee ma ben confuse! Mentre può seguire gli altri avvenimenti soltanto dal di fuori per mezzo della percezione, nella sua volontà, nel suo agire come conseguenza della volontà, egli crede di poter sperimentare in modo assolutamente immediato un divenire reale. La forma di esistenza nella quale la volontà gli appare entro il sé, diventa per lui un principio autentico della realtà. Volere significa essere nel reale, quando io voglio qualcosa ho qualcosa in mano, è una realtà, il volere è una realtà perché sfocia nell’azione che percepisco, finché penso non ho nulla in mano. La sua propria volontà gli appare come un caso particolare del divenire generale del mondo: e il divenire del mondo come una volontà generale. La realtà del mondo è un pulsare di volontà, quindi la divinità, se c’è, è il supremo volente che crea volitori, volenti. Io voglio dunque sono, non io penso dunque sono, io voglio dunque sono. E che vuoi? Me lo puoi dire solo col pensare se vuoi qualcosa, sennò non vuoi nulla. Allora c’è una variante che è un po’ più complessa: io voglio volere! Siccome soltanto volendo mi sento reale, voglio volere, e vuoi volere che cosa? Resta sempre la domanda del riferimento oggettivo della volontà, perché se uno non vuole qualcosa di concreto non vuole nulla, vuole soltanto se stesso. È legittimo volere se stessi, però la risposta è: guarda che puoi volere te stesso e realizzare te stesso soltanto partendo dal pensare. E come conseguenza del pensare c’è il sentire, come conseguenza di pensare e sentire c’è il volere e l’agire. Il concetto è questo: il pensare, poi il pensare suscita il sentire, pensare e sentire suscitano il volere, pensare, sentire e volere suscitano l’agire, l’agire percepisco il cambiamento, le reazioni del mondo, percezione e si ricomincia di nuovo da capo. Il concetto fondamentale è questo, se io tiro via, disattendo o sminuisco l’importanza del pensare faccio sparire tutto, ho un sentire da animale ma non umano, ho un volere istintivo da animale ma non umano, ho uno sgambettare da animale ma non umano. Il sentire, il volere e l’agire diventa umano soltanto grazie al pensare; quindi col pensare c’è la forma umana, il pensare rende umano il sentire, rende umano il volere e rende umano l’agire. Il pensare è l’opposto di moralismi, il moralismo sorge quando si nega il pensare o addirittura si dice all’uomo tu non sei capace di pensare, io penso al posto tuo, e allora gli si dice come deve sentire, cosa deve volere, cosa deve fare, l’ubbidienza di cui si parlava prima che è la forma assoluta di immoralità, perché disattende, addirittura non vuole il pensare autonomo dell’individuo. Quindi il sentimento ha la sua forma più intensa nel pensare, il volere ha la sua forma più intensa, più umana nel pensare, e l’agire ha la sua forma più intensa nel pensare. La forma più suprema dell’amore è il pensare, il pensare è diventare una cosa sola con ciò che si pensa, è diventare ciò che si pensa, e amare significa tendere alla comunione, tendere a diventare una cosa sola. La volontà si eleva a principio universale, da chi disattende il pensiero come nel misticismo il sentimento si eleva a principio della conoscenza. Questo modo di vedere è filosofia della volontà (telismo). Telos in greco significa volontà, telein volere. Ciò che si può sperimentare solo individualmente diventa per essa il fattore essenziale del mondo. Facciamo una pausa.
Vi va che portiamo a termine l’VIII capitolo?
(VIII,7) Allo stesso modo in cui non si può chiamare scienza la mistica del sentimento, così non si può chiamare scienza la filosofia della volontà. {Non è una scienza perché vuole afferrare il reale soltanto in base alla percezione. Percepisce il sentimento e intende dire qui ho una realtà, percepisce il volere, la volontà e dice qui ho una realtà; invece noi abbiamo detto no, quando percepisci qualcosa hai una realtà soltanto nella misura in cui ci aggiungi il concetto. Tanto è vero che sentimento è un concetto.} Entrambe richiedono, accanto al principio ideale dell’esistenza, anche un principio reale, e ciò con un certo diritto {perché la percezione ci deve essere}. Ma poiché, per afferrare questi cosiddetti principi reali, noi non abbiamo altro mezzo all’infuori della percezione, l’opinione della mistica del sentimento e della filosofia della volontà coincide con l’idea che vi siano due sorgenti di conoscenza: quella del pensare e quella del percepire, la quale ultima si presenta come esperienza individuale nel sentimento e nella volontà. Poiché le acque di una delle due sorgenti, le esperienze, non possono venir accolte direttamente negli influssi dell’altra, quella del pensare, i due modi di conoscenza, il percepire e il pensare, continuano a sussistere l’uno accanto all’altro senza alcuna mediazione superiore. {Come se il pensare fosse un’altra sorgente della conoscenza, e il percepire fosse una primigenia sorgente di conoscenza. Invece noi dicevamo all’inizio tutto è percezione, all’inizio è tutto percezione, anche il sentimento viene percepito, anche il volere, un atto di volontà viene percepito.} Accanto al principio ideale raggiungibile attraverso il sapere, vi deve essere ancora da sperimentare un principio reale del mondo, non afferrabile nel pensare.
Invece tutto ciò che è percepibile è pensabile, e nulla di ciò che non è percepibile è pensabile; tutto ciò che si percepisce si può pensare e ciò che non si percepisce non si può pensare. Quindi il percepire e il pensare si corrispondono in assoluto, e la realtà ce l’ho soltanto quando posso indicare il lato di percezione e il lato di concetto e ho la realtà completa. Quindi in un certo senso la filosofia del sentimento, la filosofia della libertà vorrebbe raggiungere il reale soltanto con la percezione: percepisco un sentimento quindi ho la realtà del sentimento, e disattende il fatto che dicendo percepisco un sentimento lo penso, sennò non lo percepisco. L’animale sente freddo, nel mondo esterno fa freddo, causa nel mondo interno sente freddo, è lo stesso sentire freddo dell’uomo? manca la percezione, lo vive ma non lo percepisce, quindi il percepire è un concetto tecnico ben preciso. Le scienze naturali non sono a questi livelli di precisione scientifica, fanno delle confusioni enormi (interruz. audio) L’astralità esterna, l’astralità nel mondo, e qui l’astralità interna, il corpo astrale dell’animale. Adesso voi direte: che c’entra l’astralità con la filosofia della libertà? sta a indicare che le scienze naturali non hanno strumenti anche concettuali di terminologia, per distinguere il fenomeno animale dal fenomeno umano, astralità interiore del cane. Quindi nel suo corpo astrale, nella sua anima l’animale è un essere che ha un’anima perciò si chiama animale, siccome fuori fa freddo, il freddo è una realtà nell’anima del mondo e, nella sua anima sente freddo. Ma questo freddo lo sente, lo vive, non lo può percepire perché è un animale. L’umano è un fenomeno tutto diverso, il bambino piccolino, sente freddo, vive il freddo ma non lo percepisce. Quando si diventa capaci di pensiero questa lemniscata si amplia in tutte e due le direzioni; che differenza c’è tra sentire freddo e percepire freddo? Percepire il freddo come percezione è l’avvertimento, è lo stato d’animo che dice: mi manca il concetto che viene creato dal pensare. Quindi soltanto un essere capace di pensare, di creare concetti può percepire il vissuto come percezione, passibile di concettualizzazione, quindi il percepito è un passibile di concettualizzazione, è un passibilmente concettualizzabile. Però per percepire qualcosa come passibile di concettualizzazione devo avere il concetto del concetto, devo sapere cos’è un concetto. Quindi la percezione è il rapporto polare del pensare, percepire e pensare, quindi l’animale non percepisce il freddo, perché nel momento in cui lo percepisse direbbe fa freddo! Ma nessun animale ha mai detto fa freddo, fa freddo è un atto di pensiero, sento freddo è un vissuto animico, però noi non diciamo soltanto sento freddo, diciamo fa freddo e questo è un fattore di pensiero oggettivo e il freddo è un concetto, un prodotto del pensare. Quindi una scienza naturale che parla di percezione come se l’animale percepisse tale e quale come l’uomo, e l’uomo tale e quale come l’animale è una scienza che fa confusione, che non è ancora capace di distinguere i fenomeni che sono profondamente distinti. Il rosso è rosso, quale gatto, quale cane ha mai detto è rosso! Quella parete è rossa, l’uomo dice è rosso, perché oltre a vivere il colore lo percepisce in quanto concettualizza bile, passibile di concettualizzazione. L’animale vive, sente nella sua anima ciò che il rosso opera, perché il rosso opera nell’anima, la rende attiva, la rende aggressiva, il blu all’opposto tende ad addormentare un pochino l’anima, l’assopisce, il toro di fronte al rosso diventa massimamente attivo, diventa del tutto matto. Quindi l’animale vive, sente l’operare oggettivo astrale, animico del rosso dentro la sua anima, ma non lo può portare a coscienza perché gli manca il pensare, e portare a coscienza significa chiedergli che cos’è? la percezione è la domanda, che cos’è? e il pensare dà la risposta. Quindi la percezione pura è una domanda pura, una carenza.
I. si può parlare di sentire puro dell’animale?
A. sì, l’animale ha un sentire puro come il bambino piccolo, vissuto puro, senza alcuna possibilità di prendere posizione di fronte a questo sentire, vissuto puro in chiave di pensiero, per dire che cos’è, che cosa non è, se posso intervenire, se posso far qualcosa, se posso cambiarlo ecc. Quindi l’animale nella sua anima di animale è un puro eco del mondo e se lo piglia così com’è, vive il mondo in ciò che il mondo gli fa e non può farci nulla, perché per poterci fare qualcosa dovrebbe essere capace di prendere posizione, no questo non mi va voglio vedere un altro colore, è guidato dall’istinto.
I. ma questo povero essere non ha più possibilità di evolvere? Verrà assorbito dall’umano senza avere possibilità di fare una sua strada?
A. tu adesso tratti l’animale come se fosse un essere.
I. sì certo!
A. ma non è un essere è quello il problema, solo che non possiamo continuamente fare tutta la scienza dello spirito da tutti i livelli. Ci provo però restando in questo contesto: noi siccome abbiamo la percezione degli animali, possiamo formarci il concetto dell’animale è questo che stiamo facendo, io sto distinguendo il concetto di animale, distinguendolo dal concetto di uomo. l’uomo è fatto sia di questo perché ha l’anima, sia di quest’altra polarità. Ora la tua domanda, restando però in questo contesto della filosofia della libertà chiede: è possibile distinguere l’umano dove il principio conduttore è lo spirito, dal puro animico senza dare all’uomo la percezione del puro animico? Se l’uomo non avesse la percezione del puro animico non lo potrebbe pensare, e quindi non potrebbe distinguere lo specifico umano da tutto ciò che non è umano.
Allora il Creatore dell’uomo disse, fa parte del concetto di uomo che l’uomo deve avere, per poter distinguere l’anima dallo spirito, deve avere la percezione del puro animico. Allora devo creare l’animale, per dare all’uomo la percezione del puro animico, però il puro animico non è un essere! Un essere diventa essere soltanto grazie allo spirito, quindi l’animale è la percezione del puro animico necessaria all’evoluzione dell’uomo. quando l’uomo percependo ciò che manca al puro animico, che manca l’essenziale che è lo spirito, farà di tutto per riportare tutto l’animico dentro allo spirito, e redimerà la dimensione animale dentro all’umano, oppure l’uomo stesso animalizzerà l’umano e diventerà sempre più animalesco. E questo è necessario per avere la libertà, io devo essere libero di evolvermi in una direzione che redime l’umano nella sfera angelica, oppure che fa piombare l’umano – l’Apocalisse lo chiama il mistero della bestia – la bestia è l’uomo diventato puro animale. Perché se non ci fosse questa duplice possibilità non ci sarebbe la libertà, quindi l’uomo ridottosi a puro animico. E il linguaggio ci aiuta molto, perché in tedesco … non ha la parola anima dentro, invece noi animale è l’anima aggiungiamo soltanto l’animale, l’animale è l’essere dell’anima, dove c’è pura anima. E l’essere umano che si riduce a pura anima, che non si apre alla dimensione dello spirito, alla dimensione dell’oggettivo, si animalizza sempre di più, si riduce a anima e quindi diventa sempre più animale.
Che differenza c’è tra animale e animato? Che vuol dire animato? Vivo, puro vissuto. La pianta è animata? Ma è viva, ma non sente la vita, l’animale sente la vita, vive la vita, la pianta vive senza vivere la vita, senza sentire la vita, ha un corpo eterico che è vita, sono forze di vita ma non ha un corpo astrale che vive, che sente la vita. E l’essere umano oltre al corpo astrale ha uno spirito che pensa, che prende posizione, che dice l’oggettività delle cose. Le quattro dimensioni dell’essere: la forma morta: 1 minerale; 2 la vita; 3 l’anima o l’astrale e 4 l’io o lo spirito, sono quattro dimensioni specifiche, ben diverse, tant’è vero che già Aristotele dice che sono quattro creazioni del tutto diverse, siccome lo spirito umano presuppone le altre tre, ci deve essere stata, dice Aristotele non soltanto Steiner, una prima creazione la creazione saturnia della terra, dove il principio conducente sono le forme morte. Poi una seconda creazione della terra dove il vivente è alla base di tutta l’evoluzione, poi quello deve terminare. Una terza creazione dove l’animico, il sentimento, il vissuto è il livello animale, poi anche questa terza creazione, l’evoluzione lunaria della terra deve sparire. La terra vera e propria è la quarta incarnazione planetaria della terra, dove adesso lo spirito è l’elemento strutturante.
Gli altri tre sono conditio sine qua non, la base, il fondamento; il che vorrebbe dire che se noi facciamo una lemniscata per la pianta, la lemniscata è ancora più piccola, qui avevamo l’astralità, qui abbiamo la vita, l’etericità nel cosmo e la vita pulsa dentro alla pianta, vita nella pianta senza sentire. Quindi nella pianta ci sono forze di vita ma non forze animiche del sentire. I pensieri di forma del Logos informano, strutturano il cristallo, cosa opera nel cristallo? Le forme di pensiero del Logos, quindi nel cosmo ci sono le forme di pensiero e nel cristallo agiscono forze formanti, poi forze viventi: la pianta, forze animiche: l’animale, forze spirituali pensanti: l’uomo. E ogni volta nel cosmo, nel mondo esterno ci sono pensieri di forma, correnti di vita, ci sono astralità nel cosmo l’astralità esterna e spiriti pensanti nel mondo. In un certo senso la scienza dello spirito è un arricchimento enorme della scienza naturale, la scienza naturale non ha gli strumenti per distinguere a questi livelli, perché non conosce l’eterico, non conosce l’astrale come realtà, l’animico, anima mundi gli scolastici la scuola di Chartres, da Platone sapevano ancora che pulsa in tutto l’universo l’anima mundi, l’anima del mondo, e poi gli spiriti esseri spirituali che sono la realtà suprema, originaria di tutto ciò che esiste.
I. che incidenza ha il punto di vista di chi osserva questa cosa?
A. tu stai lì seduta e osservi, osservi vuol dire che percepisci tutto quello che io ho sproloquiato e ho scritto alla lavagna, e chiedi che effetto fa a chi percepisce tutto questo? Dillo tu, che effetto ti fa? Ho l’impressione che ti fa l’effetto che le cose sono un po’ complesse! Ogni scienza è complessa, prendete la pedagogia, se uno è un dilettante va per sommi capi, dice sì, sì il bambino cresce, quando ha due anni è diverso e a quattro anni è un’altra cosa. Ma il pedagogo deve entrare molto di più nella complessità infinita di questo fantolino che di giorno in giorno diventa sempre diverso. È complessa all’infinito la cosa, quindi il mondo è complesso, perché se il mondo non fosse complesso sarebbe noioso, l’alternativa della complessità è la noia per il pensare, e la complessità è il pasto preferito per il pensare. Perché pensare cose facili? Che gusto c’è?
I. mi riferivo al fatto che do come dato che l’animale sente e vive e non percepisce, io do come dato quello, quindi creo una base sulla quale poi costruisco tutto.
A. cosa intendi dire con: l’animale non percepisce? Perché l’affermazione l’ho fatta io, tu l’hai presa da me, ma adesso dimmi tu cosa ne pensi.
I. è come se non riuscisse ad astrarsi e a vedersi che vive.
A. bene, bene, quindi la percezione è quella capacità di astrarre dal tutto dove sento la mancanza di tutto. Se astraggo da tutto sento la mancanza di tutto, e con che cosa afferro il tutto? Il concetto è il tutto. Quindi tu dici giustamente, io adesso l’ho espresso in concetto, tu l’hai espresso come vissuto, la percezione in quanto vissuto è la capacità di tirarsi fuori da tutto, quando io mi tiro fuori da tutto cosa sento, cosa vivo? Il vuoto, e mi rituffo dentro, e dove trovo il tutto? non soltanto una parte, ma il tutto? nel concetto. E l’animale non ha la capacità di tirarsi fuori; e come esprimiamo noi il fatto di essere fuori? Nella semplice domanda che dice: che cos’è? quando io dico che cos’è? sono fuori, perché nel momento in cui dico che cos’è: è freddo! Sono dentro. Quindi la percezione è la pura domanda che cos’è? sono fuori, e vivo l’isolamento, vivo la solitudine dello star fuori e cerco la comunione, nel concetto sono in comunione con la cosa. Se l’animale fosse capace di chiedere che cos’è? sarebbe capace di percezione, perché la percezione è la capacità di chiedere che cos’è? e per chiedere che cos’è, devo tirarmi fuori, devo sentire la cosa fuori di me, cos’è? e dicendo che così c’entro dentro, e entro nel centro, il concetto è l’essenza della cosa. Quindi la percezione pura è vivere la solitudine.
I. il momento della percezione è il primo momento in cui si distingue il mondo esterno da quello interno, interiore. Che poi è propedeutico al volere di unirsi.
A. certo e questo tirarsi fuori e riunirsi è così veloce, che noi soltanto come esercizio li distinguiamo, ma in realtà sono così veloci che non si distinguono, la distinzione è fittizia come esercizio di pensiero. Per renderci conto di ciò che noi facciamo con una velocità assoluta in continuazione, continuiamo a dire che cos’è? che cos’è? ma questo continuare a dire che cos’è è un continuare a rifare l’unità che altrimenti andrebbe continuamente persa.
I. quindi non possiamo avere l’unità se non ci distinguiamo.
A. certo è logico, ogni unità per l’uomo è una riunificazione. Una unità iniziale senza cacciata dal paradiso, senza distinzione, senza isolamento, in questa unità iniziale l’uomo non c’è ancora, è un pensiero nella divinità. Quindi è nel concetto di io umano che presuppone la separazione, la cacciata dal paradiso, il peccato originale quello che volete, tutte categorie che vanno riassunte nel pensiero, non soltanto a livello di sentimento, la maggior parte delle persone quando sentono peccato originale, cacciata dal paradiso sentono qualcosa ma non ci sono i concetti. Queste categorie religiose vanno riafferrate a livello di concetti, allora sono puliti. Per il bambino qual è il presupposto per tendere, per tutta la vita, a una comunione di anima, comunione di spirito con la mamma? Che si sia separato, perché se restasse eternamente dentro al grembo della mamma la comunione non può avvenire. E la cosiddetta cacciata dal paradiso è il taglio ombelicale dell’umanità come necessità evolutiva, per diventare autonomi. Un’altra immagine è che la separazione dei sessi, sexus significa tagliare, il maschile e il femminile sono stati tagliati, separati perché Zeus aveva paura che gli esseri umani gli facessero concorrenza, allora gli ha spaccati in due – dice il mito greco – e queste due metà che si sono separate, tendono continuamente a riunificarsi. Però il presupposto di questa tensione che noi chiamiamo amore tra uomo e donna, a riunificarsi presuppone una separazione. Quindi il senso della separazione dei due sessi è un ricercarsi all’infinito per ricreare.
I. e il percepire la separazione.
A. certo, sennò non lo possiamo concettualizzare, l’uomo può concettualizzare soltanto ciò che percepisce, ciò che non percepisce è aria fritta.
I. Novalis disse: l’uomo si potrà sposare solo quando sarà sposato con se stesso.
A. sì perché l’uomo completo è androgino, è maschile e femminile. Un altro detto di Novalis che ha scritto questi quaderni dice: la filosofia è l’inizio del matrimonio. Quindi il pensare è l’inizio della riunificazione del maschile e del femminile.
(VIII,8) La filosofia della volontà diventa poi realismo metafisico, quando trasporta la volontà anche in quelle sfere dell’esistenza in un cui una diretta esperienza {una diretta percezione} della volontà stessa non è possibile come nel proprio soggetto.
Dove mi è percepibile la volontà, il volere? Soltanto nella mia anima. Ognuno può avere la percezione del volere soltanto percependo ciò che è nella sua anima. Posso percepire io il volere di un altro? È un’assurdità! E se mi dice: io voglio far questo! Non percepisco il suo volere, percepisco le sue parole che mi dicono cosa vuole. Uno mi dice: voglio mangiare un piatto di spaghetti! Come faccio io a essere sicuro che non sto percependo il suo volere? Per il fatto che può mentire. E se mentisce cosa ho colto io del suo volere? L’opposto. Questa è la prova apodittica, che io non posso in assoluto percepire il volere di un altro essere, il volere lo posso percepire soltanto in me. Adesso pensate voi, la Chiesa cattolica che non vogliamo criticare ma vogliamo fare pulizia di pensiero, da secoli parla della volontà di Dio su di te, tu devi fare la volontà di Dio! Però per farla devo percepirla, per sapere cosa vuole, devo percepire cosa vuole! adesso ditemi voi come fa l’uomo a percepire la volontà di Dio? Robe da matti! Allora siccome col passare dei secoli, (chi era la ragazza dei tre voti religiosi? Adesso ci arrivano, però con la volontà di Dio), si sono accorti che gli esseri umani ubbidivano sempre di meno, si sottomettevano sempre di meno, allora gli hanno detto: no, no, no guarda la volontà di Dio non è percepibile, si esprime in qualcosa che tu percepisci.
I. la volontà dei superiori?
A. non la volontà, gli ordini, la volontà del superiore non la posso percepire, ciò che il superiore vuole da me io non lo posso percepire, ma percepisco ciò che mi ordina! Fai questo e quest’altro! Una delle più grandi fregature che ci siano mai state! Quello che vuole quel pinco pallino lì che io faccia, sarebbe la volontà di Dio su di me!? E se quello lì è un farabutto? Adesso si sta scoprendo in Germania ma non solo lì, che non tutti i preti sono stinchi di santi! Allora quello che vuole lui da me, dovrebbe essere la volontà di Dio su di me! Perciò vi dicevo che abbiamo una morale assolutamente anacronistica. Sono stato cinque anni in Sudafrica ancora ai tempi dell’Apartheid, ho rischiato la pelle perché solidarizzavo con i neri, lì ho conosciuto un prete tedesco degli Oblati di Maria Immacolata, e poi in Germania ho appurato che la cosa era vera, che io sono stato mandato in Sudafrica, quindi la volontà di Dio si è espressa nel superiore, il superiore con il voto di ubbidienza, che significa che il buon religioso deve fare la volontà di Dio che si esprime nella volontà del superiore, il suo superiore gli ha detto te vai in Sudafrica e questa volontà di Dio stava nel fatto che questo superiore in Germania, siccome questa testa, io l’ho conosciuto questo tipo in Sudafrica, era una delle migliori se non la migliore, lui aveva paura di una concorrenza micidiale e gli ha detto te vai in Sudafrica così non mi fai concorrenza! Era volontà di Dio?
I. se questi sono i risultati evviva! Cioè tutto quello che succede poi nella biografia di una persona non sempre è contro la libertà. Sì lo è stato, però ha provocato poi una bella cosa, il fatto che tu stia qui adesso a parlare a noi e da anni, è maturato in seguito a tutte queste vessazioni.
A. aspetta, finché si tratta della Chiesa facciamo tutti bello ad andare in brodo di giuggiole. Adesso prendiamo la cosa a livello nostro, di tutti noi: quante sono le mamme che pensano di sapere qual è la volontà di Dio sulla loro figlia? E ogni volta che una persona, e quanto spesso avviene, dà un consiglio all’altra, è una prevaricazione tale e quale. Come quando il superiore dice al religioso: te devi andare in Sudafrica! È la stessa cosa.
I. sì ma possono diventare delle sveglie anche però, delle provocazioni tali a creare poi una bella reazione nell’individuo.
A. no, no, ogni consiglio è una prevaricazione assoluta della volontà dell’altro.
I. anche se te lo chiede?
A. se te lo chiede ti dimostra di essere un bambino! e tu confermi: sei un bambino.
I. è il figlio che sceglie il genitore.
A. il bambino piccolo non ha ancora la volontà sua individuale risvegliata, noi non stiamo parlando dei bambini piccoli, stiamo parlando di adulti.
I. ma scusi, se ci sono stati dei deficit educativi nella fase vicaria da parte del genitore, che deve naturalmente favorire piano piano, l’emancipazione, e quindi l’autonomia del figlio. Questo è un problema con cui ci scontriamo continuamente, quando ci sono stati dei deficit è chiaro che il figlio non avrà conseguito quella autonomia auspicabile. Quindi ci saranno sempre delle forme di dipendenza.
A. non necessariamente, stiamo parlando della volontà, quindi c’entra direttamente con quello che stiamo affrontando nella filosofia della libertà. Il concetto di volontà è che, ogni essere umano ogni volta si incarna con un volere complessivo che è lui, lui è il volere, cioè l’intento, io ho già acquisito queste dimensioni, queste dimensioni dell’umano, in questa dimensione sono un po’ carente, in quest’altra dimensione non ho mai avuto finora come lingua materna il linguaggio italiano, allora scende, si incarna con la volontà di avere questa volta come lingua materna l’italiano. Quindi esiste la volontà pura, sono gli intenti evolutivi dell’Io superiore di ogni essere umano. I genitori e i pedagoghi, i maestri, hanno due possibilità fondamentali di prendere posizione: o hanno consapevolezza di questa volontà immanente, individualizzata, per cui il bene morale per questa individualità, ciò che si è riproposto come passi successivi della sua evoluzione, è tutta una serie diversa di bene morale che non per l’altro, quindi il bene morale non è generalizzabile, ciò che è bene per uno è male per l’altro. Oppure genitori e maestri non hanno questa consapevolezza. Se non hanno questa consapevolezza, penseranno che dal di fuori bisogna dire all’essere umano cosa deve fare! Quindi le due alternative fondamentali sono: o di aver consapevolezza che c’è nell’Io superiore immanente, in ogni essere umano, un volere strutturale che è il bene assoluto; oppure c’è il concetto del dovere, e il dovere è l’essenza dell’immoralità, perché uccide il volere individuale.
I. vediamo se ho capito: il figlio insicuro.
A. non esiste il figlio insicuro, esiste soltanto il genitore che ha o la saggezza di dirgli guarda che va benissimo che tu debba spendere degli anni per sapere quali intenti, quali potenzialità sono dentro di te, datti il tempo, il mondo è complesso oggi, non sai dall’oggi al domani cosa c’è dentro di te, datti tempo gira per il mondo ecc. Non esiste un figlio indeciso, sarebbe come dire che c’è un Io superiore senza volontà! Non c’è mai stato. Quindi il cosiddetto figlio indeciso è stato reso insicuro da tutto l’immoralismo che gli sta intorno, perché se venisse lasciato in pace troverebbe ciò che vuole. E qualcuno mi diceva ieri, venendo dall’aeroporto a Roma, una delle cose interessantissime in Italia la scuola di Stato, con quest’altra pedagogia fa sempre più acqua, e c’era sulla Repubblica un articolo che diceva che anche le scuole steineriane oltre a quelle di Montessori registrano un raddoppio di iscrizioni! Per questo motivo, perché una pedagogia, a parte magari che certi maestri non sono all’altezza di questa pedagogia, ma la pedagogia steineriana è assolutamente alternativa, è la pedagogia della filosofia della libertà. È la pedagogia che ti dice che ogni essere umano come spirito individuale, si incarna con una volontà evolutiva del tutto individuale, perché se non sapesse cosa vuole non si incarnerebbe. E tutto il mondo circostante è per dargli spazio, per dargli la possibilità di tirarla fuori questa volontà; se noi invece pensiamo di dover dire noi al bambino ciò che deve diventare è già tutto sbagliato, è tutta distruzione, e poi lo condanniamo all’insoddisfazione, lo condanniamo alla depressione, lo condanniamo all’aggressività, perché non ha mai la possibilità di diventare quello che vuole.
I. il mondo intorno gli dà spazio ma a volte lo ostacola terribilmente …
A. dove gli dà spazio? Il mondo che abbiamo non glielo dà proprio. Il concetto di pedagogia steineriana è che il compito del maestro, dei genitori è proprio di dare questo spazio. Deve saltar fuori dal bambino che cosa vuole diventare, non lo si può dire dal di fuori. Non c’è una volontà estrinseca all’essere umano, il Padreterno che mi ha creato, ha il diritto soltanto a una volontà nei miei confronti, ha soltanto il diritto di avere voluto me! Altrimenti creava qualcosa d’altro, quindi l’unica volontà legittima del Padreterno che mi ha creato sono io! Cosa ha voluto il Creatore che mi ha creato? Ha voluto me! E mi ha voluto come un’infinita potenzialità, si tratta soltanto di vedere cosa c’è potenzialmente in me, e tutta la gente intorno a me sta lì per aiutarmi, per darmi spazio, per darmi gli strumenti, per darmi i soldi che mi servono per sperimentare cosa c’è dentro di me, quali capacità attendono di esplicarsi e quali no.
I. se ho capito bene, quindi tu stai dicendo che se io oggi alla mia bella età dico: sono timido, sono insicuro a causa dei miei genitori dico una sciocchezza?
A. no, no nessuno di noi può rendere causa a ciò che fuori di ciò che è divenuto sta attento.
I. se io dico così dico una sciocchezza? Questo stai dicendo tu?
A. sì esatto! Non si può dire tutto in una volta, io all’inizio quando ho detto adesso do una risposta, avevo nell’anticamera del cervello questa aggiunta, che poi ho visto adesso le cose son già diventate complesse abbastanza e l’ho lasciata via. Adesso arrivi te e va aggiunta. Quando noi abbiamo questa pedagogia di coercizione, che vuol dire dal di fuori ciò che tu devi diventare così per essere un brav’uomo, non significa che questo Io subisce, perché se è evoluto abbastanza più sono le controforze esterne più diventa forte. Quindi bisogna distinguere un Dante da un pinco pallino qualsiasi; un Dante è evoluto a un punto tale che più i suoi maestri sono fasulli, più il mondo esterno lo vuol costringere e più tira fuori forza sua! Cosa ti dice questo? Non la può aver creata in questa vita tutta questa forza, perché un altro non ce ne ha nulla, deve venire da lontano, e un altro si lascia subissare. Questa distinzione va fatta.
I. allora licenziamo tutta la psicologia e tutti gli psicologi!
A. ma è evidente scusa! Fanno parte della moralità di cui vi sto parlando che è antiquata, ma la scienza dello spirito mica è una disquisizione di lana caprina! È un passo enorme successivo che rende desueto tutto ciò che c’è, ma vi sto spiegando come è non scientifica la scienza naturale, che non distingue neanche il sentire dal percepire. L’animale vive il sentire ma non percepisce, questa distinzione non la trovate per nulla nelle scienze naturali, ed è importantissima per distinguere l’animale dall’uomo! e mi dicono l’animale percepisce il rosso, no! Non percepisce il rosso, lo vive il rosso. Quindi la scienza dello spirito è un terremoto assoluto, altrimenti come spieghiamo l’incrementare dell’aggressività, delle depressioni ecc.? l’umanità deve fare un salto qualitativo, e il concetto che dice il bambino noi lo chiamiamo bambino, è uno spirito eterno che ha millenni alle spalle, un mondo individualizzato di volontà, si è riproposto, il suo Io superiore, il suo spirito sa esattamente cosa vuol realizzare questa volta, a che cosa vuol dare preferenza, qual è il bene morale che poi favorisce non soltanto la sua evoluzione, ma di riflesso l’evoluzione degli altri ecc. Dal di fuori non c’è nulla da dire, questo pensieri sono nuovi, rivoluzionari e nuovi e sono estremamente necessari, urgenti. Perché se noi abbiamo la scuola di Stato per prendere questo esempio, se fa sempre più acqua, se abbiamo sempre più maestri, una sorella mia è maestra per esempio e hanno sempre meno voglia di far scuola ecc. Se il ministro della pubblica istruzione che dovrebbe essere un competente in pedagogia, un normale ministro dell’istruzione anche in Germania non prendetela come una critica, non ha la minima idea, non ha la minima competenza, fa decreti ecc. ma siamo a livelli allucinanti. (VIII,8) La filosofia della volontà diventa poi realismo metafisico qui ho parlato della volontà di Dio, come se ci fossero persone che percepiscono la volontà di Dio. Poi vi ho detto quando ci si è accorti che la cosa non funzionava più, allora la volontà di Dio si esprime nella volontà del superiore. Se nella sua volontà di uomo si esprime la volontà di Dio, perché non nella mia?! sono uomo come lui. Tra l’altro nella sua volontà di uomo si esprime la volontà di Dio su di me! Sia contento che si esprima la volontà di Dio su di lui! Quindi questo tipo di cristianesimo attende veramente di essere afferrato dal pensiero, perché non c’è quasi nulla di pensiero. Finché le persone sono bambine vanno condotte, condotte però in quest’altro modo tra l’altro, e questo spiega perché tante persone lasciano la Chiesa, in Germania sono a migliaia ogni settimana, soprattutto adesso attraverso la crisi. La filosofia della volontà diventa poi realismo metafisico, quando trasporta la volontà anche in quelle sfere dell’esistenza in cui una diretta esperienza cioè percezione della volontà stessa non è possibile come nel proprio soggetto. Quindi qui ha detto la percezione della volontà è possibile soltanto nel proprio soggetto. Essa assume in via ipotetica, al di fuori del soggetto, un principio il volere, la volontà per il quale l’esperienza soggettiva è l’unico criterio di realtà. E, come realismo metafisico, la filosofia della volontà incorre nella critica accennata al capitolo precedente, la quale deve superare l’elemento contraddittorio di ogni realismo metafisico, e riconoscere che la volontà è un divenire universale solo in quanto si ricollega idealmente al resto del mondo. E si ricollega al resto del mondo col pensare. Qual è il concetto del volere? Qual è il concetto di volontà? Il volere è un pensare che vuole realizzarsi nel mondo fisico, allora diventa un volere, e si realizza nel mondo fisico tramite l’azione, tramite l’agire. Perché se io voglio fare una passeggiata e non mi muovo, non è una volontà. La volontà di Dio è il mondo, la volontà di Dio per quanto mi riguarda sono io. Quando i miei superiori mi dissero: te vai in Sudafrica, io sono andato perché ci volevo andare io, se non avessi voluto andarci gli avrei detto vacci te in Sudafrica perché ci devo andare io? E se avesse detto no, ci devi andare per forza, e io non avessi voluto andarci, sarei uscito dalla chiesa un paio di anni prima, no problem.
I. mi risulta da esperienze di miei familiari che adesso non esiste più dire: vai in un dato posto, ma gli si chiede prima: ti interesserebbe andare in questo posto perché ci sarebbe un posto libero? Se ci vuole andare bene sennò non ci va.
A. adesso abbiamo una congregazione di religiosi, dove i superiori devono riempire i posti vuoti e nessuno ci vuole andare. Non esistono i ricatti morali?
I. mi riferisco a una persona che conosco molto bene perché fa parte della mia famiglia, è sempre andata dove voleva, e quando si è stufata se ne andata da lì ed è andata da un’altra parte, è sempre stata assecondata debbo dire, può darsi che sia u caso particolare.
A. l’ubbidienza così come io l’ho descritta che si esprime nel superiore ecc., presuppone questo contesto di un religioso che ha fatto il voto di ubbidienza. Se questa persona fa quello che vuole e non fa quello che non vuole qual è il senso del voto di ubbidienza?
I. penso che di fatto sia caduto in desuetudine, se ne saranno accorti!
A. sì in linea ideale, però la realtà ci metterà un bel po’ di tempo per essere pulita nel tirar le conseguenze. Lasciamo il contesto dei religiosi, prendiamo la categoria del dovere, cos’è il dovere? Lasciamo via la Chiesa, lasciamo via i religiosi, il dovere esiste? Quanti ricatti vengono fatti in base al dovere? È tuo dovere! È tuo dovere di mamma, è tuo dovere di figlio, è tuo dovere di figlia. Intende dire è la volontà di Dio su di te, è la stessa cosa! Quindi non sono soltanto i religiosi o la chiesa cattolica desueta, è tutta la società. Allora io vi ho chiesto, io sono il tedesco che non sa l’italiano, lo vuole imparare, ho sentito che c’è la parola il dovere, e vi chiedo cos’è il dovere? Chi me lo spiega?
I. seguire la volontà di un altro.
I. omissione della propria volontà individuale.
I. mancanza di libertà.
I. mantenimento di una struttura sociale.
A. mantenimento di una struttura sociale, diventa concreta la cosa, mantenimento di uno status quo.
I. omissione di responsabilità.
I. mi piace quello che diceva Goethe sul dovere, io non saprei dare una definizione: il dovere consiste nell’amare ciò che si comanda a se stessi, l’ho trovata molto bella.
A. ………è un comandamento che ci si dà? la libertà non si comanda, la categoria del comandamento non funziona e in tedesco non c’è questo comandamento.
I. non è una traduzione giusta?
A. non si può tradurre esattamente perché questo concetto pulito in tedesco non c’è in italiano, diventa subito animico, subito il comandamento.
I. si può dire che nel dovere, cioè nel fare la volontà di un altro, in realtà manca il pensiero, cioè un’altra persona ha pensato una cosa, e quindi ha sviluppato una volontà che però io devo portare a realizzazione, quindi quello che manca a me è il pensiero di quel volere, altrimenti sarebbe il mio volere e non sarebbe più dovere.
A. adesso tu dici un pensiero che è fondamentale in Kant, è possibile fare del volere di un altro, in chiave di pensiero che lo capisco, il mio volere?
I. se lo capisco diventa il mio volere, nel momento in cui io amo quello che devo fare, …diventa da dovere…
A. quando io amo l’altro e colgo un frammento del suo volere, farò di tutto per aiutarlo a realizzarlo, ma non potrà mai diventare il mio volere, perché è quello che vuole lui. E quello che vuole lui, non sarà mai neanche un frammento di ciò che voglio io, perché sono un altro essere. Quindi amare l’altro significa fare di tutto per aiutarlo a realizzare la sua volontà, perché realizzare la sua volontà significa realizzare il suo essere. Ma io devo realizzare la mia volontà, devo realizzare il mio essere, io non posso mai volere quello che vuole l’altro, dovrei terminare di essere io, cosa che non è possibile, perché se terminassi di essere io sarebbe il fenomeno dell’immoralità in assoluto, cancellerei uno spirito umano, per fortuna non si può.
I. in questo senso il dovere è immorale, perché manca la parte.
A. il dovere è pura prevaricazione, è per essenza immorale, e non dico amorale, dico immorale, perché tende a cancellare la volontà dell’altro che deve essere un’altra.
I. di fronte a un obiettivo comune.
A. non esiste un obiettivo comune.
I. un obiettivo generale.
A. non esiste.
I. un obiettivo condiviso va bene?
A. no, prendiamo un ospedale, una scuola, tu dici c’è una volontà concertata, una volontà collettiva.
I. ci si rende conto di una urgenza, di una necessità, di un intervento particolare al fine di migliorare la funzionalità dell’ospedale.
A. tutto questo voluto, questi intenti legittimi che sono necessari, sono per l’individuo la conditio sine qua non, per il suo volere individualizzato, ma non c’hanno nulla a che fare. Cioè il suo volere individualizzato può realizzarsi soltanto sulla base di questo comune. Questo comune che è la conditio sine qua non, però non contiene nulla della volontà individualizzata.
I. ma l’accordo di due o tre voleri.
A. no, no ci si accorda sulle condizioni comuni, per poter realizzare voleri che sono del tutto individuali. Però un volere individualizzato non può realizzarsi per aria, ha delle condizioni necessarie, quindi l’orario di scuola è una condizione necessaria, ma il volere individualizzato è ciò che questo io di maestro si è proposto in questa ora di scuola di vivere karmicamente diverso con questo alunno, diverso con questo alunno, questo è il volere individuale. Però per poter realizzare questo volere che è del tutto singolo, individuale che di questo mio volere non c’è nulla nell’altro maestro. È necessario avere una base comune come cornice per poterlo realizzare, quindi tutta la morale generalizzata non ha nulla a che fare col morale, è la conditio, è il presupposto per poter realizzare il morale, morale è soltanto il volere individuale dell’individuo, solo quello è buono, tutto il resto è un presupposto necessario per il bene morale. Quindi noi abbiamo una morale generalizzata che viene presentata come il bene morale ma non è il bene morale, è il presupposto necessario perché si realizzi il bene morale, e ciò che è il bene morale non è stato ancora neanche visto, perché quello è del tutto individuale.
I. quindi a un bambino gli si presenta una cosa non come un dovere, ma come una conditio sine qua non affinché lui.
A. non gli presenti proprio nulla! la società è come il contadino di fronte al tulipano, di fronte alla rosa! Tu cosa hai da fare di fronte alla rosa o al tulipano? Gli devi preparare il suolo, tu puoi intervenire nelle forze di forma e nelle forze di crescita della rosa dal di fuori?
I. no.
A. è tutto immanente, lo stesso col bambino, tutte le forze immanenti nel bambino non ci puoi fare nulla, però se non gli dai le condizioni di suolo precludi ogni crescita, non gli dai la possibilità di manifestarsi. Ma se gli dai la possibilità di manifestarsi non puoi intervenire in quello che c’è da manifestarsi, perché quello che c’è da manifestarsi sta in lui, non lo puoi dare dal di fuori e non lo puoi cambiare. Puoi solo far di tutto perché non si possa manifestare o far di tutto perché si manifesti; ma nessun contadino può cambiare nulla nella legge, nelle forze immanenti, evolutive della rosa o del tulipano. Buon appetito a tutti, ci vediamo alle quattro.
Venerdì 1 ottobre 2010, pomeriggio
Tu dicevi che il sentimento non si può comunicare, c’è un fraintendimento però in questa espressione, il fraintendimento è compreso nella categoria italiana del comunicare. Comunicare ha due significati, comunicare significa esprimere qualcosa, un sentimento è chiaro che si può esprimere, se tu hai gioia o dolore per qualcosa lo puoi esprimere. Quindi comunicare significa da un lato esprimere qualcosa, un significato di comunicare, l’altro significato del comunicare è di trapiantare qualcosa di me nell’altro. E questo non è possibile, non è possibile trapiantare cioè far passare da me il mio vissuto, il mio sentimento nell’altro, quindi ciò che l’altro percepisce non è mai il mio sentimento è l’espressione, il mio modo di comunicarlo, cioè il mio modo di esprimerlo.
I. non si può trasferire.
A. non si può trasferire ecco, però teniamo presente che comunicare, se ben mi ricordo, ha anche questo significato, quindi è intrasferibile sì, non è comunicabile. Perché noi spesso supponiamo che dicendo all’altro i miei sentimenti, lui si faccia un’idea dei miei sentimenti, ma non se la può fare, c’è un limite questo volevamo dire. Se gli sto comunicando un dolore, avendo avuto anche lui il suo modo di esprimere il dolore, certo che ci sono degli elementi comuni, però gli elementi comuni sono proprio quello a cui manca lo specifico del mio sentimento, e quello resta incomunicabile, non trasferibile, dove ognuno è proprio un mondo chiuso in sé, ermeticamente chiuso. In altre parole la somma di ciò che io mi sono proposto di vivere, la somma del mio vissuto in questa vita, è tutta diversa dalla somma del vissuto che si è proposto di vivere un’altra persona. E questa forza interiore bisogna averla, altrimenti ci si spappola da tutte le parti e non si è un Io con la sua identità. L’identità di una persona è la sua anima, il suo vissuto, il suo sentimento; nel volere e nell’agire ritorniamo nel mondo comune, nel pensare viviamo nel mondo comune, nell’anima, nel sentire ognuno vive nel mondo suo individuale, è un mondo a sé stante.
Vediamo questa aggiunta alla seconda edizione dell’VIII capitolo, che è molto bella, è come un riassunto di nuovo della prima parte della filosofia della libertà. La difficoltà di comprendere con l’osservazione il pensare nel suo essere la difficoltà consiste nel fatto che, per lo più, questo essere del pensare è già sfuggito all’anima che lo esamina, quando quest’ultima vuole portarlo nel campo della propria attenzione.
In altre parole, quando noi poniamo l’attenzione al pensare, quando cerchiamo di percepire il pensare, possiamo percepire del pensare soltanto ciò che è già diventato dato di percezione, e dato di percezione è il già pensato. Perché il pensare in quanto attività attuale non può essere contemporaneamente percepito. Siccome c’è una differenza enorme tra creare qualcosa, un compositore sta creano qualcosa, qualche secondo dopo le note che ha creato poco prima son già create non le può più cambiare, son quelle che sono. Ora rendiamoci conto dell’abisso che c’è tra il creare attivo momentaneo, attuale dove tutto è aperto, le note che ancora non sono state create, le pennellate che ancora non sono state date sono tutte aperte, può andare in tutte le direzioni. Quindi c’è questa suspance, c’è questa libertà di un processo creatore che può andare in tutte le direzioni, però può andare in tutte le direzioni soltanto da questo momento presente verso il futuro. Se io lo prendo tre secondi prima, c’è soltanto una direzione, quella che è stata presa. Vi faccio una linea sulla lavagna, (la faccio lentamente e adesso vedrete la differenza tra il momento presente, perché la creatività è nel pensare, il pensare è l’elemento che consente il massimo di creatività, non c’è nessuna legge di elemento, se io faccio qualcosa con l’argilla devo tener conto delle leggi di quello che permette l’argilla, di quello che non permette l’argilla, nel pensare tutto è permesso, perché i contenuti possibili del pensare sono infiniti e non c’è nessuna legge che mi dice devi stare attento a questo, devi stare attento a quello). Adesso come analogia, io tiro una linea, come una melodia, o come un quadro, un processo artistico, adesso voi osservate sempre il momento presente, dove va? dove voglio io. Adesso sono qui: momento presente, dove va da lì in poi? Qui e ora dove va? può andare in tutte le direzioni! Può anche tornare indietro. Una creazione libera, dipende unicamente da me. Lo stesso una linea di pensiero, un processo di pensieri, questi due, tre secondi già passati c’è una linea unica, un movimento unico, tutti gli altri sono stati esclusi. Perché nel momento in cui io mi decido per il prossimo passo, tutte le altre direzioni vengono automaticamente escluse. Quindi c’è una differenza abissale tra il momento presente di un processo creativo, anche il sentimento è un processo in divenire, tutto è in divenire. C’è una differenza abissale tra il momento presente, dove il futuro ancora non c’è ed è tutto aperto, e ciò che è già passato, in ciò che è già passato non c’è nulla di aperto, è tutto fissato, è tutto così come è stato deciso. Ora questa attenzione alla differenza assoluta tra il momento presente in un momento di creazione, che consente di muoversi, di continuare a svolgersi in tutte le direzioni, dove io vivo, proprio la sento, la vivo questa libertà assoluta, dipende da me in che direzione vado. L’opposto assoluto di tutto ciò, di tutti i passi piccoli già compiuti che non si possono più cambiare, questa differenza che ognuno può capire ci fa capire che, nel processo che è quello più libero, più creatore, per lo meno potenzialmente che esista, che è il pensare… chi è qui? ognuno, adesso ognuno qui in sala pensi a quello che ha pensato dieci secondi fa, non vi siete accorti, comunque vi tocca dire che non potete cambiare più nulla. Ora cosa pensate da qui in poi? Tutte le teste qui in sala, ogni testa singola? Dipende dalla tua testa, da ogni testa, è una differenza abissale. Siccome il pensare è proprio il processo in assoluto più creativo, più artistico, più libero, dove non c’è nessuna costrizione di elementi, sta attento che le corde del violino hanno leggi loro ecc. se la metti minimamente un po’ più tesa sgarra, troppo moscia sgarra, no qui è un elemento che ti consente il massimo di libertà. Il pensabile consente il massimo di libertà, la differenza io posso percepire soltanto ciò che ho già pensato, e risulta tanto più morto, tanto più morto per la vivacità assoluta del processo vivente del pensare. Quindi l’essere umano si inganna, si illude in fatti del pensare, perché a livello della percezione può percepire soltanto il già pensato, e quello è morto e stramorto rispetto alla vivacità del presente, dove io sempre posso andare, io posso pensare ………. in che direzione vado. E questa è l’esperienza della libertà assoluta, della creatività assoluta, i pensieri che tu pensi ora e che penserai fra mezzo minuto sono questione della tua libertà. Dormi ne pensi pochi? Libertà tua, è il tuo modo di gestire la tua libertà, cioè nel pensare di una persona avviene unicamente ciò che lei ci mette, e nient’altro. È l’unico elemento artistico in cui non c’è il concorrere di nessun’altra legge, di nessun’altra istanza. Nel pensare gioca un ruolo soltanto lo spirito pensatore, non c’è nessun’altra istanza che possa metterci elementi di impurezza. Perciò il pensare è l’elemento assoluto della purezza, perciò si parla già da Kant del pensare puro. Il pensare puro significa che questa attività del pensare non viene inquinata da nessun altro elemento estraneo al pensare, perché l’impuro è ciò che è estraneo a un elemento, quindi lo inquina. Il pensare non consente nulla, oppure non è pensare, che lo inquini, non c’è nessun elemento estraneo al pensare che possa entrare nel pensare. Voi direte: ma l’errore è ben un inquinamento del pensare! No, no, il pensare non erra mai, e quando l’uomo erra è per mancanza di pensiero, quindi l’errore è quando il pensiero manca, quando il pensiero c’è, non si sgarra.
I. ?
A. i condizionamenti certo, i condizionamenti diminuiscono la forza del pensare, quindi manca, viene meno la forza del pensare.
I. ?
A. no, ma sono io a lasciarla venir meno, a lasciare entrare altri elementi. Nella misura in cui resto nel pensare, il pensare è puro ed è creatività assoluta. Se io immetto nel pensare la brama, la bramosia del sentimento, allora è la bramosia a farmi errare non il pensare, la bramosia oscura il pensare ma non è il pensare che diventa oscuro, il pensare in quanto tale è sempre luce assoluta. La tenebra non è un problema della luce, è l’elemento opposto alla luce, finché c’è luce c’è luce, nella luce non c’è tenebra. Nella sua fenomenologia dello spirito Hegel il grosso pensatore, ha scritto una …… nell’introduzione dice: la paura di errare è l’errore. Una persona che ha paura di errare si inganna, l’errore è proprio la paura di errare, perché nel pensare non c’è errore. Sarebbe come dire che una bussola può errare nell’indicare il nord! Può errare? Può indicare sbagliato? No, se il magnetismo terrestre funziona nella bussola, indica di necessità il nord, oppure è scassata, ma se è scassata non indica sbagliato, non indica nulla! e’ importante questo, quindi quando c’è l’errore è perché si è scassato il pensiero, quindi non è che il pensiero indica qualcosa di sbagliato, si è scassato, ha terminato di funzionare. E un modo fondamentale di far terminare di funzionare la creatività del pensare è di oscurare il pensare col sentimento, con la brama, con le voglie, con quello di cui parlavamo questa mattina. Ma allora immetto nel pensare un elemento estraneo al pensare, ed è questo che causa l’errore non il pensare; il pensare finché resta, finché è il pensare ad avere in mano le redini non sgarra, quindi il pensare è in assoluto l’organo della verità. Non c’è mai stato un pensare che crea concetti sbagliati, è la non capacità di pensare che crea concetti sbagliati, ma non il pensare. Il Logos non può mai tirar fuori concetti illogici, perché il Logos può essere soltanto logico, è nella sua natura. E qualcuno qui in sala si ricorderà, come mi ricordo io, che il bravo scrittore di questo testo Rudolf Steiner, in altri testi lo cito perché ci calza qui adesso, dice che una delle cose più importanti nell’evoluzione dell’individuo è la fiducia assoluta nel pensare che si può avere, perché questa fiducia nel pensare come organo di creatività che per natura non sgarra, dà all’individuo sempre più gioia di coltivare questo elemento, di affinarlo sempre di più, di tirar via tutto ciò che lo rende impuro il pensare, la farragine dei propri sentimenti, delle voglie. E vedremo adesso ve lo accenno soltanto, … il volere più agire è anche una creazione,… In che direzione vanno le mie azioni a partire da questo punto? Voi potete decidere continuo ad ascoltare quello lì che sta sproloquiando qui davanti, oppure decido di mandarlo a ramengo e penso a qualcosa d’altro. La decisione di pensare a qualcosa d’altro, è una decisione della volontà volere e agire. Ora siamo qui, da cosa dipende in che direzione va la volontà e l’agire di ognuno qui in sala? Da ognuno, dipende dal tuo volere, dipende da ciò che tu vuoi, tu decidi ciò che vuoi e in che direzione va la tua volontà, può andare in tutte le direzioni, può tornare indietro, tutto ti sta libero. Ci dicevamo già ieri sera che ognuno è libero di fare quello che vuole, le azioni proibite vanno proibite perché l’io vero non le può volere, perché ledono la libertà, quindi tutta la legge, che ci vuole, ha soltanto il diritto di stabilire le azioni che vanno proibite perché l’io vero di ogni uomo non le può volere perché ledono la libertà. Se tu già in partenza non vuoi le azioni che ledono la libertà, per tutto il resto puoi fare ciò che vuoi, puoi sperimentare, puoi fare anche delle cose che ti salta fuori no, no, no cambio direzione, perché no? Vivere significa sperimentare, se uno si mette in testa già in partenza di fare soltanto quelle azioni che sortiranno i risultati che lui si ripromette, non farà mai nulla! vivere significa cercare, provare in un modo, poi dire no, no qui rettifico la traiettoria ecc. e va benissimo ci mancherebbe altro! Provare e anche sbagliare nel senso che uno dice ho provato con il mio amico questa strategia, non funziona e allora ne provo un’altra, è legittimo ci mancherebbe altro, fa parte della libertà provare e riprovare e diventare sempre migliori. Come quando con lo sport si gioca a tennis si prova, si impara, se l’angolo di un grado la palla ti va … allora ci ho provato un paio di volte non funziona adesso la vita è un imparare, per imparare bisogna sperimentare. In pedagogia quando noi abbiamo delle idee così intruppate, così conservative, così mortificanti che pensiamo di sapere noi cosa salterà fuori dal bambino, invece di dargli una possibilità infinita di sperimentare, di conoscere il mondo, lo inviamo su dei binari così stretti che alla fine dovrà percorrere tutto il resto della vita per liberarsi da tutte le catene che gli hanno messo addosso. La nostra società è un intruppamento da pecore, io credo che di libertà abbiamo ancora poco sentore. Allora ripeto questo creare in assoluto che si vive nel pensare, che poi è artistico in modo assoluto, siccome è sommamente vivace, vivente quando io percepisco i risultati del pensare, i concetti già pensati, risultano molto più morti rispetto a questa vivacità che non tutto il resto. Perché un’azione già compiuta mi risulta meno morta che non un concetto già pensato, perché? Perché io nell’azione successiva sono molto più presente, invece al pensare in quanto attività creante lo disattendo, questo è il problema. Allora il fatto che io sono presente all’azione successiva mi rende l’azione precedente meno morta, in quanto io disattendo la creatività presente del pensare, il già pensato che percepisco mi appare particolarmente morto. Allora è importante paragonare sempre e di nuovo questa percezione del già pensato al processo vivace, vivente, creativo, artistico, libero in assoluto del pensare. E stiamo parlando non del pensiero, il pensiero è un concetto, il pensare crea anche il concetto di pensiero. Il pensare è un’attività non un concetto, quindi è importante cogliere la differenza tra il pensiero che è un concetto, è uno dei concetti che il pensare crea, il pensiero è un sostantivo, il pensare è un verbo, un’attività. Il tedesco, siccome ci sono stati gli idealisti Fichte, Schelling, Hegel che hanno arricchito il linguaggio… di sfornare concetti, di creare, così come il compositore, cosa vuol dire comporre?
I. man mano che il processo creativo procede, aggiunge direzioni con le note musicali, quindi …processo pensante artistico viene.
A. man mano che, e come saltano fuori le note che saltano fuori?
I. dalla sua ispirazione, dall’idea che ha in partenza.
A. e che cos’è l’ispirazione?
I. in genere per quello che può capitare a me, uno ha un’idea prima vaga di dove vuole andare, prima di comporre, allora man mano che va in questa direzione ha una mappa interiore che deve seguire per arrivare lì dove prima ha deciso di andare, poi può capitare che si trova da un’altra parte, però normalmente si pensa già prima, si ha un’idea di dove si vuole andare.
A. certo, io adesso ho l’idea, voglio spiegare la differenza tra ciò che avviene da qui in poi e ciò che è già avvenuto, quindi ho un’idea, però come lo spiego io? È un processo vivente.
I. la differenza secondo me di quello che capita normalmente si ha una direzione dove si vuole arrivare ma è vaga non è espressa, man mano che comincia il processo creativo che ha infinite possibilità, però non è cieco, guardiamo Beethoven ha dei diari dove scrive già da prima dove vuole arrivare, ha un’idea, la esprime concettualmente non con le note, poi man mano diventa sentire, ma pensa già prima dove vuole arrivare, ha un’idea vaga.
A. e ci si può arrivare in mille modi.
I. e certo, le direzioni sono tante.
A. in altre parole stiamo dicendo che la cosa più importante della vita è esercitare, esercitare, esercitare la creatività in tutti i campi. Soprattutto il campo più importante di tutti perché gioca un ruolo in tutti i campi la creatività del pensare. Una melodia cos’è all’origine? Tu l’hai detto un pensiero all’inizio, i suoni non ci sono ancora, le note queste macchie di inchiostro non ci sono ancora, cosa c’è all’inizio? Il pensiero, ma in maggiore o in minore, il concetto di maggiore o minore sono due concetti, li devo pensare, voglio una melodia in maggiore o una melodia in minore? Lo devo pensare è un pensiero, se io voglio esprimere questo sentimento in musica, lo esprimo meglio in maggiore anziché in minore, no, no in questo momento lo esprimo meglio in minore, cosa sto facendo? Sono tutti pensieri, quindi per ogni processo creativo, artistico c’è alla base il pensare. Noi ce ne rendiamo conto poco perché nel nostro mondo materializzato, il materialismo è un fissarsi sul già fatto, il mondo della materia è il già fatto, il mondo della percezione è il già fatto. Quindi fissandoci, venendo obnubilati, venendo accattivati dal mondo già costituito veniamo soverchiati dalle leggi non cambiabili di ciò che già c’è. e esercitiamo troppo poco, disattendiamo tutto ciò che ci è libero in chiave di creatività, e ci lamentiamo che siamo poco liberi, esercita la libertà, crea in tutti i campi, chi te lo proibisce? E dicevamo questa mattina, non c’è il dovere di una mamma col suo bambino piccolo, non c’è nulla che deve se è capace di volere creativamente, a modo suo, in un modo artistico, in un modo tutto diverso dal modo di amare di un’altra mamma. C’è il volere puro del suo io, quali atti di amore vuole il suo io nei confronti del suo bambino piccolo? Tutti altri atti di amore, son tutti diversi, son tutti artistici, tutti da creare, se lei omette questa creatività copierà la mamma standard e si chiederà cosa deve fare una mamma col bambino piccolo. Mia mamma vado indietro di 66 anni, che aveva forse un pochino più forze di amore però date per natura, quindi va bene che siano sparite, ha avuto 10 figli io ero il quarto sapeva con l’intuizione del cuore come li trattava. Oggi, anche in Germania, vedo un sacco di mamme giovani che devono comprare una biblioteca per sapere come devono trattare il bambino appena nato, e funzionerà tutto male perché manca la creatività dell’amore, perché come può dirmi un’altra mamma o un altro cosa devo tirar fuori io dai registri dell’amore del mio essere nei confronti del mio bambino. Cioè il vissuto e il vivibile tra questa mamma e questo bambino non si può paragonare col vivibile di un’altra mamma con un altro bambino. Perché ogni essere si è ripromesso di vivere nell’interazione con un altro essere una serie di sentimenti, di echi interiori che sono unici. Il materialismo è un omissione di creatività su tutta la linea, questo ci dice la filosofia della libertà.
(Agg. VIII cap.) La difficoltà di comprendere con l’osservazione il pensare nel suo essere, nel suo essere in quanto creatività attuale, vivente, artistica consiste nel fatto che, per lo più, questo essere è già sfuggito all’anima che lo esamina, quando quest’ultima vuole portarlo nel campo della propria attenzione. {Vuole renderlo oggetto di percezione}. Non le rimane allora che l’astrazione morta, il cadavere del pensare vivente. Se si guarda soltanto a questa astrazione {il già pensato, il già pensato astrae da che cosa? Proprio dalla cosa più importante, dall’attività che lo crea, perché è già creato. Quindi quando io guardo il già pensato mi manca la cosa più importante del pensare che non è ancora pensato. Sono cose così semplici, così ovvie, però le conseguenze sono enormi nella vita se uno ci medita, questa aggiunta la si può fare oggetto di meditazione per degli anni (la traduzione si potrebbe fare anche sempre meglio, però non ci sono traduzioni perfette via, il passaggio da un linguaggio all’altro è sempre il travalicare un abisso, però se uno ci medita può far dei passi in avanti eccome, non basta una lettura e poi basta)} Se si guarda soltanto a questa astrazione, ci si troverà facilmente costretti, davanti ad essa, ad entrare nell’elemento «pieno di vita» della mistica, del sentimento o della metafisica della volontà.
Allora ho un pensiero che non è un pensare vivente ma già pensato, pensiero, concetto, un sentimento e un atto di volontà. Quale dei tre è più reale, vivo più profondamente? Il sentimento, e l’atto di volontà le vivo, il pensiero, non il pensare, il pensiero mi appare qualcosa di irreale, giustamente perché reale non è il pensiero, ma il pensare! Il creare nel pensare! Il pensiero è quello che ha sfornato, quindi è giusta questa riflessione del realista ingenuo che dice: se io guardo i pensieri ma è soltanto un pensiero. Prendiamo un pensiero per dire, il concetto di mela: ma vuoi paragonarlo al vissuto della mela che mangi? Ciò che sento mentre mangio una mela è ben più reale che non il concetto puro della mela. Cosa ci manca nel concetto puro della mela? La mela! Invece quando la mangi ce l’ho, la sento se è una mela buona. Poi la mela la voglio cogliere, la volontà, questa volontà è così buona che ne voglio cogliere altre. Questo volere, questo operare, questo agire delle forze di volontà dentro di me certo che le sento. Il concetto di mela mi appare scialbo rispetto al vissuto – quando mangio la mela –, rispetto alla volontà che pulsa dentro di me. Adesso ritorniamo a monte, dov’è la realtà più piena della mela? Nel processo pensante di colui che ha pensato e sempre pensa la mela. Il concetto di mela, l’intuizione mela nel Logos che l’ha pensata, è talmente reale che soltanto queste forze viventi “melifere”, quindi con la struttura di mela, la mela è una struttura di pensieri, e questa struttura di pensieri non nel mio pensare ma nel pensare del Logos, è talmente reale, talmente operante che nessuna mela potrebbe diventare reale, da mangiare, se non ci fosse il concetto di mela nel Logos che l’ha creato. Quindi in ogni mela reale operano i pensieri della mela, il pensiero, il concetto di mela, se noi alla mela e dico una cosa realissima, se noi a una mela prendiamola sull’albero, perché voi direte eh sì però quando l’hai colta, se non la mangi ammuffisce. Una mela sull’albero, cari signori e signore, se noi gli tiriamo fuori l’operatività pensante, i pensieri reali, la struttura di pensieri della mela sparisce subito nel nulla. Cos’è che fa crescere l’albero del melo e ogni mela singola? Il pensiero che la pensa, così come nessuna casa può sorgere senza i pensieri dell’architetto, nessuna macchina senza la struttura di pensieri di chi la crea la macchina. Tutti esercizi per renderci conto che il pensare non è una mezza realtà, è la realtà più vivente, più operante che si possa immaginare. Che io poi non sia ancora, col mio pensare a livelli di creatività assoluta del Logos, questo senz’altro, però è nella natura del pensare di tendere verso questa creatività pura assoluta sempre di più, ed è sempre più gioia, ed è sempre più gratitudine, ed è sempre più felicità. Perché uno che congegna una scarpa, una scarpa che non c’è mai stata, perché se ne congegna una le forme ecc. non c’è mai stata, non c’è mai stata. Se la ama perché la trova funzionale e bella e quindi anche buona per l’uomo la crea, e poi ha la scarpa reale, ma l’inizio di una scarpa reale dov’è? nella testa, nel pensare, le forme vanno pensate sennò come si fa a realizzarle nel mondo visibile. Si troverà strano che qualcuno voglia cogliere in meri pensieri l’essere della realtà. Ma chi consegue veramente la vita nel pensare, chi fa questa esperienza della vita nel pensare, vedete la traduzione italiana dice la vita nel pensare: la vita è un concetto, in tedesco non c’è la vita nel pensare c’è il vivere nel pensare. C’è una differenza enorme tra la vita nel pensare e il vivere nel pensare, essere viventi dentro al pensare, essere creativi dentro al pensare perché la vita cos’è la vita nel pensare? Un’astrazione, quindi già nel modo di tradurre si vede subito, il linguaggio italiano non è che sia squattrinato, è molto ricco, e c’è una bella differenza, non è che non si possa dire in italiano il vivere nel pensare, lo si può. Quindi ogni volta che in tedesco c’è un verbo, dobbiamo capire che se lo traduciamo con un sostantivo, lo rendiamo morto, un verbo è un’attività; camminare non è la camminata. Che differenza c’è tra il camminare e la camminata? Il camminare è un’attività attuale, la camminata è già fatta, perché una camminata non ancora fatta non c’è. E il cammino cos’è? un percorso, un’astrazione. Immaginate la differenza di realtà tra il cammino e voi, le teste qui non si sapeva bene, la camminata è già più concreto e il camminare. Che è avvenuto ora del camminare? S’è fermato. L’orchestra finché suona, c’è un processo non si sa mai cosa avviene, finito? Finito lo spasso! Lo sport, io mi ricordo giocavo volentieri al tennis anche a ping pong, a me piaceva tantissimo prima di cominciare a contare, e tante volte se l’altro era d’accordo passavo due ore senza contare. Quando diceva adesso contiamo, a me passava la voglia, perché contando significa adesso non c’è il godimento del processo in quanto tale, adesso l’unica cosa che conta è chi vince e chi perde. Allora si gioca per vincere non più per godere il processo vivente del giocare, ci si mette dal giocare ad aver già giocato chi ha vinto e chi ha perso. Quindi tutto il nostro sport ha perso completamente l’elemento ludico, perché il giocare non è il gioco, il bambino non ama il gioco, ama il giocare, quando il gioco è già finito non gli interessa al bambino, vuole il giocare successivo, l’elemento ludico della gioia creativa di questo processo che è aperto in tutte le direzioni, non importa dove va, importa che resta vivace, è perso nella nostra società, abbiamo tutto distrutto, abbiamo tutto morto. E si gioca, i calci ecc. vengono dati non in vista del godere la bellezza, anche la complessità del processo, tutto in vista di vincere e di sbaragliare l’altro. Quindi il gioco ha acquisito sempre di più il carattere di guerra, nella guerra non si gioca, perché se non sparo io spari tu, o tu fai fuori me o io faccio fuori te, e il gioco è diventato così, l’umanità di oggi ha perso ogni capacità di giocare. Il pensare è un giocare in assoluto, il godimento del giocare, e come tu dicevi l’esito resta aperto, se io soggiogo il processo del pensare a un esito che deve conseguire, la libertà è sparita, deve andare in quella direzione, e tu devi giocare così perché dobbiamo vincere, e allora c’è anche nel giocare il dovere che si impone subordinato al dover vincere, perché l’unica cosa che importa sono i soldi che si prendono quando si vince.
I. questo vale anche per l’artista.
A. e certo, se fa delle opera d’arte soltanto per i soldi che si piglia che artista è? ha finito di essere artista.
I. mi perdoni corregga il mio pensare, l’artista, la sua opera non è nel suo realizzato, ma è la sua apertura del mondo intuitivo nel momento in cui crea l’opera, già è morta perché passa per il suo sentire la creazione e quello non è comunicabile.
A. ricomincia da capo che stai farfugliando, che cosa vuoi dire?
I. voglio dire che l’artista non è quello che crea le opere, è più artista colui il quale non crea nulla, ma dal nulla cerca a vivere a ritroso dalla percezione al raggiungimento del proprio pensare. L’artista fa il contrario.
A. io non c’ho capito nulla ma ho quasi il sospetto che non ci sia nulla da capire!
I. penso che lui dica che l’artista è artista finché le pensa, le mette in atto, quando sono finite sono già morte, quindi non le può più esporre, non c’è niente più di vitale, sono passate per il suo sentire.
I. il processo artistico, tu vai a cercare in un mondo di creatività se non lo vuoi chiamare spirituale e cerchi di mostrare attraverso la tua creatività, di portarne giù un frammento di questa realtà, e se sei bravo qualcun altro quando vede la tua opera coglie quel frammento di verità, di realtà. Il processo mio di artista intanto che faccio l’opera faccio il mio processo, ma l’opera finita si ha dentro qualcosa, quando tu vedi un’opera di Michelangelo sta a te andare a ripercorrere e a vedere se dentro lì c’è qualcosa.
A. lui parlava prima di Beethoven, che cos’è la Nona sinfonia di Beethoven?
I. poi nella musica è ancora più strano, perché la musica esiste solo intanto che la suoni, per cui è proprio in quel momento è sempre rinnovata dal fatto che è sempre.
A. per lo meno nella pittura c’è qualcosa da guardare, c’è qualcosa da percepire, nella musica ci sono soltanto macchie di inchiostro.
I. anche una mamma che prepara la minestra per il suo bambino è un’artista!
A. può essere un’artista, l’artistico è la qualità di creatività, questa qualità di creatività tu stai dicendo che è possibile in ogni attività, però non è necessaria, la si può omettere sennò non saremmo liberi. Quindi il tuo pensiero è giusto nel senso che in ogni attività, anche il fare la minestra, che l’essere umano compie ci puoi immettere.
I. quella creatività che rende quella minestra unica.
A. esatto, non la minestra, la qualità dell’amore.
I. su questo processo che trovo giusto, l’aggiunta dell’amore, come la fai tu la minestra non perché la minestra poi diventa una cosa stupenda. Ma l’artista invece lavora per arrivare a una sua creazione visibile agli altri, cioè il pittore perché si vede il quadro, il musicista perché si può riproporre la sua musica, più difficile l’attore che si esprime sul palcoscenico e se non c’è qualcosa che lo riprende non rimane la sua parola, però l’artista esiste.
A. ogni essere umano è un’artista in potenza! Non è costretto a realizzare la sua potenzialità di artista, ma tutti ugualmente.
I. quello che la realizza.
A. non ci sono esseri umani che non realizzano la creatività in nessun campo, in nessuna azione, incipientemente, inizialmente tutti, perché se qui ci fosse anche soltanto una persona che non ha mai in nessun campo sperimentato, vissuto la creatività non potremmo neanche capirci. Il fatto che ci capiamo sta a dire che ognuno di noi, per lo meno incipientemente, in certi campi sa cosa vuol dire creare, e gli stiamo dicendo guarda che questa creatività la puoi immettere in ogni cosa che fai, allora diventi un’artista su tutta la linea.
I. secondo te non esiste allora il talento naturale?
A. ogni spirito umano, son tutte domande importanti, val la pena non barare ma intenderci sulle cose, ogni essere umano è potenzialmente il tutto dell’umano. Perché se un essere umano gli mancasse la possibilità reale di realizzarsi, di esercitarsi in più dimensioni avrebbe giustamente da rinfacciare al suo Creatore di averlo creato imperfetto! Quindi è nel concetto dell’essere umano, purtroppo in italiano non c’è una parola, è una cosa terribile che – uomo – in italiano vale per il maschio e vale per l’uomo, l’essere umano. In tedesco … questa cultura patriarcale è proprio retriva, nella divinità tutto è maschile, Dio Padre è un maschio, Dio Figlio è un maschio, Dio Spirito Santo è un maschio e l’elemento femminile dov’è? il concetto di essere umano è un essere divino, (uso parole che ci sono nel linguaggio quindi non vi lamentate che adesso io uso la parola – divino – non ce ne sono altre, quindi non pensate al cattolicesimo, pensiamo al linguaggio italiano perché quello abbiamo a disposizione) l’essere umano è un essere divino in divenire. Qual è il concetto di essere divino? Sorgente all’infinito di pensare e di amore, come il sole che è sorgente di luce e di calore. Sorgente di luce: pensieri all’infinito, una creatività nel pensare senza fine e atti di amore mettere a disposizione dell’essere amato tutti gli strumenti necessari per pensare creativamente. Quindi la libertà propria viene gestita nel pensare, nella creatività, nella libertà assoluta del pensare e la libertà dell’altro viene amato in quanto la rendo possibile mettendogli a disposizione tutti gli strumenti di cui ha bisogno. Un talento, diciamo una persona ha un talento in un campo, l’altra ha un talento in un altro campo. Ciò che noi chiamiamo talento, cerco di creare il concetto di talento, il talento è quella dimensione del mio essere che io questa volta ancora prima di nascere, mi sono riproposto di esplicare in modo prioritario. Altre dimensioni del mio essere le ho già esplicate in vite passate, altre dimensioni del mio essere le potrò esplicare soltanto in vite successive. In questa vita, nessuno di noi può in una vita esplicare tutte le dimensioni possibili dell’essere umano, perché le dimensioni possibili dell’essere umano son tutte, a ogni essere umano gli è data la possibilità, sennò il creatore dell’uomo barerebbe, sarebbe disonesto, è nel concetto di essere umano che ogni essere umano nell’arco complessivo della sua evoluzione che quindi deve essere molto lunga, ha la possibilità di esplicare nel mondo visibile, quindi portare a visibilità tutte le dimensioni dell’umano, compresa l’esperienza dell’autodistruzione per esempio. Perché se un essere umano non ha mai fatto a qualche livello, non deve essere un suicidio fisico, ma un essere umano che non ha mai fatto o che non facesse mai l’esperienza dell’autodistruzione, saremmo costretti a imporgli per dovere di non autodistruggersi, e non sarebbe libero. Se invece fa questa esperienza e dice no, no, no, non lo voglio far più, è libero. Quindi esseri umani significa prima o poi sperimentare tutto, il talento di una persona è ciò che il suo io, il suo spirito si è riproposto in questa vita, quella dimensione dell’umano a cui vuol dare precedenza, perché non si può fare tutto in una volta, voler fare tutto in una volta significa non far nulla, e non si può essere maschio e femmina in una volta, vuol dire non avere né l’uno né l’altro. E certe persone ci provano e non ci riescono bene più di tanto, bisogna essere diventati veramente poveretti per non capire che il biologico è talmente per tutta una vita così fondamentale, così sacro e intoccabile, che bisogna essere poveretti per mettersi in testa di travalicare il fisiologico, il biologico, la natura. Te vuoi essere più saggio, più intelligente della natura? Sono deviazioni del pensare umano paurose. E allora sono tutti pensieri che ci portano poi, senza farne un dogma, la cosiddetta reincarnazione, ci portano a porre la domanda in questa cultura che è diventata così povera, addirittura il Cristianesimo che dopo duemila anni sta ancora col pensiero che si vive una volta sola, e poi per fortuna si va via da questa valle di lacrime, si va in paradiso a che cosa? Se questo pensiero è pulito che essere umano significa albergare in sé, potenzialmente tutto l’umano, il Creatore dell’umano mi deve dare la possibilità di esprimere, perché l’essere umano è uno spirito che si esprime nel mondo della materia, e mi deve dare altrimenti bara, altrimenti è disonesto la possibilità a ogni essere umano in un modo uguale, ed è questa l’uguaglianza profonda di ogni essere umano, a ogni essere umano viene data nel corso di tutta la sua evoluzione e ognuno partecipa a tutta l’evoluzione dall’inizio fino alla fine, chiedendosi poi in una vita di cento anni quanto realizzo io del potenziale umano? Un minimo.
I. … maniera di spiegare.
A. a te della mia attività artistica che te ne frega?
I. no ma non me ne frega niente ma lo noto, lo sto esprimendo.
A. sarebbe come dire lui che è direttore d’orchestra, li fermiamo e gli diciamo siete belli, siete belli! Lasciali continuare a suonare no? La musica è così bella fermatevi, ha finito di essere bella se si fermano.
I. se ognuno, ogni essere umano partecipa a tutta l’evoluzione dall’inizio alla fine, c’è qualche cosa che non mi torna attraverso le letture che finora ho fatto.
A. lascia via le letture, non torna al tuo pensiero.
I. sì chiaro, non torna al mio pensiero in base anche alle informazioni.
A. non ci importa, a noi importa il tuo pensiero adesso.
I. ci sono esseri umani straevoluti che possono interrompere, per lo meno il percorso sul nostro pianeta, in anticipo rispetto ad altri? E quindi concludere prima la loro evoluzione umana?
A. tu stai chiedendo: ci sono oltre a spiriti umani altri spiriti sovraumani?
I. no, umani proprio.
A. se il creatore dell’uomo avesse creato un uomo più uomo di un altro, cosa conseguirebbe? Avrebbe fatto un’enorme ingiustizia, quindi non è pensabile, non esiste un uomo più o meno uomo di un altro.
I. allora devo concludere che ci sono chiamate particolari, per esempio le guide dell’umanità che.
A. manca un concetto fondamentale, che nel momento in cui lo introduci risolvi tutti i problemi che hai. Se l’evoluzione è un percorso, se non ci fosse la libertà il percorso, la velocità è decisa dalla natura. Se invece c’è la libertà la velocità la decide la libertà, quindi è nel concetto di libertà che siamo liberi di andare un po’ più veloci o di perdere colpi. Ciò che tu chiami le guide dell’umanità sono quelli che hanno perso meno colpi di tutti, ma avrebbero potuto farlo anche gli altri!
I. ma il quesito che mi ponevo era per esempio al Buddha, che ha concluso il suo percorso di incarnazioni umane e che ora agisce dalle sfere spirituali.
A. voi avete l’arte sublime che quando le cose diventano complesse, raddoppiate la complessità. Siccome era già complessa la cosa, tutta l’evoluzione che ogni essere umano porta in sé potenzialmente tutto ciò che è umano, di viverlo in proprio, adesso in base alle tue riflessioni dobbiamo specificare questa evoluzione, quello che tu chiedi è di accennare, mettere al centro la struttura duplice dell’evoluzione: caduta e redenzione, per dirla con categorie religiose. L’andata nel mondo della materia e il ritorno nel mondo dello spirito, quindi non è lineare, l’evoluzione ha due è strutturata e c’è una svolta. Io ho il diritto di esprimere soltanto ciò che ognuno ha la possibilità di percepire sennò dovete credermi, c’è un archetipo dell’evoluzione percepibile? Sì, la vita umana, la biografia, ogni vita umana ricomincia dal paradiso che è il grembo materno, c’è la cacciata dal paradiso, c’è un’acquisizione crescente di autonomia, c’è una svolta? Un inversione di direzione? Sì! Ed è quello che dicevamo stamattina commentando sulla pedagogia, è il passaggio dalla conduzione dal di fuori che è necessaria finché l’essere umano non si può condurre dal di dentro, a una conduzione dal di dentro. E la conduzione a partire dal di dentro la chiamiamo la libertà. Quindi la struttura dell’evoluzione in grande deve essere uguale, perché è la struttura del diventare uomini. Ci deve essere una prima parte dove si creano i presupposti per la libertà, ed è la conduzione dal di fuori: i comandamenti di Mosè, la rivelazione divina ecc. Poi la pubertà, la svolta è un fenomeno complesso, adesso ci si ribella di fronte a questa volontà estrinseca che mi vuole condurre, adesso so io quello che penso, so io quello che voglio. Il concetto di svolta, io sto usando soltanto il pensare, quindi voi avete la possibilità di prendere posizione su ciò che io dico in base al vostro pensiero, le categorie che uso le uso col pensare, voi ne potete usare altre. Non presuppongo che voi conosciate il cristianesimo o la Bibbia ecc. non importa nulla, soltanto il pensare. Il concetto di svolta, il concetto dell’inversione dalla conduzione dal di fuori alla conduzione dal di dentro, sta nel fatto che questo essere è diventato capace di pensare liberamente e di volere liberamente autonomamente. Il che significa che fino alla svolta si tratta di creare tutte le condizioni necessarie per la libertà, creare tutte le forze nello spirito, nell’anima, nel corpo dell’uomo, il cervello per esempio è una delle condizioni necessarie per gestire questo pensare libero che noi conosciamo. A partire dal mezzo dell’evoluzione c’è la gestione della libertà. Il fenomeno Buddha sarebbe del tutto impensabile, del tutto illogico se fosse avvenuto 500 anni dopo di Cristo, è avvenuto 500, 600 anni prima di Cristo. La conduzione dal di fuori significa che questo Gautama è stato investito dal Bodhisattva, perché aveva il compito in questa chiave tutta diversa della prima metà dell’evoluzione, di creare in ogni essere umano, dapprima nel Gautama e poi in ogni essere umano, di scoprire l’ottuplice sentiero, di ritorno al pensare puro, di ritorno al mondo spirituale a partire dalle forze del pensare libero, dell’amore libero, del volere libero. Quindi a partire dalla svolta siamo tutti uguali, e il fenomeno genio diventa più anacronistico, perché il fenomeno genio è colui che va in brodo di giuggiole perché fa la divinità in lui. E un essere umano in cui la divinità in lui fa molto di più che non in altri è più povero, è rimasto indietro. Perché prima della svolta eravamo tutti riempiti di grazia divina, di rivelazione divina, ora si tratta di sfornare a partire dalla libertà. Quindi il senso di questa discesa è di rendere possibile questa salita, però possibile non necessaria.
I. quindi il percorso a partire dalla svolta e andare verso il completamento dell’evoluzione umana, ci sarà chi corre di più, chi va più lentamente, però comunque chi corre di più si evolverà di più, però il percorso è obbligato comunque per tutti.
A. no, è un percorso in base a forze umane, che per principio sarebbe possibile a tutti, per principio sennò non siamo uguali. Vi stavo dicendo che il materialismo è un enorme omissione di questa libertà dello spirito, di questa creatività dello spirito, però questa omissione deve essere possibile sennò non saremmo liberi. E nella misura in cui lo spirito umano omette questa creatività diventa sempre meno capace di creare, e va in giù. Ed è possibile in una vita di svolgere tutto l’umano, tutta la potenzialità umana in negativo? No, no guardiamo ai fenomeni con un minimo di pensiero pulito. Uno si presenta e dice voglio andare in paradiso perché sono stato bravo, ho osservato tutti i comandamenti della chiesa! Il Padreterno che gli dice? Non hai neanche cominciato a diventare uomo torna sulla terra, comincia a pensare un pochino con la tua testa e poi faremo i conti.
I. la mia domanda riguarda una cosa che ho letto scritta da Steiner, c’è una conferenza in cui Steiner parla del fatto che l’evoluzione umana, è necessaria una differenziazione animica degli esseri umani in divenire, perché non ci evolviamo tutti in modo uniforme. Dice che l’umanità va verso, tende a evolversi sempre più uniformemente.
A. scusa io Steiner un pochino lo conosco, lascia perdere i pensieri di Steiner, se tu ci riporti dei pensieri di Steiner, devi sapere che io ti dico che è sfasato quello che tu dici, lo riporti in un modo sbagliato, lascia perdere Steiner cosa vuoi dire?
I. chiedo un colloquio privato.
A. allora sei una testa vuota in questo momento. Facciamo una pausa.
(Agg. VIII cap.) Ma chi consegue veramente la vita nel pensare, chi fa l’esperienza del vivere nel pensare arriva a vedere come, entro l’ambito di quella vita, {di quel vivere} alla ricchezza interiore e all’esperienza fondata su di sé e nello stesso tempo moventesi {sempre in movimento, che non riposa mai, non conosce stasi in se stessa, non possa essere neppure paragonato, e tanto meno anteposto, il vibrare in puri sentimenti o il guardare l’elemento della volontà. Dipende appunto da questa ricchezza, da questa interiore pienezza dell’esperienza, il fatto che la sua controimmagine nell’abituale impostazione dell’anima appare, astratta. Nessun’altra attività animica dell’uomo è così facile a misconoscersi quanto il pensare. Il volere, il sentire continuano a riscaldare l’anima umana anche in seguito, nel rivivere lo stato d’animo originale. C’è stato un incontro una grande gioia, una intensa gioia, torno a casa ci ripenso e c’è un modo di ricostruire, di riverbero però c’è un’eco di questa gioia. Questa eco non è così forte, è molto più morto rispetto al pensare, perché il processo del pensare è molto più vivace, che non il vivere un sentimento quando lo si vive. E quindi il ripensare al pensare ci lascia più freddi che non il ripensare a un sentimento. Il ripensare a un sentimento mi consente di rivivere il sentimento, il ripensare al pensare non mi serve a nulla devo ri-pensare. C’è un’erme differenza tra ripensare al pensare e ri-pensare, l’unico modo è di ritornare al pensare, rientrare di nuovo nell’attività creatrice in assoluto del pensare. Il pensare è un creare puro}. Nessun’altra attività animica dell’uomo è così facile a misconoscersi quanto il pensare. Il volere, il sentire, continuano a riscaldare l’anima umana anche in seguito, nel rivivere lo stato d’animo originale. Troppo facilmente, invece, il pensare, nella rievocazione, lascia freddi: esso sembra inaridire la vita dell’anima.
Uno dice: ma come quando eravamo là in sala mi sembrava tutto così chiaro, così… ho preso appunti e mentre prendevo appunti mi sembrava, (parlo di me studente universitario per esempio, qualche volta capitava che una lezione era interessante eh! Poi uno legge gli appunti: come ho fatto a scaldarmi di fronte…? che ci manca? L’attività creatrice, e questa esperienza la facciamo tutti. Allora uno arriva a un punto che dice mi serve a ben poco prendere appunti! Devo crearli. Far le dispense di questi incontri, spendere venti euro per ogni volume, significa creare nell’umanità animali ruminanti o dei bovi! Se non sapete far altro io non ve lo proibisco, io paladino della libertà non vengo a proibirvi nulla, però io ho imparato e ho deciso a un punto della mia vita di non prendere più appunti, basta! Perché potenzialmente la testa di ognuno, ma è questo che stiamo dicendo, non esiste il fatto di dire: se io mi compro la dispensa non c’è bisogno che vada a Roma. Non si è capita la differenza tra un processo vivente, dove io stesso che sto qui che cerco di esercitare davanti a voi, io stesso non so se un certo processo di pensiero riuscirà bene o meno bene, mica è detto eh. Poi dipende anche da tutte le forze dell’organismo, se uno ha dormito bene, se uno ha mangiato bene o male come si mangia qua per esempio, per cui noi ci dobbiamo portare delle cose dalla Germania). Cioè stiamo creando il concetto della differenza tra il processo di creazione mentre è nel processo di creare e il risultato, del risultato non puoi cambiare più nulla. La tensione sta proprio che in ogni momento non si sa cosa salta fuori nel secondo dopo, perché se lo si sapesse in partenza sarebbe già morto, sarebbe già prefissato, sarebbe già qualcosa di cui non si può cambiare nulla, lo si può soltanto ripetere. Allora i professori che non vogliono rischiare nulla, fanno all’università una lezione, che significa una lezione? Leggono! Al che l’alunno dice: ma se legge, io ho imparato a leggere, devo andare all’università per sentire lui che legge? Mi compro il libro e me lo leggo a casa! Cos’è una lezione? Un ruminare, è come riscaldare una seconda, terza volta il piatto già fatto. Quindi anche se il mio processo attuale di creare, di pensare è più poverello ecc. è comunque molto, molto, molto meglio che non ruminare qualcosa che è già stato pensato. Quando io leggo una pagina di Steiner, l’importante non è quello che Steiner mi sta dicendo, quello è quello che ha pensato lui che mi riguarda? L’unica cosa importante è cosa io accendo in me come pensieri miei. Allora chiudi la pagina, chiudi il libro e dimmi cosa hai letto? Aspetta lo devo rileggere. Allora non ha capito nulla. e in campo antroposofico siamo ancora al punto da citare, da citare, il dottore ha detto. Una masnada di ruminanti, cosa interessa a me cosa il dottore ha detto, dimmi tu con la tua testa, cosa si accende in quella testa lì? E non importa se il processo pensante è a livelli astronomici, o è a livelli più semplici, più modesti, non importa nulla, l’importante che io dia fiducia al processo pensante, alla creatività pensante del mio spirito. Allora sì che faccio passi in avanti. L’unica cosa che dà affidamento in assoluto è il pensare, perché è l’organo che non sgarra, l’organo della verità, dell’oggettività, oppure manca il pensare. Il denaro non dà affidamento, adesso lo si vede sempre di più, perché la banca ti dice tu pensavi di avere 100, mi dispiace hai soltanto 70! Di che cosa ci si può fidare in assoluto? Unicamente del pensare, ed è una gran bella cosa.
Agg. Ma questo è proprio soltanto l’ombra fortemente attiva della sua realtà intessuta di luce e immergentesi con calore nelle manifestazioni del mondo. Questo immergersi avviene con una forza fluente entro la stessa attività pensante, la quale è forza d’amore di natura spirituale. Non è lecito opporre, come obiezione, che chi, in tal modo, vede amore nel pensare attivo, immette in quest’ultimo un sentimento, cioè l’amore. Perché l’amore non è soltanto un sentimento. Perché questa obiezione è in verità una conferma di quanto qui si è affermato. Chi, cioè, si rivolge al pensare essenziale, {il pensare che coglie, crea l’essenza delle cose, i concetti sono l’essenza delle cose, il concetto di rosa è l’essenza della rosa, ciò che fa essere la rosa, ciò che fa venire all’essere la rosa} trova in esso tanto il sentimento, quanto la volontà e questi anche nel più profondo della loro realtà; {cioè l’intensità suprema del sentimento, e la forza più tenace di volontà sono esperibili, sono possibili soltanto nel pensare. Solo nel pensare è possibile avere l’esperienza più intensa del sentimento, ogni sentimento fuori dal pensare è un mezzo sentimento.} Chi vuole nel pensare sperimentare intuitivamente, deve anche riconoscere un diritto allo sperimentare secondo sentimento e secondo volontà. Invece la mistica del sentimento e la metafisica della volontà non possono ammettere che il pensare intuitivo sia capace di compenetrare l’esistenza, poiché verranno facilmente alla conclusione che soltanto esse {sentimento e volontà} stanno nella realtà, mentre chi pensa intuitivamente, privo di sentimento ed estraneo alla realtà, forma {loro dicono che chi pensa intuitivamente è privo di sentimento ed estraneo alla volontà, e forma} in «pensieri astratti» un quadro freddo e inconsistente del mondo.
In altre parole il puro pensare e il pensare è puro quando è sommamente creativo, artistico e intuitivo, è la stessa cosa del puro amore. Cosa vuol dire? Adesso prendo un concetto molto importante, però un po’ grosso, complesso che crea il pensare, il concetto di uomo. Nella misura in cui io mi faccio, creo nel pensare, il concetto puro, complesso, ricco di uomo non posso far altro che amare, innamorarmi di questa ricchezza, di questo dinamismo evolutivo all’infinito. E se non mi innamoro, se non lo amo spassionatamente non l’ho capito, non l’ho creato questo concetto. Il Creatore dell’uomo ha creato un concetto passibile di amore all’infinito, che l’ha innamorato, altrimenti non lo avrebbe realizzato. Quindi il puro pensare, il creare artisticamente un concetto, quando io creo il concetto di rosa, divento spiritualmente nel pensare rosa, divento quella realtà di pensieri, quella struttura di pensieri di forme e di metamorfosi che stanno alla base della rosa che si evidenzia a livello sensibile. E ditemi voi se c’è un modo di amare ancora più puro che non diventare una cosa sola con la realtà amata? Il pensare è l’unico modo di comunione assoluta, soltanto nel pensare l’uomo diventa una cosa sola con ciò che pensa, e diventare una cosa sola è la forma suprema dell’amore, della comunione, del diventare uno. Quindi stiamo dicendo che nel puro pensare c’è la forma suprema, più intensa che si possa immaginare di sentimento, perché l’amore sta per tutti i sentimenti. L’amore è l’eco animico più ricco che ci sia del puro pensare, che è la parte spirituale. Nello spirito è puro pensare, nell’anima è puro amore, puro amore cosa avviene? Pura volontà, pensare, creare il concetto di uomo significa coglierlo nella sua positività assoluta, bellezza e bontà dell’umano, significa amarlo, si può mai pensare e amare una realtà così bella, così ricca all’infinito senza volerla? Assurdo, è compreso nel puro pensare, che è puro amare ed è puro volere, è la stessissima cosa.
I. ?
A. no, perché c’è un amore depotenziato, che è un sentimento che cerco senza il pensiero, il pensiero puro significa alla potenza massima, inquinato significa depotenziato, non depotenziato, non inquinato da nessun elemento. Quindi puro amare e puro volere; e nella misura in cui il puro pensare è un puro amare e un puro volere, crea la voglia di realizzarlo, di renderlo visibile, di renderlo percepibile: puro agire, per mostrarlo all’altro, perché l’altro lo possa cogliere dal lato della percezione e possa risalire fino al concetto. Tu dicevi lasciamo via puro, anche perché in italiano la categoria di purezza è moralistica, ha preso soltanto il risvolto dell’anima ma non il risvolto dello spirito. Allora pensare in quanto attività è amare, è volere ed è agire a livello sommo. Se il pensare è un’attività che crea i concetti, nel creare c’è la volontà no? Creare significa volere, e creare significa agire, quindi creare significa amare, significa volere ciò che si crea sennò non si crea, significa agire, significa creare. Se questa sfera del pensare, dello spirito viene disattesa, viene atrofizzata, viene trascurata, qui c’è il sentimento, qui c’è la volontà e l’agire, il sentimento perde il suo punto di riferimento oggettivo, e diventa puro egoismo, una chiusura in se stessi. Quindi l’egoismo è un mondo di sentimenti a cui manca il pensare, dove è carente, atrofizzato il pensare, nel sentimento nasce la chiusura in se stessi, l’egoismo. E la volontà, questo egoismo impone agli altri le proprie voglie, i propri desideri, quindi nel campo della volontà e dell’agire sorge ciò che noi chiamiamo il potere, il soverchiare la volontà altrui, fare dell’altro lo strumento per ciò che io voglio raggiungere: egoismo e potere. Egoismo come mondo interiore e potere nel modo di interagire con gli altri. Coloro di noi che studiano la scienza dello spirito sanno che l’egoismo è il mondo di Lucifero, il potere è il mondo di Arimane. Sono le due realtà nell’anima, nell’animico e nel corporeo, quindi nella sfera del sentimento e nella sfera dell’agire, del volere e dell’agire, che sorgono quando manca l’amore. L’amore vince l’egoismo e vince il potere, e l’amor lo si può vivere soltanto nella tensione alla comunione con l’altro, e la tensione a essere in comunione con l’altro, come si chiama la tensione a entrare in comunione con l’altro? Pensare è la tensione a essere in comunione con l’altro, con l’oggettività dell’altro, uscire dalla propria soggettività. Quindi il pensare essendo l’organo dell’oggettivo è l’organo dell’amore, amare significa oggettivarsi, egoismo significa soggettivarsi. Amare significa essere incentrati sull’oggettivo, l’egoismo significa essere incentrati sul soggettivo, e per essere incentrati sull’oggettivo bisogna pensare, perché il pensare è l’organo dell’oggettivo. Quindi il problema di linguaggio in italiano è che la categoria dell’amore è stata ridotta, tutta la dimensione di pensiero, di oggettività nell’amore che non c’entra nulla col sentimento è sparita, e si parla dell’amore come se fosse soltanto un fenomeno animico. E quindi ogni volta che si parla di amore in italiano va qualificata questa parola, se non addirittura poi a livello corporeo, per cui due persone che fanno l’amore sono maschio e femmina che non a livello del cuore, ma a livello genealogico, dovrebbero creare i presupposti perché un altro spirito si incarni. Quindi io riassumevo dicendo che la forma suprema di amore è il pensare. Adesso tocca a voi.
I. io ringrazio te perché finalmente sono riuscito io.
A. allora sono affari tuoi! Ma dicci cosa sei riuscito a fare?
I. sono riuscito a capire la forza dell’amore, che c’è in tutto questo giro, ieri sera c’era soltanto l’individualismo, solitudine e nient’altro.
I. avevi iniziato parlando del concetto della rosa, così come del concetto di uomo, e riflettevo che la rosa non può far altro che fare la rosa, è l’uomo che non fa l’uomo!
A. nella rosa manca il fattore libertà.
I. sì ma la rosa senza dubbio, fa petali, spine, foglie ecc. ma è l’uomo mi chiedevo io, di che uomo stai parlando?
A. perciò ti ho detto che il concetto di uomo è un pochino più complesso!
I. ma allora è un’idealità questa, è la possibilità che l’umano ha di realizzare l’amore attraverso questa potenzialità.
A. quindi è insito nel concetto di uomo che l’essere umano è un dinamismo evolutivo, è insito nel concetto di uomo, sennò non hai l’uomo. Però anche la rosa è un dinamismo evolutivo, perché non ce l’hai tutta di botto, cominci col seme e poi… Quindi la rosa è un dinamismo evolutivo determinato; l’uomo è un dinamismo evolutivo in cui è incluso il fattore di enorme complessificazione che noi chiamiamo libertà. Quindi questa evoluzione resa possibile all’uomo deve essere omissibile, se vogliamo che l’uomo sia libero, quindi tutto l’umano è omissibile, sennò non saremmo liberi, tutto si può omettere. Tutto il bene possibile, tutto il vero possibile, tutto il bello possibile si può omettere, nessuno è costretto a realizzare il vero, a realizzare il buono, a realizzare il bello. E questo crea una diversificazione enorme tra gli esseri umani, e il pensiero ci arriva, basta non mollare. Perché un Goethe è pieno di intuizioni, di pensieri, una ricchezza all’infinito? Io l’ho letto quasi tutto, ne ho una biblioteca in tedesco, perché avrà perso meno colpi che non altri! Perché se tutti i suoi pensieri, anche quasi duemila anni dopo Cristo, gli vengono dati per grazia ricevuta e allora non ci siamo eh! Perché viene dato tutti a lui e a me nulla! sarebbe negata l’uguaglianza degli esseri umani che fa parte del concetto di uomo, la natura umana è uguale in ogni uomo, non c’è un uomo al 99%, un uomo al 101% o un uomo al 90%. Io sono inorridito in Sudafrica di fronte a certi bianchi, che veramente erano convinti ma questi negri non sono uomini al 100%. Io all’inizio quasi prendevo un infarto cardiaco, non riuscivo a capire di che cosa parlavano, se è uomo è uomo al 100% o non è uomo.
I. quando prima definiva il pensiero come vivente, a me veniva da chiedermi ma ogni tipo di pensiero, il pensare è un’attività creatrice pura.
A. potenzialmente, può essere, non deve essere.
I. ecco sì, però se io penso che l’essere umano è inferiore, questo che cos’è? non è un pensare puro, è un pensare influenzato.
A. oscurato dal sentimento, dalla brama per esempio. Un processo di pensiero viene oscurato dalla brama, sono faccende del pensare? No, è un sentimento troppo forte, essendo troppo forte obnubila il pensare. O la paura per esempio.
I. quando parlava che tra adulti non ci si può dare consigli, che non siamo educabili ecc. qual è allora l’ambito in cui si può definire che l’incontro tra esseri umani è un ambito in cui ci si può scambiare pensieri, aprire al pensiero, ci può essere un cambiamento nell’incontro, io non do un consiglio a te in quanto io sono portatrice di una verità, ma incontrandomi con te ci può essere la creazione di una comprensione diversa del mio problema, del tuo problema, cioè ci può essere un’attività creatrice nell’incontro, quindi come tale modificabile.
A. il problema in quello che tu dici è che non hai distinto le due polarità dell’umano che sono opposte. La polarità del pensare e il polo del volere e dell’agire. I consigli non si riferiscono al pensare, io non ti posso dare consigli rispetto al pensare, ti posso offrire pensieri, e tu ne fai col tuo pensiero quello che vuoi. I consigli si riferiscono all’agire sennò non son consigli! E quando noi parliamo del pensare, dobbiamo dire le cose opposte a quelle che diciamo parlando dell’agire. Il pensare universalizza l’uomo, perché lo rende uno con ciò che è oggettivo, il volere e l’agire individualizza l’uomo.
I. quindi si possono dare consigli!
A. non si può dare consigli. La domanda del volere è: cosa faccio qui e ora? È possibile che un altro ti dia un consiglio? No, perché ciò che il tuo io superiore si è proposto di compiere in campo di volere e di agire, quindi azioni che diventano percepibili qui e ora, il tuo io si è proposto un volere e un agire suo, unico, e tu puoi sapere che cosa vuoi fare tu in questo momento nella tua situazione in questo momento, soltanto se ti metti in comunione col tuo io superiore. Quello che un altro io, l’io accanto a te si è riproposto di voler fare in questo momento, è una tutt’altra cosa, perché è un altro io.
I. ma a me interessa quello che pensa un’altra persona.
A. te lo dirà, e cosa c’entra questo col consiglio? Il consiglio è: ti consiglierei di fare questo, mi metto al posto, sostituisco, cancello il suo io, la sua sorgente di intuizione morale. Così come la prima parte della filosofia della libertà è l’intuizione conoscitiva, la rosa c’è già, l’ha creata il Logos, io intuisco nel pensare una cosa che già c’è. Invece l’intuizione volitiva, l’intuizione morale è l’intuizione di quell’azione, di quel modo di comportarsi che il mio io vuole per sé in questo momento. Ma il modo in cui il mio io, in quanto individuale unico, il modo in cui il mio io vuole comportarsi in questo momento è tutto diverso dal modo in cui un altro io vuol comportarsi in questo momento. Tant’è vero che un io in questo momento dice: io voglio parlare e prendere il microfono e l’altro dice no, io sto zitto e ascolto, allora tu dai un consigli all’altro no, dovresti parlare anche tu. Ciò che una persona in questo momento ha da fare non lo può sapere nessuno fuorché questa persona, e lo saprà se si mette in comunione, in connessione col suo io superiore, col suo io vero, col suo spirito creatore, con la sorgiva la seconda parte della filosofia della libertà ci arriveremo nei prossimi incontri la chiama “la fantasia morale dell’amore”. Quindi c’è nell’essere umano una sorgente di creatività che inventa artisticamente modi di comportamento intuitivi che sono unici, e soltanto quando l’essere umano non copia nessuno è moralmente buono, perché se copia cancella se stesso, e questo è l’essenza dell’immoralismo, perché cancella, distrugge il bene morale sommo che è l’io, la realizzazione dell’io, nella fantasia morale dell’amore. Quindi una mamma che sta trattando il quarto o il quinto dei suoi dieci bambini, non va a leggere su un libro, non va a chiedere consigli se ama. Agostino riassume questo complesso mistero dicendo: ama e fa ciò che vuoi. Ripeto io mi sto chiedendo che cosa devo fare? tante volte si deve prendere una decisione in situazioni complesse, come fa già ho difficoltà io, che sono io che mi conosco, sto nella mia pelle, so le forze che c’ho, so i talenti che sto sviluppando in me che è tutto diverso da un percorso dell’altro. Faccio fatica io a sapere che cosa la fantasia dell’amore tira fuori come comportamenti nella mia situazione, come fa a saperlo un altro quello che è giusto per me? È semplicemente assurdo. L’altro può soltanto essere solidale nel dire non mollare! E va benissimo che uno ci metta due o tre anni a cercare la decisione giusta, non è detto che una decisione debba essere la migliore perché si fa veloce veloce, ci son decisione per cui val la pena anche prendersi dei mesi e degli anni. Ma dal di fuori come fa l’altro a sapere cosa devo fare io? E fortunato se sa quello che deve fare lui! E avrà abbastanza da fare se lo fa! Quindi dare consigli è trattare l’altro da bambino, perché il bambino non ha ancora sviluppato una volontà, un processo di pensiero suo che fa una disamina della situazione karmica per sapere per quali motivi il mio io superiore si è attirato queste persone, questa situazione, queste malattie, questa costellazione di forze ecc. Per interpretarle, per capire cosa si è proposto di tirar fuori come registro dal proprio essere, l’io bisogna in chiave di pensiero interpretare tutto quello che mi circonda, però con questo cardine centrale che sono io, l’altro è alla periferia, come fa dalla periferia a dirmi ciò che è giusto per me? E ciò che è bene per una persona non può mai essere bene per un’altra. Ciò che è bene per dieci persone, per un milione di persone è la condizione necessaria del fattore morale, ma la condizione necessaria non è un fattore di libertà è un fattore di necessità. Quindi il bene comune deve esserci, non ha nulla a che fare con la libertà, e sulla base di questo bene comune che rende possibile l’individuale, ognuno è potenzialmente un mondo del tutto diverso dall’altro. Quando una persona, e sono tante anche in base al mio passato, vengono e dicono dai aiutami cosa devo fare? e la mia risposta è sempre lo puoi sapere solo tu! Ci metti tre mesi a saperlo? Va bene.
I. non lo saprai mai? Va bene lo stesso!
A. non lo saprà mai forse in questa vita, ma ce n’è un’altra.
I. infatti questo chiedere consiglio, unirsi al nostro io superiore lo troviamo nella saggezza popolare dei proverbi che dice: la notte porta consiglio. Cioè la notte che noi usciamo e andiamo nel mondo spirituale forse troveremmo la mattina dopo il suggerimento giusto.
A. entriamo in comunione benché sovra cosciente col nostro io superiore.
I. sperando di individuarne l’eco della risposta il mattino dopo, perché non sempre è facile decifrarlo.
A. e come si aumentano le chance per individuare l’etico? Esercitandosi, e la cosiddetta meditazione come prima attività subito dopo lo svegliarsi, è l’esercizio di porsi in grado sempre di più, di cogliere le risposte che vengono dal mondo spirituale, questo è il senso della meditazione. Se tu ti eserciti a cogliere i primi momenti quando ti svegli come risposte, tu ritorni dal mondo spirituale dentro nel corpo, se ti eserciti pensando sui sogni, se prima di addormentarti hai posto certe domande, e se tu sai che quando ti svegli nelle immagini dei sogni c’è sempre la risposta dell’angelo custode, c’è la risposta del tuo io superiore. Nella misura in cui ti eserciti nella meditazione a decifrare queste risposte, diventi sempre più bravo a decifrarle e saprai sempre meglio cosa devi fare. Questa bambina, in Austria che è stata chiusa 18 anni, lei ha detto in un’intervista, aveva otto anni quando è stata rapita, che lei ha sentito una voce chiaramente che le ha detto vai dall’altra parte della strada, quando è stata portata via. E lui questo signore, veniva da questo lato della strada, lei ha sentito come una voce fisica vai dall’altra parte e non è andata, perché se fosse andata dall’altra parte sarebbe stato troppo macchinoso fermarla.
I. se l’avesse sentita era salva.
A. l’ha sentita la voce ma non la seguita.
I. se lei l’avesse seguita non sarebbe stata rapita.
A. se fosse stato indifferente essere da una parte o dall’altra, questa voce non ci sarebbe stata.
I. la libertà è solo dell’uomo o anche delle gerarchie superiori all’uomo? e così anche il pensare.
A. la domanda è molto complessa, la scienza dello spirito entra nel merito di questa domanda. Per rendere possibile la libertà umana, per creare tutte le condizioni della libertà umana esseri angelici al di sopra dell’uomo devono aver creato tutte le condizioni della libertà umana. Per rendere possibile la libertà umana bisogna che degli spiriti aiutino l’uomo oppure lo ostacolino, o lo tentino a bruciare le tappe oppure a restare indietro. Questi angeli che possono scegliere tra accompagnare l’uomo nella direzione giusta, gli angeli che restano indietro per rendere possibile il restare indietro dell’uomo. Gli angeli che precipitano l’evoluzione per rendere possibile il precipitare, lo fanno liberamente o no? Sì e no. La perfezione dell’amore è la perfezione della libertà; lo specifico della libertà umana è che è una libertà che si può perdere. Una libertà sovraumana è così perfetta che non decide mai liberamente di diventare non libero. Come avvio di pensiero: tre livelli della libertà, la libertà specifica dell’uomo è la libertà di scelta, – libertà significa scelta – tra bene e male. Cosa significa scegliere il bene? Scegliere di mantenere la libertà, di confermare la libertà, scegliere di essere liberi. E il male significa di scegliere di perdere la libertà, scegliere di essere non liberi. Quindi lo spirito capace di scegliere tra restare libero e essere non libero, è soltanto lo spirito umano. Però questo concetto di libertà è uno di tre, è l’unico modo di essere liberi? C’è una sovra libertà chiamiamola libertà superiore, per essere libertà deve essere anche scelta tra bene e bene. Le cose buone sono all’infinito, però questo tipo di libertà è talmente perfetta che non va mai perduta, non si perde mai, si conferma in ogni scelta, quindi confermandosi in ogni scelta, può scegliere soltanto tra bene e bene. Questa è la libertà specifica degli spiriti sovraumani, degli angeli. C’è un terzo tipo di libertà? certo, libertà superiore, libertà inferiore. Il Mefistofele nel Faust è uno spirito libero, nel concetto di spirito lo spirito è libero sennò non è spirito, però la sua libertà è la libertà di scelta tra male e male. Perché se un bel giorno il diavolo scegliesse qualcosa che è bene, finirebbe di essere un diavolo! Sarebbe una catastrofe, allora il Padreterno dovrebbe pigliare un altro, dovrebbe dire Mefisto te devi fare il bravo diavolo, fai il tuo dovere! Il tuo dovere è sempre di ispirare all’uomo qualcosa che non va bene, sennò non sei un bravo diavolo. Quindi il Mefisto è il diavolo più perfetto che ci sia mai stato. Il bello del Fausto, la fenomenologia del Mefisto è qualcosa di straordinario, tant’è vero che il Faust poi un po’ alla volta capisce, se me lo dice il Mefisto vuol dire che non va bene! Faccio l’opposto! La scelta tra il bene e il male comporta che c’è la possibilità di scegliere sempre, un po’ di colpi li perde ognuno, però prendiamo un essere umano che svolge profondamente in positivo la sua evoluzione, conferma sempre la libertà, diventa sempre più libero. La possibilità di perdere la libertà diventa sempre minore. Un altro essere umano diventa sempre meno libero, la possibilità di tornare su diventa sempre meno reale. Arriva a un punto, e in una vita non è possibile, determinarsi in tutto in positivo o in tutto in negativo, però nel corso di diverse vite la dinamica è che meno libera una persona diventa e meno ha la possibilità reale di essere libera. E più libera una persona diventa e più ha la capacità di scegliere tra bene e bene. Quindi in ultima analisi c’è la prospettiva dello stadio angelico, della scelta tra bene e bene; e l’animale, nel concetto di animale c’è la bestia, il concetto di bestia è nulla di libertà, neanche più la potenzialità della libertà, addirittura la potenzialità si può disfare. Una potenzialità, una facoltà che non si attualizza mai si disfa, si perde. Buon appetito ci ritroviamo alle 20.30.
Venerdì 1 ottobre 2010, sera
Affrontiamo il IX capitolo della filosofia della libertà “L’idea della libertà”, il concetto di libertà. Che differenza c’è tra concetto e idea? Il concetto di concetto e il concetto di idea. Non c’è una differenza sostanziale, una differenza accidentale direbbe Aristotele, e cioè che un’idea è una serie di concetti, un insieme di concetti, quindi un’idea è un concetto più complesso, e il concetto è un’idea più ristretta. Il concetto di mela, non si può dire l’idea di mela; il concetto di triangolo non c’è l’idea del triangolo il concetto di triangolo. Invece l’idea di uomo è complessa la cosa, colui che ha ideato l’uomo, l’ha concepito come qualcosa di molto complesso, però naturalmente ci sono molte cose che si possono chiamare sia concetto sia idea. Però ponendo come titolo di questo capitolo “L’idea della libertà”, Steiner ci vuol dire che ora affrontiamo il nucleo, l’essenza della libertà. Qual è l’essenza della libertà? Senza volercelo far dire tutto da Steiner, sappiamo pensare anche noi no? L’essenza è il nocciolo: il non lasciarsi determinare da nulla, questa è l’essenza della libertà, se mi lascio determinare non sono libero. Ma come? È mai possibile non lasciarsi determinare da nulla? (Dico un paio di pensieri a ruota libera adesso all’inizio) È principalmente non possibile, di principio?
I. nel pensare sì, nell’agire no!
A. tutti i condizionamenti fisiologici, biologici, di educazione, sociali ecc…. tutti scavalcati, e non ci lasciamo determinare da nulla? Staremo a vedere! Comunque la cosa è interessantissima, è la domanda più importante che ci sia. Cos’è la libertà? c’è? e’ un’illusione?
(IX,1) Il concetto dell’albero è, per il conoscere, condizionato dalla percezione dell’albero. Per quanto riguarda l’uomo, parliamo del conoscere dell’uomo, del conoscere umano; non posso formare il concetto di albero senza la percezione dell’albero, perché soltanto la percezione fa sorgere la domanda “che cos’è?” E allora il pensare si accende e dice è un albero. Di fronte ad una determinata percezione io posso estrarre dal sistema generale dei concetti soltanto un ben determinato concetto. Che poi è lo stesso, dal sistema generale dei concetti tiro fuori un ben determinato concetto. Il nesso fra concetto e percezione viene determinato indirettamente e obiettivamente, nella percezione, per mezzo del pensare. Il collegamento della percezione col suo concetto viene riconosciuto dopo l’atto percettivo, quindi prima precede la percezione, però non è la percezione a dirmi che cos’è ciò che percepisco, ma la correlazione è già determinata nella cosa stessa. Quindi non è la percezione a dirmi che quella è una mela, perché la percezione non è nulla, quindi se io resto alla percezione pura la parola mela, che è un concetto, non esiste ancora. Nel momento in cui dico mela son già nel pensare, quindi importante sempre di nuovo, non attribuire alla percezione ciò che è un fatto di pensiero, pensare. Non la percezione mi dice che quella è una mela, il pensare mi dice che quella è una mela. Supponiamo per assurdo che un bambino fra i 4, 5 anni dica che è un gattino, noi adulti vediamo una mela, lui un gattino. Ha visto male? è una carenza di percezione? no, manca il pensare, quindi non è la percezione che ci dice che quella è una mela, è il pensare, perché la percezione a un bambino piccolo può dire un gattino o una pera.
(IX,2) Diversamente si presenta il processo quando si considera la conoscenza, cioè quando si ha la percezione del conoscere, quando si esamina il rapporto che con essa, nella conoscenza, sorge fra l’uomo e il mondo. Nelle considerazioni fin qui svolte si è fatto il tentativo di mostrare che è possibile mettere in chiaro questo rapporto volgendo su di esso la nostra imparziale osservazione. Il rapporto fra l’uomo e il mondo è un rapporto pensante, e questo rapporto lo si può fare oggetto di percezione, però bisogna esercitarsi a percepire il pensare. Una percezione di eccezione perché noi normalmente non facciamo attenzione al pensare, cioè non percepiamo il pensare, ma rivolgiamo la nostra percezione alle cose sulle quali il pensare pensa, nel III e nel V capitolo abbiamo fatto questi esercizi. Una giusta comprensione di tale osservazione porta al convincimento che il pensare può essere direttamente contemplato, può essere direttamente percepito, fatto oggetto di percezione, come un’entità in sé conchiusa. Il pensare viene percepito, viene vissuto, perché anche il vissuto è una percezione che facciamo, come un’entità in sé conchiusa. Cosa vuol dire un’entità fondata su se stessa? (Il pensare, il Logos, la logica del mondo,) La struttura logica del mondo ha bisogno di elementi esterni per spiegarla? No, è tutto immanente, il Logos è la struttura dei pensieri, questa struttura di pensieri noi la chiamiamo il mondo, ma il mondo è una struttura di pensieri, enorme, complessissima, però conchiusa in sé, non ha nulla che la spieghi dall’esterno. Articoliamo minimamente questa struttura, c’è il minerale, c’è il vegetale, c’è l’animale e l’umano, con quale strumento colgo io la struttura logica di questi quattro? Come sono strutturati? Io so che il minerale ha un rapporto strutturale di base per il vegetale, il pensare di ognuno di noi sa che il minerale e il vegetale sono una struttura di doppio fondamento per l’animale, e il pensare sa che è una realtà chiusa in se stessa, non è carente da nessuna parte, è completa, non ha bisogno di nessun aiuto dall’esterno. La struttura del reale in quanto svolta in pensieri, in concetti è fondata su se stessa, è una logica immanente e il pensare mi dice che il minerale, il vegetale e l’animale sono una triplice struttura di fondazione per rendere possibile il fenomeno umano. Quindi il pensare non ha bisogno di aiuti dall’esterno, è autonomo, si poggia su se stesso, ha dentro di sé tutto ciò di cui ha bisogno per spiegare il mondo, il pensare è la spiegazione esauriente a cui non manca nulla del mondo. E allora cos’è il pensare? Una realtà che si fonda su se stessa, che non ha bisogno di nessun elemento estrinseco che la puntelli, che la sorregga, si regge su se stesso. Un ragionamento giusto, è giusto, si regge su se stesso, non ha bisogno di elementi estrinseci. Il pensare è l’autonomia dello spirito, lo spirito creatore si regge su se stesso e produce il pensare. Se usciamo dal pensare abbiamo una non comprensione, altro che un aiuto, una non comprensione, se restiamo nel pensare possiamo comprendere tutto. Quindi il pensare è realtà autonoma che si poggia su se stessa a cui non manca nulla, tutto ciò di cui ha bisogno lo trova dentro di sé. La nostra difficoltà di uomini d’oggi è che siamo abituati a considerare reale, soltanto ciò che è materialmente, sensibilmente percepibile, e la filosofia della libertà ci fa fare esercizi, che ci portano a considerare reale qualcosa che non è sensibilmente, materialmente percepibile. La prima realtà puramente spirituale che ogni essere umano può percepire è il pensare, e realtà puramente spirituale significa fondata su se stessa, ha la sua ragione d’essere dentro di sé non al di fuori. Logico è logico, è secondo il Logos, e se è logico non gli manca nulla, va bene! Il grande filosofo Hegel scrisse “Tutto ciò che è ideale è reale”, e una volta gli fu chiesto: e se la realtà non fosse secondo le sue idee? E lui rispose: tanto peggio per la realtà! Quindi è la cosiddetta realtà che deve agguagliarsi alle idee, non il Logos che deve agguagliarsi alla percezione. Dicevamo prima che il pensare è ciò che dà affidamento in assoluto, perché ciò che è vero è vero, e l’errore è escluso. Quando io vi ho articolato questa struttura quadruplice del reale: il minerale, il vegetale, l’animale e l’umano, è possibile che ci sia un errore? Che uno dica no, no, no, hai sbagliato la successione, prima c’è il minerale, poi c’è l’animale, poi c’è il vegetale e poi c’è l’umano, va bene? È possibile sbagliarsi? Ma se tu ti sbagli in ciò che è successivo.
I. contiene in sé il precedente quindi lo presuppone.
A. allora io ti dico l’animale contiene in sé il minerale, il vegetale contiene in sé l’animale e il minerale. Tu dici no, sei sicuro?
I. sì, cioè il vegetale non può contenere l’animale.
A. sei sicuro? O puoi sbagliarti?
I. no, son sicuro, mi sembra una cosa ovvia, è una complessificazione che procede di gradino in gradino, e il gradino successivo va oltre quello precedente, e lo complessi fica.
A. sì, ma è così scontato per te quello che tu dici, che non hai capito quello che io ti ho detto! Io t’ho detto il minerale è un minimo di complessità, l’animale un pochino di più e il vegetale ancora di più.
I. ma il vegetale è di più del minerale ma non di più dell’animale.
A. come fai a saperlo?
I. perché nell’animale abbiamo il minerale che è complesso, poi abbiamo la vita, quindi abbiamo quello che ha la crescita, lo sviluppo, la riproduzione, poi l’animale ha la sensazione.
A. ho capito! ma io ti sto chiedendo e se ti sbagli?
I. se mi sbaglio in che senso?
A. questo esercizio è psicologicamente molto importante, tu stai dimostrando, lo stiamo esercitando insieme, che dove c’è il pensare va a colpo sicuro, tant’è vero che tu non capisci neanche quello che io ti sto dicendo come bastian contrario, va a colpo sicuro. E questo andare a colpo sicuro tu lo chiami – è ovvio –. In filosofia dove si fanno esercizi di pensiero quello che tu spontaneamente hai chiamato l’ovvio, lo si chiama intuizione. Tu hai per intuizione il concetto di animale, per intuizione il concetto di vegetale, e sai ovviamente cioè con certezza, con certezza assoluta che l’animale è più complesso del vegetale, perché l’animale comprende il vegetale e il minerale, invece il vegetale comprende soltanto il minerale ma non comprende l’animale.
I. anche perché io li comprendo tutti come uomo, comprendo il minerale, perché ce l’ho in me, comprendo il vegetale perché ce l’ho in me.
A. no, non lo comprendi perché ce l’hai in te! Lo percepisci in te, ma lo comprendi col pensiero, col pensare, e col pensare vai a colpo sicuro, e io posso ripetere cento volte no, guarda che il vegetale è più complesso dell’animale! E tu dirai no,
I. sì, è come quando ho capito il teorema di Pitagora, tu puoi dirmi tutto quello che vuoi ma se l’ho capito ce l’ho dentro proprio, per cui è una realtà indiscutibile.
A. di certezza assoluta, e questa certezza assoluta del pensare si chiama intuizione. Gli Scolastici la chiamavano in latino evidentia, ciò che tu chiamavi l’ovvio, ovvio è ovvio.
I. ed è intuizione anche intesa in questo caso quella di cui parla Steiner?
A. sì, adesso arriva qui nel testo la definizione di intuizione, la sto preparando. All’inizio del IX capitolo c’è la definizione di intuizione, però è una definizione così difficile per l’uomo d’oggi, poi la traduzione italiana è più difficile che io la sto psicologicamente preparando. Quindi l’intuizione del concetto di minerale, del concetto di vegetale e di animale, in questa sequenza, se c’è l’intuizione, ogni concetto è un’intuizione, se c’è l’intuizione va a colpo sicuro, è giusta, non c’è un’intuizione sbagliata, oppure l’intuizione non c’è, quindi un’intuizione sbagliata non c’è mai stata, non ci può essere, o manca o se c’è è sicura. L’evoluzione del pensiero è di conseguire il livello di certezza che noi siamo abituati ad avere nel matematico, in tutte le cose, che è una gran bella cosa! Però è un cammino di evoluzione senza fine in un certo senso. Una giusta comprensione di tale osservazione, del pensare, porta al convincimento che il pensare può essere direttamente contemplato, come un’entità in sé conchiusa. Io adesso ho fatto esercizi per indicare che il pensare è una realtà che si poggia su di sé, che si spiega sempre con elementi all’interno del pensare, quindi ogni cosa che c’è da spiegare va spiegata con elementi dall’interno del pensare, perché il pensare non ha nulla di esterno, è una realtà che si poggia su di sé. Perché ciò che è esterno al pensare è nulla, nel momento io dico che cos’è, che è qualcosa, è nel pensare. Fuori dal pensare che si regge su se stesso c’è nulla, nel momento in cui qualcosa è qualcosa fa parte del pensare, perché l’essenza di ogni cosa è il concetto che è il pensare crea. Quindi il pensare è una creazione immanente in sé, al di fuori della quale c’è il nulla. Chi, per spiegare il pensare come tale, trova necessario aggiungere ad esso qualcos’altro, come per esempio processi cerebrali fisici, oppure processi spirituali incoscienti nascosti dietro il pensare cosciente che viene osservato, misconosce ciò che gli dà l’osservazione obiettiva del pensare. Il cervello è fuori o dentro al pensare? Il cervello è un concetto, senza il concetto del cervello non sarebbe nato il cervello a livello di percezione, perché il cervello è come ogni altra cosa, un concetto reso visibile, quindi un concetto reso visibile fa parte del pensare in quanto concetto. Il cervello è sorto perché colui che ha pensato il cervello disse: il cervello sia e il cervello fu. Come è sorto il cervello? Qualcuno lo deve aver pensato, una pensata complessa, però l’origine è sempre il pensare, l’origine di tutte le cose è sempre e solo il pensare, quindi il pensare è sufficiente a se stesso, non ha bisogno di nessuna spiegazione dal di fuori, si regge su se stesso.
I. stiamo continuando a dire in questo paragrafo osservare il pensare, percepire il pensare, ma fino adesso non abbiamo detto che non possiamo, perché ci siamo dentro, ma noi percepiamo e osserviamo solo i pensati?
A. percepiamo i concetti già pensati, però di questi concetti diciamo una cosa che non diciamo su nessun’altra cosa, su nessun’altra percezione.
I. se osserviamo il pensare, e fino adesso abbiamo detto che questo ci rimane impossibile perché noi siamo dentro, per cui per osservare il pensare dovremmo averlo squadernato davanti come quando osserviamo il mondo, puoi osservare forse l’attività di un altro o ti accorgi che stai pensando, ma tanto e quanto ne siamo immersi ci risulta impossibile.
A. anticipo tutto l’inizio del IX capitolo, la tua domanda è giusta e si vede che tu la studi la filosofia della libertà. Perché questa prima parte del IX cap., è l’unica parte che veramente Steiner nel 1918, 25 anni più tardi, ha completamente rifuso, del tutto rifatta e molto ampliata, quindi com’era la prima edizione non gli andava più, e il problema era proprio quello che tu stai dicendo. Io adesso anticipo per sommi capi la problematica che risale ad Aristotele tra l’altro, qui abbiamo l’uomo e metto in bianco la struttura celebrale che è percepibile. Adesso la neurobiologia con strumenti sempre più perfetti, percepisce gli eventi nel cervello a livelli sempre più microcosmici infinitesimali. Qui tutto ciò che è percepibile in ciò che avviene nel cervello, dovuto al cervello, dovuto alla connessione col cervello, riassumo cose che sono molto più complesse se uno poi le svolge nei particolari, il cervello funziona come uno specchio, quindi è un apparecchio speculare, dovuto al fatto che il pensare si specchia in questo specchio, sorge la coscienza, ho coscienza del pensare. La coscienza del pensare non è il pensare, questa era la tua domanda. Se io mi rendo cosciente che c’è un pensare, dico se c’è un pensare, se io percepisco il pensare ci deve essere un pensatore. Quindi la coscienza del pensare è il riflesso del pensare reale dentro all’io che pensa. Se io porto a coscienza il pensare ci deve essere qualcuno che pensa, perché la coscienza del pensare non è il pensare, è l’immagine riflessa del pensare, quindi la coscienza del pensare è l’immagine riflessa del pensare. Se io ho l’immagine riflessa del pensare, ci deve essere la realtà del pensare e questo è un processo di illazione. Si conclude dal fatto che c’è la coscienza del pensare che ci deve essere un essere spirituale, l’io spirituale che pensa, l’io pensante, e questo io pensante si connette col cervello per portare il suo pensare a coscienza. Se il cervello è la condizione necessaria per l’immagine riflessa del pensare, cioè per la coscienza del pensare, vuol dire che il pensare come tale, non ha nulla a che fare col cervello. Il cervello è lo specchio, se lo specchio è la condizione necessaria per far nascere l’immagine di me, vuol dire che l’immagine di me dipende in tutto e per tutto dallo specchio, se lo specchio è rotto l’immagine di me sarà rotta, ma io sono del tutto indipendente dallo specchio. Allora Steiner dice che la coscienza dell’io, la coscienza del pensare dipende in tutto e per tutto dall’apparato speculare, la coscienza cioè l’immagine riflessa che porta a coscienza ma non il pensare stesso, il pensare non ha nulla a che fare col cervello, non dipende in nulla per nulla dal cervello. Cartesio dice “cogito ergo sum” è il pensare? È la coscienza del pensare non il pensare. Tanto è vero che ogni volta che addormentandosi disconnette la connessione col cervello, questo io penso sparisce, però lui non può dire “allora io non sono più”, non c’è più la coscienza dell’io. Quindi se io connesso col cervello penso, dunque sono cosciente di me, non io sono, penso, pensare ordinario, dunque sono cosciente di me, e non posso diventare cosciente di me senza che io ci sia. Questa è l’illazione, non può sorgere la coscienza dell’io senza che ci sia l’io, quindi coscienza del pensare, coscienza dell’io pensante, coscienza dell’io è la stessa cosa, però sono tutte immagini riflesse. Quindi il concetto di coscienza è che sono immagini riflesse a partire dallo specchio, e un’immagine riflessa per un pensare pulito mi dà sempre la possibilità di risalire a una realtà che si rispecchia, perché se non c’è una realtà che si rispecchia io non ho l’immagine riflessa. Questo era il senso della tua domanda. Se i neurobiologi si rendessero conto, perché non se ne rendono conto a sufficienza con questa chiarezza, che tutti i fenomeni di coscienza, che loro giustamente dicono dipendono dal cervello, e siccome c’è un rapporto temporale, adesso la neurobiologia è diventata così sperimentale a livello subliminale, che veramente dimostra, che in base a certi processi di cervello sorgono nella coscienza certi pensieri, certe immagini ecc… quindi prima c’è qualcosa nel cervello poi c’è qualcosa nella coscienza. Siccome lo scienziato materialista è abituato a interpretare ciò che viene prima come causa, e ciò che viene dopo come effetto, allora loro dicono che tutti i fenomeni di coscienza, tutti i miei pensieri sono effetto e la causa è il cervello. E a questo punto bisogna dire io nella mia coscienza non ho la realtà di un concetto, ma la percezione.
I. per cui quello che qui chiama “osservare il pensare”, è praticamente questo processo di illazione che tu hai ben descritto adesso?
A. sì, e perciò ha dovuto riscrivere il rapporto che c’è tra il sostrato biologico, gli eventi di coscienza che sono però speculari, cioè il neurobiologo dovrebbe dirmi che il cervello causa l’immagine della carota, ma non la carota reale! Se sorge l’immagine della carota, questa immagine la può far sorgere solo la carota reale, il cervello è la causa del sorgere della rappresentazione, cioè dell’immagine della carota, e l’immagine della carota mi induce a illazionare che ci deve essere la carota reale, però la carota reale non ce l’ho nella coscienza, e il cervello non produce la carota reale scusate! Quindi se lo scienziato naturale avesse una penetranza di pensiero un pochino più avanzata, sarebbe in grado di dire proprio perché è giusto ciò che lui dice che il cervello è la causa di tutti i fenomeni di coscienza, e stando al fatto che tutti i fenomeni di coscienza sono immagini riflesse, dovrebbe in chiave di pensiero pulito, dedurre che tutte queste immagini riflesse possono sorgere soltanto se ci sono le realtà delle cose che si rispecchiano. E l’immagine riflessa dell’io, che è la coscienza dell’io, presuppone la realtà dell’io. Come posso avere io nella coscienza l’immagine riflessa dell’io, portare l’io a coscienza se non c’è l’io? Sarebbe come dire che nello specchio sorge l’immagine di me però io non ci sono. E la scienza dello spirito completa poi più tardi dicendo (e perciò qui Steiner ha avuto bisogno di rifondare il testo) questo io spirituale, pensatore, creante, si crea, – si forma come un’artista che fa una statua – il corpo, si crea lui il cervello per portare se stesso a coscienza, per creare l’autocoscienza. Il fatto che sorga un riflesso speculare presuppone due cose: che si crei lo specchio; e che ci sia la realtà dell’essere che si rispecchia. Quindi la neurobiologia non ci ha ancora detto chi ha formato il corpo? in quanto a fenomeni di coscienza vuole una spiegazione per causa ed effetto, e andiamo bene, invece il corpo, la realtà del cervello la prende come un dato di fatto, senza spiegarmela come causa ed effetto; perché la causa del cervello è chi l’ha costruito e l’effetto è il cervello costruito dall’artista che l’ha costruito. Perché un cervello non si costruisce da solo, da dove viene il cervello? Quindi lo stesso scienziato che dice, io spiego i fenomeni di coscienza soltanto se li presento come effetto della loro causa, se risalgo alla causa dov’è la causa del cervello? Si causa da sé? E lì lo scienziato non è conseguente! Altro sarebbe se dicesse che la causa del cervello, cioè chi ha formato il cervello, non è una causa sensibilmente percepibile quindi non la conosco e non posso dire nulla! Sarebbe più onesto! Però fare come se il cervello non necessitasse una spiegazione è disonesto, perché lui per i fenomeni di coscienza postula la necessità di una spiegazione, e allora deve anche per il cervello postulare una necessità di spiegazione, come mi spieghi il sorgere del cervello? Chi è la causa del cervello?
I. ?
A. sì, perché se il cervello, cioè il concetto di un cervello poggiato su se stesso, è un cervello che si crea lui, che si auto crea, il pensare si auto crea. Un cervello che si auto crea dimmi che pensata è?
I. no, non torna! ecco perché il capitolo inizia con il secondo paragrafo, in cui dice chiaramente che l’unica realtà che è auto poggiante su di sé, che è auto referente, auto sufficiente.
A. che non ha bisogno di spiegazione causante dall’esterno.
I. che gli venga da fuori di sé, è appunto soltanto una cosa che è il Logos, cioè il pensare. Tutto il resto, compresa quindi la materia – il cervello –, non essendo autosufficiente e auto referente, ha bisogno di necessità, se è in grado questa materia di produrre un’immagine, ha bisogno della realtà dell’immagine che utilizza il cervello come specchio.
A. e quindi ha bisogno di una spiegazione che è al di fuori e che è dentro il pensare.
I. e quindi c’è una bella differenza tra la coscienza di sé e il sé.
A. la stessa differenza che c’è tra l’immagine dello specchio, e la realtà che si specchia nello specchio.
I. per cui lo specchio si può anche rompere, ma non si rompe colui che ci si specchia.
A. si rompe l’immagine.
I. questo poi ha implicazioni anche sulla questione della dichiarazione di morte, quand’è che una persona è morta?, e tutto il problema dei trapianti ecc…
A. certo, quando va tolta la flebo, fin quando va lasciata? Sono questioni che diventano sempre più complesse, se non ci sono queste distinzioni alla base diventa tutto arbitrario. Perché se si fa questa distinzione, allora la domanda è: c’è un modo di comunicare, di porsi in rapporto, in dialogo con questo Io superiore per chiedere a lui quando hai deciso di morire? Perché lui lo sa, è la sua decisione quanto a lungo vuole vivere; e noi abbiamo la possibilità con la medicina moderna, sia di costringerlo a vivere più a lungo di quanto lui vuole, sia di costringerlo a vivere meno di quanto lui vorrebbe, e allora come si fa a sapere quanto lui vuole? Bisogna imparare l’arte di comunicare da spirito a spirito, ma se non abbiamo neanche il concetto di spirito! Che confondiamo tra la coscienza dell’io e l’io; la coscienza dell’io è l’immagine speculare e facciamo come se questa immagine speculare fosse l’io “io penso dunque sono”, allora quando mi addormento non penso più e ho finito di essere! Mi risveglio vengo creato dal nulla di nuovo!
I. la neurologia applica questo assurdo per fare la dichiarazione di morte, perché si limita a dire che una persona è morta quando non funziona più l’immagine che lo specchio ha creato, che si manifesta nello specchio, tant’è vero che dice che l’elettroncefalogramma è piatto per più di dieci minuti quindi la persona è morta.
A. ecco, se invece questo io superiore, questo essere spirituale si fosse ripromesso, per cento giorni alla fine della sua vita, di terminare i processi di coscienza, in modo da offrire agli spiriti della natura tutti i suoi processi vitali, noi determinando che è morto, lo mandiamo all’altro mondo e gli togliamo la possibilità di offrire questi processi vitali per altri cento giorni agli esseri della natura, perché non abbiamo la minima idea che c’è questo essere spirituale con un volere ben preciso. E il suo volere non si riferisce soltanto ai processi di cervello, si riferisce a tutto il vitale che c’è nell’organismo. Perché noi parliamo del termine della vita non soltanto del termine del cervello, perché che terminino i fenomeni di coscienza, termina il polo opposto al vitale ma non termina la vita dell’uomo, la vita dell’uomo comprende anche il vitale.
I. per i trapianti d’organi si deve utilizzare soltanto organi che siano vivi e vitali.
I. la mia coscienza nasce da questo specchiarsi del pensiero, allora io di conseguenza sono cosciente non del pensare ma del pensato in realtà, quindi attraverso questa coscienza del pensato dovrei arrivare ad avvicinarmi al pensante.
A. la dicitura di Cartesio andrebbe mutata in “io ho pensato dunque penso”, perché non posso aver pensato se non penso, se non so pensare.
I. sì per deduzione, perché non è che io lo percepisco, ci arrivo attraverso il ragionamento e la logica.
A. esatto, però questa deduzione porta in sé una certezza assoluta, perché non posso io percepire di aver pensato che io ho pensato se non penso.
I. sì, però io essendo cosciente del mio pensato, potrei pensare che fosse questo essere superiore che sono sì e no io, cioè è un io inferiore cioè c’è questo problema dell’io.
A. perciò l’io superiore è un fattore di illazione, però questa illazione è un’evidenza assoluta che è chiarissima “io ho pensato dunque sono di necessità un essere pensante” sennò non posso aver pensato, però questo dire sono un essere pensante non è una percezione è un’illazione, però un’illazione che porta in sé una certezza assoluta, ci deve essere per forza una realtà spirituale di me che pensa. Allora capisco un’altra cosa importantissima, che il senso di questo pensare morto, già pensato, è di portarmi a coscienza il fatto che c’è un modo di pensare vivace, attuale e allora capisco che questa dicotomia del pensare tra vivente e morto è per darmi la possibilità in chiave di libertà, in chiave di conquista, liberare questa coscienza ordinaria, questo pensare ordinario sempre di più dalla specularità del cervello e pensare sempre di più in modo libero dal cervello. Allora unisco il mio pensare al pensare dell’io superiore, al pensare del mio spirito.
I. sì come lo specchio in cui io mi vedo dentro e riconosco me stesso nello specchio a un livello superiore.
A. e dico a me stesso: cosa è meglio l’immagine o la realtà?
I. la realtà è ovvio!
A. allora sorge il desiderio di unificarsi sempre di più alla realtà dell’io, che è uno spirito pensatore, e pensa indipendentemente da ogni cervello, prima di nascere, prima che il cervello ci sia, dopo che il cervello è sparito.
I. sì va al di là di vita e morte.
A. e di notte.
I. sì quando c’è l’incoscienza.
A. o la sovra coscienza. Quindi il senso di un pensare speculare dipendente dal cervello, è di dare alla libertà la possibilità evolutiva di liberare sempre di più il pensare dal cervello, e per poterlo liberare deve essere in partenza dipendente dal cervello. Il pensare diventa sempre meno speculare, speculare significa pura immagine, un’immagine contiene tutto e nulla della realtà, l’immagine di me contiene tutto di me il naso, gli occhi c’è tutto e nulla, tutto come immagine ma nulla come realtà. Nella coscienza ordinaria c’è tutto del pensare ma manca la realtà e la realtà del pensare qual è? È il volere. L’immagine non può volere nulla, io in base a che cosa mi muovo, do pugni?, in base a che cosa io non sono soltanto un’immagine morta ma sono vivo? È il mistero del volere.
I. più che dire qual è la realtà, e tu dici è il volere, io direi più che il termine realtà direi la peculiarità.
A. la peculiarità di?
I. tu hai detto la mia immagine è un’immagine che non determina niente, qual è la caratteristica dell’essere vivente.
A. dell’essere reale.
I. però la caratteristica dell’essere reale, non la realtà è la volontà, la caratteristica dell’essere reale è la volontà.
A. no, la volontà lo fa reale non è una caratteristica.
I. la volontà ti porta a essere reale, cioè ti porta a percepire il reale, ma anche senza volontà comunque esiste la realtà.
A. no, sta attento, prendiamo il Logos, il più grande pensatore che ci sia, portagli via la volontà cosa rimane? Nulla, il Logos è una struttura complessissima di concetti, ogni concetto è un atto di volontà, lui vuole che la mela sia e la mela fu. Quindi il far sorgere la realtà del concetto di mela è un atto di volontà, la Creazione è volontà pura, però il problema è che questa volontà pura è la stessa cosa del pensare puro, però se a questo pensare puro ci porto via la volontà, porto via tutto perché sono una cosa sola.
I. ma l’esistenza della mela c’è a prescindere dal fatto che ci sia una volontà di metterla davanti a me.
A. no, tu scambi il lato di percezione della mela, come se quella fosse la mela. Il lato di percezione oggi c’è domani sparisce, qual è la realtà della mela? Il concetto, e il concetto è un atto volitivo del Logos, che è al contempo un atto pensante. Però un atto pensante che non si vuol realizzare non è un atto pensante, quindi i pensieri del Logos sono concetti intrisi di volontà che diventano reali, ma diventano reali perché li vuole far reali, sennò sarebbero una non realtà. Quando noi diciamo che lo spirito pensante è creatore, questo creare è volontà pura, crea pensando, quindi ogni pensiero è una sua volontà che si realizza, altrimenti avrebbe pii desideri ma non diventano reali. Nel Logos il concetto di intuizione e il concetto di volontà sono la stessa cosa, intuire qualcosa per il Logos e volerla è la stessa cosa, sennò non la intuisce, se non la vuole non la intuisce se non la intuisce non la vuole. Per noi si spaccano in due le cose perché abbiamo la possibilità di pensare qualcosa e questo penare non è intriso di volontà, non è intriso di realtà, ma è soltanto speculare, è un’immagine morta. Perché sono sorte nella coscienza le immagini senza forza di volontà? che non fanno nulla? Altrimenti non avremmo potuto diventare liberi, tutte le immagini che abbiamo non ci fanno nulla, tutti i fenomeni di coscienza non ci costringono a nulla, sono immagini, sono non realtà.
I. non ho capito bene una cosa, l’io superiore non ha coscienza se non si rispecchia? Perché hai detto che nasce la coscienza nel momento che si rispecchia nel cervello, se questo non è possibile l’io superiore non ha coscienza di sé?
A. qui ci vuole la categoria della peculiarità, è la peculiarità essenziale dell’io umano, dello spirito umano che porta a coscienza se stesso unicamente connettendosi con il cervello. Una volta che, grazie all’interazione con il cervello, ha acquisito coscienza di sé, se la tiene per sempre, e poi il corpo diventa sempre meno necessario. La specificità dello spirito umano sta nel fatto che, può far sorgere la coscienza di sé soltanto in connessione col corpo, altrimenti l’incarnazione non sarebbe necessaria.
I. il fatto che sia necessario che io mi incarno per avere coscienza di me, però poi tutto il lavoro che facciamo sul nostro pensare che diventa sempre più cosciente, più attivo, dipende anche da questo corpo, per cui è un’interazione fra le due cose, quando uno dice che tu decidi di portare la tua attività nella direzione di un pensiero sempre più creativo, ma questo pensiero sempre più creativo dipende da questa cosa, dipende da me qua, non da un io che pensa perfettamente fuori di me.
A. devi liberare il pensare, sempre di più, dal corpo.
I. devo liberarlo dal corpo, però io sono incarnato, perché esisto come coscienza di questa attività in quanto incarnato.
A. prendi la cosa processualmente, il senso dell’incarnazione è l’escarnazione.
I. ma anche la manifestazione di questa libertà di manifestarmi, cioè la libertà in fondo è questa possibilità poi di conquistare qualcosa che mi porto quando mi escarno, ma la conquista la devo fare.
A. perché tu descrivi lo stato attuale di profonda dipendenza dal corpo, ma è tutta la prospettiva della seconda metà dell’evoluzione. La seconda metà dell’evoluzione ha una direzione escarnatoria, e adesso pensarla nella sua essenzialità non viene di primo acchito, bisogna un pochino lavorarci.
I. mi viene da pensare questo, se io riesco ad imparare a liberare durante la mia incarnazione, il mio pensare dalla materialità, del cervello per esempio.
A. almeno di un poco.
I. almeno di un poco, è molto importante questo, perché un domani quando non avrò più il corpo, il mio pensare non sarà più completamente dipendente da quel corpo, quindi la mia coscienza rimarrà anche senza corpo.
A. vedi che tu non hai incluso il dopo morte nella tua riflessione. Dopo la morte cioè quando il corpo è via, resta del mio pensare soltanto ciò che è indipendente dal corpo, tutto ciò che era dipendente dal corpo sparisce con lo sparire del corpo, è ovvio! Se non vogliamo pensare a spanne!
I. questa parte la capisco, quello che non riesco a cogliere è il “datti una mossa”. Questo darti una mossa nella direzione della creatività, chi deve darsi una mossa? Perché se io sono un io pensante dovrebbe avvenire automaticamente questo darmi una mossa.
A. io sono un io pensante fuori di me, allora voglio entrarci dentro, questo io pensante mi è sovra cosciente a questo livello, e lo posso portare a coscienza soltanto entrandoci sempre più dentro, e ci entro dentro imparando a pensare, indipendentemente dal cervello. Calma, leggiamo due pagine e mezzo, in queste pagine Steiner descrive (e l’ha fatto nella seconda edizione, non c’era nella prima edizione) che i processi di coscienza, quindi la specularità, le immagini di coscienza possono sorgere soltanto là dove il vitale, che è l’elemento essenziale del corporeo, viene ucciso, devitalizzato. La caratteristica fondamentale di tutto ciò che è sensoriale e nervoso, è che tutti i processi vitali che nel metabolico, anche nel sistema ritmico, sono molto forti, virulenti, pullulanti, tutto il vitale deve venire nel sistema nervoso devitalizzato altrimenti non possono sorgere immagini. Questo devitalizzare sta a dire che la direzione dell’evoluzione è una crescente devitalizzazione del vitale, quindi una crescente spiritualizzazione della materia del corpo, questa è la direzione. I processi di coscienza e i processi vitali sono polarmente opposti, dove il vitale è forte pullula, la coscienza è obnubilata, dove ci deve essere la coscienza chiara i processi vitali devono venire, non del tutto, ma fortemente devitalizzati. Quindi la coscienza sorge soltanto sulla morte del vitale, e questo la scienza se fosse onesta, se interpretasse rettamente i fenomeni lo potrebbe appurare.
I. ?
A. certo, lo sempre detto, ci sono state età, ere nell’evoluzione dove erano i giovani a invidiare gli anziani, e dicevano mi tocca aspettare altri 30 anni per capire certe cose! Il materialismo è una povertà spirituale, perché esalta il vitale e non sa più godere i fenomeni di coscienza, i fenomeni di pensiero. È una umanità povera perché il vitale sarà simpatico fino a 40, 50 anni ma prima o poi la sua legge è quella di decrescere, di far posto allo spirito. In fondo il fenomeno di demenza Alzheimer ecc…, sta a indicare che questo disumano culto del vitale, questa disaffezione nei confronti della coscienza, non è a misura d’uomo! Perché la legge della vita è che nella prima parte, siccome è compresa anche la generazione di figli ecc…, nella prima parte è giusto che esuberi il vitale, però il senso di questo vitale è che la coscienza, i processi di pensiero, il cammino dello spirito lo consumi sempre di più, e da questa cera che si consuma far sprigionare sempre più luce, sempre più calore dello spirito. Però questo presuppone una persona che minimamente si gode la luce del pensare e il calore dell’amore, sennò si “gode” solo la decadenza del fisico. Leggiamo insieme queste due, tre pagine e le commentiamo domani però il concetto fondamentale ve l’ho già detto. (IX, 2) Chi osserva il pensare vive direttamente, durante l’osservazione, in un contesto di essenza spirituale che regge se stesso, non che si regge da sé. Si può dire anzi che chi vuole afferrare l’essenzialità dello spirituale nella forma, in cui a tutta prima essa si presenta all’uomo, può farlo nel pensare poggiante su se medesimo. (IX, 3) Nell’osservazione del pensare stesso, il concetto e la percezione, che altrimenti debbono presentarsi sempre separati, coincidono. Chi non vede questo, nei concetti elaborati sulle percezioni potrà vedere soltanto delle riproduzioni, simili ad ombre, delle percezioni stesse, e le percezioni gli rappresenteranno la vera realtà. L’abbiamo visto questo. Egli si costruirà pure un mondo metafisico sul modello del mondo da lui percepito, e lo chiamerà mondo atomico, mondo della volontà, mondo incosciente dello spirito e così via, a seconda del suo modo di vedere. E gli sfuggirà che con tutto questo egli si è soltanto costruito un mondo metafisico, escogitato, pensato ma che non è reale, in modo ipotetico, secondo il modello del suo mondo di percezione. Chi invece vede e intende ciò che di peculiare al pensare gli sta dinanzi, riconoscerà che nella percezione si trova soltanto una parte della realtà, e che l’altra parte appartenente a questa, sola capace di farla apparire come realtà piena, viene sperimentata, questo sperimentata significa vissuta, significa percepita nella compenetrazione pensante della percezione. In ciò che sorge nella coscienza come pensare, egli non vedrà la riproduzione, simile ad un’ombra, di una realtà, bensì un’essenzialità spirituale poggiata su se stessa. Quindi qui lui fa un tutt’uno di ciò che si percepisce e dell’illazione resa necessaria da ciò che si percepisce, perché ciò che si percepisce è un fenomeno di coscienza, però la realtà del pensare non si percepisce, ma viene dedotto con certezza assoluta dalla realtà riflessa, percepita del pensare o del pensato nella coscienza. E di questa potrà dire che essa gli diventa presente nella coscienza per intuizione. Intuizione è l’esperire cosciente e svolgentesi nel puro spirituale di un contenuto puramente spirituale. Quindi l’intuizione è il modo di essere dello spirito pensante, che coglie, che costruisce, che crea concetti, concetti, concetti. Intuizione è l’esperire cosciente e svolgentesi nel puro spirituale, quindi non nel cervello, di un contenuto puramente spirituale. Il concetto di mela è un contenuto puramente spirituale, il concetto, una struttura di pensieri. Solo attraverso un’intuizione si può cogliere l’entità del pensare. Perché l’entità del pensare è spirituale, anche un’illazione è un’intuizione se è certa in assoluto. Partendo dalla percezione dei fenomeni di coscienza intuisco la natura puramente spirituale del pensare, quindi questa cosiddetta illazione è un’intuizione. (IX,4) Soltanto quando, per virtù dell’osservazione obiettiva, ci si è indotti a riconoscere questa verità sulla natura intuitiva del pensare, riesce possibile di avere via libera per una visione dell’organizzazione corporeo-animica dell’uomo. Si riconosce che questa organizzazione, corporea, non può agire sull’essere del pensare, del pensiero. In un primo tempo, lo stato manifesto dei fatti sembra contraddire a ciò: il pensare umano non sorge, per l’esperienza comune, altro che dentro e attraverso quell’organizzazione fisica. A tutta prima, la coscienza ordinaria, il pensare ordinario è in connessione col corpo, tant’è vero che quando ci disconnettiamo dal corpo addormentandoci, questo pensare ordinario di partenza sparisce. Il sorgere del pensare, quindi lui chiama il portare a coscienza il pensare, lo chiama il sorgere del pensare, è un fatto che si impone così fortemente che soltanto chi abbia riconosciuto come nessun elemento dell’organismo umano intervenga in ciò che vi è di essenziale nel pensare, è in grado di intenderne il vero significato. A costui però non può neppure più sfuggire quanto peculiarmente sia foggiato il rapporto fra l’organismo umano e il pensare. Quello, infatti, non influisce, l’organismo umano, assolutamente sull’essenza del pensare, ma anzi si ritrae, l’organismo, quindi l’attività vitale dell’organismo si ritrae, ci deve essere una devitalizzazione, quando sorge l’attività del pensare; sospende la propria attività, il pensare sorge là dove l’organismo sospende la propria attività. Quindi altro che l’organismo a essere la causa, l’organismo si deve ritrarre, sospende la propria attività, lascia il campo libero; e sul campo così divenuto libero sorge il pensare. All’essenzialità che opera nel pensare incombe un duplice compito: in primo luogo il pensare respinge l’organismo umano nella sua attività propria, che è il vivente, che è la vita, i processi di vita, e in secondo luogo ne prende il posto. Infatti anche la prima operazione, quella di spingere indietro, di devitalizzare l’organismo corporeo, è conseguenza dell’attività del pensare. Quindi a causare l’invecchiamento, il devitalizzarsi del corpo, la causa prima è lo spirito che vuol pensare, e può pensare in connessione con l’organismo soltanto devitalizzandolo sempre di più. Tant’è vero che il bambino piccolo, dove i processi vitali sono al 100%, non può pensare. A sette anni, un primo inizio di coscienza, di fenomeni di coscienza, di pensieri, di memoria ecc…, si spiegano dal fatto che un certo operare che prima dello spirito pensante, che prima era preso dai processi corporei, adesso siccome il corpo ha raggiunto una forma definiva, che d’ora in poi non può che crescere ma non si cambia più, allora certe forze di pensiero terminano di operare dentro al corpo e cominciano a operare direttamente dentro all’anima. Un pensiero è una corrente vitale che ha terminato di operare nel corpo e che viene vissuto nell’anima. La coscienza è l’anima, lo spirito è una dimensione diversa, tutto ciò che è coscienza è l’anima, e l’anima è il riflesso del corpo dove il corpo perde la sua vitalità, perché quando il corpo è vitale significa che lo spirito sta operando dentro al corpo. Dove lo spirituale termina di operare dentro al corpo viene vissuto direttamente nell’anima, e questa è la coscienza. Infatti anche la prima operazione, quella di spingere indietro l’organismo corporeo devitalizzandolo, quindi spingere indietro la sua attività, è conseguenza dell’attività del pensare, e precisamente di quella parte di essa che prepara la comparsa del pensare. E la comparsa del pensare è la sua percepibilità nella coscienza, comparsa vuol dire che diventa percepibile. Da questo si vede in qual senso il pensare trovi la propria controimmagine nell’organismo corporeo. E se si vede ciò, non si potrà più misconoscre l’importanza di questa controimmagine per il pensare stesso. Le orme di chi cammina sopra un terreno molle s’imprimono su questo terreno, e nessuno sarà tentato di dire che quelle orme siano state provocate da forze del terreno, agenti dal basso verso l’alto; non si attribuirà a queste forze nessun concorso nella produzione delle orme. Chi abbia osservato obiettivamente l’essenza del pensare, attribuirà altrettanto poco una partecipazione in tale essenza da parte di quelle tracce che si producono nell’organismo corporeo per il fatto che il pensare prepara la propria comparsa, la propria percepibilità, il proprio divenire a coscienza di sé, per il tramite del corpo. (IX,5) Ma qui sorge una domanda quanto mai significativa. Se l’organismo umano non ha parte alcuna nel determinare l’essere del pensare, quale importanza ha questo organismo entro il complesso dell’entità umana? Orbene, quanto succede in questa organizzazione per opera del pensare non ha certo nulla a che fare con l’essere del pensare stesso, bensì col sorgere della coscienza dell’io pensante, dell’io da questo pensare. Nell’essere proprio del pensare risiede, sì, il vero “io”, ma non la coscienza dell’io. La coscienza dell’io nasce unicamente tramite l’interazione col cervello. Chi osservi il pensare in modo obiettivo vede ciò chiaramente. L’io va cercato entro il pensare; la coscienza dell’io, quindi l’immagine riflessa dell’io, sorge per il fatto che nella coscienza generale si imprimono le orme dell’attività del pensare, nel senso sopra indicato. (La coscienza dell’io nasce dunque per virtù dell’organizzazione corporea. Non si creda però che la coscienza dell’io, una volta che sia sorta, continui a dipendere dall’organismo del corpo, dopo sorta, essa viene accolta dal pensare, di cui condivide da allora in poi l’essenza spirituale). Poi l’ultimo pezzo che ha cambiato: (IX,6) La coscienza dell’io è costruita sull’organizzazione umana, sul corpo. Da questa defluiscono le azioni della volontà, ci vuole il corpo per agire. Nel senso di quanto fin qui si è esposto, una visione del rapporto fra pensare, io cosciente e attività della volontà, si potrà conseguire solamente se prima si sarà osservato come l’atto volitivo proceda dall’organizzazione umana. Come, in che modo agisce l’uomo?, cosa muove l’uomo quando agisce? Questa è la domanda che ci occuperà poi domani. Buona notte a tutti. (24)
Visto che le cose questa mattina erano fondamentali, mi ripropongo di continuare il IX capitolo questo pomeriggio, mentre voi continuate la siesta, così io posso terminare il IX capitolo senza essere interrotto, e adesso prendiamoci questi tre quarti d’ora, per affrontare in chiave di dibattito le cose che dicevamo:
I. Visto che la struttura del cervello è triplice, si possono distinguere tre zone ben distinte che Meclin ha chiamato luogo dei processi vitali, il rettiliano, il limbico che connette e l’aspetto corticale, possiamo pensare che quell’eterico su cui l’anima legge le immagini.
A. invece di dire l’eterico dì il vitale, che capiamo tutti.
I. il vitale che è triplice, o quantomeno i contenuti di quel vitale derivano da una triplicità di esperienze che l’essere umano ha fatto?
A. prendiamo un tratto di nervo, tu dici c’è lo strato corticale, quindi la corteccia è più morta rispetto a quello che c’è sotto.
I. non il nervo l’intero cervello.
A. sì, ma ne prendo un pezzettino sotto la lente di ingrandimento, non possiamo avere tutto il cervello, per esempio un pezzettino di nervo ottico, c’è la corteccia, poi tu hai parlato di tessuti di connessione quindi fa da tramite, e poi il cervello rettiliano.
I. nel senso che ha a che fare con tutto quello che è attinente alle necessità vitali.
A. quindi il vitale, dove sorge l’elemento di corteccia è massimamente morto è ovvio, …
I. io quello che voglio chiedere è se nel vitale che sovrasta l’aspetto fisico del cervello e poi c’è l’anima che legge il vitale, in questo vitale questa triplicità è contemplata in quel vitale lì, se questi tre aspetti sono distinti o quantomeno insieme? perché sono il frutto delle tre esperienze fondamentali dei pensieri, dei sentimenti e della volontà, secondo me.
A. certo, il vitale è volontà pura, pullula, perciò cieca, essendo volontà pura è volontà cieca. La volontà dentro al pensare non è volontà pura, non è puro pulsare di forze di natura; il vitale è un puro pulsare di forze di natura. Quindi è volontà cieca, volontà cosmica, dove gli spiriti della natura sono all’opera ma non la coscienza umana. Come diventa supporto del cosciente ciò che è vitale? Devitalizzandosi, devitalizzarsi significa che il vitale viene consumato, come la candela, come sorge la luce? Consumando la cera. Come sorge la luce della coscienza? Consumando le forze vitali del nervo, e dove consuma le forze vitali diventa corteccia, la corteccia è meno vitale che non l’altro. Il nervo ottico nel bambino piccolo non c’è ancora la possibilità di creare, di consumare, nell’adulto avendo consumato il fisico non ci lavora più dentro e diventa luce che è fuori. Consumando il fisico ne esce fuori, non ci lavora più dentro, qui ci lavora dentro e qui ne esce fuori (?) Il bambino piccolo siccome sta crescendo, i processi vitali sono talmente forti che tutta la sua anima ci è dentro, verso i 7 anni una parte delle forze di pensiero che prima lavoravano dentro alla materia, hanno creato tutte le strutture, d’ora in poi il corpo aumenta ma non cambia più la forma. Una parte di queste forze vitali che prima dei 7 anni lavoravano dentro al fisico, quindi erano subconsci, erano pure forze vitali, esuberano, non c’è più bisogno che lavorino dentro al vitale, e sono pure forze eteriche, le forze eteriche sono pensieri, strutture di pensiero. Le forze eteriche dell’albero del melo, quando l’albero è cresciuto le forze eteriche, i pensieri sono dentro alla materia. La differenza tra l’albero e il seme, i pensieri formanti nel seme sono dentro, e nell’albero sono fuori; se io vedessi l’eterico lo vedrei attorno al seme, perché queste forze ci devono essere sennò come salta fuori dal seme l’albero? Questi pensieri che fanno sì che questa materia si strutturi come melo, e non come pero operano dentro all’albero. Il mondo è un operare di pensieri dentro alla materia e a seconda di come sono i pensieri salta fuori la struttura della materia. Nel bambino piccolo i pensieri strutturanti sono tutti occupati dentro alla materia, poi una parte di questi pensieri terminano di lavorare dentro la materia, è come se si riducesse a seme e aleggia, questo eterico si libera dal lavoro nel fisico, e il bambino comincia ad avere dei pensieri, delle rappresentazioni, la memoria. È l’eterico che non lavorando più nel fisico è passibile di venir portato a coscienza, lo posso leggere.
I. e allora a 14 anni deve anche accadere un altro processo simile?
A. sì, perché questa interazione tra i fenomeni del vitale e i fenomeni di coscienza, non soltanto è complessissima in ogni momento presente, ma è complessissima nella sua evoluzione, e ha dei salti qualitativi ogni 7 anni. Anche a 21 anni c’è un cambiamento profondo di questo rapporto.
I. cosa possiamo intendere con la parola “mente”, rispetto a tutto questo processo che stamattina e adesso abbiamo sintetizzato?
A. mente è la coscienza o l’astrale è lo stesso.
I. Steiner dice: l’organizzazione umana non agisce per nulla sull’essenza del pensare ma si ritrae anzi quando interviene l’attività del pensare, cioè si dice che l’organizzazione umana si ritrae, e compito del pensare è quello di rintuzzarla, che collegamento ha con quello che stai dicendo?
A. torniamo a questo stralcio di nervo, il concetto è che è il pensare che cortifica il vitale, che uccide il vitale. Così come è la luce che consuma la cera. E perché il pensare decide lui attivamente di devitalizzare il vitale? Per portarsi a coscienza, per diventare cosciente di sé.
I. perché Steiner usa il termine “si ritrae”? oppure “respinge l’organizzazione umana”?
A. l’uno è l’opposto dell’altro, si ritrae perché viene rintuzzato, viene respinto indietro. Tieni presente che hai a che fare con una traduzione! Tu parli come se fosse il testo originale scusa? Si ritrae è un dato di fatto che si ritrae, si ritrae per attività propria che decide di ritrarsi o viene rintuzzato da un altro? Io non avrei tradotto si ritrae, meglio recede, in questo recedere, non è detto che è lui l’attore del recedere, semplicemente il fatto che recede. Si ritrae è una traduzione che inganna un pochino perché se uno si ritrae è lui a decidere di ritrarsi, e poi dice l’opposto quando dice che viene rintuzzato. Il pensare uccide forze vitali, le consuma sennò non può pensare.
I. hai detto che la memoria è nel corpo eterico, quando si perde la memoria cosa succede al corpo eterico?
A. che l’anima non è più capace di leggere, cioè nell’anima è sorta troppa disaffezione nei confronti del corpo e si tira fuori. Uno diventa de-mente, la mente è la coscienza in interazione con l’eterico, e l’eterico è in interazione col fisico. La coscienza è in interazione col vitale, e il vitale è in interazione col fisico morto, vitale e fisico è il corpo fisico. Coscienza è la mente, come diventa una persona de-mente? Che la mente va fuori, e dimentica, si è stufato di pensare, o si potrebbe dire l’opposto si è stufato di vivere da cosciente perché non ha mai pensato attivamente. Quindi non è mai stato in grado di godere sufficientemente dello stato di coscienza di veglia, e si tira fuori.
I. ah non ci può essere un corto circuito per troppi pensieri? In cui non si riesce ad avere un ordine?
A. sì, ma hanno tutti in comune una carente esperienza della gioia del creare, perché dalla gioia del creare nessuno si tira fuori volentieri. Quindi uno che si tira fuori dai fenomeni di coscienza, deve essere una persona che ha fatto troppo poco l’esperienza della gioia del creare, e dice non ho più voglia.
I. anche il termine scle-rato e quindi ho indurito una parte di me, perché i miei pensieri, probabilmente non avevo pensieri, o avevo dei pensieri materialisti, non ho vissuto dentro di me l’azione del pensare.
A. quindi la sclerosi che è un fenomeno concomitante al diventare sempre più anziani, il corpo si indurisce sempre di più per natura, però la libertà ha due possibilità: di far sprigionare la luce del pensare, della creatività da questo indurirsi, oppure di avere soltanto l’indurimento. Se uno vive soltanto l’indurimento, il diventare più anziani, non è una cosa piacevole, se uno con crescente indurimento cresce la luce e il calore delle creazioni spirituali, uno è più felice a 70 anni che non a 20 è evidente, perché a 20 si gode la vita, a 70 si gode la coscienza. A 20 si gode la vita per natura non è un fenomeno di libertà, ma a 70 non si gode la coscienza per natura, la si gode soltanto nella misura in cui liberamente si è costruita nel corso di tutta la vita. L’altro pensiero è che il godimento del vitale, godere un pranzo luculliano, è un godimento pallido, (senza usare categorie moraleggianti), un godimento piccolo nei confronti del godimento del creare, del pensare che crea. L’uomo è strutturato così che nella misura in cui fa l’esperienza del godimento molto più profondo, molto più intenso del creare, capirà sempre di più che il significato del vitale non è di venir goduto, ma di venir consumato per un godimento molto più intenso, molto più grande.
(31) A. prima hai parlato di egoismo, quando parlavi di San Francesco e del fatto che si può scegliere di vivere più nello spirito che nel corpo,
A. non è che l’ho chiamato egoista.
I. no, però hai detto la via dello spirito è una via egoista.
A. era neutra la cosa. Il concetto era questo, così come la coscienza e il vitale sono una polarità, così l’egoismo e l’altruismo sono una polarità essenziale all’evoluzione. Il perfetto equilibrio tra l’amore di sé e l’amore dell’altro, si ha soltanto quando si è una cosa sola, soltanto quando siamo una cosa sola posso amare l’altro o soltanto amare me stesso, e amo l’altro tanto quanto amo me stesso. Finché siamo in evoluzione, non ancora perfetti, dobbiamo alternare, così come anche i fenomeni di vita e i fenomeni di coscienza si alternano, e così come noi alterniamo il maschile e il femminile nelle varie incarnazioni, ognuno di noi prima di nascere deve scegliere. In questa vita che mi sta davanti non posso dar precedenza all’amore di me e dar precedenza all’amore degli altri, devo scegliere o l’uno o l’altro. L’ultima volta ho preferenziato la mia evoluzione, e gli altri li ho considerati maggiormente come strumento per la mia evoluzione, la mia evoluzione, l’egoismo è la scelta di dar precedenza alla mia evoluzione. L’altruismo do precedenza alla tua evoluzione, cosa è meglio? La giusta alternanza, il giusto equilibrio, però si devono alternare, non posso dare la precedenza a tutti e due contemporaneamente. Una mamma dice adesso ho i bambini piccoli però io adesso voglio fare una vacanza supponiamo, la mia evoluzione è reale soltanto quando rendendo me stesso più ricco, evolvendo maggiormente sono poi in grado di concorrere all’evoluzione altrui, però deve scegliere adesso, se fa una vacanza non può contemporaneamente dedicare 10 ore al giorno ai suoi bambini. Adesso si pone la domanda: qual è il giusto modo, anche nella vita poi si alternano, il carattere complessivo di una vita deve dare la precedenza o all’uno o all’altro. Qui in sala ci sono tutte persone, ognuno di noi, nel suo io superiore, si è ripromesso questa volta o di dare un minimo di precedenza alla sua evoluzione e gli altri gli servono, oppure di dare un minimo di precedenza all’evoluzione altrui, anche se non lo portiamo a coscienza e io sono maggiormente al servizio degli altri. E una persona è insoddisfatta, è infelice finché non trova la volontà primigenia, complessiva del suo io superiore sulla sua vita. Perché se uno si è riproposto, supponiamo, questa volta ho bisogno – altrimenti non ho più nulla da dare – di mettere in primo piano la mia evoluzione, si incarna, arriva a 15 anni viene accalappiato in seminario, diventa missionario, la chiesa l’ha tutto imbottito di altruismi ecc…si sente un farabutto se non si dedica all’evoluzione altrui. E dopo 5 anni da missionario si piglia una depressione che non finisce più, e perché? Perché non si è mai chiesto che cosa si è riproposto il mio spirito, il mio spirito si è riproposto proprio l’opposto di ciò che sto facendo. questa volta il mio spirito si è detto no, stavolta se tu vuoi essere la volta successiva veramente in grado di contribuire all’evoluzione altrui, questa volta devi pensare un pochino a te stesso. Quindi lui nel suo spirito si è incarnato con l’intento di dare questa volta, padronissimo di farlo, ognuno lo deve in alternanza farlo, precedenza alla sua evoluzione, sta facendo l’opposto, come può essere soddisfatto, come può essere contento? Quindi la domanda fondamentale del morale è chi sono io? E cosa mi sono riproposto? Cosa vuole il mio spirito in questa vita? E dove ci sono polarità significa che bisogna scegliere, io non posso contemporaneamente mettere in primo piano la mia evoluzione e in secondo piano quella degli altri, e contemporaneamente mettere in primo piano l’evoluzione degli altri e io mi metto a servizio! Quindi questa scienza dello spirito ci dà un minimo di realismo di vita, altrimenti viviamo da bambini che vorrebbero avere tutto, e volendo avere tutto non hanno nulla, hanno soltanto scontentezza. Allora se noi togliamo tutti i moralismi e diciamo questa posizione di dar precedenza alla mia evoluzione, è non meno che l’altra amore agli altri perché come passo successivo mi mette in grado, mi rende capace di contribuire all’evoluzione altrui. Quindi l’unica legittimità di far bello me stesso è per amore altrui, e l’unica legittimità di servire agli altri è che divento più bello io. Nella coscienza il pensare li coglie insieme, l’uno dipende in tutto e per tutto dall’altro, io non posso contribuire agli altri se non c’ho nulla da dare. Però nell’esercizio concreto c’è un’alternanza, devono venire uno dopo l’altro, però il pensare li vede insieme. Così come i fenomeni di coscienza e i fenomeni vitali, adesso ho passato dalla mattina fino alla sera sono vissuto nei fenomeni di coscienza, essere svegli significa mettere i fenomeni di coscienza in primo piano, è moralmente peggio che non addormentarsi, quando mi addormento addormentarsi significa adesso decido di mettere in primo piano i processi vitali, quale delle due cose è moralmente migliore? È una domanda stupida! Perché se il vitale non lo ricostruisco, non avrò nulla da bruciare e non posso esplicare la coscienza. Se poi chiedo quanto deve dormire una persona? È una questione puramente individuale! Una persona si ricostruisce, magari perché ha 60 anni, in 5 ore, un’altra ha bisogno di 8 ore, ognuno lo deve sapere per sé, questo è il senso dell’individualismo etico che affronteremo sempre di più nella seconda parte. Che il pensare ti dice la legge fondamentale valida per tutti dell’interazione, ma il modo concreto di interagire è diverso e individuale in ognuno. Il modo in cui un Francesco d’Assisi fa interagire la coscienza col vitale, se lui brucia molto di più di quanto ricostruisce, sono affari suoi! Come faccio io a dire dal di fuori è stato troppo ascetico, come posso io essere la norma morale di un altro essere umano? lo deve sapere lui. Se il suo io superiore ha deciso prima di nascere di bruciare il suo corpo nell’arco di 29 anni, padronissimo! È la sua volontà. Quindi libertà significa che sull’altro non si può sindacare, e su di me non può sindacare nessuno, allora si è liberi. Però ho il diritto che nessuno sindachi su di me, se sono veramente coerente nel non sindacare su nessuno, ciò che massimamente inquina e rovina i nostri rapporti sono i giudizi. E il bravo Logos, la logica dell’individualismo etico dice “non giudicare” non puoi giudicare, non hai la base per giudicare l’altro, come fai a sapere cos’è la cosa giusta in questo momento per l’altro, se deve consumare di più o consumare di meno, se deve essere più vitale o meno vitale, come fai a saperlo? Non lo sai neanche per quanto riguarda te, che ti tocca andare a naso.
I. quanto dico è per esigere una migliore spiegazione, il rapporto tra la libertà individuale e il suo stato evolutivo. Io ho deciso, come io superiore in questa mia incarnazione di fare questo, quando mi incarno perdo coscienza di ciò che mi sono proposto di fare, e vivo un mio bagaglio di vissuto di pensieri che possono non essere rispondenti al proposito che mi sono dato come spirito che mi sono incarnato, divento depresso, il corto circuito aumenta, mi allontano dal pensare, sono schiacciato dal mio pensato, non riesco più a connettermi con il mio pensare. Quanto dipende dalla mia libertà individuale, il poter risalire e riconoscere che devo risalire, la malattia? la conflittualità? ma se sono depresso e vivo quella conflittualità, non ho la potenzialità di potermi ricongiungere con il pensare, e quanto è dipendente dal mio stato evolutivo che vuole che io viva quell’esperienza?
A. sei entrato in un circolo vizioso e non ne esci più, e mi stai chiedendo come si esce? C’è soltanto un circolo vizioso, perché è chiuso, si continua a girarci dentro, e l’unico circolo vizioso che c’è, perché è ermeticamente chiuso, si chiama anima. L’anima che gira soltanto su se stessa, e diventa sempre più chiuso, sempre più isolato, sempre più depressivo, e la tua domanda è come si esce? Con la percezione. La tua domanda tutta ingarbugliata, era la domanda che dice: come faccio io a sapere cosa vuole il mio spirito? Come me lo dice? Il mio spirito mi dice quello che vuole, ma me lo dice a caratteri così cubitali, perché me lo dice attraverso tutte le persone che si è attirato vicino e quelle che ha respinto lontano, tutti gli avvenimenti, quindi si tratta di percepire il karma, il mio destino, la mia situazione di vita, come provocazione del mio spirito a camminare oltre. Quando mi dico, io mi trovo in quella situazione di vita, della quale tutti i minimi particolari, sono stati voluti dal mio io, quindi nella mia situazione di vita compresa la mia depressione, c’è soltanto ciò che è stato voluto, permesso dal mio io, ma la volontà del mio io è sempre che io ne faccia il meglio! Allora mi chiedo: in questa situazione che devo percepire, la devo guardare bene, devo prendere sul serio tutti gli elementi di percezione della mia situazione karmica. E mi chiedo: in questa situazione concreta, – non in un’altra, non catapultarmi fuori che devo percepire, prendere sul serio, io adesso qui per esempio –, qual è il meglio che posso fare? il meglio che posso fare in questa situazione è la volontà del mio io superiore che vuole sempre il meglio. E come faccio a sapere qual è il meglio che posso fare nella situazione attuale? Provandoci, dando il meglio di me stesso! Vedi che il circolo vizioso è sparito! Siamo usciti.
I. l’io inferiore è in lotta con l’io superiore….
A. qui è la trappola, mi chiudo in sé, e non dà importanza alle persone accanto a lui, alla situazione karmica, la lotta è una categoria astratta, è la chiusura, si chiude alla volontà dell’io superiore, o si apre o si chiude, se si apre non è in lotta.
I. quando una persona cade in un profondissimo stato di depressione, vuol dire che la lotta è già conclusa, sconfitta, perché quasi nessuno ha la forza di venire fuori da una cosa del genere, non può più venirne fuori?
A. no, questo non è stato detto.
I. e come ne viene fuori?
A. quando dice: sono talmente stufo di questa depressione che voglio uscirne fuori. La tua domanda è complessa, non si può dare una rispostina. Il Logos, quindi il pensare a livelli più puri che ci siano ha risposto alla tua domanda con una storiellina, una specie di fiaba, perché non si può rispondere soltanto concettualmente, bisogna mettere delle immagini e dice: un padre, il Padreterno, aveva due figli, il primo figlio quello più vecchio era l’umanità che ancora era vicina al divino, però il più giovane che era l’umanità successiva dice: caro padre, io ce n’ho fin sopra i capelli di te, dammi la mia parte che voglio andare! Lui gliela data, è andato, il figliol prodigo. Ha sperperato tutto, egoista, e poi quando si è accorto che gli davano neanche le ghiande perché le dovevano mangiare i porci, è diventato depressivo. E la tua domanda dice: qual è la leva che gli consente di tornare? E la fiaba dice che lui è arrivato a un certo punto che si è detto “peggio non si può”, basta voglio finire questo peggio, torno dal padre. Colui che ha creato l’uomo sarebbe disonesto se non avesse immesso nella natura umana, le forze che gli consentono di uscire dal punto infimo dell’evoluzione, quindi l’affermazione è: guarda che nell’uomo anche se in questa vita si uccide e non le scopri queste forze, ci sono, le troverai nella vita successiva. Nella natura umana ci sono le forze per uscire dal punto infimo, allora se il depresso a livelli assoluti che tu hai descritto, avesse intorno delle persone che pensano questi pensieri, guarda che anche nella tua natura, anche se non si manifesta in questa vita, sarà la vita successiva, ci sono le forze che danno la possibilità di uscire da tutti gli abissi. Se è nel suo karma di avere queste persone attorno a lui ha una maggiore chance, ha probabilità maggiori di tirarle fuori adesso queste forze, perché i pensieri di queste persone indicano queste forze, che altrimenti lui non scorgerebbe. E se queste persone hanno veramente questo convincimento, che ognuno non le piglia dagli altri queste forze, ma ce le ha dentro, gli concedono di restare depresso fin che vuole! Perché l’abisso ultimo del depresso, è la disperazione di chi sta accanto, quello lo uccide. Finché chi mi sta accanto dice: ma va bene non ti preoccupare! È salvo. Quindi tutto dipende da come il pensare interpreta, capisce la natura umana, se capisce, se coglie che ci sono certe forze o che non ci sono. Allora io dico lo psichiatra te lo puoi dimenticare. Il pensare dice il Logos diventerebbe del tutto illogico, se creasse una natura umana così bella, così positiva, con un pensare come facoltà all’infinito di cogliere le cose, e lo rendesse passibile di cadere nell’abisso, si contraddirebbe in assoluto, quindi deve aver creato la natura umana, con la capacità, con le forze che lo fanno risalire da tutti gli abissi che ci sono, solo così è logico, altrimenti sarebbe illogico, terminerebbe di essere il Logos. E questo convincimento è indistruttibile. Il Cristo lo vede che il Giuda si sta togliendo la vita, fa di tutto perché non se la tolga? Giuda, Giuda no, no, no! Dice ma dai, te ne regalo un’altra di vita! Una cultura fondata sul pensiero che si vive una volta sola, è una cultura convinta che la caratteristica fondamentale della divinità è la tirchieria! Dà all’essere umano soltanto una vita! Tirchia! Il Giuda che è appena morto, il cattolicesimo vorrebbe metterlo all’inferno, mia sorella suora era sicura 10 anni fa, adesso un po’ meno sicura, e lui dice nel mio libricino sul Giuda ma perché sei così tirchio? Io soltanto adesso, dopo il suicidio capisco cosa ho fatto, perché non mi dai almeno una seconda possibilità di riparare, di far meglio? Sennò sei assurdo, non sei logico! E il Padreterno gli dice ma certo che te la do, eri tu che non l’avevi ancora capito! Steiner ti dice, Giuda la volta successiva Agostino.
I. lì non c’è stata l’alternanza maschile femminile, sempre uomo era.
A. sempre, due volte! Tu di due volte fai subito sempre! Buon appetito a tutti!
Sabato 2 ottobre 2010, mattina
Riprendo un concetto fondamentale di ieri, ieri abbiamo visto l’VIII capitolo che dice che nell’uomo ci sono tre sfere fondamentali: la sfera del pensare, la sfera del sentimento e la sfera del volere, della volontà. Pensiero, sentimento e volontà, il concetto fondamentale è che il pensare è la cosa più bella che ci sia; il sentimento, vivere nel sentimento è un vivere più poverello, anima e corpo, il sentimento è il mondo dell’anima, il volere, l’agire il mondo del corpo. il cristianesimo tradizionale, le chiese quella protestante e quella cattolica, nel corso del tempo si sono accordate che l’uomo è fatto di anima e di corpo, e lo spirito? Lo spirito è una cosa pericolosa, il pensare è l’attività centrale dello spirito, nel pensare l’uomo diventa autonomo, indipendente, quindi diventa una cosa pericolosa. I poteri costituiti non hanno interesse a sottolineare lo spirito, se vogliono mantenere il loro potere, cosa che psicologicamente ha una certa importanza. Va però anche detto che se l’essere umano si mette in testa di essere già in tutto e per tutto uno spirito, tralascia di diventare sempre di più uno spirito. Questa cautela nei confronti dello spirito, anche da parte del cristianesimo tradizionale, è giusta da questo punto di vista che il serpente in paradiso, il tentatore del paradiso che ha presentato la mela (non si è mai capito se è stato Adamo o è stata Eva a prendere la mela, Eva ha dato la colpa ad Adamo, Adamo ha dato la colpa a Eva, e le cose fino a oggi non son cambiate) comunque sta di fatto che il serpente Lucifero si chiama in scienza dello spirito, per rendere appetibile la mela, dice “nel momento in cui mangerete la mela sarete come dèi”. Di botto! Voi avreste rinunciato a mangiare la mela? Io vi dico sinceramente, me la sarei mangiata subito! E ho quasi l’impressione che il primo è stato Adamo, perché gli è rimasta qui nel pomo d’Adamo, invece Eva se l’è mandata giù, l’anima fa più presto. Quindi all’inizio dell’evoluzione ancora non cominciano neanche a diventare uomini e son già dei, il serpente dice “voi siete dèi”. Al centro dell’evoluzione, trovate nel vangelo di Giovanni (cap. 10 v. 36) cita l’antico testamento “voi siete dèi”. Allora uno dice ma allora siamo già stati dèi per 2000 anni! La tentazione, l’abbindolamento sta nel mettersi in testa di essere già arrivati, è quello è un errore grosso, è una grossa illusione. L’altro estremo è no, l’uomo non ha nulla di divino, neanche potenzialmente. Tra questi due estremi del tutto, sono già tutto divinizzato, e del nulla non ho neanche la capacità, non posso neanche cominciare perché non… c’è questa categoria aristotelica della distinzione tra potenza, potenzialità, facoltà, la capacità, e una capacità, una potenzialità, una facoltà è qualcosa che c’è e che non c’è, è la categoria fondamentale del divenire, dell’evoluzione. Essere in evoluzione significa essere già e non essere ancora; essere già ciò che si è conquistato e non essere ancora tutto ciò che c’è ancora da conquistare. Quindi l’essere umano è un essere divino in divenire, e l’abbindolamento del serpente stava nel far credere all’essere umano “tu sei già divino”. Quindi questa cautela, anche del cristianesimo tradizionale, della chiesa se volete, nei confronti dello spirito, del divino nell’uomo, ha la sua legittimità se la capiamo in questo senso qui, invece il potere ha interesse a dire no, tu di divino non c’hai nulla, sei fatto di anima e di corpo, punto e basta! E questa affermazione è di nuovo sbagliata, perché vorrebbe proibire all’essere umano di questa facoltà, questa potenzialità reale di realizzarla, aristotelicamente parlando di attualizzarla, metterla in atto sempre di più. Il pensare è la facoltà primigenia, centrale dello spirito, la capacità di pensare è la capacità di diventare sempre più creatori, sempre più divini, sempre più artisti, sempre più geniali, con idee nuove, con la capacità di creare cose nuove all’infinito, in tutti i campi della vita e dell’essere. Ieri qualcuno diceva, ma nel sentimento ho una realtà, i pensieri sono una cosa astratta, e poi dicevamo ancora ieri sera, ma sono astratti, morti, non interessanti sono i pensieri già pensati, i pensieri già pensati proprio perché non c’è più quello che c’è nel pensare, nell’attività creatrice del pensare. E allora questa mattina volevo evidenziarvi, due differenze fondamentali tra l’esperienza del pensare, e l’esperienza del sentimento, per dimostrarvi apoditticamente che l’esperienza del sentimento come tale, è pallida, noiosa, scialba rispetto all’esperienza del pensare. Fare l’esperienza del pensare non percepire il già pensato, e tiro fuori due caratteristiche fondamentali: 1^ nell’esperienza del pensare faccio l’esperienza di essere creativo, attivo, creatore. Sforno, creo, concepisco, partorisco concetti sempre nuovi, e li creo io. Ogni attività artistica, creatrice non è un’esperienza del sentimento, ma è ciò che si sente pensando, quindi ogni attività artistica è un’esperienza del pensare. Vi pongo la domanda in quest’altro modo: un’artista che sta creando delle forme, dei colori, delle melodie ecc… con quale elemento sta creando? Col pensare, le note vanno pensate, i colori vanno pensati, quali colori metto insieme, quali sfumature ecc… sono tutti pensieri. Il direttore d’orchestra che dice i bassi sono troppo forti nel contesto insieme, sono un po’ troppo forti cos’è? un pensiero, lo deve pensare che sono troppo forti, datevi una calmata! Beethoven diventato sordo che continua a dirigere, e quelli si sono fermati, non sentiva, lui pensa che stiano suonando. Tutto si svolge nel pensiero sennò si dorme, quindi l’alternativa al pensare è il dormire. 2^ aspetto, faccio l’esperienza di entrare in comunione, pensare una cosa è diventare quella cosa, pensare la mela è diventare, come essere pensante, io mela, e far l’esperienza di entrare in comunione significa superare la solitudine, superare l’isolamento. Nella misura in cui io ti capisco, e ti posso capire soltanto pensando, entro in comunione con te, e questa esperienza di vincere la solitudine, dà gioia, quindi basterebbero questi due aspetti, entrare in comunione, un reciproco arricchirsi. Colui che ha pensato la mela arricchisce me di questo concetto di mela, e io arricchisco il concetto di mela perché ci posso trovare altri aspetti all’infinito, reciproca fecondazione, reciproco arricchimento. L’esperienza del pensare è l’esperienza somma della gioia e dell’amore, quindi è nell’esperienza del pensare che il sentimento è il più forte, il più vivo che si possa immaginare. Solo che uno non se ne accorge perché sta creando, perché nel momento in cui, pone attenzione alla gioia che sta godendo, deve terminare di creare, allora guarda dal di fuori e allora percepisce il sentimento allora vive nel sentimento. Nel momento in cui io dico ma come era bello, do di fatto che era bello, e ha terminato di essere così bello. Mentre suono pensando non posso dire come era bello, e proprio perché c’è nel pensare stesso la densità più profonda del sentimento, quando mi tiro fuori mi appare come la cosa più morta, più scialba possibile, perché sono uscito fuori. Non soltanto c’è più gioia, più sentimento ma c’è anche più forza di volontà. Perché se io sto pensando una melodia e ho il convincimento che sia bella e la sto creando, una melodia che non c’è mai stata, il movimento delle note su e giù, la devo creare, la devo concepire, la devo partorire, la gioia è nel creare, nell’essere attivo creativo, e divento io questo movimento di melodia che va su e che va giù, o questo concento di armonia di voci ecc… Nella misura in cui c’è questa gioia del creare, questo creare tende, che è l’elemento della volontà, a realizzarsi nel mondo percepibile e rendere percepibile anche agli altri. Quindi nel pensare c’è il massimo di sentimento e il massimo di volontà, dai che la scrivo, pianoforte la scrivo! Cos’è questo amore primigenio? Forza di volontà, si vuol realizzare, la vuol realizzare, e sfocia nell’azione. Quindi ciò che noi chiamiamo il pensare, però non i concetti già pensati, il pensare come attività creatrice che è l’essenza di ogni processo di creazione, è al contempo non è soltanto pensare, è al contempo la sfera più intensa del sentimento, e la sfera più forte della volontà. Questo voleva dire l’VIII capitolo. Adesso guardiamo l’esperienza del sentimento, uno dice sono stufo per esempio, percepisce in sé un sentimento di stanchezza, oppure sono pieno di gioia. Quel tipo lì mi è simpatico, un sentimento, constato, percepisco in me un sentimento di simpatia. Il pensare non c’entra nulla, faccio l’esperienza di un sentimento, cosa mi comporta il sentimento? Prima dicevo che nell’esperienza del pensare sono attivo, creatore, nel sentimento sono passivo, il sentimento lo constato, mi tocca prenderlo così com’è, sono passivo, lo percepisco, il sentimento è già fatto. Se io sono arrabbiato, non sono il creatore della rabbia, perché se io potessi creare in me la rabbia, sarebbe una gran bella cosa, però per creare in me una rabbia che non c’è dovrei trovare i pensieri corrispondenti, quindi ci vuole il pensiero, per ogni processo creatore ci vuole il pensiero, e senza pensiero non c’è processo di creazione. Quindi un’affermazione fondamentale nei confronti dei sentimenti è che, l’essere umano non ha nessuna possibilità di gestire il sorgere dei sentimenti, sorgono come vogliono loro e io sono passivo, li constato. Lo scienziato di scienza dello spirito dice: quali sentimenti sorgono dentro di te, se tu di fronte a una persona hai simpatia o antipatia? È questione di karma! 27 Lo decidono le forze che sono già in te, le forze che sono nella tua anima, anche le forze nel tuo corporeo ecc…, per cui in base al depositato del tuo divenire passato, quella persona lì ti è simpatica e quell’altra persona ti è antipatica. Sta di fatto che io di fronte al sentimento sono passivo, sono reattivo. Il modo di gestire un sentimento che constato dentro di me, quello può essere libero, ma non siamo liberi nel decidere quali sentimenti e con quale intensità sorgono, quelli ci tocca soltanto constatarli, in altre parole nessuno di noi può decidere liberamente quali sentimenti sente, può decidere liberamente cosa farne. Io incontro una persona, vorrei liberamente che questa persona mi fosse simpatica! No, non funziona, se è antipatica è antipatica! Non ci posso far nulla, però constatando l’antipatia dico: cosa faccio adesso con questa antipatia? La posso esprimere subito dicendo va al diavolo! Oppure posso dire aspetta glielo dirò fra tre giorni, così magari mi sono dato una calmata! Sento in me sorgere una rabbia che lo vorrei mandare all’altro mondo, allora dico aspetta che mi godo due o tre giorni la rabbia poi glielo dirò! Poi dopo uno è un po’ meno arrabbiato quindi le cose si risolvono. Oppure uno ha una tristezza infinita, è costretto a piangere? Le lacrime sono l’espressione della tristezza, e l’espressione la posso gestire, aspetto a piangere quando sono in cameretta.
I. ?
A. e’ una persona che è appena all’inizio del padroneggiare i sentimenti che sorgono. Quindi resta che dobbiamo distinguere, una distinzione molto importante, tra il sorgere dei sentimenti lì la libertà non ci può far nulla, e il modo di gestirli, come interagisco con questo sentimento? Però il fatto che l’uomo sia libero nel gestire i sentimenti non significa che lo deve fare per forza, è libero, quindi può omettere questa libertà nel gestire i sentimenti, allora il sentimento lo travolge anche nel modo di esprimersi, e allora è non libero su tutta la linea. Non è libero in quanto a quali sentimenti sorgono e non è libero neanche nel modo di esprimerli, e allora poveretto non si sentirà libero proprio per nulla! E vivere da non liberi, vivere costretti è una cosa non bella, nessuno può essere felice se non vive da nessuna parte un minimo di libertà. L’esperienza del sentimento senza il pensare è un’esperienza di essere passivo, il mondo agisce su di me, le persone circostanti fanno sorgere in me dei sentimenti, non sono io a decidere quali sentimenti sorgono in me, il sentimento in me lo trovo già fatto, quindi mi tocca sempre reagire di fronte al sentimento, sono passivo, sono reattivo. E la seconda cosa, corrispondente alla seconda di prima, nell’esperienza del sentimento esperisco solo me stesso, la mia anima, i contenuti della mia coscienza, quindi mi esperisco nell’isolamento, nella solitudine. Una persona nella quale esubera, è unilaterale, l’esperienza del sentimento, che non si apre almeno un minimo alla sfera del pensiero, si isola sempre di più. Così come il pensare è l’organo della comunione, senza perdersi, quindi dell’essere in comunione e del restare se stessi, così l’esperienza del sentimento è l’esperienza dell’isolamento, della solitudine, faccio l’esperienza di isolarmi. Questa solitudine, questa depressione, questa tristezza, comporta tristezza questo prima o poi, è l’aiuto divino se vogliamo, quando una persona è triste è perché vede soltanto se stessa, vive soltanto se stessa. Quindi la tristezza è un sentimento classico dell’anima chiusa in sé; nel momento in cui io mi apro al mondo oggettivo supero la tristezza. E perché supero la tristezza? Io adesso mi occupo di qualcosa, di botto ho finito di occuparmi di me. Sono triste, triste, triste, se io decido, può funzionare, soprattutto se io l’ho già esercitato diverse volte, di cominciare a leggere una conferenza di Steiner e comincio a leggere, nel momento in cui comincio a leggere, ho dimenticato la tristezza, altrimenti non ho cominciato a leggere e sono rimasto nella tristezza. Perché io non posso contemporaneamente fare attenzione a quello che lui dice nella conferenza, e godermi la tristezza. Se continuo a godere la tristezza, esperienza che abbiamo fatto tutti, avrò letto già 10 righe e uno dice ma come ho letto 10 righe ma sono rimasto nella mia tristezza, devo ricominciare da capo. Se invece sono nei contenuti di quelle 10 righe la tristezza è sparita.
I. ?
A. tutto è questione di esercizio.
I. quando tu dici gestiamo il sentimento, il sentimento sorge e non ci possiamo fare nulla, è karma qualche volta si dice, quindi non possiamo scegliere i sentimenti che ci sorgono. Hai parlato di gestione di questi sentimenti e la gestione si fa con il pensare.
A. certo ma anche la volontà, il dire adesso dimentico la mia tristezza leggendo una conferenza di Steiner è un pensiero, ma ho la forza di volontà di farlo? E la forza di volontà di farlo dipende da quanto spesso l’ho esercitato, nella misura in cui lo esercito funziona sempre di più. Nella volontà è tutto questione di esercizio, volontà è esercizio, volontà sono azioni quindi le cose vanno fatte, e più uno fa una cosa più diventa provetto, più gli riesce. Se io ho una grande tristezza, se è la prima volta continuo a vivere nella mia tristezza, se invece l’ho già esercitato cento volte, mi dico adesso voglio concentrarmi su quello che c’è scritto qui, la tristezza è sparita. È come quando uno si addormenta, è pieno di tristezza, sta piangendo ma se si addormenta spossato la tristezza è sparita.
I. la morale di oggi, invece molto spesso chi è triste magari per la morte di un congiunto, è riguardato con rispetto ecc… perché lui soffre ed è triste, è apprezzato per la sua tristezza.
A. il pensare è un’attività, o la sto svolgendo o ne sono fuori, se ne sono fuori vivo nell’animico, e percepisco ciò che già c’è. Il ritornare nel pensare avviene di botto, e se ritorno nel pensare creo, ed è escluso il percepire ciò che già c’è. Due cose si escludono, lo abbiamo visto nella prima parte della filosofia della libertà, due autoesperienze interiori si escludono a vicenda, o sto creando o sto osservando o sto percependo qualcosa che già c’è. se sto creando, sto creando qualcosa che ancora non c’è, sono in un processo di creazione. Quindi mentre sto vivendo la tristezza, sono fuori dal pensare, non dal pensiero, dal pensare. Nel momento in cui io entro nel pensare, sto creando, sono uscito dalla tristezza, di botto.
I. prima lui diceva di un evento luttuoso che dà tristezza, dall’esperienza della tristezza di un evento luttuoso, passare al pensiero, dare un significato a quell’evento, non siamo nel pensiero dare un significato?
A. no, no, tu questa sfera non l’hai neanche accennata, lo deduco dal fatto che tu, prima di tutto non hai usato il pensare ma il pensiero. Entrare nel pensare significa diventare in assoluto un creatore, e tutto il resto non c’è, è sparito. Che poi uno dica che non è facile mandare a ramengo un lutto o una forte tristezza e tuffarsi nel pensare, è questione di esercizio, tu dici il pensiero cosa intendo per pensiero?
I. si può essere creatori dando un significato a una cosa, creare significati, dare un senso si è creatori, quindi siamo già nel pensiero.
A. certo, ma guarda che dare un significato a questa tristezza, non è il pensiero, è un pensare, e nei momenti in cui tu stai con una creazione di pensiero, stai dando un significato, sei fuori dalla tristezza, perché dare un significato è pura gioia, è un salto di qualità. Pensare e sentire è una linea divisoria, un salto di qualità, o sono sopra e allora non sono sotto, o sono sotto e allora non sono sopra, questo è il concetto. O vivo nello spirito allora creo, oppure vivo nell’anima e allora subisco, mi tocca di constatare quello che c’è.
I. mi viene in mente che c’è la possibilità di dare un significato e c’è anche la possibilità di astenersi dal giudizio che è sempre e comunque una salvezza, perché non sempre siamo in grado poi col pensiero di dare il significato al sentimento, però possiamo.
A. notate che si continua a parlare di pensiero, quando io invece sto parlando del pensare. Il problema reale è che l’umanità di oggi, e ci mettiamo tutti dentro, questa esperienza di creatività assoluta, la conosce troppo poco, questo è il problema reale. Nella misura in cui una persona fa sempre di più questa esperienza, che poi il problema è anche che noi quando scriviamo il pensare continuiamo a pensare a qualcosa di astratto, qualcosa di fatiscente, qualcosa di noioso ecc… se io invece di pensare ci metto creare è la stessa cosa! Non c’è nulla di differenza tra pensare e creare, e l’alternativa è il già creato, il già pensato, perché per essere creato deve essere stato pensato, come si può creare qualcosa senza pensarla? Come fa il creatore della mela a creare la mela o il melo senza pensarlo? La tristezza me la trovo, il significato di questa tristezza che adesso sento non lo trovo! O lo creo oppure non c’è. Adesso lo sto creando, è pura gioia, la tristezza è sparita.
I. lo sto cercando.
A. lo stai cercando, cercare significa che c’è da qualche parte dov’è, dov’è, dov’è? lo cerco! Parlare di cercare il significato è un’assurdità assoluta! Il significa o si crea col pensiero o non c’è, dove lo trovi il significato? Dietro la porta?
I. forse è una questione terminologica.
A. no, no, no! Il pensare non trova, perché se trovasse ci sarebbe già.
I. se l’attività che svolge il cervello, è di portare a coscienza un qualcosa, che è attivato non lì, ma è semplicemente l’immagine. Il processo del creare non riguarda l’interezza di tutto l’essere, e non è solamente qualcosa che avviene nella testa?
A. constatiamo che questo signorino qui ieri sera ha dormito! Allora per dargli una svegliatina, rifacciamo quello c’era alla lavagna ieri sera. Avevamo pinco pallino, la struttura cerebrale serve per creare questo arco di riflessione di immagini riflesse, che è tutto quello che c’è nella coscienza. I contenuti della coscienza sono i contenuti dell’anima, sono tutte cose che io percepisco, i sentimenti fanno parte della coscienza, i pensieri già pensati. Se sorgono tutte queste immagini speculari, ci deve essere una realtà che si rispecchia, e l’io spirituale, il pensatore deve essere sovra cosciente, e si serve del cervello per la coscienza di sé.
I. ma questo sovra si intende anche spazialmente?
A. no, lo spirituale è oltre lo spazio e oltre il tempo, cosa che il materialismo è proprio la difficoltà di creare il concetto di ciò che è oltre lo spazio e oltre il tempo, perché siamo talmente animizzati, tant’è vero che la religione tradizionale ci dice tu sei fatto soltanto di anima e di corpo, che siamo abituati a considerare dell’uomo solo l’anima, ma l’anima è tutto ciò che lo spirito ha già fatto, l’anima è il passato dello spirito. E se ci sono le azioni, i pensieri già pensati, i sentimenti ecc… vuol dire che c’è l’origine che li ha creati, è questo il processo di illazione di cui parlavamo ieri sera. 28 E stamattina ho aggiunto, quando io vivo nell’anima, il sentimento tende verso il negativo, perché mi vivo come passivo, vivo soltanto la passività, il sedimentato, il risultato di un processo creatore che è già avvenuto, mi vivo nell’isolamento. Quindi vivendomi come uno che constata le cose che ci sono invece di crearle, vivendomi nell’isolamento anziché entrare in comunione e fecondarsi a vicenda, il chiudersi nell’anima, il chiudersi nel sentimento impoverisce sempre di più il sentimento. Il pensatore e il creatore è la stessa cosa, se io mi vivo come creatore, come pensatore fare l’esperienza del pensare, e fare l’esperienza del sentimento a un livello tutto positivo, tutto forte e pieno di forze di volontà. Tant’è vero è così beatificante che quando mi tiro fuori il contraccolpo è micidiale, guardandolo dal di fuori dico è astratto. Il pensare guardato dal di fuori è astratto, è morto, ma diciamo è astratto, è morto perché abbiamo un ricordo inconscio di quello che viviamo, della vivacità, della forza del sentimento, della gioia assoluta di quando ci siamo dentro. adesso concretamente io dico guarda che è un pensiero che abbiamo espresso ieri sera! Che vi dice a voi un pensiero espresso ieri sera? Che cos’è oggi un pensiero espresso ieri sera?
I. ?
A. perché? Perché stamattina non c’è il processo creatore di ieri sera! Quindi la cosa più importante non c’è più. Perciò lui diceva che me ne frega a me di quello che hai detto ieri sera! Questa reazione psicologica ci sta a dire che l’essenza del processo di creazione è l’attività non i contenuti, perché quando tolgo via l’attività e ho soltanto i contenuti, sono noiosi! Perché la cosa più interessante è l’attività, però interessante significa mi dà gioia, mi dà gioia! È la pienezza del sentimento, quindi la pienezza del sentimento è nel creare, indipendentemente da cosa si crea. La mamma che ama il bambino piccolo, non importa nulla che sta creando una pappa che è uguale a tutte le altre, l’importante è che sia creatrice nel suo amore, se si sente un creatore di queste forze di amore. Quindi l’importante è l’attività del creare, non il contenuto di questa attività, tant’è vero che io vi dicevo, siamo qui, e voi continuate a interrompermi proprio perché partecipate ognuno a modo suo, a questo processo di creazione, quando poi uno si rilegge le dispense dice ma qui ci sono soltanto i pensieri! E dov’è lo sbuffare di quello che stava là davanti che non sapeva neanche lui come metterle le cose, come spiegarcele perché non capivamo nulla?! Quindi l’attività del creare è sparita, mica puoi leggere sul libro scritto bello morto l’attività del creare! Non ti salta fuori dal libro di Pietro Archiati che comincia a dirti te sei una testa bacata! È chiara la differenza? Queste cose sono importanti! È come la differenza tra la 9^ di Beethoven mentre la vivo, o addirittura mentre la suono, e il Cd! È la stessa sinfonia, è la stessa cosa? La prima è viva, è un viversi come creatore, la seconda è morta.
I. sono assolutamente d’accordo, però mi rifaccio questa osservazione che tu hai fatto in questo momento l’hai proposta anche ieri, sono d’accordo che tra il prodotto in scatola e la creazione dal vivo, sono due cose diverse. Però non buttiamo via tutte le scatole, da tutti gli scatola menti, anche del parlato, dell’animato, del detto con passione ecc…, nascono tantissime scintille che poi diventano dei fuocherelli e poi dei fuochi.
A. automaticamente.
I. non importa, comunque chiudiamo le biblioteche, le edizioni Archiati le riduciamo proprio all’essenziale, e le conferenze di Steiner, tu ci inviti spesso ad andare a leggerci quella conferenza, cioè ci inviti ad andare a prendere una scatoletta. Questo per dire che siamo tutti d’accordo sul pensiero creatore, sul pensare, però altrimenti buttiamo vi tutto, Steiner ormai è morto, Archiati ce l’abbiamo ancora, però non ce l’abbiamo mica sempre qua!
A. tu adesso fai come se io vi avessi invitato a leggere supinamente, passivamente, a consumare l’inscatolato di Steiner leggendo le sue conferenze, scusa, io vi dico prova a leggere una conferenza di Steiner, perché ti costringe, altrimenti chiudi, a non fermarti a leggere!
I. ma certo, ho parlato del fuocherello che nasce dalla scintillina che si prende lì, il fuocherello è il prodotto.
A. sì, ma la scintilla deve partire da te. Tu prima senza accorgerti, all’inizio del tuo sproloquio, hai detto certo che son d’accordo con te, hai messo le mani avanti, che c’è un’enorme differenza tra la scatola già fatta e la creazione. Tu hai usato il sostantivo come se fosse uguale al verbo, all’attività.
I. sorveglierò di più il mio linguaggio!
A. no, sarà meglio che sorvegli di più il tuo pensare! Il linguaggio segue.
I. ma il linguaggio è il riflesso del pensare.
A. la creazione è ciò che è già stato creato, una cosa diversa dal creare! Se non distingui la creazione dal creare, allora metti la creazione al livello della scatola! La creazione è anche una scatola, è il mondo già fatto, tant’è vero che il mondo già fatto la chiamiamo in italiano la creazione come opposto del creare. Quindi quello che noi stiamo facendo, non è per umiliare la persona, ma sono veramente esercizi di pensiero, sono importanti, se noi non facciamo queste distinzioni non andiamo avanti nel pensare col pensare.
I. la differenza fra leggere, pensare e leggere capire studiare e pensare, perché tra leggere e capire, ascoltare e capire c’è una differenza enorme, ci sono delle cose che in certi momenti si fanno proprie, in quel momento io ritengo che ci sia il discorso del creare. Cioè io posso sentire una conferenza, leggere un libro, però c’è un momento dico questa cosa è mia e vado avanti con il pensiero, in quel momento creo, però non è un’attività che può essere continua, sono dei momenti di intuizione, di salto di qualità quando un discorso si capisce visceralmente, è proprio una cosa diversa, come sentire un concerto, spesso si sente passivamente e poi arriva il momento in cui uno entra dentro in un altro modo, o nel capire una cosa o nel sentirla, però è un momento creativo, che però io non riesco a identificare solo con il pensare, sono pienamente d’accordo con questo fatto che pensare è creare, però proprio nell’attività di capire una cosa.
A. dammi un esempio di un creare dove non c’è il pensare.
I. no, no ma creare è pensare su questo sono d’accordo, capire o interpretare un concetto o un’idea, c’è una creatività anche nell’interpretare, perché nel momento in cui l’interpreto vado un po’ avanti, nel senso che mi si apre un mondo e allora creo, però ci sono dei momenti in cui si ascolta e non si riesce a capire a fondo, e quindi in quel modo magari non si crea perché si pensa, però non si entra in sintonia.
A. tu adesso hai parlato quasi tre minuti, proporrei che qui una persona, che poi è rappresentativa di altre persone, perché altrimenti son sempre io a bombardare, che ci dica che effetto gli ha fatto quello che ha detto, e tu non te la prendere più di tanto, poi dico io che effetto mi ha fatto, però se sono sempre io a prendere posizione la cosa diventa feconda non più di tanto. Cosa hai capito e che effetto ti ha fatto?
I. secondo me lei confonde il processo del pensare con il processo del sentire.
A. ma cosa ha detto?
I. lei ha detto che si sente creatrice quando prova questa sintonia, entra dentro con il sentimento.
A. fa un volto allibito, dice ma è questo che ho detto?
I. non si può interpretare quello che lei ha detto, perché io non ho capito nulla, però quello che ho percepito un sentimento di disagio.
A. no, andiamoci piano, la prima cosa da fare è cosa ritengo che abbia detto, cosa ha detto secondo me?
I. non lo so non ho capito nulla.
I. secondo me ha detto che anche l’interpretazione può essere creatrice e ha ragione, anche il direttore d’orchestra interpreta, ma lo fa creando.
A. chi ha mai detto che il pensare esclude l’interpretare? Il pensare è un interpretare. L’essenza del pensare non è nei contenuti, i contenuti sono già stati tutti pensati, è l’attività di renderli viventi in questo momento dentro di me. E quindi non importa nulla se io il pensare creatore lo accendo, però la scintilla la devo accendere io, leggendo una pagina di Steiner, o interpretando una tragedia greca, o ascoltando una sinfonia ecc…L’essenziale è se io divento nel mio spirito creatore, se io produco qualcosa.
I. nella creazione qual è la differenza tra, come entra l’elemento estetico e l’elemento morale? Nel processo creativo.
A. è tutta la seconda parte della filosofia della libertà, abbiamo bisogno di parecchi incontri, non si può dire in una frase tutto, sarebbe astratta l’affermazione. (29) Ieri sera abbiamo cominciato il IX capitolo “L’idea della libertà”, e abbiamo detto, questa parte che Steiner ha poi rifuso, cambiato. Ci sono due forze polari: fenomeni di coscienza e fenomeni di vita. La digestione è un fenomeno del vitale, sono forze di vita, naturalmente essendo processi del vitale opposti ai fenomeni di coscienza, è cosa difficile portarli a coscienza, perché le categorie dei fenomeni di coscienza sono opposte a queste del vitale, quindi non si può dire in concetti cos’è la digestione, perché la digestione non è fatta di concetti, i fenomeni di coscienza sono fatti di concetti. Diciamo che indichiamo senza poter dire più di tanto, il polo opposto, diciamo che il vitale è opposto della coscienza. Però dicendo l’opposto si intende dire che nello stomaco, i processi vitali sono per natura così forti che lo stomaco non può essere uno strumento di coscienza. Il cervello è lo strumento di coscientizzazione per eccellenza per il motivo principale che nel cervello i fenomeni del vitale, le forze vitalizzanti sono massimamente uccise. Quindi la struttura del cervello è il corporeo massimamente devitalizzato, e proprio perché è devitalizzato è passibile di fare da specchio. Una cellula del cervello essendo morta non pullula di forze di vita, quindi l’eterico è libero dal fisico, per questo è intriso di immagini che sono forme in potenza, non operano dentro al fisico, perché il fisico è devitalizzato al massimo, quindi un nervo è massimamente devitalizzato, quindi l’etericità non opera vitalmente dentro al nervo, ma esubera dal nervo, è piena di immagini, e essendo questo eterico pieno di immagini che non lavorano dentro al fisico, l’astrale che è l’anima legge queste immagini, le vede. Vi ho descritto cosa significa portare a coscienza. Quando io leggo vedo i caratteri ecc… se invece questo eterico è dentro al fisico perché pullula di forze vitali, il vitale è l’eterico dentro al fisico, devitalizzare l’organismo significa fare uscire l’eterico dal fisico, e perciò muore il fisico. Facendo uscire l’eterico dal fisico, l’eterico è da solo pieno di immagini, l’eterico è pieno di immaginazioni e l’astrale le può leggere. Tutti i contenuti di coscienza, i contenuti dell’anima, cos’è una rappresentazione? Io ho visto tante volte la rosa, adesso ho una rappresentazione della rosa, dov’è questa immagine? È nell’eterico, però può essere soltanto in un eterico che non lavora direttamente nel fisico. Dov’è che la mela lavora direttamente nel fisico? Quando digerisco la mela, lì i pensieri mela lavorano direttamente nel fisico, quindi non li posso leggere. Dove ci sono i nervi, dove c’è il cervello i pensieri di struttura della mela, sono nell’eterico liberi dal fisico, e quindi l’anima li può leggere, e ho la rappresentazione della mela, ce l’ho sempre la rappresentazione della mela, i concetti, le immagini della mela sono all’opera anche nello stomaco, però lì non li posso leggere perché sono dentro al fisico. Devono operare nel puro eterico e allora lì vedo, quindi una rappresentazione è qualcosa che l’anima, il corpo astrale, vede nel corpo eterico, nel vivente.
I. ?
A. te lo dice ogni anatomista, paragona un nervo con un muscolo, che differenza c’è?
I. un muscolo si muove.
A. un muscolo è molto più vitale.
I. invece il nervo sta fermo.
A. è quasi minerale, è duro quasi come una pietra, quindi è in processo di mortificazione.
I. le cellule si possono rigenerare ad esempio del fegato, mentre una caratteristica fondamentale della lesione cerebrale, e vediamo i risultati dell’ictus, quando la cellula cerebrale muore non si rigenera, perché la cellula è già di suo mortificata rispetto alla cellula del fegato.
A. quindi questa direzione del mortificare il vivente è irreversibile, altrimenti non avremmo il polo opposto al vitale, perché sentire dolore è un processo vitale. Finché la radice del dente è vivente sento dolore, quando è morta non si sente più dolore, quando è devitalizzata. Adesso tanti dentisti devitalizzano tutti i denti che ci sono, cosa mica per forza giovevole all’individuo, perché un conto è poter ancora soffrire un pochino con i denti e mordere con radici ancora ben vitalizzate, e un conto avere denti che sono morti, sarebbe meglio allora averli finti ma tutti perfetti.
I. nella riabilitazione il cervello conosce il processo sussidiario, le cellule morte sono morte ma le cellule accanto, se io richiamo un movimento del braccio, si attivano in un’attività sussidiaria e avviene la riabilitazione, quindi il cervello è morto ma le cellule accanto conoscono un processo sussidiario vitale che nasce dal corpo.
A. la scienza naturale indaga e appura tantissime cose, percepisce tantissime cose, tutt’altro invece i pensieri che noi pensiamo su queste cose che scopriamo, quindi si tratta di interpretare giustamente. La tua riflessione è andata nella direzione opposta che fraintende i dati che tu hai descritto. Adesso io ti do l’interpretazione giusta, se è vero che tutta la sfera neurosensoriale, tende per natura a uccidere tutto il vitale che ha dentro, per rendere possibile lo speculare della coscienza, il compito di tutto ciò che è vitale, del nutrimento, del sonno di rimandare sempre di nuovo, ogni giorno, sufficienti forze vitali, altrimenti il pensare non ha più nulla da uccidere, e non può più pensare. Pensare è l’attività, fisiologicamente parlando, il risvolto fisiologico del pensare, pensare è l’attività dell’uccidere il vitale nel corpo, e posso uccidere soltanto tanto vitale quanto ce n’ho. Quindi ognuno deve ricostruire, però questo ricostruire mangiando, con la nutrizione, ricostruire dormendo, su tutta la linea se il ricostruire fosse al 100% non moriremmo mai, quindi il ricostruire ci deve essere altrimenti non potremmo continuare, se io di una candela voglio consumare la cera, prima la devo costruire sennò non c’è nulla da consumare. Se il ricostituente del sonno, il ricostituente dell’alimentazione ricostruisse al 100% non invecchieremmo mai, quindi il concetto del ricostruire il vitale è che ricostruisce al 95 %, ma mai al 100%, e la somma di questa disparità è che si invecchia e che si muore. Però ogni giorno io posso soltanto uccidere il vitale nella misura in cui c’è, l’ascesi per esempio, la spiritualità, nel campo cattolico ai tempi miei era molto forte castiga il tuo corpo più che puoi. Alla base c’è il convincimento non portato a coscienza tu entri nel mondo spirituale solo con la morte, il Logos si è incorporato, si è fatto carne per dire no, la morte è il risultato di milioni di volte che tu sei entrato nello spirituale uccidendo parzialmente il vitale nel tuo corpo, però siccome tu lo fai restando nel corpo, è importantissimo che senti la gioia ma anche il dovere morale di ricostruire. Allora mangio il più possibile? Obnubili il pensare, porti un esubero tale di forze vitali dentro al sistema neurosensoriale che non puoi pensare, vivi da automa, da addormentato. L’osservazione spassionata, scientifica, oggettiva dei fatti dice che è una questione di equilibrio, il senso del ricostruire è di poter consumare, ma non ricostruire tanto che non posso più consumarlo, perché il corpo è talmente vitale, è vitalizzato in tutto il sistema neurosensoriale che vive da addormentato, lo stato di sonno è il puro vitale, la coscienza è uscita. E addormentati ambulanti oggi ne è pieno il mondo!
I. è possibile che più viene potenziata l’attività del pensare e più c’è una distruzione delle forze vitali, quindi un invecchiamento più veloce?
A. non è detto, accelera la ricostruzione. Ci siamo confrontati con l’affermazione globale della seconda parte della filosofia della libertà, che in campo di attività, non di speculazione ma di attività, esiste solo individualismo etico, cioè le possibilità di interazione tra il cosciente e il vitale in te, son del tutto individuali, non si può generalizzare. Se uno osserva il fenomeno Francesco d’Assisi, guardandolo dal punto di vista di interazione tra i fenomeni di coscienza e il vitale, uno direbbe ma è stato uno del tutto irresponsabile, il corpo l’ha bistrattato, le sue ossa erano friabili, gli vuoi dar consigli dal di fuori? Il giusto equilibrio dell’interazione tra i fenomeni di vita e i fenomeni di coscienza, ognuno lo deve trovare per sé. Supponiamo che uno nasce e dice in questa vita mi riprometto, una decisione sua, nell’insieme perché sono anche questioni di decisioni globali, questa volta voglio a costo del fatto che morirò un pochino prima, del fatto che farò fatica col mio corpo, voglio godermi, voglio andare avanti questa volta in fatto di coscienza! Padronissimo, è la sua libertà. un altro dice io l’ultima volta sono stato un godereccio dello spirito, ho pensato solo alla mia evoluzione gli altri li ho mandati a ramengo, stavolta voglio essere una gran brava mamma che rinuncia a questa sua evoluzione, mette il vitale così al centro, per la sua evoluzione è una specie di sacrificio, di immolazione, questa volta voglio dare precedenza al vitale in modo da mettere queste forze del vitale a disposizione dei miei figli, in modo da fare tante opere dove il vitale è importante, e questa volta metto in secondo piano la mia evoluzione, puramente egoistica, di cammini di coscienza. Padrone l’uno, padrone l’altro!
I. ritornando al discorso di coscienza di cui si parlava ieri, il rispecchiarsi mi dà la possibilità di essere cosciente, vedo il pensato, e inizialmente si potrebbe dire che “io sono pensato quindi sono”, perché inizialmente in un certo senso sono pensato, anzi sono un pensiero forse anche.
A. adesso tu stai riassumendo un intuito molto centrale, però è importante rendersi conto che, c’è una differenza tra colui che sta qui davanti che ha la possibilità, magari anche un pochino di allenamento, di renderlo comprensibile un intuito di questo tipo, detto da solo tu ce l’hai in questo momento, ma è illusorio pensare che tu lo possa comunicare e gli altri dovrebbero capirlo. No, la comunicazione può avvenire soltanto attraverso il processo del pensare, tu ci hai dato il risultato e i risultato è morto. Altrimenti resti delusi perché dici ma come mi sembrava di aver detto una cosa così centrale così bella, così importante e lui non ne ha fatto nulla.
I. è un qualcosa che a seguito a quello che abbiamo fatto ieri, questa notte mi ha un po’ tenuto sveglio.
A. esatto, quindi tu dici, quanto è lunga la Nona sinfonia? Un’ora circa, la Nona sinfonia è bellissima alla fine di un’ora in cui l’ho vissuta, non è bellissima quando io ho il Cd in mano, non è la stessa cosa, tu ci hai dato il Cd, ci hai dato il risultato. E quando io faccio lo stesso, oppure leggiamo ecc… allora è una specie di trascinare un po’ tutti quanti dentro a un processo, nella misura in cui ognuno di noi, a modo suo, entra in un processo, crea lui, fa qualcosa lui. E dicevamo già ieri, l’interazione tra due persone, o quando io leggo Steiner, c’è l’interazione fra me e i pensieri di Steiner in quanto sono scritti. L’interazione tra due persone è un fenomeno di oscillazione velocissima, un attimo di secondo voi siete in me, nei miei pensieri, altrimenti non ascoltate non capite nulla, e un decimo di secondo dopo vi tirate indietro e dite ma che sta dicendo? E prendete posizione, la creazione della reazione, ciò che voi create come pensieri vostri sui miei pensieri, è una creazione di ognuno di voi. I miei pensieri servono soltanto a provocare la creazione della vostra reazione, ma la reazione di ognuno è una creazione sua, la crea lui, solo che la disattendiamo, non ce ne accorgiamo. E se uno di voi, che può succedere, anziché continuamente prendere posizione, ma come? ma che stai dicendo? ma non è giusto, ah sì capisco! Se non continua indietro e avanti e resta soltanto in me, e vuol soltanto ricevere da me s’addormenta, allora poi dice è noioso! E il compito di un buon oratore se vogliamo, è quello di non permettere all’ascoltatore di essere soltanto da lui, e quasi costringerlo a ritornare sempre a se stesso, allora è vivace la cosa. Perché i pensieri che produco io per voi sono cosa morta, sono miei! Non vi interessano nulla, a voi interessa la creazione dei vostri pensieri sui miei pensieri, quella è faccenda vostra, però la disattendiamo perché mentre sto facendo attenzione, non mi rendo conto, la chiamo il creare la mia reazione, quello è un creare mio. Tu adesso sei con me o sei con te?
I. adesso io sono con me, perché stavo pensando a quello che tu mi dici quando esponendo un pensiero dici “prendetela come una provocazione del pensiero”
A. esatto, e quindi eri di nuovo da me.
I. sì è un vai e vieni.
A. ecco, un battibaleno è questo il bello, quindi i tuoi occhi mi dicevano che tu ti stavi chiedendo ma sono da lui o sono da me? e tu mi hai detto io ero da me.
I. era velocissima la cosa.
A. bene adesso siamo d’accordo, quella è la gioia, e quando uno poi è fuori il mondo è tutto diverso. Quindi abbiamo fatto questa mattina esercizi sul concetto del creare, non della creazione, la creazione viene dopo il creare.
I. è possibile un pensare vuoto che non ha un senso? semplicemente speculativo.
A. se tu leggi “la scienza della logica” di Hegel, lui comincia con tre categorie: l’essere, … poi una o due pagine sul nulla, e Hegel ha tantissime cose da dire sul nulla. Non esiste il nulla in assoluto, esiste soltanto il nulla di qualcosa, il bambino piccolo è il nulla dell’adulto, quindi essendo il nulla di qualcosa, posso dire sul nulla tutte le cose che il nulla non è, rispetto alla cosa che non è. se ci fosse il nulla assoluto noi non ci saremmo, non avremmo problemi. E poi se mettiamo insieme l’essere e il non essere, il divenire, nel divenire ci deve essere qualcosa che già c’è sennò non diviene e qualcosa che non è ancora altrimenti non diviene. Il divenire presuppone un essere che non è, che è e che non è, è ciò che già è, e non è ciò che ancora non è, è in divenire. Non può essere in divenire se non è nulla, e non può essere in divenire se è già tutto. Facciamo una pausa. (Torna alla traccia 30)
Sabato 2 ottobre 2010, pomeriggio
Buon pomeriggio a tutti, mentre voi continuate a far la siesta, io indisturbato, porto a termine il IX capitolo della filosofia della libertà. La questione che affrontiamo adesso è la questione della volontà e dell’agire, la domanda è: che cosa determina il volere e l’agire di un individuo? A determinare che cosa un individuo vuole e che cosa fa, sono due cose, due mondi fondamentali, due campi, due fattori. La prima cosa è ciò che lui è, perché a seconda di ciò che lui è si decide di ciò che può fare, o ciò che non può fare, ciò che è significa ciò che è divenuto finora, ciò che ha esplicato nel suo essere, ciò che è diventato, ciò che già c’è in lui. Il secondo è ciò che lui vuole. Se uno è italiano, fa parte di ciò che lui è, adesso vuole parlar cinese senza averlo imparato! Perché se il cinese l’ha imparato, il cinese è diventato parte di ciò che lui è, ma non lo sa il cinese però vuole parlarlo! Non funziona! Quindi queste due sfere devono in qualche modo, ciò che io voglio deve essere reso possibile da ciò che sono, devo essere in modo tale da poter attuare ciò che voglio, altrimenti lo voglio teoricamente ma non lo posso attuare. Ciò che l’individuo è sono tre realtà fondamentali: è una realtà il suo corpo; la sua anima; ed è il suo spirito. Si intende dire però la sua corporeità così come la sua è diversa da quella di un altro individuo, per esempio se uno è maschio si comporta per il volere, se uno è di corpo maschile, potrà più facilmente volere di portare 100 chili, che non in via normale, con eccezioni da tutte e due le parti, un corpo femminile che vuol portare 100 chili, quindi è evidente nella costituzione, l’organismo dell’individuo, l’organizzazione, traduciamo meglio l’organizzazione come dice la traduzione italiana (IX,7) Per il singolo atto volitivo sono da considerarsi il motivo e la molla spingente. Il motivo è un fattore concettuale o rappresentativo; la molla spingente è il fattore del volere, direttamente condizionato nell’organismo umano. Proporrei l’organizzazione, perché l’organismo noi la riferiamo maggiormente al corpo fisico, all’organismo fisico, invece l’organizzazione complessiva è tutto insieme, quindi io lì avrei tradotto l’organizzazione dell’essere umano complessiva, che comprende il suo corpo e non c’è bisogno di ricamare più di tanto, il corpo è un mondo enorme in ognuno. Un corpo malaticcio comporta in via di volere e di agire tutt’altre premesse, quindi ciò che l’individuo è sono le premesse per il volere e per l’agire, è la conditio sine qua non, che non un organismo fisico pieno di energie. Un corpo giovane comporta in chiave di atti di volontà tutt’altre premesse, rappresenta un insieme tutto diverso di premesse che non un corpo più anziano, meno vitale ecc… Poi secondo campo fondamentale che è un altro mondo ancora più complesso di quello del corpo, è l’anima di un individuo, la sua anima individuale. E sull’anima abbiamo detto tante cose, tutto il suo mondo interiore, a seconda del mondo interiore di una persona, salterà fuori che può volere o che non può volere, che desidera certe cose altre cose non le vuole, per certe cose ha simpatia per altre cose ha antipatia. Prendiamo due fenomeni fondamentali dell’anima, nella direzione del corpo sono le rappresentazioni, il mondo del corpo sono le percezioni, tutto il corporeo lo possiamo percepire. Il sedimento, il portato, il risultato di tutte le percezioni dentro l’anima sono le rappresentazioni, ognuno di noi è un mondo infinito, però unico, irripetibile di rappresentazioni, di immagini mentali che porta dentro di sé, per esempio le rappresentazioni che uno si è fatto sull’amicizia, che uno si porta dentro sull’amicizia. L’amicizia il tipo A se la rappresenta in un modo, il tipo B se la rappresenta in tutt’altro modo, e questo mondo di rappresentazioni è importantissimo per decidere ciò che un individuo è capace di volere o non volere, di fare o di non fare. Quindi il mondo delle rappresentazioni oscilla tra il corpo e l’anima, e cos’è che oscilla tra l’anima e lo spirito? I sentimenti! Andiamo via dall’immaginifico, le rappresentazioni sono ancora immagini quindi sono il riflesso delle percezioni, invece i sentimenti, il sentire diventa invisibile, diventa sovra immaginifico in un certo senso, la sfera ispirativa, non tanto immaginativa quanto la sfera ispirativa. Ora immaginiamoci il mondo dei sentimenti di una persona, un mondo ancora più complesso, ancora più individualizzato che non il mondo delle rappresentazioni. Lo spirito in quanto organizzazione, cioè in quanto realtà già costituita, quindi il corpo è un insieme di facoltà, potenzialità al volere e all’agire, l’anima un insieme infinito di potenzialità, di facoltà, di premessa, di conditio sine qua non per volere e per agire, cosa c’entra lo spirito col volere e con l’agire? Un’azione la posso pensare, mi posso fare il concetto di un’azione. Aiutare una persona in bisogno è un concetto, prima di essere un sentimento, uno mi dice c’è una persona che ha bisogno la vuoi aiutare? Io devo capire cosa mi sta dicendo, quindi sono in chiave di pensiero, devo capire cosa significa aiutare, devo capire cosa significa una persona che ha bisogno e aiutare una persona in bisogno è un concetto, aiutare il bisognoso è un concetto. Poi l’eco dell’anima dice no, no non c’ho voglia! Quello è il sentimento, ma prima aiutare una persona che ha bisogno è un concetto, e lo afferra il pensare. Allora il pensare in quanto organizzazione dentro all’individuo è una facoltà, il pensare in quanto facoltà, in quanto facoltà di pensare tutte le azioni possibili e immaginabile che si possono volere e che si possono attuare. Noi stiamo parlando del volere in vista dell’agire, in base a quali condizioni si agisce, si vuole e si agisce liberamente e in base a quali condizioni si è non liberi, si agisce non liberi. Lo spirito, l’intelletto oppure la ragione è la facoltà del pensare, facoltà significa capacità, è la potenzialità a pensare elementi di volizione e azioni possibili, pensare azioni che io posso volere che non sono mai state pensate per esempio, quindi volere qualcosa di nuovo. Se io sono in grado di volere qualcosa di nuovo che non c’è mai stato, in cui non mi ripeto neanche io stesso, che io non ho mai voluto prima sono libero, perché se io mi ripeto c’è un certo determinismo di routine, di abitudine, sei abitudinario nel tuo modo di comportarti, allora non puoi dire che il volere è del tutto libero se sei impulsato dall’abitudine. Se io intuisco con la facoltà del pensare, con l’intelletto, con la ragione una volizione e un’azione che non c’è mai stata, o creo il concetto di un’azione che non c’è mai stata, sono del tutto libero, perché non sono determinato in nessun modo. Quindi tutto va in questa direzione della facoltà intuitiva creante del pensare, che pensa azioni, pensa cose da fare. Quando il gatto ancora non c’era nel mondo perché è stato creato come struttura di pensiero, supponiamo che sia il Logos che ha creato il gatto, sennò se non lo crea lui chi lo crea? Per il Logos che ha creato il concetto per la prima volta di gatto, che è un concetto ben preciso, ben specifico e ben complesso, è stato un atto intellettivo o volitivo? È la stessa cosa, perché nel momento in cui lo pensa lo ama e lo crea, e il creare è volitivo, perciò ci dicevamo che il pensare puro è contemporaneamente un volere puro, è un creare spirituale. E l’essere umano è potenzialmente in via di diventare creatore, e quindi pensante e volente al contempo sempre di più, il Logos lo è a livelli perfettissimi. Quindi la facoltà del pensare è la facoltà di creare motivi dell’azione, sempre nuovi. Cosa c’è da fare nel mondo? Chi lo decide? La fantasia morale del pensare, allora la domanda non è cosa c’è da fare? cosa voglio fare io? Cosa vuole fare il mio io in quanto liberamente però amorevolmente creatore. Essere liberi, una volta uno ha dato questa definizione che conoscete di libertà, ogni volta che la dico in Germania ridono tutti, cosa in Germania non da poco, dico: una definizione del sud dell’amore è che amare significa dire mille volte io ti amo senza ripetersi. Il contenuto teoretico è sempre lo stesso, l’elemento del non ripetersi sta a dire che io in ogni nuova situazione dove ripeto queste stesse parole, in base alla percezione degli elementi sempre nuovi della situazione, – due situazioni anche a un secondo di distanza non sono mai uguali –, in base ai sentimenti sempre nuovi che sorgono, immetto in queste due parole – ti amo – elementi di volontà, elementi che specificano questo ti amo che sono nuovi, e quindi è possibile dire mille volte ti amo senza ripetersi. Questo non ripetersi, è la creatività fantasiosa del pensare intriso di volere che crea qualcosa che può essere sempre nuovo, è molto bello comprendere questa prospettiva che alla fantasia dell’amore è aperto tutto, è infinita la creatività possibile di ciò che l’amore può inventare. Quindi A ciò che l’individuo è, e B ciò che l’individuo vuole. (IX,7) Per il singolo atto volitivo sono da considerarsi il motivo e la molla spingente. La molla spingente traduce una parola tedesca …… però chiedo qui, la molla spingente cosa vi dice? Non più di tanto! È una roba meccanica, allora io proporrei, l’ho fatto anche nel mio libro, di dire il motivo è giusto, lo vedremo, il motivo è ciò che vuole, invece queste qua sono le tre molle spingenti: ciò che c’è nel corpo, ciò che c’è nell’anima e ciò che c’è nello spirito, sono le tre molle spingenti. Però in italiano siccome c’è il motivo, il motivo è un elemento ideale, il motivo è ciò che io voglio, voglio fare una passeggiata, voglio fare un visita alla nonna, voglio ascoltare un po’ di musica, il motivo dell’azione. La molla spingente chiamiamolo – il movente – in italiano, è ciò che mi muove; il motivo è ciò che voglio, decido di far l’azione di esercitarmi a scrivere a macchina, il motivo è che voglio avere un posto di lavoro ben pagato, il motivo è il fine non è lo scopo, lo vedremo. Per il singolo atto volitivo sono da considerarsi il motivo, e quello va benissimo in italiano e invece di la molla spingente, diciamo il movente, che vale per il corporeo, per l’animico e per lo spirituale. La mia proposta è: ciò che l’individuo è, è il movente, son tutti moventi ciò che mi muove, e ciò che vuole è il motivo, e il motivo lo vedremo poi, è in vista dello scopo o del fine. Che poi per capire a fondo le parole, bisognerebbe etimologicamente risalire alle immagini che sono alla base delle parole, perché all’origine di ogni parola c’è sempre un’immagine, ora “scopo” viene dal greco e –scopein – significa avere uno sguardo d’insieme, quindi supponiamo una passeggiata è un infinito insieme di cose, sono tanti passi, sono tanti movimenti, sono tante cose a cui passo accanto, e lo scopo io la chiamo passeggiata, lo scopo è lo sguardo d’insieme, ho uno sguardo d’insieme a tutta questa azione che è la passeggiata. Quindi il greco che è molto più artista che non il latino, usa per il motivo, per lo scopo, usa questa capacità dello spirito dello sguardo d’insieme, scopein episcopos è quello che guarda dal di sopra, il vescovo, l’episcopos è quello che sorveglia, il supervisore. Invece il linguaggio latino il finis è dove va a finire più astratto, quindi il fine è dove tutto va a finire, ed è molto meno interessante la cosa, perché dove l’azione va a finire è finito lo spasso, finito il godimento. Quindi il greco ha uno sguardo d’insieme del godimento di ciò che la volontà vuole, e il linguaggio latino guarda al punto in cui finisce, e la chiama finis, il fine, perché il fine è la fine, e la parola è la stessa, il fine che mi propongo è la fine di quello che devo fare per raggiungerlo, il tutto è molto più astratto. Quindi la parola scopo se risaliamo alla sua origine, all’immagine è molto più bella, uno sguardo d’insieme di tutto ciò che mi aspetta se faccio questa passeggiata. Andiamo al concerto per sentire una sinfonia, è il fine che ci proponiamo o è lo scopo? Le due parole hanno un carattere molto diverso. A qual fine andiamo al cinema? Per vedere il film finché è finito. A quale scopo andiamo al cinema? La parola dice uno sguardo d’insieme di tutto quello che si gode, di tutto quello che si fa, di tutto quello che si vive, che si sperimenta mentre si vede il film. Quindi dire a quale scopo, e dire a quale fine, se noi usassimo il linguaggio con una maggiore attenzione, son due modi di dire completamente diversi, a quale fine, è astratto son già alla fine; a quale scopo, la parola dice guardala tutto insieme questa bella goduta, questa bella serata al cinema, perché se uno ci va vuol dire che lo vuol godere, se non gli va di andare al cinema non ci va. E quindi questo sguardo d’insieme è proprio un anticipare la gioia di ciò che uno vuol fare. ora il motivo, quando io chiamo lo scopo o il fine motivo, questa parola è più fruttuosa perché non si pone né nello sguardo d’insieme che ancora non c’è, né alla fine addirittura, ma si pone da questa parte per dirmi che è una cosa che mi accattiva, che mi muove, che mi attira.
I. … per tenere separate motivo da movente che sono due cose diverse, ecco perché ho detto io piuttosto che movente lì cambierei in motivo, perché nel linguaggio comune si tende a identificare motivo con movente.
A. ma no, ma no, se noi studiamo la filosofia della libertà, un minimo di rigore ci vuole, e arriviamo al punto da non poter confondere motivo e movente, soprattutto se li poniamo come due cose, una polarità che indica due cose ben diverse. Sennò se noi, con la scusa che il linguaggio comune non fa certe distinzioni, ci proibiamo di farle e non andiamo avanti col linguaggio.
I. quale è causa e quale è mezzo rispetto a motivo e movente?
A. tu dici che cosa causa un individuo a fare qualcosa? La causa è ciò che precede, le premesse, quindi il mondo delle cause e la sua realtà corporea, il mondo delle cause e la sua realtà animica e il mondo delle cause e la sua realtà del suo spirito. Però se queste cause potenziali causano realmente o no, dipende anche da ciò che viene proposto alla volontà, quindi ci deve essere un rapporto tra ciò che l’individuo è, e ciò che vuole. Perché in ciò che l’individuo è, non c’è soltanto ciò che gli piace e ciò che non gli piace, c’è anche ciò che può e ciò che non può. Adesso vuole qualcosa che non può, dovrà terminare di volerlo!
I. quello di cui si sta parlando, ha a che fare con la causa finale la causa aristotelica, parlo della causa finale o la causa materiale, ecco la distinzione delle cause; per cui il motivo mi vien da pensare che sia la causa finale. Mentre ciò che spinge, quindi la molla spingente, il movente o spinta è la causa materiale, efficiente.
A. certo, una domanda importante è come mai Steiner, invece di rifarsi alla quadruplice causalità di Aristotele, semplifica in un certo senso le cose e le prende nel tempo, distinguendo semplicemente ciò che l’individuo è, è già divenuto, e ciò che gli è possibile, ciò che gli appetibile, ciò che la sua volontà vuole, può volere rispetto al futuro, sta a ognuno individuare, le quattro cause aristoteliche. Facciamo un piccolo esercizio veloce, me le ricordate per favore le quattro cause aristoteliche? L’artista vuol fare una statua di marmo, torniamo ai greci Aristotele, Platone e Socrate i grandi pensatori, perché lì sono stati posti i fondamenti della causalità, Aristotele parla di quattro cause fondamentali, e un esempio classico, siccome i greci erano artisti, l’artista fa una statua, c’è la causa materiale che è il marmo, però noi ci siamo detti e ce lo siamo ripetuti in questo incontro, dire che il marmo è una causa, è una baggianata! perché in vista di una statua di marmo, il blocco di marmo è un mezzo, la conditio sine qua non, la condizione necessaria ma non è la causa. Perché se io invece di prendere questo blocco, prendo un altro blocco di marmo, il primo blocco di marmo non causa nulla! Allora questa è una causa per modo di dire. Seconda causa di Aristotele la causa formale, se l’artista non s’è neanche fatto un’idea se vuole un Giove, o se vuole una palla di Atene, non salterà fuori la statua, deve avere la forma, la forma è un concetto, un pensiero. Però se lui ha la forma di un Apollo dentro di sé come artista, però la statua non la fa, che cosa causa la causa formale? Nulla! Terza la causa finale, il fine sarebbe per esempio, perché il fine lo decide lui, che vuol fare un sacco di soldi o diventare famoso, il fine la causa finale. Però se lui avesse il fine di fare una statua di Apollo, quindi il marmo c’è, la forma c’è, il fine c’è, ma non la fa. L’unica causa che è veramente causa è la causa efficiente, il movente, efficiente cioè che fa, tira fuori e fa, ex facio. Dal blocco rozzo di marmo tira fuori la statua ec facio efficiente, la molla, il movente. Allora tutte le altre tre cause: la causa materiale, la causa formale, la causa finale sono premesse, sono strumenti, sono conditio sine qua non, sono condizioni necessarie. Il cervello è una condizione necessaria per pensare, ma una condizione necessaria non è la causa! La benzina è una condizione necessaria per andare in macchina, è la causa del fatto che la macchina si muove? Il serbatoio è pieno la benzina c’è, la macchina non si muove. Allora signore e signori, qual è il concetto di causa? Il concetto pulito di causa è che necessariamente causa l’effetto, altrimenti non è causa, se non causa non è causa, deve saper causare. E tutto ciò che non di necessità, causa l’effetto è condizione necessaria non la causa. La causa è quella che di necessità sortisce l’effetto! Allora è causa. Diverse volte abbiamo esercitato che la causa efficiente è l’artista, no neanche, perché l’artista dice no non mi va di fare sta statua, allora non è la causa. L’artista capace di fare, di un blocco di marmo una statua di Apollo, col fine di farsi un sacco di soldi, è lui stesso una condizione necessaria, ma non la causa, perché se non la fa la statua non succede nulla. Il concetto di causa è che la causa deve sortire di necessità l’effetto sennò, una causa che non causa, non è una causa. È la volontà? No, la volontà fa parte delle condizioni necessarie, perché lui la volontà di fare una statua di marmo di Apollo col fine di farsi un sacco di soldi, ce l’ha avuta questa volontà da dieci anni, ma non l’ha mai fatta!
I. ?
A. no, la decisione di farlo, quella è la causa, se c’è la decisione di farlo di necessità viene fatto, e se non viene fatto non c’è stata la decisione di farlo. E il pio desiderio non è una decisione e neanche una condizione necessaria, perché se uno ha la necessità di fare un po’ di soldi sennò non sbarca il lunario, non ha bisogno del pio desiderio.
I. la decisione sì, però se non ci sono tutte le componenti.
A. ma te l’ho detto, sono condizioni necessarie.
I. tutte le fasi sono importanti, perché anche se c’è la decisione e io non ho il marmo.
A. ma te l’ho messo qui santa pace! il marmo c’è, la causa formale, cioè la forma che la statua dovrà avere un Apollo c’è, il fine c’è, l’artista c’è, avviene di necessità la statua? Finora no! Adesso che abbiamo spiegato tutto leggiamo il testo senza commenti. (IX,7) Per il singolo atto volitivo sono da considerarsi il motivo e la molla spingente, e il movente e la spinta. Io qui sono forse l’unico che ho fatto anni e anni di filosofia, dai concedetemi di fare una proposta, secondo me la parola movente è quella migliore, leggete Rosmini, Tommaso d’Aquino ha fatto distinzioni, quindi ha arricchito anche il linguaggio latino di tante parole, però sono in latino. Per quanto riguarda l’italiano, adesso la filosofia della libertà è un testo anche minimamente filosofico, benché Steiner l’abbia scritto con l’intento di non restare a livelli tecnici, ma di scriverlo in un modo che lo possa capire chiunque, però non si può scrivere un testo filosofico senza un minimo di terminologia anche rigorosa. Ora se uno studia Rosmini si rende conto che il linguaggio italiano è veramente passibile di distinzioni e sottodistinzioni, di rigore. Per esempio in campo antroposofico si parla dell’anima senziente, poi l’anima razionale e affettiva, poi l’anima cosciente, una terminologia che andrebbe studiata confrontandosi col linguaggio italiano, con la cultura che c’è, non creare una terminologia un pochino da setta, disattendendo la cultura che c’è, questo è molto importante altrimenti la scienza dello spirito dà l’impressione di voler restare settaria. Permettetemi di dire, parliamo di moventi e parliamo di motivi. Il motivo è ciò che si propone di raggiungere, e il movente è ciò che lo muove e la parentela di queste due parole è molto bella, e non si confondono, perché rispetto al movente sono passivo, il movente mi muove, sono mosso dal movente. Invece il motivo, per quale motivo fai una cosa? È quello che ti riprometti, però quello che ti riprometti è molto complesso, il greco lo dice con la parola scopo, che è un’immagine, e il latino con la parola fine. Invece il motivo è molto più individualizzato che non lo scopo, che non il fine.
I. ?
A. se io voglio fare quattro passi, ciò che mi muove a farlo, il movente, è ciò che c’è già dentro di me. Il motivo è ciò che io mi ripropongo, per quale motivo faccio i quattro passi? Quindi è cosa voglio, ma ciò che io voglio non c’è ancora, il motivo non è ancora realizzato, invece il movente ciò che mi muove, c’è già tutto. Perciò io ve l’ho semplificato dicendo: ciò che l’individuo è, e ciò che l’individuo vuole, quindi ciò che ancora non c’è. Adesso Luciana dice, ma il motivo è la stessa cosa che lo scopo, la stessa cosa che il fine, qual è lo scopo di far quattro passi? Il motivo è qualcosa non ancora raggiunto da raggiungere, il movente c’è già perché mi muove, perché se io sono uno che non ha mai fatto quattro passi, che proprio non gli va, non c’è in me il movente che mi muove a fare quattro passi, ma ti chiedo qual è il motivo? e lo scopo, il fine qual è? e’ individuale, nel caso mio siccome vedo che la digestione è molto laboriosa, faccio quattro passi, e il motivo è di aiutare la digestione. La distinzione tra il motivo che è passibile di individualizzazione, e lo scopo, il fine, il linguaggio ha tutte queste parole perché ognuna ha delle sfumature diverse. (IX,7) Per il singolo atto volitivo sono da considerarsi il motivo e il movente o se volete la molla spingente. La spinta, l’impulso. Il motivo è un fattore concettuale o rappresentativo; voglio aiutare la digestione, ho la rappresentazione e il concetto di aiutar la digestione, voglio sgranchirmi le gambe, voglio fare una pausa, oppure faccio quattro passi perché voglio fumarmi una sigaretta. Quindi il motivo, dice è un fattore concettuale o rappresentativo. La molla spingente è il fattore del volere (senza virgola) direttamente condizionato nell’organismo umano. L’organismo umano, io vi dicevo chiamiamolo l’organizzazione dell’uomo, ciò che l’uomo è, è triplice: il mondo della mia corporeità, le mie forze corporee; il mondo della mia anima e il mondo del mio spirito. Questa è l’organizzazione complessa, l’organismo umano. Il fattore concettuale o motivo è la causa determinante momentanea del volere; quindi i motivi, gli scopi, i fini sono di volta in volta considerati, ora faccio questo, ora faccio quest’altro. In fondo a un certo livello ha ragione Luciana quando dice che motivo, fine e scopo sono la stessa cosa, tendendo presente però che allora anche il fine e anche lo scopo è passibile di individualizzazione a livello infinito. Quindi 5 persone possono fare una passeggiata però lo scopo che ognuno si propone, il fine che ognuno si propone, il motivo per cui ognuno dei 5 la fa, può essere diverso, e normalmente è diverso. È possibile che due persone si propongano lo stesso scopo? No, in assoluto.
I. ?
A. no, perché ognuno vuole un tipo di digestione diversa. Quindi soltanto quando noi astraiamo dall’individuale c’è il comune, ma oltre al comune c’è sempre anche l’individuale, e il voluto non è il comune ma è l’individuale. Io voglio favorire la mia digestione non la tua, quindi io voglio favorire una tutt’altra realtà che non quella che vuoi favorire tu. Quindi dire che tutti e due ci proponiamo lo stesso scopo è un’astrazione, una generalizzazione che non dice la realtà di quello che io mi propongo. Perché io non mi propongo di favorire la stessa digestione che vuoi favorire tu, io mi propongo di favorire una tutt’altra digestione, che è la mia. Adesso andiamo a passeggiare insieme tu hai accelerato la tua digestione, io non la mia, allora avevamo uno scopo comune, tu lo hai raggiunto io no? Allora non era comune, il fatto che è possibile che tu lo raggiunga lo scopo cosiddetto comune e io no, ti sta a dire che non era comune, punto e basta.
I. ora si parlava di digestione e quindi era una realtà estremamente individuale, ma anche quando due individui si propongono uno scopo che oggettivamente appare simile, quale per esempio quella di aiutare una persona che soffre, andiamo a visitare un malato. In questo senso possiamo comunque parlare di scopi sempre diversi? Anche se in realtà compiamo lo stesso percorso, la stessa azione?
A. certo, a livello non dico sotto cosciente, ma dico a livello sovra cosciente, lo scopo, il fine, il motivo che A e B hanno in mente, sono su tutta la linea diversi, perché? Perché il voluto non è una visita astratta, ma è ciò che questa azione complessa comporta per me come vissuto, io voglio quello che vivo nel visitare questa persona bisognosa, perché è questa l’azione che voglio fare. Siccome il rapporto karmico, il rapporto di destino tra l’anima di A e la persona malata, e l’anima di B e la persona malata, ognuno dei due faranno una serie infinita di esperienze, tra l’altro di stancamento se vanno a piedi, stancamento fisico del tutto diverse, una serie infinita di esperienze animiche, del tutto diverse uno dall’altro. L’interazione col malato che vanno a trovare sarà di tipo del tutto diverso perché A dovrà interagire col malato in modo del tutto diverso che non B. hanno voluto e fatto la stessa cosa? No, su tutta la linea del tutto diversa, a uno sguardo che non entra nel merito del concreto, a uno sguardo astratto hanno voluto e fatto la stessa cosa. Ma nella realtà del vissuto, nella realtà delle percezioni, delle rappresentazioni, dei sentimenti, dei concetti, di tutta l’attività di pensiero che c’è stata dentro, non c’è nulla di uguale, altrimenti sarebbero una individualità sola. Tutto il discorso della seconda parte della filosofia della libertà, il discorso dell’individualismo etico, sta a dire, cari signori stiamo attenti che ciò che noi chiamiamo il comune c’è, però è una dimensione astratta. Più diventiamo concreti e più vediamo che gli esseri umani si individualizzano sempre di più. Due maestre d’asilo che dicono tutte e due, passiamo un’ora con questi bambini, tutte e due gli stessi bambini, tutte e due la stessa ora, tutte e due insieme, vogliono e realizzano una serie infinita di realtà del tutto diverse. E ciò che è comune è la cornice, ma i fattori di cornice che noi chiamavamo prima di condizioni necessarie, sono stratosfericamente astratte rispetto alla densità concreta del vissuto. Quello che vive la maestra d’asilo A è del tutto diverso da quello che vive la maestra B, è quello il concreto del morale, il resto è la condizione necessaria.
I. quello che stai dicendo si potrebbe rappresentare con queste due parole: il motivo è comune, cambia la modalità.
A. il motivo è di passare il fine, lo scopo un’ora insieme con questi bambini comuni, adesso spiegami tu cos’è la modalità?
I. mi baso su una distinzione che abbiamo anche nella lingua, quando diciamo il detto è comune, identico cambia la modalità del dire. Ora per analogia, mi fa venire in mente che l’obiettivo è comune, ma cambiano le variabili di cui tu parli sostanzialmente le modalità di realizzazione, o no?
A. se non sbaglio, però lo deve dire la persona che è intervenuta prima, che poi mi è sembrato che è stato convinto dal mio discorso, di fronte al tuo intervento era un po’ interdetto, perché diceva no, il fattore modalità resta ancora troppo all’esterno. Quindi io adesso ti dico, va benissimo la tua modalità, ma non c’entra nulla! C’è qualcosa di molto più profondo, molto più essenziale. Questi sono tutti bambini dell’asilo, qui sono le due maestre A e B che interagiscono coi bambini. Tu dici la modalità significa che A è vestita in un modo diverso che non B, A muove le mani e i piedi in un modo diverso che non B, ecc… la modalità. La modalità è un fatto di percezione, è estremamente irrilevante, benché ci sia te lo concedo, ma estremamente astratta rispetto al vissuto di A e al vissuto di B. A ha simpatia per questo, antipatia per questo, indifferente rispetto a questo ecc… Quello che avviene nell’animo, nell’interazione è un mondo del tutto diverso che non il vissuto di B
I. ma assolutamente d’accordo! La modalità esprime le variabili.
A. no, il vissuto non è la modalità, la modalità è un fattore di esteriorità.
I. ?
A. sì, ma tu per emozioni useresti la categoria di modalità?
I. questo esteriore, che è la modalità come tu dici, non prende quelle che sono tutte le cose interiori e cerca di manifestarle?
A. no, perché A può far finta! Quindi tu hai in A una modalità di allegria e invece dentro le vengono le lacrime, allora devi andare oltre la modalità.
I. ma guarda che secondo me la signora dicendo modalità non si riferiva a un fattore esteriore, ma all’interazione tra la maestra e l’alunno, che quella è assolutamente individuale. Lo scopo comune è quello di stare un’ora con gli alunni, l’interazione che avviene da una maestra all’altra e tra la maestra e gli alunni, quella è assolutamente diversa e individuale, e lì sta la diversità, lei l’ha chiamata modalità per sintesi.
A. io non sono il tipo che dà ragione per amor di pace! Il termine modalità per indicare ciò che tu hai detto è fuorviante, punto e basta! Perché noi parliamo del vissuto che in fondo è la sfera più importante, più determinante, non è giusto chiamarlo modalità, punto e basta! Restiamo buoni amici lo stesso. Secondo me la modalità è qualcosa che io con la cinepresa la posso cogliere, si vede, è una manifestazione, comunque la manifestazione non è la stessa cosa che ciò che si manifesta. Quindi noi parliamo del vissuto. Un altro esempio, le maestre d’asilo A e B hanno appena mangiato, una tramite l’interazione coi bambini gli si blocca la digestione; l’altra tramite l’interazione con i bambini digerisce in un modo meraviglioso. In base ai sentimenti che sorgono, fa parte della modalità? No, fa parte del vissuto.
I. modalità era il termine contenitore, all’interno ci si possono mettere tutte le variabili.
A. no, non nella modalità! (IX,7) Per il singolo atto volitivo sono da considerarsi il motivo e la molla spingente. Ormai ci siamo chiariti tutto. Il motivo è un fattore concettuale o rappresentativo; la molla spingente o il movente, è il fattore del volere direttamente condizionato nell’organismo umano. Il fattore concettuale o motivo è la causa determinante momentanea del volere; di volta in volta voglio far questo, voglio far quello, lo scopo, il fine ecc…la molla spingente o il movente è la causa determinante permanente nell’individuo. Fa parte della sua organizzazione, fa parte di ciò che lui è divenuto e di ciò che lui è. L’organizzazione è il motivo, l’organizzazione è un fattore costante, il motivo è un fattore momentaneo che di volta in volta va individuato. Motivo del volere può essere un concetto puro o un concetto avente un determinato rapporto con la percezione, cioè una rappresentazione. Il motivo, il fine, lo scopo di passare un’ora in asilo coi bambini, è un concetto o una rappresentazione? Sarebbe un concetto per lo meno passibile, soltanto per colui che non ha mai avuto la percezione del passare un’ora in asilo coi bambini, quello può avere soltanto il concetto. Trattandosi di due maestre d’asilo, hanno rappresentazioni, che queste rappresentazioni siano sempre passibili di venire concettualizzate, questo senz’altro. Però a livello di vita ordinaria, loro hanno la rappresentazione, il che significa andare e passare un’ora con i bambini. Questo per indicare che normalmente si agisce, ci si propongono degli scopi, dei fini, dei motivi in base alle rappresentazioni. Fare quattro passi è una rappresentazione, ho delle immagini davanti a me, perché è una cosa che ho percepito tante volte, la rappresentazione è il risultato dentro a all’individuo di una percezione. Quando si fanno quattro passi normalmente sono un po’ di più di quattro, e allora che rappresentazione è? quattro passi alla volta. Dai che scambiamo due parole! Altro che due! (IX,7) Motivo del volere può essere un concetto puro o un concetto avente un determinato rapporto con la percezione, cioè una rappresentazione. La signora dice al signore aspetta un attimo sono subito pronta! Campa cavallo che l’erba cresce! Concetti generali e individuali (rappresentazioni) diventano motivi del volere, in quanto agiscono sull’individuo umano e lo determinano all’azione in una certa direzione. Un medesimo concetto, e rispettivamente una medesima rappresentazione, quella di fare quattro passi per esempio, agiscono però diversamente su individui diversi. A seconda della diversa organizzazione, a seconda di cos’è l’individuo A e di cos’è l’individuo B. Spingono uomini diversi ad azioni diverse. Il volere non è quindi semplicemente un risultato del concetto o della rappresentazione, ma anche dell’indole, del carattere, dell’organizzazione individuale dell’uomo. Chiameremo questa indole individuale – possiamo a questo proposito seguire Eduard von Hartmann – la disposizione caratterologica. La disposizione caratterologica è ciò che un individuo è, tutto ciò che porta in sé, è la sua disposizione. E ciò che lui non è, le forze che non ha dentro di sé non fa parte della sua disposizione caratterologica. Il carattere insomma, la sua individualità. Il modo in cui concetto e rappresentazione agiscono sulla disposizione caratterologica dell’uomo, dà alla sua vita una determinata impronta morale o etica. Una persona cresciuta in un paese islamico, la sua disposizione caratterologica, posta di fronte a un quadro di Raffaello, reagisce in un dato modo. Una persona cresciuta in una cultura cosiddetta cristiana, supponiamo andiamo indietro di cento anni, posta di fronte a un quadro di Raffaello, la sua disposizione caratterologica reagisce in un altro modo. (IX,8) La disposizione caratterologica viene formata dal contenuto di vita più o meno permanente del nostro soggetto, cioè dal nostro contenuto di rappresentazioni e di sentimenti. Rappresentazioni e sentimenti sono il risultato di tutte le percezioni, di tutte le azioni, di dove siamo stati, di ciò che abbiamo fatto, degli incontri, degli eventi della vita ecc… Quindi il risultato nell’anima, nell’interiorità di tutto ciò che si è fatto, di tutto ciò che si è detto è la disposizione caratterologica. Che una rappresentazione, per esempio andare a visitare una persona malata, la quale mi si presenti in un dato momento, mi spinga o no ad un atto volitivo, ciò dipende dal rapporto che essa ha col restante mio contenuto rappresentativo, ed anche con le mie peculiarità di sentimento. Ma il mio contenuto rappresentativo è a sua volta condizionato dalla somma di quei concetti che, nel corso della mia vita individuale, sono venuti a contatto con percezioni, sono cioè divenuti rappresentazioni. Per volere visitare una persona malata devo essermi creato il concetto del visitare, quindi consolare o sollevare, passare un momento di far compagnia, e devo essermi creato il concetto di una persona ammalata. Quindi nel mio concetto di una persona ammalata, è compreso che una persona ammalata gioisca, per lo meno viene sollevata per un momento, da qualcuno che la va a visitare. Quindi la rappresentazione, qualcuno mi dice andiamo a visitare la persona malata, presuppone perché questa rappresentazione mi muova al volere, presuppone che ci siano in me le rappresentazioni, come risultato dei concetti di una persona malata e di ciò che una visita comporta. Per esempio so che una visita non è una cosa di 5 giorni, cosa ovvia ma fa parte del concetto di visita. Ripeto questa frase che sembrava un pochino contorta: che una rappresentazione, ho preso l’esempio della rappresentazione che dice andiamo a visitare una persona malata, la quale mi si presenti in un dato momento, mi spinga o no ad un atto volitivo, ciò dipende dal rapporto che essa, questa rappresentazione, ha col restante mio contenuto rappresentativo, ed anche con le mie peculiarità di sentimento. Ma il mio contenuto rappresentativo è a sua volta condizionato dalla somma di quei concetti – persona malata, la visita –, che nel corso della mia vita individuale, sono venuti a contatto con percezioni, quindi devo aver avuto percezioni di persone malate sennò non ho il concetto della persona malata, devo aver avuto una percezione di fare una visita sennò non ne ho il concetto. Nel corso della mia vita individuale, sono venuti a contatto con percezioni, sono cioè divenuti rappresentazioni. Ma tale somma dipende a sua volta dalla mia maggiore o minore capacità di intuizione, e dalla cerchia delle mie osservazioni, cioè dal fattore soggettivo e dal fattore oggettivo delle esperienze, dell’interiore determinatezza e dall’ambiente della mia vita. Se noi adesso esaminassimo uno dopo l’altro tutti questi fattori, li potremmo ricondurre a questi tre mondi, che sono mondi complessissimi di cui vi parlavo, il mondo del corpo con tutte le percezioni, il mondo dell’anima con tutte le rappresentazioni e sentimenti, e col mondo dello spirito e il fenomeno primigenio dello spirito è il concetto. Quindi la somma dei concetti, la somma delle rappresentazioni, la somma delle percezioni di un individuo, è tutto il mondo che lo muove o no, che è il movente o no, a fare di un motivo l’oggetto di un’azione, altrimenti non si muove, non viene mosso. (IX,8) A seconda che io, per una determinata rappresentazione o concetto, sentirò piacere o dolore, ne farò motivo di una mia azione oppure no. Questi sono gli elementi che entrano in giuoco in un atto volitivo. La rappresentazione immediatamente presente o il concetto, che divengono motivo, determinano la meta, lo scopo del mio volere; abbiamo dimenticato una parola italiana, il motivo non è soltanto il fine, lo scopo, la meta. (Sarebbe interessante studiare l’origine di questa parola meta, c’è qualcuno che ci vuole aiutare? Voglio l’etimologia, io non ce l’ho presente adesso, però mi accorgo in questo momento che sarebbe interessante averla. Metà in greco significa oltre, però che la parola meta provenga da lì non son sicuro. Metafisica Aristotele ha scritto un tomo fondamentale sulla fisica, e poi ha scritto un volume sulle cose che lui ha scritto dopo la fisica. Ora questo dopo la fisica – metatafusica –, è stata chiamata metafisica, ma per Aristotele era un concetto temporale, nel tempo l’ha scritto dopo la fisica.
I. qualcosa che va al di là di quello che è proprio materiale, io posso avere il fine di guadagnare, il fine di ottenere una cosa materiale, la meta è qualcosa di più ideale.
A. no, sta attento, stiamo affrontando una parola complessa come la parola meta in italiano, se noi non ritorniamo, questa è un’indicazione se vuoi anche di scienza dello spirito perché è molto più scientifica, ti dice se non ritorni all’origine di questa parola, e all’origine ci deve essere un’immagine, e la prendi soltanto al nostro modo attuale di usare questa parola, si discuterà all’infinito e non ci si accorda! Ci si può accordare soltanto se si ritorna all’origine, perché soltanto l’origine è oggettiva ed è precisa, e allora possiamo disquisire se poi ci siamo allontanati dal senso originale oppure no, e possiamo intenderci molto meglio. Se noi adesso senza tornare all’origine di questa parola, la meta, e ce l’ha, la deve avere un’origine questa parola, discutiamo insieme su che cosa significa la meta, troveremo almeno 200 definizioni.
I. il traduttore ha usato meta, come è arrivato a tradurre meta? Perché gli è venuta questa idea?
A. però vedi che non si ferma soltanto alla meta, la qualifica subito la meta, lo scopo del mio volere. Prendiamo la traduzione così com’è) (IX,8) La rappresentazione immediatamente presente o il concetto, che divengono motivo, quindi abbiamo tre parole motivo, diventano la meta, lo scopo del mio volere; la mia disposizione caratterologica mi determina a dirigere la mia attività verso quella meta. Oppure non mi determina a dirigere la mia attività verso quel motivo, verso quella meta, verso quello scopo, verso quel fine. La rappresentazione di fare una passeggiata nella prossima mezz’ora, è un motivo, è un fine, uno scopo, una meta, fare una passeggiata nella prossima mezz’ora, determina lo scopo del mio agire; il fine, la meta, è il motivo, ma questa rappresentazione viene elevata a motivo del volere, solo se coincide con un’appropriata corrispondente disposizione caratterologica, cioè se attraverso le precedenti esperienze della mia vita, si sono in qualche modo formate in me le rappresentazioni della convenienza del passeggiare e del valore della salute, ed infine se alla rappresentazione del passeggiare si collega in me il sentimento del piacere. Una cosa che non mi piace cerco di non farla, non la voglio, non mi piace e non la voglio è la stessa cosa, perché so che quando faccio qualcosa di controvoglia ne risente lo stomaco. (IX,9) Dobbiamo quindi distinguere: 1) le possibili disposizioni soggettive che sono atte ad elevare a motivi certi concetti e rappresentazioni; e quindi la disposizione caratterologica, i moventi; 2) i possibili concetti e rappresentazioni che sono in grado di influenzare la mia disposizione caratterologica in modo da provocare un atto volitivo. Quelle costituiscono i moventi, questi gli scopi della moralità. Questa polarità di moventi e motivo, io dicevo tra me e me, ma possibile che sia così difficile capire che, il movente viene da dietro e il motivo mi spinge in avanti, e qui sono io, il movente mi spinge dal passato e il motivo mi attrae dal futuro, il motivo mi viene incontro dal futuro perché il motivo non è ancora realizzato, il movente mi determina dal passato, e si incontrano in me. Ci vuole così tanto a distinguere tra movente e motivo? sono opposti, sono una polarità, e a quel punto lì quando ce l’ho così chiaro, così nitido, in luce, mi pare ovvio che anziché – molla spingente – qui va bene la parola il movente. Tra l’altro la parola movente da dove la tiro fuori io? Non dal linguaggio italiano direttamente, ma dal nostro Tommaso d’Aquino, dalla Scolastica, cioè il linguaggio italiano viene dal latino, ora in campo filosofico di distinzione e terminologia, uno se legge Tommaso d’Aquino senza conoscere la parola movents, non ci capisce nulla, la parola movents c’è, movents moventis, perché non dobbiamo prendere questa parola che è così importante, questa categoria di causalità a partire dal passato, dal precipitato di ciò che io son divenuto, che in latino, in Tommaso d’Aquino è così importante, perché mandarla a ramengo e qui metterci molle spingenti che mi sembra la macchinetta delle molle spingenti, e se poi la molla molla? Non spinge più! È troppo cosificato, troppo meccanico il concetto di molla spingente, il movente è molto più aperto, il movente può essere un fattore corporeo, organico, può essere un fattore animico, un movente perché muove, muove l’animo. Abbiamo visto un film, oooh!! era una cosa commovente! Ci ha mossi tutti insieme, com-movente. Facciamo una pausa!
Ci sono contributi?
I. anche ciò che l’individuo è, non è, diciamo fermo no? Anche per quanto riguarda il punto A, come per il motivo è ciò che uno vuole, Steiner nella traduzione ho letto più o meno permanente, anche la prima parte è soggetta a mutamento, anche il vissuto no?
A. … (IX,7) Il fattore concettuale o motivo è la causa determinante momentanea, puntuale del volere; la molla spingente è la causa determinante permanente, questa è la parola che tu volevi dire no? In tedesco … io avrei tradotto non permanente, ma duraturo. Che differenza c’è tra duraturo e permanente? è la stessa cosa? Duraturo dura nel tempo, costante, costante non significa eterno, ha una certa costanza, i motivi non sono mai costanti, io adesso voglio questo, poi voglio quell’altro, poi quell’altro, voglio di volta in volta cose singole da realizzare. Invece ciò che io sono, il mio carattere ecc… sono fattori costanti, che hanno una certa costanza, una certa durevolezza. Invece permanente mi pare un termine un po’ troppo assoluto, che va in direzione di eterno, e allora non ci siamo, quindi io tradurrei duraturo non permanente. io nella mia costituzione, nel mio organismo di corpo, anima e spirito c’è una certa costanza, non è che oggi sono così, domani sono colà, ieri ero diverso. Quindi mi pare di capire che a te disturbava giustamente questa traduzione, questa categoria, che esclude troppo ciò che l’essere è divenuto è in divenire, fin qui ogni momento presente è così com’è. e questi fattori costanti sono passibili di modificazioni, ma non è che cambiano e diventano altri fattori, il carattere di una persona non è che diventa un altro carattere, però non è in assoluto permanente, ha una certa durevolezza, una certa costanza.
I. forse dico una cosa ingenua, la riebolazione del mio vissuto può cambiare sostanzialmente, il modo di rappresentare le cose che io, poi, trovo il motivo per volere.
A. si complica un po’ la cosa, tu dici, correggimi se sbaglio, c’è una differenza tra ciò che io sono, va a sapere chi io sono? E come io mi vedo. E tu dici, io mi sono visto finora in un certo modo, però ho la possibilità di cambiare radicalmente il modo di vedermi, giustamente. Io voglio vedermi in un modo diverso, fa parte dei motivi, degli scopi, degli intenti, degli obiettivi che riguardano il futuro. In questo momento, qui e ora, il momento presente è importante proprio perché, è una divisione assoluta tra ciò che è diventato così com’è, qui è tutto chiuso, non c’è più nulla da cambiare. Ciò che c’è stato prima del presente non si può cambiare nulla è tutto chiuso, tutto determinato, qui tutto aperto. E fa parte del tutto aperto il modo in cui io mi vedo, fino a questo momento mi sono visto un essere negativo, invece ora, d’ora in poi mi è aperta la possibilità di comincare a vedermi in chiave positiva. Cambia ciò che io sono?
I. sì assolutamente sì.
A. alcune teste dicono sì, altre teste dicono no!
I. perché il mondo della percezione, il mondo della rappresentazione, quello che lei ha chiamato anche immaginifico, delle fantasie, è la facoltà di pensare in me, proprio per la loro natura di divenire, fanno in modo che io oggi, nel presente non posso cancellare tutto ciò, i fatti sono chiusi, ma non il modo in cui io oggi li vado a rivisitare a ri-rappresentare, e la capacità che io oggi ho di fare in modo che la facoltà del pensare in me, si mostri a me stesso e viva in un modo completamente diverso.
A. allora: come sono; come mi vedo; come mi creo. Una proposta di pensiero, è uno svolgimento di pensiero dove tu dici, voi dite, sì te la concediamo perché aiuta, cioè è feconda, ci aiuta a capire i fenomeni sempre meglio, quindi i pensieri non sono giusti o sbagliati, sono fecondi o non fecondi. Aristotele non è un bravo pensatore perché pensa solo pensieri giusti, perché tu leggendolo i suoi pensieri sono talmente fecondi, che tu fai l’esperienza che il tuo pensare viene fecondato e ti saltano fuori tante idee. Quando io leggo Steiner non mi interessa se è giusto o sbagliato quello che dice, mi interessa che faccio l’esperienza, e l’ho fatta ormai da 34 anni, e diventa sempre peggio, che quando leggo Steiner, è talmente fecondo che il mio pensare viene fecondato, scintilla all’infinito! Allora dico mi va, mi va, mi va! Quindi voi restate volentieri quando un mio processo di pensiero dice ah mi serve adesso capisco meglio! Tu dici, come la mettiamo con le categorie di durevolezza e di costanza e di evoluzione e cambiamento? Cosa è meglio, qualcosa di costante che dà affidamento, su cui si può fondare qualcosa o qualcosa sempre in cambiamento? Tutti e due! Quando ho bisogno di qualcosa che sia costante, come il suolo, è bene che ci sia! E quando ho bisogno di qualcosa la cui creatività non sa mai cosa tira fuori in assoluto, voglio godermi anche il cambiante in assoluto. Proprio perché la ricchezza massima dell’umano, è di avere tutte e due queste realtà: il costante e il cangiante, e poi sarebbe il massimo una realtà che è intermedia: semicostante e semicangiante, di meglio non c’è eh! adesso c’ho tutto! Il cangiante per eccellenza dove non c’è nulla di costante, di ripetitivo, di noioso si chiama da sempre “spirito”. Il costante per eccellenza, che dà affidamento, che non mi cambia ogni 5 minuti, si chiama da sempre “corpo”, il biologico. Io quando mi sveglio non mi è mai venuto da pensare, che questo corpo mio, si mette in testa di cambiare a un punto tale che è 30 anni più giovane! Sarebbe una disgrazia enorme per quanto mi riguarda! Andrebbe via tutto lo Steiner che ho studiato in questi 30 anni. La realtà che oscilla, tra la durata e la creazione dal nulla, quindi il sempre uguale e il sempre nuovo, si chiama “anima”. Se tu un bel giorno decidi e attualizzi un’interpretazione tutta nuova del tuo essere, questo lo compie il tuo spirito. La tua anima potrà goderne, però devi usare i pensieri, devi pensare su te stesso in un modo diverso, e a livello dello spirito è possibile. Però non potrai mai dal nulla, una cosa del tutto nuova che prima non c’era, quindi un fattore di discontinuità assoluta. Il concetto di creazione dal nulla, è il concetto di discontinuità assoluta, del nuovo in assoluto. Invece qui è il concetto di continuità, di durata, di permanenza, di costanza. Ho preso adesso queste categorie che noi conosciamo, sono mondi, sono realtà e le ho usate per commentare la tua riflessione che si riferiva alla domanda: che cosa è costante in me e che cosa non è costante? E l’interpretazione, cioè il modo in cui io mi vedo, non deve essere costante, non è detto che debba essere costante, c’è la possibilità che ognuno un bel giorno decida di vedersi in un modo del tutto diverso. Questo modo di vedersi è giusto o sbagliato? La domanda è sbagliata. Il modo in cui io mi vedo è così com’è, punto e basta! Un modo di vedere non è né giusto né sbagliato, è così com’è! Quando io nella biologia, nella fisiologia analizzo il corpo, non c’è un modo di vedere, ci sono percezioni, e le percezioni sono oggettive, ma non il modo di vedere. Lo spirito è l’elemento di cangiabilità, di creatività, di motilità in assoluto, invece il biologico è l’elemento di costanza, è come il fondamento, il suolo su cui ci si muove. Un’immagine se volete, del corporeo è la terra ferma, un’immagine dell’anima è l’acqua coi flutti, la terra è ferma, l’acqua si muove ma limitatamente, e l’aria è molto più mobile, tanto è vero che i greci usano la stessa parola per dire spirito e per dire aria. … Aria e spirito motilità assoluta, lo spirito soffia dove vuole, i pensieri hanno il diritto di andare in tutte le direzioni, un movimento di pensiero non lo si può costringere o dirigere, lo decide chi pensa se veramente si muove nell’elemento dello spirito, è un movimento del tutto libero, non c’è nessuna legge che deve seguire, è lui stesso la sua legge immanente, è una creazione pura.
I. quindi questo spirito che si muove, può andare anche nel nostro passato e modificarlo? Quindi il passato.
A. no, non modificarlo.
I. non modificarlo nella percezione di noi stessi, non possiamo modificare niente del nostro passato?
A. ma scusa? Cosa puoi modificare dimmi? Cosa fatta capo A! tu puoi modificare i pensieri che hai pensato ieri?
I. ma per esempio in certi casi di depressione, ci sono pensieri ricorrenti che vengono dal passato, e quindi modificare questi pensieri che vengono dal passato.
A. no, pensi pensieri nuovi e diversi, ma quelli pensati restano così com’erano.
I. quindi questi pensieri nuovi che do un impulso spirituale a questi pensieri nuovi, hanno il potere di annullare o modificare quelli passati?
A. no, no, no, no, no, ogni domanda è molto complessa, e si può rispondere soltanto semplificando, però la semplificazione se è feconda non è superficiale. Tu dici qui c’è la mia anima imbottita di tutti i pensieri, tutti i sentimenti del mio passato, piena del mio passato. In questo passato ci sono i pensieri, le percezioni, i sentimenti, tutto quanto, e tu chiedi i pensieri nuovi che vengono sempre dentro, annullano, rintuzzano, fanno sparire, trasformano, modificano? Lo dicevamo prima l’anima è un mondo, una realtà di massima costanza o di media costanza? Quindi è passibile di profondi cangiamenti! Però di media costanza. Se fosse di massimo cangiamento, di minima costanza avrei la possibilità in un battibaleno di cambiare tutto. L’unico fattore passibile di cambiamento in un battibaleno è il pensare, perché il pensare non ha passato da smaltire lentamente, il passato del pensare è l’anima. Quindi il pensare è quell’elemento che può sempre creare nuovi mondi, e non ha nessun ricatto, nessun condizionamento da un suo passato. L’anima è condizionata dal suo passato, il corporeo ancora di più, l’anima di meno, lo spirito non ha passato è pura presenza, è pura eternità perché è oltre il tempo. Se volete, adesso la cosa diventa un po’ filosofica però, il corpo evidenzia la dimensione dello spazio, sento Aristotele che ci dice lascia perdere! Son categorie troppo grosse, però ve le do come una pulce nell’orecchio, se le avete tutte e tre non vi serve a nulla, ma se le prendete come vie, come incamminamenti, l’anima è la rivelazione del tempo, un sentimento è un fenomeno di tempo e lo spirito è oltre lo spazio e il tempo, il creare eterno, il creare puro, pura creazione oltre lo spazio e oltre il tempo. L’anima è soggetta alle leggi del tempo, il corpo è soggetto alle leggi dello spazio, lo spirito non è soggetto a nessuna legge. Qui Tommaso d’Aquino o Aristotele avrebbero messo spazio, tempo, eternità, oppure causalità, quindi il pensare è causazione assoluta, è sempre prima causa. Il pensare è sempre all’inizio della creazione del mondo, perché pensare significa sempre, in assoluto, creare nuovi mondi, senza ipoteche dal passato. Un programmatore crea un programma, che leggi ha da seguire? Se è creativo nulla, nessuna legge, se invece non è creativo copia, varia, muta fattori di programmi già fatti ecc… Una depressione è un modo di vedersi, questo modo di vedersi è un vissuto, io vivo il mio modo di vedermi, e lui chiedeva: posso cambiare il mio modo di vedermi e quindi vedermi più positivo e vincere la depressione? Sì, ma non di botto, è un processo, non perché uno dice voglio vedermi in un modo del tutto diverso! Non perché dice voglio vedermi lo fa! Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, cosa deve fare per realmente vedersi in un modo del tutto diverso? Deve – ed erano le categorie che avevi usato tu –, rivisitare, rammemorare tutti gli elementi dell’anima e uno per uno vederli diversi, deve esercitarlo concretamente, e allora uno per uno ah questa amicizia, adesso devo vedere in un modo diverso questa amicizia. Il mio modo di vivere questo rapporto con questa persona era del tutto negativo, vedevo me negativo in questo rapporto con questa persona. Ora si tratta concretamente, tutti gli elementi di questo rapporto, di questa amicizia di vederli positivi, li devo esercitare uno per uno i pensieri in modo da vedere, gli elementi di questo rapporto tutti in chiave positiva. Esercitandolo, e poi ripetendolo diventa sempre più positivo, e questo esercizio fatto col mio amico A non vale per il mio amico B, lo devo rifare il rapporto per l’amico B. Con l’amico A ho un rapporto di simpatia, però lui mi manda a ramengo e allora voglio vederlo in un modo diverso. Con B ho un rapporto di antipatia, voglio vederlo in un modo positivo, voglio trovare i motivi per cui un’evoluzione senza rapporti di antipatia non sarebbe possibile, e quindi voglio vedere anche i rapporti di antipatia dal loro lato positivo. Devo pensare tutti i pensieri che evidenziano la positività di un’antipatia, vanno pensati uno dopo l’altro. Adesso uso altre tre categorie: corpo, anima, e spirito, tu dicevi giustamente per l’anima usiamo la categoria di trasformazione. Il concetto di trasformazione è a metà strada tra il costante che non si trasforma, quindi trasformazione qui mettiamoci l’elemento di costanza, non costanza assoluta, però di una certa costanza, trasformabilità è una costanza molto minore. Che categorie usereste per indicare un nulla di costanza? Creazione, ciò che io creo sorge ora, non c’è nulla di costante, non ha nulla di passato, nessuna ipoteca sorge ora. Un pittore fa un quadro del tutto nuovo, una mamma la fantasia del suo amore ha un’intuizione tutta nuova nel trattare il bambino. Questo quadro del tutto nuovo che passato ha? Nessun passato, un nulla di costanza, un nulla di trasformabilità, è pura creazione, sorge ora. Se noi avessimo soltanto la sfera della creazionalità, non avremmo nulla di costante, non ci potremmo intendere, sarebbe tutto aleatorio. Se ci fosse soltanto l’elemento della costanza non si muoverebbe nulla, diventerebbe noiosa la vita. Quindi è chiaro che il bello della vita è proprio l’interagire di queste tre sfere, e la trasformabilità è a mezza strada tra ciò che è maggiormente costante e ciò che è maggiormente del tutto cambiante, sempre nuovo.
I. le dipendenze che apparentemente sono fisiche, cibo, alcol o quant’altro, possiamo definirle comunque dipendenze dell’anima o sono solamente corporee? Anche perché cambia il modo a cui approcciarsi a questo tipo di problematica.
A. noi diciamo che una persona è diventata tossicodipendente, con questa parola dipendente, intendiamo dire che il corporeo, il biologico non si lascia cambiare dall’oggi al domani. Quando il copro l’hai rovinato, ti resta costantemente rovinato, quindi è una conferma di quello che stiamo dicendo. E tu chiedi c’è la stessa irreversibilità anche nell’anima? No, quando io ho rovinato l’anima è molto più facile disfare questa rovina, perché la costanza nell’elemento animico è molto inferiore, quindi è molto meno refrattaria a venir cangiata, a venir cambiata che non nel corporeo. Quindi nel corporeo c’è un minimo di cambiabilità, nell’animico c’è una cambiabilità riparabilità media, e nello spirito è sempre tutto nuovo.
I. probabilmente le dipendenze vengono anche perché c’è una interazione tra il corpo e le sensazioni che poi certe situazioni danno, come può essere il cibo, la droga. Quindi non penso che solamente il corpo vada ad essere così intaccato dalle dipendenze, ma probabilmente c’è qualche cosa di più profondo che forse riguarda l’anima, e quindi va fatto un lavoro oltre che sul corporeo anche sull’animico. Cioè se io attraverso certe situazioni e ho vissuto delle situazioni di euforia, se attraverso un’esperienza di tipo fisico, io ne ricavo una sensazione, e quindi va sull’animico, che mi crea dipendenza, io non posso dire che questa dipendenza sia solo di tipo fisico, cioè non è il cibo di per sé che mi crea dipendenza, ma è probabilmente l’impatto che ha quel tipo di azione su tutta una restante catena di altre cose, immagino che sia più complesso il discorso.
A. guarda che io non ho mai detto che non è complesso, ho continuato a sottolineare che bisogna semplificare cose complesse. Prendo un esempio fondamentale per esercitare ciò che tu ci stai dicendo, a noi ci interessa fare esercizi di pensiero quelli ci portano avanti, se vado fuori strada fatti sentire. Prendiamo il corpo che invecchia, non è che lo posso cambiare a modo mio invecchia, c’è un elemento di determinatezza, di oggettività che non si può inventare ognuno a modo suo, e tu dici giustamente che tutto ciò che avviene nel corpo, ha dei riflessi nell’anima, io prendo il fenomeno del corpo che invecchia, una persona che ha 70 anni nell’anima tu dici, suscita delle sensazioni, degli echi che non si possono cambiare tanto più quanto il corpo. Sono anche quelle ben decise.
I. intendevo dire se uno attraverso una bottiglia di vino, affoga i propri dispiaceri nell’alcol, e quindi in quel momento attraverso quella assunzione ha una sensazione quanto meno di consolazione, io dico che quella dipendenza non è solo di carattere fisico, ma probabilmente ha anche altre implicazioni di tipo più profondo.
A. se era soltanto questo che volevi dire.
I. come si va a interagire in queste situazioni? Quindi non solo sul corpo fisico, ma viene fatto un lavoro di cambiamento proprio sull’anima, su ciò che è stato il tuo vissuto.
A. no, non c’è nulla di corporeo che non sia al contempo animico e spirituale, non c’è nulla di animico che non sia al contempo corporeo e spirituale, non c’è nulla di spirituale che non sia al contempo corporeo e animico, per quanto riguarda l’uomo. Il fattore uomo non è divisibile, soltanto schematicamente poniamo che lo spirito, anche schematicamente sono intrecciati spirito, anima e corpo, ma c’è un’interazione continua, inevitabile a tutti i livelli. Quindi dove c’è l’uomo c’è una triade di dimensioni, ma è soltanto questione di distinzione, l’uomo è una unità, quindi tutto quello che avviene nel corpo ha un correlato che avviene nell’anima, che avviene nello spirito. E viceversa tutto ciò che avviene nello spirito ha un correlato nel corpo e nell’anima.
I. non vorrei interpretare quello che ha detto lui, però parlando di dipendenze, per esempio ci sono delle dipendenze fisiche ma che prendono anche la brama, come il desiderio del cibo, la dipendenza dal sesso, e la dipendenza dall’alcol e dalle droghe, e la dipendenza dal denaro. Quindi non è prettamente, questo corporeo è coinvolto con l’astrale, con le brame ed è tutto comunque in relazione. Poi quando dici che il corpo è determinato dalla costanza, io questo non riesco a riconoscerlo, nel senso che per me anche il corporeo si può modificare, il sistema cellulare può essere modificato, le nostre cellule, il nostro sangue. C’è qualcuno che dice che noi cambiamo sangue, sistema cellulare in una settimana, può avvenire anche un miracolo nel nostro corpo, e quindi da uno stato di vecchiaia o di malattia possiamo.
A. io non ho detto che nel corpo non cambia nulla! Una certa costanza, maggiore che non nell’anima, che non nello spirito. Rispetto alla cangi abilità nell’anima, e alla passibilità di cambiamento nello spirito, il corpo, paragonato con gli altri due è quello che ha un massimo di costanza, ma non assoluta, ci mancherebbe il corpo nasce e muore, già questo ti dice che non c’è una costanza assoluta. Quello che a me interessava di dire è che il corpo, uso altre tre categorie, il problema del pensare son sempre le parzialità, si prende un aspetto, si cavalca questo aspetto, e poi si dimenticano altri aspetti. Il concetto di corporeo è la non libertà, viene chiamata necessità di natura, il corporeo non è libero, come avviene la digestione non è questione di libertà, è questione di leggi di natura, le leggi di natura non sono libere. Qui abbiamo l’anima, qui ci metto lo spirito, la caratteristica fondamentale dello spirito, la sua essenza è la libertà, spirito è libertà pura oppure non è spirito. L’anima oscilla tra il corpo e lo spirito, media, tu intendevi questo l’anima è complessa, perché la non libertà del corporeo, del biologico, del dato di natura è chiara, leggi di natura, non c’è libertà, determinismo di natura. La libertà dello spirito la si può capire, lo spirito di Dante sta scrivendo la Divina Commedia, lo spirito di Beethoven sta componendo la 9^ sinfonia, c’è un determinismo che gli dice come deve essere fatta questa sinfonia? No, è libero, faccia quello che vuole, non c’è nessuna legge che dice che dopo il 30° canto dell’Inferno il 31° deve essere fatto così, è lasciato libero a Dante come sarà fatto il 31° canto. Le cose diventano enormemente complesse qui nell’anima, e da sempre come orientamento però, non come semplificazione delle cose che restano complesse, nella misura in cui l’anima vive il corpo, partecipa alla non libertà. Nella misura in cui l’anima vive gli echi delle creazioni dello spirito partecipa alla libertà; che la mia anima partecipi maggiormente alla libertà dello spirito o maggiormente alla non libertà del dato di natura, è la mia libertà. Però tu dicevi, se io gli ultimi 20 anni, gli ultimi 30 anni, addirittura gli ultimi 40 anni ho sempre e di nuovo un sacco di esperienze rivolte verso il corpo, dove l’anima col bere, con la sessualità ecc… l’anima ha quasi vissuto soltanto elementi di natura dove non c’è la libertà, non posso pretendere all’improvviso adesso, di vivere nella mia anima che non si è mai rivolta allo spirito, spazi di libertà. Così come questi 30 anni di prigionia dell’anima nel corporeo si sono costruiti nell’arco di 30 anni, adesso posso cominciare se ho 40 anni, comincio a fare 30 anni in senso diverso, e allora a 70 anni le cose staranno in un modo diverso, ma non a 41 anni. Mi pare così logico! Quindi un’anima che per 10 anni, per 20 anni è vissuta in un modo pesantemente, profondamente in dipendenza dal corpo, non può all’improvviso diventare indipendente dal corpo, deve cominciare se vuole e se non vuole continui. Però un’anima che vive soltanto i processi corporei, non può pretendere di vivere la libertà, i processi corporei sono dati di natura, sono il non libero. Prendiamo un pedofilo, supponiamo, non voglio moraleggiare, dobbiamo intenderci a livello oggettivo, che abbia 35 anni, supponiamo che sia giusto, che sia oggettivo dire che questo pedofilo ha lasciato agire in sé l’istintualità del corpo, a un punto tale che lui dice di fronte al giudice, non ci potevo far nulla! È stato più forte di me!, e può essere vero. Lo discolpa la cosa che lui dice è stato più forte di me? In Germania abbiamo neurobiologi… fanno degli incontri con i giudici di cassazione ecc… discussioni accanite, questo … dice ma noi siamo così anacronistici, così retrivi che stiamo usando ancora il concetto di colpa, ma il concetto di colpa è un moraleggia mento, assolutamente antiscientifico! Quello lì ha ricevuto una mistura di geni dai suoi genitori come ereditarietà, e ha ricevuto poi dall’ambiente una educazione tale per cui è fatto così, lui non ci può far nulla, non ha colpa di nulla. Allora intendiamoci c’è un certo tipo di mistura di geni, che decidiamo insieme di mettere in prigione, e un’altra mistura di geni siccome ci va bene, la lasciamo agire liberamente. Ma colpa morale non esiste. Una donna giudice in cassazione, quindi la corte suprema in Germania, diceva ma caro signor … se lei ci porta via il concetto di colpa tutta la giurisdizione è assurda!? Allora io dicevo, la disoccupazione è già a certi livelli, adesso se mandiamo a ramengo il concetto di colpa saranno disoccupati anche tutti i giudici che ci sono! È responsabile o no?
I. mi colpisce la pericolosità sociale, anche se non c’è colpa individuale, però c’è una pericolosità sociale oggettiva, quindi questo lo togliamo di mezzo perché sennò dà fastidio, a meno che non si possa curare…
A. supponiamo che questo individuo, che poi è la realtà, supponiamo che per 10, 15 anni a partire da 20 anni si è lasciato andare all’istinto. A forza di lasciarsi andare all’istinto, ha lasciato che il corporeo, l’istinto è il meccanismo del corporeo, facessero tutto loro, lui si è lasciato andare finché poi all’inizio non era impotente, ci poteva ben far qualcosa, non avendo fatto nulla per 15 anni, alla fine di 15 anni non ci può più far nulla. Però all’inizio ci poteva fare qualcosa, quindi la domanda più importante della società d’oggi, che poi è la domanda della libertà è si può fare qualcosa per far sì che il numero di persone che a 35 anni sono del tutto schiavi dell’istinto corporeo, siano il numero minore possibile. E il numero di persone che a 35 anni sono il più sovrane possibile sulle pulsioni del corpo siano il numero maggiore possibile. Si può fare qualcosa? In altre parole l’uomo non è liberabile di botto, quando è diventato del tutto non libero, però il diventare non liberi è un processo nel tempo, all’inizio sono libero, poi sempre di meno, alla fine sono libero quasi 0. È possibile il processo opposto, esercito la mia libertà, divento sempre più libero, sempre meno passibile di diventare non libero. Basta dire all’uomo quando ha 20 anni devi esercitare lo spirito per non cadere nella trappola del corpo? no, la predica se è fatta da 2000 anni, i risultati anche nel clero tra l’altro, si vedono! Se la predica, il moraleggia mento non serve, che cosa serve? Serve unicamente se tu fai l’esperienza che aprire l’anima verso lo spirito, verso la creatività ti dà più gioia, più contentezza e quindi sempre più voglia di farlo, che non andare verso il corporeo solo che andare verso il corporeo è più facile, l’altro ti devi un po’ sforzare e proprio per questo ti dà più gioia. Quindi noi abbiamo una società di persone che si sforzano sempre di meno, e quindi diventano sempre più prigioniere dell’istinto corporeo e sempre più infelici.
I. c’è una pubblicità, una società, un insieme di realtà intorno a noi, che tende a costruire proprio quel tipo di uomo, perché è pieno di questo tipo di uomo.
A. e perché i poteri costituiti, la società vuole un uomo non libero? Perché l’uomo non libero lo puoi manipolare come vuoi tu!
I. infatti basta accendere la televisione e trovi queste realtà.
A. sì, buon appetito a tutti!
Sabato 2 ottobre 2010, sera
Eravamo arrivati al paragrafo 9 del IX capitolo: Dobbiamo quindi distinguere: 1) le possibili disposizioni soggettive che sono atte ad elevare a motivi certi concetti e rappresentazioni; 2) i possibili concetti e rappresentazioni che sono in grado di influenzare la mia disposizione caratterologica in modo da provocare un atto volitivo. Quelle costituiscono le molle, i moventi dicevamo, questi gli scopi della moralità. Quindi il traduttore usa un po’ tutta la terminologia. I sinonimi di motivo sono: lo scopo, il fine, la meta, l’obiettivo, (proposito), traguardo, ognuno ovviamente con sfumature leggermente diverse. A partire dal par. 10 affrontiamo i moventi, quindi ciò che c’è di duraturo, di una certa costanza, la realtà di un individuo che lo determina, lo spinge a volere certe cose, a non volere altre cose, a fare certe cose e a non fare altre cose. In altre parole ciò che una persona vuole, viene deciso da come lui è, e ciò che una persona non vuole viene deciso a seconda di come una persona è vuole certe cose, non vuole altre cose, fa certe cose non fa altre cose. Esaminiamo tutti i livelli, tutto ciò che c’è nell’individuo, per capire che cosa nell’individuo lo muove, lo spinge, lo impulsa, lo porta a volere qualcosa o a non volere qualcosa. (IX,10) Possiamo trovare le molle della moralità indagando di quali elementi si componga la vita individuale. E adesso cominciamo questi elementi. (IX,11) Il primo gradino della vita individuale è il percepire, ognuno di noi è una somma di percezioni avvenute, le percezioni sono anche esperienze, una esperienza è una serie di percezioni fatte, e ogni serie di percezioni, ogni esperienza, ogni vissuto, ogni accadimento della vita ha comportato una serie di echi interiori. Il piano della percezione ci riporta la realtà corporea, il corpo, e in base alle percezioni sorge un mondo, le rappresentazioni, i sentimenti, il mondo dell’anima. E poi vedremo che il terzo livello della vita individuale, dell’essere dell’individuo è la compagine, il tipo di spirito che lui porta in sé. Quindi corpo, anima o animo, e spirito, i concetti e i pensieri che si è fatto, tutto il passato dell’evoluzione del suo spirito in quanto spirito pensante. Quindi la gestione passata del pensare comporta in un individuo un certo tipo di spirito, magari più allenato al pensare o meno allenato al pensare, a seconda di quello che è successo o non è successo nel suo spirito. E adesso stiamo esaminando questi tre livelli della vita individuale. (IX,11) Il primo gradino della vita individuale è il percepire, e precisamente il percepire dei sensi attraverso il corpo. Siamo qui in quella regione della nostra vita individuale in cui la percezione, senza intervento di sentimenti e di concetti, si trasforma immediatamente in volere. La molla dell’uomo, in questo caso, si può designare senz’altro come impulso. Quando una percezione senza alcuna riflessione automaticamente, irriflessamente mi porta a un’azione, è un’agire istintivo, è un’agire d’impulso. In italiano si dice: ho agito d’impulso! Senza riflettere. È possibile che una percezione direttamente eliscita tira fuori da me un’azione? È possibile! È un agire automatico. Sento la sveglia suonare, gli do una botta sopra per farla star zitta! C’è una mediazione della riflessione là in mezzo? Se è diventata abitudinaria la cosa, lo faccio senza…
I. ?
A. speriamo! Perché se ogni volta ci devo riflettere le cose sarebbero… Quindi vedo un semaforo rosso, automaticamente premo il freno, ci rifletto? È un automatismo, ed è proprio importante che il guidare diventi automatico nel senso giusto e non nel senso sbagliato. Perché se uno ci dovesse riflettere, i tempi di riflessione sono talmente stretti che succederebbero un sacco di incidenti. Quindi c’è un tipo di volere, di agire che è automatico, automatico al 100% non esiste, perché un minimo di riflessione, per lo meno concomitante c’è sempre, altrimenti sarei un sonnambulo, un automa, un robot. I riflessi pronti significa che si reagisce senza riflettere, quindi i riflessi del corpo non della riflessione, i riflessi veloci, cioè l’arco di tempo tra la percezione e la reazione è ridotto al minimo, e questo è un modo di agire automatico. E nella misura in cui l’essere umano agisce automaticamente in campo morale, si chiama il tatto morale. Uno ha incamerato modi di comportamento giusto e lo fa automaticamente; uno che si è abituato a mangiare secondo il galateo non lo fa per riflessione, lo fa automaticamente. Incontro una persona gli do la mano, ci devo riflettere? No, è possibile che diventi del tutto automatico. Percezione-azione, quindi l’azione viene direttamente causata, se vogliamo dire, dalla percezione: percezione-azione. Senza mediazione di una riflessione interiore, che faccio che non faccio? quindi è chiaro che in questo automatismo, dove è la percezione a decidere ciò che faccio, c’è un minimo di libertà, partiamo da un minimo di libertà e andiamo verso un massimo di libertà. Naturalmente la percezione è l’elemento corporeo e in tutto ciò che è corporeo, la natura ha la funzione conducente, e quindi gli spazi di libertà sono minimi, poi scendiamo all’anima la libertà è media, è passibile di essere di più o di meno, poi scendiamo allo spirito e lì la libertà è massima. (IX,11) Il primo gradino della vita individuale è il percepire, e precisamente il percepire dei sensi. Siamo qui in quella regione della nostra vita individuale in cui la percezione, senza intervento di sentimenti e di concetti, e di rappresentazioni, si trasforma immediatamente in volere. La molla dell’uomo, il movente, in questo caso, si può designare senz’altro come impulso. E alcune traduzioni hanno istinto. Il tedesco dice … In modo particolare in campo di pedagogia, ma anche fuori della pedagogia, Steiner distingue, quindi usando 7 termini tedeschi, (che adesso vogliamo vedere un pochino è importante che ci capiamo come li traduciamo), per indicare 7 gradini, 7 qualità del volere, e dice: c’è un volere dove è determinante il corpo fisico, e quel volere lì lo chiama instinct in tedesco, e noi abbiamo la parola istinto, e lì andiamo bene, quando uno agisce in base ad un impulso del corpo fisico è istinto. Corpo eterico, quindi il vitale, il vitale non è così cogente come il fisico, è un pochino meno cogente, e questo lo chiama lui in tedesco il triip. Il corpo astrale, lo chiama begirde, begirde è chiaramente la brama ed è l’impulso volitivo specifico del corpo astrale che è l’inizio dell’anima. L’istinto è l’impulso volitivo specifico del corpo fisico. A metà strada tra istinto e brama in italiano, dobbiamo trovare una parola in italiano che sia a metà strada tra l’istinto che è massimamente cogente, di fronte all’istinto non si sgarra; la brama invece la posso vincere molto di più. Cosa c’è a metà strada tra l’istinto e la brama? In italiano non c’è una terminologia così precisa.
I. di solito è pulsione.
A. pulsione, però non è una parola recepita nel linguaggio comune. Io proporrei impulso, istinto-impulso-brama. Tutti e tre sono corpi, corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale. Adesso l’anima, il fenomeno volitivo specifico dell’anima è il motivo, il motivo è neutro, non comporta ancora di per sé che mi spinge a farlo, e il motivo lo abbiamo chiamato anche lo scopo, il fine. Qualcuno mi propone uno scopo, mi propone un fine, un traguardo, una meta. Io lo colgo nell’anima questo fine, però se mi spinge ad agire dipende da questa mia realtà corporea e dipende dalla realtà dello spirito. Allora abbiamo: 1) istinto, 2) impulso, 3) brama, questa sfera mediana che a seconda di come le cose stanno sopra e come stanno sotto si determina o non si determina: 4) il motivo, e qui nello spirito abbiamo 5, 6, e 7. L’impulso di volontà specifico del Sé spirituale, l’impulso di volontà specifico dello Spirito vitale e l’impulso di volontà specifico dell’Uomo spirito, stando alla terminologia della scienza dello spirito. La terminologia tedesca è … che è il desiderio,
I. ?
A. eh no! Una brama mi costringe parecchio di più che non un desiderio, tanto è vero che noi al desiderio ci appiccichiamo addirittura qualifiche del tipo “un pio desiderio”, che sta a dire che il desiderio non ti costringe a nulla. Verrebbe a voi di dire “una pia brama?”
I. un’avida brama.
A. un’avida brama quello sì! Desiderio … poi … l’intenzione, ho l’intenzione non soltanto il desiderio ma l’intenzione, una volontà un pochino più forte. E qual è la completezza assoluta della volontà che poi per natura sfocia nell’azione? La decisione … Ci calza qui il motivo musicale? È neutro, non è né istinto, né impulso, né brama, non è né desiderio, né intento, né decisione, ma è un motivo. Che ti piaccia o non ti piaccia lo decidi tu, a seconda di come sei nella tua triplice realtà corporea, e di come sei nella tua triplice realtà di spirito. L’uomo spirito è fatto tutto di decisioni, il pensare puro è fatto tutto di decisioni, la rosa sia e la rosa fu! La carota sia e la carota fu! L’uomo sia e l’uomo fu! Pensare è agire, è creare.
I. l’anima è complessiva, cioè non c’è la divisione in tre in questo caso, cioè anima senziente, anima razionale, anima cosciente.
A. attento, la scienza dello spirito distingue tre aree nell’anima, allora devi prendere il motivo come la sfera centrale dell’anima, e adesso come la fai andare verso l’alto e verso il basso, e allora hai il tre.
I. il rapporto verso la corporeità e verso lo spirito.
A. ecco, quindi è un motivo che mi è o simpatico o antipatico, quindi il rapporto col motivo di simpatia o di antipatia, ti dà la trinità nell’anima, però questo non serve ancora per sapere se questa volontà in bilico poi di fatti, sfocia nella decisione di far qualcosa, perché per agire bisogna arrivare alla decisione, se non si arriva alla decisone si resta dentro all’anima, nel recinto, nel circolo chiuso.
I. dopo dipende dal successivo sviluppo se va in una direzione o nell’altra, e quindi allora si definirebbe in quel caso lì.
A. bene ci siamo! Vedete che qui c’è la parola impulso però, impulso è la parola mediana tra istinto e brama via, quindi impulso sta per tutte e tre le realtà del corporeo, dove l’azione è causata direttamente da una percezione. Però l’impulso sta al posto dell’istinto, sta al posto dell’impulso, sta al posto della brama. Una brama fa parte di una causalità all’agire senza intervento della riflessione, senza intervento di una rappresentazione. Vedo un piatto di spaghetti belli e cotti bene ho la brama di mangiarli! La brama di mangiarli, c’è una riflessione tra la percezione e la brama? No, non ci deve essere una riflessione, la percezione tira fuori subito la brama direttamente.
I. la brama davanti a un piatto di spaghetti è immediata come reazione, ma in italiano diciamo anche la brama dei quattrini, la brama del denaro, la brama del guadagno, e lì a volte intercorre comunque una temporalità.
A. no, no sta attenta, hai fatto un salto mortale. Quando io vedo un piatto di spaghetti, io sto parlando di una percezione, se la brama del denaro mi viene suscitata, io ce l’ho potenzialmente perché ce l’ho nell’anima la brama del denaro, però la brama di denaro che io ho nell’anima non è un fatto di percezione. Nel momento in cui io vedo un gruzzolo, la percezione mi tira fuori questa brama direttamente, però qui stiamo parlando della percezione, la brama è una realtà dentro all’anima, viene messa in movimento in questo caso, direttamente dalla percezione.
I. il cleptomane che di fronte a un oggetto, subito, è un automatismo.
A. cero, agisce automaticamente, è chiarissimo che il cleptomane ha un minimo di libertà, se addirittura si può parlare di libertà.
I. magari lì entra meno la brama, è più giusto automatismo forse? Perché è libero da brama credo?
A. non abbiamo soltanto la brama in questa realtà del non libero, abbiamo anche l’impulso, agisce d’impulso, addirittura arriva a certi livelli che agisce d’istinto. Però se li prendi tutti e tre, la qualità d’istinto, la qualità d’impulso e la qualità di brama vedi che c’hai.
I. una differenziazione.
A. ecco, di un mondo complesso, però ti orienti in tre qualità di cogenze, di movente che sono un po’ diverse. L’istinto un minimo in assoluto di libertà, la brama rispetto all’istinto già di più e l’impulso a metà strada. Tenendo presente che il linguaggio è fatto anche di accordo, il linguaggio significa accordarsi su una certa parola che significato gli vogliamo dare. Perché se noi ci accordassimo di usare la parola impulso qui al posto di brama, andrebbe bene basterebbe però accordarsi. Però così come noi ci siamo accordati, e anche in altre lingue, l’istinto va bene dove intendiamo dire che c’è un minimo di libertà, dove ce n’è un pochino di più va bene la parola impulso, la pulsazione, il pulsare. Dove c’è un pochino più di libertà parliamo di brama, e ognuno che conosce la lingua italiana, soprattutto se è la sua lingua materna, dice sì, sì è giusto, ti capisco. Perché il linguaggio è fatto per capirsi, capisco cosa intendi dire. Se invece uno mi confonde l’istinto con la brama, l’istinto sessuale della procreazione, se uno me lo chiama una brama, allora il livello massimo di istintualità, la procreazione quindi il raddoppiamento del proprio corpo, deve avere un minimo di libertà, perché? Perché gli spiriti che vogliono incarnarsi, concedessero all’essere umano uno spazio di libertà maggiore, sarebbero buggerati e non potrebbero imporre la loro volontà. Ora, il fatto che, nell’istinto della procreazione, che è un istinto non è una brama, c’è un minimo di volontà, è giusto che sia così perché il massimo di volontà ce la mette chi si vuole incarnare, e non vuole che la volontà di colui che è incarnato si metta contro, e allora le cose vanno bene. Voglio dire se uno chiama l’istinto, l’istinto alla sopravvivenza lo chiama brama, uno che conosce il linguaggio italiano dice no, un istinto è un istinto non è una brama! E filosofare, pensare è l’arte di distinguere sempre più chiaramente e non fare generalizzazioni.
I. vorrei sapere che ruolo gioca l’abbandono in questo funzionamento del volere e dell’agire umano? l’abbandono per il perseguimento, per esempio nel mondo animico degli scopi per il raggiungimento delle mete, per la nascita del desiderio e affinché maturi la decisione.
A. ma sta attento, tu dici vorrei sapere qual è la funzione dell’abbandono, presupponi che tutti siamo d’accordo su che cos’è l’abbandono?! Cosa intendi tu per abbandono?
I. ho formulato male la domanda, cioè in tutto ciò che cos’è l’abbandono?
A. l’abbandono è la decisione di rinunciare alla propria volontà, di abdicare la propria volontà, è la decisione di non avere un volere proprio e di lasciare che agisca il volere altrui, questo è l’abbandono. Con questo non è detto che l’abbandono sia buono o sia cattivo, non c’entra nulla, è il concetto di abbandono. Il concetto di abbandono è la decisone della volontà di non volere nulla, quindi di abbandonarsi, di lasciarsi alla volontà dell’altro.
I. probabilmente per ignoranza alla materia io ho formulato male la domanda, ma io pensavo a delle cose che mi urge comprendere, per esempio, la frase del Cristo “sia fatta la volontà del Padre” e tutto ciò che io immagino, penso, percepisco della sua vita, è un’azione di abbandono, era questo il senso della mia domanda. In queste 7 qualità del volere, e in questo nostro percorso, mi domando in questo senso che ruolo abbia l’abbandono?
A. il vangelo che più di tutti gli altri, in cui il Logos si riferisce al volere del Padre cosmico, è il vangelo di Giovanni e nel vangelo di Giovanni non c’è mai la categoria dell’abbandono. Io voglio fare la volontà del Padre, quindi per fare la volontà del Padre bisogna conoscerla e bisogna volerla, quindi non è un rinunciare alla propria volontà. È come quando io dico io voglio compiere quello che il mio Io superiore, che poi è l’espressione del Dio Padre in me, si è ripromesso di conquistarsi in chiave di evoluzione sempre successiva. Quindi l’abbandono, prima di tutto nel vangelo non c’è, come viene inteso normalmente se tu adesso da quello che mi pare di capire, c’è dietro una matrice culturale cattolica, è un’esortazione a restare bambini. Resta abbandonato come il bambino alla volontà, alla saggezza della mamma, perché tanto lei ci pensa molto meglio. Ma il senso dell’evoluzione non è di restare bambini, è il ridiventare come bambini presuppone che sia finito di essere bambini, per ridiventarle devo aver finito di esserlo. Quindi il ridiventare bambini presuppone di essere stati adulti. Quindi se non diventerete come bambini significa, diventare come bambini in libertà presuppone di aver finito di esserlo, perché se non ho finito di esserlo non posso diventarlo. Quindi adesso in senso psicologico, da quello che io sono competente in causa, chi conosce la mia bibliografia, tutto il discorso sull’abbandono è profondamente antilogico, anticristico, perché allora uno non si assume nessuna responsabilità se si abbandona, fai te! Tanto tu sai far meglio! E osannare l’abbandono è comodismo, è molto comodo, abbandonarsi alla grazia divina è poltroneria spirituale. Noi l’altra sera abbiamo parlato della volontà di Dio, forse tu non c’eri? Abbiamo parlato proprio di questo, della volontà di Dio, dove si trova, poi quando la gente si è accorta che la volontà di Dio non è che si può percepire così, allora hanno detto guarda che si esprime nel superiore. Poi passato un altro po’ di tempo dice ma quello lì è un farabutto come me, perché si deve esprimere la volontà di Dio più in lui che in me? e io ho portato l’esempio di una mente molto sveglia che in Germania faceva scomodo a certi religiosi, siccome gli faceva scomodo, per obbedienza gli hanno detto che la volontà di Dio su di te è che tu vada in Sudafrica, in modo che il fastidio se l’è tolto, per volontà di Dio. (IX,11) Questo modo di determinazione del volere, che originariamente è proprio soltanto della vita dei sensi inferiori. Alla percezione di qualche avvenimento del mondo esterno, senza oltre pensare e senza che alla percezione si colleghi in noi un particolare sentimento, facciamo seguire un’azione; così avviene ordinariamente nelle relazioni convenzionali con altri uomini. Ho parlato della stretta di mano, ho parlato del saluto, lui dice alla percezione di qualche avvenimento del mondo esterno, percepisco un avvenimento è quando percepisco un mendicante, magari un cieco seduto sulla strada che mendica, io reagisco dandogli qualcosa, oppure ignorandolo, ci rifletto? Può essere diventata una reazione automatica, che si ripete sempre tale e quale, abitudinaria. … (IX,11) Così avviene ordinariamente nelle relazioni convenzionali con altri uomini. La molla, il movente, di quest’azione si chiama tatto o gusto morale. Modi di comportamento morale diventati automatici. Quanto più spesso si compirà questo immediato scatenarsi di una azione per effetto di una percezione, tanto più l’uomo si mostrerà capace di agire esclusivamente sotto l’influsso del tatto, cioè il tatto diverrà una sua disposizione caratterologica. Che lo determina con la forza dell’automatismo ad agire in un certo modo, quindi siamo a livello dell’impulso, che quasi quasi diventa come un istinto. Tanto è vero che noi diciamo istintivamente, ho reagito istintivamente, istintivamente non si riferisce all’istinto, c’è un’altra parola in italiano che si riferisce all’istinto – istintualmente –. Che genio del linguaggio è che mi distingue tra – istintivamente e istintualmente –. Istintivamente vuol dire automaticamente, ma però non determinato da un istinto corporeo. Quando sono invece determinato da un istinto corporeo, della riproduzione, dell’istinto sessuale ecc… agisco istintualmente, vedete come cesella il linguaggio? Il pedofilo agisce non istintivamente, ma istintualmente, che è diverso. Istintivamente significa automaticamente, ma non è un istinto corporeo a determinarmi, invece istintualmente è un istinto corporeo a determinarmi.
I. mi chiedevo come mai parlava anche dei sensi superiori? A cosa si riferisce, ad altri impulsi che riguardano il corpo eterico e il corpo astrale? L’ultima frase: “questo modo di determinazione del volere, che originariamente è proprio soltanto della vita dei sensi inferiori, può però venir esteso anche alle percezioni dei sensi superiori”, questa istintualità, quindi nello schemino che hai fatto lì abbiamo detto che l’istinto si manifesta come esigenza del corpo fisico, quindi questi istinti superiori forse li dobbiamo riferire ad altri ambiti che sono il corpo eterico e il corpo astrale?
A. e poi le tre realtà dello spirito.
I. e quindi questo porta a un buon senso nelle relazioni umane al tatto e al gusto morale? A questo si riferisce?
A. il concetto è che l’anima si muove tra una sfera di non libertà che è il corporeo e una sfera di libertà che è lo spirituale. Questa sfera di non libertà, ha una non libertà massima che è il pulsare dell’istinto, una non libertà un pochino più libera che è l’impulso, una non libertà un pochino più libera che è la brama, però sono tutte e tre forme di non libertà, la brama non è libertà, quando io agisco in base alla brama non sono libero, però un pochino più libero, tanto è vero che posso vincere la brama molto di più che non vincere l’istinto, di fronte alla brama sono un pochino più libero che non di fronte all’istinto, però la brama è un fattore di non libertà, è cogente. Invece quando io desidero qualcosa sono libero, posso desiderarlo o posso non desiderarlo. Quando io addirittura ho intenzione di far qualcosa, sono ancora più libero, perché dipende da me propormi, l’intenzione è il proposito, dipende da me, mi sono riproposto – proposito – di far qualcosa. In questa esperienza del proposito sono del tutto libero, ancora più libero quando si tratta di decidere, decido o non decido? Sono massimamente libero. Quindi nel desiderio è l’inizio della libertà, il proposito sono ancora più libero e nella decisione è il massimo di libertà, perché la decisione è proprio il fatto di scegliere qualcosa, di fare qualcosa. Qui la libertà diventa reale perché allora quello che io voglio, lo faccio, quando prendo la decisione, e quando io faccio quello che voglio e quello che voglio lo faccio, sono libero. Il concetto di anima è che l’anima si muove nel mezzo di queste tre sfere, tre modi di non libertà – brama, impulso e istinto – e questi tre modi di libertà che sono – il desiderio, il proposito e la decisione –. Più l’anima si rivolge verso il corporeo, quindi vuol fare esperienze prodotte dal corporeo e meno diventa libera, più l’anima si rivolge verso lo spirito e più diventa libera.
I. a livello di desiderio e di proposito è previsto anche il non agire.
A. certo, perciò soltanto quando decido sono massimamente libero, perché allora lo faccio veramente, finché ho soltanto il desiderio mi manca, non sono ancora del tutto libero perché ci manca la decisione.
I. forse interpretando quello che diceva lui, mi sembrava che lui volesse dire che alle volte potesse venire una serie di automatismo anche nell’ambito della libertà, come attitudine, come impostazione caratterologica. Ieri si parlava di scegliere tra bene e bene, a forza di abituarsi a essere libero, può darsi che venga istintivamente anche il comportarsi liberamente, e quindi avere un proposito, una decisione, un desiderio, è un po’ un controsenso no?
A. eh sì, mentre lo dicevi te lo stavi rimangiando! Riprendiamo l’affermazione che hai fatto all’inizio: può darsi che più uno si abitui a essere libero e meno diventa libero perché si abitua. La libertà non diventa mai un’abitudine.
I. ma se io in piena libertà decido di fare sempre e solo il bene.
A. a questo livello evolutivo non lo puoi fare, sei fuori dal reale.
I. è chiaro che lo scelgo e quindi automaticamente, in teoria, dovrei fare e desiderare solo il bene, farmi propositi di bene, decidere di agire verso il bene, ma automaticamente.
A. no, c’è il concetto, se vi interessa leggete “L’etica a Nicomaco” di Aristotele, che è il testo fondamentale dell’etica di Aristotele, e lì trovate lunghe disquisizioni sulla virtù, sull’abitudine. Lui dice quando il bene morale diventa un’abitudine non è più libero, quando la libertà diventa un’abitudine non è più libera. Quando il pensare creativo, creatore diventa un’abitudine non è più libero. Uno sta imparando a suonare il pianoforte, uso un paragone sennò la cosa diventa troppo difficile, mentre sta imparando non c’è nulla di automatico, perché sta ancora imparando, a forza di suonare diventa il suonare tutto automatico, non è più libero.
I. comprendo il fatto dell’automatismo, ma nel momento in cui si interpreta è necessaria la presenza dell’io perché sennò non interpreti nulla, scorrono le dita ma c’è un creare nell’io, nella coscienza quando si esegue, quindi ci vuole una massima presenza ed è sempre nuova, non è mai la stessa, le dita in automatico vanno.
I. ?
A. più elementi diventano automatici e più aumenta la mia possibilità di dedicare la mia libertà e la mia attenzione a livelli sempre più alti. Se io devo stare attento alle mosse che faccio mentre guido la macchina, non ho la libertà di prestare attenzione a tutti i minimi particolari della conversazione con la persona che mi sta accanto. Nella misura in cui la libertà di attenzione per il guidare non è più necessaria, perché il guidare diventa automatico, entra in gioco un livello di libertà superiore. Avendo automatizzato un livello inferiore che è quello del guidare la macchina, si apre uno spazio di libertà superiore che è quello di gestire in piena libertà, in piena attenzione, che altrimenti non ci potrei dedicare attenzione, la conversazione cioè l’interazione tra due persone. Tanto è vero che a tutti deve essere capitato, che io dico a quello che sta al volante finiamo la conversazione, concentrati sulla guida, sennò andiamo all’altro mondo tutti e due e addio conversazione. Cioè il concetto è che non c’è mai il problema di automatizzazione di certi livelli, perché i livelli che si discoprono alla libertà, sono infiniti, e quindi più livelli inferiori vengono automatizzati e meglio è, perché creano la base, il presupposto, la conditio sine qua non, per dedicare la libertà, dedicare l’attenzione, la creatività a livelli sempre superiori. Prendiamo il rapporto tra il linguaggio e il pensiero, la parola e il pensiero, i tre gradini dell’umano sono: l’ergersi e il camminare, il parlare e il pensare, quindi il parlare e il pensare sono due livelli completamente diversi. Se non ci fosse un minimo di automatizzazione nel linguaggio, saremmo costretti a fare talmente attenzione al linguaggio che non potremmo contemporaneamente muoverci pienamente liberi nel pensare. Quindi ben venga che ci sia, ed è nella logica verso l’umano, che ci sia una certa automaticità nel linguaggio, in modo da potersi concentrare, poter concentrare la libertà e l’attenzione, a un livello che concede molta più libertà che non il linguaggio, perché nel linguaggio non siamo liberi. Nessuno di noi è libero di decidere secondo la testa sua cosa una parola significa, o che tipo di uso del linguaggio è corretto o è sbagliato. Tanto è vero che in Germania dicono ma come fa quello lì che non è la sua lingua materna, deve in qualche modo concentrarsi sia sul linguaggio perché c’è poco di automatismo, (tra l’altro vale anche per l’italiano io gli automatismi gli ho persi parecchio, devo star così attento all’italiano mi vengono continuamente parole tedesche,) sia al livello del pensiero. E loro dicono è una gran bella cosa, perché allora ci costringi ad essere attenti, ad essere liberi, ad essere vivaci in tutti e due gli elementi, e quindi aumenta l’attenzione. Aumentando l’attenzione, aumenta la tensione e aumenta anche il godimento. Però il senso dell’automatizzazione del linguaggio è che, così come che si automatizza il guidare la macchina, è possibile concentrare la libertà, esperire la libertà dovuto al fatto che ci si concentra su un altro livello, su livelli molto superiori. Perché scusate tra il godere la libertà, concentrarmi sulla libertà dei movimenti, se è tutto incentrato sui movimenti possibili o non possibili nel guidar la macchina, che godimento c’è? e’ molto meglio se è tutto automatico e se va tutto bene. Se sono costretto a concentrarmi, sta attento, ecc… i segnali non imparati ancora bene devo ecc… vivo un minimo di libertà, vivo un massimo di libertà quando sto guidando la macchina, se il guidare la macchina si è automatizzato e ho la possibilità di concentrarmi, senza rischiare di fare un incidente, sui pensieri che l’altro mi sta dicendo e che io dico a lui. E c’è una differenza tra persone che veramente hanno, forse il tedesco in media ci sono le eccezioni però, soprattutto al nord della Germania, è tutto automatizzato, proprio non esiste il guidatore che pensa a quello che fa, e quindi si può concentrare in tutto e per tutto in processi di pensiero, in quello che si sta scambiando. Se si va verso il sud, aumenta il numero di persone dove bisogna stare attenti, guida e stiamo attenti!
I. però l’automatismo è buono solo quando riguarda il fisico, perché poi nelle altre sfere l’automatismo non esiste, cioè io non ho un automatismo di pensiero o di sentimento, per cui è buono e mi serve quando io automatizzo le azioni del mio corpo che serve che siano automatiche, poi basta no? Perché poi io non ho più un margine in cui l’automatismo può essere positivo.
A. sta attento, noi abbiamo detto che tutto ciò che è corporeo è non libero per natura, quindi automatizzarlo va secondo natura. Tutto ciò che spirituale, lo spirito è per natura libero, quindi se io automatizzo lo spirituale, c’è il fenomeno dei pensieri fissi, è un fenomeno contro natura, che è la sua natura. Quindi essendo contro natura mi impoverisce, perché il non libero non è il senso della vita, il non libero è la base, è la condizione necessaria, ma l’elemento bello, l’elemento di godimento, l’elemento di espansione, l’elemento di evoluzione è il libero. Se io ci metto il non libero addirittura lì, allora vado contro l’umano, impoverisco l’umano, distruggo l’umano. che poi tu dica che questo è un male morale, va benissimo, ma a noi non interessa adesso moraleggiare subito troppo alla svelta. Perché l’umano consiste di una base che non è libera, perché se fosse libera non è una base affidabile, per essere affidabile deve essere non libera, deve essere di natura, e su questa base non libera costruisce la libertà. quindi per tutto ciò che è spirituale è naturale di essere libero, di muoversi liberamente in tutte le direzioni. (IX,12) La seconda sfera della vita umana è il sentire. Abbiamo parlato del percepire, adesso entriamo nell’anima, il sentire, il sentimento e ci occupiamo del fenomeno quando è un sentimento, un sentore, il sentire a spingermi ad agire, a volere qualcosa e ad agire, quindi il sentimento è un fattore animico non corporeo, poi entreremo nella sfera spirituale. Alle percezioni del mondo esterno si riannodano determinati sentimenti. Questi sentimenti possono divenire molle di azione. Spinte all’azione, impulsi all’azione. Quando vedo un uomo affamato, la mia compassione che è un sentimento, può diventare molla per il mio agire. Gli do qualcosa da mangiare, però in base alla compassione, quindi qui intende dire, vedo un uomo affamato e non è direttamente la percezione, ma il sentimento di compassione che suscita in me, se ho compassione gli do qualcosa da mangiare, quindi si frappone il sentimento tra la percezione, e il volere e l’agire si frappone il sentimento. Tali sentimenti sono, per esempio, il pudore, l’orgoglio, il sentimento dell’onore, l’umiltà, il pentimento, la compassione, il sentimento della vendetta o della gratitudine, il pietismo, la fedeltà, il sentimento dell’amore e quello del dovere*. Un’esposizione completa dei principi della moralità (dal punto di vista del realismo metafisico) si trova in Eduard von Hartmann: Fenomenologia della coscienza morale. In tedesco è un tomo così grosso, l’ho trovato una volta in antiquariato per 10 marchi a quei tempi, questo Eduard von Hartmann era un ufficiale che si è rotto il ginocchio, e ha passato tutta una vita a scrivere una biblioteca. Ora il mondo dei sentimenti è proprio la realtà meno sistematizzabile che ci possa essere, non se ne può fare un sistema. T’arriva il tedesco, lui siccome non c’ha null’altro da fare per il ginocchio, ti fa tutta una metafisica, tutta una distinzione, proprio un sistema dei sentimenti, che poi in tedesco gli mancano le parole per tanti sentimenti che invece il linguaggio italiano ce li ha. Quindi è un fenomeno interessantissimo questo tomo di Hartmann. Perciò Steiner ne elenca un paio e dice andiamo avanti, comunque il mondo dei sentimenti è molto complesso, un sentimento mi può spingere a fare qualcosa, un sentimento di rabbia mi spinge a sbattere la porta e andare via, o dargli un calcio nel sedere, rabbia un sentimento. (IX,13) Finalmente il terzo gradino della vita è quello del pensare e del rappresentare. Per pura riflessione una rappresentazione o un concetto possono divenire motivo di azione. Qui si tratta della riflessione, non in base alla percezione, non in base al sentimento ma in base alla riflessione pensante uno si chiede: cosa voglio e cosa faccio? in base alla riflessione, e se lo fa in base alla riflessione si trova nell’elemento del pensare, perché soltanto col pensare posso decidere cosa faccio, cosa voglio. La passeggiata è un concetto, e per riflessione io dico adesso sarà una bella cosa che mi faccio una passeggiata, mi farà bene, mi aiuterà a digerire ecc… Le rappresentazioni diventano motivi, che spingono all’azione, per il fatto che nel corso della vita noi colleghiamo continuamente certi scopi del volere con percezioni che, in forma più o meno modificata, ritornano sempre. Da ciò deriva che, per uomini i quali non siano del tutto privi di esperienza, con determinate percezioni sorgono sempre nella coscienza anche le rappresentazioni, quindi le riflessioni e le rappresentazioni, delle azioni che essi hanno compiuto o visto compiere in casi analoghi. Queste rappresentazioni ondeggiano davanti a loro come modelli determinanti per tutte le successive risoluzioni; divengono parte della loro disposizione caratterologica. Per esempio uno pensa a Francesco d’Assisi, lo prende come modello del suo agire, il famoso “dare il buon esempio”, Francesco d’Assisi ha dato il buon esempio, adesso io di fronte a una situazione mi chiedo cosa faccio, come mi comporto, rifletto, quindi non è una percezione o un sentimento che mi spinge all’azione, ma è una riflessione, sul modo in cui si è comportato Francesco d’Assisi in casi analoghi. Dato che Francesco d’Assisi in un caso analogo al mio si è comportato così, mi comporto, decido anch’io di comportarmi così.
I. fino adesso i casi che abbiamo considerato erano moventi.
A. no, no, sta attenta, io faccio della percezione un motivo, nell’anima c’è sempre un motivo, quindi il fatto che la percezione sia un movente significa che io recepisco come motivo del mio agire un movente. Il movente percezione diventa motivo del mio agire, lo scopo del mio agire, perché l’anima trasforma tutto in motivo, movente è l’istinto, è l’impulso e la brama, però l’anima la deve trasformare in motivo, cioè in scopo, nel voluto. Il motivo è il voluto, lo scopo lo dicevi tu stessa, è il fine. Quindi il movente si pone alla base del volere soltanto se l’anima ne fa un motivo. La brama diventa un motivo poco libero, l’impulso diventa un motivo ancora meno libero, l’istinto diventa un motivo minimamente libero, il motivo puro è libero, perché non è determinato da nessuna delle tre sfere del corpo, e allora lo può desiderare liberamente, può proporselo liberamente, può deciderlo liberamente.
I. ?
A. il movente è soltanto se tu hai un istinto, se tu hai… (IX,13) Infine il terzo gradino della vita è quello del pensare e del rappresentare, e qui va bene concetti e rappresentazioni, di ciò che produce il pensare che non è l’anima, l’anima è il sentire. Per pura riflessione, questo è importante, per pura riflessione questa è la base, la riflessione, io rifletto sul modo di comportarsi di Francesco d’Assisi, però se io copio Francesco d’Assisi, purché ci sia la riflessione, non è ancora del tutto libero, perché copio un altro.
I. perché abbiamo adoperato prima rappresentazione, adesso dice pensare è rappresentare.
A. pensare è riflettere, io rifletto sul modo di comportamento di Francesco d’Assisi in una data situazione, se io rifletto sul modo di comportamento di Francesco d’Assisi in una data situazione devo avere l’immagine, la rappresentazione di come si è comportato, perché di un comportamento o c’ho la rappresentazione o non so come si è comportato, non so se ha agito mansuetamente, muovendo le braccia lentamente, oppure… Quindi ogni riflessione su un comportamento comporta un lato di rappresentazione, anche una sequenza di immagini sono rappresentazioni, la rappresentazione non è soltanto un’immagine singola. (IX,13) Per pura riflessione una rappresentazione di un modo di comportarsi, o un concetto possono, il concetto della pietà per esempio, il concetto della compassione. Io posso agire in base al sentimento di compassione, invece posso riflettere sul concetto di compassione, che la compassione è una virtù, e in base al concetto di compassione agisco con compassione, agisco per compassione, quindi è la riflessione sull’importanza morale della compassione a farmi agire e non il sentimento della compassione.
I. ?
A. Sta attento, se io sento compassione, io non mi chiedo se quello è un farabutto, se invece io rifletto sull’importanza della compassione, tramite il riflettere è incluso, il riflettere sul fatto la merita o non la merita la compassione? Perché sono nell’elemento della riflessione, del pensare. Se invece io sento compassione, vengo spinto dal mio sentire, indipendentemente che quello è un farabutto e magari se ne approfitta. Se invece io rifletto, è compreso nel riflettere, se lui la merita la compassione, perché una compassione che è veramente una virtù deve agire a ragion veduta, altrimenti non è compassione, altrimenti è lasciarsi abbindolare.
I. faccio un’altra riflessione che potrebbe essere questa, però ritorno nel discorso tuo, nel senso che non mi chiedo se è un farabutto, dico semplicemente se me lo chiede, se questo mi tende la mano, farabutto o no, è perché io gli devo restituire qualcosa che gli ho rubato, è sempre un pensiero che mi sta dietro.
A. una riflessione, quindi non agisci in base a un sentimento, agisci in base a una riflessione, tra l’altro una riflessione molto complessa quella che hai fatto! Non da poco.
I. anche se la mia compassione gli può essere utile ed essere efficace per aiutarlo, oppure di farlo rimanere bambino.
A. se tu agisci in base a questo tipo di riflessione, agisci in base a questo tipo di riflessione, a noi adesso non interessa sapere se questo tipo di riflessione è intelligente o non è intelligente. Stiamo studiando la differenza tra essere spinti da un sentimento e agire in base a una riflessione. Quando sono spinto da un sentimento sono enormemente meno libero, che quando agisco in base a una riflessione, questo è il concetto, stiamo parlando della libertà, e stiamo parlando dei livelli maggiori o minori di libertà. E l’affermazione fondamentale è dire sta attento, che quando agisci in base alla percezione, addirittura senza passare per il sentimento, sei minimamente libero. Quando agisci in base al sentimento che è il sentimento che ti trascina sei un pochino più libero, che non quando agisci automaticamente in base alla percezione, però sei molto meno libero che non quando agisci in base a un tipo di riflessione, che gestisci tu liberamente, dove decidi tu in base alla riflessione che cosa fare. E poi adesso nel campo della riflessione saltano fuori altre distinzioni, un minimo di libertà in questa libertà maggiore della riflessione e un massimo, anticipiamo il massimo, in modo adesso da avere l’orientamento, il massimo di libertà dove c’è?
I. nella decisione per esempio, di non agire per compassione, perché non sarebbe efficace il mio gesto per il risultato che voglio ottenere.
A. no, il massimo di libertà è quando io invento un’azione che non ha nessun orientamento, perché non c’è mai stata, sì l’intuizione. Invento un modo di comportamento che non copia, quindi che non è non libero, ma è libero in assoluto perché non c’è mai stato, perché se non c’è mai stato è libero in assoluto, lo creo io. Prendiamo la situazione del mendicante al ciglio della strada, si può inventare un volere e un agire del tutto creato dal nulla?
I. che può essere sempre compassione, però scegliendo anche le modalità a ragion veduta.
A. la modalità l’abbiamo sviscerata un pochino. La percezione c’è, adesso io decido di creare una serie di sentimenti, soprattutto una serie di pensieri, e una serie di movimenti e di comportamenti che non ci sono mai stati, sono libero.
I. ?
A. lo devi creare come fai a saperlo?
I. se c’è una percezione, già siamo nell’animico, quindi l’eventuale decisione che andiamo a prendere successivamente è sempre condizionata.
A. no, noi abbiamo detto è possibile che sia condizionata, è la prima cosa che abbiamo considerato, quando è la percezione stessa automaticamente a decidere come io mi comporto c’è un minimo di libertà, l’abbiamo detto! Ma io adesso sto parlando del coso opposto, la percezione c’è ma in me non causa nulla, e adesso decido io cosa penso, cosa sento e cosa faccio. Allora qui davanti dicono ma come faccio io a sapere se questa serie infinita di pensieri, questa serie infinta di sentimenti e questa serie infinita di atti volitivi e di comportamenti non c’è mai stata. Sarebbe come a dire come faccio io a sapere, io sto parlando uso 20 parole in una certa sequenza, come faccio io a sapere se non sono già stati usati nella stessa sequenza? Non troverete mai, una seconda volta due persone che dicono le stesse 20 parole nella stessa sequenza. In altre parole noi non abbiamo la minima idea della passibilità di creazione, della possibilità del creare all’infinito che c’è nel pensare, e nel modo di comportarsi.
I. ?
A. no, non c’è nulla, viene creato dal nulla, ed è escluso in assoluto che qualcun altro abbia fatto la stessa cosa, troppo complessa, ed è escluso in assoluto che io l’abbia fatto, troppo complessa.
I. mi può spiegare l’indifferenza e il ruolo che ha, il posto che ha l’indifferenza in tutto questo?
A. l’indifferenza, aspetta domani dai! La nostra cultura per via di comandamenti, abbandono, intruppamenti, leggi, paure di andare in prigione, paura di far brutta figura, siamo talmente intruppati che abbiamo perso ogni minimo senso, degli spazi infiniti aperti alla creatività, perché non li esercitiamo. Vi faccio un esempio, vedo questo mendicante al ciglio della strada, e io dico non mi sono mai fermato cinque secondi a cercare la connessione con i suoi occhi, non l’ho mai fatto. Decido di fermarmi con un volto pieno di amicizia e cerco il contatto con i suoi occhi, e sto a vedere come i suoi occhi reagiscono al mio sguardo quando mi guarda. Lo so che io non ho mai fatto questa cosa qui! E mi sento un creatore e libero, perché è una cosa che faccio io liberamente e decido io liberamente. Se io non ho mai imparato a godere questi livelli di libertà, la vita è poverella, è misera! Però se io questi livelli di libertà, di creatività li vivo sempre e dappertutto, la vita diventa molto bella, bella, ricca! Stasera dicevano che bello questo tramonto! Nessuno mi proibisce di pensare di fronte a questo tramonto, pensieri che finora non ho mai pensato. C’è un limite ai pensieri pensabili di fronte al tramonto? No, non c’è, quindi noi tutte le nostre energie vengono assorbite dal lavoro, dalle macchine da tutta l’insulsaggine che c’è, e non ci resta più niente di energie per la creatività, e ci lamentiamo che la vita è misera! Però se io di fronte a questo tramonto, tiro fuori nel colloquio con l’essere del sole, con lo spirito del sole, 10, 20 pensieri che non ho mai pensato prima, cosa possibile, vado a cena con una contentezza che mi permette di digerire in tutt’altro modo, che invece di dire sì, sì è un bel tramonto e vado via subito! La libertà significa dai, crea, crea, inventa, tira fuori cose sempre nuove a tutti i livelli. Adesso voi direte e con il mendicante è tutto lì? Lo guardi per 10 secondi, aspettando che lui ti guardi? No, l’ho pensata bene la cosa no? E se son furbo ho pensato, cosa faccio se lui nel momento in cui gli occhi si connettono si sente a disagio ecc… devo averlo pensato sennò non sono libero, sennò reagisco in base alla percezione. Il suo imbarazzo automaticamente tira fuori da me un comportamento, se io l’ho pensato in anticipo, ho già deciso liberamente come mi comporto se percepisco un imbarazzo in lui, e resto libero, perché ho deciso che cosa invento di fronte all’imbarazzo. Se invece lui è contento ho già deciso cosa faccio, se lui mi fa capire che è contento. Ma la gioia, la pienezza della vita è fatta proprio di questa creatività nei rapporti, altrimenti dove vogliamo averla la libertà? la cerchiamo per aria? La libertà è soprattutto creatività nei rapporti, farsi saltare in mente con la fantasia dell’amore cose sempre nuove. Il fulcro di questa seconda parte della filosofia della libertà è la fantasia dell’amore, all’infinito, ci arriveremo è il capitolo 10,11,12,13, la fantasia morale dell’amore. Quindi il bene morale supremo è la creatività della fantasia dell’amore, che tira fuori comportamenti sempre del tutto liberi, e sempre del tutto favorevoli, favorenti e la mia evoluzione è l’evoluzione dell’altro all’infinito. E uno dice bello, bello, bello, siamo nati per vivere da liberi, siamo nati per vivere sempre più creatori, inventare cose. Due persone vivono da uomo e donna e insieme per diversi anni, non si sono mai inventati nulla di nuovo e poi si lamentano, o si stupiscono che va a ramengo, hanno fatto di tutto per mandarlo a ramengo. Un rapporto umano che va bene automaticamente non esiste, perché se va bene automaticamente va malissimo, gli automatismi nei rapporti sono morte, sono prigione, da cui poi si scappa via. Quindi in un rapporto o c’è la creatività dell’amore e allora c’è la libertà veramente che ci si dona a vicenda oppure ci si asfissia a vicenda! E allora si ha voglia soltanto di scappare.
I. sentendo le tue esemplificazioni, volevo fare una riflessione di commento che è questa, probabilmente ci immaginiamo la creatività ad altri livelli, cioè sono certissima che ognuno di noi si è riconosciuto negli esempi che hai dato, e che ognuno di noi è produttore enorme di creatività a questi livelli, cioè mentre tu parlavi e dicevi queste cose, mi rallegravo con me stessa e suppongo che molti altri l’abbiano fatto dicendo ma allora un po’ creativa lo sono anch’io, perché quante volte appunto reazioni del genere mi sono state abbastanza naturali. Quindi credo che a volte e vorrei avere un riscontro in tutti quelli che stanno ascoltando come me, ci sentiamo un po’ spiazzati perché vado a cercare di reperire nella mia esperienza o nelle mie esemplificazioni, qualche cosa di molto più clamoroso, e invece proprio anche nel quotidiano, in tutto quello che concerne la nostra vita di relazione, secondo me, e questo è un elemento che rincuora tutto sommato, molti di noi, tutti noi possiamo riconoscerci dei creativi.
A. di clamorosità ce n’è una sola, o è nel pensare o non esiste, e questa clamorosità si esprime soltanto in un campo oppure non c’è, e il suo campo è il quotidiano, perché altro a disposizione per essere creativi non ce l’abbiamo.
I. ma voleva essere una riflessione rincuorante questa.
A. sì, però ti appellavi anche alla platea per chiedere se c’era qualcuno d’accordo con quello che dicevi.
I. ma io penso che sia abbastanza condivisa ed è questo che mi rincuora.
A. chi vuole l’ultima parola?
I. tu parli di creatività, e hai fatto vedere dei livelli in cui ci sono dei condizionamenti, nel senso che l’azione non subisce una riflessione, ma viene più o meno automaticamente. Allora io mi chiedevo se alla fine come possiamo essere sicuri che un’azione sia libera, e che non sia influenzata, in fin dei conti, dal corpo e dai vari condizionamenti che sono al di sotto. Riusciamo a essere originali, creativi veramente oppure siamo alla fine sempre condizionati?
A. È come la mamma, faccio un esempio, piena di amore che nella sua interazione col bambino piccolo, comincia a far la filosofa: ma chi lo sa se è veramente amore o no? Una mamma che comincia a filosofare in questo modo, ha finito di amare, perché una mamma che veramente ama non ha di questi dubbi! Una libertà, una creatività che vivo veramente, caccia via il dubbio, oppure non è libera! E la voce del cattolicesimo dice questo è orgoglio! Buona notte ci vediamo domani alle 10.
Domenica 3 ottobre 2010, mattina
Una buona domenica a tutti. I due presupposti fondamentali del volere e dell’agire, sono due livelli sono: la mia indole, la struttura caratteriologica, il mio essere, perché per volere qualcosa, per rendere un motivo, uno scopo, un fine appetibile a me, deve entrare in rapporto con il mio essere. La seconda dimensione è il voluto, il volente e il voluto, per questo fenomeno primigenio della moralità che è il volere e l’agire, si presuppongono due cose: il volente e il voluto (non sono termini particolarmente appetibili, però per il pensare serve ogni tanto orientarsi in un modo preciso, il volente è colui che vuole, e il voluto che una cosa possa venir voluta o no, dipende dal volente, dalla persona, una persona certe cose le vuole volentieri, altre cose non le vuole volentieri, a seconda di com’è, quindi il mio essere, la mia indole, il mio carattere, la disposizione caratterologica la chiama la filosofia della libertà, ciò che io sono). Il voluto è il fine, lo scopo, la meta, ciò che si vuol raggiungere. Il volente, cioè l’essere umano che vuole qualcosa, nel volente ci sono tre stati: può essere un tipo nel quale prevale la realtà del corpo, e allora vorrà il Chianti migliore di questo mondo, la bistecca migliore di questo mondo, le sue volizioni si rivolgeranno particolarmente al corpo, che c’è di male? Padronissimo, siamo liberi, stia a vedere se passando tutta una vita fissato sul corpo gli basta, se gli basta gli basta scusate! Nessuno ha il diritto di sindacare non dovrebbe bastarti! Io ho il diritto di farmi sentire soltanto quando lui con questa sua struttura caratteriologica impedisce la mia libertà, allora mi faccio sentire per difendere la mia libertà, non per moraleggiare: tu dovresti essere altrimenti, lui ha il diritto di essere com’è, basta che mi lasci in pace. L’unico dovere che abbiamo è di non ledere la libertà altrui, nel momento in cui una persona non lede la libertà di nessuno, ha fatto tutto il suo dovere, altri doveri non esistono. Quindi il dovere è negativo, non esiste un dovere positivo, che una persona deve fare qualcosa, questi son tutti moralismi, non esiste qualcosa che una persona deve fare, l’unico dovere, l’unico comandamento è negativo. Gli unici doveri legittimi sono proibizioni, non comandamenti, ogni comandamento è immorale perché distrugge la libertà dell’individuo; invece le proibizioni ci vogliono perché vanno proibite tutte le azioni che ledono la libertà. Nella misura in cui un individuo si proibisce tutte le azioni che non le vuole quindi non le fa, le azioni che ledono la libertà ha fatto tutto il suo dovere. Una mamma che ha messo al mondo un bambino, non ha doveri? Le è proibito ledere la libertà del bambino, e se il bambino nella sua libertà dipende in tutto e per tutto dalla mamma, la mamma lede la libertà del bambino se non fa certe cose che vanno fatte dalla mamma. Quindi l’argomentazione morale pulita è sempre e soltanto in base alla libertà, perché la libertà è l’essenza dell’umano. Quindi la morale comune è soltanto negativa, vanno proibite tutte le azioni che secondo noi, e bisogna intendersi, perché l’uno dice no questa azione non lede la libertà, l’altro dice sì che la lede. Quindi il senso del parlamentare è di discutere insieme, e bisogna poi decidere a maggioranza, il centro, il fulcro di questo discutere è dobbiamo intenderci, dobbiamo accordarci per maggioranza, quali azioni vogliamo proibire e quali azioni non vanno proibite. E vanno proibite soltanto le azioni in rapporto alle quali una maggioranza ritiene che ledono la libertà e quindi vanno proibite, tutto il resto è permesso. Quindi una morale propositiva è immorale, addirittura di comandamenti. I cosiddetti comandamenti sono una buggerata perché non sono comandamenti, sono proibizioni: non rubare, non ammazzare.
I. onora il padre e la madre?
A. se noi tornassimo indietro al testo ebraico originale, tutti e dieci sarebbero puliti soltanto se noi li esprimessimo in negativo. Non esiste un’azione che si possa comandare, non è possibile comandare un’azione.
I. allora sarebbe evita di mancare di rispetto al padre e alla madre.
A. sì, e allora devi dire quali azioni lederebbero il rispetto, quali azioni sarebbero di disonoramento, allora le devi specificare. Poi tieni presente che nella prima metà dell’evoluzione il nostro Mosè è prima della svolta e non dopo, perché noi continuiamo a dimenticare che siamo in evoluzione. Parliamo della moralità di mille anni prima di Cristo come se fosse valida tale e quale, sarebbe come dire che la morale per un bambino di dieci anni sarà la stessa di quando avrà quaranta anni di vita! La prospettiva dell’evoluzione non va mai persa di vista, nella fase dell’infanzia dell’umanità certo che prevede una conduzione dal di fuori, perché l’umanità è ancora bambina. Però se l’umanità resta sempre tanto bambina quanto ai tempi di Mosè, allora che ci stiamo a fare al mondo se non andiamo mai avanti? Sarebbe come una persona la cui compagine interiore a dieci anni resta tale e quale a quarant’anni, allora che è cresciuto a fare? non è cresciuto per nulla! E noi ci trasciniamo una morale che va bene per bambini, una morale da adulti deve limitarsi, tra l’altro in base a discussioni dove siamo tutti uguali, dove il parere di ognuno ha lo stesso peso del parere di un altro e dove si decide a maggioranza, una morale per adulti si limita a individuare le azioni che vanno proibite. E il motivo per cui vanno proibite è che la maggioranza è convinta che queste azioni ledono la libertà, solo per questo motivo vanno proibite. Perché se un’azione non lede la libertà va benissimo, non va proibita ci mancherebbe altro! Il volente, vi ho prospettato un tipino oggi non tanto raro, che incentra tutta la sua moralità sul culto del corpo, la cosa più importante è il corpo, e ho detto basta che mi lasci in pace, faccia quello che vuole. Voi direte no, non basta il corpo, te come fai a sapere che non basta? Perché te l’hanno detto e ci hai creduto? O ci hai provato? Se lo sai perché ci hai provato lascia provare anche lui, che allora cercherà qualcosa di più oltre al corpo, per esperienza propria perché non gli basta, è meglio che non castrarlo, costringerlo dicendogli oh te il corpo no, no, no! Gli porti via l’unica cosa che c’ha, e poi non c’ha più nulla scusa! Cominciate a vedere la nostra paura della libertà? che tutta la nostra società è talmente di costrizione da parte dello Stato, da parte della Chiesa, che noi della libertà ne abbiamo soltanto paura, lascialo fare! poi scopre ah io c’ho anche un’anima, c’è qualcuno che comincia a scoprire che c’è anche un’anima oltre al corpo. Nel corpo ci sono i bisogni, nell’anima ci sono le voglie, poi lo spirito che ci siamo detti è il creare. Appagare i bisogni del corpo, appagare le voglie dell’anima e appagare la voglia dello spirito di creare, quale dei tre è più morale? Più morale significa che è moralmente più alto, più buono, più bello, più vero, più umano. L’esperienza singola di appagare un bisogno corporeo c’ho fame e mangio, l’esperienza singola di appagare una voglia dell’anima ho voglia di fare una conversazione con l’amico e parlo un’ora con l’amico. L’esperienza di appagare un bisogno dello spirito del creare, creo una poesia. Ripeto la domanda: io faccio l’esperienza di appagare un bisogno del corpo, faccio l’esperienza di andare incontro a una voglia dell’anima, quale dei tre è moralmente più buono nel senso che comporta il massimo di pienezza dell’umano? Perché il concetto del bene morale, bene è tutto ciò che concede all’uomo di vivere maggiormente in pienezza; male morale è tutto ciò che diminuisce l’umano, lo decurta, lo impoverisce.
I. ma è chiaro che è il creare!
A. moralmente più alto e perché?
I. perché dà gioia.
A. no, no l’essenza della moralità è la libertà e l’essenza dell’immorale, del moralmente cattivo è la non libertà. Se salta fuori che nel creare io vivo il massimo di libertà è il massimo di moralità, è il massimo di bene morale, quindi l’argomentazione è sempre in base alla libertà. quando io appago un bisogno del corpo c’è un minimo di libertà, perché questo appagamento devo, non posso non farlo, invece nel creare non devo nulla perciò sono massimamente libero. Ma quando devo andare al gabinetto devo, devo, devo! Cose fondamentali, io ve le metto lì in nuce come avvii di pensiero, naturalmente vanno svolti in tutte le direzioni, però all’uomo d’oggi gli mancano proprio orientamenti fondamentali di pensiero, son spariti non ci son più, il pensare è diventato così povero ci mancano gli orientamenti. Perché voi se prendete questo orientamento e se è pulito vi serve veramente per tutta la fenomenologia, allora dico io in questa esperienza che sto facendo, in questa azione che sto compiendo qual è il vissuto di libertà o di cogenza che sento dentro di me? Quello è il fattore morale, la realizzazione della libertà, o la cogenza, la costrizione che mi limita nella libertà. quindi il bene morale supremo è il creare in piena libertà, di moralmente più buono, di moralmente più alto non esiste. Ditemi voi qualcosa di moralmente più bene il Padreterno, m’è parso di capire che deve esistere un Padreterno all’inizio di tutto questo patatrac, lo chiamano Dio, il bene sommo che deve essere in Lui è di essere Creatore, di meglio non c’è, e se voi pensate che c’è qualcosa di meglio trovatelo! Vi scervellerete fino a rompervi la bozzola metafisica ma non lo troverete, non c’è nulla di meglio, di più realizzante l’umano che il creare in piena libertà, a tutti i livelli non soltanto come musicisti o come pittori o come poeti. A tutti i livelli come mamma, come figlia che ha una mamma impossibile che proprio non si può o viceversa. Quindi il volente se si coglie l’uomo che vuole qualcosa, se si vive che tutto il resto, lo dicevate voi che è giusto, tutto ciò che è elemento corporeo, tutto ciò che è elemento animico è morale nella misura in cui diventano due strumenti musicali perfetti per rendere possibile la creazione, allora vengono assunti in questa moralità. Perché lo spirito umano che crea per aria non esiste, deve creare dentro a un’anima, deve creare dentro a un corpo, quindi la dimensione del corpo e dell’anima sono i due strumenti musicali, le due condizioni necessarie per il creare. Adesso ho in mano il criterio per sapere come voglio trattare il mio corpo, come voglio trattare la mia anima, è morale ogni trattamento del corpo ed è morale ogni trattamento dell’anima che rende il corpo e l’anima sempre più in grado di rendere possibili le creazioni dello spirito. Qual è lo stato ideale del corpo per creare nel pensare? Qual è il corpo ideale per la creazione? Un corpo sano, il concetto della salute, e il corpo non è sano quando mangio troppo poco allora sono costretto a fare attenzione al corpo e non posso creare liberamente. Il corpo non è sano quando mangio troppo per dire soltanto un esempio, ma allora qual è il giusto per me che non sia troppo o troppo poco? Devo sperimentare ma è un conto se non faccio mai l’esperienza del creare col pensare, artistica di un essere divino che è sempre all’inizio della creazione di mondi nuovi che non ci sono, se non ho questo criterio, cioè il criterio per sapere quando il corpo è sano, quando l’anima è sana è lo spirito. Per sapere se uno strumento è ben accordato devo suonare, quindi per sapere se un corpo è uno strumento ottimo in mano allo spirito, perché lo spirito umano non può pensare senza la percezione, e perché la percezione sia pura, non inquinata da un corpo che gli fa male o non sano, da un’anima piena di problemi, il corpo deve essere sano per dare allo spirito una percezione pura, oggettiva. Quindi soltanto nella misura in cui noi facciamo l’esperienza di ciò che chiamiamo spirito abbiamo il criterio, ognuno individualmente per sapere se il mio corpo è sano, la mia anima è sana, oppure no, il mio corpo mi mette i bastoni fra le ruote quando mi metto in un processo di creazione, di creatività all’infinito.
I. io personalmente rivolgo la mia anima verso lo spirito, la mia intenzione è l’evoluzione, ma c’è il mio corpo che mi crea un impedimento, parliamo ad esempio di emicranie, che io combatto da anni, faccio di tutto per riuscire a comprendere perché questa emicrania mi prende, l’emicrania non permette di avere la giusta lucidità per pensare ed è una conflittualità continua. A quel punto come si fa? Se il corpo effettivamente ti impedisce, cioè ti crea questa non possibilità.
A. tu adesso non è che vorresti una ricettina, in base alla quale si risolvono tutti i mal di testa? Prima di tutto quanti mal di testa una persona si piglia o non si piglia è anche una questione di karma, cioè prima di nascere ogni individuo dice: questa volta voglio lottare un po’ di più che non l’ultima volta col corpo, questa volta voglio lottare un po’ di meno e concentrarmi a… Quindi avere da lottare col corpo in sé e per sé non dice nulla, può essere una cosa bellissima, perché soltanto lottando conto l’ostacolo si diventa più forti. Però la tua domanda è non sia mai, potrebbe essere che io mi piglio molti più mal di testa che non quelli che il mio io superiore aveva previsto. Allora come saltano fuori i mal di testa che sarebbero o addirittura che sarebbe meglio se venissero evitati. I mal di testa saltano fuori quando la testa si riempie un pochino esuberantemente di materia perché è troppo vuota di spirito. Perché se tu la testa la riempi di spirito questo spirito scoglie la materia, l’abbiamo detto i fenomeni di coscienza sciolgono il vitale, quindi l’emicrania crea nel cervello, crea nell’organo della testa fenomeni di digestione, cioè minimi frammenti di materia che andrebbero digeriti nello stomaco, salgono e lì sono frammenti di pesantezza infinita perché per il cervello è finissimo e ti danno mal di testa. Ora per non far salire alla testa questi fenomeni di digestione, bisogna che i fenomeni di coscienza siano talmente forti che sciolgano tutto ciò che è di vitale. L’abbiamo detto ieri che il polare fondamentale del biologico, della fisiologia è il nervo e il sangue, nei vasi sanguigni c’è il massimo di vitalità, il sangue è pura vita, perché tutti i cibi si trasformano in sangue e il sangue vitalizza tutto ciò che c’è nell’organismo. La differenza fra l’occhio, il nervo ottico, l’occhio, la retina ecc. tutto ciò che è l’occhio nell’uomo e l’occhio dell’animale, la differenza fondamentale è che nell’animale ci sono i vasi sanguigni, ci sono fenomeni di sangue molto più accentuati che non nell’uomo. Nell’uomo il sangue gioca nell’occhio un ruolo molto meno importante, quindi l’occhio dell’uomo è molto più morto, essendo molto più morto permette questa fluorescenza, fosforescenza come la candela che si consuma, che permette di vedere le immagini, che permette i fenomeni di coscienza. Quindi l’emicrania è fenomeni metabolici che si trasportano nella testa, cosa che magari tu hai un medico che ha studiato tutta la medicina e non lo sa da dove viene fisiologicamente l’emicrania. Nella misura in cui una persona dice allora devo accentuare i fenomeni di coscienza, e il fenomeno di coscienza puro è proprio il pensare, il pensare che ti libera, cioè la coscienza è calata troppo dentro al corpo, subisce i fenomeni del corpo, bisogna far di tutto per tirare la coscienza un pochino fuori dal corpo. Quindi una persona con emicrania è una persona che, a parte il karma quello che si è ripromessa come lotta con l’elemento corporeo, può dirsi cercherò di essere meno concentrata, meno preoccupata, meno assillata dalla realtà del corpo.
I. anche le bollette fanno parte dei problemi del corpo.
A. certo le bollette le devi pagare, il soldo lo devi guadagnare con l’attività del corpo. Se le bollette mi danno mal di testa a non più finire, o io trovo il modo di dire voglio vivere in modo tale che mi servono il meno soldi possibile, oppure i mal di testa me li tengo. Non si può avere tutto nella vita, non si può godere soltanto il corpo e avere tutto il resto. Allora ho fatto un riassunto del volente, il volente è composto di corpo, di anima e di spirito. A seconda di com’è il suo corpo, a seconda di com’è la sua anima e a seconda di com’è il suo spirito, la sua disposizione caratterologica, la sua indole lo renderà adatto a volere qualcosa. Il voluto è la cosa che si vuole, il fine, lo scopo, il motivo. Però attenti, il motivo in italiano, in tedesco non si può dire per che motivo lo fai? Per che motivo lo fai? Non è il voluto, non è la cosa che vuoi, è una complessificazione ulteriore, perciò l’italiano esprime i fenomeni dell’anima in un modo più complesso, ha una terminologia più complessa che non il tedesco. In tedesco il voluto e il motivo sono la stessa cosa, invece in italiano c’è una sottigliezza tale di linguaggio sull’animico che noi parliamo di un secondo fine, cos’è il secondo fine? Vuoi fare questo ma non è proprio quello che vuoi, hai un secondo fine, attraverso questo vuoi arrivare a quell’altro. Quindi nella traduzione che parla di motivi, in italiano è un po’ fuorviante per che motivo, per che motivo lo fai? cosa vuoi? Quindi la domanda cosa vuoi? è molto complessa, il tedesco va più diretto vuoi o non vuoi? Il motivo è quello che vuole, lo vuoi o non lo vuoi, no ma c’hai un secondo fine, allora il primo non è il fine, in italiano fine e motivo non sono la stessa cosa, stiamo dando per scontato che il linguaggio italiano è più complesso, anche perché l’animo italiano è un pochino più complesso che non quello tedesco, l’animuccia tedesca è più semplice, non ha primi scopi e secondi scopi, primi motivi e secondi motivi, il motivo vero, allora c’è il motivo non vero, il tedesco picchia più diritto. Volevo soltanto evidenziare che c’è una problematica in questa, se io avessi tradotto la filosofia della libertà avrei preteso che tutti gli italiani diventino filosofi, perché è un testo di filosofia e l’avrei chiamato il voluto.
I. ?
A. la motivazione è quella che mi motiva, è il movente, fa l’azione del motivare, vedi che la parola lo dice, la motivazione è ciò che fa l’azione del motivare, ciò che mi motiva, quindi la motivazione fa parte del volente, fa parte già della sua struttura di corpo, di anima e di spirito. Anche la parola motivazione ci dice che il linguaggio italiano è complesso, invece se io dico il voluto, io ho fatto filosofia scolastica alla Gregoriana di Roma tra l’altro, i Gesuiti ci hanno dato di quelle inquadrate sono teste non da poco. Se io dico il voluto benché naturalmente è un termine un po’ filosofico però è preciso, il voluto è il voluto punto e basta.
I. detto così sembra riferito al passato quello che ho voluto, che ho già voluto.
A. sì certo, ma nel momento in cui tu stai passando all’azione, il volere e l’agire tu non passi all’azione se non hai voluto.
I. ?
A. se l’atto del volere è veramente compiuto passi all’agire, quindi soltanto il voluto è la causa dell’azione, se non l’ho ancora voluto non si muove nulla. Perché quando la mamma fa la pappa per il bambino, l’atto di volontà è già avvenuto o no? Se non è avvenuto non fa nulla, nel momento in cui si muovono le mani l’ha voluto, e continua a volerlo però l’ha già voluto, ha già preso la decisione di volontà di farlo. Quindi la de-cisione spezza l’indecisione e mi conduce nella direzione di ciò che voglio, quindi devo averlo voluto.
I. qual è la ragione per cui fai questo?
A. lo faccio a ragion veduta, vedi veduta, perché se la ragione non l’ho ancora veduta non c’è, abbiamo in mano un linguaggio non da poco. Però siccome il linguaggio è il depositato di secoli e secoli di teste che hanno pensato in questo linguaggio italiano, sulle ali del linguaggio noi ricostruiamo i pensieri che sono stati alla base. Quindi è il linguaggio che ci insegna a pensare, il bambino comincia a pensare soltanto dopo aver cominciato a parlare, prima la posizione eretta è il camminare, poi il parlare e poi il pensare. E noi stiamo pensando in italiano non stiamo pensando in tedesco, le cose che stiamo dicendo qui stamattina in italiano, se voi pensate che si possono dire in tedesco, vi sbagliate del tutto! sarebbero le stesse cose e tutt’altre cose, perché la lingua è un’altra, e un’altra lingua induce a cammini di pensiero che son del tutto diversi. E io vi ho evidenziato stamattina la ricchezza e quindi la complessità del linguaggio italiano, soprattutto per quanto riguarda fenomeni dell’anima, e vi dicevo il motivo ci crea problemi come traduzione. Se invece dicessimo il voluto non si scappa.
I. ?
A. il problema del motivo è che il motivo è almeno metà, se non due terzi movente, questo crea un problema enorme, per quale motivo lo fai? Perché sono incavolato, quello è il movente non è il motivo, invece in italiano diciamo per quale motivo lo fai? Perché sono arrabbiato, ma sono arrabbiato non è il motivo, il fine che voglio raggiungere, il voluto o lo scopo, è il movente. Quindi io ripeto non ho nulla contro tradurre per lo meno ogni tanto con motivo, vi evidenzio soltanto che la parola motivo in italiano crea problemi, se noi pensiamo pulitamente. Per quale motivo lo fai? Il motivo viene da prima, come se il motivo fosse soltanto alla fine ciò che voglio raggiungere, eh no, per che motivo lo fai? Significa cosa ti spinge? E ciò che mi spinge viene da dietro, c’è già in partenza ciò che mi spinge, invece il motivo come qui viene tradotto deve essere la fine, lo scopo, ciò che voglio raggiungere, io non lo sto facendo perché voglio raggiungere la rabbia, la rabbia c’è già e mi spinge. Tu dimmi adesso, io sto zitto un mezzo secondo – cosa non da poco –, dimmi tu cosa significa quando chiedi a una persona: per che motivo lo fai? È complesso, però al centro c’è cos’è che ti spinge?
I. cos’è che ti spinge e anche cos’è che ti attira però, perché nel motivo c’è anche la meta, c’è anche quello che lui vuole ottenere.
A. no, allora non dici per che motivo lo fai, ma dici che vuoi? A quale scopo lo fai?
I. il motivo, perché lo fai.
A. perché lo fai? È il voluto, certo che lo so che questo voluto non è stabilito nel linguaggio italiano, io voglio dire questa categoria ci manca in questa precisione e sarebbe meglio se la introducessimo. Se noi ci accordassimo per 20 anni di usare veramente questa parola, diventerebbe una parola normale del linguaggio, questa parola il voluto ci manca, non c’è nulla in italiano che dica, con questa precisione, ciò che una persona vuol raggiungere attraverso un’azione, lo scopo.
I. io sono d’accordo nel senso che ci sono categorie che non si usano in italiano, mi è sembrato di sentire ieri il “già e non ancora”, che mi sembra categoria credo teologica. Quindi sono categorie tecniche, chiaramente oggi non vado in giro a dire “il mio voluto è”, però avevo fatto un esempio dentro di me che non so se calza, in ambito penale si usa – movente –, faccio un esempio tragico: la moglie tradisce una persona e lui la uccide, il giudice poi dice il movente è secondo me il tradimento, ma il motivo per cui lui l’ha fatto è di non essere cornuto, deriso ecc… Quindi il movente è quello che l’ha spinto, il tradimento è quello che già c’è.
A. ma no, il tradimento è una cosa del tutto esterna al suo essere, è la rabbia il movente, quella lo muove! Il tradimento è un concetto.
I. rimane il movente, cioè la rabbia è una cosa che già c’è, rispetto al motivo che è il non essere più arrabbiato, non essere più cornuto, deriso piuttosto che, questo mi sembrava sempre il discorso di quello che già c’è e spinge, rispetto a quello che otterrò – il motivo – e che mi chiama dal futuro.
A. no è troppo confuso, il voluto visto che parliamo di voluto che è un po’ circonvoluto dicono i romani, io andavo al Gianicolo le marionette si imparava il romanesco e una volta c’era uno che diceva uno lo avevano mezzo ammazzato “sono moruto” il voluto è che quello sia moruto, quello vuole, vuole raggiungere che sia morto, quello è lo scopo, e lo dice in un modo centrale è tutto conseguenza del fatto che quello lì sia sparito. Altrimenti se il voluto, ciò che lui vuole fosse di non essere vista come una persona cornuta, deve fare tutte altre cose che non uccidere quello lì, quindi vuole uccidere quello lì se l’azione è quella di uccidere. Quindi nell’azione di uccidere il voluto è l’uccidere, cosa vuole? lo vuole ammazzare. Altrimenti entriamo nella sfera dei secondi fini che è diffusissima, complessissima è tutta sfocata, perché ovviamente uccidendolo vuole raggiungere un’infinità di cose, ma questa infinità di cose non le vuole direttamente le vuole indirettamente questi sono i secondi scopi, i secondi fini, quindi bisogna distinguere tra ciò che un’azione consegue direttamente, quello è il voluto di questa azione, e come conseguenza ci sono tante altre cose ma io non le posso volere direttamente altrimenti dovrei farle tutte direttamente.
I. volevo inserirmi in questa discussione terminologica, facendo presente che quello che sciocca nel voluto è il fatto che viene usato e viene proposto e mi pare molto adeguatamente in questo contesto, come termine “filosofico” perché ci serve a creare due categorie.
A. un termine di precisione scientifica.
I. infatti, faccio presente che abbiamo nella lingua due termini: – contenente e contenuto – che non ci scioccano più, anche se contenuto è esattamente un participio come voluto. Perché non ci scioccano più? Perché ormai sono diventati banalizzati.
A. sono recepiti nel linguaggio comune, il linguaggio comune non è banale è il linguaggio comune banalizzato è un moraleggiare, banale è una categoria morale, non barare.
I. io non baro, utilizzo un termine in uso.
A. è un termine non pulito, banale è un termine morale significa di basso valore.
I. no, no vuol dire reso comune nella lingua.
A. posso continuare? La seconda sfera è quella del sentimento, dell’anima, un sentimento è il movente che mi spinge a compiere un’azione. Adesso andiamo un po’ più in alto (IX,13) Finalmente il terzo gradino della vita diciamo dei contenuti dell’individuo è quello del pensare e del rappresentare quindi siamo al livello dello spirito che pensa e poi in base a percezioni crea rappresentazioni. Per pura riflessione una rappresentazione o un concetto per esempio un’immagine di comportamento, un’immagine di un’azione è una rappresentazione, quando io ho l’immagine di un modo di comportarmi in una data situazione è una rappresentazione, ho l’immagine di un comportamento, è una rappresentazione. Per pura riflessione ci rifletto una rappresentazione o un concetto la bontà, l’aiuto ai bisognosi, voglio compiere un’azione di aiuto a un bisognoso, aiuto è un concetto, bisognoso è un concetto. Per pura riflessione una rappresentazione o un concetto possono divenire motivo di azione, intende dire movente, perché qui siamo nella fase dei moventi i motivi verranno dopo, vedete come il linguaggio continua indietro e avanti in italiano. Le rappresentazioni diventano motivi diventano moventi, le rappresentazioni diventano parte del volente per il fatto che nel corso della vita noi colleghiamo continuamente certi scopi del volere l’aiuto reciproco per esempio, con percezioni che, in forma più o meno modificata, ritornano sempre. Cioè queste percezioni diventano rappresentazioni abitudinarie di modi di comportarsi, l’aiuto reciproco diventa le rappresentazioni diventano motivi per il fatto che nel corso della vita noi colleghiamo continuamente certi scopi l’aiuto lo scopo di aiutare del volere con percezioni il modo concreto di aiutare, percezioni che poi creano rappresentazioni che in forma più o meno modificata, ritornano sempre. Da ciò deriva che, per uomini i quali non siano del tutto privi di esperienza, l’esperienza dell’aiutare per continuare con questo esempio con determinate percezioni percepisco una persona che ha bisogno di aiuto, sorgono sempre nella coscienza anche le rappresentazioni delle azioni che essi hanno compiuto o visto compiere in casi analoghi. Ho un concetto, una rappresentazione dell’aiutare perché ho vissuto tante situazioni in cui ho aiutato, ho vissuto tante situazioni in cui sono stato aiutato, mi si è aiutato, ho letto la biografia di Francesco d’Assisi, ho rappresentazioni di come lui sia stato un uomo che ha sempre aiutato ecc. C’è tutto un bagaglio di rappresentazioni, di immagini di comportamento riferiti al concetto di aiutare, allora nel momento in cui percepisco un essere umano che ha bisogno di aiuto, automaticamente sorgono queste rappresentazioni di modi di comportamento, di come ci si comporta di fronte a una persona che ha bisogno. Queste rappresentazioni ondeggiano davanti a loro a queste persone come modelli determinanti per tutte le successive risoluzioni; divengono parti della loro disposizione caratterologica, diventa un comportamento abitudinario, fa parte dell’indole, del carattere di una persona. A quest’altro tipo di molla del volere di movente del volere che viene a far parte del volente possiamo dare il nome di esperienza pratica. Quindi il volente, ogni umano volente ha oltre a tante altre cose un’esperienza pratica, cioè una somma di rappresentazioni, di modi di comportamento che sono diventati abitudinari e perciò fanno parte del volente, della persona che si propone di volere qualcosa e di fare qualcosa. L’esperienza pratica si trasforma gradualmente nel puro agire con tatto, senza più riflessione, senza più rifletterci, l’agire per tatto è senza più rifletterci, diventa automatico. Questo si verifica quando determinate immagini tipiche di azioni si sono così strettamente unite nella nostra coscienza, sono talmente diventate parti del volente, di me, della mia indole, del mio carattere che in dati casi noi passiamo immediatamente dalla percezione al volere, saltando al di là di ogni riflessione fondata sull’esperienza. Quindi la riflessione c’è stata nel passato, ora non c’è più, a forza di aver fatto la stessa riflessione in questa situazione che faccio ogni volta mi sono detto che faccio? Ho fatto la stessa cosa, che faccio? Ripeto la stessa cosa, che faccio? Ripeto la stessa cosa, a un certo punto agisco automaticamente senza più chiedermi che faccio, non c’è più nessuna riflessione, agisco automaticamente. (IX,14) Il gradino più alto della vita individuale è il pensare concettuale puro, abbiamo il volente in quanto spirito, il pensare concettuale puro senza riguardo a un determinato contenuto percettivo, e senza riguardo a ciò che c’è già dentro la mia anima come voglie, come desideri, no, guardo al concetto dell’azione, è un’azione in sé buona o cattiva ecc? puramente il concetto. Noi determiniamo il contenuto di un concetto per pura intuizione, estraendolo dalla sfera ideale, prendiamo il concetto più puro che ci sia, però vi avverto è anche il più difficile che ci sia, il concetto di libertà. Allora mi chiedo prima di volere questa cosa, questa azione e prima di compierla questa azione mi chiedo, però me lo posso chiedere soltanto in chiave di pensiero puro, mi rende libero o no? sono libero in questa azione o no? Devo guardare al carattere immanente di questa azione indipendentemente dalle mie voglie, cosa c’è nella mia anima, cosa c’è nel mio corpo ecc. puramente guardando a ciò che questa azione per sua natura realizza nell’umano. Se realizza un frammento di libertà, è un’azione moralmente buona la voglio. Se realizza un frammento di non libertà è un’azione moralmente cattiva non la voglio. Però guardo col concetto puro dell’azione, usando il concetto di libertà guardo puramente all’azione, e non c’entra nulla ciò che conseguo per il mio corpo o per la mia anima, cosa viene fatto al mio spirito. Quando arriviamo al volere sotto l’influenza di un concetto riferentesi ad una percezione cioè di una rappresentazione, allora è questa percezione che ci determina attraverso il pensare concettuale. Ma quando agiamo sotto l’influenza di intuizioni, intuizioni pure la molla del nostro agire è il pensare puro è il puro pensare forse è ancora meglio, cioè è il puro concetto di libertà che mi muove. Voglio fare questa azione perché mi riprometto un frammento in più di libertà, il puro concetto di libertà, e quindi questo presuppone che so per lo meno in parte, cosa sia la libertà, come mi vivo quando faccio l’esperienza di essere creatore e libero, e come mi vivo quando faccio l’esperienza di essere non creatore e non libero. Ma quando agiamo sotto l’influenza di intuizioni, pure di concetti, la molla del nostro agire è il pensare puro il puro pensare. Poiché in filosofia si ha l’abitudine di chiamare ragione la pura facoltà del pensare, l’intelletto questo che lui traduce come ragione, in italiano io lo chiamerei il pensare, così è giustificato di chiamare ragione pratica la molla morale e caratteristica di questo gradino. la traduzione che ho in mano io la molla morale e, quella è va cancellata, la molla morale caratteristica di questo gradino. Quindi la ragione teoretica vuole cogliere la realtà delle cose, la ragione pratica è la ragione che ragiona e che mi dà ragione quando compio qualcosa a ragion veduta, e qual è la ragion veduta? La ragione veduta dal mio pensare per cui compio questa azione, la ragione che io vedo nel compiere questa azione è che mi rende più libero, è un frammento di libertà, e questa è la ragione per cui la compio. E la ragione pratica è la ragione del pratico quindi dell’agire, non soltanto del capire il mondo, ma dell’agire nel mondo. Quindi c’è una ragione intellettiva e una ragione pratica, e agire a ragion veduta significa agire in base alla ragione, non in base a impulsi cechi, non in base a cogenze ma in base all’intuito, al pensare.
I. l’animico mi conferma la verità che ho colto con il sentimento della libertà dentro.
A. mentre compio l’azione e dopo che l’ho compiuta, perché io dico: voglio questa azione, compio questa azione perché in questa azione voglio vivere un frammento di libertà. se sarà così o no, lo devo appurare, lo devo percepire.
I. volevo riuscire a capire più chiaramente che ruolo svolge la percezione del sentimento che viene in soccorso poi al lavoro creativo.
A. l’anima, l’animico come tu lo chiami, è sempre l’eco dello spirito.
I. perché quando uno è giovane prima che impari a riconoscere la libertà come concetto puro, prima la sente e poi.
A. no, no non è vero, è vero in un certo senso l’opposto, il giovane vive molta più libertà, la vive molto più pienamente che non la persona più adulta, perché quella è entrata in tanti meccanismi di non libertà che non sa neanche più. Quello che tu adesso ci vuoi far dire, e fa parte del discorso, è che per la libertà non importa nulla ciò che faccio, e non importa neanche la modalità esterna. Per la persona libera che cerca la libertà, e che sa che la libertà, la creatività è soltanto nei pensieri, soltanto i pensieri possono essere del tutto liberi, tutto il resto non può essere del tutto libero, i pensieri di una persona son del tutto liberi, ognuno di noi pensa quello che vuole. L’esperienza della libertà è di dire: vogliono che faccia questo, vogliono che faccia quest’altro non mi importa nulla ciò che faccio, l’importante è che ogni cosa che io voglio, il volere mio, ciò che io voglio non è mai la cosa che io voglio, ma nell’essere creatore nel compiere questa azione, allora posso compiere tutto quello che volete voi, non mi importa nulla. E adesso sto compiendo un’azione, però quello che io voglio non è la materialità dell’azione, il corporeo dell’azione, ma è la qualità del mio spirito mentre agisco. Se io accompagno qualsiasi azione, anche quella di pulire il sederino di un bambino, con pensieri di creazione artistica, vivo la gioia come eco, ogni secondo, vivo la gioia di essere creatore. E questa qualità di creatività la si può volere e realizzare in ogni azione; allora una persona è libera soltanto nella misura in cui il voluto è la creazione libera in ogni azione, l’essere liberamente creativi in ogni azione. A quel punto lì sono libero di compiere tutte le azioni che volete voi, non mi rendono mai libero e quindi son contento di fare quello che vuole l’altro, perché lo faccio con la creazione dei miei pensieri, con la creatività dei miei pensieri. Se invece una persona non vive o vive quasi nulla di questa creatività è costretta a volere altrimenti non trova mai di volere qualcosa di suo, di volere quello che vuole lei, e diventa un problemino per gli altri. Quindi la persona libera vuole tutto e nulla, vuole solo creare e quello è sempre possibile, allora si è veramente liberi. Perché finché una persona vuole qualcosa non è libera, ne ha bisogno, quindi volere qualcosa è un bisogno, non è un frammento di libertà. Volere la creatività artistica dello spirito, se veramente la voglio la posso sempre realizzare, e sono libero, e non mi importa nulla di quello che faccio o che devo fare.
I. ?
A. no, mi interessa la creatività, l’essenza di ciò che faccio cos’è? ciò che creo come spirito e la gioia e il mio amore per questa creazione, questa è l’essenza di ogni azione, se ci manca non è un’azione umana, è un frammento di automatismo. La maggior parte delle azioni che noi compiamo non sono azioni umane, perché ci manca l’elemento specifico dell’umano che è la creatività artistica del pensare.
I. a parte la creazione artistica non mi vengono altri esempi.
A. ti ho parlato della mamma che pulisce il sederino al bambino non è un esempio?
I. come fa a essere creativa la mamma che fa questa azione?
A. nei suoi pensieri.
I. il pensiero deve pensare che sta facendo un’opera d’arte? che sta creando qualcosa?
A. no, le vere mamme sono sparite, non ci sono più! (IX,14) Di questa molla del volere ha trattato, più chiaramente di tutti, Kreyenbuhl. Io considero l’articolo da lui scritto su questo argomento come una delle più importanti produzioni della filosofia contemporanea, e più precisamente dell’etica. Kreyenbuhl chiama apriori pratico quindi intuizione che non parte da qualcosa che già c’è, crea qualcosa dal nulla, apriori pratico, crea qualcosa dal nulla. crea il suo modo di essere mamma in questo momento quando pulisce il bambino dal nulla, questo modo di essere mamma è una creazione della sua fantasia morale, non c’è mai stata prima. Poiché in filosofia si ha l’abitudine di chiamare ragione, ragione intellettiva e ragione pratica la pura facoltà del pensare, così è giustificato di chiamare ragione pratica il movente morale caratteristico di questo gradino. La ragione pratica è la facoltà del pensare in campo morale, la ragione pratica è la facoltà del pensare in campo morale, la facoltà di pensare di escogitare comportamenti morali, la facoltà di escogitare intuizioni morali detto ancora meglio. Come mi comporto con questo tipo? Che gli faccio? Inventalo il comportamento hai la facoltà della ragione pratica, hai la facoltà del pensare capace di creare modi di comportamento, modi di interazione, modi di colloquio e pensieri da rivolgere all’altro. I pensieri che tu vuoi rivolgere all’altro in questa situazione creali. L’altro è un depressivo tale che minaccia di suicidarsi, la ragione pratica, il pensare in quanto facoltà di escogitare, di creare qualcosa di nuovo, mi dice quali pensieri posso creare che possono aiutarlo? Il pensiero che genero dentro di me, il pensiero che creo dentro di me, il pensiero che penso, che la natura umana non gli manca nulla, ha tutto il necessario per svolgere in ogni situazione la sua evoluzione in positivo. Anche se dovesse morire non è l’ultima parola, anche se si toglie la vita non è l’ultima parola, avrà la possibilità di imparare. Io penso accanto a lui questi pensieri, da dove vengono? Dalla fantasia creatrice dell’amore, è una creazione dal nulla, è pura liberà, pura creazione libera.
I. ?
A. i pensieri vengono dalla conoscenza, e la conoscenza da dove viene? Il pensare è l’origine assoluta del mondo! Non ha un’altra causa, cos’è che può causare il pensare? Lo spirito pensante è la causa prima, vedi Aristotele. Lo spirito pensante causa tutto il resto, crea il mondo, crea tutto, ma chi può creare lo spirito pensante? Un altro spirito pensante, sennò chi? La filosofia non è la disciplina che studia le cause, è la disciplina che studia le cause prime, il primo inizio, il primo inizio è sempre lo spirito che pensa e che ama e che crea mondi. Vi chiedo di nuovo come volete andare oltre lo spirito che crea? Qualcosa di ancora più creante, ancora più all’origine dello spirito che crea, ditemi che cos’è? non esiste, en archè en o Lògos nel primo inizio, l’inizio di tutto è il Logos, lo spirito che pensa in modo creativo, artistico e crea, una creazione dal nulla perché prima non c’era questa creazione.
I. ?
A. perché in Italia se tu dici soltanto creazione, la maggior parte dei cattolici e ce ne sono ancora un paio, pensano alla creazione della Chiesa cattolica, del Dio cattolico ecc. gli passa la voglia. Se tu invece ci metti la qualificazione di artistico ah sì allora va bene! Io lo vedo sui volti quando dico creazione ehm, artistico si illuminano tutti i volti! In Germania non c’è bisogno di aggiungere artistico, c’è già nella parola stessa, perché un pensare non artistico non è un pensare.
I. ?
A. scientifico vuol dire rigoroso cioè preciso, la scientificità è la sfera del vero, e la creatività, la libertà è la sfera del buono morale, e ciò che è vero e ciò che buono è bello, è bello perché è vero, è bello perché è buono. Quindi la categoria del bello, dell’arte per l’arte non esiste, in Goethe le cose sono belle soltanto se sono al contempo vere e buone. Però la società borghese materialista moderna ha scisso queste tre categorie, il vero sta per conto suo, vedi la scienza naturale che si occupa del vero e non gli interessa nulla la morale, come se le cose possono essere vere senza essere belle e buone. L’arte, tutto il naturalismo dell’arte, la degenerazione dell’arte è che diventa un esteticismo dove si cerca il bello indipendentemente dal vero e dal buono. Ma come può il cuore umano dire di qualcosa che è bello se non è né vero né buono? E la morale si è staccata, la morale della Chiesa cattolica per esempio, si è profondamente staccata dal bello e dal vero, è buono perché te lo dice la Chiesa. No, è buono soltanto se è vero, mi devi dimostrare che veramente rende l’uomo umano più libero, deve essere vero che rende l’umano più libero allora è buono. Se non mi dimostri la verità del fatto che rende l’essere umano più libero non mi dimostri che è buono, non perché lo dici tu che è buono io devo ubbidire. Uno dei fulcri di questa scienza dello spirito, sarebbe meglio trovare un’altra terminologia è di ricongiungere, rifare l’unità perché sono una cosa sola del vero, del bello e del buono. E quindi quando io dico la parola artistico soprattutto in Italia, perché la cultura italiana non è incentrata sulla corporeità, il linguaggio inglese è molto più incentrato cosa bellissima sulla realtà corporea, il linguaggio italiano non è incentrato sulla realtà dello spirito perché lì andiamo annaspando un pochino, ma è incentrato sulla sfera dell’anima, quindi il linguaggio italiano è per natura di mediazione. E l’elemento artistico il bello, perciò in Italia il bello, l’artistico vedi tutti gli artisti ecc. il bello è importantissimo come ponte al buono, è vero soltanto se è bello, è bello soltanto se è vero, è buono soltanto se è bello.
I. ?
A. no, se tu intendi i due pilastri della nostra cultura sono il pensare greco e quello non è inquinato, poi invece il Cristianesimo fatiscente che non ha quasi nulla del Cristianesimo, quello ha creato un po’ di problemi, che ci vuole propinare una verità indipendentemente dal bello, e ci vuole costringere al bene indipendentemente dal bello, quindi questa è una faccenda di cristianesimo non ancora capito, non di cultura classica greca, perché se tu dici la cultura classica intendi anche la filosofia greca, la filosofia greca è pulitissima. Tant’è vero che lui ti ricordava che il greco parla di calon cagaton bello e buono, non li distingue, non sono separati, è buono soltanto se è bello è bello soltanto se è buono. Quindi un pochino più di Grecia e un pochino meno di Chiesa cattolica farebbe bene alla cultura italiana. Immanuel Kant diceva dopo Aristotele non sono stati creati nessun concetto nuovo, e Kant non è da poco. Tommaso d’Aquino ha commentato versetto per versetto, parola per parola Aristotele tale e quale come la sacra scrittura cattolica, tra l’altro si vede, se uno legge il commentario di Tommaso d’Aquino alla metafisica di Aristotele, alla fisica di Aristotele, e poi legge il commentario di Tommaso d’Aquino alla lettera ai romani di Paolo, si ha l’impressione quando Tommaso d’Aquino commenta la scrittura … perché la scrittura non sono testi di filosofia e Tommaso è un filosofo, quando legge il commentario all’anima … di Aristotele, lì si vede Tommaso d’Aquino è nel suo elemento, va in brodo di giuggiole! Quindi Tommaso d’Aquino è molto più a casa sua commentando Aristotele che non commentando le sacre scritture del cristianesimo. (IX,15) È chiaro che un simile impulso, nel senso stretto della parola, non si può più calcolare come appartenente al campo delle disposizioni caratterologiche precostituite e sedimentate. Infatti ciò che qui agisce come molla non è più qualcosa di veramente individuale in me, cioè di caratterologico, di individuale intende dire di caratterologico, che fa parte dell’indole dell’individuo, ma è il contenuto ideale e, di conseguenza, universale, della mia intuizione. Non appena considero la legittimità di questo contenuto come base e punto di partenza di un’azione, io entro nel campo del volere, ed è indifferente se il concetto esisteva già da tempo in me o se è sorto nella mia coscienza solo immediatamente prima dell’azione, è cioè indifferente se era già presente in me come disposizione oppure no. Vuole dire: i concetti, le intuizioni non possono essere già presenti, che fanno parte della mia indole, un concetto, una intuizione, anche se io il concetto di triangolo l’ho già pensato quindici volte il concetto non diventa mai parte della mia indole, perché il concetto non lo posso percepire come qualcosa in me, sedimentato già pensato. Un concetto è un concetto soltanto se viene ricreato, altrimenti non è un concetto, quindi la creazione di concetti è proprio il punto dove noi passiamo tutta l’indole, tutto il precipitato della costituzione caratterologica, diventa un puro presupposto, una pura condizione, e tutta l’attività è nel presente verso il futuro, e dal passato non mi condiziona nulla. È come quando il violino è talmente perfetto, il violino più bello che ci sia, uno Stradivari come volete, accordato in un modo perfetto, quand’è che questa realtà previa all’esperienza della musicalità, quand’è che questa realtà previa è perfetta? Quando sparisce, quando non si nota, quindi tutta l’indole, tutta la costituzione caratterologica dell’individuo è perfetta come strumento della creatività, quando non condiziona, non partecipa in nulla a questa creatività, ma ne è puro strumento. Cinque minuti di pausa. Siccome qui qualcuno di voi vorrebbe che noi andassimo via questa mattina, soltanto dopo aver spiegato tutto ciò che c’è da spiegare, allora io non ho il diritto, non è giusto che io continui senza spiegare anche cos’è il giusto. Perché qualcuno diceva il vero lo so cos’è, il bello lo so cos’è, il buono lo so cos’è. il vero è il cammino della scienza, è l’eros della scienza, il bello è l’eros dell’arte e il buono è l’eros della morale o della religione, religione significa morale. Il buono è il ricongiungimento, buono moralmente buono per l’uomo è il ricongiungimento dell’uomo con lo spirito, con il mondo spirituale, e religio significa rilegare, ricongiungere l’uomo col mondo spirituale, è caduto nel mondo della materia, per poter liberamente, individualmente, artisticamente in modo bello, vero e buono ricongiungersi col, quindi la parola religione in fondo non ce n’è bisogno, il morale, il buono, fenomeno morale. E il giusto, il giusto è una categoria di relazione, il giusto rapporto, la giusta proporzione, quindi il giusto, noi diciamo la misura giusta, quando si prende una medicina deve essere la misura giusta, perché non diciamo la misura bella? la misura vera? la misura buona? no, deve essere la misura giusta. Ora la misura giusta in questo fattore di quantità, presuppone che la categoria del giusto è sempre l’equilibrio tra il troppo e troppo poco, quindi il giusto è il giusto rapporto tra il vero, il bello e il buono. Se una persona sviluppa in un modo ipertrofico il vero e in modo ipertrofico il buono diventa un elucubratore di teorie, uno scienziato sempre più astratto, non gli interessa il bello e il buono. Una persona che si occupa in una misura soverchia del buono, è fissato sul buono e non gli interessa il bello e il vero, diventa un moralista, un bene morale che non gli interessa che sia bello e vero. Il moralista qui e qui il cinico, il razionalista solo testa, il moralista solo comandamenti, manca la giusta misura, il giusto rapporto, il giusto equilibrio, non diciamo l’equilibrio bello o buono, diciamo il giusto equilibrio. In Platone la categoria della giustizia … è la giusta misura, ci sono tre virtù fondamentali, e la quarta è la giustizia: la prima è la saggezza la virtù del vero, la seconda è il coraggio la virtù del bello, la terza è la temperanza la virtù del buono, e la virtù di tutte e tre è la giusta misura … Una categoria di Platone molto importante, la virtù della giustizia è la virtù della giusta misura, del giusto equilibrio, di evitare il troppo e evitare il troppo poco in tutte le cose.
I. ?
A. l’eccesso del bello è l’esteticismo, l’esteta, il razionalista, il moralista e l’esteta, manda a ramengo il vero, manda a ramengo il bello, però questo bello senza il vero e senza il buono diventa un bello spurio, puro esteticismo. È come il virtuosismo non è più bello.
I. ?
A. no, illegittimo è una categoria morale, non buono, non ti fa bene, o mi fa bene o non mi fa bene, spurio è un moraleggia mento, siamo imbottiti di moraleggia menti è molto importante rendersene conto, i moraleggiamenti sono tutte botte in testa, prendi una botta alla fine siamo tutti tramortiti a forza di botte in testa! E non riusciamo più a pensare. In Germania gli schiaffi ai bambini sono punibili per legge. (IX,16) Ad un vero atto volitivo sarebbe meglio tradurre ad un vero atto di volontà, non c’è un atto volitivo, l’atto non è volitivo, volitivo è l’uomo, vedete che differenze saltano fuori se uno col pensiero ci si mette, come fa l’atto a essere volitivo? Allora l’atto deve essere capace di volere qualcosa, allora è volitivo, quindi un atto di volontà, in tedesco il linguaggio non permette neanche una categoria come l’atto volitivo, è un atto di volontà, è immanente nella lingua, questa sfasatura di pensiero non è neanche possibile nel linguaggio tedesco. Ad un vero atto di volontà si perviene soltanto quando un impulso istantaneo all’azione, che è il motivo, il voluto, in forma di un concetto o di una rappresentazione, agisce sulla disposizione caratterologica che è il volente. Un tale impulso.
I. ?
A. il voluto, ciò che vuoi lo devi avere in forma di concetto o di rappresentazione sennò non sai cosa vuoi. Un tale impulso diviene allora un motivo di volizione. Adesso andiamo ai motivi, ciò che una persona vuole, il voluto, il circonvoluto. (IX,17) I motivi quindi gli scopi, le mete, il voluto, il traguardo, il fine, i motivi della moralità sono rappresentazioni e concetti per forza. Vi sono moralisti che vedono anche nel sentimento un motivo della moralità, e per esempio ritengono che scopo dell’azione morale sia la produzione della massima quantità possibile di piacere nell’individuo che agisce. Però se il sentimento è ciò che voglio conseguire non può muovermi. Il piacere in sé non può però diventare un motivo; e qui si vede che il motivo si congiunge col movente, cioè al punto in cui si comincia ad agire l’agente, il volente e il voluto diventano una cosa sola, quando comincio veramente ad agire sono colui che vuole il voluto, e perciò qui il linguaggio adesso diventa uno dice ma come prima chiamava movente ciò che adesso chiama motivo e adesso chiama motivo ciò che prima chiamava movente, adesso diventano una cosa sola. Il piacere in sé non può però diventare un motivo; lo può soltanto un piacere rappresentato. Quindi soltanto la rappresentazione di un piacere che io mi riprometto di conseguire, può muovermi a compiere un’azione dalla quale mi riprometto questo piacere. Ma il piacere che è il voluto, che è il da conseguire non c’è ancora, come può essere il motivo che mi muove. Quindi di questo paragrafo non ci sarebbe neanche bisogno se si sapesse pensare come si deve. La rappresentazione di un futuro sentimento, non però il sentimento stesso, può agire sulla mia disposizione caratterologica. Infatti il sentimento stesso, nel momento dell’azione non esiste ancora se deve essere conseguito tramite l’azione, ma deve essere suscitato appunto mediante l’azione. (IX,18) La rappresentazione del proprio e dell’altrui bene adesso passa in rassegna le rappresentazioni fondamentali, che cosa c’è nell’animo, nella fantasia dell’individuo che gli esseri umani pongono alla base delle loro azioni: che vuoi? Una delle rappresentazioni più diffuse che muovono l’azione generalizzata è: voglio in ogni azione, in tutto quello che faccio, godere il più possibile, o detto in altro modo voglio essere il più felice possibile! Va benissimo eh! È umano, perché proporsi di essere il più infelice possibile non è meglio, non è una cosa più buona. Adesso stiamo a vedere quali azioni rendono veramente felice l’uomo e quali di meno, però ognuno deve sperimentare a modo suo, voglio dire queste rappresentazioni che noi adesso passiamo in rassegna sono immagini che uno si è formato di ciò che vuol raggiungere. Ciò che mi muove all’azione è il mio intento di contribuire al progresso dell’umanità! Deve avere una qualche rappresentazione del progresso dell’umanità, e ci voglio contribuire, legittimo. Adesso di gradino in gradino saliamo sempre più su. Qual è il bene morale sommo? In che direzione andiamo salendo sempre di più? Mi muove un istinto: siamo giù. Mi muove il desiderio del piacere, il desiderio di felicità: siamo nell’anima. Il bene morale supremo è la realizzazione dell’io individuale, l’autorealizzazione del mio spirito in quanto individuale, e sono individuale in quanto creo mondi a partire dal mio io, tutti diversi da altri mondi che crea un altro. Se pongo alla base di un’azione l’intento, se il voluto è di vivermi come spirito individualmente creatore, sarò massimamente felice perché questa è la realtà che fa più bene all’essere umano perché è il bello, il vero e il buono massimi, è il massimo di realizzazione dell’umano. La creatività artistica dell’individuo libero, più vero di questo, più bello di questo, più buono di questo, più giusto di questo per l’essere umano non c’è. E adesso vediamo gradino per gradino, dove l’essere umano si può fermare a metà strada o se capisce e prima di tutto si tratta di capirlo che ci sono gradini sempre maggiori fino a questo punto dove uno dice no più bello, più buono, più vero non ci può essere, è il massimo sommo. La rappresentazione del proprio e dell’altrui bene o piacere, o felicità qui il bene è un po’ diffuso, può però giustamente essere considerata come un motivo del volere. Voglio il bene di me e del mio prossimo, voglio il bene per me e per il mio prossimo! Giusto, è un vero motivo che muove all’azione. Il principio di ottenere con le proprie azioni la massima quantità possibile di piacere adesso il bene è diventato piacere proprio, vale a dire di raggiungere la felicità individuale, si chiama egoismo. O edonismo se volete, l’egoismo è una gran bella cosa, perché si propone il massimo bene per me, e se io sono un organo nell’organismo dell’umanità, il massimo bene per me è anche, per riflesso, il massimo bene per gli altri. Però l’egoismo lo si può capire giustamente e lo si può fraintendere, lo dico in riassunto, un egoismo, l’amore di sé che esclude, colui che ama se stesso non amando l’altro non ama neanche se stesso. Quindi si può amare se stessi soltanto amando gli altri, però va capito.
I. come si chiama l’amore di sé senza amare gli altri?
A. egoismo malinteso.
I. cioè per essere più specifico un criminale non va al di là di sé, prova piacere nell’uccidere un’altra persona.
A. no, no il piacere è tutt’altra cosa che l’amore di sé, il criminale è una persona che non ama se stesso, e se sente un piacere allora sente un piacere, ma stiamo parlando dell’amore di sé, amore di sé e piacere sono due cose del tutto diverse.
I. dentro di me rimane l’idea che una persona può, ignorando totalmente gli altri, e continuando in queste sue azioni determinate a distruggere gli altri, questo può portare in lui del piacere, perché lei dice che non è possibile un pensiero del genere e un’attività del genere in una persona malata?
A. no, tu stai usando amore di sé e piacere come se fosse la stessa cosa, io ho parlato dell’amore di sé non del piacere. L’intento di amare se stessi senza amare gli altri è un’illusione, un errore di pensiero, è illusorio perché non è possibile amare se stessi senza amare gli altri.
I. la mamma che è qui presente in sala e non sta tre giorni col bambino, è un atto di egoismo.
A. no, no ci può essere la mamma che sta qui perché nella sua mente e nel suo cuore manda a ramengo il bambino, allora cerca di amare se stessa senza amore dell’altro, e vive in un’illusione. E ci può essere qui in sala una mamma che dice se io voglio incrementare l’amore per il mio bambino, in vista di un amore maggiore per il mio bambino devo arricchirmi io. E allora mentre sta qui crea i presupposti e ama di più il suo bambino.
I. quindi è un egoismo buono? È amare se stessi ma includendo il bambino col pensiero.
A. sì, io ti sto dicendo l’amore di sé che non include l’altro è illusorio non è amore di sé, mi fa andare indietro non mi porta avanti.
I. anche amare troppo…
A. non esiste amare troppo, esiste l’asfissiare ma non l’amare troppo, l’asfissiare non è un troppo di amore ma un troppo poco di amore, colui che asfissia l’altro lo ama troppo poco, amare significa anche lasciargli lo spazio giusto, fargli spazio.
I. amare il proprio figlio non è detto che non sia segno di egoismo, cioè credere di amare, cioè il fatto di amare un essere perché è il proprio figlio, potrebbe anche essere, celare un egoismo.
A. il problema alla base è che noi abbiamo inquinato tutto il linguaggio di moralismi. Una categoria che dovrebbe essere neutrale, l’abbiamo resa negativa, egoismo è amore di sé.
I. io non la rendo negativa, dico come fatto, anche un amore verso una persona può essere una forma di egoismo, senza moralismo ma come fatto.
A. ma una forma di egoismo, dì quello che vuoi dire senza usare la parola egoismo, voglio vedere, perché è quella che crea i problemi.
I. un atto di amore per sé venendo qui, può essere paragonato.
A. supponendo che lo sia.
I. supponendo che lo sia, anche un atto di amore verso un altro, potrebbe essere un atto di amore verso di sé, cioè anche l’amare il proprio figlio potrebbe essere un aspetto dell’amare se stessi, anzi lo è quanto venire qui.
A. vedi adesso che ti ho chiesto di evitare la parola egoismo stai farfugliando.
I. la signora ha detto se io vengo qui può essere un atto di egoismo.
A. il problema è la parola egoismo, questa parola è diventata problematica, tu non la puoi usare come se non creasse problemi. L’egoismo in origine è semplicemente amore di sé, l’amore di sé in sé e per sé non è un evento morale, non è un fattore morale, l’amore di sé è una necessità di natura, è un impulso di natura.
I. ?
A. l’amor proprio è negativo, la categoria italiana di amor proprio esclude l’amore all’altro, perciò insiste sul proprio, l’amor proprio. L’amore di sé ce lo dà la natura, quindi non è un fattore morale, l’amore di sé diventa un fattore morale quando comincia a includere, e questo è questione di pensiero e di coscienza, o a escludere l’amore dell’altro. Quando l’amore di sé, attraverso un cammino di libertà, include l’amore dell’altro allora è moralmente buono, diventa un fattore morale, quando esclude l’amore dell’altro diventa cattivo. Però l’amore di sé in quanto impulso di natura è neutro, è amorale, l’amore di sé in quanto forza di natura fa parte dell’amore di sé l’istinto dell’autoconservazione che è amorale, è il fondamento della morale non è né buono né cattivo, è di necessità di natura. Quando invece questo amore di sé viene gestito attraverso la coscienza, attraverso i comportamenti in modo da includere, io amo me stesso soltanto amando anche l’altro, allora questo carattere di inclusione, di esclusione fa dell’amore di sé che è un impulso di natura un fattore morale. Buono se nel passare un fine settimana, esercitando l’amore, arricchendomi la mente, il mio cuore ecc. lo faccio per arricchire poi gli altri, se includo nei miei pensieri, nei miei sentimenti l’amore dell’altro, quindi l’amore dell’altro viene escluso o incluso. Se includo nei miei pensieri e nel mio cuore nell’amore di sé l’amore dell’altro, allora questo amore di sé diventa buono e non illusorio. Se invece in questo amore di sé io escludo proprio non c’è, non ce lo aggiungo, l’amore dell’altro allora è cattivo, ed è cattivo anche per me non soltanto per gli altri, mi fa retrocedere nella mia evoluzione.
I. ?
A. no, sono termini morali non moralistici, è una disamina dell’oggettività del morale, qual è oggettivamente bene per l’umano, e qual è oggettivamente cattivo per l’umano, non bene. Perché è buono l’amore di sé che include l’amore dell’altro? Perché vince l’illusione e vince la non libertà; se io nell’amore di sé, nell’amore di me stesso escludo l’amore dell’altro divento sempre meno libero, perciò è moralmente cattivo. Se io nell’amore di me includo l’amore dell’altro divento sempre più libero, perciò è moralmente buono, il criterio è sempre la libertà.
I. ?
A. certo, perché l’amore di sé fa parte della natura se noi usassimo i termini in un modo pulito, se noi già in partenza l’amore di sé che ci dà la natura lo chiamiamo egoismo, e questo egoismo lo tacciamo di moralità negativa creiamo un sacco di confusione nel pensare. Perché la morale tradizionale ti dice: smettila di essere egoista! L’unico modo veramente di smettere di essere egoisti è di sparire, soltanto sparendo nel nulla posso superare l’egoismo. L’amore di sé fa parte della natura, quindi è chiaro che l’amore di sé non va superato, fatto sparire, va allargato, “ama il prossimo tuo come te stesso” non termina di amare te stesso. Grazie e arrivederci alla prossima volta.
A proposito di Pietro Archiati
Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).
Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.
Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.
Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.
Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.
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