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Pietro Archiati

Il valore della vita
(
pessimismo e ottimismo)

Commento a

La filosofia della libertà

di Rudolf Steiner

Atti del seminario di Milano, 15-17 febbraio 2013

Volume 13

dal Cap. XIII, par. 1 al par. 26

Indice

Venerdì 15 febbraio 2013, sera

XIII IL VALORE DELLA VITA
(pessimismo e ottimismo)

Sabato 16 febbraio 2013, mattino

Sabato 16 febbraio 2013, pomeriggio

Sabato 16 febbraio 2013, sera

Domenica 17 febbraio 2013, mattina

A proposito di Pietro Archiati

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Venerdì 15 febbraio 2013, sera

A.: Buona sera a tutti!

Prima di tutto devo scusarmi che sono qui, sul palcoscenico… Abbiamo cercato questo pomeriggio di farmi calare un pochino giù, ma poi non funzionava bene.

C’è un po’ il problema che l’oratore, se sta qui sopra, troneggia sui poveri ascoltatori! Però io ho detto: visto che questo è un teatro, e qui è il palcoscenico, faccio finta di recitare e voi siete spettatori, e vi godete – se tutto va bene – una improvvisazione di pensieri sulla Filosofia della Libertà, sul XIII capitolo…

Siete spettatori, a me non interessa niente se c’è qualcuno qui sotto, dopo – magari facciamo dieci minuti di pausa – scendo giù e si discute su quello che avete sentito.

Volevo dire che non è facile comunicare come di solito: questo è un palcoscenico fatto per la recita, non per comunicare in una conferenza; d’altra parte bisogna prendere la situazione così com’è.

Un’altra riflessione è che: siamo già verso la fine della Filosofia della Libertà e allora vorrei chiedere… provate un pochino ad alzare la mano tutti quelli che sono nuovi, per la prima volta, qui in sala…

Eh, ma siete una massa di farabutti, santa pace! Non siete mai venuti a Roma a fare questa Filosofia della Libertà!

Agli altri che non hanno alzato la mano devo dire che adesso non possiamo far finta che queste persone non ci siano – sono la stragrande maggioranza – quindi terrò conto anche delle persone che ci sono per la prima volta con… un minimo di introduzione prima di entrare in questo capitolo XIII.

Un capitolo bellissimo, micidiale, sul valore della vita! Dove ci sono queste due matrici fondamentali, riguardo al valore della vita: il pessimista che dice: la vita non vale niente! E l’ottimista che dice: la vita… ma che cosa bella! La cosa più bella che ci sia, ma ce n’è da godere!

E la domanda è: ma chi ha ragione? L’ottimista o il pessimista?

Allora, prima di entrare nel merito di questo XIII capitolo, per tutti noi – io compreso – che non siamo esperti della Filosofia della Libertà come lo era un Rudolf Steiner, che l’ha scritta… faccio una piccola parentesi: abbiamo fatto nella edizione tedesca – finora ci chiamavamo Archiati Verlag, adesso: via Archiati, che non c’entra nulla, adesso ci chiamiamo, in Germania, Rudolf Steiner Ausgaben, cioè edizioni Rudolf Steiner; quindi imitiamo la casa editrice italiana adesso! –.

E abbiamo – forse l’avete visto – abbiamo appena editato, in tedesco, per la prima volta, un apparato critico, per cui, mentre uno legge, può seguire tutti i cambiamenti che Steiner ha fatto nella seconda edizione.

Ora, voi sapete che Rudolf Steiner ha scritto, dai 30 ai 33 anni – ma una cosa allucinante! – nel 1894, ma il libro era uscito alla fine del ’93, la Filosofia della Libertà! Un giovanotto che di antroposofia ancora non aveva… io non dico che non avesse avuto niente dentro di sé, ma non aveva ancora detto nulla!

Oh!, passano decenni, è andato con quella gente strana che si chiamano teosofi; certi operai che l’avevano sentito parlare hanno detto: questo Steiner è diventato matto!, matto del tutto! Poi: 1900… 1910… ha fatto un ciclo di conferenze uno dopo l’altro… antroposofia… ma cose straordinarie!

Nel 1918 ri-edita la Filosofia della Libertà tale e quale!

Tale e quale, soltanto alcune aggiunte per chi non ci aveva capito niente! Solo per quelli, eh! perché se no era già detto tutto!

Ora in questa edizione – ne abbiamo portato qui a Milano alcune copie per chi legge il tedesco – alcune parole le ha tolte, che magari adesso le poteva dire un altro modo, ma si tratta di aggiunte, qualche volta anche soltanto una parola! Dopo ci sono diversi capitoli, lo sapete, dove c’è tutta un’aggiunta e la cosa straordinaria è che questo testo fondamentale dell’umanità moderna – la Filosofia della Libertà – si legge come testo per tutti quanti, sia senza antroposofia, sia come testo fondamentale dell’antroposofia!

Una cosa veramente straordinaria!

Questo solo per entrare un po’ nell’argomento.

Filosofia della Libertà… della “libertà”… Adesso io vivo da tanto tempo in Germania; supponiamo che mi son dimenticato che cosa vuol dire “libertà”… me lo dite voi?

Libertà in italiano significa tutto e nulla!

In tedesco: “ Die Philosophie der Freiheit” – c’è la parola tedesca “Freiheit” –; se noi traduciamo lessicalmente: Freiheit = libertà… e no eh!; e no eh! Passando da un linguaggio all’altro si passa un Rubicone, un abisso, e si va in un altro mondo. Quindi la parola “libertà” non significa lo stesso che la parola “Freiheit”, in tedesco!

Allora gli inglesi hanno tradotto: “The philosophy of freedom”!

Hanno detto: ce l’abbiamo anche noi la parola libertà, cioè: freedom!

Una volta il dottor Steiner è andato in Inghilterra e ha detto: ma voi siete matti! Ma come vi permettete di tradurre la mia Freiheit con “freedom”! Freedom non ha nulla a che fare con Freiheit, e Freiheit non ha nulla a che fare con “freedom”!

Gli antroposofi inglesi, intimoriti, hanno chiesto: dottore, diccelo tu come dobbiamo tradurre in inglese!

Allora lui disse: beh!, la parola non ce l’avete in inglese; non c’è proprio perché “freedom” significa la libertà dell’imprenditore materiale, nel modo di interagire con la Terra! Non c’è una parola in inglese; ma se proprio volete avvicinarvi un pochino a questa “Freiheit”, traducete almeno: “The Philosophy of spiritual activity”! Attività spirituale!

Allora si dice che gli inglesi, ancora più allibiti, gli hanno chiesto: e che cos’è “spiritual activity”? mai sentito!

Freiheit in tedesco significa: creatività interiore; creatività dello spirito.

Se noi diciamo creatività – una bella parola italiana: essere creatore – e poi: spirituale… vi dice molto la parola “spirituale”?

Uhmmm! Uhmmm!

La parola “spirituale”… eh, prima di tutto va in po’ sulle nuvole… spirituale… cos’è spirituale?… spirituale vuol dire che non si mangia, non si beve… insomma, insomma… vabbè, tienitelo!

Poi, tutta la sfera spirituale se l’è parcheggiata la chiesa cattolica, e se diciamo: la creatività dello spirito resta problematica la cosa perché l’uomo moderno… lo spirito… in fondo lo ignora.

In inglese “the spirit”… io ho fatto serie di conferenze diverse volte, sia negli Stati Uniti, sia in Inghilterra, quando uno dice: “spirit” ognuno pensa all’alcool! Oppure ai folletti!

Non c’è la parola, proprio non c’è la parola!

Volevo dire che noi abbiamo a che fare con un testo… adesso se voi mi chiedete: ma perché la parola tedesca ha un peso maggiore? Perché la parola Freiheit ha, nella cultura tedesca un peso maggiore, puramente spirituale?

Vi dico subito due fenomeni culturali che Steiner aveva alle spalle parlando in tedesco e che noi italiani non abbiamo: il fenomeno culturale dell’idealismo tedesco e il fenomeno del Goetheanismo.

Questi signori qui: Goethe e poi Fichte, Schelling ed Hegel… io dal liceo ho cominciato ad imparare il tedesco, a masticarlo un pochino, perché volevo leggere gli idealisti in tedesco! Ed ero felice che, grazie a Croce e Gentile – qui qualcuno in sala li conosce – che hanno fatto una riforma scolastica tramite la quale la storia della filosofia è diventata in Italia molto più importante – io ero innamorato della storia della filosofia – e Croce e Gentile erano idealisti.

Ora, coloro che hanno alle spalle, nella cultura tedesca, l’idealismo e il goetheanismo, sono persone che hanno usato questa parola – Freiheit – per indicare la creatività dell’ io singolo come spirito creatore; allora è chiaro che, parlando in tedesco, questa parola ha un peso, uno spessore, diverso che non “libertà” in italiano.

Spontaneamente, in italiano, libertà significa: fare quello che mi piace!

Che va benissimo, eh! Anche quello è un significato della libertà! Però Freiheit in tedesco non significa fare quello che mi pare e piace; significa: essere creatore al livello dello spirito! A livello del pensare! Essere artista che fa sprigionare mondi!

Philosophy of spiritual activity…

Quindi, anche questo XIII capitolo, lo vogliamo vedere in questo contesto di libertà in quanto prorompere creativo dello spirito che pensa, che crea, che forgia mondi, che costruisce a partire dalla propria intuitività, dalla creatività interiore dello spirito.

Allora, questa Filosofia della Libertà ha una prima parte – adesso noi siamo nella seconda –; la prima parte parla dei misteri del pensare. Tutta la prima parte della Filosofia della Libertà dice: l’uomo è massimamente libero nel pensare! O meglio: lo può essere massimamente libero, altrimenti non è un pensare; se è un vero pensare è un creare puro.

Un pensiero – il pensare crea pensieri –, un sentimento… paragoniamo un pensiero a un sentimento: il sentimento è un qualcosa che sorge in me. Uno mi dice una cosa e, invece di farmi un complimento mi stronca, e io, insomma, sento rabbia!

Sono libero in questo sentire la rabbia?

No! La rabbia sorge in me! Non è che io mi sento del tutto creatore!

Se io invece penso un pensiero mi accorgo – se osservo il processo del pensare – mi accorgo che nel forgiare un pensiero io sono in tutt’altro modo attivo che non nel subirmi un sentimento!

Nel vivere un sentimento sono molto più passivo – che va anche bene, eh!; non è che stiamo dicendo che l’uno sia migliore dell’altro: sono profondamente diversi –.

Invece nel pensare mi sento attivo; nel mio pensare avviene soltanto ciò che ci metto io.

Può avvenire, nel mio pensare, qualcosa che ci mette qualcun altro?

No, eh! E no, eh!

Dunque: riguardo alla prima parte della Filosofia della Libertà, di cui sto riassumendo un elemento fondamentale, centrale, è importantissimo perché in italiano c’è il problema che il pensare… noi usiamo il pensare come se fosse sinonimo del pensiero, tant’è vero che ci sono delle traduzioni della Filosofia della Libertà che usano il pensare e il pensiero come se fossero sinonimi! Invece il pensare e il pensiero sono due cose del tutto diverse!

Il pensare è un verbo! È un’attività! È un fare! È come il camminare! Il camminare non esiste se io non cammino! E dopo che io ho fatto una camminata c’è il cammino fatto!

Quindi il pensiero è il risultato del pensare!

Quando la Filosofia della Libertà parla di Das denken, questo “denken” è un verbo, è un’attività creatrice! Questo è molto importante, è importantissimo!

Ci sono persone che veramente traducono, in italiano, come se il pensare e il pensiero fossero la stessa cosa; ora, io penso un pensiero e l’attività che sforna il pensiero è tutt’altra cosa che non il pensiero che sortisce da questa attività!

Sono due cose ben diverse, tant’è vero che non si può contemporaneamente percepire il pensare nell’atto del pensare – in actu, direbbero gli scolastici – e il pensato come risultato, come effetto; diciamo, ciò che è stato pensato. Possiamo sempre e soltanto osservare ciò che il pensare ha pensato; possiamo pensare soltanto i pensieri già pensati.

Ma per osservare l’attività pensante di me dovrei scindermi in due: uno che pensa, che svolge questa attività del pensare, e l’altro che si guarda mentre pensa; e questo non è possibile!

Quindi, il pensare è l’attività primigenia in assoluto, creativa, dello spirito! E l’uomo è spirito che pensa!

Che poi afferri il pensare dal lato di un certo depotenziamento per dargli la possibilità, lui, liberamente di attivare, di potenziare sempre di più il pensare, però in nuce, potenzialmente il pensare è un’attività pura, spirituale.

Pensare vuol dire creare: punto e basta! E se non è un creare, non è un pensare!

Allora, se il pensare, il mio pensare, è la mia attività primigenia in assoluto creatrice, è chiaro che io sono massimamente libero nel pensare!

Pensare vuol dire essere liberi! O vivere da liberi! Perché nel movimento del mio pensare avviene… il mio pensare si muove, si dirige, fa le connessioni, i salti, ecc., che voglio io!

Non c’è una gestione dal di fuori: questa è la libertà! Libertà vuol dire escludere ogni tipo di gestione dal di fuori. È lo spirito che si gestisce lui in assoluto da solo: questo è il concetto di libertà, di creatività pensante, spirituale, in assoluto.

Se l’essere umano è capace, non solo di pensare puro, come dicevano gli idealisti, ma è la sua attività originaria; e se questo pensare è intriso di libertà, è pura esperienza di libertà, quando io penso – ed è questa la seconda parte della Filosofia della Libertà – se io penso… allora, ci sono due movimenti del pensare: il pensare che dice: cos’è quella cosa?, e il pensare crea il concetto di quella cosa, cioè il pensare crea il concetto conoscitivo.

È una mela! Concetto conoscitivo! Il concetto della mela, se non lo penso io, per me non esiste!

Ma se io col pensare sono capace di cogliere, di creare, i concetti delle cose che già ci sono, posso io anche pensare in chiave morale?

In chiave morale – che è la seconda parte della Filosofia della Libertà – è il pensare che risponde alla domanda – ve lo dico in romanesco – e mo’ che faccio?

Eh, ci devo pensare!

E mo’ che faccio?

Come rispondo io a quella domanda?

Se vado in cerca in cerca dell’imbeccata fuori di me… allora non sono libero!

Se invece dico: mo’ che faccio?

Eh!, lo voglio decidere io a partire dal mio pensare!

Penso io, intuisco io, col mio pensare; io, pensante, intuisco che cosa voglio fare!

Una persona che fa… – ogni tanto io metto lì delle provocazioni, ma sono tutte provocazioni a pensare, eh! – se io faccio quello che devo, non sono libero, perché “lo devo”! Quindi la libertà è il superamento di ogni dovere!

Pericoloso, il discorso! Pericoloso!

Quelli che hanno già fatto la Filosofia della Libertà – abbiamo discusso parecchie volte – ormai sanno: qui, il bravo borghese rifugge… no, no, qui succede il caos sociale, per carità!, per carità!… vanno messi in riga… ci vuole la legge… ecc., ecc., ecc.

Libero sono soltanto nella misura in cui, le azioni che compio, sono volute intuitivamente da me!

Perché mi corrispondono, perché sono frammenti del mio essere!

Questo agire in base al pensare, Steiner lo chiama intuizione morale: io intuisco moralmente, in questa situazione, così come sono, cosa faccio, cosa voglio fare.

È un modo di riassumere cose molto complesse, molto grandi, se no dovremmo ripetere tutti i capitoli già fatti.

Questa intuizione morale, che non si orienta secondo norme esterne, individualizza la morale! Steiner la chiama: individualismo etico!

Siccome gli esseri umani sono ognuno un essere del tutto unico, irripetibile, ne consegue che ciò che è bene per me – ciò che è moralmente bene per me, in quanto mi realizza – è moralmente male per l’altro!

Quindi la “norma morale” è l’essenza dell’immoralismo! Perché livella gli Io umani; li cancella, e vorrebbe convincerci che gli Io umani son tutti uguali! Perciò li cancella tutti!

Quindi il bene morale è diverso per ognuno! Perché ognuno è profondamente diverso. Ogni Io umano è un mondo del tutto diverso dall’Io umano che gli sta vicino, anche se siede soltanto a 50 centimetri di distanza.

E la paura di fronte a questo individualismo etico, sta nel fatto che viviamo di atavismi, viviamo in tutta una società conservatrice… poi la chiesa ancora di più!

Per fortuna che è saltato in mente al papa, che finora doveva fare il papa fino alla fine della vita: no!, io… individualimo etico!!! Io sono stufo e me ne vado!

Ci voleva un papa tedesco per fare una cosa del genere, eh!

Bella la cosa! Bella la cosa! Un primo inizio di redenzione, forse, della chiesa cattolica! Chi lo sa! La speranza è l’ultima a morire!

Allora, veniamo al capitolo XIII – oh, dovete darmi atto che fare 12 capitoli in dieci minuti, insomma, mica è una cosa da niente, eh! –.

Adesso lasciamo da parte queste teorie che sono un po’ astratte, così, nel riassumere e tuffandoci nel testo siamo tutti nel contesto. Ogni affermazione ha un senso soltanto in un certo contesto, quindi le affermazioni fatte finora prendetele un po’ come sono perché sì, il contesto dell’umano c’era, però non sufficientemente specificato. Dopo, quando discutiamo, l’una o l’altra cosa la si può riprendere e magari concretizzare, ecc.

Capitolo XIII: il valore della vita.

Che cosa dà valore alla vita?

Qual è il valore della mia vita?

Se volete anticipo la risposta di tutto il capitolo – tra l’altro questo capitolo è il più lungo della Filosofia della Libertà, anche perché Steiner entra nel merito di un signorino di quei tempi che era il filosofo Eduard von Hartmann, che Steiner conosceva direttamente; l’ha anche visitato, gli ha mandato tra l’altro la prima stesura della Filosofia della Libertà. Se avete letto il capitolo sapete che questo von Hartmann ricorre continuamente –.

Allora: 1894, ancora prima del gennaio 1984, Steiner manda subito una copia ad Eduard von Hartmann, e costui, che pensava di leggerla più tardi, ha cominciato a leggere la Filosofia della Libertà trovandola così interessante che… tra l’altro, per chi sa il tedesco, in questa nuova edizione, io ho avuto il coraggio di togliere certi dativi, il dativo con la “i” – dativ e, si chiama in tedesco – che sono un po’ antiquati; togliendo questo elemento un po’ antiquato – che poi è una cosa da poco, eh!, Steiner ha scritto il testo 120 anni fa! – è incredibile quanto moderno, fresco, spigliato, questo testo sia! E anche Eduard von Hartmann, che scriveva tomi enormi, ha dato atto a Steiner della sua capacità di scrivere in uno stile interessantissimo.

Comunque, riceve una copia – questo von Hartmann – la commenta dall’inizio alla fine, la rimanda dopo pochissimo tempo a Steiner, con la richiesta che Steiner ha dovuto copiare tutti questi commenti scritti a mano – ci ha messo un anno intero! – e poi di nuovo von Hartmann gli ha detto: me la rimanda per piacere la sua “mia” Filosofia della Libertà che devo scrivere un articolo, ecc., ecc. E dopo un anno Steiner dice: mi dispiace, c’era tanto da fare, gliela rimando, ho copiato tutto quello che lei ha scritto… vi dico questa cosa perché poi, nel 1918, nella seconda edizione, i commenti che Eduard von Hartmann ha fatto sul testo di Steiner sono stati determinanti per ciò che lui (Steiner) ha cambiato ed ha aggiunto nel 1918.

Quindi questo Eduard von Hartmann ha una certa importanza.

Se qui c’è qualcuno che dice: ma a me non importa nulla di von Hartmann…

Piano! Non è importante studiare Eduard von Hartmann, non è di questo che si tratta; quello che io vorrei sottolineare è che: anche l’iniziato più alto, sommo, che ci sia – ed è questo che io penso di Rudolf Steiner – deve incarnarsi, così come il Logos 2000 anni fa si è incarnato, e venire a parlare, proprio a colloquiare con le persone che ci sono!

Quindi per noi questo significa che noi non abbiamo il diritto, qualsiasi cosa facciamo… se facciamo la Filosofia della Libertà non abbiamo il diritto di farla per aria!; dobbiamo calarla, né più né meno nel nostro tempo, così come Steiner l’ha calata nel suo tempo.

Quindi è una testimonianza di come la scienza dello spirito si mette in dialogo sincero con l’umanità, perché questa scienza dello spirito è per l’umanità!

Questo – qui a Milano, in questa scuola steineriana lo possiamo dire – va sottolineato perché anche nell’antroposofia, da un secolo a questa parte, ci sono stati tentativi di farla nella sacrestia, questa scienza dello spirito, e di mandare l’umanità a ramengo! Eh! perché l’umanità… ma ci metterà ancora… la gente normale ci metterà ancora tre o quattro vite per arrivare a cominciare a leggere Steiner!

No!, questa non è antroposofia; antroposofia avviene soltanto nel colloquio sincero con l’umano così com’è; nel tempo in cui sui vive! Questo per me è lo spessore, se volete morale, di questo dialogo con un Hartmann, che ha fatto sì che, di questo capitolo, uno dica: ma se Steiner avesse detto le cose che doveva dire in questo capitolo, senza continuamente citare questo Eduard von Hartmann, bastava un terzo del capitolo!

Non sarebbe antroposofia! Non sarebbe scienza dello spirito! Mancherebbe la cosa più importante che è il dialogo con l’umanità così come è oggi!

Un fenomeno di tirarsi fuori, di voler essere migliori dell’umanità, se volete, 2000 anni fa, gli Esseni… – lo accenno soltanto – sono le parole più terribili che il portatore del Logos ha detto a queste persone – due esseni che ha incontrato mentre andava al battesimo nel Giordano –, perché questi esseni cercavano una salvezza di privilegiati, appartandosi dal resto dell’umanità.

Non conosco, in tutta la scienza dello spirito, parole più raccapriccianti; in un certo senso, di quanto illusorio sia del volersi tirar fuori dall’umanità.

Quindi siamo contenti, siamo d’accordo, su tutto quello che Steiner, in questo capitolo, articola in base a questo Eduard von Hartmann. Vi stavo dicendo che costui era stato determinante per la seconda edizione della Filosofia della Libertà.

Ho fatto una parentesi dicendo che questo è il capitolo più lungo e poi ho spiegato perché è il capitolo più lungo.

Allora: qual è il valore della vita? – a questo punto eravamo –.

Se io adesso lo dico in una parola, è soltanto per anticipare un discorso che diventa molto lungo – ecco perché è il capitolo più lungo –; allora per orientarci diciamo che Steiner con tutto questo colloquio, con tutta questa discussione anche, col pessimismo del buddismo di Shopenhauer e di Eduard von Hartmann, arriva alla conclusione: il valore della mia vita… come continua?

Sono io!!!

Sono io; o la mia vita non ha alcun valore!

Adesso voi mi state guardando in cagnesco, perché, giustamente, mi dite: tu hai già tirato le somme… beh, adesso dimostraci!

Piano, piano! È il capitolo più lungo, quindi, oggi domani e dopodomani vediamo se Rudolf Steiner – mica io, eh! – riesce a…

Comunque era per dire: per avere un orientamento; perché se il valore della mia vita mi venisse dal di fuori… io non valgo niente! E se io non valgo niente la mia vita non vale nulla! Sarei uno strumento per rendere importante altri: i poteri della chiesa, dello stato, ecc.

Allora leggiamo i primi paragrafi… questa volta, visto che il capitolo è lungo, mi sono ripromesso di fare una cosa che non mi è mai riuscito di fare, e cioè di leggere un po’ di paragrafi senza commentare!

Vediamo se riesco a dominarmi!

XIII
IL VALORE DELLA VITA
(pessimismo e ottimismo)

(XIII, 1) Alla questione dello scopo o destinazione della vita (v. pag. 155 e seguenti), fa riscontro un’altra questione, quella del suo valore. Incontriamo al riguardo due opinioni nettamente opposte, e fra di esse tutti i possibili tentativi di conciliazione. Un’opinione dice: il mondo è il migliore di cui si possa concepire l’esistenza, e il vivere e agire in esso è un bene di valore inestimabile. Tutto si presenta come armonica cooperazione verso un fine e merita ammirazione. Anche quello che pare cattivo, e male, deve da un punto di vista più alto essere riconosciuto per buono, perché rappresenta un benefico contrasto al bene; noi possiamo apprezzare quest’ultimo tanto più, quanto più si allontana da quello. E inoltre il male non ha realtà vera; noi sentiamo come male soltanto un grado minore di bene. Il male è assenza di bene, ma nulla che abbia valore in sé e per sé.

(XIII, 2) L’altra opinione è quella che reputa che la vita sia piena di dolore e di miseria, che il dispiacere superi dovunque il piacere; il dolore, la gioia. L’esistenza è un peso, e la non-esistenza sarebbe sotto ogni riguardo da preferirsi all’esistenza.

(XIII, 3) Principali rappresentanti della prima opinione, dell’ottimismo, dobbiamo considerare Shaftesbury un pensatore inglese e Leibniz; Leibniz era uno che ancora scriveva in latino più che in tedesco; della seconda, del pessimismo, Schopenhauer e Eduard von Hartmann.

(XIII, 4) Leibniz dice: il mondo è il migliore che possa esservi, uno migliore è impossibile. Perché Dio è buono e saggio. Un Dio buono vuole creare il migliore dei mondi; un Dio saggio lo conosce; egli può distinguerlo da tutti gli altri possibili mondi peggiori. Solo un Dio cattivo o non saggio potrebbe crearne uno peggiore come miglior mondo possibile.

(XIII, 5) Chi parte da questo punto di vista ottimistico potrà facilmente tracciare all’attività umana la via che deve battere per portare il suo contributo al bene del mondo. L’uomo avrà soltanto da scrutare i decreti di Dio che ha creato il mondo migliore e da comportarsi in conseguenza. Se sa quali intenzioni abbia Dio riguardo al mondo e al genere umano, egli farà anche ciò che è giusto. E si sentirà felice di aggiungere all’altro bene anche il suo proprio. Dal punto di vista ottimistico, dunque, la vita merita di essere vissuta e ci deve stimolare ad un’attiva di cooperazione.

(XIII, 6) Schopenhauer si rappresenta la questione diversamente. Egli non pensa la base del mondo come un Essere tutto sapienza e tutto bontà, ma come spinta o volontà cieca. Eterno anelare, incessante spasimare per una soddisfazione che non può tuttavia mai essere raggiunta, è il tratto fondamentale di ogni volontà. Infatti, se una mèta agognata viene raggiunta, subito sorge un nuovo bisogno, e così di seguito. La soddisfazione non può essere mai che di inafferrabile brevità. Tutto il rimanente contenuto della nostra vita è un incalzare insoddisfatto, è dunque insoddisfazione, sofferenza. E se finalmente questo incalzare cieco si attutisce, ci viene a mancare qualsiasi contenuto; un’immensa noia riempie la nostra esistenza. Perciò quanto di meglio possiamo fare, relativamente, è soffocare i nostri desideri e bisogni, uccidere la volontà. Il pessimismo di Schopenhauer conduce all’inerzia, la sua mèta morale è l’ozio universale.

Permettetemi un piccolo commento: questo Schopenhauer ha sbuffato per tutta la vita, ha scritto un libro dopo l’altro per portare gli esseri umani tutti all’ozio assoluto. Ma perché non ha oziato lui, santa pace! Avremmo una biblioteca in meno!

(XIII, 7) In modo sostanzialmente diverso Hartmann cerca di porre le basi del pessimismo e di servirsi di esso per l’etica. Hartmann, seguendo una tendenza prediletta del nostro tempo, cerca di poggiare la sua concezione del mondo sull’esperienza.

Dice: dobbiamo essere oggettivi, procedere fenomenologicamente, empiricamente.

Dall’osservazione empirica della vita egli vuol trarre la conclusione se nel mondo prevalga il piacere o il dispiacere.

Allora, scrivo sulla lavagna: la domanda fondamentale di Hartmann è: c’è più piacere, quindi una questione di quantità, oppure: più dispiacere?

Perché se nella vita c’è più dispiacere che non piacere, la vita o diminuisce di valore, o non vale nulla!

Quindi la domanda fondamentale di Hartmann è la domanda di una questione di quantità! E tutta la filosofia di Hartmann, in chiave di morale, tende a dimostrare che nella vita di ogni uomo, c’è una maggiore quantità di dispiacere e una molto minore quantità di piacere. Questo è il concetto fondamentale.

Egli fa passare in rassegna davanti alla ragione ciò che all’uomo appare come bene e felicità, per giungere a dimostrare che, dinnanzi ad un’indagine più precisa, ogni apparente soddisfazione si riduce ad un’illusione.

Quindi i piaceri son tutti illusori, reali sono i dispiaceri!

(sulla lavagna Archiati aggiunge a piacere, “gioia” e a dispiacere, “sofferenza”)

(XIII, 7) È illusione credere di avere sorgenti di felicità e di soddisfazione nella salute, nella gioventù, nella libertà, nell’agiatezza, nell’amore (godimento sessuale), nella compassione, nell’amicizia e nella vita familiare, nel sentimento dell’onore, nella fama, nella gloria, nel potere, nell’edificazione religiosa, nell’opera scientifica o artistica, nella speranza di un’altra vita, nella partecipazione al progresso della civiltà. Se si guarda spassionatamente, ogni godimento porta nel mondo più male e miseria che non piacere {E lo dimostra con un esempio}. La spiacevolezza della sbornia è sempre superiore al benessere dell’ebbrezza. Il dolore prevale di gran lunga nel mondo. Nessun uomo, anche quello relativamente più felice, vorrebbe, se richiesto, vivere una seconda volta la misera vita.

Qui permettetemi di nuovo un piccolo commento: ma come arriva Eduard von Hartmann a dire: nessun uomo, anche quello relativamente più felice… Ha chiesto a tutti gli uomini? … vorrebbe, se richiesto, vivere una seconda volta la misera vita!

L’affermazione è micidiale, è stratosferica! Lo afferma!!!

(XIII, 7) Ora, siccome Hartmann non nega la presenza di un fattore ideale (la saggezza) nel mondo, anzi gli accorda gli stessi diritti che all’impulso cieco (la volontà) {Schopenhauer}, egli può attribuire al suo Essere primordiale all’assoluto, alla divinità, la creazione del mondo solo a condizione che l’Essere primordiale stesso faccia servire il dolore del mondo ad un fine cosmico saggio.

Quindi il pensiero fondamentale di Eduard von Hartmann è che, benché sopravanzi di gran lunga il dispiacere, la sofferenza, è saggio vivere la vita perché la divinità ha dato alla vita umana, e alla sofferenza umana, proprio un significato ben preciso.

(XIII, 7) … egli può attribuire al suo Essere primordiale la creazione del mondo solo a condizione che l’Essere primordiale stesso faccia servire il dolore del mondo ad un fine cosmico universale saggio. Ma il dolore delle creature del mondo non è altro che il dolore stesso di Dio,…

Poi, se abbiamo tempo, magari nella discussione, sarebbe interessante vedere la vicinanza, l’affinità, tra questo modo di pensare di Eduard von Hartmann e il cattolicesimo – non dico il cristianesimo –, ma il cattolicesimo tradizionale.

È diversa solo la terminologia! I contenuti, a parer mio – e la barca del cattolicesimo la conosco bene – i contenuti sono tali e quali!

Quindi non crediate che questo Hartmann tiri fuori una matrice culturale estranea alla cultura italiana! No, no! Basta tradurre il suo linguaggio filosofico, tra l’altro buddistico, in un linguaggio cattolico – non dico cristiano, ma cattolico – ed è la stessa cosa! È la stessissima cosa!

(XIII, 7) Ma il dolore delle creature del mondo non è altro che il dolore stesso di Dio, perché la vita del mondo, come un tutto, si identifica con la vita di Dio. Un Essere tutto saggezza, però, può vedere la sua mèta solamente nella liberazione dalla sofferenza, e poiché ogni esistenza è sofferenza, nella liberazione dall’esistenza. Vedi Budda. Quindi lo scopo della creazione del mondo è di trasformare l’esistenza nell’assai preferibile non-esistenza. Il processo del mondo è una lotta continua contro il dolore divino, lotta che alla fine termina con l’annientamento di ogni esistenza. La vita morale dell’uomo consisterà dunque nel partecipare all’annientamento dell’esistenza.

Tutte queste cose Hartmann le dice in un tomo che ha 870 pagine!

Ma poi ha scritto tutta una biblioteca! Se volete, un risvolto psicologico del pessimismo di Eduard von Hartmann: lui era un ufficiale, un militare prussiano, è stato ferito a un ginocchio e per tutta la vita non poteva camminare; stava quasi tutta la giornata seduto, con la gamba un po’ alzata, perciò ha scritto un libro dopo l’altro, un’intera biblioteca!

Questa sofferenza fisica ha di sicuro contribuito alla sua filosofia, che mette al centro della vita la sofferenza.

(XIII, 7) Dio ha creato il mondo allo scopo di liberarsi, per mezzo di esso, dal suo dolore infinito. Il mondo è citazione «in certo qual modo da considerarsi come un’eruzione cutanea dell’assoluto», per virtù della quale la forza risanatrice incosciente di quest’ultimo si libera da una malattia interna, continua a citare «o anche come un vescicante doloroso che l’Essere omni-uno applica a se stesso per tirar fuori un dolore interno e poi eliminarlo». Gli uomini sono membra del mondo. In essi soffre Dio. Egli li ha creati per frammentare il suo dolore infinito. Il dolore che soffre ognuno di noi è soltanto una goccia nel mare sterminato del dolore divino ( Hartmann: Fenomenologia della coscienza morale, pag. 866 e seguenti).

Ve l’avevo detto! Quindi immaginate voi tutto quello che ha detto prima! Tutte cose che Steiner ha studiato, da giovane; una cosa molto bella!

(XIII, 8) L’uomo deve compenetrarsi della convinzione che la caccia alla soddisfazione individuale (l’egoismo) è follia, e che egli deve lasciarsi guidare unicamente dal compito di cooperare con disinteressata dedizione al processo cosmico della liberazione di Dio. All’opposto di quello di Schopenhauer, il pessimismo di Hartmann ci porta ad un’attività piena di abnegazione per un compito elevato.

(XIII, 9) Ma dov’è, in tutto ciò, il fondamento sull’esperienza?

Il fondamento sull’esperienza significa, caro Hartmann, caro Schopenhauer, smetti di far teorie; la prima parte della Filosofia della Libertà dice: la realtà la cogliamo per percezione e concetto; percepire e pensare.

Voi avete pensato, pensato, pensato, ma dov’è la percezione? Dov’è il dato di esperienza?

Avete veramente guardato, percepito, se gli esseri umani sentono, vivono, realmente la vita, che son tutti, sbuffano tutti, che stanno lì, tramortiti, perché vivono infinitamente più dispiacere che piacere?

O state soltanto facendo teorie all’acqua di rose?

Quindi in questo 9° paragrafo c’è una prima svolta dove Steiner ci dice: no, no, no, un momento, non facciamo teorie sull’umano! Guardiamo l’uomo! Osserviamolo! Percepiamolo! Dobbiamo appurare se l’essere umano, addirittura generalizzando, se la stragrande maggioranza degli esseri umani vive una quantità maggiore di dispiacere che piacere.

Se questo fosse – detto fra noi – se questo fosse, quale sarebbe la conseguenza?

Che i suicidi dovrebbero essere di gran lunga maggiori che non quelli che continuano a vivere!

Un essere umano che vive realmente il dispiacere, la sofferenza, in quanto enormemente esuberante il piacere e la gioia, e continua a vivere… è uno stupido!

Quindi, a questo punto, la pedagogia di questo capitolo è sovrana proprio perché continuamente ci porta via dalle teorie; e le teorie più micidiali, quali sono?

Le teorie occulte del potere per soggiogare l’uomo!

E perciò il capitolo diventa un po’ lungo perché sempre di nuovo si presentano fattori, al di fuori dell’uomo, che vorrebbero dirgli: tu cerchi, tu vuoi essere felice… sei egoista!

Sei egoista!, e perciò non vali nulla!

Se sei egoista il tuo valore morale è zero!

Allora… l’egoista è l’uomo sano!!!

Però aspettate a farmi fuori, eh!

È l’uomo sano!… Adesso, i poteri costituiti sono disarmati di fronte all’egoista, perché lui li manda a ramengo!

Se sei egoista non vali nulla; moralmente non vali nulla; sei cattivo… e vai all’inferno!

Aspettate a fucilarmi, eh!, che almeno devo finire il pensiero; poi potete fucilarmi!

Allora: sei un egoista, non vali nulla… perché vale la vita nella misura in cui tu diventi altruista!

Quindi la vita ha valore nella misura in cui tu diventi altruista.

Ci sono due tentativi fondamentali di castrazione dell’egoista – che è sano! –: la castrazione clericale, che lo manda all’inferno!

E allora lui dice: oh, se voglio evitare di andare all’inferno… all’inferno ci va colui la cui vita non ha nessun valore morale perché è egoista… allora fammi diventare almeno un pochino altruista in modo da evitare l’inferno.

Questo tipo di… l’ho chiamata castrazione, di impaurimento, di… – mi vengono un sacco di parole tedesche e non me ne vengono in italiano – adesso, negli ultimi tempi, non funziona più perché, dell’inferno, non importa più nulla a nessuno; e allora l’altra: la castrazione laica dice: sta attento, che se sei egoista più di tanto, vai in galera!

E la galera funziona ancora! L’inferno non funziona più, ma la galera funziona ancora. La “galera” sta per tanti meccanismi di soggiogamento, di ricatto sull’individuo.

L’affermazione fondamentale – sto cercando di riassumere cose complessissime quindi non è facile – l’affermazione fondamentale del moralismo è: tu, come uomo, vali qualcosa – stiamo parlando del valore della vita – la tua vita vale qualcosa soltanto nella misura in cui vinci, superi, l’egoismo.

E la risposta della Filosofia della Libertà è che il valore della vita è il sano egoismo!

Non la vittoria dell’egoismo! Perché per vincere l’egoismo dovrei vincere me stesso, e perciò dovrei sparire!

Se l’umanità intera è stata pensata come un grande organismo, allora io sono un membro, una mano per esempio, di questo organismo. Quindi il valore di questa mano è quello di essere una sana, genuina, mano!

Quindi il valore della tua vita è di essere ciò che tu sei nell’organismo dell’umanità.

Adesso faccio un paio di riflessioni fondamentali sull’ottimismo e il pessimismo, poi facciamo una pausa e prendete voi la parola.

L’ottimismo dice: tu sei l’ottimo, per te e per gli altri. Questo è l’ottimismo.

Per quanto mi riguarda non ci può essere qualcosa di migliore di me!, perché migliore di me non esiste! Un altro non è migliore di me, è l’ottimo per te.

Il concetto di io… naturalmente l’io è una pienezza, quindi un ottimo non tutto realizzato, ma un dinamismo evolutivo, e questo dinamismo evolutivo individualizzato che sono io, è l’ottimo per me!

Ditemi voi se riuscite a pensare qualcosa di ancora migliore?

Ogni io umano è un dinamismo evolutivo, all’infinito, del tutto individualizzato.

Cosa ci può essere di meglio!

Allora, per quanto mi sembra di capire – e qui si può innescare la discussione – conosco nell’umanità due matrici culturali fondamentali dell’ottimismo e del pessimismo.

Se volete faccio una piccola premessa: qui dovremmo andare indietro parecchi millenni quanto a un primo inizio di pessimismo e ottimismo: il primo periodo di cultura, la cultura indiana, i 7 rishi, é la prima apertura di pessimismo. E la prima apertura di ottimismo è lo Zaratustra nella cultura persiana.

Lo accenno soltanto, però queste due matrici culturali del pessimismo e dell’ottimismo sono talmente indietro nel tempo che son troppo diverse da quello che abbiamo noi oggi.

Il pessimismo della cultura paleoindiana – pessimismo tra virgolette, capirete cosa voglio dire – sta nell’affermazione fondamentale che tutto il mondo visibile, quindi la vita che viviamo nel mondo visibile, è maia! – quindi, più pessimismo di questo non ci può essere! – col desiderio di lasciare questa brutta, dolorosa, vita più presto possibile e tornare nel mondo spirituale, perché quello è la vera realtà.

Il primo a ribaltare questo pessimismo, nei confronti della vita sulla terra – un’altra non ne abbiamo – è stato Zaratustra che dice – ed è stata una rivoluzione straordinaria in assoluto – dice: no!, la vita sulla terra ha un valore infinito, perché il cimentarsi con tutte le forze, o meglio le controforze della terra, rende l’io umano sempre più forte!

Quindi Zaratustra è stato il primo, nella cultura paleopersiana, che ha interpretato la vita nel mondo fisico-materiale in chiave di ottimismo.

Andiamo più avanti. Scrivo qui “pessimismo” e sul pessimismo ci metto il Budda – Schopenhauer e Eduard von Hartmann erano intrisi di spiritualità buddistica –. 500, 600 anni prima di Cristo, prima della svolta, il Budda afferma le quattro grandi verità, le quattro nobili verità del Budda:

La prima verità: la vita è dolore.

Seconda nobile verità: qual è l’origine, la causa, del dolore? La sete di vita sulla terra; la sete di esistenza sulla terra.

Quale sarà la fine del dolore? L’estinzione della sete di esistenza sulla terra e ritornare nel nirvana. (Terza verità).

Quarta verità: l’ottuplice sentiero per estinguere dentro di sé ogni sete di esistenza sulla terra.

Il primo grande ottimista in assoluto è stato quello spirito – eviterò una parola che crea più problemi di quanti ne risolva, però ci capiamo – lo spirito del Sole che raccoglie in sé tutte le forze spirituali positive, ottimistiche, di tutto il sistema solare; che ha portato sulla terra, rendendo possibile ad ogni spirito umano, una potenzialità di creatività, in assoluto.

Tutte le forze di creatività del Logos: il pensare, il pensare creatore, il pensare artistico, intuitivo, come risposta a ciò che il Budda diceva.

Il Budda aveva ragione quando diceva: la vita è dolore; ma la soluzione di questo problema non è di scappar via!; la soluzione è di rafforzare l’io, le forze dell’io; rafforzare la libertà a un punto tale da poter trasformare ogni dolore, quindi ogni controforza, rendendo ancora più forte l’io.

Per l’io forte la vita è una continua vittoria sul dolore. Questo è il valore della vita!

Quindi il dolore c’è per dare la possibilità all’io di diventare sempre più forte.

Vi dicevo: conosco due matrici di ottimismo in assoluto, una è quella sorta 2000 anni fa; e l’altra: chiamiamola antroposofia per intenderci.

L’antroposofia, culturalmente parlando, in sostanza dice: a questo cosiddetto Cristianesimo – e perciò questi 2000 anni sono stati molto più buddismo che cristianesimo – mancava la coscienza che ogni essere umano partecipa a tutta l’evoluzione, con ripetute vite.

La reincarnazione è vita 1, vita 2, vita 3, vita 4, con un arco di tempo nel mondo spirituale, ecc.

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fig. 1

Tu vali oggi, se adesso sei in questa vita 3, vali ciò che tu stesso sei diventato. E il valore di questa vita 3 te lo trovi tutto nelle vite successive. Tutto ciò che costruisci aumenta il tuo valore, in quanto spirito creatore, e hai a disposizione tutta l’evoluzione per aumentare sempre di più il tuo valore.

Un paragone: la vita… supponiamo adesso in chiave ipotetica, non vogliamo fare i dogmatici, supponiamo che ci siano diverse vite terrene, non all’infinito, e non una sola; per capire, per recepire… se lo mettiamo come dogma non serve a nulla!; se uno dice: io credo nella reincarnazione, non mi dice nulla; gli dico: fondala minimamente col pensiero!

Allora, un modo di fondarla col pensiero è di prendere il paragone con la vita che abbiamo in mano.

Allora, le diverse vite stanno fra di loro come grandi giornate rispetto alle giornate della singola vita. Questa vita 3 è oggi, la grande giornata di oggi, la vita passata è il grande ieri, la vita ancora passata è il grande l’altro ieri, ecc. Ci siamo?

Quindi le vite sono paragonabili a grossi giorni, che sono concatenate come i piccoli giorni.

L’esercizio va fatto, eh! Adesso immaginiamo che siamo nei giorni piccoli, nei giorni che conosciamo: siamo nel giorno 3, ma non c’è mai stato né il giorno 2, né il giorno 1, e c’è soltanto questo giorno qui 3! Quindi buttiamo l’essere umano nel mondo, gli diamo a disposizione un giorno, un giorno piccolo eh!; non ha mai avuto ieri, l’altro ieri non c’è mai stato, domani non c’è, dopodomani non c’è, ha soltanto a disposizione oggi… Quanto vale questo oggi?

Nulla!!!

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fig. 2

Quindi il pensiero – sbagliato, tra l’altro – che l’uomo vive una volta sola, ha vanificato il valore della vita, perché perde ogni senso: non so da dove viene, né dove va a finire.

Se invece io dico: ciò che costruisco in questo grande giorno me lo porto nel giorno successivo e avrà un valore eterno per me, allora sì che la vita vale qualcosa!

Quindi, questo inizio di cristianesimo, che è maggiormente buddistico… guardate, il cristianesimo non c’è ancora stato! Budda diceva: la cosa più sensata è di voler uscire al più presto dalla vita sulla terra! E tutti questi cattolici, che hanno pensato che una vita sola basta e avanza, sono bravi buddisti! Vogliono andare il più presto possibile nel mondo spirituale! Per carità, non sia mai che mi tocca ritornare sulla terra!

Quindi, qual è il valore di una vita concepita come una valle di lacrime sulla terra, dove c’è soltanto dolore, serve soltanto ad andare in paradiso e poi finalmente sei via dalla terra?

È uno sminuire in assoluto il valore della vita!

Il cattolicesimo dice: il senso della tua vita è il dovere, sbuffare, per godere poi dopo la morte, se tutto va bene.

Le scienze naturali sono puro pessimismo anch’esse; perché le scienze naturali dicono: c’è in tutto il mondo, anche nell’uomo, un determinismo di natura.

Se è in me, se è nel cervello, per dire un esempio, se è il cervello, coi suoi determinismi di natura, con le sinapsi, ecc., ecc., a determinare quali pensieri io penso, prima di tutto non sono libero, e poi cosa valgo io? Nulla!

La natura vale tutto; io non valgo nulla!

Quindi la scienza naturale, col suo determinismo, è un puro pessimismo; perché la sua affermazione è che l’uomo si illude di essere libero, ma non vale proprio nulla! La natura vale, l’uomo no; l’uomo è inerme di fronte alla natura.

Allora: la religione col suo “dovere”; poi: la scienza naturale col suo “determinismo”. Quindi, se mi si sottolinea il dovere, la vita è pessimismo in assoluto perché allora io sono soggiogato al dovere, ma non valgo nulla; è il dovere che vale qualcosa.

Il determinismo, ve l’ho appena detto, la società borghese, moderna, come volete, col suo materialismo… in che senso il materialismo, quindi l’ignorare lo spirituale, è pessimismo?

Il materialismo è l’essere umano che gli resta soltanto di godersi la vita a livello materiale. “Godersi la vita”, tra virgolette; non la gode: pensa di godersi la vita.

Allora, questa società moderna, in base a questa matrice così pessimistica, che conosce soltanto il mondo materiale, e il valore della vita che è la creatività che aumenta sempre di più man mano che si entra nell’animico e nello spirituale, questa matrice di pessimismo dice: devi lavorare per vivere!

Cosa vale una vita in cui io “devo” lavorare per guadagnare il denaro per vivere?

Se chiedete a me, io vi dico: una vita in cui io devo lavorare per vivere non vale una cicca!… Una cicca!

Più pessimismo di questo non c’è, proprio non esiste!

Poi: tu devi lavorare per vivere… lui no!; perché lui, i soldi ce li ha già!

Poi, in questo bellissimo ottimismo della nostra società: devi osservare le leggi – a denti stretti e con la rabbia perché… il furbo no!

E qual è la mèta? Qual è la mèta di questo sbuffare?

Godersi la vita finché si può!

Godersi la vita è un pessimismo di povertà interiore, perché, nel momento in cui l’intento di godersi la vita diventa minimamente più concreto, mi rendo conto che il desiderio di godere la vita è pura passività! Mi aspetto dalla vita che mi dia il godimento!

E questo è pessimismo perché uno che vuol godere la vita non potrà mai veramente godere: godibile è soltanto il creare; e il godimento, se vogliamo, è un sovrappiù; che però non si raggiunge facendone lo scopo del proprio agire.

Allora: ho sproloquiato abbastanza, facciamo una pausa, e dopo sentiamo cosa avete da dire voi.

Pausa

***

A.: C’è qualcuno, oltre a me, che ha qualcosa da dire?

Emanuele porterà il microfono… il senso del microfono è, prima di tutto di farsi sentire, e in secondo luogo di pensarci bene a quello che si dice!

Durante la discussione è tutto permesso fuorché una cosa!

PUBBL.: Fuorché le botte!

A.: Lui dice: fuorché le botte! Giusto, giusto! Io le do ogni tanto?

Sono botte spirituali, dài!, neanche animiche!

Allora, chi vuol dire qualcosa?

I.: 1: Buonasera, sono molto contento di poter condividere questa riflessione e poter portare così un confronto e un aiuto a questa cosa.

Volevo confrontarmi chiedendovi quanto di buddista ci fosse nell’azione dell’individuo che costantemente riconosce la sua forza solare, e dunque non agisce più come quell’ego con le sue caratteristiche, ma è una persona sempre nuova e quindi, dato che abbiamo parlato di sano egoismo, una sana attività dove la personalità, che si pensava esistesse, in realtà non c’è. Grazie!

A.: C’è e non c’è! Se non ci fosse non avremmo orientamento per l’umano. Se ci fosse non avremmo più nulla da fare!

Allora la soluzione – metto un po’ di carne al fuoco, eh! Son tutti avvii di pensiero, non risposte a domande – la soluzione è di immettere nella corrente della vita sulla terra, il fenomeno puro dell’umano e poi sparire!

E chi può immettere il fenomeno puro, compiuto, perfetto, dell’umano?

Quell’essere spirituale che è a un gradino di evoluzione superiore all’umano!

Tutto ciò che è superiore all’umano – son tutte parole umane che usiamo, eh!, quindi cerchiamo di capirci e non di fraintenderci: si può fraintendere tutto se si vuole –.

Allora, tutto ciò che travalica l’umano, il nostro linguaggio lo chiama: “divino”. Quindi tocca al divino, che l’evoluzione umana ce l’ha già tutta alle spalle, entrare, in chiave di amore – del Budda: Mitleid: la compassione – nella corrente umana, e porre, in chiave di fenomenologia sperimentare, tutta la potenzialità evolutiva dell’umano.

E questa perfezione, per chi è ancora del tutto in cammino, è insopportabile!; non si capisce come abbia fatto a campare tre anni!!!

Però poi, basta, eh!

Ma il fenomeno dell’umano c’è! Compiuto! Ed è diventare sempre più divini; all’infinito!

Il primo gradino del divino – la terminologia non conta –: chiamiamolo grado angelico. Secondo gradino: arcangelico. Terzo gradino: principati… ecc., ecc., ecc.; all’infinito.

Cerco di esprimere un pensiero complesso, anche questo desunto da Steiner: così come l’archetipo dell’umano si è manifestato, e poi, per lasciarci liberi, si è ritirato,

è stato messo a morte, così il cristianesimo nei primi 2000 anni è stato messo a morte!

E il Logos dice a uno dei 12 dello zodiaco: tu ti chiamerai Pietro perché il tuo compito è di accompagnare l’umanità, dovrai seguirmi a ruota, perché i primi 2000 anni dopo di me – in 2160 anni il Sole percorre un segno zodiacale – l’umanità dovrà piombare nel mondo materialistico dove dimentica lo spirito, non conosce più lo spirito, conosce soltanto la materia morta – le pietre – perché, soltanto in base a questa morte buddistica del cristianesimo, l’individuo potrà far risorgere, non soltanto il Cristo, ma il cristianesimo!

Quindi così come il Cristo ha fatto risorgere, 2000 anni fa, il fenomeno umano, che gli uomini hanno messo a morte, così l’antroposofia – la scienza dello spirito – porta a resurrezione il cristianesimo che i 2000 anni hanno portato a morire.

E ho cercato di dire: il cosiddetto cristianesimo finora, già il fatto di dire: c’è una vita sola, è uno sminuire in assoluto il valore della vita. Invece il desiderio, la gioia, di confermare la vita, volerci ritornare, ripeterla, per poter all’infinito svolgere la creatività dell’umano verso il divino, conferisce alla vita un tutt’altro valore.

I.: 2: Per chi non possiede quel sano egoismo, anzi è permeato di eccessivo altruismo, perché il suo io pensante non è sufficientemente creativo; se così è il problema, che percorso deve fare, questa persona, per ritrovare, o trovare, il sano egoismo?

A.: Vorrei chiedere di ripetere; sì, perché il suo processo di pensiero è complesso più di quanto… Se lo ripete vedrà che…

I.: 2: Siamo partiti dal sano egoismo. Chi invece non ha sufficiente sano egoismo, ma è talmente condizionato dall’esterno per cui io dico: è permeato da eccessivo altruismo, determinato dai condizionamenti della società, della religione, dei poteri ecc., di cui si parlava prima, si trova in una situazione ribaltata rispetto a quella che lei esprimeva. Allora dico: che percorso deve fare questo individuo per ritrovare se stesso?

A.: Allora, esseri umani altruisti non ci sono ancora… per fortuna! Se no saremmo molto più avanti nell’evoluzione! Quindi quell’essere che lei ha definito come altruista, è un super-egoista! E chi è stato missionario come me lo sa!

Il missionario è il “super-altruista” perché nel suo egoismo gode in assoluto di essere così generoso, così altruista. E questo godimento è puro… se vogliamo: sano egoismo!

Quindi, io direi: non ci sono esseri umani egoisti ed esseri umani altruisti; gli esseri umani sono tutti in assoluto egoisti! E va bene così!

Ho sempre detto: ci sono soltanto due categorie: ci sono quelli che sono arci-egoisti e quelli che non sanno di esserlo!

Allora, la mia proposta, però una proposta conoscitiva, di pensiero; le cose si possono dire in mille modi; la proposta è di svolgere il pensiero in questo modo qui: il sano egoista è colui che sa, non soltanto che lui è egoista, ma che lo è anche ogni essere umano. L’egoista non sano è colui che non lo sa, che non è consapevole, che crede di essere non-egoista. Quello crea un sacco di problemi!

E Rudolf Steiner ha tenuto intere conferenze sull’egoismo, e il suo pensiero fondamentale è questo – vi riassumo brevissimamente – dice: l’egoismo ha un lato buono che è l’amore di sé. L’amore di sé è talmente pulito che in tutte le religioni, anche nel cristianesimo, viene messo a modello dell’amore altrui: ama il prossimo tuo come tu ami te stesso. Quindi il modo in cui tu ami te stesso va benissimo, se è preso a modello dell??amore altrui!

Quindi l’amore di sé è il lato buono, necessario, dell’egoismo; perché se io dovessi vincere l’amore di me, dovrei annullarmi! Sarebbe una catastrofe per me e per gli altri, se ho un senso io nell’umanità.

Invece il lato carente, il lato moralmente non buono del cosiddetto egoismo… il lato buono è l’amore di sé, il lato non buono è la mancanza dell’amore per l’altro!

Allora, non si tratta di vincere l’egoismo, si tratta, dice Rudolf Steiner, di allargare l’egoismo, di amare un altro, e due, e tre, e in fin dei conti tutta l’umanità, come ami te stesso! Dicendosi: se siamo un organismo, nessun membro, nell’organismo dell’umanità, è più, o meno, importante di un altro membro. Sono tutti ugualmente importanti!

Quindi, la cosiddetta vittoria sull’egoismo è di allargare sempre di più questo amore; ma mai terminare l’amore di sé! Se no dovrei sparire!

Se poi uno chiede: come mai tutti hanno l’amore di sé e l’amore per l’altro è così poco?

La risposta è molto semplice: l’amore di sé ce lo dà la natura! Nessuno ha mai dovuto sbuffare per amare se stesso. Invece l’amore per l’altro dà alla vita maggior valore perché è una conquista della libertà! La natura non te lo dà; perché se la natura mi desse, sia l’amore per me, sia l’amore per l’altro, la mia vita non varrebbe nulla, perché io non avrei nulla da fare! Farebbe tutto mamma natura!

Quindi la risposta è: va benissimo che tu ami te stesso al 100% – te lo dà la natura, e questo è il sano egoismo – in chiave di libertà godrai la vita, la vita vale nella misura in cui cerchi di rendere l’altro, e l’altro, e l’altro, altrettanto importanti quanto te.

Non più importante! Questo non è possibile! Non è neanche auspicabile!

Ora, mettere l’egoismo, cioè l’amore di sé, in chiave negativa, come se fosse qualcosa di moralmente cattivo, è il moralismo più micidiale che ci sia mai stato! Quanti ricatti nella società, non soltanto nella chiesa, quanti ricatti morali avvengono in base al fatto di mettere in chiave moralmente cattiva l’egoismo, l’amore di sé! L’amore di sé è la cosa più sana che ci sia. Tant’è vero che la massima dell’amore è: ama il prossimo tuo come ami te stesso.

Firenze: I bambini sono in gran parte natura e quindi lì c’è veramente il sano egoismo che trionfa. E l’errore che, per esempio, è stato fatto è quello di abolire degli istituti, che certamente erano dei ghetti, ma invece, al livello umano, era per recuperare, e si è gettato in pasto ai bambini, altri bambini, cosiddetti sani e normali, vattelapesca poi cosa s’intende per norma, questo problema che la società non sapeva risolvere di chi ha delle deficienze evolutive. Ma nel bambino oggi si assiste al fenomeno che molta gente si dice egoista, e in realtà non supera la fase adolescenziale, non riesce a diventare adulta. E lì, appunto, non è più sano egoismo, perché il sano egoismo non può rimanere che a 25 anni tu sei come a 16! Impossibile, no?

A.: Qual è la differenza tra 25 e 16?

FIRENZE: La differenza è che ancora a 16 è giustificato il sano egoismo, puro, quasi totale, dove il fenomeno educativo può proporre soltanto degli ideali da raggiungere; mentre invece, a 25 anni, se tu non cominci a considerare che concepisci il mondo come soltanto tuo e non lasci spazio agli altri, oltretutto ti troverai a confrontarti con continue delusioni e con continui…

A.: Il venticinquenne, deve amare l’altro?

FIRENZE: Deve cominciare, almeno un po’!

A.: Ogni dovere annulla il valore della vita! l’uomo non deve nulla!

Supponiamo che – naturalmente parliamo per sommi capi, quindi bisogna riassumere. Già le categorie che usiamo sono un po’ piene di passati, ecc, cerchiamo di prenderle pulite, se no bisognerebbe far spiegazioni all’infinito – se l’amore all’altro fa parte del furbo egoismo… lo vedremo, l’abbiamo visto: chi ha fatto la Filosofia della Libertà, nel IX capitolo: l’idea della libertà….

Allora, a 16 anni è concesso il sano egoismo, però non intelligente; perché è ancora troppo piccolo per diventare intelligente, e l’amore di sé senza l’amore dell’altro è un amore di sé imperfetto.

Quindi, chi ama se stesso senza amare gli altri, ama se stesso molto di meno di colui che sa, che soltanto se ama gli altri, si crea un sacco di alleati che opereranno in suo favore. Se io mi creo, non amando gli altri, un sacco di nemici, è un disamore verso di me!

Quindi, ciò che è da auspicare – ma non come un dovere! – che capisca come funziona la natura umana! E questo capitolo qui è un’analisi della natura umana, risponde alla domanda come è fatto l’uomo, come funziona l’uomo.

L’uomo funziona così, che se parte in quarta, a 16 anni è normale, è sano, che fa l’esperienza: cosa salta fuori quando io amo solo me stesso e non gli altri? Cosa salta fuori?

Che non amo me stesso! Perché mi creo un sacco di nemici! E questo non è amore di me stesso!

Allora, se è intelligente abbastanza, se impara ciò che la vita gli dice, dirà: se io amo solo me stesso mi amo troppo poco! Se io includo nell’amore a me stesso, l’amore agli altri, mi amo molto di più!

Quindi l’amore verso di sé, che include l’amore agli altri, è più intelligente; ed è molto più profondo.

Deve capirlo colui che ha 25 anni?

No! Doveri non ci sono!

FIRENZE: Ho sbagliato a dire 25 anni, pensavo ai quarantenni, quanti ce n’è…

A.: Può avere anche 50 anni, non importa nulla!

Che cosa è meglio dello statuire un dovere?

Che paghi! Che paghi! Il pagare! Aiuta a capire! Permettiamo alle persone di pigliarsi un sacco di botte in base all’esclusivo amore verso di sé; non c’è bisogno di doveri: le botte arrivano! Il problema è soltanto che noi abbiamo una società, una formazione, un’educazione che non rende sveglie le teste! Perché se noi lavorassimo alla coscienza, alla destrezza del pensiero – lo dicevo: tutta la Filosofia della Libertà è fondata sul pensiero – si accorge, no! Mica è così stupido, che se non ama gli altri, è lui il primo a pagare!

Ah, ma allora tu ami gli altri per amore di te!

E perché no? Se ognuno fa così va benissimo tutto!

I.: 3: Ma c’è un rischio di presunzione…

A.: Microfono, microfono! Eh, il microfono serve ad articolare un po’ il pensiero.

I.: 3: Secondo me si rischia di essere anche presuntuosi avendo questo pensiero su di sé. Cioè, io mi comporto in un certo modo per far sì che possa piacere agli altri…

Rumore del pubblico

No, lei non ha detto questo, però…

A.: L’assemblea rumoreggia! No lei non ha detto che io l’abbia detto!

I.: 3: Sto parlando in generale.

A.: No, no, lei non ha detto che io l’abbia detto, eh! Però loro (il pubblico) dicono: il pensiero è sbagliato. Sta attenta, ripeti il pensiero.

I.: 3: Tendenzialmente una persona che tende ad attirare a sé la propria attenzione con l’essere…

A.: Di questo non s’è parlato!

I.: 3: Però è una cosa che generalmente l’essere umano fa!

A.: Nella misura in cui non è intelligente! Perché se è intelligente si rende conto che non funziona!

I.: 4: Dunque, vorrei andare un po’ a monte di questo discorso sull’egoismo e sull’altruismo. Secondo me il problema è proprio l’amore; cioè, che cosa si intende per amore; perché, come lei ha più volte sottolineato, in una società di persone depresse, o aggressive, io vedo che le persone non sanno amarsi; cioè questa cosa che lei dice che l’amore è dato per natura, lo vedo più come un piacere, intendere l’amore come farmi piacere, ma non in realtà l’amore come farmi del bene; e adesso, secondo me, c’è questo fraintendimento di che cos’è veramente l’amore di sé, che non è un farsi piacere, farsi comodo. Ed è questa, secondo me la problematica di base.

A.: Allora – adesso io ho almeno capito meglio quello che voleva dire –.

L’amore di sé e l’amore per l’altro funziona in un modo del tutto diverso, perché io non sono l’altro e l’altro non è me. E questo sarà il significato di questo capitolo che stiamo studiando.

Il valore della mia vita, la somma dell’amore che io porto nel mio essere da offrire agli altri, l’essenza dell’amore di sé è la gioia del creare! Soltanto nella misura in cui divento sempre più creatore amo il mio spirito creatore.

All’opposto riguardo all’altro! Amare l’altro significa rinunciare in assoluto a voler gestire l’altro!

Allora: l’archetipo dell’amore – Goethe direbbe il fenomeno primigenio dell’amore, il fenomeno di 2000 anni fa – dice: ci sono tre forze fondamentali nel mondo: c’è la potenza, la natura è pura potenza, il terremoto, o il temporale, per esempio… quindi, c’è un triplice mondo divino, non tre dei nella trinità, ma la divinità, quindi anche l’esponente assoluto dell’evoluzione umana, si esprime in tre modi diversi: con potenza fino all’onnipotenza; con sapienza, fino alla sapienza infinita, sarebbe lo Spirito Santo – il Padre è responsabile per la potenza, l’Islamismo conosce soltanto questo aspetto del divino: l’onnipotenza: Allah è onnipotente – e il terzo, il Figlio, presenta: né il modo potente di operare della divinità, perché la sua potenza ti schiaccia – se la divinità fosse soltanto onnipotente noi non potremmo essere liberi –; se la divinità fosse onniscente saprebbe già tutto, saprebbe già quello che io penso oggi, quello che penso domani, come mi comporterò, ecc., quindi non posso essere libero.

La divinità può crearmi uno spazio di libertà soltanto nella misura in cui si ritira: e non è, né onnipotente, né onniscente.

Dove ha rinunciato la divinità – rinunciato! Per amore! A me! Alla mia libertà! – alla sua onnipotenza e alla sua onniscienza?

Nel mio processo di pensiero, nel mio processo di sentimenti e nel mio processo di volontà!

Nel mio pensare, nel mio sentire e nel mio volere la divinità rinuncia ad essere onnipotente, a essere onniscente, per lasciarmi libero!

Amare l’altro significa: rifiutare di sapere, di volere sapere meglio dell’altro, ciò che è bene per lui. Ciò che è bene per te lo puoi sapere soltanto tu! Io non c’entro!

E il tuo agire libero, è libero soltanto nella misura in cui io ti faccio spazio.

Quindi si può amare soltanto diventando impotenti e pazzi, nescenti.

E la mamma, alla figlia arrivata a 18, 19 anni, dice: figlia mia, la tua vita è la tua!

Io ti metterò a disposizione i soldi, per quanto posso, il mondo è lì a disposizione per te, ma ciò che tu ne fai, di ciò che hai a disposizione, lo devi sapere tu; perché ciò che è bene per te, è bene solo per te!

Quindi si può amare l’altro soltanto amando la sua libertà. Per amare me stesso la devo creare questa libertà. Quindi c’è proprio un rapporto di polarità tra l’amore di sé e l’amore per l’altro. L’amore di me lo creo; l’amore dell’altro lo rendo possibile.

I.: 5: Io ho proprio una difficoltà nel punto di partenza dell’amare se stessi, nella maniera di avere il coraggio di essere liberi, intuitivamente di scoprirsi, di crearsi; trovo che sia proprio questa manchevolezza, oggi, della consapevolezza che l’amore è questo; e mancando questo si stravolge tutto e tutto va a ramengo, come dice lei.

Io ho sperimentato che amando me stessa, come devo amare, automaticamente è come un riflesso. È proprio automatico, è come un riflesso; nel momento in cui mi amo, con libertà, automaticamente amo anche gli altri e gli altri vengono come influenzati da questa cosa, dalla mia libertà; e sanno bene e reagiscono di conseguenza, senza che io faccia o dica niente…

A.: Ma lei ci vuol risolvere tutti i problemi già la prima sera?!

I.: 5: Sono un (…..) subito io!

A.: Allora, i problemi che non abbiamo ancora risolto li risolviamo domani e dopodomani; buonanotte a tutti!

Sabato 16 febbraio 2013, mattino

A.: Una buona giornata a tutti!

Per chi non lo sapesse, stiamo affrontando la domanda sul valore della vita.

Ieri abbiamo visto alcuni filosofi con i quali Rudolf Steiner si è confrontato, particolarmente questo Eduard von Hartmann; e questo Hartmann, sulla scia di Schopenhauer, sulla scia della spiritualità buddista, ha una visione pessimistica della vita, nel senso che il pensiero fondamentale è che nella vita esubera il dolore! Ci sarà anche un po’ di gioia e di piacere, ma comunque esubera il dolore; rifacendosi alla prima grande verità del Budda che dice: la vita è dolore!

Se noi ci chiedessimo… io faccio delle riflessioni come spunti di pensiero, poi le mie riflessioni, i miei spunti di pensiero, non hanno il senso di propinarvi la verità; in quel caso sareste ricettori passivi di una saggezza, di una verità, altrui.

I pensieri miei sono per voi una provocazione, un invito, a pensare, ognuno di voi, con la sua testa! Quindi, molto più importante di quello che io dico, che sia vero o non vero, che colga il centro o rimanga alla periferia, molto più importante è quello che si accende come processo di pensiero, nella testa di ognuno.

Quindi, se volete, l’oratore migliore non è quello che dice le cose più profonde, ma è quello che ha l’arte di provocare, in chi ascolta, il massimo del proprio pensiero!

Quindi miei pensieri li prendete come spunti per quello che poi ognuno ne sa fare.

Allora, prendiamo l’ottimista e il pessimista; se noi chiedessimo: chi ha ragione? Ha ragione l’ottimista che dice: il mondo è il migliore che ci sia, la vita è bella e comunque è positiva? O il pessimista che dice: no, il mondo è pieno di dolore e la vita anche è piena di dolore?

Credo che la prima cosa importante, per andare avanti con il proprio pensare, è di capire che hanno ragione tutti e due, al 100%!

Come fanno ad aver ragione tutti e due al 100% se dicono l’opposto?!

Fanno tutti e due, nella misura in cui l’uno è ottimista, l’altro è pessimista, fanno uno sbaglio di fondo, nella misura in cui, come dire, fanno un dogma della loro situazione di vita!

Se l’ottimista dicesse: per me la vita è una gran bella cosa! Va bene! Nel momento in cui dice: la vita è bella, intende dire che è bella per tutti! Ma il pessimista dice: no, per me non è bella!

Quindi, più importante della teoria che una persona dà, è la realtà del suo essere; quindi il pessimista è un altro essere, un essere che è diverso dall’ottimista.

Il pessimista è l’essere umano che vive la vita – ed è vero!, altrimenti non sarebbe pessimista – maggiormente dal lato negativo.

Si può vivere la vita maggiormente dal lato negativo?

Certo che si può! Basta poltrire, per esempio e uno è subito scontento!

Supponiamo che la natura umana sia così, che se uno poltrisce, è scontento: basta che uno poltrisca è sempre scontento, scontento, scontento, e diventa pessimista!

È possibile vivere la vita da ottimisti?

Certo che è possibile! Persone ottimiste ci son sempre state. Se ci sono state vuol dire che è possibile!

Quindi il primo passo è di lasciar perdere le teorie dell’ottimista sulla vita di tutti, sulla natura umana di tutti; buttar via la teoria del pessimista sulla vita di tutti e sulla natura umana di tutti, e di guardare all’essere umano, alla realtà dell’essere umano.

Ora, ieri sera abbiamo letto i paragrafi nei quali il pessimista – che sia Budda, che sia Hartmann, non importa – ha cercato di dimostrarci che nella vita la quantità di dolore, eccede, è più grande, della quantità di gioia e di piacere. È più grande!

La prima riflessione è di dire: ma lo dici tu! È una teoria tua! Di quale vita parli?

Della vita dell’uomo?

Tu non sei l’uomo, non sei tutti gli uomini! Parla della tua, magari! Parla di te!

Se tu dici, caro Hartmann, che nella tua vita, siccome ti lagni continuamente, nella tua vita il dolore esubera la gioia… padronissimo! Ma parla di te, però, non parlar di me! Non ti do il diritto di parlar di me!

Allora, questo Eduard von Hartmann, da scienziato di allora – lui era in auge nel 1880; erano i decenni in cui la scienza naturale andava di conquista in conquista – questo filosofo dice: “io voglio attenermi all’esperienza”!

Allora, siamo arrivati, ieri sera, al punto in cui, al par. 9, si dice: ma dov’è, in tutto ciò, il fondamento sull’esperienza?

Il fondamento sull’esperienza significa che bisogna smettere di fare teorie sulla persona umana, e cominciare a guardare, a percepire, a vedere come l’uomo è veramente!

Nel momento in cui noi guardiamo alla realtà, smettiamo di far teorie, astrazioni, e guardiamo alla realtà dell’uomo, vediamo l’uomo – a livello di percezione, eh! – diciamo che l’uomo si svolge in due dimensioni fondamentali: ciò che è comune a tutti gli uomini, altrimenti non avremmo la possibilità di parlare di uomo, ma poi subito bisogna percepire anche: l’uomo non è soltanto uomo, nessun uomo è soltanto uomo, nessun uomo ha soltanto ciò che è comune, ma ha ciò che è individuale.

Ciò che è individuale! Importantissimo!

Perché nessuno di noi – sarebbe un’assurdità – vorrebbe lasciarsi ridurre a ciò che ha in comune… se io avessi in me solo ciò che ho in comune con tutti gli esseri umani, non avrei il diritto di parlare di “io”, e non avrei nulla di specifico, di particolare, di individuale, tutto mio, tutto diverso!

Quindi l’umano è un tema fondamentale che si svolge sempre in due dimensioni: ciò che tutti gli esseri umani hanno in comune – se volete, scrivo qui: la natura umana – e poi: ciò che è individuale, ciò che è particolare: l’io! Scrivo “io”!

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fig. 3

Adesso un’altra riflessione: se noi vogliamo veramente essere concreti… non percepiamo mai la natura umana! La natura umana da sola, pura, non c’è!

Quindi la natura umana, ciò che è comune, è un’astrazione!!! Ciò che è comune c’è soltanto “individualizzato”, e non sono scindibili!

Quindi il concreto in assoluto della percezione è l’individuo! Io parlo con te!

Quindi parlando con te, non sto parlando con la natura umana… la natura umana non c’è! Se uno parla con me e pensa di parlare con la natura umana, gli do un calcio nel sedere!

Insomma, parli con me o parli con la natura umana; con chi parli?

Quindi l’umano, a livello percepibile, è sempre l’io concreto, specifico, individualizzato; e ogni io è un mondo del tutto diverso da ogni altro io.

Allora – par. 9 – dice Steiner: voi volete dimostrarci che, per la natura umana, sta nella natura umana, è nella vita umana in quanto tale, che vale per tutti gli uomini, che la quantità di dolore è più grande della quantità di piacere… e Steiner dice: mostramelo!!! Nella percezione!

Ma guardiamo l’uomo, guardiamo gli esseri umani, concreti! Se fosse vero – per me – che nell’arco di tutta la vita, il dolore sopravanza chiaramente la gioia, l’unica conseguenza logica sarebbe di togliermi la vita.

Tant’è vero che il Budda, che era convinto che la vita è dolore, diceva: allora, chiediamoci da dove viene il dolore? Viene dalla sete di esistenza! In che modo si supera il dolore? Superando la sete di esistenza, terminando di volere vivere la vita sulla terra. E poi la quarta verità, l’ottuplice sentiero, il cammino interiore per superare ogni brama di vita in modo da essere catapultati nel nirvana, e lì va tutto bene!

Quindi, vi dicevo, 500/600 anni prima della svolta, dove Budda viveva, a quei tempi la forza dell’individuo, diciamo, la forza dell’io, l’individualizzazione, anche la capacità di libertà, la capacità di creatività, era incipiente nell’umanità; per cui il Budda non poteva dire: il senso della vita sulla terra – il valore della vita – è di dare all’essere umano un campo di azione che non gli rende tutto facile! Un campo di azione pieno di sfide, una vita piena di sfide, per cui l’io diventa sempre più forte nella misura in cui gode di queste sfide, e anche di queste controforze.

Siccome le forze dell’io erano appena appena incipienti, al tempo di Budda – un’affermazione di Budda è: l’io è un’illusione! – se l’io si viveva, giustamente perché era così, come un’illusione – l’io è appena appena incipiente –, si sente spiazzato questo io, buttato in un mondo, in una vita terrena, piena di sfide, piena di controforze.

Il Logos, la logica universale, ha risposto al Budda: – Budda era uno spirito planetario, invece questo Logos è lo spirito di tutto il sistema solare – guarda che c’è un altro rimedio: anziché andar via dalla vita, perché uno dice: non ce la faccio, è piena di dolore, c’è un’altra soluzione! L’altra soluzione è di rafforzare sempre di più l’io in modo che arrivi al punto di godersi tutte queste sfide, tutte queste controforze; e rafforzato, sempre più forte, si gode la vita!

Perché la vita senza ostacoli è una noia all’infinito!

Quindi l’evoluzione, il fenomeno umano va preso in senso evolutivo; e questi Hartmann e Schopenhauer sono rimasti a quella posizione del Budda, e non si sono accorti che, nel frattempo, ci sono un sacco di esseri umani che si godono la vita sempre di più – proprio perché le forze dell’io sono in grado di aumentare sempre di più – e l’essere umano è in grado di dire: no!, dove il Budda ha visto un dolore perché le forze incarnatorie dell’io erano esigue, noi adesso siamo in grado, se vogliamo, di vedere, proprio in questo cosiddetto dolore, una sfida a trasformarlo in forze di creatività sempre maggiori per l’io.

Quindi, dicevo, sia l’ottimista, sia il pessimista, hanno ragione ognuno dal suo punto di vista.

Adesso, nei paragrafi successivi, Steiner dice: guardiamo concretamente all’essere umano, se è vero – e la domanda adesso sta per aria – che la quantità di dolore è più grande della quantità del piacere e della gioia.

La proposta che faccio è che ognuno, mentre leggiamo, riferisca a sé queste riflessioni; altrimenti non servono a nulla!

Per me, come sono fatto io interiormente, vivo la vita, sento la vita, ho l’impressione che nella mia vita il dolore esubera; oppure ho l’impressione che nella mia vita la gioia esubera?

Adesso faremo questa disamina e vi anticipo la conclusione in modo che serva come orientamento: l’essere umano che si guarda, concretamente, senza far teorie sulla sua natura umana, la natura che è comune e io come sono fatto, se l’essere umano è sincero, si rende conto, se lascia via la gestione della religione, che vuole gestire in nome di Dio l’essere umano dal di fuori; la scienza naturale che vuole gestire l’uomo in base alle leggi ferree deterministiche della natura; la legge della società borghese che vuol gestire l’uomo dal di fuori, in base a leggi dello stato che gli dicono ciò che deve fare per essere un bravo cittadino… non m’importa nulla di essere bravo davanti a Dio, che è stato inventato; non m’importa nulla di essere bravo di fronte alla natura deterministica, perché non mi va di non avere nessuna libertà di fronte alle forze di natura; non mi va di essere bravo di fronte a Monti e a Berlusconi… io, adesso la vita la voglio vivere io, e mi chiedo: nella mia vita c’è una maggiore quantità di dolore e di sofferenza, o… e la risposta è: non me ne importa nulla!!!

Se anche la quantità del cosiddetto dolore fosse “5 milioni”, e se anche la quantità di gioia, di autorealizzazione, dovessero essere “mille”, non m’importa niente! Mi godo questo mille!

Quindi, adesso facciamo una riflessione in base alla quale salta fuori, in chiave di osservazione, in chiave di percezione, senza far teorie sull’essere umano, che questo calcolo per sapere il valore della mia vita – la mia vita vale nella misura in cui la gioia, quantitativamente, è di più del dolore – è un calcolo che l’uomo non fa! Perché la vita non è questione di quantità, ma di qualità!

(XIII, 9) Ma dov’è, in tutto ciò, il fondamento sull’esperienza?

(XIII, 10) L’aspirare alla soddisfazione è il tendere dell’attività vitale oltre il contenuto attuale della vita.

Una frase un pochino… tradotta dal tedesco dovrebbe essere un po’ più semplice. L’uomo tende… il tendere… l’uomo tende a qualcosa; il valore della vita consiste nel fatto che, ciò a cui mira… il tendere, il mirare, lo possa realizzare. La soddisfazione, l’appagamento… se ho fame c’è questo anelito a mangiare; tendo verso la sazietà; quindi la sazietà è la soddisfazione di questo tendere, di questo mirare. L’aver mangiato bene è l’appagamento di questo desiderio… bramare… e l’uomo vuole conseguire l’oggetto delle sue brame.

Quindi, l’aspirare, il tendere, il mirare, il bramare, alla soddisfazione è il tendere dell’attività vitale, della vita, oltre il contenuto attuale. Ciò che ho qui e ora non mi basta, non mi basta ciò che sono, tendo sempre, c’è un divenire, tendo sempre a qualcosa di nuovo, a qualcosa d’altro. E qui porta tre esempi.

Un essere ha fame, cioè aspira alla sazietà, quando le sue funzioni organiche richiedono per il loro corso ulteriore l’aggiunta di nuovo contenuto vitale sotto forma di nuovi mezzi di nutrizione. L’aspirare ad onori?

Il primo esempio è la fame, il secondo è volere l’onore, il riconoscimento degli altri… consiste nel fatto che l’uomo attribuisce valore al suo modo di agire solo quando alla sua attività viene dato un riconoscimento esteriore. Meglio tradurre: dall’esterno: il riconoscimento non è esteriore, è dall’esterno. E poi il terzo esempio. L’aspirazione alla conoscenza sorge quando l’uomo trova manchevole il mondo che egli può vedere, udire, e così via, fino a che non l’abbia compreso.

Non l’abbia conosciuto, non l’abbia afferrato in chiave di pensiero.

Allora, cosa fa qui Steiner, in questi tre esempi?

Ci mette la triade della natura umana; dell’uomo!

Adesso non aggrappiamoci a schemini, sono orientamenti del pensiero. L’uomo ha una dimensione del corpo, che è maggiormente della natura; poi chiamiamo anima tutta l’interiorità dell’uomo – e qui già dobbiamo mettere tra virgolette perché l’uomo d’oggi, materialista, il corpo lo conosce bene, l’anima non sa bene cosa sia; lo spirito poi, ancora più tra virgolette, perché oggi nessuno sa più cosa sia lo spirito. E il senso di questo testo è quello di scoprire sempre di più lo spirito.

Allora, in questi tre esempi, di primo acchito Steiner porta un esempio di brama corporea, un esempio di brama animica e un esempio di brama spirituale.

Il corpo brama, quando ha fame, di saziarsi. Vuole mangiare! E fin qui va bene! Perché se io ho fame, ho fame, ho fame… se non mangio, i conti non tornano!

La mia vita non vale nulla se non riesco neanche a mangiare! Tant’è vero che il minimo denominatore comune è che milioni di esseri umani devono sbuffare per guadagnare sufficiente denaro per far vivere il proprio corpo!

Perché se non riesco a far vivere il mio corpo la vita non vale nulla: vado all’altro mondo! Quindi qui va bene!

Poi, quello che io ho chiamato: l’anima, comincia, già in fatto di traduzione, a diventare difficile perché la categoria tedesca “Ehre” è già difficile da tradurre in italiano. Uno cerca “gli onori”; ma Ehre è singolare, non è Ehren… Io direi: il riconoscimento, da parte altrui. O se volete, ancora più semplice: la lode! La lode!

Un essere umano che non sia per nulla dipendente dalla lode altrui è un farabutto, non è umano! Perché il riconoscimento altrui è il riscontro del fatto che la mia vita vale qualcosa, non soltanto per me, ma anche per l’altro.

Quindi importantissimo questo elemento dell’anima, del vissuto interiore; che non basta perché la mia vita abbia valore, che io la veda piena di valora; mi deve tornare indietro anche il fatto che i miei talenti, o quello che faccio, viene riconosciuto dagli altri. Quindi: la lode.

La fame… la sazietà è l’appagamento. La lode è l’appagamento animico; e poi, per lo spirito, Steiner prende l’esempio dell’anelito, del tendere alla conoscenza.

Un bellissimo esempio di una vita umana, siccome ogni essere umano è corpo, è anima ed è spirito, la vita umana ha valore, la mia vita ha valore, nella misura in cui io cresco, sempre di più, in conoscenza! Afferro aspetti sempre più vasti del mondo in cui esisto, e capisco la realtà, capisco la vita sempre meglio.

Tutti e tre ci dicono che l’essere umano non è statico, è sempre in divenire!

Se il corpo fosse statico, non ci sarebbe questo tendere continuo… il corpo smaltisce, con la digestione, quello che ha mangiato; sorge di nuovo la fame, sempre di nuovo, ogni giorno, la fame, e la ricerca di sazietà.

Uno riceve un complimento, una lode… gli basta?

No! Ne vuole due!

Gli bastano due?

No, ne vuole quattro!

Gli bastano quattro?

No, ne vuole otto! E va bene così!

C’è qualcuno che si è mai lamentato di troppe lodi?

Nooo! Sarebbe falsa modestia!

E lo spirito tende – parlavamo di tendere, mirare, bramare, anelare – alla conoscenza, a capire il mondo sempre di più. E non c’è limite!

Non c’è limite al riconoscimento… se vogliamo, questa lode è l’elemento dell’amore; e questo (la conoscenza) è l’elemento della luce. Il calore dell’amore e l’elemento della luce: non c’è limite!

Il limite c’è nel corporeo, perché il corpo sorge all’inizio della vita e poi smette di essere; viene ricostruito di vita in vita, ma l’anima e lo spirito sono in un dinamismo di divenire eterno; senza termine, senza limite.

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fig. 4

L’esaudimento dell’aspirazione genera nell’individuo che in sé la nutriva, piacere; il non-esaudimento produce dispiacere.

Allora, io desidero mangiare: la sazietà, l’appagamento della fame, mi dà piacere. Io desidero un riconoscimento, una lode: l’altro che mi dà una lode, che riconosce quello che ho fatto, mi dà gioia. Io tendo verso la conoscenza, capire qualcosa mi dà gioia.

È chiaro che se vogliamo fare un’analisi della quantità di piacere, mettiamo qui:

  1. quantità di piacere, di gioia, per ogni tipo di appagamento!
  2. C’è soltanto il piacere, la gioia che sorge in base all’appagare? Ciò che bramiamo, ciò cui miriamo, ciò cui tendiamo, ciò cui aneliamo?

No!

Il pensiero successivo è: bramare, mirare, tendere, anelare, in quanto tali danno gioia!

Ahàaah! Il tendere, il tendere stesso! Indipendentemente dal fatto che questo tendere venga appagato o no! Lo sfociare in un appagamento è una gioia aggiuntiva! Il desiderare qualcosa, mentre lo sto desiderando e non l’ho ancora conseguito; questo desiderare prima di aver conseguito ciò che desidero, è dolore?

È gioia! Se no non lo desidererei!

Quindi, il desiderare, per natura, indipendentemente dal conseguire ciò che io desidero, è gioia! Perché se non mi desse gioia il mirare a questa cosa, smetterei subito di mirare!

Tant’è vero che l’essere umano ha la capacità di tendere verso qualcosa per dei decenni, indipendentemente dal fatto che ci arrivi!

La parte più bella del sognare è l’esaudimento del sogno?

No! L’esaudimento del sogno è la fine del bello. La parte più bella è il sognare!

E guai a colui, il cui sogno si è realizzato, che non sia capace di farne sorgere uno ancora più grande!

Perché adesso è una buggerata! Adesso che il mio sogno si è realizzato… e mo’ che faccio?

Quindi dovremmo distinguere tra esaudimento, appagamento, di ciò a cui io anelo, e l’anelare stesso! Il tendere! Prima! Anche indipendentemente dal fatto che si realizzi! Perché tanti desideri non vengono esauditi; però vengono vissuti positivamente come desideri; e fanno parte della gioia della vita!

E qui è importante rilevare che piacere e dispiacere non dipendono che dall’esaudimento o dal non-esaudimento della mia aspirazione. L’aspirazione stessa non può in alcun modo considerarsi come dispiacere.

Qui, a questo punto, l’aspirazione… ditemi voi: è giusto “l’aspirazione”?

È giusto? La testa cosa dice?, indipendentemente che uno sappia il tedesco o no!

PUBBLICO: L’aspirare!

A.: Bravo! L’aspirare, non l’aspirazione! L’aspirazione è l’esperienza dell’aspirare. In tedesco c’è: streben; questo verbo che è un dinamismo interiore dell’aspirare, del tendere… il tendere te lo traduce con “l’aspirazione”.

Vedete, nella misura in cui non si capiscono bene fino in fondo le cose, poi la traduzione, insomma, non ci aiuta più di tanto; invece in tedesco, l’originale, ti mette lì un verbo, lì non si sgarra! Das streben è il tendere, il mirare, l’aspirare – che è ben diverso che non l’aspirazione –.

Cos’è un’aspirazione, se siamo sinceri?

Aria fritta!

Perché prima dell’esaudimento io non so cosa salterà fuori! So soltanto di mirare; vivo in me il desiderare; vivo in me questo tendere ancora aperto in tutte le direzioni. Invece un’aspirazione vorrebbe fare come se io sapessi già esattamente dove sfocia, in quale tipo di appagamento sfocia; soltanto se io ho già presente l’appagamento posso avere l’aspirazione verso questo appagamento; ma allora non ho né l’uno, né l’altro.

Quindi l’aspirare, il tendere… das streben, tra l’altro questo streben tedesco… begehren… begehren addirittura è bramare; streben è tendere, mirare… La traduzione italiana, io non la voglio criticare più di tanto, però vogliamo renderci conto: traduce sempre col desiderio. Questo desiderio italiano è una realtà esile esile, fatiscente, rispetto a questo streben, o begeheren… sono verbi fortissimi, sono pieni di volontà, dell’io umano che proprio tende con tutte le sue forze!

Questo desiderare qui… sono i pii desideri… di una religione che ha fatto addormentare l’essere umano, scusate!

Però io ho fatto tutto uno studio di sinonimi e non ho trovato parole italiane che rendano la forza, lo spessore, di questa parola tedesca!

Non ci sono!

Vi leggo un paio di risultati delle mie ricerche, l’italiano quante belle cose ha! Allora: il desiderare, tendere, agognare, bramare, mirare, ambire, aspirare, sognare, vagheggiare, anelare, concupire, volere, esigere, pretendere, ricercare… Invece poi l‘italiano è molto più pieno di sostantivi, anziché di verbi.

Diciamo: il desiderio, la passione, la tensione – andiamo dall’anima verso lo spirito – il fenomeno primigenio dell’anima è il desiderio; desideri che vanno verso lo spirito: passione, tensione, tendenza, progetto, intento, volontà, ideale. Se andiamo invece giù, verso il corpo, vedrete cosa salta fuori!

La voglia, le voglie, l’ambizione, lo stimolo, l’aspirazione, il sogno, l’avidità, frenesia, smania, anelito, sete, fame, cupidigia, gola, libidine, fregola, erotismo, concupiscenza!

Più si va giù e più il dizionario diventa ricco! Più si va su e più…

Invece quando questi godimenti diventano astratti guardate come l’italiano diventa ricco – però cose del tutto astratte, eh! –.

Allora, l’anima, il godimento, il piacere, il divertimento… andiamo giù verso il corpo: godimento, piacere, divertimento, sollazzo, compiacimento, benessere, benestare, voluttà… adesso andiamo su verso lo spirito: allegria, allegrezza, gioiosità, festosità, gaiezza, giocondità, entusiasmo, gioia, delizia, gaudio, tripudio, diletto, felicità, contentezza, esultanza, estasi, giubilo, letizia.

Uno pensa a Francesco d’Assisi che si bea della perfetta letizia!

E tante di queste parole non si possono tradurre in tedesco; il tedesco non ce le ha!

Traducete voi in tedesco il giubilo, l’estasi, l’esultanza, la contentezza, il tripudio, il gaudio, la delizia, la gioia…

Gianni: Allora leviamo tutto e lasciamo “streben”!

A.: Siamo italiani, via! E vogliamo restare italiani, ci mancherebbe altro! Però, se lei vuole, e soprattutto i giovani qui in sala, questa riflessione, che è giusta… stiamo affrontando un testo fondamentale di scienza dello spirito, e questa scienza dello spirito, nel karma dell’umanità, non è per caso che sia stata conferita sulle ali del linguaggio tedesco!

Quindi, se i giovani… chi è oltre i 30 / 40 anni… è tardi: le lingue si imparano da giovani! Quindi: chi è giovane e vuole masticare la scienza dello spirito per tutta una vita – glielo auguro, che è puro godimento – e non vuol essere dipendente per tutta la vita da traduttori – che secondo il proverbio italiano sono traditori! – impari il tedesco!

Io sono felice di aver messo la pulce nell’orecchio a diversi, proprio a diversi giovani italiani, che hanno imparato, alcuni veramente bene, il tedesco. E non si sono mai pentiti!

Quindi, una riflessione che ho fatto in via di eccezione sul testo originale che voi mi consentite di fare perché abbiamo in mano una traduzione. Immaginate voi di essere in Germania e adesso i tedeschi fanno la Divina Commedia tradotta in tedesco!… Certo, glielo concediamo, se non sanno l’italiano la devono prendere in tedesco! Però noi ci riserviamo di dire: però guarda che nell’originale la cosa non è così, capito!

Dante, per esempio, si è arrabbiato con Celestino V° – che si è dimesso come papa (1295), se mi ricordo l’ha messo all’inferno! – e parla del gran rifiuto! Altro che dimissioni!… Una volta che è saltato fuori uno di quelli bravi, se ne va via perché… il gran rifiuto: se fossimo in Germania è subito una dicitura che in tedesco non si può tradurre; intraducibile! E ogni italiano capisce subito cos’è! Il gran rifiuto! Il papa si è dimesso! L’ultimo!

(XIII, 10) L’esaudimento dell’aspirazione genera nell’individuo che in sé la nutriva, piacere; il non-esaudimento produce dispiacere. E qui è importante rilevare che piacere e dispiacere non dipendono che dall’esaudimento o dal non-esaudimento della mia aspirazione. L’aspirazione stessa {il tendere stesso, das streben, l’aspirare stesso} non può in alcun modo considerarsi come dispiacere. Se dunque avviene che, nell’istante stesso dell’esaudimento di un’aspirazione, se ne presenti subito una nuova {quindi, che l’aspirare non molla mai; dopo appagata un’aspirazione continua ad aspirare sempre oltre}, io non posso dire che il piacere ha per me generato dispiacere, è perché in ogni circostanza {in tedesco c’è: comunque} il godimento crea il desiderio della sua ripetizione {il tendere a una nuova ripetizione, il tendere a un’altra ripetizione; quindi questo tendere è godimento, è gioia} o di un nuovo piacere. Solamente quando questo desiderio urta contro l’impossibilità della sua realizzazione, posso parlare di dispiacere. Anche quando un godimento provato crea in me il desiderio di provare un piacere maggiore o più raffinato, non posso parlare di un dispiacere generato dal primo piacere, se non nell’istante nel quale mi vengano negati i mezzi per provare il piacere maggiore e più raffinato. Solamente quando sopravviene il dispiacere quale naturale conseguenza del godimento, come in un certo qual modo avviene per il godimento sessuale della donna, seguito dalle sofferenze del parto e dalle fatiche dell’allevamento dei bambini, si può scorgere nel godimento il creatore del dolore.

Qui lasciamo alle donne, poi in chiave di dibattito, di esprimersi, se vogliono!

Se l’aspirare, come tale, vedete che qui c’è l’aspirare e non l’aspirazione! Qui è costretto a tradurre bene perché adesso mette a fuoco il pensiero! suscitasse dispiacere, ogni eliminazione di aspirazioni dell’aspirare dovrebbe essere accompagnata da piacere. Avviene invece il contrario.

E cosa avviene invece quando eliminiamo ogni tipo di aspirare?

La noia! E la noia è dispiacere!

Quindi questo è, di riflesso, la dimostrazione che aspirare, tendere a qualcosa, dà gioia; in quanto tale; indipendentemente dal fatto che venga appagato o meno!

E il senso di tutto il capitolo – se riusciremo a farlo tutto, perché è quello più lungo, come vi dicevo; d’altra parte non si può soltanto correre leggendo il testo – è che l’arte della vita, il valore della vita, è di realizzarsi sempre di più nel tendere!

Detto per sommi capi: c’è un tipo di tendere che si realizza, che si appaga per natura? Che è al contempo un tendere e un appagamento del tendere?

Quello sarebbe il massimo di valore della vita!

C’è in italiano una parola bella, che va ripulita da sentimentalismi, misticismi, alienanti; che in tedesco non si può tradurre così bene… cosa ne pensate se io qui scrivo: il creare!

Il creare è un tendere! È un dinamismo dell’essere che si realizza nel presente!

Uno dipinge… il soddisfacimento del dipingere è il “dipinto”?

Allora, io sento gioia soltanto di fronte al dipinto?

No!

Se io miro al dipinto, se io tendo a quel tipo di appagamento che mi viene dato soltanto dal dipinto – vi do questo esempio perché c’è proprio il dipingere e il dipinto, che è il quadro finito – allora io non sto godendo… il valore della mia vita non è intrinseco a ciò che io sono, a ciò che io faccio, ma voglio il dipinto perché poi il dipinto lo vendo e mi faccio un sacco di soldi; quindi svuoto il momento presente!

Come dire: alieno… è una specie di strumentalizzare il momento presente verso il fine; ma il fine non c’è in questo momento.

È la mentalità materialistica del successo!

Sub-cedere in latino significa: cadere dopo! Si vive sempre nel futuro e mai nel presente! Una vita che vive sempre nel futuro e mai nel presente, non ha valore: svuota sempre il presente; ma io ho a disposizione soltanto il presente!

L’essere umano ha a disposizione sempre e soltanto il presente, non ce l’ha il futuro; il futuro non ce l’ha ancora! Quindi il massimo di valore è: nel presente, nel creare presente, come dire, far confluire tutto il passato… e come riassumiamo tutto il passato dell’uomo?

Il corpo; la natura; il corpo, perché non posso creare senza corpo.

Il creare lo vivo nel presente, e in questo creare anticipo tutto il futuro!

Questo è il valore massimo della vita: il creare!

E mentre uno dipinge, nel dipingere, se questo dipingere è creativo, è creante, proprio ne faccio l’esperienza – dico dipingere, ma può essere cuocere un pasto, creare una conversazione, una passeggiata… ogni tipo di azione! – se io ci metto dentro il creare è il valore massimo che posso dare alla mia vita! Perché in questo creare c’è l’individualità, lo spessore unico, specifico di ogni individuo.

Perché due pittori che dipingono, che “creano” allo stesso modo… non creano né l’uno, né l’altro! Il creare è per natura individualizzato; altrimenti non è creare; è un copiare!

Quindi il valore massimo della mia vita sono io in quanto creatore! A tutti i livelli della vita. Però: potenzialmente creatore! Perché se fossi per natura creatore, creatore per forza, mancherebbe la libertà! Quindi sono libero di diventare sempre più creatore; sono libero di vivermi sempre di più in quanto creante; artisticamente creante, intuitivamente creante, fantasiosamente creante!

Di meglio non c’è! Un valore maggiore non c’è mai stato! Ma basta: è più che sufficiente.

(XIII, 10) La mancanza di aspirazioni nel contenuto della nostra vita genera noia, e questa è collegata con dispiacere. Ora, poiché per natura l’aspirazione l’aspirare può durare lungo tempo prima che ne venga l’esaudimento, e in tal caso, provvisoriamente, essa si contenta di sperare nel medesimo {sperare significa continuare a tendere}, bisogna riconoscere che il dispiacere non ha nulla in comune con l’aspirazione {con l’aspirare} come tale, ma dipende unicamente dal non-esaudimento di essa. Schopenhauer ha dunque torto in ogni caso, quando considera il desiderio o l’aspirazione {l’aspirare, das streben – addirittura per “desiderio” c’è “begehren”; quindi, tradotto letteralmente sarebbe: il bramare! – il tendere} (la volontà) per se stessa come sorgente del dolore.

Il desiderio, l’aspirazione, sono termini molto più tenui, più fatui, rispetto a questi forti verbi tedeschi.

(XIII, 11) In verità proprio il contrario è giusto. Aspirare (desiderare) di per sé dà gioia.

Questo è importante: come risultato dell’introspezione! Stiamo fondando sull’esperienza, quindi si tratta di percepire l’essere umano; e questa percezione in via introspettiva – percezione animica, se vogliamo – ci fa constatare che il tendere come tale, essere intrisi di ideali forti, desiderare fortemente qualcosa, dà gioia! Altrimenti non la desidero!

Sarebbe come dire: una persona si innamora di un’altra, però la gioia avviene soltanto quando se l’acchiappa, l’altra persona!

No, la gioia c’è nell’innamoramento, nell’essere innamorati!

Caso mai quando se l’acchiappa, sparisce questa gioia!

È lo stesso discorso che facevo sul sogno: quando si realizza, è sparito tutto!

Questo per far capire che Schopenhauer pone addirittura il tendere… lui dice: finché il tendere non viene appagato è dolore!

No! no, no, è un’osservazione del tutto sbagliata! Il tendere come tale, è gioia! Perché se il tendere, come tale, mi desse dolore, lo lascerei. Però, lasciando il tendere ho la noia! E questo sì che è dolore!

Quindi il valore della vita aumenta nella misura in cui tu sei capace di aumentare il tuo bramare! E proprio per questa parola non c’è nessuna traduzione in italiano.

Allora, adesso pensate alla morale della religione tradizionale; pensate alla morale laica che vuole tenere a bada l’essere umano, farne un buon cittadino; e adesso sentite l’affermazione della Filosofia della Libertà che dice: la tua vita vale nella misura in cui tu diventi un “bramante” sempre più forte!

La religione tradizionale va a ramengo; il bravo cittadino che fa i suoi doveri… e sorge la paura della nostra società di fronte all’individuo libero.

Abbiamo una società che vive di paura della libertà; perché la libertà non dà garanzie; se desse garanzie non sarebbe libertà!

Non c’è libertà senza rischio; si è liberi solo a rischio! E abbiamo una religione che non vuol rischiare, vuole assolutamente andare in paradiso, e abbiamo una società – una politica, se volete – che non vuol rischiare; perché la casta, il ceto dirigente, vuole che milioni continuino a sbuffare per dare loro la possibilità di andare sulla Costa Concordia e farsi le vacanze, ecc., ecc., ecc.

(XIII, 11) In verità proprio il contrario è giusto. Aspirare (desiderare) di per sé dà gioia. Chi non conosce il godimento che procura la speranza di una mèta lontana ma fortemente desiderata? Questa gioia è la compagna del lavoro, i cui frutti ci saranno concessi soltanto in avvenire. Questo piacere è del tutto indipendente dal raggiungimento della mèta. Quando poi la mèta è raggiunta, al piacere dell’aspirazione si aggiunge, come qualcosa di nuovo, quello {più piccolo, ci aggiungo io} dell’appagamento.

Il piacere dell’appagamento… se uno ha la capacità di generare brame, desideri, brame di conoscenza, brame spirituali, desideri, voglie, sempre più forti, la gioia, la soddisfazione dell’appagamento è molto minore rispetto alla gioia del bramare!

L’appagamento mi va bene soltanto se io sono capace di far sorgere una brama maggiore! Altrimenti non me ne faccio nulla!

Invece il nostro concetto di appagamento è… che uno si siede!

Che cosa c’è nella parola “appagamento”, in italiano?

La paga! Ho ricevuto la paga! Sono pagato!

Quindi è questa mentalità statica, passiva, di voler godere la vita passivamente, che la gioia mi venga dal di fuori… ho ricevuto la paga e sono appagato!

Adesso mi attendo di essere felice!

La felicità è l’arte di far sorgere in sé brame sempre più micidiali!

E allora il mio appagamento serve soltanto a far sorgere brame sempre maggiori.

Ho studiato la Filosofia della Libertà di Steiner da cima a fondo e adesso… Steiner dice: sarebbe bello se uno fosse come un musicista che un pezzo di Beethoven, l’ha talmente interiorizzato, che lo riproduce come se fosse suo! La Filosofia della Libertà l’ho studiata un centinaio di volte, conosco tutti i pensieri come se fossero miei, non ho bisogno del libro, lo conosco a memoria, in italiano e in tedesco, ecc., ecc., ecc… sono appagato?

Noooo! Ma nooo! È soltanto una propedeutica, adesso sorge una brama molto maggiore! La Filosofia della Libertà paragonata con la “Scienza occulta”… roba da bambini! Adesso voglio cimentarmi con la “Scienza occulta” ! Lì ci vogliono denti ancora più forti!

Allora sì che la vita ha valore! – Faccio per dire un esempio –.

Supponiamo, uno arriva nella situazione – è illusoria la cosa – che dice: so tutto della Filosofia della Libertà… e si siede!

Chi si siede è morto! Comincia la noia.

Questa è la noia: non sorge una brama, un bramare sempre maggiore!

E siccome le brame corporee sono limitate, perché, per natura, una volta che mangio, e bevo, e mi copro quando fa freddo, non posso far sorgere brame infinite, sempre più grandi rispetto all’ambito del corpo.

Invece rispetto allo spirito, lo spirito è passibile di brame sempre più forti, sempre più vaste! È lì il vero valore della vita.

(XIII, 11) A chi volesse sostenere che al dispiacere del non-raggiungimento…

Supponiamo che ciò a cui tendo non viene raggiunto: ho voluto far qualcosa, non mi è riuscito e non viene raggiunto. Il fatto che l’appagamento, a cui miravo, non viene raggiunto, mina la gioia che ho sentito mentre tendevo?

No! Nel tendere c’è stata, e resta, la gioia del tendere.

Quindi una delusione in base al non appagamento, non si può riferirla all’indietro e adesso cancellare la gioia che c’è stata nel tendere!

Quindi i sentimenti non sono retroattivi! È ovvio!

Quindi, se uno gode il desiderare, il tendere… l’ha goduto il tendere! Indipendentemente dal fatto che questo suo tendere approdi a uno specifico appagamento, a un esaudimento, ecc.

(XIII, 11) A chi volesse sostenere che al dispiacere del non-raggiungimento di una mèta si aggiunge quello della speranza delusa…

Ma la speranza prima non era delusa! Lo sperare non è mai deluso. C’è uno sperare deluso?

No! C’è soltanto uno sperare che termina!

Quando io vedo che non posso conseguire qualcosa termino di desiderare, termino di tendere verso questa cosa; ma non dirò mai: il mio desiderare è stato deluso! C’è stato! L’ho goduto in tutto e per tutto!

(XIII, 11) … e che, in definitiva, il dispiacere del non esaudimento è sempre maggiore dell’eventuale piacere dell’esaudimento, risponderemo che può anche darsi il caso contrario: che cioè il ricordo del godimento avuto durante il tempo del desiderio del desiderare insoddisfatto esercita altrettanto spesso un’azione lenitiva sul dispiacere dovuto al non-esaudimento. Chiunque, al momento in cui le speranze naufragano, esclami: «io ho fatto la mia parte!», conferma quest’ultima asserzione.

“Io ho fatto la mia parte”, può mai essere una buona traduzione, indipendentemente da quello che c’è in tedesco?

Io ho fatto la mia parte… Se io, dopo che non ho conseguito tutto ciò a cui tendevo, con tutte le mie forze, dico: io ho fatto la mia parte… sarò un benpensante borghese, ma di cosa sia “bramare qualcosa” non ho la minima idea!

Buttate via questo pallido “io ho fatto la mia parte” – ho fatto il mio dovere – buttatelo via! Date la traduzione giusta!

Ce l’ho messa tutta!!! Santa pace!

Questi babbei traducono dal tedesco: ho fatto la mia parte… ma roba da matti!

Ho fatto del mio meglio! Non la mia parte! Chi decide qual è la mia parte?!

Qui si recita: tu hai questa parte, tu hai quest’altra parte… io ho recitato la mia parte… Adesso vado via, ho recitato la mia parte…

Pubblico: Ciò che era in mio potere.

A.: Quando io bramo… nel bramare all’infinito qualcosa, non mi interessa nulla il potere! Il potere è una parola assurda!

Ce l’ho messa tutta! Questa è la traduzione giusta! Perché in questo “ce l’ho messa tutta” c’è il desiderio, la gioia, di esprimere se stesso!

Quindi, il fatto che sia naufragata, è dovuta a questi altri babbei!; io ce l’ho messa tutta! Loro no, forse!

Perché qualcosa riesca, non dipende soltanto dal singolo; viviamo tutti insieme! Quindi, chi ce la mette tutta, ha sempre la gioia di dire: sono stati quei farabutti lì a far naufragare la cosa, non io!

(XIII, 11) «Io ho fatto la mia parte!», conferma quest’ultima asserzione. Il sentimento confortante… {guardate che linguaggio retrivo, proprio castrante: “confortante”} di aver voluto il meglio secondo le proprie forze è trascurato da coloro i quali ad ogni desiderio insoddisfatto collegano l’opinione che, non soltanto è mancata la gioia dell’esaudimento, ma è rimasto distrutto anche il godimento del desiderio stesso.

Certo!, se alla fine dei conti c’è questo esile desiderio, lo capisco! In tedesco però c’è il fortissimo bramare! Dove uno ce la mette tutta!

Quando uno ce la mette tutta, gli importa l’esito?

No! Non più di tanto!

Mettercela tutta è il massimo di godimento, qui ed ora!

Paolo: Sì perché è il singolo…

A.: Eh, certo!, se no non ce la mette tutta! Il massimo valore della vita è, o nel presente, o non c’è mai!

Volevo dire – adesso facciamo una pausa e poi discutiamo – noi osserviamo gli esseri umani – siamo tutti noi – con la domanda: dove sono gli esseri umani che vivono qui e ora, nel presente, pienamente realizzati?

In tutte le teste, nella città, c’è qualcosa che si sta facendo e l’essere umano è sempre via da sé; le teste e i cuori vivono nel fatto; in ciò che va fatto. E io mi chiedo: dove sono le persone che vivono nel fare!

Nel fare! Qui e ora!

Se io sto camminando, non m’importa nulla dove sto andando – certo che importa, ma… –. Uno che sta guidando, gli importa di guidare bene?

Se gli importa di guidare bene non è un bravo autista! Se invece è bravo, il guidare va automaticamente e lui gode quello che sta facendo: un discorso con chi gli sta accanto, per esempio.

Se vivo l’arte dell’essere creatore, lo so che sto andando all’ufficio, a lavorare, o a far qualcosa; lo so! Ma se in me, mentre cammino, vive soltanto l’ufficio, io sono via dal presente; ed essendo via dal presente svuoto la vita; perché svuoto sempre il presente.

Quando poi sono in ufficio, invece di vivere pienamente quello che sto facendo, sto pensando che fra un’ora ci sarà la pausa del caffè.

Voglio dire: questa alienazione di cui viviamo… perché riportare l’essere umano alla sua pienezza, addirittura nel presente, crea una società molto più diffcile da gestire, però molto più bella!

Il sociale più è difficile, più è bello! L’alternativa è un mortorio dove tutti sono messi in riga, e però questo non è il meglio del sociale!

Quindi dobbiamo prepararci ad un sociale che diventa sempre più complesso, sempre più difficile; perché ognuno ha sempre di più il diritto a realizzare se stesso, come esemplare unico dell’umano, qui e ora; sempre! E non: essere appagato soltanto quando prende la paga! A san paganino, alla fine del mese!

Voglio dire: o tu sei te stesso qui e ora, o non lo sei mai! E il valore della tua vita puoi essere soltanto tu!

(XIII, 12) L’esaudimento di un desiderio provoca piacere, il non-esaudimento dispiacere. Da questo non si è autorizzati a concludere che il piacere sia la soddisfazione di un desiderio, il dispiacere, il suo insoddisfacimento. Tanto il piacere che il dispiacere possono presentarsi in un essere anche senza che siano conseguenza di un desiderio. La malattia è un dispiacere che nessun desiderio precede. Chi volesse affermare che la malattia è un desiderio insoddisfatto di salute commetterebbe l’errore di scambiare per un desiderio positivo {quindi coscientemente voluto} l’augurio ovvio, e non portato a coscienza, di non ammalarsi. Se qualcuno eredita da un parente ricco, della cui esistenza non aveva il minimo sentore, il fatto lo riempie di piacere senza che vi sia stato un precedente desiderio.

Allora, paragrafo 13: la bilancia della quantità di piacere e della quantità di dispiacere. I due piatti della bilancia sono… (inizia uno schema alla lavagna).

Dobbiamo fare il bilancio della quantità, eh!; siamo ancora al livello della quantità di piacere e dispiacere.

Allora qui, su questo piatto, mettiamo – qui abbiamo il piacere – abbiamo il piacere dovuto all’appagamento di un desiderio.

Secondo: il piacere dovuto al tendere, al desiderare. Il “desiderare”, come tale, indipendente dall’appagamento, dà piacere. Il desiderare. E qui usiamo il verbo – lo dicevamo prima; è molto importante –.

Terzo: un piacere inaspettato. Quindi che non sia l’appagamento di un desiderare.

Scrivo qui “inaspettato”, un piacere inaspettato. Se io mi piglio un’eredita di cui non sapevo nulla, mi fa piacere, eccome!

Cosa mettiamo dall’altra parte?

Mettiamo: “dispiacere”. Uno, due e tre, corrispondenti.

Primo tipo di dispiacere: il non-appagamento.

Secondo tipo di dispiacere: la mancanza del tendere, la mancanza del desiderare. La noia… Però la noia, siccome potrebbe essere un po’ moraleggiante ci scrivo qui, pulito pulito: il non-tendere a nulla. Diciamolo bello pulito pulito: il non tendere a nulla! Una persona che è un cimitero!

Tre: un dispiacere inaspettato; come la malattia.

(XIII, 13) Chi dunque vuole indagare se un’eccedenza si debba trovare dalla parte del piacere, o da quella del dispiacere, deve mettere in conto: il piacere del desiderare, che io avevo messo al secondo posto, quello dell’esaudimento del desiderio, e quello che ci viene concesso senza che lo desideriamo {L’inaspettato}. Sull’altra pagina del bilancio {quindi abbiamo il libro mastro. Sulla pagina di qua ci sono i piaceri e sull’altra pagina ci sono i dispiaceri. Invece il tedesco parla dei due piatti della bilancia! È molto più dinamica la cosa. Il piatto più leggero è quello che va su e il piatto più pesante è quello che va giù! Mi son sempre chiesto perché si è spostata l’analogia del piatto della bilancia alle pagine del bilancio!} … si ritroveranno: dispiacere per noia, punto due, dispiacere per desiderio insoddisfatto, e finalmente dispiacere che viene a noi senza nostri desideri {Ma scusate, il mio italiano è diventato arrugginito perché non lo parlo da tanti anni, però questo “finalmente” non è giusto… Infine! “Infine” si diceva ai tempi miei quando ho fatto il classico! Finalmente significa: eh!, finalmente ci sono arrivato!}

Infine, come ultima cosa!

A quest’ultima specie appartiene anche il dispiacere che ci procura un lavoro impostoci, non scelto da noi stessi. Lo accennavo già prima: devi lavorare, sbuffare, perché gli altri vadano in vacanza, perché godano la vita.

Quanto lungo dev’essere il piacere della pausa?

Allora ci ritroviamo alle 11,45!

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fig. 5

A.: Chi vorrebbe prendere la parola?

Interv. 1: Vorrei un chiarimento, all’inizio lei ha parlato degli ottimisti al 100%, dei pessimisti, dicendo che hanno ragione tutti e due, però le loro affermazioni sono giuste se riferite a loro stessi, mentre Steiner intende essere obbiettivo uscire da una considerazione personale propria e indagare ciò che accade in generale.

Il discorso seguente però, come si pone in questa ottica?, perché in fondo tutte le cose che lei ha detto, riferendo molto brillantemente il pensiero di Steiner, e che io condivido perfettamente, ma… io le condivido per me! E con che diritto le posso generalizzare attribuendole alla generalità delle persone?

A.: Allora: il generale non c’è! Invece le altre due categorie servono di più: ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo.

Ora un primo passo: la riflessione su ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo è paradossale! Quando si arriva ai nodi del conoscere le cose diventano paradossali! Quindi, o si ha il coraggio del paradosso… colui che è un po’ sprovveduto di fronte al paradosso vede subito una contraddizione logica! E godendosi la contraddizione, siccome può rinfacciare all’altro che si contraddice, non coglie l’elemento di paradosso. Ora, il soggetto è la cosa più oggettiva che ci sia! Come soggetto! Così com’è!

Quindi, l’ottimista… un ottimista è una realtà oggettiva?

Certo! Questo soggetto è oggettivamente ottimista!

Il pessimista è una realtà oggettiva?

Certo! Questo soggetto è oggettivamente pessimista!

Quindi il livello massimo dell’oggettivo è il soggetto così com’è! Più oggettivo non c’è! Senza speculare! Senza specularci sopra!

I.: 1: Ma allora perché criticare Hartmann?

A.: Steiner dice: Hartmann vorrebbe far capire che lui si attiene alla realtà oggettiva invece ci specula sopra! E bara! Se uno il capitolo lo legge 4 o 5 volte ci arriva poi; le cose vanno studiate; la Filosofia della Libertà non è fatta per essere letta una volta sola! Io l’avrò masticata almeno un centinaio di volte!

Questo è il concetto. Se tu, caro Hartmann, ritieni di attenerti alla percezione di ciò che è oggettivo, non speculare! E un modo non pulito di Eduard von Hartmann è che tutta la sua argomentazione è sulla quantità di piacere e di dispiacere nella vita; come se oggettivamente, per l’essere umano, la quantità di piacere e dispiacere fosse decisiva per il valore della vita. Invece salta fuori che non è vero! – ci arriveremo questo pomeriggio e domani – salta fuori che per l’individuo, se noi restiamo all’oggettività dei fatti, di come l’individuo è oggettivamente, non gli importa nulla questo calcolo astratto quantitativo, di quanto piacere c’è nella mia vita, quanto dispiacere c’è, e in base a questa sottrazione io mi oriento! Non esiste proprio!

Decisivo per la vita, per il valore della vita, è il quantitativo della brama! Finché c’è un minimo di brama, vive! Vuol vivere!

Questa è un’affermazione sull’essere umano in base a percezione e concetto! Percezione però! Non speculare senza percezione!

Perciò la prima parte della Filosofia della Libertà dice: conoscenza reale c’è soltanto in base a percezione e concetto. Hartmann, l’essere umano, non l’ha percepito per nulla, ci ha speculato sopra!

I.: 2: Volevo fare una domanda un po’ frivola…

A.: Non ci sono domande frivole! Magari, risposte frivole!

I.: 2: Allora, sul pensiero che mi è venuto: nel linguaggio italiano c’è: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare! E quindi pensando che il tedesco… in fondo potrebbe esserci un’altra chiave di lettura, una chiave positiva, visto che c’è pessimismo e ottimismo, e dire: non potrebbe essere che il linguaggio italiano, cioè il popolo italiano, è così raffinato, ha una cultura in cui va a pescare… si rende conto che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e quindi nel dire: “ho fatto una mia parte”, in realtà, solo nel pronunciare… invece il tedesco… l’Italia aspira, in fondo, non fa! Invece il tedesco fa! E quindi, da un certo punto di vista, la chiave…

A.: Diciamo che il mare mediterraneo è più vicino all’Italia che non alla Germania! Ma, fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, c’è anche in tedesco! Loro dicono (tradotto): dire e fare son due cose diverse. Allora (inizia uno schema alla lavagna): DIRE… qui il mare… e poi qui c’è il FARE.

Il fare ci sarà se non si naufraga nel mare!

I.: 2: Anche il dire, allora.

A.: Adesso, a parte che non si tratta degli italiani e dei tedeschi, sono di due linguaggi di cui stiamo parlando, no! Allora: dire e fare; fare vuol dire compiere un’azione; questo “dire” e un desiderio e “fare” è il compimento, il fatto.

L’ho già detto: passato e futuro.

PUBBLICO: Ma il dire non ha a che fare col pensare più che col desiderare?

(Altri commenti confusi).

A.: Volevo vedere se a qualcuno veniva in mente di… cosa c’è l’ha in mezzo?

Il nuotare!!!

Pubblico: Stare a galla!

A.: No, non soltanto stare a galla, se no non ti muovi! Nuotare! Capito! È questo che Steiner sta dicendo: se noi spostiamo tutto il godimento dalla parte del fare… il fare è astratto! Il dire è soltanto una proposizione, è una dichiarazione di intento, ma non… Il godimento reale è nel nuotare! E nel nuotare bene!

In altre parole, il nuotare è la forma somma del fare!, perché è l’attività creatrice proprio presente.

Ho usato questa metafora, naturalmente!

Invece se noi diciamo: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, abbiamo tre realtà statiche! Ma il mare, io lo passo soltanto nuotando! Se mi godo il nuotare…

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fig. 6

PUBBLICO: C’è anche: tra il dire e il fare c’è di mezzo il cominciare!

A.: Noo, se nuoto! Allora: qui il mare… continuiamo sulla metafora perché il linguaggio ci dà metafore, in fondo, e il pensiero ci ricama!

Qui c’è una sponda, tra la sponda del dire e la sponda del fare – l’altra sponda, scrivo qui: l’altra sponda – c’è di mezzo il mare!

Che cos’è meglio nuotare, o arrivare all’altra sponda?

PUBBLICO: Nuotare!

A.: Ahaaah! Ahaaah! Era questo che volevo dire! Quindi, quando io sto godendo il nuotare spero che l’altra sponda non arrivi mai! Perché sarebbe la fine del godimento!

Interv. 3: Scusi, ma sono importanti tutti e due: il nuotare e arrivare alla sponda, perché se no si nuota inutilmente; a vuoto!

A.: No, no, non ha tradotto la metafora! Uno sta cantando… tra l’inizio del cantare e la fine del cantare, c’è il cantare! Lei sta dicendo: il cantare ha valore soltanto quando finisce! Capito!

Interv. 4: A proposito di tendere e di bramare, se uno non ha questa pulsione, come si può educare, come può educare se stesso a questo; alla tensione proprio?

Archiati: Prima di venire in Italia, questa domanda qui, mi ha occupato più di tutto perché è quella più importante. Man mano che andremo avanti, anche col testo, questa domanda verrà posta sempre più al centro. Adesso, non è che io voglia supporre, presupporre, la scienza dello spirito; lui diceva, giustamente, vogliamo attenerci all’oggettività dell’uomo.

Un bambino è un sacco di potenzialità, o non ha nulla di tensione dentro di sé?

Questa è la sua domanda! Radicalizzata!

La risposta della scienza dello spirito – la risposta di un pensare pulito – è che se noi, non subito, con la televisione, o con un’educazione statale – che è una diseducazione assoluta – se noi diamo all’essere umano, già da bambino, la possibilità di manifestare, di esprimere, ciò che ha in sé oggettivamente, salta fuori che l’essere umano, per natura, è un dinamismo individualizzato all’infinito!

E la scienza dello spirito ti dà elementi oggettivi in più, che la nostra società non conosce, e ti dice: eh!, ebbè, per forza!; prima di nascere (il bambino) ha fatto il bilancio di vite passate, assieme al suo genio individuale – che la religione chiama angelo custode – lo chiami come vuole – e si è detto: tu hai la visione di tutto ciò che mi sono già conquistato quando ero un greco, quando ero un persiano, quando ero un indiano, ecc., ecc., ecc., adesso voglio di nuovo rituffarmi con gioia nella vita sulla terra, perché la vita ha valore soltanto sulla terra… e mo’ che faccio sulla terra stavolta?

E l’angelo custode gli dice: tu, la lingua materna tedesca ce l’hai già avuta; questa volta, guarda, c’è una lingua sulla terra che è la lingua degli angeli! Si chiama la lingua italiana! Ti va di buttarti in questa lingua materna?

Salta fuori che, oggettivamente, ogni essere umano entra, si tuffa nella vita, con la vitalità, con la tensione, con la potenzialità di una biografia individualizzata in tutto e per tutto!

Nel momento in cui si butta dentro la materia c’è un ottenebramento, un obnubilamento di coscienza – la chiamiamo la coscienza ordinaria – e questo dinamismo individualizzato, che è la biografia, diventa sovracosciente.

Quindi, diciamo, dar valore alla vita è l’arte di portare a coscienza ciò che mi sono proposto di realizzare di me, a vantaggio mio e a vantaggio di tutti gli altri, in questa vita.

Qual è il valore della mia vita?

Ciò che il mio essere vuole! In ogni momento; all’infinito!

Massimo: Quindi la sponda, in fondo, è un pretesto!

A.: Bravo!

MASSIMO: La sponda non è dove arriverò…

A.: Bravo!

MASSIMO: La sponda è quello che sto facendo ora!

A.: E il pretesto di chi?

Il pretesto di chi trova più comodo poltrire! Allora il pensiero è pensato fino alla fine! E gente che trova più comodo poltrire ce n’è un sacco!

Però paga con l’insoddisfazione! E l’insoddisfazione lo aiuta: ah, no, no, non tendere ti dà noia!

E perciò, di paragrafo in paragrafo, questo capitolo sposterà il valore della vita sempre di più via da ciò che io, di volta in volta conseguo, e riporta il valore della vita nel tendere, nel presente come tale; nel creare, perché in questo creare c’è la salute del corpo – tutto il portato di natura come base: non posso io creare se non ho tutte le forze di natura necessarie –; e questo creare anticipa tutta la creatività futura!

Però devo vivere e creare nel presente, se no non è un creare!

MASSIMO: E l’appetito vien mangiando.

ARCHIATI:… mangiando! L’appetito vien mangiando. Ecco il paradosso, no!

Mangiando… dovrebbe sparire l’appetito! No: viene mangiando!

Quindi il pensare – il pensare! –… qual è il cibo privilegiato del pensare? che quasi ti costringe a pensare sempre più creativamente?

Il paradosso! Il paradosso!

Per i poltroni, il paradosso lo vedono come contraddizione. Ti sei contraddetto…

Invece chi gode il pensare, il paradosso se lo prende come sfida, a pensare sempre più micidialmente!

E gode! Perché risolvere un paradosso richiede una creatività, un pensare creatore, non da poco! Se no non lo risolvi il paradosso!

Ma come? Mangiare è fatto per mandar via l’appetito e tu dici: l’appetito vien mangiando?!

Se mangi bene ti vien voglia di continuare!

Se suoni bene ti viene voglia di continuare sempre a suonare!

Se pensi bene… mica vorrai terminare di pensare!

PATRIZIA: Allora, ho un pensiero che forse è diventato fisso perché forse non ho il tempo di elaborarlo…

A.: Non ci sono pensieri fissi; ci sono, in italiano, idee fisse!

PATRIZIA: Allora: non riuscendo, visto il martellamento continuo di tanti altri spunti che ci dai… era dire, siccome hai più volte ripetuto che il soddisfacimento, l’appagamento, della tensione a un volere, un bramare, è la vera gioia, ma che dura pochissimo…

A.: No, questo non l’ho mai detto!

PATRIZIA: No, non “vera”, ma che dura pochissimo!, che viene appagato brevemente.

Ma, mi chiedevo: non può essere che così! Perché io posso tenedere, tendere, tendere a cercare la pizza; poi, giustamente, la pizza la mangio in breve tempo rispetto al tempo cui ho dedicato per trovare il parcheggio, per uscire di casa, ecc. In qualsiasi altra esperienza è una questione di tempo, e per forza l’appagamento appare quasi come un soffio rispetto a tutta la preparazione che c’è stata per arrivarci.

PAOLO: Ma scusa Pietro, più uno sposta dal materiale allo spirituale il proprio obbiettivo, e più è irrealizzabile; perché il godimento è nel realizzare qualcosa che non è la pizza! Più quello che tu vuoi realizzare è qualcosa di spirituale, e più…

(Qui Patrizia ribatte a Paolo)

Eh, no! Perché il tuo obbiettivo è un obbiettivo di godimento.

A.: Allora: c’è una differenza tra tendere a qualcosa… questo tendere ha un senso – tu dicevi giustamente – soltanto nella misura in cui io conseguo questo qualcosa a cui tendo.

Allora: se io conosco soltanto, esperisco soltanto questo tendere a qualcosa, non vivo mai nel presente; perché tendo a qualcosa che ancora non c’è!

Allora questo qualcosa, questo futuro, è possibile portarlo al presente?

Basta che io impari sempre più, goda sempre più, tendere… al tendere! Allora godo il “tendere”! E il tendere lo posso godere subito!

Tendere a tendere, traducetemelo voi in italiano…

Creare!!!

Non troverete una categoria più bella di questa! Ed è più bella, tra l’altro, di tutte le parole che ci sono in tedesco. Quindi questo creare, il godere il creare, è tutt’e due: è un tendere che raggiunge contemporaneamente… è una contemporaneità del passato, del presente e del futuro.

Michele: È, come dire, occorre uscire dall’ottica della perdita del guadagno, della ricompensa ecc.

Archiati: Sì, certo, certo! Ma articola il pensiero però, perché è molto importante, eh!

MICHELE: Per restare in questa dimensione del creare, devo uscire dall’ottica della perdita del guadagno; cioè la mia azione non può essere finalizzata semplicemente, poiché la tensione non è in quel momento in cui io sto attuando la mia azione, ma è nello scopo, e io sono già fuori di me. Non esisto!

A.: Perfetto! Perfetto! Basta capirlo! È bellissimo quello che hai detto; però questo intuito c’è e poi scappa via! capito! Quello è il bello!

In italiano – cosa che non c’è in tedesco – c’è sul dizionario la parola “fine”.

È una parola maschile o femminile?

Tutt’e due!

C’è “la fine” e c’è “il fine”!

Ma allora, è il fine o la fine?

E tu dicevi… adesso lo dico con parole mie – è la stessa cosa –: avere l’occhio rivolto verso il fine, è la fine del creare!!!

Svuota il creare! E perciò il genio della lingua ti aiuta: guarda che ciò che tu chiami il fine è un paradosso! Ti sembra che sia ciò a cui tendi, ma è la fine del tuo tendere; se ti siedi… sei finito!

Ma è quello che hai detto tu, eh! È la stessa cosa! Ognuno dice la stessa cosa con parole sue; l’importante è capirle!

Quindi, tutti i poteri di questo mondo, la chiesa come potere, lo stato come potere, hanno tutto l’interesse ad alienare l’uomo soggiogandolo verso un fine; che poi è il loro fine, il loro scopo!

I.: 5: Mi chiedevo, se il fine è il creare…

A.: No! no, no, no! Creare è un’arte!

Interv. 5: La tensione massima è nel creare – posso dirla così? –…

A.: Sì! Ma non è un fine! Non sta alla fine! O è adesso, o non c’è!

I.: 5: Tendo… ho una tensione verso…

A.: No! non “verso”! Nel momento in cui tu dici: “verso”, sei fuori da te!

I.: 5: Ah! Okay!

A.: E strumentalizzi l’essere umano verso questo fine!

E hai la chiesa, hai lo stato, hai tutti i poteri di questo mondo, e tu sei sparita!

I.: 5: E il significato del “creato” nel tendere verso?

I.: 6: Il creato è il cadavere del creare, come il pensato è ciò che rimane di quell’attività creativa del processo del pensare.

PAOLO: È per quello che fa male, è per quello che è doloroso! Il creato è doloroso perché hai raggiunto una cosa.

A.: È come quando qualcuno dice a me: mi ripeti la frase che hai appena detto? Se l’ho già detta è morta per me! Quindi non la posso ripetere! Mentre io pensavo e parlavo, non c’era una frase già fatta!

E io rispondo sempre: e che ne so io cosa ho detto un minuto fa! Capito!

Quindi, diciamo, la matrice fondamentale dell’alienazione è di strumentalizzare il presente verso un futuro. Però il valore della vita c’è: o qui e ora, o non c’è mai! Perché il futuro non c’è mai! Il futuro non è mai nel presente, se no sarebbe presente.

I.: 6: Io ho apprezzato molto questo discorso molto lungo sul desiderare come essenza della nostra vita, per poter vivere pienamente. Mi guardo in giro – beh!, qui siamo tutti più o meno… giovani giovani non ce ne sono, ce ne sono pochissimi –…

A.: Io sono giovanissimo!!!

I.: 6: Eh, vabbè, ho capito! Però mi sembra di vedere una gioventù che manca totalmente di desiderio! Come dire, è come se avesse fatto un’orgia di desideri fisici, perché oggi ognuno può avere tutto, tante cose, tant’è che forse non gli dà neanche più valore, e, al di là di quello, li vedo spenti, li vedo proprio che continuano una vita dove mi pare che manchi il desiderio così come lei l’ha espresso. Vorrei conoscere…

A.: Colui che si occupa degli altri, sarà un disoccupato per tutta la vita!

I.: 7: Leopardi, nel sabato del villaggio, è ottimista o pessimista?

A.: Chiedilo a lui! Mica sono Leopardi!

I.: 7: Quando lo incontrerò glielo chiedo! Io voglio adesso la risposta!

A.: Eh, tocca speculare! Esattamente quello che diceva lei: parlava di altri! La forma suprema di alienazione è di parlare degli altri!

I.: 7: Tornando al valore quantitativo della brama, si può dire che…

A.: No, no, no, non “valore quantitativo”, ma la quantità! Non c’è il valore quantitativo!

I.: 7: Sì, la quantità della brama…

A.: No, non c’è la quantità della brama! C’è la quantità di piacere o dispiacere. La brama ha soltanto gradi di intensità!

I.: 7: Perché… quantità di piacere… siamo al livello dell’esperienza oggettiva dell’individuo: non interessa il valore quantitativo del piacere o del dispiacere, ma della brama!…

A.: No, no, no no!

I.: 7: Siccome si parlava di “valore qualitativo”, volevo capire se la quantità di brama ha a che fare col qualitatitvo, col valore qualitativo.

A.: Allora: quando parliamo di piacere e di dispiacere, si può fare un calcolo di quantità: quanto piacere, quanto dispiacere c’è in questa vita. La categoria di quantità, rispetto alla brama, non calza! Rispetto alla brama c’è soltanto il grado di intensità.

E io dicevo: essere innamorati – ho portato questo esempio – è un tipo di brama di enorme intensità! Tu non diresti: che quantità ha questa brama! È intensa, è forte!

Se è forte significa che non gli importa nulla di dover mettere in conto una quantità enorme di dispiacere!

Basta che la brama sia forte, intensa abbastanza, da non mollare!

Più ostacoli ci sono… quale nuotare è più interessante? Un nuotare bla bla, o un nuotare grrrrrrr!

Creare è godimento degli ostacoli; se no non è creare! Tra l’altro, eh! Soprattutto godimento!

GIANNI: Ma, oggettivamente, se io non nuoto…

A.: Anneghi!

GIANNI: Se io non nuoto, mi annoio…

A.: No! Anneghi!

GIANNI: Sì, mi abbandono e mi suicido!

A.: Un momento, un momento! Ti sei già suicidato, o ci sei ancora?

GIANNI: No, non è un dato mio, ho detto: oggettivamente!; riguardava l’aspetto dei giovani.

A.: Ho capito, ho capito, stai dicendo cose così grosse che io ti dico: vacci un po’ piano!

GIANNI: E no! Sto proponendo a lei, cioè tu, proprio perché sono così grosse! E una volta che mi son suicidato mi devi dire di cosa stiamo parlando! Se non c’è un’altra sponda…

A.: Non ho capito cosa stai dicendo. Ripeti tutto.

GIANNI: Lo so che non è facile! Ti sto dicendo il valore della vita, e anche il significato, se vogliamo. Cioè, si è detto che il godimento è nel nuotare, d’accordo; per motivi vari, diversi, karmici, io non nuoto! Io ho detto: mi annoio, mi abbandono e affogo. Detto questo il capitolo è chiuso? Tu dici di no! Però mi mancano tanti presupposti: prima, dopo e durante.

A.: Adesso mi par di capire meglio cosa vuoi dire. Bisogna uscire dalla metafora del nuotare – ovviamente è un’immagine il nuotare – ed entrare maggiormente nel creare, perché il concetto di creare è che… però ognuno con la sua mente: o è convincente perché è oggettivo, o non è convincente.

Però questo valore assoluto, centrale; questa bellezza dell’umano, non lo si può dire in una frase e tutti capiscono! È un mistero, in fondo!

E il concetto di base è questo – cerco di dirlo in un modo semplice – se tu – e questo vale per ognuno – se tu, se io, cerco di essere fedele al mio essere di non orientarmi, per la positività del mio essere, dal di fuori; se parto dal presupposto che io sono un frammento positivo nell’organismo dell’umanità, sono un membro insindacabile nell’umanità, allora il massimo valore della mia vita è di essere sempre, in ogni momento, me stesso!

Questo essere me stesso dà il massimo di realizzazione a me, e il massimo di contributo agli altri – perché appartengo con loro al corpo dell’umanità – perché possano, ognuno, realizzarsi.

Quindi il valore supremo è l’espressione genuina dell’essere! Tra l’altro individualizzato! E siccome questo è il valore supremo – anche morale – è accompagnato da un godimento che più non si può!

GIANNI: E chi non può e non lo fa?

A.: Allora, l’altra affermazione è che: se qualcuno non lo fa, non è perché non lo può; è perché in qualche modo, con l’educazione che è andata male, questa natura umana è stata – ho usato la parola “castrata”, ma ci sono parole migliori –…

GIANNI: Snaturata!

A.: No, tarpata!, repressa! Da qualsiasi potere!

GIANNI: E quindi?

A.: Quindi tu diventi infelice! Allora l’infelicità ti aiuta, ti dice: guarda che sarai felice soltanto se avrai il coraggio di essere te stesso! Se no resti infelice!

GIANNI: E muoio!

A.: Infelice?

GIANNI: Sì, se sono infelice muoio!

A.: Attento, attento: 2000 anni fa sono successi tutti gli archetipi dell’umano – se no non ci occuperemmo di quello che è successo 2000 anni fa –; tra questi archetipi dell’umano c’è Giuda che s’è impiccato!

Giuda dice: nella vita ho trovato tutte porte chiuse…

Il Logos, lo spirito creatore massimo… non sa creare nulla per venire incontro al problemino di Giuda?

Giuda! Tu pensi che io abbia creato l’essere umano senza sapere che ci sarebbe stato qualcuno che ogni tanto si toglie la vita!…

Ma ce l’ho io la risoluzione del problema! Te la ridò la vita! E allora, dov’è il problema?!

Il problema ce l’hanno le teste bacate che hanno messo Giuda all’inferno!, eterno!

Quelle son teste bacate! Però il problema è delle teste bacate, non mio!

Perché per quanto mi riguarda Giuda è ritornato: la volta successiva chi è stato Giuda?

Agostino!

Mica grandi passi in avanti, eh! Vescovo della chiesa cattolica non è ancora il massimo di perfezione. Adesso abbiamo addirittura un papa che se ne va via!

Certo che di fronte a questa domanda di uno che si toglie la vita il pensare dice: no, no, no, non può finire lì!

Il suicidio è come fare uno sbaglio!

Quando uno fa uno sbaglio, che soluzione c’è?

Una testa che capisce lo sbaglio, quindi non vado avanti, cambia rotta!

Questo continuare a capire ciò che va e ciò che non va, e rettificare, ecc., fa parte del creare, fa parte del nuotare! Un nuotare senza aggiustare il colpo continuamente non è un nuotare!

Gianni: Sì, ma il presupposto era – adesso tu ti arrabbierai sicuramente – è che ci sarà una prossima volta per nuotare, la mia paura… il presupposto tuo è che ci sarà una prossima volta per nuotare, io invece, a volte, ho paura che non ci sarà una prossima volta per nuotare.

A.: Ma perché ti sei permesso di vivere finora? Perché sei ancora qui?

Gianni: E chi lo sa!

A.: Io constato che sei ancora qui, malgrado la paura! E mi godo i pensieri che stai esprimendo!

In altre parole, la domanda giusta per accendere il pensiero successivo, i romani direbbero a questo punto: ma che vuoi!?

GIANNI: Capire! Capire!

A.: Eh! Eh! Datti da fare! Datti da fare! Che stiamo facendo?

E allora che vuoi?!

GIANNI: Zitto e nuota!

A.: Bravo! Bravo!

GIANNI: È la famosa barzelletta, no!, che il figlio dice al babbo: è lontana l’America? E il babbo: zitto e nuota!

Archiati: Ma questo esercizio è bellissimo! Noi stiamo dimostrando – tutti e due, non soltanto io! – stiamo dimostrando, con questo rovellio, che l’arte del pensare è l’arte che trova il modo che i conti devono tornare! Perché se i conti non tornano allora tutto è irrazionale, allora chiudiamo baracca e burattini, allora sì che vale la pena uccidersi!

Quindi ciò che ci salva è il fatto che nel pensare, se è pulito, i conti tornano!

GIANNI: Io sono ancora in rosso!

A.: Che vuol dire?

GIANNI: Hai il conto bancario? Eh, quando vai giù: sei in rosso!

A.: Ma scusa, basta che impari a goderti i debiti!

GIANNI: Allora l’Italia è la culla!

A.: Ma certo! E perciò suppongo che la vincerà Berlusconi! Ma se la vince Berlusconi è la Germania ad avere un problema, non l’Italia!

E come lo risolve la Germania il problema?

Deve imparare che non si può avere tutt’e due: godere di essere produttivi e godere di consumare, consumare, consumare. Se veramente (i tedeschi) godono di essere produttivi, vendano i loro prodotti a metà prezzo, e l’Italia non avrà più debiti!

PUBBLICO: Bravo! Bravo! (applausi).

A.: L’ho detto anche in Germania, però non mi son preso gli applausi!

Buon appetito e ci rivediamo nel pomeriggio!

Sabato 16 febbraio 2013, pomeriggio

A.: Allora, auguro un buon pomeriggio a tutti. Per quelli che c’erano stamattina ci siamo già detti che il capitolo XIII è il più lungo di tutta la Filosofia della Libertà, e c’è un po’ la difficoltà di… come facciamo a leggerlo tutto?!

Allora, a quelli che non c’erano stamattina aggiungo che un relatore che, insomma, si rispetti, in Italia, aspetta finché arriva la seduta del pomeriggio; quando in Italia le persone continuano a fare la siesta, lui legge una trentina di pagine e nessuno s’è accorto di nulla!

Allora… vediamo dove arriviamo, ecco!

Mi dispiace un po’ perché se non leggiamo il testo fino ad un certo punto, son tutte disquisizioni un po’ filosofiche; a partire dal 31° paragrafo diventa veramente interessante, e adesso siamo al 14°!

Quindi, voi continuate a far la siesta, fate finta di niente, io ve ne leggo, insomma, alcuni!

Adesso, per chi avesse voglia di svegliarsi un pochino, una riflessione di nuovo di uno sguardo d’insieme: di che cosa stiamo trattando?

Del valore della vita! (inizia uno schema alla lavagna)

Questo qui è un essere umano, caso mai non l’aveste capito, e il concetto fondamentale è questo: che viene a fare l’uomo? Cosa devo fare, cosa è importante per me? Cosa ha valore per me?

Come faccio a sapere cos’è il buono, il bello, il vero… però per me! Il buono, il bello e il vero è infinito, però per me! Che cos’è il buono per me!

E la prima riflessione dice: se tu disattendi, ignori, lasci stare, lasci perdere, il tuo essere e ti orienti dal di fuori…

Questo è il tuo essere, questo sono io… ognuno di noi… io… (indica il disegno)

Per orientarmi cosa devo fare? Qual è il valore della mia vita? Chi me lo dice?!

… Se vado fuori da me sono perduto!

Perché il valore della mia vita, o sono io, oppure… le altre persone, che siano autorità, di chiesa o di stato, son tutti esseri umani! Ma son tutti esseri umani che in fondo non hanno nulla a che fare con me; perché tu, anche se sei un papa, sei fortunato se sai cosa è bene, cosa è buono, per te! È già molto!

Ma… lasciami in pace!… Io…

E allora, la prima affermazione è: lascia perdere ogni tipo di orientamento che ti porta via dal tuo essere! L’unico orientamento sei tu!

Deve essere qualcosa di buono per te!, che ti favorisce, che ti costruisce, che ti fa vivere sempre più in pienezza!

E allora, l’affermazione successiva – quella a cui stiamo lavorando adesso – è che l’essere umano non è soltanto un pezzo di materia, ma ha delle brame, degli istinti, delle pulsioni, delle voglie!… Adesso lasciamoci aiutare… Steiner l’ha fatto dopo… quando ha scritto la Filosofia della Libertà, all’inizio non ce le ha messe queste cose, ma l’affermazione è: dentro di te, però non nel sacchetto qui, del corpo fisico, nello stomaco o sotto la giacca!… ogni essere umano non è soltanto un pezzo di materia! C’è qui tutta una realtà spirituale, animica, eterica, di forze vitali! Che cosa sono le voglie…

Prendiamo le voglie, le mie voglie!… Bello questo! La lingua tedesca non ce la fa a fare una trovata così bella: l’italiano non ha soltanto “la voglia”, ma: “le voglie”!

Le voglie! Una parola bellissima che sta a dire: guarda che sono più inconsce, sub-consce, che non consce…

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fig. 7

Se tu dai fiducia al tuo essere, dai fiducia a ciò che alberga in te come potenzialità che vuole esprimersi… Ecco!

Cosa c’è in me che vuole esprimersi! Questo è il valore della vita!

Come faccio a sapere che cosa c’è in me, potenzialmente, quindi a livello animico-spirituale, che vuol esprimersi a livello dell’azione, a livello esterno!

Quindi devo dare fiducia, in assoluto, alle voglie!; agli istinti, alle brame!

E quindi… che la traduzione mi parli di “desideri” è un po’ troppo poco!

“Desideri” non calza… le voglie!!!

Adesso arriva subito il contraccolpo dell’autorità, della società costituita, a dire: ma è affidabile? E se le voglie dell’essere umano fossero negative? E se la voglia primigenia fosse quella dell’egoismo? Allora non possiamo dar fiducia alla natura umana!

Quindi la domanda fondamentale sul valore della vita è: la natura umana, l’essere umano, è degno di fiducia o no?

PUBBLICO: Sì, certo!

A.: Dire di sì… è presto detto! Tra il dire e il dimostrare c’è di mezzo il mare! E in questo mare stiamo navigando!… Da ieri sera!

Allora – adesso sto riassumendo, eh! – ogni essere umano, se non lo costringiamo dal di fuori, se non lo snaturiamo, vuole il meglio di sé! Vuole realizzarlo!

E il meglio di sé è… il meglio di sé!; e nessuno può dare agli altri meglio… che il meglio di sé!

Qual è il meglio che ognuno di noi può dare agli altri?

Il meglio di sé! Un altro meglio non c’è!

Quindi, se l’espressione pura del mio essere è un frammento di umanità… in fondo io voglio me stesso! Non posso volere altro! Voglio la realizzazione genuina del mio essere!

Se il mio essere fosse stato costruito in modo negativo per me, che non mi dà gioia, che non mi dà soddisfazione; cioè l’alternativa sarebbe che l’essere umano vuole la sua “non realizzazione”; vuole il suo svantaggio; vuole diminuire anziché crescere… Un assurdo! Un assurdo!

Quindi noi, la nostra cultura, siccome nel passato nell’umanità (inizia uno schema alla lavagna)… qui è il presente – il presente è come una cesura – in tutto il passato, nei millenni del passato, la comunità aveva molto più peso che non l’individuo!

Che poi la comunità sia la chiesa, o lo stato, o il popolo, o una ditta – quello che volete –, la comunità aveva più peso dell’individuo. E tu, individuo, sei a disposizione, vali qualcosa, la tua vita vale qualcosa, nella misura in cui si inserisce in una comunità.

Quand’è che la comunità è più importante dell’individuo?

Finché l’individuo non c’è!

E quand’è che non c’è ancora l’individuo?

Nell’infanzia!

Quindi l’infanzia dell’umanità… ancora il Budda diceva: l’io è un’illusione! Più infanzia di così! Quindi è chiaro che ai tempi del Budda la comunità gestiva l’individuo come un “asilo d’infanzia”.

Noi… l’umanità conosce finora – 2013 – e non è un’esagerazione!… l’umanità ha finora trattato l’individuo umano come un bambino d’asilo! Non è esagerato!

E questa “antroposofia”, chiamatela come volete; questa scienza dello spirito è il primo impulso culturale che dice: oh, noi siamo antiquati! Siamo rimasti indietro, non ci accorgiamo che, sempre di più nell’individuo sorge il desiderio, la voglia di farsi valere!

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fig. 8

Cos’è più importante: il popolo o l’individuo?

Un popolo non vale nulla! Perché un popolo è una somma di individui; la realtà di un popolo è una somma di individui.

Quindi l’umano si esprime nell’io singolo!

Cosa voglio io?

Una pienezza del mio essere sempre maggiore, sapendo che, la pienezza sempre maggiore del mio essere, è il vantaggio massimo che io posso offrire agli altri, per mettere a loro disposizione gli strumenti di cui hanno bisogno per vivere, ognuno, nella sua pienezza.

Però la pienezza dell’altro… colui che per me è un “tu”, la sua pienezza la deve sapere lui!

Io, come dire,… la mia pienezza gli porta incontro gioia, gli porta incontro gli strumenti; siccome io vivo nella pienezza… prendiamo i soldi! – il denaro è molto importante, in un’economia di denaro – vivere nella pienezza significa aver bisogno di un minimo di soldi: soltanto ciò di cui ho bisogno per comperare le conferenze di Steiner e godermele! … E mangiare in modo da essere sano, e non stramangiare!

Quindi se io vivo nella pienezza, nei confronti del soldo, ne ho subito di esubero da dare agli altri!

Quindi dico: guarda, io mi sto godendo talmente la vita, la pienezza dell’anima, dello spirito, ecc., ecc., che soldi ne ho bisogno di pochi – che non ho bisogno di fare una vacanza dopo l’altra per attutire il vuoto interiore – quindi te li metto a disposizione! Però, in che cosa consiste la tua pienezza, quali voglie hai tu dentro di te, lo devi sapere tu!

Allora, a questo punto qui, ogni essere umano è una calamita – le voglie sono una calamita! – io vado in cerca, io attiro verso di me, tutte le cose che contribuiscono alla ricchezza, alla vivacità del mio essere; e rintuzzo tutte le cose che non fanno al mio caso.

Aggiungiamo adesso… Steiner scrive la prima edizione della Filosofia della Libertà nel 1894; dopo, la seconda nel 1018; adesso è un pieno scienziato dello spirito, non ha aggiunto dentro la Filosofia della Libertà le cose che ha detto in chiave di scienza dello spirito, io lo faccio adesso in chiave di eccezione per evidenziare perché lui, questa Filosofia della Libertà l’ha lasciata, in fondo, tale e quale.

Adesso, se è vero che ogni essere umano, questo corpo astrale, questa anima, è un’infinità di forze che attirano tutti gli eventi, tutti gli incontri, tutte le persone che fanno parte delle mie voglie, perché fanno parte del mio karma – scrivo qui: karma! –, allora il karma è un campo reale di forze dove ci son dentro tutte le mie voglie!

E che cosa cerca, che cosa vuole, quali sono i desideri, le brame, dell’individuo?

Brama tutto ciò, desidera, vuole, tutto ciò che massimamente lo favorisce! Che gli consente di vivere sempre più in pienezza!

Chi lo sa? Come faccio io a sapere quali sono le cose che meritano di essere volute, bramate, desiderate fortemente?

Perché in base all’essere sicuro… io non sono mai sicuro se una cosa, un incontro, una persona, ecc., veramente mi favorisce, mi corrisponde; ecco: mi corrisponde!

Io bramo, io ho voglia, delle cose che mi corrispondono, in modo che mi confermano, mi arricchiscono, ecc., ecc.

La scienza dello spirito ti dice: guarda che la tua coscienza ordinaria sente, a livello inconscio, delle voglie, delle brame, ma c’è una testa, che è sovraconscia, che le conosce! Le conosce esattamente le cose che fanno al caso tuo, e te le tira incontro!

Quindi, l’io superiore – il sovraconscio – sa quali sono le cose, le persone, gli eventi, che massimamente vuole, assolutamente vuole, perché gli corrispondono, lo fanno camminare, lo fanno arricchire!

Sono quello che gli capita!

Il concetto di karma è che ogni essere umano attira, proprio perché c’è l’io superiore che è un essere spirituale, uno spirito che attira; poi l’angelo custode che aiuta, custodisce, quindi protegge da tutto ciò che non fa al caso mio e lascia entrare solo ciò che fa al caso mio.

Quindi, ciò che mi capita è il massimo di ciò che fa al caso mio! Altrimenti non mi capiterebbe.

È di nuovo una fregatura dire: eh, allora devi sottometterti al tuo karma?!

Prova a fare il contrario! Prova a volere, a desiderare, qualcosa di diverso da ciò che ti capita!

Farai l’esperienza che è meno favorevole, meno costruttivo, per la tua identità, per la tua personalità, per il tuo io, che non quello che di volta in volta ti capita.

Il meglio per me è sempre quello che mi capita.

In altre parole, ciò che mi capita, se io, già in partenza lo confermo, creo i presupposti per farne, di volta in volta, il meglio. E quindi la volontà, l’essere protesi verso il futuro e farne il meglio nel presente, è questo nuotare di cui parlavamo oggi!

Ma, se io sto nuotando, le acque me le devo prendere così come sono! Un nuotatore non può nuotare in altre acque che non in quelle in cui è dentro. Nessuno di noi può nuotare in un karma diverso da quello che ha!

Quindi, se cerco di nuotare in un karma diverso, mi tiro fuori dalla vita in cui sono, e sono come un pesce fuor d’acqua!

Il valore della vita, per quanto mi riguarda, sta nell’incontro, nell’interazione, tra ciò che io attiro verso il mio essere – ciò che mi capita – e ciò che ne faccio.

E nessun papa, nessuna autorità, dal di fuori può dire ciò che io devo fare! Il da farsi sta sempre nel prendere posizione di fronte a ciò che mi capita; con cui vengo confrontato, non con qualcosa di astratto.

Ma allora, non c’è più il “fare la volontà di Dio”? Per dire un esempio.

Se un dio c’è, se chiamo “dio” – sto cercando di… sono cose un po’ difficili… premetto che lo scrivo piccolo: dio – se chiamo “dio” l’artefice del mio essere – supponiamo che io dica: non mi sono fatto io, qualche spirito mi ha costruito, ha costruito l’uomo così come è; quindi mi ha costruito così come sono – se questo dio… prima di tutto io non so se esiste o se è stato inventato, ma supponiamo che esista, e supponiamo che sia lui che mi ha creato, adesso, la prima possibilità – quella che la religione del passato, dove l’individuo non è più importante di ogni raggruppamento, ma è al servizio del gruppo – allora, nel passato si è sempre detto: lo spirito creatore ti ha creato perché tu faccia questo, questo e questo!

Se io sono stato creato come strumento per qualcos’altro, io do un calcio nel sedere a colui che mi avesse creato in questo modo! Perché allora ha barato!

Perché mi dicono che lui mi avrebbe creato per qualcosa d’altro, come strumento per la sua volontà, per compiere la sua volontà!… Ma allora non ha il diritto di mettermi dentro, strutturalmente, un’aspirazione ad un’autorealizzazione che è fine a se stessa!

Quindi ogni essere umano deve fare i conti con se stesso in un modo sincero: o si mette in testa che lui è strumento per qualcosa d’altro, allora è perduto! Allora è strumentalizzabile, all’infinito; da tutti i poteri costituiti.

Oppure si mette in testa che: chiunque mi abbia creato, abbia soltanto il diritto di aver voluto me!

Quindi, il padreterno, se c’è, creando me ha soltanto il diritto di aver voluto me! Quindi si tratta, per me, di vedere che cosa c’è in me, potenzialmente. Scorgo un dinamismo evolutivo? Questo sono! Questo voglio realizzare!

E chi mi ha creato con questo dinamismo evolutivo ha soltanto il diritto di aver voluto me, la mia pienezza! E tutto il resto lo mando a ramengo!

Quindi l’unica domanda, anche morale, è: in che cosa consiste la mia pienezza, la mia piena realizzazione. E questa piena realizzazione non è mai conclusa – dicevamo – proprio in questo dinamismo evolutivo di crescere sempre di più in conoscenza, in amore… tutto quello che volete. Ma si tratta sempre di me!

Quindi, la somma della morale, del bene morale, è la realizzazione sempre più piena dell’io. Meglio di così non si può; non c’è mai stato.

L’alternativa è di ricattare l’io, di strumentalizzare l’io, farne uno strumento… tu sei uno strumento per fare la volontà di Dio!

E chi me la dice la volontà di Dio?

Il superiore!… Berlusconi! No: Monti, scusate!… O Grillo!

L’ho letto sui giornali in Germania, il Grillo! Può darsi che, insomma, arrivi tra il 10 e il 20%!

Quindi, questo nuovo tentativo di mettere a fuoco che la pienezza dell’umano, il valore dell’umano, non è mai al di fuori, è sempre insita in questa ricchezza, in questa complessità di dinamismo evolutivo, che si individualizza e si specifica, ed è diversa, in ogni persona umana.

Adesso prendiamo il bambino, piccolo, qui siamo in una scuola… lo guardiamo… ma è assurdo dire al bambino, dal di fuori, ciò che deve fare!

Si tratta di fargli spazio e di guardare che cosa c’è potenzialmente in questo bambino.

Supponiamo abbia 5, 6 anni; o 4 anni, ma ancora prima!… Gli capita di vedere in una stanza 3, 4, 5 strumenti musicali.

Verso quale strumento sentirà maggiormente attrazione?

È aleatoria la cosa? È a caso?

No! È assurdo pensare che sia a caso! Ci deve essere qualcosa il lui che lo porta verso il mandolino!

E lo vedi! La chitarra la lascia da parte, il violino lo lascia da parte… il mandolino invece!… Poi riprova: no, no, no… e ritorna al mandolino!

Allora, questo bambino… lì c’è… Se poi uno si dice: ma questo cosiddetto bambino è uno spirito umano che ha già diverse vite trascorse, e si è incarnato sapendo che cosa vuol fare, che cosa vuole sprigionarsi dal suo essere!

E tutta questa realtà che è ancora sotto-conscia, o sovraconscia, si manifesta anche in questo speciale rapporto col mandolino!

Però, se questo bambino ha uno speciale rapporto col mandolino, io lo devo guardare; lo posso soltanto percepire: ogni essere umano può soltanto percepire l’altro essere umano, non lo può dedurre per speculazione logica!

Allora, arrivano gli adulti e dicono: no, no, no, è meglio che tu impari a suonare la chitarra!

Un’uccisione di un frammento del suo essere!

Perché se lui è venuto al mondo con un’affinità verso il mandolino, non funzionerà a volergli far suonare il piano! Non funzionerà! Deve portare dal mondo spirituale, in tutta questa compagine di forze, un’affinità ben precisa col pianoforte! Allora funziona! Se no non funziona!

E noi abbiamo tutta una pedagogia che è assurda, di adulti che vorrebbero dire al bambino ciò che deve fare, ciò che è importante fare!

Assurdo! Ma siamo retrivi, siamo antiquati all’infinito! Poi ci lamentiamo di tutte le sfasature che saltano fuori nel sociale!

L’unica cosa intelligente che possiamo fare nei confronti di un bambino, è di fargli spazio!

E che sporchi!!! Non importa nulla ! Importante è che manifesti il suo essere! Noi stiamo a guardare: ah, ah, ah, in quello lì c’è questo talento, vuol esprimersi in questa direzione, ecc., ecc.; allora sì che arricchiamo l’umanità! Invece continuiamo a castrarla da tutte le parti! E poi viviamo di povertà, e ci lamentiamo che siamo poverelli…

Allora, ora che vi ho fatto terminare la siesta, siamo al paragrafo 14… beh, potete continuare a dormire, io adesso devo leggere almeno 4 o 5 pagine, via!

Par. 14 – Ora sorge la domanda: qual è il mezzo giusto per stabilire il bilancio fra questo dare e questo avere?

Quindi, torniamo al discorso di stamattina, bilancio: quantità di dolore – mettiamolo qua sopra il dolore perché i pessimisti dicono che c’è una maggiore quantità di dolore, e sotto la quantità di piacere –. ( Archiati esprime tutto questo in forma di frazione)

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fig. 9

Piacere significa appagamento, significa gioia; dolore significa sofferenza e tutto quello che volete, no!

Tutto questo discorso lo possiamo fare un pochino veloce, se volete, perché supponiamo che si possa dimostrare… teoricamente sarebbe possibile dimostrare che quantitativamente, in ogni vita di tutti gli esseri umani, c’è più dolore che piacere…

Perché non mi dice nulla la cosa?

Perché la quantità di dolore e di piacere che c’è nella mia vita, o nella vita di ognuno di noi, è la cosa più astratta che ci sia!

In concreto io non ho mai l’esperienza della quantità! Ma neanche in una giornata!

Prendiamo una giornata! Supponiamo di riuscire a stabilire con la ragione che ieri, per esempio, c’è stato: 50 di dolore e 40 di gioia!

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fig. 10

Quindi vedi, guarda, che il dolore sopravanza la gioia: tu sei stupido se rincorri la gioia, il piacere, perché ti inganni! La vita non ti dà piacere, ti dà un esubero di dolore.

Il vostro silenzio, che non è soltanto di siesta, mi dice che la cosa ci lascia indifferenti… perché?

Perché è astratta!

Io non posso mai portare nel vissuto concreto… anche trattandosi soltanto di ieri, che ce l’ho nella memoria, io, cosa ho combinato ieri!… ma io ieri non ho vissuto realmente un rapporto di quantità maggiore o minore di dolore o di gioia!

Che cosa ho vissuto io ieri, concretamente, direttamente?

Ciò che mi andava di fare e che ho fatto!

E se mi andava di fare, e l’ho fatto, l’ho goduto!

Ah!, ma tu non ti sei accorto che tu hai avuto 40 di gioia nelle voglie – avevi voglia di bere tre chinotti, li hai bevuti – quindi sei andato incontro alle tue voglie, ai 40 di gioia, e non ti rendi conto che contemporaneamente c’erano 50 di dolore!

Io, di questi 50 di dolore, non me ne sono neanche accorto! Mi sono goduto i chinotti!

Quindi questo volere dei filosofi – prima erano i preti, i rappresentanti del divino – poi arrivano i filosofi: vogliono soggiogare l’umano ai loro scopi dimostrando che la caccia alla gioia è fallimentare! Ma l’uomo non cerca la gioia, non cerca la felicità, perché la felicità è di un’astrattezza stratosferica!

Usiamo una parola italiana ancora più concreta: “io faccio ciò che mi piace”!!!

Però tu, per fare ciò che ti piace… ti piaceva! Ieri hai fatto ciò che ti piaceva: ieri ti piaceva assolutamente andare alla partita di calcio e non ti sei reso conto di quanti svantaggi hai dovuto subire per andare alla partita di calcio!

Ma io gli svantaggi non li neanche visti, mi son goduto la partita di calcio!

Quindi l’essere umano, sincero e sano, si orienta in base a ciò che gli piace!

Mi piace!!!

E quindi non mettere sotto sospetto, moraleggiando, questo “mi piace”!

In: “questa cosa mi piace e quest’altra non mi piace”, si evidenzia l’orientamento del mio essere! Perché se io non mi oriento nei confronti di ciò che “mi piace”, non ho orientamenti.

Sarebbe meglio fare ciò che mi dispiace, ciò che non mi piace?

È assurdo!

Ah!, ma a te piace l’egoismo!

È astratto! A nessun essere umano piace l’egoismo!

Però ciò che ti piace ti è di danno!

Io faccio ciò che mi piace… devo sapere già in partenza cosa salta fuori?

Allora non farei mai nulla!

Quindi l’orientamento più sano che ci sia per far qualcosa è che deve corrispondere al mio essere: “ mi piace”!

Salta fuori poi che io mi sono ingannato?… Pensavo che mi piacesse, ma difatti ora non mi piace più di tanto!

Pensavo che mi piacesse prendere una sbornia, e me la son presa! E adesso dico: la prossima volta ci penso due volte!

Bene! La prossima volta ci penso due volte!

Però, uno che ha voglia di prendersi una sbornia, e non lo fa, è moralmente molto peggiore di chi ha voglia della sbornia e se la piglia! Perché chi ha voglia della sbornia, e se la piglia, impara realmente ciò che la sbornia gli procura; invece chi, moraleggiando, ha voglia di una bella bevuta e non lo fa, non si toglierà mai questa voglia di dosso. Invece chi la prova, e si subisce tutti gli svantaggi, prima o poi non avrà più voglia della sbornia.

Quindi ci sono due morali fondamentali: una morale che dà fiducia all’umano, anche ad un umano che impara – pensavo che la sbornia fosse una gran bella cosa e invece poi son saltate fuori altre cose che non mi piacciono più di tanto, talché dopo un paio di anni: non voglio più bere! – Benissimo! Benissimo!

(XIII, 14) Ora sorge la domanda: qual è il mezzo giusto per stabilire il bilancio fra questo dare e questo avere? Eduard von Hartmann è d’opinione che tale mezzo sia la ragione ponderatrice. Egli dice bensì (Filosofia dell’incosciente, 7° ed., Vol II, pag. 290): « Dolore e piacere esistono soltanto in quanto sono sentiti» {In quanto vengono vissuti, si direbbe in italiano}. Ne consegue che per il piacere non c’è altra misura che quella soggettiva del sentimento {Quella soggettiva-oggettiva del sentimento. Per il soggetto è oggettivo; ogni soggetto è oggettivo, dicevamo stamattina}. Io devo sentire {devo sperimentare, devo vivere}, se la somma dei miei sentimenti di dispiacere, paragonata con quella dei miei sentimenti di piacere, determina in me un’eccedenza di gioia o di dolore. Senza badare a questo, Hartmann afferma: Allora, Hartmann da un lato dice: la quantità di dolore e di piacere… eh, ma la quantità di dolore e piacere, dolore e piacere sono un vissuto! Io non posso dire con la ragione quanto dolore c’è e quanto piacere c’è. È il sentimento, il vissuto, che me lo deve dire! Quindi devo guardare, devo percepire, ciò che l’individuo umano vive; ciò che sperimenta realmente.

E ciononostante Hartmann si contraddice perché dice: è soltanto la ragione sobria che è capace di fare questo bilancio e di dirci se nella vita c’è più dolore o più piacere; e si contraddice perché un esubero di dolore, o di piacere, va vissuto, va sentito!

Se il filosofo, o il Budda, per esempio, vuol dimostrarmi, a suon di ragione, che c’è più dolore o più piacere, ma io resto con l’impressione mia, vissuta, che io la vita me la sto godendo, a che mi serve la sua teoria?

A nulla!

Quindi, se lui afferma che c’è maggior dolore che piacere, me lo deve dimostrare! Me lo deve dire dov’è il maggior dolore! Non soltanto perché lo inventi tu!

(XIII, 14) Senza badare a questo, Hartmann afferma: «Se pure il valore della vita di ogni essere può venir stimato solamente secondo la misura soggettiva sua propria, con ciò non è detto tuttavia che che ogni essere sia in grado di calcolare l’esatta somma algebrica di tutte le affezione della sua vita, o, con altre parole, che il suo giudizio complessivo sulla propria vita sia un giudizio giusto nei riguardi delle sue esperienze soggettive».

Il criterio del dolore e del piacere è l’esperienza soggettiva, non il giudizio della ragione, che generalizza! Quindi ognuno deve sapere per sé se ha il sentore di aver vissuto, di vivere maggior piacere che non dolore, o maggior dolore che non piacere. Deve dire lui come sente la sua vita; come la vive!

(XIII, 14) Con questo si attribuisce dunque di nuovo al giudizio razionale la funzione di valutare i sentimenti.

(XIII, 15) Chi segue più o meno esattamente l’indirizzo dei pensatori come Eduard von Hartmann, può credere di dover eliminare, per giungere ad una esatta stima della vita, i fattori che falsano il nostro giudizio sul bilancio dei piaceri e dei dispiaceri.

Allora, Hartmann dice: sta attento!, che ci sono dei fattori che falsano il tuo giudizio sulla quantità di dolore e di piacere!

E quali sono i fattori?

Due fondamentali!

(XIII, 15) A questo può cercare di arrivare pre due vie. Con la prima, egli dimostra che il nostro desiderio (impulso, volontà) {la brama, il tendere, le voglie}, esercita un’azione disturbatrice sulla nostra esatta stima del valore dei sentimenti.

Quindi la brama ci fa calcolare in modo sbagliato; perché prende l’esempio del vanaglorioso, dell’ambizioso. Il biasimo gli è stato sorgente di dolore e la lode… – In tedesco c’è una parola difficile da tradurre: der Ehrgeizige; traduco: vanaglorioso –. Allora il filosofo Eduard von Hartmann dice: quando tu hai ricevuto dei biasimi, delle critiche, ti ha fatto male! Hai sentito dolore!

Ma siccome tu sei vanaglorioso, dopo, nel piacere, tu esageri! Come dire: vedi più grosso il piacere per le lodi e vedi più piccolo il dolore per il biasimo!

Ma difatti tu non ti ricordi più che, anche il dolore per il biasimo, l’hai vissuto nella stessa intensità!

(XIII, 15) Mentre ci dovremmo dire, per esempio, che il godimento sessuale è una sorgente di male, noi siamo ingannati dalla circostanza che l’impulso sessuale, essendo forte in noi, ci seduce con la previsione di un piacere che poi non si verifica affatto nella pretesa intensità. Vogliamo godere; e perciò non ci confessiamo che sotto il godimento soffriamo. Con la seconda via, egli sottopone ad una critica i sentimenti e cerca di dimostrare che gli oggetti, a cui i nostri sentimenti si annodano, si rivelano come illusioni davanti alla conoscenza razionale, e che essi restano annientati nell’istante in cui la nostra sempre crescente intelligenza si accorge delle illusioni.

Adesso l’esempio dell’ambizioso, del vanaglorioso.

(XIII, 16) Egli dunque può pensare le cose nel modo seguente. Un ambizioso che voglia conoscere se, fino all’istante in cui fa l’inchiesta {in cui tira le somme}, sia stato il piacere o il dispiacere ad avere prevalenza nella sua vita, deve eliminare dal suo giudizio due sorgenti di errore {Già accennato}. Poiché è ambizioso, questo tratto fondamentale del suo carattere gli mostrerà le gioie per il riconoscimento delle sue opere attraverso una lente di ingrandimento, mentre le mortificazioni sofferte per il disprezzo altrui gli appariranno attraverso una lente di rimpicciolimento. Al tempo in cui fu disprezzato, egli sentì le mortificazioni, appunto perché è ambizioso, ma nel ricordo esse gli appaiono in una luce attenuata, mentre le gioie per il riconoscimento dei suoi meriti, alle quali è tanto accessibile, si imprimono molto più profondamente in lui. E veramente per l’uomo ambizioso è proprio un bene che sia così. Nel momento in cui egli esamina se stesso, l’illusione diminuisce infatti il suo dispiacere. Tuttavia il suo giudizio è falso. Le sofferenze, sulle quali per lui ora si stende un velo, furono da lui sentite vissute in tutta la loro intensità, ed egli le riporta quindi nel libro mastro della sua vita con una valutazione falsa. Per giungere ad un giudizio giusto, l’ambizioso dovrebbe, nel momento in cui fa l’inchiesta {fa il bilancio}, liberarsi della sua ambizione {Per essere spassionato! Ma lui non è spassionato: è un ambizioso!}. Dovrebbe osservare la propria vita finora trascorsa, senza avere alcuna lente davanti ai suoi occhi spirituali. Altrimenti somiglierebbe ad un commerciante che nel chiudere i conti inscrivesse all’attivo il suo zelo negli affari.

(XIII, 17) Ma un tale pensatore può anche andare oltre.

È ancora Eduard von Hartmann che sta parlando, eh! Poi Steiner torna all’attacco!

Adesso arriva l’illusorietà; quindi: prima la falsificazione del bilancio è che i dolori vengono rimpiccioliti e i piaceri vengono ingranditi. Seconda fonte di sfasatura del bilancio è che i piaceri per le lodi altrui sono illusori, perché le lodi della maggioranza non valgono un fico secco!

Ma lui le ha godute le lodi!

Se vogliamo fare un bilancio del dolore e del piacere, ha avuto il suo piacere di fronte alle lodi! Non gli importa nulla se le lodi valgono qualcosa; se sono oggettive o no! Gli ha fatto piacere, punto e basta!

Vogliamo fare un bilancio del piacere e del dolore?

Dobbiamo lasciar via, non c’entra nulla il carattere illusorio di certi piaceri! L’importante è che ci siano stati!

(XIII, 17) Egli può dire: l’ambizioso arriverà anche a rendersi ragione che i riconoscimenti ai quali dà la caccia sono cose senza valore. Egli deve giungere da sé, o essere da altri portato {dal filosofo, dal saggio}, a vedere che ad un uomo ragionevole non può importare nulla del riconoscimento da parte degli altri uomini, poiché «in tutte le cose che non sono questioni vitali di evoluzione, o che non sono già state definitivamente risolte dalla scienza», si può sempre giurare «che le maggioranze hanno torto e le minoranze ragione». «A un giudizio di tal genere affida la felicità della sua vita chi fa dell’ambizione la stella che lo guida» (Filosofia dell’incosciente, vol II, pag. 332). Se l’ambizioso riconosce tutto questo, deve qualificare per illusione quanto la sua ambizione gli ha presentato come realtà, e di conseguenza anche i sentimenti che si annodano alle rispettive illusioni della sua ambizione.

Quindi ha avuto sentimenti di piacere illusori, perché si appiccicavano a delle lodi che non valevano nulla, o che magari erano menzogne.

Ma il piacere l’ha vissuto; il piacere l’ha vissuto!

Quindi ci accorgiamo che in fondo l’umanità vive, dei secoli e dei millenni passati, i moralismi che sono sempre fatti per soggiogare l’individuo, a metterlo sotto sospetto; cominciando con l’egoismo, cominciando con la sua caccia al piacere che non c’è: lo si taccia di essere uno che è egoista, che vuol soltanto la caccia al piacere, per poi dirgli: lascia perdere quello che c’è dentro di te e dedicati al compito vero della tua vita.

Quindi un disprezzo profondissimo dell’umano, questa cosiddetta fatiscente moralità!

(XIII, 17) Per questa ragione potrebbe allora essere detto che dal bilancio dei valori della vita bisogna cancellare {dice il filosofo Hartmannan} anche tutto ciò che nei nostri sentimenti di piacere deriva dalle illusioni: quello che rimane rappresenterebbe la somma di piacere della vita libera da illusioni; e questa, di fronte alla somma del dispiacere, sarebbe tanto piccola che la vita non sarebbe godimento, e la non-esistenza sarebbe da preferirsi all’esistenza.

Sparatevi tutti quanti!… Fuorché io!

Allora, adesso parte Steiner.

(XIII, 18) Ma mentre appare assolutamente evidente che nel bilancio del piacere l’illusione prodotta dall’intervento dell’impulso ambizioso produce un falso risultato,…

Quindi Steiner concede che il bilancio si può sfasare, si può falsare, se i dolori vengono sminuiti, in base al biasimo, e se i piaceri, conseguenti alla lode, vengono ingranditi. Questo sì che può falsare; ma il fatto di dire che i piaceri dovuti alla lode andrebbero cancellati perché questa lode è illusoria e non vale nulla, sarebbe un falsificare in assoluto questo bilancio! I piaceri vanno presi nella loro realtà!

Quindi non vanno falsificati: il dolore rimpicciolendolo, il piacere ingrandendolo, però i piaceri vanno presi tutti quelli che ci sono! Lasciando via il carattere illusorio o non illusorio.

(XIII, 18) Ma mentre appare assolutamente evidente che nel bilancio del piacere l’illusione prodotta dall’intervento dell’impulso ambizioso produce un falso risultato, va {invece} tuttavia contestato quello che è detto circa il carattere illusorio degli oggetti del piacere. Un’eliminazione dal bilancio del piacere della vita di tutti i sentimenti piacevoli che si collegano a vere o presunte illusioni, falserebbe {del tutto} addirittura il bilancio stesso. Infatti l’ambizioso ha realmente avuto gioia per il riconoscimento della folla, indipendentemente dal fatto che più tardi egli stesso o altri si accorga che quel riconoscimento è un’illusione. La sensazione piacevole goduta non ne rimane menomamente diminuita. L’eliminazione dal bilancio della vita di simili sentimenti “illusori”, non solo non rende più corretto il nostro giudizio sui sentimenti, ma cancella addirittura dal bilancio della vita sentimenti che sono realmente esistiti.

“… ben lungi dal rendere più corretto il nostro giudizio sui sentimenti, cancella addirittura dal bilancio della vita sentimenti che sono stati realmente vissuti”. Si capisce il discorso, no?

È molto importante! Perché se noi, moraleggiando, smontiamo la persona umana e gli diciamo: te sei un egoista, te falsifichi in continuazione il bilancio della vita perché il dolore lo vedi più piccolo e il piacere lo vedi più grosso; poi, sei un farabutto perché vai alla caccia soltanto del piacere, ecc., ecc.; gli smontiamo tutto e non gli resta più niente! E allora ne facciamo un soldatino al servizio dei poteri costituiti!

(XIII, 19) E perché si dovrebbero eliminare questi sentimenti? Chi li ha ne prova piacere in quel momento; chi li ha superati, sente un piacere certamente spiritualizzato, ma non per questo meno notevole, in virtù dell’esperienza del loro superamento (non già per il senso di compiacimento: “che uomo sono io dunque!”, ma per le fonti oggettive di piacere che risiedono nel superamento). Se dal bilancio del piacere si cancellano dei sentimenti perché si annodano a cose che si rivelano illusioni, si fa dipendere il valore della vita non dalla quantità del piacere, reale, oggettiva, ma dalla qualità del piacere, e questa dal valore delle cose che causano il piacere. Ma se io debbo determinare il valore della vita soltanto dalla quantità di piacere o di dispiacere che essa mi procura, non mi è lecito presupporre altre cose per mezzo delle quali, a loro volta, io determini il valore o il non valore del piacere.

O si tratta della quantità, del piacere o dispiacere, o si tratta del valore!

Qui stiamo cercando di venire a capo riguardo alla quantità: se noi vogliamo sapere se c’è una quantità maggiore di dolore o di piacere, dobbiamo attenerci alla quantità; non in base al valore minore di certi piaceri, togliere via certi piaceri, per raggiungere un esubero dalla parte del dolore!

Il compito rigoroso, che ci siamo proposti in questo contesto, è di appurare la quantità reale; senza adesso inquinare questa quantità in base al valore dei piaceri – questi piaceri sono illusori, questi piaceri sono ingranditi, ecc., via, via, via! – e poi alla fine tu hai un risultato dove il valore è maggiore.

Quindi è pulito un calcolo che si attiene strettamente alla quantità.

(XIII, 19) Se dico: voglio confrontare la quantità del piacere con la quantità del dispiacere e vedere quale sia maggiore, debbo mettere in conto tutto il piacere e il dispiacere nella loro vera reale grandezza, senza considerare affatto se abbiano per base un’illusione o no. Chi, ad un piacere che poggi sull’illusione, attribuisce un valore per la vita minore di un piacere che si possa giustificare davanti alla ragione, fa dipendere il valore della vita {non più dalla quantità di piacere o di dispiacere, ma} anche da altri fattori che non sono il piacere.

(XIII, 20) Chi valuta meno un piacere perché si connette ad un oggetto vano {un paragone bellissimo, geniale, che Steiner fa in questo par. 20!}, somiglia ad un commerciante il quale segni nei suoi conti l’importante introito di una fabbrica di giocattoli per un quarto soltanto della somma, perché nella fabbrica vengono prodotti oggetti per il divertimento dei bambini.

Lui ha incassato 10 milioni di euro, però siccome i capi che ha venduto sono cose di valore inferiore, perché sono giocattoli per bambini, dice: no!, siccome la merce che ho venduto, il suo valore morale è scadente, allora io, invece di metterci 10 milioni, ci metto soltanto 2 milioni…

No! L’introito è di 10 milioni! Se li incassa volentieri, eh!

Quindi il moralista che vorrebbe convincere chi s’è goduto il riconoscimento, le lodi… perché poi, in fondo, nessuno di noi – adesso, siamo concreti! – nessuno di noi può vivere senza neanche un minimo di riscontro che l’altro ti dica: il tuo essere sprigiona gioia, sei un elemento di positività! Perché se mi torna indietro sempre che sono un elemento di negatività, questo insomma mi smonta!

Quindi la lode, la conferma, del proprio essere ne fa parte.

Adesso i moralisti dicono: tu tendi ad ingrandire il piacere, o addirittura il piacere fasullo, che dovresti cancellare perché si attacca ad una lode che non vale nulla, a una adulazione… – mettiamoci addirittura la bellissima parola italiana “adulazione”! – non chiediamo ai tedeschi che cosa significa, eh! –.

Quindi è questo che Eduard von Hartmann dovrebbe dire: ogni tipo di lode è una forma di adulazione, che è sempre una menzogna.

Che è micidiale: perché dovrebbe sempre essere una menzogna?

L’altro mi dice: dai che vai bene!

E nessuno di noi può vivere senza che, in qualche modo, dal mondo circostante venga una conferma!

Dai, continua! Non mollare! Hai diritto anche te all’esistenza!

Allora il moralismo dice: tu il piacere tendi a esagerarlo; dici 50 e invece erano 25!

Poi questi 25 son tutti falsi perché hai avuto piacere per tutte situazioni che erano menzogne. Via i 25! Zero! Il vuoto!

Eh, è questo il ragionamento! Si vorrebbe arrivare a dimostrare: tu non vali nulla! E allora, a quel punto lì, vale soltanto Dio, o lo stato, o le potenze militari; quelli ti incamerano e ti fanno fare quello che vogliono loro.

Invece io, i 50, me li son goduti! E tutti coloro che vorrebbero sminuire questi 50… è invidia! Problemi loro! Se uno ha goduto 50… ha goduto 50, santa pace!

Meglio ancora se avesse goduto 60! Il godimento non può mai essere troppo; è sempre troppo poco!

Questa Filosofia della Libertà ci dà delle liberazioni che proprio sono forti, eh!

(XIII, 21) Quando si tratta semplicemente di mettere a confronto la quantità del piacere e quella del dispiacere, bisogna lasciare completamente fuori dal conto il carattere illusorio di certi sentimenti di piacere.

(XIII, 22) Quindi la via raccomandata da Hartmann, di un esame razionale delle quantità di piacere e dispiacere prodotte dalla vita, ci ha fino ad ora condotti al punto di sapere come dobbiamo impostare il conto, e che cosa dobbiamo segnare su di una e che cosa sull’altra pagina del libro mastro. Ma come deve essere fatto il conto? È la ragione anche idonea a stabilire il bilancio?

E adesso siamo arrivati alla domanda: e come lo facciamo il conto?

Non l’abbiamo ancora fatto il conto!

Allora: la quantità di dolore e di gioia, di godimento… come si fa a stabilire la quantità sopra e sotto?

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fig. 11

Chi lo fa il conto?

Eduard von Hartmann dice: è il giudizio spassionato che deve fare il conto! La ragione deve fare il conto!

E Steiner dimostra che la ragione è incompetente in fatto di sentimenti. Dolore e godimento sono sentimenti; e la ragione, per sua natura, non è competente in fatto di sentimento.

(XIII, 23) Il commerciante ha commesso un errore nei suoi conti, se il guadagno calcolato non coincide con i profitti reali di cui risulta che l’azienda ha goduto o deve ancora godere.

Allora, la ragione calcola… meglio: la ragione giudica; il sentimento vive il dolore e la gioia.

Ora la ragione ha soltanto la possibilità, dal di fuori, di… vorrebbe, la ragione, poter giudicare la quantità di dolore e di godimento.

È in grado la ragione di giudicare la quantità di dolore e di godimento?

No!

La quantità di dolore e di godimento la può sapere soltanto colui che la vive! Perché il dolore è un vissuto e il godimento è un vissuto.

(XIII, 23) Il commerciante ha commesso un errore nei suoi conti {i conti sono la ragione; che fa i conti, il contabile}, se il guadagno calcolato {in base alla ragione} non coincide con i profitti reali… {quindi la ragione è un fatto di teoria e il sentimento mi dà la realtà della gioia e del dolore}.

È fuori posto fare con la ragione una teoria sull’esubero del dolore o di godimento, quando invece dolore e godimento sono vissuti dal sentimento, e sono una realtà che soltanto il sentimento… devo sentire, devo sentire!, devo viverlo!

Devo sapere per vissuto, non per calcolo puramente intellettuale, astratto, che è fuori dalla realtà del sentimento, se c’è un esubero di godimento o di dolore!

(XIII, 23) Il commerciante ha commesso un errore nei suoi conti, se il guadagno calcolato non coincide con quello reale, con i profitti reali {col vissuto reale, con la realtà del vissuto}, di cui risulta che l’azienda ha goduto o deve ancora godere. Anche il filosofo {che marcia a suon di ragione, che vuol giudicare in teoria l’eccedenza di dolore o di gioia}, avrà indubbiamente commesso un errore nel suo giudizio, se egli non è capace di dimostrare la presenza {reale, la realtà di questo esubero di dolore o di godimento}

Lui ha fatto la teoria: ha giudicato che c’è più dolore, ma non me lo può dimostrare! Dov’è il maggior dolore? Dov’è?

Tu hai elucubrato, hai tirato fuori una teoria; secondo la teoria dovrebbe esuberare nella mia vita il dolore… ma io questo esubero non lo vedo!

Me la son goduta la vita! Finora! E ho intenzione di godermela sempre di più! Dov’è che tu dici che nella mia vita deve saltar fuori un esubero di dolore?

(XIII, 23)… il filosofo avrà indubbiamente commesso un errore nel suo giudizio, se egli non è capace di dimostrare la presenza, reale, vissuta, nel sentimento, dell’escogitata {elucubrata filosoficamente}, eccedenza di piacere oppure di dispiacere.

(XIII, 24) Non voglio per ora controllare il calcolo di quei pessimisti che si basano sopra una valutazione del mondo secondo ragione; ma chi deve decidere in se stesso se continuare o meno l’azienda della vita, chiederà prima che gli si dimostri dove si trova {realmente, dove sia reale} l’eccedenza calcolata del dispiacere.

(XIII, 25) Qui siamo arrivati al punto in cui la ragione non è in grado di determinare da sé sola l’eccedenza di piacere o di dispiacere…

La ragione, in fatto di piacere o di dispiacere, ha soltanto il diritto di chiudere il becco! Perché non ne sa nulla! Perché in fatto di piacere o dispiacere è questione di vissuto, non di ragione. Quindi la ragione deve star zitta!

(XIII, 25) Qui siamo arrivati al punto in cui la ragione non è in grado di determinare da sé sola l’eccedenza di piacere o di dispiacere, ma nel quale essa è obbligata a mostrare questa eccedenza nella vita come percezione.

E la percezione è il vissuto! Io devo percepire, a livello “vissuto”, questa esuberanza di dolore, di cui tu mi stai parlando, che ci dovrebbe essere.

Se ci dovesse essere, dovrei ben viverla!, dovrei ben sentirla! Se io non vivo nulla di questa eccedenza vuol dire che tu l’hai inventata, ma che non c’è!

(XIII, 25) Non nel solo concetto, bensì nella compenetrazione, per mezzo del pensare, di concetto e percezione (e il sentimento è percezione), è dato all’uomo di raggiungere la realtà (v. pag. 74 e segg.).

Riassume in questa frase tutta la prima parte della Filosofia della Libertà!

Quindi: il filosofo fa una teoria, a suon di pensieri, a suon di ragionamenti, ma per avere una realtà, per avere la realtà vissuta dell’esubero di dolore, che lui cerca di dimostrare, ci vuole il lato di percezione!

Mi deve far vedere dove è percepibile, realmente percepibile, questo esubero di dolore. Se non è da nessuna parte percepibile, non c’è! L’ha inventato lui! Punto e basta.

(XIII, 25) Anche il commerciante non abbandonerà gli affari che quando le perdite calcolate {a suon di ragione}, dal suo contabile siano confermate dai fatti {percepibili}. Se questo non si verifica farà rifare i conti dal suo contabile. Esattamente allo stesso modo si condurrà l’uomo che sta nella vita. Se il filosofo gli vuol dimostrare che il dispiacere è di gran lunga superiore al piacere, ed egli stesso tuttavia non lo sente {non lo vive questo esubero di dispiacere} quell’uomo dirà: nell’almanaccare che hai fatto {caro filosofo}, ti sei sbagliato; ristudiati la questione. Ma se in un negozio, in un determinato momento, vi sono realmente perdite reali, percepibili tali che il credito non sia più sufficiente a soddisfare i creditori, si avrà il fallimento anche se il negoziante evita di far chiarezza sul vero stato dei suoi affari con la tenuta dei libri. Similmente se, in un determinato momento, la quantità di dispiacere {vissuta, reale, percepita}, diventa per un uomo così grande che nessuna speranza (credito) di piacere avvenire possa fargli superare il dolore, si avrà il fallimento dell’azienda della vita.

Quindi, nel momento in cui c’è un esubero chiaro e netto, inesorabile, di dolore rispetto al piacere; e se per l’uomo fosse determinante la quantità di dolore, se saltasse fuori che nella mia vita, inevitabilmente, il dolore esubera il piacere, e se questo calcolo quantitativo fosse determinante per me, dovrei smettere di vivere!

(XIII, 26) Eppure, il numero di suicidi è relativamente piccolo in confronto al numero di coloro che continuano coraggiosamente a vivere. Pochissimi chiudono l’azienda della vita a cagione del dolore che essa arreca.

Non è mica detto, aggiungo io fra parentesi, che un suicida abbia fatto questo tipo di ragionamento; la cosa è molto più complessa! Quindi non è detto che il numero esiguo di suicidi è perché i suicidi hanno appurato che vivono una maggior quantità di dolore che non di piacere; le cose sono molto più complesse.

(XIII, 26) Che cosa ne consegue? {Qui è un punto nodale di tutto questo capitolo}. O che non è giusto dire che la quantità del dispiacere è maggiore di quella del piacere {quindi un’affermazione sbagliata!} oppure {cosa più importante!} che noi non facciamo affatto dipendere il nostro continuare a vivere dalla quantità di piacere o di dispiacere che proviamo.

E io vi dicevo già prima: la quantità, la cosiddetta quantità – adesso dobbiamo guardarcelo un pochino spassionatamente; lasciamo qui sulla lavagna soltanto: la quantità di dolore e di godimento e poi: in tutta la mia vita –. Già prima lo accennavo: è di un’astrattezza tale che non mi dice proprio nulla!

Prima di tutto un sentimento sano, un animo sano, dice: impossibile! Dolore e godimento sono fattori di una tale cangiabilità, di una tale sottigliezza, di tali sfumature individuali all’infinito, per cui… l’animo sano dice: anche se riuscite a dimostrarmi che nella mia vita, finora, difatti c’è stato più dolore che non godimento, io mi rendo conto che non sono mai dipeso da questo calcolo di quantità! Altrimenti avrei smesso, già da un po’ di tempo, di vivere!

Diciamo: la cosa è del tutto astratta! L’uomo non si orienta affatto sulla quantità di dolore e di godimento; la quantità non gli interessa; meglio: non è la quantità che lui vive!

Quindi il passo successivo è di dire: è come se l’uomo cerca la felicità…

È giusto?

No!

È altrettanto astratto quanto questo calcolo di quantità. La felicità è tutto e non è nulla! Quindi l’uomo non cerca la felicità, non vuole la felicità; perché la felicità è nulla, proprio nulla!

Cercare la felicità, se ci fosse… un essere umano cerca la felicità soltanto perché non sa cosa vuole! Non sapendo cosa vuole, al posto di questo vuoto ci mette la felicità! Ma se concretizza questa felicità saltano fuori quelle che io prima chiamavo “le voglie”! – l’ho scelta apposta questa parola, che viene tacciata subito dai moralisti come se in un essere umano ci fossero soltanto voglie inferiori, istintuali, impulsi di natura, ecc. –.

Ognuno ha delle voglie ben concrete, ben individuali; quello vuole! Vuol esprimere quello che c’è dentro di lui!

Quindi, lo vedremo questa sera e domani, la voglia… ma che vuoi? Ma che vuoi?

Ho voglia di

Lì si mainfesta il concreto esistenziale dell’essere umano individualizzato, qui e ora. In questo momento: ho voglia di!

Ho voglia di fare una pausa, bermi un caffè, e quello lì (il relatore) finisca di farmi addormentare! Allora diventa concreto; molto concreto!

In cosa è determinante?… la gioia decide su ciò che bramo, sulla brama?

È la gioia a decidere? Io bramo in base alla gioia? Quella gioia che ciò che bramo mi dà?

Se io bramassi in base alla gioia che mi dà, voglio la gioia! E se io voglio la gioia non voglio nulla! Perché la gioia è talmente astratta!

Allora sarebbe: la gioia, o il piacere, è il fine; e la brama vale nella misura in cui mi dà gioia, mi dà piacere… È giusto?

No, è sbagliato!

Infatti non è la brama ad essere il metro di misura della gioia, ma è l’opposto: la gioia e il piacere sono decisi dalla brama!

Quindi l’essere umano non cerca gioia e piacere, vuole esprimere le brame e le voglie che sono dentro di lui.

E cos’è decisivo per la brama? La gioia che dà o qualcos’altro?

Decisivo per la brama è l’intensità, la forza!

Perché gli istinti di natura – la fame e la sete – vanno a colpo sicuro?

Perché sono fortissimi, irresistibili!

Quindi il dinamismo dell’evoluzione è di far sorgere, a livello del corpo gli istinti, a livello dell’anima le brame, a livello dello spirito… se uno vivesse la sete di conoscenza – tra l’altro fame e sete… il bello della fame e della sete consiste nella loro irresistibilità; non si scappa!, bisogna andargli incontro! – l’essere umano godrà la vita nella misura in cui fa sorgere “istinti” a livello dello spirito!

Sente la fame e sete di conoscenza non meno forte della fame e sete materiale.

Nel momento in cui la fame di conoscenza, la brama di conoscenza, la voglia di conoscenza, il desiderio di conoscenza, la sete di conoscenza, diventa così forte che io non posso vivere senza sfamare, dissetare la mia fame e sete di conoscenza; nel momento in cui gli istinti dello spirito diventano forti – e lo possono diventare come quelli del corpo – sono disposto a godermi tutti i contraccolpi, tutti gli ostacoli, tutti i dolori di questo mondo, purché io sfami e disseti la mia sete di conoscenza!

Quindi la chiave della pienezza dell’umano è la brama, che diventa sempre più intensa, a tutti e tre i livelli: a livello del corpo, dell’anima e dello spirito.

Quindi: sete di crescita, di realizzazione, fame e sete di realizzazione del proprio essere all’infinito.

E quando c’è una fame fisiologica di realizzare, in tutto e per tutto, la salute del corpo, le voglie dell’anima e, diciamo, la creatività dello spirito, l’essere umano non fa il calcolo di quantità – se c’è una quantità maggiore o meno – decisiva è l’intensità della brama!

E allora diventa importante la domanda, che qualcuno ha già posto ieri sera: come si fa a far saltar fuori, a tirar fuori, dagli esseri umani, ognuno da se stesso, istinti, brame, desideri, fortissimi anche a livello dello spirito? – Quelli del corpo ce li dà la natura –.

E la risposta della Filosofia della Libertà è che lo spirito porta in sé potenzialmente – è lasciato alla libertà di tirarli fuori e di viverli – ma lo spirito è capace di passioni non meno forti che le passioni dell’anima e del corpo!

L’anelito di conoscenza può diventare una passione tale da riempire tutta la vita di gioia!

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fig. 12

Facciamo una pausa.

***

Prima di cominciare volevo soltanto aggiungere che Monica Grimm e io vi siamo grati e riconoscenti per ogni euro che ci date, con la vostra generosità; anche perché non è che contribuite a che noi continuiamo a campare!; perché bene o male ce la caviamo; sostenete una casa editrice in Germania che poi passa all’Italia tutti questi testi di scienza dello spirito, dove il dettato di Steiner, quindi le conferenze di Steiner, vengono ricondotte, portate molto più vicino al suo parlato che era più semplice, più schietto.

In altre parole, chi di voi conoscesse l’opera omnia, in italiano l’opera omnia è tradotta dal tedesco e l’editrice tedesca – adesso io non vi sto a spiegare perché è stato fatto, e neanche lo voglio criticare – però per rendere accessibili questi testi, queste conferenze, ai teosofi di allora e agli antroposofi di allora, il dettato di Steiner è stato profondamente cambiato, e se mi permettete di dire: anche fortemente imborghesito, per cui secondo me salta fuori uno spirito diverso. E adesso abbiamo trovato, abbiamo scoperto, delle stesure a mano di stenogrammi molto più vicini a quello che lui ha detto; e risulta – e così deve essere – che soprattutto il suo modo di parlare era schietto, diretto e semplice.

Quindi vi siamo grati di aiutarci; noi abbiamo dei prezzi suicidi! L’avrete notato!

Abbiamo una Filosofia della Libertà, in tedesco… questo testo, una casa editrice normale la venderebbe come minimo per 50 euro! Noi, per rendere accessibile a tutti, anche a quelli, che sono sempre più numerosi, che devono stare attenti al portafoglio, lo vendiamo a 10 euro!

In altre parole volevo dirvi il mio grazie, si tratta proprio di “sfronzolare” tantissime conferenze di Steiner che nell’opera omnia, ciò che è stato tramandato, certe volte è stato raddoppiato o triplicato!

Tante persone ci dicono: adesso, quando prendo in mano conferenze di Steiner nelle edizioni Archiati, mi sembra per la prima volta di capire questo Steiner! Prima non riuscivo a capirlo! Diverse persone! Tante!

Allora: tocca a voi!

I.: 1: Volevo dire questo: rifacendosi alla frase che hai detto prima: “decisiva per la gioia è la forza della brama” a me son venute in mente… e tenendo presente anche la frase di Steiner che dice: <vivere nell’amore per l’azione e lasciar vivere nella comprensione della volontà altrui è la massima fondamentale degli uomini liberi>, mi son venuti in mente due nomi: Rilke e Oscar Wilde, che della brama ne hanno fatto proprio la loro ragione di vita.

Tanto è che erano così bramosi di conoscenza e di bellezza che alla fine sono rimasti soli; Rilke nella fattispecie aveva accanto persone che continuavano a dirgli: vai, vai avanti così!; ma i suoi affetti, i suoi amori, lui li rifiutava e alla fine è morto solo. Oscar Wilde, mi pare di ricordare che addirittura sua figlia si rifiutò di andare al suo funerale!

E quindi figli e mogli hanno pagato per questa brama. Ora, pur nel riconoscere che io non possa entrare nell’altrui volontà…

A.: E allora perché lo fai?

I.: 1: Ma lo faccio perché mi stride qualcosa. È vero che io sono anche frutto di questa società, sono “grandino”, e quindi ragiono con la mia testa, ma sono frutto di questa società, lo siamo tutti! E c’è qualcosa dentro che ti rode quando uno per la propria brama lascia tutto…

A.: No, no, no, a me non rode nulla! Ti rode a te! Continua a parlare di te!

I.: 1: Allora io voglio capire se sono l’unico che mi rode, perché ci deve essere una ragione…

A.: Ma guarda che vai bene! guarda che vai bene! Io voglio aiutarti a continuare ad articolare meglio i pensieri….

I.: 1: Ma è per capire! Io son d’accordo che la gioia è la forza della brama, ma se la mia brama va a discapito di qualcun altro, c’è qualcosa che non… hai capito?

A.: Sì, sì, ho capito, ho capito! Adesso io ripeto con parole mie, se sono fuori, fatti sentire!

Lui dice, se ho ben capito: oh! c’è brama e brama! Ci sono brame buone, e ci sono brame moralmente… non accettabili! E quindi io sono incaricato, nel caso di Rilke, di dirgli quali brame sono buone e quelle sì, gli do il permesso di seguirle; e quali brame invece sono cattive e quelle gli proibisco di viverle!

Ho capito giusto?

Ah!, mi dice che ho capito giusto! Oh, pensavo che mi picchiasse!

Interv. 2: Secondo me lui ha ragione, ma non è questo che…

A.: No, ma lui ha detto che è giusto come l’ho interpretato io!

I.: 2: (Continua a parlare senza microfono)

A.: No, no, no, allora per parlare si deve prendere il microfono: il microfono serve a pensarci bene a quello che si deve dire, eh!

Ah, c’è qualcun altro che ha in mano il microfono, abbia pazienza! Chi ce l’ha?

Diamo la parola a chi vuol commentare su questa domanda! Non sia mai che con una domanda così fondamentale la buttiamo via!

Io ho caricato la dose e tu dici: sì, sì, è proprio questa la domanda che stiamo affrontando, e adesso abbiamo bisogno di un paio di persone che si esprimano.

Allora la domanda che stiamo affrontando è fondamentale! La ripeto!

Abbiamo il diritto, di intervenire dal di fuori, sulle voglie dell’individuo, decidendo, dal di fuori, per lui, quali ha il diritto di vivere e quali deve castrare? O dobbiamo lasciare in pace ognuno e lasciare andare ognuno come vuole?

Lei (interv. 2) diceva che ha la risposta! Allora!

I.: 2: No, io non ho la risposta, stavo semplicemente leggermente correggendo il tiro: io ho nella mia testa che la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro.

A.: No, questa affermazione non mi dice nulla! È talmente astratta: dove finisce e dove comincia la libertà dell’altro?

I.: 2: Se la mia autoespressione deve limitare in qualche modo il pari diritto di autoespressione dell’altro, in quel punto c’è un limite restrittivo per entrambi. Oppure in alcuni casi – stavo pensando prima, quando lui parlava e lei ha interpretato così – l’esempio del genitore; il genitore deve limitare se stesso, nelle proprie brame, per il giusto scopo del dedicare magari il suo tempo alla dedizione ai figli, per esempio. Allora in quel caso c’è un’autolimitazione che è funzionale all’accrescimento dell’altro.

Quello che intendo dire è che c’è sempre un po’ da mettersi in relazione anche con gli altri, ecco! Anch’io avevo questa domanda che lui ha posto.

A.: Son stati risolti dei problemi con queste riflessioni?

Nulla!

Hai soltanto ricamato sul quesito, sulla grossa domanda che stiamo affrontando!

I.: 2: Eh, ma la risposta qual è?

A.: Un bravo oratore aumenta la suspence prima di dare la risposta che risolve tutti i problemi!

FIRENZE: Io dall’esperienza posso dire questo: da giovane ero così assolutista che per me esisteva solo il bianco e il nero, ero un giudice spietato! Trinciavo giudizi a destra e manca, ecc. Allora, poi ci aggiunga il fatto che son toscana, anzi fiorentina quindi la cosa si rafforzava. Poi ho incontrato la scienza dello spirito, a 25 anni, il pensiero di Steiner, che mi ha cominciato a togliere gran parte delle sicurezze – perché avevo proprio delle sicurezze… sicure! –…

A.: Era cattolica?

FIRENZE: No! Quattro anni, da 6 a 10 in collegio dalle suore, mi è bastato!

A.: Abbiamo capito tutto!

FIRENZE: Non ero cattolica, però avevo dentro un dolore… di non aver niente! E in più questo acuto senso di giusto e sbagliato, che questo me lo portavo da una passata incarnazione, non posso dire che era colpa delle monache! Le monache ci hanno messo del loro, ma insomma… vabbè!

Allora, poi, piano piano, ho fatto delle esperienze di vita, e sempre la mia fortuna è stata anche di acculturarmi, tardi, da autodidatta quasi, insieme alla scienza dello spirito. E le mie esperienze mi hanno portato, prima alla tolleranza – oggi la parola tolleranza mi dà fastidio perché è supponente: se io tollero vuol dire che mi sento più degli altri – credo di essere arrivata abbastanza vicino alla “comprensione”, alla “compassione”, nel senso etimologico di soffrire insieme alle cose che non vanno.

E questo è stato un percorso di 50 anni di scienza dello spirito. Solo questo son riuscita ad acciuffare! Però io credo che sia una cosa fondamentale per cui la risposta è: lasciate in pace la gente, che faccia quello che vuole, perché attraverso l’errore e il dolore si impara!

Al bambino, se gli dici: guarda, non andare vicino alla stufa! Guarda che ti bruci!

Il giorno che ci mette il ditino, ci sta lontano!

Questo dobbiamo fare! E tutti i moralismi che ci hanno insufflato…

A.: Se tu vuoi che una persona, una mela, la colga…

Proibisciglielo! Funziona subito!

FIRENZE: Ecco! Appunto! Abbiamo delle esperienze anche; basta saper guardare alla storia e alla cronaca anche, di persone che addirittura, attraverso un’azione scellerata, poi si sono redente veramente; hanno capito!; hanno capito perché hanno sofferto; perché hanno fatto l’esperienza!

Quindi, per conto mio la libertà sta proprio in questo che, ieri e stamattina, è stato detto sull’indipendenza dell’io; è la realtà.

Lasciatemelo dire da una donna di 80 anni!

(Applausi in sala)

A.: 80 anni! A Roma direbbero: ammazzalo! Una seconda giovinezza di questo genere lo raggiunge soltanto 50 anni di antroposofia!…

Complimenti, signora!

Allora, se qualcuno voleva intervenire… prima che arrivi la risposta mia; quella sì, è quella che vale, eh!

Oh, due toschi, uno dopo l’altro! Poveri noi!

MASSIMO: Io da Arezzo però, eh!

A.: Non c’è un matrimonio fra Arezzo e Firenze?

MASSIMO: Dai tempi della battaglia di Campaldino ci sono stati dei problemi!

Niente, dicevo questo: su questa domanda è lecito o meno dare, rispettare, quindi far esprimere le voglie di tutti, perché effettivamente ci si potrebbe trovare di fronte a una situazione spiacevole, no! Perché la preoccupazione è alle volte un po’ borghese e bigotta, però effettivamente il problema va posto e risolto.

Come dire, la risposta, secondo me, a questa domanda lecita, non può prescindere dal fatto che siamo nella parte della morale della Filosofia della Libertà; e quindi, come tale, la parte morale della Filosofia della Libertà trova la sua realizzazione e la sua verità se non si prescinde dalla prima parte della Filosofia della Libertà.

Vale a dire, l’espressione della volontà, delle voglie, delle persone non andrà mai in contrasto l’una con l’altra, non si raggiungerà mai l’anarchia; e quelle espressioni sono lecite, anzi addirittura costruttive, soltanto nel caso in cui, come in un organismo, la libera espressione di ogni suo membro poggia appunto sulla stessa fonte, che è la fonte della conoscenza e dell’espressione della libera iniziativa, dell’individualismo etico autentico.

Solo in questo caso la brama, il desiderio e la realizzazione delle voglie non è contraddittorio, non è pericoloso per tutti, ma è anche un accrescimento.

Quindi mi sembra che rispondere a questa domanda, sia impossibile se si prescinde dal fatto che ogni elemento della società dell’organismo… si peschi tutti dalla stessa fonte; solo in questo caso qui non ci può essere contraddizione.

Nel frattempo è un cammino, è un percorso evolutivo; però, insomma, è come nel bambino: il bambino va educato; non nasce subito, come dire… educato e rispettoso degli altri! La ragazza che parlava dietro di me (interv. 2) parlava appunto di educazione, di sviluppo; quindi sono vere un po’ tutte e due le cose.

I.: 3: Riguardo alla domanda e all’esempio relativo ad Oscar Wilde, io mi chiedo: avrebbe lui scritto il “de profundis” se non avesse fatto questa esperienza? E poi mi chiedo: questa non è l’esperienza dell’artista, comunque?

L’esperienza che viene attraverso… che è avvenuta attraverso la realizzazione di ciò che lui era, ciò che lui sentiva di essere; e quindi è stato un suo divenire necessario per quanto riguardava il suo io e per quanto riguardava il suo karma?

Ecco, mi sono fatta queste domande semplici.

A.: No! Importanti!

I.: 3: E comunque si può aggiungere anche questo: che arriviamo ad ogni modo, poi, a quello che viene detto in seguito, che l’uomo deve avere comunque la fantasia morale. Qual era la sua fantasia morale.

A.: Era il contenuto del XII capitolo, l’ho già detto prima, capito!

I.: 4: Gengis Kan, il più grande sterminatore di uomini, aveva anche lui la sua volontà di esprimersi, no? Allora io dico che non parlo di dover tarpare le ali alle persone, ma dico anche che a livello di popoli, di rivoluzioni dell’uomo, ci debbano essere comunque delle cose che, a livello educativo, a livello di quello che vogliamo, devono essere portate avanti. Allora mi viene in mente il discorso di Gandhi, di cui ho letto parecchio, che dice che proprio l’appagamento – parla di appagamento, proprio un vocabolo usato oggi – l’appagamento si realizza solo nella giustizia, nella pace, nella sobrietà, nella semplicità; e questo crea, fra l’altro, di poter essere servi degli altri.

Questa è una prima parte della domanda, la seconda parte, che non c’entra con questa prima, è che sono stati usati vocaboli come istinto e ragione, non ho sentito – secondo me importante – anche il vocabolo intuizione.

A.: Allora, cerco di tirare le somme includendo un po’ tutti i contributi, perché ognuno ha una sua importanza.

Ci sono, – lo diceva lei qui davanti (Firenze) – in fondo, due modi fondamentali di affrontare l’essere umano: uno è quello di guidarlo e l’altro è quello di dar fiducia alla natura umana.

La matrice paternalistica, di cui vive la morale tradizionale, vorrebbe – è il pater, paternalista – che vorrebbe far evitare al figlio gli sbagli che lui ha fatto!

E questo è lo sbaglio più grande che si possa commettere! Perché la cosa più importante nella vita di una persona sono gli sbagli da cui impara qualcosa!

Se gli portiamo via, moraleggiando, la possibilità di fare gli sbagli, questa persona sarà molto più negativa che non facendo gli sbagli e imparando!

In altre parole, se noi proibiamo più di quanto è necessario, rendiamo appetibile più di quanto è necessario! Perché il proibito è per natura appetibile!

PUBBLICO: Come la mela!

I.: 5: E come è ricercato il proibito?

A.: Come la mela del paradiso terrestre!

Allora, cosa voglio dire io con questo – un pensiero che ho espresso tante volte – però il pensiero va espresso… nell’esprimerlo è veloce la cosa, ma le conseguenze sono enormi; quindi vale la pena, ogni volta, di esercitare il pensiero.

Io direi: la cosa migliore, per tutti noi, per l’individuo e per tutti gli individui, è: nel frattempo… – perché qualcuno diceva: sì, però nel frattempo, finché non siamo ancora perfetti?… –. Quindi bisogna gestire tutta l’evoluzione finché non siamo perfetti!; e io sono il primo ad essere d’accordo che va gestita, se no andiamo tutti a ramengo, col Gengis Kan!

Allora io dico: dobbiamo… è importantissimo, altrimenti ci distruggiamo a vicenda, dobbiamo proibire in modo assoluto – ed è il compito della legge – tutte le azioni che, per natura, ledono la libertà!

Questo è l’unico motivo: se sono per natura lesive della libertà, allora vanno proibite! Per il motivo che ledono la libertà.

E le azioni che, per natura, ledono la libertà, sia di colui che agisce, sia degli altri, sono poche!!! Tutto il resto, se lo proibiamo, costringiamo gli esseri umani a farlo più di quanto lo farebbero se provassero liberamente; che poi si scottano le mani e non lo fanno più!

Quindi abbiamo una morale così negativa, così proibitiva, che aumenta le voglie del negativo; perché viene proibita!

Permetti il negativo! Basta che non sia distruttivo… più di tanto!

E la persona che ci prova, fa male a se stessa e, per libera volontà, non lo vuole più!

Qualcuno diceva: ma io sono mamma di famiglia, adesso devo reprimere le mie voglie perché questo fantolino limita la mia libertà…

Basterebbe che la brama, la voglia, di avere un bambino, e di dedicargli tutte le forze che io ho, fosse tale… che io non ho voglia di fare altre cose e trascurare il bambino!

E cosa ci vuole allora?

La brama che sia forte abbastanza!

Però è una brama, scusate! La brama di avere un bambino è una brama!

Quindi noi siamo abituati ad una morale così paternalistica che: attento!, attento!, questo no!; attento!; attento!

Prova! Prova! Tutto quello che vuoi! Quello che è positivo, lo ripeterai volentieri; quello che è negativo, per voglia tua non lo farai più!

Come andremo meglio nel sociale con un sacco di persone che, avrebbero voglia, avrebbero voglia, ma gli si proibisce, e vengono costrette, ecc., ecc?

Per esperienza propria non vogliono ciò che è negativo!

Se a una persona gli permettiamo – non lede la libertà di nessuno – di andare incontro a tutte le voglie corporee… ma è la cosa migliore se è vero, se siamo convinti, che l’essere umano non si può realizzare nella sua pienezza soltanto esprimendo gli impulsi del corpo. Abbiamo tutto l’interesse a che ci provi!, se siamo convinti che non gli basterà!

Perché vogliamo proibirgli di fare l’esperienza che non gli basta, perché non fa mai l’esperienza?!

Quindi è importantissimo che ogni essere umano abbia la possibilità, semplice, di fare tutta l’esperienza del corporeo: ah!, non mi basta! Io ho altre voglie ancora! Io non sono contento come essere umano!

Eh, certo! Hai anche uno spirito!

Ah! Ah! C’è anche lo spirito?! E come sono le voglie dello spirito?

Provaci! Provaci! Si comincia!

Se noi, con una morale retriva… soltanto quella c’è stata finora!; una morale retriva abbiamo: questo è cattivo, questo è cattivo, questo è cattivo!…

Noi aumentiamo la voglia di farlo!; e quindi abbiamo costretto gli esseri umani a restare nella sfera inferiore oltre il tempo che l’essere umano ci resterebbe, se lo lasciassimo in pace! Se lo lasciassimo provare!

Perché finché i genitori, le persone anziane, le autorità costituite, mi proibiscono una cosa, io ci devo mettere ancora più forze! Perché io la voglio provare, io voglio essere libero!

Quindi per un sociale, diciamo, a misura dell’essere umano, basta proibire – e quindi con la possibilità di mettere in prigione chi le fa – le azioni che ledono la libertà. Tutto il resto deve essere permesso!

Perché adesso, se noi – questa è la risposta alla tua domanda – se noi avessimo il sospetto che un Gengis Kan si realizza, è contento, realizzato in quanto uomo, uccidendo gli altri, allora ha il diritto di farlo! È uomo!

O abbiamo il convincimento che gli mancherà qualcosa, e lo cercherà; oppure abbiamo il convincimento che non ha altro! E allora, se non ha altro, non ce l’ha! Non è che lo raggiungerai costringendolo a fare l’altro!

Il bene non è un dovere!

Se il bene fosse un dovere, è un male! Il bene, o è ciò che io voglio, ciò che il mio essere vuole, ma non è un dovere per me!

Però, per sapere quali desideri, quali potenzialità, quali dimensioni del mio essere vogliono esprimersi, devo prima provare, scusate! Eh!, prima devo provare con quello che mi dà la natura! Le voglie che mi dà la natura, voglio viverle!

Poi, dopo un po’ di tempo dico: e perché sono scontento? Mangio, bevo, ho un sacco di soldi… e perché sono scontento?

Perché le voglie che ti dà la natura, te le dà la natura; e tu sei passivo!

E adesso cominci a capire che c’è più contentezza, più autorealizzazione, più gioia, creando delle gioie, creando delle cose, che non ti dà la natura!

Allora comincia!

Se noi non permettiamo all’essere umano di fare l’esperienza, sua, individuale, che la natura non gli basta, non arriverà mai al punto di desiderare ciò che è oltre la natura; cioè la libertà, ciò che è libero.

E noi, siccome abbiamo paura della libertà, vorremmo proibirgli di fare l’esperienza della natura. Allora abbiamo paura, non soltanto della libertà, ma anche della natura!

Il padreterno, se c’è, ci lascia fare tutto quello che vogliamo!

È un cattivo pedagogo?

Non interviene!

Tant’è vero che la maggior parte degli esseri umani è convinta che non c’è neanche! Vuol dire che proprio ci lascia in pace!

Dal che io capisco: deve aver creato la natura umana in modo tale che dice: hai tutto quello che vuoi! Prima o poi ti accorgerai che sei insoddisfatto se non crei, se non crei, se non crei; se non sei creatore a tutti i livelli.

E allora provaci, però! Devi fare l’esperienza tua, che la natura non ti basta! Altrimenti la libertà te la dobbiamo predicare, e allora non è libera.

TERAP.: Questo concetto della libertà, che va bene finché non lede la libertà di un altro, è un concetto che noi stiamo ripetendo da anni, ogni volta che ci incontriamo.

Ecco però, questa cosa ancora non mi è completamente chiara, perché avrei bisogno, se tu mi aiutassi, a concettualizzare, a mettere più parole su questa cosa. Faccio un esempio: allora se un signore, quando io ero piccolo, per soddisfare le sue voglie avesse fatto qualcosa su di me, che la morale pubblica reputa brutto; questa cosa, ha leso la mia libertà?

Oppure lui… o diciamo semplicemente: lui aveva la sua voglia e con l’esperienza imparerà, finché troverà una voglia migliore.

Cioè, cosa vuol dire: finché non si lede la libertà di un altro? Io questo non lo capisco.

A.: No, no, sta attento: l’esempio che hai preso non ci aiuta perché tu hai preso un esempio di assoluta eccezione, quello del rapporto tra un adulto e un bambino. Devi portarci un esempio di un rapporto tra adulto e adulto…

TERAP.: Sì, va bene; è la stessa cosa se io guardo una donna e voglio soddisfare la mia voglia!

A.: Sta attento, l’arte di far sì… in che modo io – dico adesso concretamente io – possa far sì che tutte le vostre espressioni delle vostre voglie non ledano la mia libertà?

Semplicissimo! Mi pongo a una distanza sufficiente in modo che potete fare quello che volete! Il bambino non ha questa capacità, di calcolare le distanze; non le può né calcolare, né gestire. Invece gli adulti devono capire che non esiste la libertà reciproca se noi non esercitiamo l’arte, complessa, delle distanze dovute.

Quindi se io dico: ma questa persona sta ledendo la mia libertà! Ma è perché sono stupido abbastanza da non andare 5 metri più in là! E allora finisce di ledere la mia libertà. Quindi l’arte del rendere possibile la libertà a vicenda, è l’arte delle giuste distanze. E questa è un’arte complessa, però la si può esercitare.

Io non ho il diritto di pestare una persona e dire: tu ledi la mia libertà, e la sto asfissiando!

L’altro mi dice: ma vai via! E dopo ho finito di ledere la tua libertà.

Scusate se adesso faccio questa riflessione: in Germania, in media, c’è più distanza fra persona e persona. La persona singola ha spazio fisico; ogni persona ha più spazio per unità; in Italia si è troppo vicini gli uni agli altri! E per forza, non si può respirare! Hai voglia a dire di essere liberi!

Cioè, perché due persone possano dire: io non ledo la tua libertà e tu non ledi la mia, ci deve essere – è una metafora la distanza, però è anche fisica – ci deve essere l’arte di lasciarci in pace a vicenda.

Io devo lasciare in pace l’altro, quindi mi deve star bene tutto quello che fa, ma quand’è che l’altro lede la mia libertà?

Quando non mi sta bene quello che fa! Ma se mi sta bene tutto quello che fa, resto libero!

Che cosa c’è, che l’altro fa, che non può starmi bene?

Nulla! Basta che mi stia bene!

Se non lo posso sopportare, vado via! E allora sto bene lo stesso!

La traduzione che è stata fatta: vivere nell’amore all’agire – non all’azione, perché l’azione è già inclusa in quello che si vuol raggiungere – e nella comprensione – non per il volere altrui, ma – per il volere estraneo: l’altro ha un volere, ha delle voglie, ha degli impulsi di autoespressione, che a me sono estranei; è un altro mondo! Che cosa lede la mia libertà di quello che l’altro fa?

Nulla! Nulla!

Lede la mia libertà soltanto se mi ammazza!

Finché non mi ammazza, posso fare quello che voglio anch’io!

Non posso fare quello che voglio standogli vicino?

Vado un po’ più lontano!

E uno che fa transazioni di borsa dove io ho i miei pochi risparmi, che poi, dopo due anni, questi risparmi sono spariti… questo lede la mia libertà perché io, di questi risparmi, ne ho bisogno!?

Queste azioni di borsa vanno proibite, tassativamente! Perché per natura ledono la libertà.

Ma l’agire dell’altro non può mai, per natura, ledere la mia libertà!

È perché siamo intolleranti, lo diceva qui l’antroposofa cinquantenne, siamo profondissimamente intolleranti!

Il paternalismo è intolleranza morale: ti dice quello che devi fare e quello che non devi fare!

Ma come ti permetti! Nessun essere umano ha il diritto di dire a un altro ciò che va bene per lui; ciò che gli è permesso di fare e ciò che non gli è permesso di fare!

È tutto permesso fuorché ciò che va proibito!

E se quello che l’altro fa non mi va bene, ho un problema io! Non mi va bene, allora vado un po’ più distante.

Abbiamo veramente una morale retriva, di repressione dell’essere umano. E ne paghiamo lo scotto perché abbiamo una massa di persone che si ribellano contro il moralismo; giustamente!

La maggior parte delle persone – io vedo i volti – sono persone che dicono: vorrei finalmente poter respirare; ma non può respirare nessuno!

E avere la possibilità di fare quello che voglio, comprende in chiave economica – perché nessuno può vivere senza denaro – che se noi avessimo un minimo di tolleranza per l’individuo umano, nella sua espressione, nel suo diritto assoluto di esprimersi, e poi di sperimentare ciò che lo realizza – e ciò che lo realizza soltanto per un terzo, o per metà, perché c’è un desiderio di andare sempre di più verso lo spirito – avremmo il dovere assoluto, altrimenti lediamo la libertà, di far sì che ognuno abbia i soldi necessari; quindi dovrebbe essere proibito non dare ad ogni individuo i soldi necessari perché si esprima del tutto liberamente! Fa parte della dignità umana!

Questo per dire quanto è antiquata la nostra società!

Quindi la prima cosa economicamente da fare sarebbe di dare – nella nostra società, coi soldi che abbiamo, in Germania 1500 euro, in Italia magari 1200/1300 euro – ad ogni persona, dalla culla fino alla bara. Non importa nulla quello che fa! Se poi è produttivo può incamerare 20, 30 50mila euro al mese, tutto libero; però ognuno riceve, per legge, 1500 euro al mese, altrimenti, se non li riceve, lediamo la sua libertà.

E questo va proibito! Perché uno che non ha i soldi necessari neanche per campare, come fa ad essere libero?, scusate!

Buon appetito, ci rivediamo stasera!

Sabato 16 febbraio 2013, sera

Buonasera a tutti!

Qualcuno mi ha appena detto: ma quand’è che finalmente ci parlerai del valore della vita?

Intendeva dire che finora non s’è detto nulla sul valore della vita!…

Io gli ho detto: il valore della tua vita sei tu! E se tu non vali nulla… non è colpa mia.

No, questo non l’ho detto; lo aggiungo adesso.

Allora, riassumo di nuovo un pensiero fondamentale: non c’è il valore della vita, non c’è la vita in generale; c’è la tua vita, la mia vita… anzi lasciamo via la tua, che sono affari tuoi, e ognuno parla della sua vita.

Quindi, per quanto mi riguarda c’è soltanto il valore della mia vita. Questo è concreto! Il valore della mia vita.

Però, la prima riflessione che salta fuori è di dire: la mia vita… cos’è la mia vita?

E’ astratto!

Il valore della mia vita sono io!

Sono io! E se no, eh!… se non valgo nulla io, come fa la mia vita a valere qualcosa!?

Quindi la risposta al valore della vita è: chi sono io!

Chi sono io, in quanto me stesso, però chi sono io nel contesto dell’umanità, nel contesto degli influssi che io esercito sulle altre persone, ecc.

Ora – lasciatemi usare una parola grossa – il grosso mistero dell’io è che: ognuno di noi, ogni io, ogni persona, è una somma infinita di…mi vengono parole tedesche…

Insomma: io sono ciò che sono diventato, cioè tutto ciò che c’è già in me.

Che cosa c’è in me? Che cosa sono diventato?

Un’e n o r m i t à di cose!!!

Uno che ha trent’anni andiamo indietro di 25 anni; uno che ha 40 anni andiamo indietro di 35 anni. Ognuno di noi, io, io – stiamo parlando dell’io – quindi ognuno si riconosce in questa parola: io.

Quando avevo 3, 4, 5 anni, che cosa si era manifestato di me?

Poco! Poco! Ero paragonabile ad altri bambini più o meno come me.

Oh! Oh! Di anno in anno, di mese in mese, quante espressioni del mio essere sono saltate fuori e adesso io sono un mondo!

Un mondo di capacità, di qualità, di abilità; sopratutto ciò che sono diventato è la base per un’infinità di potenzialità, di desideri, di voglie – queste parole le abbiamo usate, no! – di istinti, di brame – usiamo la parola “brame” – …

Io sono ciò che voglio, ciò a cui aspiro!

Una bella parola è: aspirazione… Ciò che voglio diventare…

Quindi c’è in me un mondo, ma è un mondo individualizzato, un mondo specifico in ognuno.

Ciò che una persona, un io, le brame che ha, ciò a cui aspira – perché gli corrisponde, corrisponde a quello che è capace di fare, e vuol fare sempre meglio – è diverso, è tutto diverso dal mondo delle brame, delle aspirazioni, dei desideri di un’altra persona.

Quindi io sono ciò che sono diventato e ciò che sto d i v e n t a n d o!

Adesso, se ci chiediamo, parlando del valore della vita, che cosa mi vale di più, che cosa ha più valore per me, che cosa ha più peso, che cosa è più bello per me: ciò che sono già diventato o ciò che sto diventando?

E’ ovvio che è più interessante ciò che sto diventando, ciò che voglio diventare!

Che cosa è più interessante, cosa ha più valore: la partita di calcio già giocata…

eh, è già giocata!… lo spazio è finito!… o la partita che sto giocando?

La partita che sto giocando!

Quindi, il valore della vita è il dinamismo – i greci avrebbero detto: l’eros – il dinamismo intrinseco, però del tutto individualizzato del divenire.

Quindi la definizione dell’io, la definizione dell’individualità umana, è che ogni individualità è una potenzialità diversa all’infinito, di acquisirsi dimensioni dell’umano sempre nuove in un modo del tutto individualizzato.

E’ una cosa molto bella se uno la capisce!

Questo pomeriggio facevamo la riflessione: sì però, adesso se noi diamo via libera a tutte le voglie, a tutte le brame, a tutte le aspirazioni, a tutti i desideri, il Gengis Kan, diceva qualcuno, ha voglia di tagliare la testa a centomila persone e…

Un passo indietro: abbiamo una massa di persone scontente, per la quale la vita vale troppo poco, perché la nostra morale è troppo repressiva, è troppo retriva; cioè, abbiamo una morale che ha paura della libertà e non dà fiducia all’umano: sta attento qua, sta attento là, questo non è buono, questo è male, ecc., ecc.; alla fine uno non può più nenche respirare.

E una vita in cui non si può più neanche respirare cosa vale?

Nulla, scusate!

Però la soluzione non è di andare all’opposto e di permettere tutto!

Allora, la proposta realistica che io ho fatto e che mi sembra sia veramente importante considerarla, è di dire: la legge serve – e ci vuole la legge – per stabilire – cosa non facile in una società sempre più complessa – per stabilire quali azioni – per esempio ammazzare l’altro – quali azioni sono, per natura, lesive della libertà. Quelle vanno proibite! E vi ho detto: sono poche, non sono tantissime; anche se “non uccidere” oggi è più complesso che non ai tempi di Mosè, dei 10 comandamenti – che poi non sono comandamenti, sono 10 divieti, sono 10 proibizioni: non rubare, non uccidere, non commettere adulterio, ecc.

Quindi una legge, una legislazione rispettosa dell’umano, si limiterebbe a stabilire divieti, proibizioni, non leggi sul da fare. Il da fare lo decide l’individuo! Nessun individuo ha il diritto di dire a un altro che cosa deve fare! Ha soltanto il diritto di dirgli cosa per tutti e due – e per tutti – è proibito fare.

Però, se io capisco che una certa azione è, per natura, lesiva della libertà, non voglio farla! Perché lede la libertà altrui e mia; quindi resto libero!

Di fronte a ciò che giustamente è proibito, la persona libera resta libera perché non vuole compiere ciò che è proibito. Liberamente non lo fa: punto e basta!

Ma un dovere, qualcosa che una persona deve fare, non c’è mai stato, e non c’è!

Allora, arriva uno e dice: ma una mamma con un bambino piccolo ha ben dei doveri!?

Nooo! Nooo! Nooo!

C’è qualcosa di molto meglio del dovere! E cioè: se lei ha avuto – lo dicevo già oggi – una brama, un desiderio, un’aspirazione talmente forte di avere un bambino, per godersi il fatto di farlo crescere, ecc., ecc., allora dedicare le sue forze al bambino non è ciò che deve, è ciò che vuole!

Ora il dovere, fare qualcosa perché devo, presuppone che non lo voglio! Perché se io lo voglio, non ho bisogno di doverlo!

Se io lo voglio fare, se ciò che è giusto fare lo voglio fare, non ho bisogno che mi si dica che “devo”. Lo voglio!

Quindi il “dovere”, la morale del dovere – ci arriviamo adesso, in questo XIII° capitolo – è retriva, è castrante, perché presuppone, mette alla base, il pensiero che l’essere umano vuole il… male!

E allora bisogna costringerlo per “dovere” a fare il bene. Quindi il bene non è quello che vuole, è quello che deve!

E qual è il “male” che vuole l’essere umano?

Vuole essere egoista! Vuole essere felice!

E allora, adesso vedremo Hartmann che dice, che cerca di distogliere l’essere umano dalla caccia alla felicità – dalla caccia egoistica alla felicità – e in che modo?

Lui pensa di dimostrare che è un’impresa fallimentare, perché dice: tu, la felicità, non la puoi mai raggiungere; e allora, non potendola mai raggiungere, rinuncia alla caccia alla felicità e dedicati al tuo dovere!

Più immorali di così non si può essere!

La prima affermazione è che la natura umana è sbagliata, già in partenza; quindi è stata costruita in modo tale che vuole la cosa sbagliata. E noi stiamo dimostrando – già ieri, stamattina e questo pomeriggio – che non è vero che l’essere umano vuole una felicità generale, generica; vuole l’esplicazione, l’espressione concreta individuale del suo essere!

Se io voglio godermi una partita di calcio, io non voglio una gioia generale, che va bene anche una passeggiata, che mi dia la stessa quantità di gioia; no, io la passeggiata non la voglio proprio! Voglio godermi una partita di calcio!

Quindi il motore dell’essere umano sono le brame, le aspirazioni, le voglie concrete! Sono frammenti del suo essere che si vuole esprimere!

Quindi diciamo: il bene morale è l’autoespressione di una natura che si è sviluppata in pieno; che è buona, è positiva, per l’individuo e per gli altri.

Se invece la natura umana, l’io umano che si sviluppasse secondo la sua natura, fosse negativo, allora ha fatto uno sbaglio chi ha creato questa natura umana!

Colui che ha costruito l’uomo ha fatto uno sbaglio!

Quindi, o diamo fiducia, siamo coerenti nel dar fiducia all’umano; oppure diciamo: no, l’umano va castrato, va mortificato, questa caccia all’egoistico piacere va abolita, e l’uomo si deve dedicare a ciò che è moralmente bene; per dovere!

Quindi il bene è il dovere!

Quindi: smetti di fare ciò che vuoi e comincia a fare ciò che devi!

Una persona che smette di fare ciò che vuole per cominciare a fare ciò che deve, è uno stupido in assoluto!

Perché ciò che vuole ha un fondamento nel suo essere; ciò che deve è un’esercizio di potere di altri; il dovere è sempre la volontà di altri esseri umani!

Chi ha mai stabilito il dovere?

Sempre uomini!

Conoscete voi un dovere che non sia stato sancito da esseri umani?

Non c’è!

Quindi, io rinuncio alla volontà intrinseca, bella, sana, genuina, del mio essere, per dedicarmi al “bene” che è la volontà di un altro, che vuole strumentalizzarmi per raggiungere gli scopi del suo potere.

E’ da stupidi in assoluto!; tra l’altro è immorale, perché io rinuncio a questa bontà morale, che è quella del mio essere di esplicarsi in tutta la sua positività; rinuncio a questa positività, e mi lascio accalappiare da questa immoralità di farmi asservire a un dovere, che è la volontà di altri su di me, e quindi mi rendo strumento del potere costituito.

Che poi sia la chiesa, o lo stato, a propinarmi questo qui, non cambia nulla!

Disumano è disumano; quindi è immorale!

Ogni morale fondata sul dovere è immorale; perché presuppone che l’essere umano non è capace di volere sinceramente ciò che è moralmente bene, e lo deve… dovere!

Una cosa assurda, proprio assurda in assoluto!

Poi, nella discussione voi siete abituati a ripresentarvi; le cose sono importanti!

Allora, prendiamo un esempio, un esempio concreto – mi pare di averlo scritto una volta su un libro –.

Qui siamo in Europa; andiamo ai tempi in cui c’erano i primi emigranti che andavano in America. Qui c’è l’America (inizia uno schema alla lavagna).

Partono dall’Europa, vanno in America per far fortuna – qui in Italia, insomma, le cose non andavano troppo bene – e sulla nave c’è un carrozziere, poi un bancario e un pizzaiolo. Quindi uno ha esperienza di macchine, di riparazioni auto; il bancario ha esperienza di maneggiare i soldi – ha esperienza, è la sua vita, è il suo essere; quindi questo carrozziere è un “io”; questo bancario è pure un “io” – tutta un’altra pasta di essere umano – e infine il pizzaiolo è un altro “io”.

Adesso arrivano a New York… cosa salta fuori?

Questi tre “io” sono tre calamite; c’è, diciamo, un’infinità di capacità, di percezioni che l’uno, come carrozziere per esempio, ha avuto; lui, siccome vuol trovare fortuna a New York – andiamo indietro di un secolo – vuol ricominciare la vita; lui vede una banca… si ferma di fronte alla banca il carrozziere?

Non la nota neanche!

Va avanti un pochino… là ci sono macchine, c’è una carrozzeria… e perché lui va dentro dove c’è la carrozzeria? E’ una cosa astratta?

No!

E’ una realtà complessissima tutta l’esperienza che lui ha fatto con le macchine! Fa parte di lui!

L’essere umano non è fatto soltanto di un pezzo di materia! Questo è il problema del materialismo!; che noi riduciamo l’uomo a ciò che si vede esteriormente!

Ma siamo matti!

Quindi c’è tutto un mondo di esperienze, di percezioni, di concetti, fatti interagendo con le macchine. Allora lui appena vede una macchina dice: magari avete bisogno di qualcuno che vi aiuti… attacca bottone là dove ci sono macchine.

Passa il bancario accanto a questa carrozzeria… non la nota neanche!

Non gli interessano le macchine, non ne sa nulla di macchine… vede Barclay – il nome di una banca che oggi sta facendo mezzo fallimento; per lo meno ha problemi grossi –; lui va dove ci sono insegne di banche; gli interessa tutto ciò che riguarda il mondo bancario.

Il pizzaiolo?… pizzeria “Da Francesco”… ah, ah, ah!

Mica va dal carrozziere, caso mai gli porta la pizza, mentre aggiusta la macchina!

Voglio dire, ogni io umano è un’infinità di dinamismo evolutivo, in base a ciò che è diventato in questa vita; è un mondo complessissimo; l’io umano è un mondo complessissimo; ora, il valore della vita del pizzaiolo è il modo in cui lui ha a che fare col mondo delle pizze.

Vale di meno del bancario?

No!

Vale di più del bancario?

No!

Gli “io” umani sono tutti infinitamente pieni di valore. Quindi il valore di ogni essere umano è infinito; ugualmente infinito in tutti. Non si può calcolare!

Quindi, il bene morale, il valore della tua vita, è che tu, se sei un bravo pizzaiolo…

oh!, in Germania magari non c’è l’organo di percezione della differenza fra una pizza fatta bene e una pizza fatta male, però in Italia c’è; capito!

Oh, quando io vado da un pizzaiolo che mi dà una pizza che mi resta sullo stomaco per 5 ore, dico: no, da quello lì non ci vado più!

Quindi, essere un bravo pizzaiolo è importante nell’umanità! E ci sono persone che mangiano volentieri la pizza.

Quindi, il valore della mia vita è di essere contento esprimendo questo talento del pizzaiolo; e se sono contento e se sono bravo come pizzaiolo, gli altri mi diranno: eh, continua!, le tue pizze sono così buone!

Perciò la lode, il riconoscimento, è importante! Perché non basta che lui si metta in testa che le pizze che fa lui sono le migliori del mondo, e non le compra nessuno!

Sono le migliori del mondo quando spariscono subito tutte! Allora sì!

Quella è la prova!

Quindi il valore della vita è l’esplicazione sincera della positività e della potenzialità all’infinito, però specifica di ogni essere umano.

E l’altro esempio con le banche… adesso con tutti i problemi che hanno le banche, a voglia!… Un bravo bancario ce ne ha da fare! Se proprio ha il talento di… può tirar fuori un mondo di talento!

Adesso le banche stanno sotto tiro; non soltanto in Italia, in Spagna, in Grecia, ecc., no!

Le carrozzerie… se tu sei un bravo carrozziere è un dono, una capacità, un talento, insindacabile in un’umanità dove le macchine sono importanti – non possiamo più vivere senza macchine – e quindi il bene morale per te, il valore della tua vita, è di essere un bravo carrozziere; più bravo che puoi!

Sì, ma io… oltre a riparare le macchine, a me piacerebbe studiare la Filosofia della Libertà di Steiner…

Quello non è proibito a nessuno!

Se volete, il valore della vita potenzialmente sta aumentando nel senso che: se le ore lavorative a tutt’oggi devono essere, per esempio, otto al giorno per ogni persona, il valore della vita è minore che non nel caso che queste otto ore si riducano a quattro!

Se, per avere un’infrastruttura che permette a tutti di esprimerci al meglio come esseri umani, oggi è necessario che uno lavori 8 ore al giorno… quindi, per creare l’infrastruttura – le macchine appartengono all’infrastruttura, le banche appartengono all’infrastruttura, le pizze appartengono anche all’infrastruttura – abbiamo bisogno, in media, che tutti lavorino 8 ore al giorno.

Adesso noi, dovuto alle macchine, che sempre più cose fanno meglio degli uomini – anche se ci sono forze retrive, forze conservatrici che non vogliono dare i soldi alle persone, ecc., ecc., – ma noi siamo già al punto in cui che, se fossimo razionali nella distribuzione del lavoro e se ci fosse un minimo di gioia, di autorealizzazione nel lavorare, 4 ore al giorno ce n’è che ne avanza!

E più andremo avanti e meno ci sarà bisogno di sbuffare!

Quindi il valore della vita sta aumentando nel senso che il cosidetto tempo libero diventerà sempre più nvx ampio.

Perché il tempo libero, aumentando, aumenta il valore della mia vita?

Perché nel tempo libero io posso fare quello che voglio! E il valore della vita è quando io posso fare quello che voglio; cioè, quello che non devo, ma quello che voglio nel senso che mi corrisponde.

Adesso voi direte: però tu hai detto allora che, le 4 ore al giorno… le devo!…

Prima dicevi che non c’è nulla che io devo!

Allora diciamo, se vogliamo essere puliti: supponiamo che sia necessario che in media – cosa molto complessa – che in media uno lavori 4 ore al giorno; se io capisco che è necessario per dare a tutti la base, l’infrastruttura necessaria, per poi fare ognuno quello che vuole nel tempo libero, se il mio contributo di queste 4 ore è necessario, io non ho bisogno di farlo per dovere; ho la possibilità di volerlo; e resto libero!

Quindi, tutto ciò che veramente si deve fare, proprio perché è necessario farlo, si può trasformarlo in un libero volere!

Ci sono tre sfere della vita – sono spunti di pensiero che sto dando, eh!; ognuno poi ne fa quello che vuole – c’è: il necessario. Ciò che è necessario: è necessario mangiare, per esempio. Ora, nella vita economica… Rudolf Steiner, lo scrittore della Filosofia della Libertà, dice: il sociale ha tre espressioni fondamentali dell’umano; tre attività fondamentali: 1) la vita economica, 2) la vita giuridica, potete usare anche: lo stato, la legislazione, ecc., e 3) in tedesco la chiamano Geistes Leben, la vita spirituale; però questo cattolicesimo ci ha rovinato un po’ il linguaggio perché, se io scrivo qui: vita spirituale, tutti quanti pensano che sia aria fritta! Uno pensa al “padre spirituale”, poveri noi! Allora diciamo: la vita culturale, la cultura, via!

La vita economica è fatta per pensare a ciò che è necessario, nella vita economica ha posto soltanto ciò che è necessario; se qualcosa non è necessario, non ha nulla a che fare con la vita economica.

Quindi le macchine, le auto, fanno parte della vita economica nella misura in cui, per la vita che abbiamo oggi, le macchine sono necessarie!

Fa parte della vita economica di una ditta di avere un gruppo di persone che fanno le pulizie?

Certo!; perché la pulizia è necessaria!

Si può vivere senza far pulizie?

Solo a Napoli, ma non a Milano!

(Rumore del pubblico)

No, a Napoli fanno anche le pulizie, però ci sono i monti di immondizie!

Quindi, la vita economica è l’arte del necessario, di fare ciò che è necessario nella vita. Ciò che è insindacabile, che è necessario come infrastruttura, come servizi di base; quello che volete.

Le banche sono necessarie?

Sì, sì; perché tra ditta e ditta, anche fra individuo e individuo, ci devono essere per forza: se c’è una vita economica sana, ci sono certe ditte, dovute a fattori che esuberano nel profitto – il profitto non è proibito! – se le merci che si producono vengono apprezzate, comprate, c’è un esubero di capitale; e ci sono altre ditte che invece sono un po’ in perdita e hanno bisogno di capitale.

Quindi il senso necessario delle banche è di questo trapasso, di questo scambio, tra il debitore e il creditore. Chi ha capitale in esubero lo porta alla banca, e chi ha bisogno di capitale se lo fa prestare, ecc.

Invece, ciò di cui non c’è bisogno – adesso non mi uccidete subito però, eh! – sono le borse! Le borse non sono necessarie, non ce n’è bisogno; anzi, sono nocive!

Le borse sono sorte, dopo circa un secolo di banche, quando le banche hanno cominciato ad avere troppi soldi, non potevano più usare i soldi nell’economia reale

in modo da prestarli, scambiarli, a chi ne ha bisogno da chi ne ha in esubero, e hanno cominciato a mettere i soldi in borsa... come si dice in italiano?…

PUBBLICO: Giocando in borsa!

ARCHIATI: Il tasso sul tasso! E il tasso sul tasso non è necessario; anzi, è micidiale, è nocivo!

Allora, piccolo riassunto: la vita economica serve per ciò che è necessario; e la vita giuridica?

La vita giuridica serve strettamente, dovrebbe attenersi a ciò che è proibito! Ciò che va proibito; e basta!!!

La vita giuridica, la vita dello stato, lo stato sta creandoci un sacco di problemi, perché lo stato, invece di limitarsi a sancire divieti – i divieti sono necessari, se non vogliamo distruggere la libertà – invece di individuare proibizioni che ci vogliono, lo stato ci dà leggi che ci vogliono costringere a fare qualcosa!

Quindi, quando la vita economica ci mette a disposizione ciò che è necessario, quando la vita giuridica fa sì che ognuno eviti, non faccia, ciò che è proibito, tutto il resto è libero!

Perché: il necessario è necessario, il proibito è proibito… il resto è libero! Ognuno può fare quello che vuole! Basta che non faccia ciò che è proibito e basta che non metta a repentaglio ciò che è necessario!

Per esempio è proibito mandare per aria un ponte, perché allora, mandando per aria un ponte, tu distruggi ciò che è necessario per la vita quotidiana di tante persone.

Adesso, le cose sono molto complesse, ma come orientamento generale, rendiamoci conto: che cosa è necessario nella vita?

Nella misura in cui una persona si gode sempre di più ciò che è libero – se lo gode!, proprio il creare, a tutti i livelli, non soltanto nel campo dell’arte, ma trasformare tutto in arte, tutto in creatività, ecc., – ha bisogno di un minimo, santa pace! Non ha bisogno di fare una vacanza quattro volte all’anno perché è sempre depresso, ecc., ecc.

Altro che depresso! E’ tutto bello realizzato! Dice: voglio soltanto il mangiare che mi serve per star bene, non di più; i soldi di cui ho bisogno per godermi questa espansione del mio essere, e tutto il resto non serve.

Quindi, economicamente ha bisogno dello stretto necessario per godersi il creare. Ciò che è proibito non lo fa… tutto il resto è libertà! E’ pura libertà all’infinito!

E noi abbiamo una società dove le persone, non è che non vivono la libertà, non fanno l’esperienza di libertà, perché è loro proibito; sono talmente impegnate tutte le forze nella vita economica – siccome siamo materialisti – che non esercitiamo abbastanza la bellezza, il godimento, di questa evoluzione dell’anima, dello spirito, della conoscenza, ecc., ecc.; e pensiamo, erroneamente, che si possa accontentare, rendere felice, appagato, l’essere umano, in base a ciò che è materiale.

E allora le persone vogliono mangiare sempre di più, mangiare sempre meglio, avere sempre di più, avere sempre più soldi; e alla fine siamo tutti scontenti!

Quindi l’arte della vita, il godimento vero, è di spostarsi sempre di più sul lato della libertà. Necessario è solo ciò che è necessario. Ciò che è proibito, neanche ci penso; tutto il resto: faccio quello che voglio!

Oggi si diceva: ma una persona che lede la mia libertà in continuazione… e io dicevo: ma quand’è che una persona lede la mia libertà?

Quando uno ha un sacco di cose da fare, da realizzare, in questa libertà creativa – il creare! – lascia fare, anche alla persona che gli è accanto, quello che vuole!

Nel momento in cui io non so cosa fare, l’altro che mi sta accanto mi dà ai nervi!

Ma io non ho il diritto di dire: quello lede la mia libertà! No! E’ perché io non so cosa fare! Quindi non importa nulla cosa l’altro fa: mi dà ai nervi perché io non ho nulla da fare!

Quindi, se io godo la creatività, la persona accanto a me… se sto studiando, se sto leggendo qualcosa, insomma, vabbè, lede la mia libertà se mette la radio a tutto volume! Però, se non c’è altra soluzione prendo il libro e vado nel bosco… ma sono casi estremi! Altrimenti, nella stanza accanto, può fare quello che vuole! Dove lede la mia libertà?

Quindi: si può ledere la libertà soltanto di chi non ce l’ha!

Un paradosso, eh!

Perché se l’altro, accanto a me, veramente prende a piene mani la sua libertà, io non lo posso scalfire più di tanto! Posso fare quello che voglio accanto a lui. Caso mai mi contagia!

Quindi, adesso lo vedremo, man mano che andremo avanti con la lettura – anche se il capitolo è molto lungo – però man mano che andiamo avanti con la lettura vediamo che il valore della vita non è nel corporeo – qui, il necessario nella vita economica è ciò che riguarda il corpo (completa uno schema alla lavagna) – .

La vita giuridica riguarda maggiormente ciò che attiene all’anima.

Corpo e anima sono tutti e due, in fondo, presupposti necessari, ma non sono il valore della vita; sono strumenti necessari per ciò che poi, l’essere umano, sviluppa a livello dello spirito.

E qui siamo troppo… poverini; quello è il problema!

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FIG. 13

Qualcuno diceva: come si fa a far saltar fuori voglie, fame e sete, dello spirito?

Fame e sete di conoscenza, per esempio!

Se uno ha proprio fame e sete di conoscenza, se cerca la verità, la vita comincia ad avere un valore in assoluto perché non c’è limite a ciò che lui può comprendere, a ciò che lui può approfondire… tutta la natura, tutta la scienza naturale, tutta la scienza dello spirito, ecc., ecc.

Ma la domanda era: e se è noiosa tutta questa cosa?

Allora la vita vale un po’ di meno!

Lo vogliamo costringere ad avere voglia?!

Se non ce l’ha…

C’è una soluzione?

Certo che c’è! Certo che c’è! Cercherà per anni e anni, siccome non ha voglia di queste cose così rarefatte, cercherà in questa sfera del corporeo – lì le voglie ce l’ha perché queste gliele dà la natura – .

Se è contento… è contento!

Arrivano i moralisti, i terroristi della morale, e… no, no, no, tu non dovresti essere contento! Non hai il diritto di essere contento se ti riduci al fatto di natura del corpo e se non aspiri alle cose più alte della vita!

Ma quello è contento! Non ha bisogno dei terroristi moraleggianti.

E se la natura umana fosse fatta così: che un individuo può essere contento per tutta l’eternità, va bene così; perché la natura umana è fatta così.

Dovesse essere che la natura umana è fatta in modo tale che tu puoi accontentarti di ciò che è materiale, al massimo per una o due o tre vite… però l’uomo è fatto così che, prima o poi… lo immaginate voi dove c’è questa pazienza, questa tolleranza, di concedere a un essere umano due, tre vite, di essere un bravo, contento materialista?

Se io ho il convincimento che la natura umana è fatta in un modo tale che prima o poi – e son disposto ad aspettare millenni! – prima o poi salta fuori la scontentezza: non gli basta questo!… allora… allora ho la capacità di aspettare anche per millenni; perché so che, prima o poi, non sarà più contento!

Però lo deve dire lui quando comincia a non essere più contento!

Magari ci fossero – non lo escludo – ci fossero qui in sala 2, 3, 4 e mezzo cristiani, può darsi, non si sa mai!; Allora, a questi 2, 4 cristiani e mezzo, gli ricordo che quello che io sto dicendo, lo ha detto, in un modo molto più intelligente, il pensatore universale, il Logos; il quale inventò una storiellina e disse: un padre aveva due figli – il padre era il padreterno, i due figli sono gli esseri umani; il maggiore è l’umanità dei tempi passati; il minore è l’umanità un po’ più giovane, più vicina a noi – il minore ha detto: padre, io sono stufo della tua casa, tu sei qui, nel mondo spirituale… io voglio andare sulla terra a godermi la vita!

E il padre gli ha risposto: vai!, vai!

Gli ha dato la sua parte di eredità e quello è andato, e ha fatto l’esperienza di godere!

Quando ritorna?

Quando vuole lui!

E quand’è che vuole ritornare?

Quando dice a se stesso: peggio di così non mi può andare!

Allora, il padre non è che fa il terrorismo moraleggiante: no, non andar via! Devi tornare! Devi tornare!

La chiesa avrebbe detto: non andar via!, guai se vai via!

Questo padre invece dice: vai!, vai!, vai!… lo sa che prima o poi all’essere umano non gli basta ciò che è materiale.

Adesso sei arrivato al punto che dici: no, no, io adesso ho le tasche piene di questo mondo materiale, non mi basta più!

E allora cerca, liberamente, sinceramente; hai voglia di qualcosa di più!

E se c’è molto da aspettare, non c’è problema; proprio perché qualcuno ci mette più di una vita, il “capo” ha deciso che ognuno deve avere a disposizione parecchie vite. Perché qualcuno ci mette diverse vite a capire che questo qua sotto non basta!

Ma, se lui ci mette diverse vite a capirlo, non sarebbe meglio volerlo costringere, perché il costringere è comunque peggio! E quindi questa saggezza, diciamo, dell’evoluzione, dà ad ogni essere umano il tempo di cui lui ha bisogno.

Attraverso la sofferenza, attraverso l’insoddisfazione, quando cerca di fissarsi solo su ciò che è materiale, su ciò che è corporeo, di sua volontà, di sua libertà, cercherà qualcos’altro.

Però: quando lo cerca, veramente, perché non ne può più!

Ora, di fronte a questa esperienza: no, no, io sono del tutto insoddisfatto, cerco, cerco, cerco; adesso voglio qualcosa di più bello, di meglio… lo fa per dovere?

A questo punto qui vedete che, volergli imporre il cosidetto bene per dovere, è moralmente infinitamente peggiore! Perché non lo vuole, non lo sta ancora cercando.

Quindi, se non lo sta ancora cercando, non fa per lui!

Tra l’altro una delle grosse lezioni che il clero sta passando in questi tempi, uno dei motivi per cui il papa magari è scappato via, è che avevano fatto come se – alcuni, eh; parecchi! – come se loro fossero tutti come tesi verso questo “dovere morale” dell’importanza dello spirito… poi salta fuori che invece, qua sotto, insomma… capito!

Nella vita non si bara! Cioè, l’essere umano cerca qualcosa di più soltanto quando ha le tasche piene di quello che non gli basta più!

Finché gli basta, gli basta! Santa pace!!! E va tutto bene!

Gli basta!

Noi siamo abituati a un terrorismo, a una morale terrorista, che picchia, picchia, picchia; e alla fine uno perde tutte le energie per difendersi da questo terrorismo della morale!

Il valore della vita è di lasciare ognuno in pace; e che ognuno dia, diciamo, fiducia in ciò che c’è in lui: prima si presentano le voglie, i desideri, i bisogni della natura; e poi, prima o poi, è nella natura dell’uomo, che si presenta la sete e la fame di qualcosa di più vasto, di più libero… non dico moralmente migliore!

Il bello di ciò che è spirituale – è una parola brutta “spirituale” perché non dice più di nulla – ma il bello è proprio che è libero! E qui (nel mondo materiale), diciamo, è meno bello perché non è libero! Mangiare, devo! Ma essere creativo non devo! Perciò è più bello, perché sono libero; lo faccio liberamente.

Quindi, prima o poi, all’essere umano non basta ciò che deve; cerca ciò che fa liberamente; dove si può muovere, orientandosi, non secondo un dovere, ma secondo il volere immanente del suo essere, in tutte le direzioni.

E poi, questo orientarsi secondo il proprio essere, è sempre anche uno sperimentare; non è che in partenza io so subito fare!; so che cosa desidero, quali sono le mie voglie, le mie brame, ecc., ecc., ma si tratta anche di sperimentare: provo una cosa, un’altra, ecc., ecc.

Quindi il creare umano è fatto anche di sperimentazione; perché se uno, prima di creare, prima di rischiare, di buttarsi in un processo, vuole le garanzie che vada tutto bene, non farà mai nulla!

Quindi la fiducia nell’umano è anche la fiducia nel provare, sapendo che, mentre io provo, mi accorgo di ciò che va bene, di ciò che va meno bene, e rettifico la traiettoria; altrimenti non c’è fiducia nell’umano.

Allora, qui: paragrafi 27, 28, 29 e 30, leggiamo senza commentare; è di nuovo un riassunto del moralismo – è sempre Hartmann che cerca di dimostrare –.

Il concetto di Hartmann, riassunto per sommi capi, dice: tu sei egoista, dai la caccia al piacere, come ti faccio smettere io di rincorrere il piacere?

Rendendoti il piacere irraggiungibile!

Allora – immaginiamoci che pensata bacata! – la divinità dovrebbe aver creato l’essere umano, averlo imbastito proprio, nella sua natura, che lui, da egoista, cerca il piacere… poi però glielo nega!… Questa uva del piacere (l’uomo) la trova amara perché non riesce a saltare abbastanza in alto da raggiungerla; allora, siccome non la può raggiungere, rinuncia al piacere per dedicarsi al dovere…

Una castrazione più disumana non si può proprio pensare!

E se fosse Dio ad aver avuto questa pensata qui, è un dio del tutto stupido, scusate!

Noi adesso lo leggiamo sulla falsariga dei pensieri di von Hartmann, però se noi – ve lo dicevo già ieri sera – se noi cambiamo un po’ la terminologia, è la stessa matrice della religione tradizionale: è puro cattolicesimo! Tale e quale!

Par. 27 – In modo del tutto particolare il pessimismo di Eduard von Hartmann giunge a dichiarare la vita priva di valore perché in essa prevale il dolore, e ad affermare tuttavia la necessità di viverla. Questa necessità consiste nel fatto che lo scopo del mondo già indicato (v. pag. 175 e seguenti) può essere raggiunto soltanto con il lavoro indefesso e disinteressato dell’uomo. Ma finché gli uomini obbediscono ancora ai loro sentimenti egoistici, non sono idonei a tale lavoro disinteressato.

…di liberare la divinità da questo mondo di materia e di tenebra, per riportare tutto il mondo e la divinità stessa, ad un elemento di luce che è lo spirito puro.

Soltanto quando con l’esperienza e con la ragione si siano convinti che i godimenti della vita agognati dall’egoismo non possono essere conseguiti, essi si dedicano al loro vero compito. In questo modo la convinzione pessimistica che non si può raggiungere il piacere egoistico deve essere la fonte del disinteresse. Una educazione sulla base del pessimismo deve sgominare l’egoismo col mettergli davanti agli occhi la sua inanità.

… la sua fallimentarietà, che non ha possibilità di venir appagato.

Par. 28 – Secondo questa opinione, dunque, l’aspirazione al piacere è originariamente radicata nella natura umana.

… fa parte della natura umana. E quindi soltanto quando snaturiamo l’uomo e gli sradichiamo questa tendenza innata alla felicità, può dedicarsi al dovere!

E soltanto riconoscendo l’impossibilità dell’esaudimento, questa aspirazione abdica in favore di compiti più elevati dell’umanità.

Par. 29 – Della teoria morale che, dal riconoscimento del pessimismo, attende la dedizione a fini non egoistici, non si può dire che essa arrivi a superare l’egoismo nel vero senso della parola.

…L’egoismo dovrebbe venir estirpato in base al fatto che non può venire soddisfatto. Quindi: ti è stata data una natura che tende all’egoismo, però, per natura, tu, questo egoismo non lo puoi appagare, e allora, non potendo conseguire l’appagamento dell’egoismo, lascia da parte l’egoismo e dedicati al tuo dovere morale!

Soltanto quando l’uomo abbia riconosciuto che l’aspirazione egoistica al piacere non può condurre ad alcuna soddisfazione, gli ideali morali possono divenire abbastanza forti per impadronirsi della volontà. L’uomo, il cui egoismo desidera l’uva del piacere, la trova acerba perché non la può cogliere: si allontana allora da essa e si dedica ad una vita disinteressata.

…Più stupidi di così, proprio non si può essere!

Allora, rileggiamo questa frase: L’uomo, il cui egoismo desidera l’uva del piacere, la trova acerba perché non la può cogliere: si allontana allora da essa e si dedica ad una vita disinteressata.

Se una divinità mi avesse messo, per natura, l’aspirazione al soddisfacimento, e avesse fatto in modo che questa aspirazione, che ho nella mia natura al soddisfacimento, non consegue mai la soddisfazione, è un dio che merita di essere sparato! Come minimo! Con pallottole spirituali naturalmente! Che funzionano perché un dio del genere non c’è mai stato.

…si allontana allora da essa e si dedica ad una vita disinteressata Dunque gli ideali morali, secondo il parere dei pessimisti, non sono abbastanza forti da superare l’egoismo, ma stabiliscono il loro dominio sul territorio che il riconoscimento dell’inanità dell’egoismo ha preventivamente reso libero.

Par. 30 – Se gli uomini, secondo la disposizione della loro natura, aspirano al piacere, ma sono nell’impossibilità di conseguirlo, allora l’unica mèta ragionevole sarebbe l’annientamento dell’esistenza e la liberazione per mezzo della non-esistenza. E se si è del parere che il vero portatore del dolore del mondo è Dio, gli uomini dovrebbero prefiggersi il compito di determinare la liberazione di Dio.

Adesso Steiner riporta alcuni pensieri di von Hartmann, dagli stessi tomi di centinaia di pagine!

Dal suicidio del singolo il raggiungimento di questa mèta non viene facilitato, ma anzi pregiudicato. Ragionevolmente, Dio può aver creato gli uomini soltanto perché, mediante le loro azioni, determinino la sua liberazione. Altrimenti la creazione sarebbe priva di scopo. E tale dottrina pensa a mète extraumane. Ognuno deve fare il suo determinato lavoro nell’opera generale di liberazione. Se si sottrae ad esso col suicidio, il lavoro a lui assegnato deve essere fatto da un altro. Un altro deve sopportare il tormento dell’esistenza in sua vece. E siccome in ogni essere risiede Dio, come vero portatore del dolore, così il suicida non ha menomamente diminuito la quantità del dolore divino, ma piuttosto imposto a Dio la nuova difficoltà di creargli un sostituto.

Adesso arriviamo al dunque. Naturalmente, se noi dovessimo entrare nel merito di ogni frase non finiremmo mai.

Par. 31 – Tutto questo ha come presupposto il fatto che il piacere sia la misura del valore della vita.

Allora, finora – qui questo paragrafo è una specie di svolta – ci sono due possibilità fondamentali, (inizia uno schema alla lavagna) diciamo: 1) il desiderio, la brama – metteteci tutte le parole che conoscete – la voglia, ecc., dipendono dalla gioia, dal piacere? Qual è la risposta?

Allora, la domanda si chiede: è il piacere, la quantità di piacere a decidere con quale brama io la cerco?

E’ chiara la domanda?

…No.

Allora (riformula): il fatto che io desideri qualcosa, che io brami qualcosa, che io voglia qualcosa, dipende da quanto piacere mi dà?

La risposta è no! No! No!

Quando io voglio qualcosa, quando io bramo qualcosa, quando io desidero qualcosa, non mi importa nulla di quanta gioia, di quanto piacere, mi dà!

Io voglio una cosa, bramo una cosa, non perché la strumentalizzo per raggiungere una certa quantità di piacere; il motivo per cui voglio qualcosa, è che, in questo volere, in questa brama, c’è un’espreassione del mio essere! Non per raggiungere una certa gioia.

Quindi, diciamo, il metro del desiderio, della voglia, della brama, è il valore del mio essere!

Adesso guardate cosa succede – attenti, eh! – quando io inverto la domanda.

2) Il piacere, la gioia, dipende dalla brama, dalla voglia, dal desiderio?

PUBBLICO: (molti: sì, un po’ meno: no)

ARCHIATI: Allora: anche questa seconda va resa chiara.

La quantità di piacere, la quantità di gioia, dipende o non dipende, dall’intensità della brama, dalla profondità della voglia, dalla forza del desiderio?

La risposta è: !

Quindi, decisiva è la brama! Ciò che decide è la brama! La cosa più importante nella vita è l’intensità con cui io bramo qualcosa che fa parte del mio essere! Per esprimermi, per realizzarmi!

Quindi le mie brame, le mie voglie, i miei desideri, sono frammenti di autorealizzazione; e questi frammenti di autorealizzazione sono il metro di misura di quanta gioia mi salta fuori! Più intensamente io bramo una cosa e più mi dà gioia nel conseguirla.

Quindi, finora l’accento era sul piacere e sulla gioia; adesso l’accento è sulla brama, sul desiderio, sulla voglia. Quindi il valore della tua vita consiste nella somma delle brame, delle voglie, dei desideri, degli intenti, delle potenzialità del tuo essere; e dipende dall’intensità, dalla forza di queste brame, di queste voglie.

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FIG.14

Vediamo l’esempio di avere un figlio; adesso faccio 1) e 2) con l’esempio di avere un figlio.

Una persona – donna o uomo – ha il desiderio di avere un figlio: questo desiderio dipende dalla gioia, dal piacere che il figlio gli dà?

No! E’ chiarissimo che no! Perché uno potrebbe dire: io non vedo nessun piacere, nessuna gioia, e quindi il desiderio non c’è.

Adesso diciamo: il piacere, la gioia che io provo nell’avere un bambino, dipende dall’intensità della brama?

Sììììì! Ma è chiaro!

Quindi, più io bramo qualcosa e più sento gioia nel realizzarla. E le brame sono frammenti intrinseci all’essere. Le mie brame sono frammenti di me. Le mie voglie, i miei desideri, sono frammenti di me che vogliono esprimersi, che vogliono realizzarsi.

Quindi il creare è sempre un autocrearsi! E’ un venire all’essere; un realizzarsi.

E questo creare, questa voglia del creare, questi desideri di creazione, decidono della gioia, della profondità della gioia, della contentezza, dell’appagamento, ecc.

Il piacere della vita aumenta con l’aumentare del numero di brame – a livello corporeo, a livello animico, a livello spirituale –, e non soltanto dal numero di brame, ma dalla loro intensità.

Più brame, più voglie, più desideri tu hai, a tutti i livelli del tuo essere, e più sono forti questi desideri, più sarai capace di sopportare tutte le sofferenze, tutto il dolore possibile; e ti salterà fuori, come somma finale, la gioia, il piacere, la contentezza, l’appagamento.

Quindi l’arte della vita è di sviluppare brame all’infinito. Il valore della vita è di sviluppare brame all’infinito.

E brame, voglie, desideri di cui non si può realizzare nulla, non c’è mai stato! Perché, se fanno parte della mia natura, deve essere possibile realizzarli; magari non tutti in una volta, ma sempre di più di realizzarli.

Par. 31 – Tutto questo ha come presupposto il fatto che il piacere sia la misura del valore della vita.

Invece questo non è vero: il valore della vita dipende dall’intensità della brama, della voglia, dei desideri.

La vita si manifesta attraverso una somma di istinti (bisogni).

E allora, questa seconda frase è come una specie di chiave di volta: la vita – noi stiamo trattando il valore della vita –… cos’è la vita?

La vita è, si manifesta, in una somma di istinti, di bisogni.

Quindi, se uno si chiede: cos’è la mia vita? Qual è il contenuto della mia vita? In che cosa consiste la mia vita?

La mia vita è la somma dei miei bisogni, dei miei istinti, delle mie brame, delle mie voglie, dei miei desideri. Questa è la mia vita.

Quindi la vita si manifesta attraverso una somma di istinti, di bisogni, di brame, di desideri. In tedesco c’è la parola Trieb, istinto; qualcosa che proprio ti spinge.

Anelito! Anche la parola anelito, anche se è un po’ più spirituale… insomma, aneliti, bisogni, istinti, brame, mettetendoli tutti insieme si capisce!

Quindi il contenuto della mia vita è la somma di ciò a cui io aspiro!

E’ anche la somma di ciò che son già diventato… ma la somma di ciò che son già diventato è la base per ciò a cui io aspiro! E ciò a cui io aspiro è la somma dei miei aneliti, dei miei bisogni, dei miei istinti, delle mie brame, delle mie voglie, dei miei desideri.

Se il valore della vita dipendesse dal maggior piacere o dispiacere quindi dalla quantità di piacere o dispiacere che reca, si dovrebbe qualificare come privo di valore un istinto che rechi a chi lo prova un’eccedenza quantitativa di dispiacere. Esaminiamo ora istinto e piacere, per vedere se il primo possa essere misurato per mezzo del secondo.

Allora: istinto – qui, istinto e piacere –. Posso io misurare l’istinto in quanto dipende dal piacere? La forza di un istinto dipende dal piacere che mi riprometto?

No, no, no; dipende dalla sua intensità!

1) ISTINTO dipende dal piacere? NO!

Quindi l’uomo non cerca il piacere, cerca la realizzazione di bisogni di volta in volta concreti, individualizzati. Quindi la categoria di concreto e individualizzato, nella seconda parte di questo capitolo, diventa sempre più importante nel senso che,

nessun essere umano cerca un piacere e una gioia non qualificata; cerca l’espressione di voglie, di brame, di istinti, ben concreti, precisi, individuali!

Quando io vado allo stadio per godermi una partita di calcio, cerco il piacere?

No! No! Non cerco il piacere in generale!

Se io cercassi una quantità di piacere, indipendentemente da questo specifico piacere che è godermi una partita di calcio, allora, se una passeggiata mi dà la stessa quantità di piacere, mi va bene altrettanto di fare la passeggiata anziché andare alla partita di calcio!

Quindi, se uno ha voglia di godersi una partita di calcio, questa brama non cerca il piacere in generale; cerca quel godimento specifico che può dare soltanto il vedere la partita di calcio! Non un piacere astratto!

Quindi l’essere umano cerca sempre godimenti ben specifici e concreti; che corrispondono a una brama.

Lui ha voglia di vedere la partita di calcio; sua moglie, lì accanto, non ha voglia di vedere la partita di calcio… Il marito dice: ma tu, adesso, avresti voglia di fare una passeggiata… dai!, su!, la somma di piacere è più o meno uguale, quindi resta a vedere la partita di calcio!

Eh, se è uguale, vieni tu a fare la passeggiata!

Quindi sono esempi per dimostrare che proprio non è vero, è astratto!… ma non è vero che l’essere umano cerca in generale, quantitativamente, un certo quantitativo di piacere… No! Cerca l’espressione specifica, ben precisa, di voglie che sono in lui; che sono frammenti di lui.

E questo frammento di voglia ce l’ha lui – la voglia di vedere la partita di calcio – e questo frammento di voglia in lei, non c’è!

Per non destare il sospetto di volere far cominciare la vita con la sfera dell’ “aristocrazia dello spirito”, cominciamo con un bisogno “prettamente animale”: la fame.

Uno che ha fame, cosa vuole?

PUBBLICO: Mangiare!

ARCHIATI: No! Non vuole mangiare!

PUBBLICO: Placare la fame!

ARCHIATI: La sazietà vuole!

Se potesse vivere, biologicamente, la sazietà anche senza mangiare, sarebbe contento perché evita di spendere soldi per mangiare: quindi ciò che vuole è la sazietà.

PUBBLICO: Vuole anche il piacere: mangiare è anche piacere.

ARCHIATI: Allora è una voglia diversa! E’ una voglia diversa, non intrinseca alla fame! Certo che c’è anche questa; adesso ne parla Steiner.

Ma, se uno si serve della fame e usa la fame per gustare – da buongustaio – cibi prelibati, allora non vuole soltanto la sazietà, vuole, oltre alla sazietà, che magari per lui è meno importante, vuole il piacere gustativo!

Allora sono due voglie diverse! Vanno distinte, se no… E distinguendo ci rendiamo conto che la voglia, di volta in volta, è sempre concreta, specifica.

Perché se noi, la voglia, la brama, non la rendiamo concreta, andiamo a questa generalizzazione come se l’essere umano cercasse in tutte le cose una gioia non qualificata; non è vero!

Se uno, da buongustaio, vuole questo solletichino del palato, è una voglia ben specifica, che non ha nulla a che fare con la sazietà. Tant’è vero che c’erano dei romani che avevano spostato il mangiare talmente su questo solletichino – lo chiamo così: mi mancano le parole in italiano – che vomitavano 3, 4, 5 volte per continuare a godere il piacere del palato. Quindi non è che volessero in primo piano la sazietà. Volevano il piacere: una voglia diversa!

Basta così per oggi.

Facciamo adesso una pausa.

***

ARCHIATI: Allora, chi vorrebbe dire qualcosa?

Non mi dite che abbiamo risolto tutti i problemi di questo mondo!

INTERV. 1: Io vorrei una specifica su un tema che mi interessa in qualità di genitore. Io sono di fronte a mio figlio, e mio figlio decide fare delle esperienze…adesso, mettiamo un ragazzo di vent’anni, e questo ragazzo decide di fare delle esperienze autolesive; per esempio decide di fare uso smodato di stupefacenti.

Lo lascio sperimentare perché nella sua vita deve provare, anche fisicamente un po’ di tutto, o in quel momento, in qualità di madre, posso sbilanciarmi in un tentativo, per quanto sia, di ingerenza…

ARCHIATI: Si è capita la domanda?

PUBBLICO: Sì! Anche troppo!

ARCHIATI: E’ una domanda che mi poneva una persona prima di ricominciare.

Prendiamolo a 21 anni, via! Perché a 20 anni non è pulita la cosa.

Prendiamo l’essere umano al punto in cui noi, come adulti, abbiamo stabilito per legge che la responsabilità dei genitori, nei confronti dei figli, termina.

PUBBLICO: Adesso è a 18 anni.

ARCHIATI: Adesso non importa; è per star sicuri. Supponiamo che noi abbiamo un accordo di legge – le leggi sono accordi, di maggioranza, naturalmente – supponiamo che abbiamo una legge… prima di tutto siamo d’accordo che l’essere umano ha il diritto di arrivare a un punto dove ha il diritto di gestirsi lui, e nessuno ha il diritto gestirlo dal di fuori! …O non ha questo diritto?

L’essere umano ha il diritto, quando ne diventa capace, di gestirsi da sé, e quindi di respingere ogni gestione dal di fuori.

Tutto il dibattito sta nel fatto che l’uno dice: la persona oggi è autonoma a 18 anni, l’altro dice: no, a 19; no, a 20; prendiamo adesso: a 21 anni.

Comunque supponiamo di avere un accordo, nella nostra giurisdizione, perché la legge ci vuole – una convivenza sociale senza un minimo di leggi non è possibile – quindi noi abbiamo stabilito che ogni essere umano, quando arriva a 21 anni, è responsabile delle proprie azioni. E nessun altro è responsabile di ciò che lui fa.

PAOLO: Responsabile no, però gli voglio bene lo stesso!

ARCHIATI: Affari tuoi!

PAOLO: Sono affari miei, però sono anche affari…

ARCHIATI: Caro papà, io sono tuo figlio 21 enne…

PAOLO: Io faccio la parte del diavolo.

ARCHIATI: Sì, certo! Anch’io faccio la parte del diavolo! Io sono tuo figlio 21enne e ti dico: caro papà è una gran bella cosa che tu continui a volermi bene! Affari tuoi! Però io voglio fare i cavoli miei!

E tu continua a volermi bene!

E quello che io voglio fare non ti riguarda!

PAOLO: Eh, non è vero!

ARCHIATI: Certo che è vero! Voler bene non è il diritto a gestire l’altro!

PAOLO: Però neanche a far finta che non vedo!

ARCHIATI: Ma di questo non si sta parlando! A me non importa niente se tu vedi o non vedi; se mi vuoi bene o non mi vuoi bene! Voglio essere autonomo!

PAOLO: Eh, ma io non sono arrivato al punto che dice…

ARCHIATI: Problemi tuoi, se non ci sei ancora arrivato!

PAOLO: Ma tu non sei convinto di questo!

ARCHIATI: Affari tuoi!

PAOLO: Ma anche tuoi!

ARCHIATI: No! no! No! Quando io compio i 21 anni, tu, caro papà, non hai più voce in capitolo! Punto e basta!

PAOLO: Ma anche se non fossi mio figlio… sei un amico! Hai a che fare col mio karma! Siamo amici! Ti voglio bene e fai una cosa che io proprio… considero che non mi va giù… Ma non mi va giù perché ti voglio bene, non perché fai qualcosa contro di me.

ARCHIATI: Ma tu hai il diritto che non ti vada giù, ma è un problema tuo!

PAOLO: Eh, ma il karma ci ha legato, tu non puoi fare una cosa davanti a me e pretendere che io faccia finta di non vedere! …Eh no, la vedo e agisco anche!

ARCHIATI: Quando io prendo la droga desidero proprio sinceramente che tu non ci sia!

PAOLO: Se la prendi di nascosto! Ma se io lo so, come faccio a non saperlo!

ARCHIATI: Ma io non l’ho fatto davanti a te!

PAOLO: Eh, non lo so!

ARCHIATI: Tu vuoi continuare a fare il mio papà!

PAOLO: No, io vedo una cosa che ha a che fare con me!

ARCHIATI: E mi costringi, invece di andar via, di conquistarmi la mia autonomia,

mi costringi a farlo dandoti un calcio nel sedere; è meglio?

Faccio anch’io la parte del diavolo, eh!

Tu mi stai costringendo, come tuo figlio, a darti un calcio nel sedere!

PAOLO: Eh, però il calcio nel sedere anch’io te lo vorrei dare perché vedo…

ARCHIATI: No! E’ questo il problema! Perché guarda che il mio calcio nel sedere è un controcalcio!

PAOLO: Eh, lo so; però non possiamo far finta che io non vedo una cosa, e ho 60 anni, per cui dico: eh, ragazzo mio, qualcun altro l’ho già visto vent’anni fa cosa gli è successo…

ARCHIATI: Paolo, tu sei il mio papà e io sono tuo figlio 21enne, e io ti dico: mi pare di conoscerti, sei mio papà!, mi pare che tu hai sentito parlare di cristianesimo, sai chi è Giuda…

PAOLO: Eh, ma io non sono già arrivato fino lì; io non son capace di dire: quello che fai fallo velocemente! Non son capace!

ARCHIATI: E allora è un problema tuo!

PAOLO: Eh, certo! E basta! Non è coì facile…

ARCHIATI: Chi ha detto che è facile! Ma nessuno ha detto che è facile!

PAOLO: No, secondo me la domanda è un po’ diversa: siamo sicuri che io non ho più niente a che fare col tuo karma anche se tu hai ventun anni?

ARCHIATI: Ma io non sto dicendo questo!

PAOLO: Io ho a che fare con qualcosa che mi muove… per muovere a te qualcosa… la mia fantasia morale mi fa venir voglia… non voglio obbligarti, ma…

ARCHIATI: No! tutto quello che stai dicendo è, dall’inizio alla fine, un ricatto morale! Ma proprio un purissimo ricatto morale! Per quanto mi riguarda: tu mi vorresti ricattare moralmente, in base ai patemi d’animo che hai te! Tieniteli, scusa!

Allora io dovrei rinunciare alla mia libertà di autogestione, di decidere della mia vita in base a quello che tu vuoi?

E’ assurdo, scusa!

Ho già le tasche piene dei 21 anni dove mi son dovuto orientare secondo la tua volontà; ne ho che mi avanza, adesso però basta!

INTERV. 2: Posso dire una cosa? Lei non ha mai pensato al danno che può derivare a questa famiglia dal comportamento di questo figlio? Che può avere anche 25 anni!

Lei non sa che questo comportamento danneggia la famiglia? E il giudice obbliga il genitore al mantenimento di un figlio del genere?

No, lei non considera il danno che deriva da questo comportamento! Vorrei che si esprimesse su questo punto.

ARCHIATI: Ma è chiarissimo che lo considero…

INTERV. 2: Però non ne parla mai! Lei parla solo della libertà di espressione di questo figlio che ha 21 anni, ma non parla delle ripercussioni che ha sugli altri; in primis sui genitori!

ARCHIATI: Allora io ti dico: se io, come papà, terrorista come è, ottengo che lui, perché costretto da me che sono il padre, prende in considerazione me e va contro la sua volontà, i danni saranno molto più gravi, molto peggiori! E a questo tu non hai pensato!

INTERV. 2: Ma suo figlio si droga! Vedo già il danno che si arreca di per sé!

ARCHIATI: E io ti dico che il danno di una libertà che viene lesa è molto maggiore! Solo che noi non abbiamo l’organo per percepirlo questo danno, perché non è materiale! Perché viene vissuto dalla libertà!

INTERV. 2: Comunque le statistiche dicono che queste famiglie vanno completamente in rovina. Quindi a me sta più a cuore il destino della famiglia, che di questo essere qua che vuole sperimentare la sua libertà in questo modo.

Io farei questo discorso: figlio, tu sperimenta tutta la libertà che vuoi, ma non a danno degli altri! Allora questo discorso mi va bene! Questo discorso mi va bene in assoluto! Perché io sono per la libertà assoluta dell’essere, ma non a danno del prossimo! E’ questo il discorso che io vorrei sentire!

(discussione animata in sala).

ARCHIATI: Calma! Calma!

INTERV. 3: Faccio la domanda estrema a questo punto: se io ho mio figlio che si sta buttando giù dal balcone, si vuol suicidare, insomma; cosa faccio: non intervengo perché ledo la sua libertà?

ARCHIATI: Se io fossi stato in grado – adesso io sono tu – di offrirgli un altro tipo di karma, altre forze karmiche, non ci sarebbe in lui questo vuoto per cui lui si butta giù. Però non gliele ho date queste forze, per quanto mi riguarda. E adesso il vuoto c’è!

Giuda sta per togliersi la vita, e il Cristo lo sa! Cosa fa il Cristo per dirgli: Giuda non farlo! Danneggi te, la tua famiglia, i tuoi figli, ecc., ecc.

Non fa nulla il Cristo! Nulla! Perché ledere la libertà è comunque molto più grave che non qualsiasi tipo di danno, diciamo, materiale; perché è un danno morale!

Quindi, sulla libertà, o non si bara, o andiamo tutti nell’abisso!

Quindi noi viviamo di un’atavica paura della libertà!

Io dicevo a questa signora, dov’è?… Lo vuol dire lei?

SIG.RA: No, non riesco a ripeterlo bene come l’hai detto tu, scusa! Ne parlavo con la mia mia amica. .. quello che dici tu, dillo tu!

MAURIZIO: Questa è una mia convinzione: la paura della libertà ci porta a una grandissima contraddizione, e questa contraddizione qua arriva al punto di fare ciò che non si vuole e di non fare quello che si vuole. E io ne farei una teoria.

ARCHIATI: Allora, va molto bene con quello che volevo dire: si riferisce direttamente al quesito di partenza che avevi proposto tu (Interv. 1).

E dicevo a questa signora: adesso sono io il papà e stiamo parlando di questo figlio che ha 21 anni. Se c’è un tipo di karma, un tipo di forze karmiche, in cui un essere umano si tuffa dentro quando nasce… diciamo: la costituzione morale del padre, la costituzione morale della madre, delle persone circostanti, è tale – e questo tipo di karma c’era, nel passato, molto più spesso, e oggi diventa sempre più raro; però c’è un tipo di karma – e per quanto mi riguarda io devo essermi tuffato in questo tipo di karma – dove la costellazione delle forze karmiche di cui fa parte anche la costituzione morale del padre, non rende possibile l’appetito, la voglia, delle droghe; proprio non nasce!

E’ un tipo di karma in cui questo 21enne si è tuffato e non ha proprio voglia di droghe, di allucinogeni, come dicevi tu.

Poi c’è un altro tipo di karma… però non si può dar la colpa al padre, o alla madre, o a lui; è una costellazione di influssi reciproci, di un’osmosi di forze, che sono in opera da secoli e da millenni; da diverse vite.

C’è un tipo di forze karmiche dove questa assolutezza, che esclude questo rovinare per tutta una vita il corpo fisico, non c’è. Mancando queste forze, gli viene voglia a 21 anni di prendere la droga!

Che cosa vuoi fare? E’ da bambini pensare all’improvviso di volere cambiare una costellazione di forze karmiche che si è costruita nel corso di secoli e millenni.

Allora, a questo punto qui, diciamo, il realismo morale ci dice: se vogliamo, per la generazione successiva, fra 100 anni, fra 200 anni, se vogliamo che ritornino ad essere molto numerose le costellazioni karmiche dove, all’individuo che si tuffa dentro, è escluso che possano sorgere questo tipo di voglie, allora cominciamo adesso a lavorare di sodo, e diventeranno sempre più numerose.

Però se un ragazzo, o una ragazza, si è tuffato in una costellazione karmica, di forze karmiche ben precise, che hanno delle carenze morali tali, che la voglia di rovinarsi il corpo salta fuori, questo c’è; non lo puoi cancellare perché a te crea un patema d’animo di padre, scusa! E’ un pensare da bambini, proprio illusorio.

Allora diciamo, la scienza dello spirito crea, anche in fatto di morale, un salto qualitativo, perché in base alle conoscenze della reicarnazione e del karma crea i presupposti perché, ciò che prima ci dava la natura che escludeva certe vie, diciamo, nell’abisso, adesso, questo escludere queste vie dell’abisso, noi ce lo conquistiamo per libertà. Ma non dall’oggi al domani, scusa!

E se tu hai un figlio di quel tipo lì devi dirti: l’ho costruito anch’io così com’è!

E allora! E allora!

PUBBLICO: Vale anche per la violenza sessuale!

ARCHIATI: Vale per la violenza sessuale; vale per tutte le cose, per tutti gli abissi dell’umano! Perciò lo spessore morale di questa scienza dello spirito proprio non si può esagerare; è un passo in avanti in assoluto. Perché se noi continuiamo a moraleggiare… perché quello che tu facevi è un terrorismo moralistico!

PAOLO: Non perché mi riguardasse personalmente…

ARCHIATI: Ma certo, ma è chiaro!

PAOLO: Ma perché è un discorso che salta sempre fuori; come se tu dal di fuori vedi una situazione… però effettivamente quello che tu dici è vero, tant’è vero che è molto difficile che si cambi se non c’è qualche forza dal di fuori…

ARCHIATI: Non soltanto: se tu cerchi di ledere la volontà del 21enne, sarà molto peggio!

PAOLO: Perdi ancora di più spesso, sì.

ARCHIATI: E questo conto non lo faceva il signorino là, a destra (Interv. 2). Di quello che salta fuori se tu cerchi, col tuo terrorismo morale, di… no, no, no, noo!

Lui lo farà e lo farà molto peggio! Lo farà dando calci e pugni, e se tu non avessi moraleggiato lo farebbe senza calci e pugni! Quindi il danno è molto maggiore quando si lede la libertà; perché quando si lede la libertà l’uomo se la prende – ne ha tutti i diritti – ma se la prende, è costretto a prendersela, dando calci e pugni!

E quelli sono problemi in più che si possono evitare.

INTERV. 4: Io volevo chiedere questa cosa qua: tenendo conto di un figlio minorenne, due genitori che non possono andare più d’accordo, esiste il fatto che un genitore intervenga nella vita famigliare con delle menzogne, dove finisce la sua libertà e il mio intervento nella tutela dei figli, sapendo che, probabilmente, al suo comportamento avrò contribuito anch’io, in vite passate?

Cioè, dove finisce la mia responsabilità?

ARCHIATI: Il problema che tu ci dai è molto astratto, non sei diventata concreta più di tanto; però prendiamo il fatto di dire una menzogna: il fatto di dire una menzogna è per natura lesivo della libertà altrui; perché io, dandogli un’informazione sbagliata gli scalzo quel tipo di informazione che dovrebbe avere per orientarsi nel suo agire. Però, ci sono delle azioni che ledono la libertà nel privato e quindi non sono proibibili!

Si può proibire di dire una menzogna?

INTERV. 4: No, certo! Ma nei confronti del minorenne che subisce questa menzogna!

ARCHIATI: Ma se l’adulto è capace di dire una menzogna, è capace di dirla sia di fronte al minorenne, sia di fronte all’adulto.

INTERV. 4: Ma l’adulto si arrangia, ma l’altro genitore come deve tutelare…

ARCHIATI: Devi diventare più concreta, se no non sappiamo di cosa stai parlando.

INTERV. 4: Il padre che racconta i fatti suoi al figlio, mentendo su determinati suoi comportamenti. Il figlio sgama il padre, e la madre come agisce in questa cosa qua?

ARCHIATI: A seconda di quello che gli suggerisce la sua fantasia morale.

INTERV. 4: Sì, però il problema, il mio problema, è quello di non ledere poi anche la libertà dell’altro, nonostante la menzogna.

ARCHIATI: Il concetto di ledere la libertà dell’altro… noi, quando si tratta della libertà altrui siamo massimalisti, quando si tratta della mia libertà ognuno è minimalista. Essere umani, proprio il fatto di esistere, significa dall’inizio alla fine costringere gli altri a un sacco di cose; per il fatto che ci sono! Io sto ledendo la libertà di tutti voi di stare in piedi qui, in questo punto, dove sono io!

Un bambino piccolo lede la libertà dalla mattina alla sera! Se noi prendiamo il concetto di ledere la libertà da questo punto di vista massimalista, non serve a nulla! Non serve proprio a nulla!

Che cosa lede la libertà?

Una libertà forte non è ledibile! Uno che sa il fatto suo, lo fa dappertutto! Se non lo può fare lì, lo dicevo oggi, va 10 metri più in là! Io devo dirvi sinceramente – bisognerebbe diventare un po’ più concreti, se no… – non ho mai trovato nessuno, ma proprio nessuno, e non sono nato ieri, non ho mai trovato nessuno che abbia leso minimamente la mia libertà! Mai, mai, mai!

Voi pensate che la chiesa cattolica ci abbia provato?

Son scappato così alla svelta che non ce l’ha fatta proprio!

Io non ho mai fatto l’esperienza, ma ve lo dico sinceramente, di qualcuno dove io abbia avuto il sentore: quello sta ledendo la mia libertà. Mai, mai!

Ognuno mi stava bene, sempre, così com’è! Affari suoi.

Come lui: mi vuol chiedere qualcosa? Gli dico quello che so, quello che non so, faccio le mie considerazioni, ecc., ecc., mi vuol mandare all’altro mondo? Son felice, ho abbastanza da fare!

MAURIZIO: Qualcuno c’è, forse per scherzo hai leso la sua libertà.

ARCHIATI: Stai cavillando, dai!

MAURIZIO: E quindi sei perfetto, hai fatto tutte le cose che hai voluto…

ARCHIATI: No! ma non c’entra nulla col perfetto: ho le gambe buone!

MAURIZIO: C’è una contraddizione dentro ognuno di noi, no? E quella non è libertà!

ARCHIATI: Ma certo! Libertà è godersi questa contraddizione; di gestirla in un modo…

MAURIZIO: O scappare, come dici; prendere le distanze.

ARCHIATI: Per esempio, per esempio! Ma non dirò mai: quello sta ledendo la mia libertà! A che mi serve?

MAURIZIO: Ah, perché è sempre se stesso, quindi è la stessa cosa! Cioè il valore della vita… è anche in questo il valore della vita! Dopo che abbiamo parlato di positivi, di negativi, c’è anche questa persona che con se stesso trova le contraddizioni, no?

ARCHIATI: Le contraddizioni ce le ha ognuno, non è di questo che stiamo parlando; stiamo parlando del fatto che, questo figlio – diceva lui, lì a destra (Interv. 2) – che si comporta così e così, lede la libertà altrui.

MAURIZIO: Sì, però questo figlio ha una contraddizione pure lui: fa una cosa e poi ne decide un’altra; e così anche il padre: è un continuo contraddirsi! E difficile forse a spiegarsi. E però se uno dà un calcio a un altro significa che comunque c’è una contraddizione; c’è qualcosa che non fila liscio, e questo senso che non fila liscio significa che ci sono due forze che si contrastano fra di loro; che possono essere tra due individui oppure tra due comportamenti di un individuo, in una educazione, con un genitore e un figlio. Lui l’ha chiamato karma, che questo karma ha portato a questa discontinuità; una cosa che non ha funzionato bene, no?

INTERV. 5: Ma è sempre sul problema del 21enne. Mi sembra che si possa tentare, almeno in certi casi, senza in nessun modo voler limitare la libertà di questo uomo, si può tentare un approccio diverso, almeno se i rapporti tra padre e figlio sono tali da consentire quello che sto per dire: cioè un rapporto paritario a livello del pensiero, del ragionamento.

Cioè, far presente, a livello intellettuale, quindi libero, cosa succede.

Forse lui non sa esattamente quali sono le conseguenze!

No, perché dal discorso che si è fatto, io avuto un po’ l’impressione di impotenza totale… bisogna lasciarlo fare… ma qualche tentativo…

ARCHIATI: No, sta attento: noi stiamo presupponendo che tutta questa opera di convincimento, di tentativo, sia già tutta stata fatta!

E’ chiaro, no! Il Padre, prima di picchiare, ci va con le buone; mica è stupido!

E’ già stato detto e fatto tutto! E il figlio dice: non me ne frega niente!

Allora, a quel punto, che fai?

INTERV. 5: A quel punto d’accordo!

ARCHIATI: D’accordo cosa? Dì: che cosa?

INTERV. 5: Eh, lo lasci fare!

ARCHIATI: Lei (Interv. 1) diceva: gli permetto di fare – mi pare che avesse usato questa dicitura – lui (Interv. 5) dice: lo lascio fare.

Questo dire: lo lascio fare, gli permetto di fare, è un paternalismo intollerabile!

Tu non hai il diritto di lasciar fare a nessuno!

Tu sei colui che gli dà il permesso?

Io lo faccio senza il tuo permesso!

INTERV. 5: No, no, in italiano “lasciar fare” vuol dire, che so, disinteressarsi della cosa…

ARCHIATI: No! E’ quello il problema! E’ quello il problema!

La parola “lasciare” è paternalistica!

La cosa n o n m i r i g u a r d a!!!

Quindi non ho né da lasciare, né da non lasciare: non mi riguarda!

Se io lascio, sto dando il permesso!, sto dando il permesso! Questo è terribile!

Allora il figlio è costretto a dare un calcio nel sedere a questo padre che gli dà il permesso!

Mi lascia!!! Mamma, mi lasci?…

Sì, ti lascio!

Finché ho 10 anni va bene! Ma a 21?… Non chiedo permessi!

Viviamo proprio di paternalismi!

Tu adesso hai 21 anni: quello che fai, non mi riguarda!

Io ho il diritto di soffrire percependo quello che tu fai, ed è una cosa che non ti riguarda! Perché nel momento in cui te lo dico, senza che tu me lo chieda, ti ricatto! Quindi io ho tutto il diritto di passare le pene dell’inferno, osservando quello che mio figlio fa; ma a lui non lo riguarda, perché se lo riguardasse non sarebbe libero!

INTERV. 6: Ma rispetto a quello che diceva prima lei, qual è la ragione che porta il ragazzo a tuffarsi in una costellazione karmica che lo porterà poi, ad esempio, a far uso di droghe, o ad essere maltrattato, o essere abusato, ecc.?

ARCHIATI: Perché ci è stato dentro, e gli appartiene; da millenni! In un’altra costellazione karmica sarebbe del tutto disorientato perché non è la sua.

E la scienza dello spirito ci dice che un essere umano partecipa alle forze di ereditarietà per dei secoli: 35 generazioni prima di nascere!

PUBBLICO: Allora l’uomo è costretto, non è libero!

ARCHIATI: Non è costretto! E’ l’unica che gli appartiene!

Quando io dico: questo è il mio corpo, nessun altro corpo è il mio corpo; sto dicendo che sono costretto a vivere in questo corpo?

No! E’ l’unico che è mio!

Quindi, queste forze ereditarie sono le uniche che sono sue perché le ha costruite anche lui insieme agli altri. Le altre non gli appartengono; ma questa non è una costrizione.

Tutti i problemi non risolti oggi, anche quelli di Maurizio, li risolviamo tutti domani: buonanotte!

Domenica 17 febbraio 2013, mattina

(Letizia fa il punto sulla situazione economica del presente seminario e conferma il prossimo che si terrà, sempre a Milano nella attuale sede della scuola di via Clericetti. Annuncia il prossimo convegno a Roma, 3/5 maggio, sul tema della salute, e quello di novembre – data da concordare –, a Milano, sul tema dell’anima.)

ARCHIATI: Una buona giornata a tutti! Avete visto che stiamo spostando, in Italia, il potere reale da Roma a Milano! Io, a dirvi la verità dicevo: voglio vedere se a Milano arrivano 5 persone, o 55! Adesso poi, avevo il problemino che mi avete acchiappato giusto al XIII° capitolo, dove in chiave di eccezione c’è un sacco di Eduard von Hartmann, ecc., e io dicevo: chissà, dopo la prima seduta sparirà un sacco di gente! Invece avete tenuto buono!

Allora io dicevo: ma, se adesso con tutte le persone che sono venute – una cosa bella, no! – noi, il prossimo seminario lo facciamo a Roma… insomma, per molti di voi…. quanti di voi non verrebbero a Roma?

Eh, i romani… i pochi romani che sono qua… Allora io dicevo: non è utile fare un seminario a Roma, e quelli del Nord non vengono; poi lo facciamo al Nord e quelli di Roma vengono saltuariamente… insomma, se ci sono tante persone interessate facciamolo qui al Nord…

(Molti applausi).

La seconda cosa che volevo dirvi è questa: finché c’è interesse e finché io campo – non si sa mai, eh! io ho la brama di vivere 130 anni, ma… le brame non sono sempre quelle giuste! – dopo la Filosofia della Libertà, adesso, se ci troviamo a Milano, non ho il patema di dover finire il XIII° capitolo!

Quindi, stamattina ci diamo un pochino più di tempo, anche per tirare le somme di certi discorsi.

Dicevo: se c’è voglia, sopratutto al Nord, ma in tutta Italia, se ci fosse questa forza, questa brama dell’anima verso lo spirito, io – però soltanto se lo volete, eh! –, se c’è un numero sufficiente di persone, ricomincerei volentieri il testo che è in assoluto quello più fecondo per il cammino interiore; ed è la Filosofia della Libertà…

(Applausi)

Ve lo dico all’inizio perché ci pensate, ne parlate fra di voi, poi, alla fine prima di andar via, casomai ci orientiamo: non è adesso che dobbiamo deciderlo.

Se qualcuno crede che io mi ripeta, perché ho già fatto la Filosofia della Libertà, si sbaglia di grosso! Le riflessioni da fare su questo testo fondamentale del pensiero sono all’infinito! E chi l’ha già fatto potrebbe godere di più la seconda volta, più di chi non l’ha fatto la prima volta! Perché c’è già un fondamento.

Quindi, questo intendevo dirvi da parte mia.

La “Teosofia” (il testo futuro proposto a Roma) è un pochino di più per gli addetti ai lavori; si comincia ad arrampicarsi un po’ sugli specchi: l’anima senziente, l’anima razionale, l’anima cosciente… tutti termini fasulli in italiano, scusate!

L’anima cosciente… ma allora c’è l’anima incosciente!

Poi: l’anima senziente… non voglio offendere gli antroposofi qui in sala, eh!, spero che ci siano, benvenuti anche loro… Ma, “senziente” non è italiano, scusate!

Ve lo deve venir a dire un tedesco che non è italiano!

Senziente… Empfindung, in tedesco… ma: sensitiva!

Andrebbe studiato Rosmini! Rosmini è quello che ha espanso il vocabolario italiano in senso filosofico in tutte le direzioni.

Sensitivo c’è in italiano, ma non c’è la parola “senziente”; capito! Soltanto per dirvi un esempio. Quindi, se voi volete fare, se la maggioranza vuol far la Teosofia, lo faccio volentieri – io sono qui per voi – …

PUBBLICO: (Applausi).

ARCHIATI: Allora si fa presto: io metto ai voti due cose, però non è permesso di barare e alzare la mano due volte! D’accordo! Quindi, le due possibilità sono: quando è finita questa Filosofia della Libertà, ricominciare con la Filosofia della Libertà; e l’altra è la Teosofia.

(Si procede e risulta una maggioranza assoluta per la Filosofia della Libertà).

PUBBLICO: Mandiamo tutti a Roma e facciamo la Filosofia della Libertà a Milano!

ARCHIATI: Cosa facciamo con questi romani?… Li rimandiamo a Roma!

Ma abbiamo fatto un sacco di anni soltanto a Roma, e questi poveri del Nord!…

Allora: signore e signori, finita la Filosofia della Libertà ricominciamo con la Filosofia della Libertà qui a Milano, e se questa sala non bastasse – cosa che mi auguro – ne pigliamo una più grande, eh! Se c’è un sacco di gente ci sarà un sacco di soldi – spero! – per pagare quello che c’è da pagare.

Allora, finiamo il discorso: eravamo al paragrafo 31 – lo ripetiamo –; adesso mettiamo un po’ da parte Eduard von Hartmann e veniamo al sodo.

Par. 31 – Tutto questo ha come presupposto il fatto che il piacere sia la misura del valore della vita.

E dicevamo – è una provocazione al pensare – : il piacere, la gioia, la felicità, ecc., non è possibile renderli oggetto della volontà; nessuno può volere la felicità, perché se uno vuole la felicità non vuole nulla! La felicità è un concetto il cui contenuto è così astratto, stratosferico, che se io voglio essere felice non voglio nulla!

Quindi le persone che cercano la felicità sono le persone che non sanno cosa vogliono!
Allora, Steiner parte subito dall’esempio della fame – arriva nel paragrafo successivo –: uno che è affamato cerca la felicità?

Una baggianata! Non cerca la felicità.

Uno che è affamato cerca la gioia del mangiare?

Tra l’altro vedete che ho dovuto subito aggiungere “del mangiare”, se no che gioia è! Quindi va specificata!

E’ la gioia del mangiare?

PUBBLICO: La sazietà!

ARCHIATI: Oh!, non vi viene in mente la parola al posto della “gioia del mangiare”?

Il gusto!!!

Capito! Voglio gustare! Io non è che gioisco della bistecca – in ambiente antroposofico è proibito parlare di bistecche, fatemi pigliare: gli spaghetti! – .

Ci ho gusto; sento il gusto!

Quindi, se si parte dal presupposto che l’essere umano cerca il piacere, la felicità, la gioia, è sbagliato! Non è vero! E’ fuori strada! E’ una persona che non ha percepito, non ha esercitato, l’attenzione all’umano; e si fa delle teorie.

Allora von Hartmann vuole estirpare la sete di piacere, la caccia alla felicità, la caccia alla gioia, per dire: tu sei egoista!, quindi segui soltanto il piacere, la felicità e la gioia; smetti!, perché la felicità, la gioia, non è conseguibile; e dedicati al tuo dovere morale, che è quello di aiutare il povero Dio a liberarsi dal mondo che ha fatto così bruttino, per cui la soluzione sarebbe quella di una bomba che sbatta via la terra dal cosmo!…E tutto è finito!

Roba da matti!

Allora il concetto è: per l’essere umano, l’oggetto della brama, del desiderio, della concupiscenza – quello che volete –, l’oggetto è sempre concreto e individuale.

Ci metto queste due parole: saranno al centro delle nostre riflessioni questa mattina: concreto e individuale.

Una persona dice: adesso sono stato qui a Milano un fine settimana, non voglio andar via senza salutare quella persona lì! Qual è l’oggetto della brama? E’ la gioia, è il piacere? E’ la felicità in generale?

No!

E’ quello che io sento, o so, o presagisco di vivere interiormente, dando la mano, o abbracciando quella persona lì!

Se vado via senza dare un bacino al relatore, il fine settimana non valeva nulla!

Ma non lo vedi che è vecchio, ha una pelata, ecc.!

No! Vuol dare il bacino al relatore! Eh, se no, non valeva nulla!

Ma sono cose reali! L’umano lo si vive in questa minuziosità concreta, individuale! E, se ci fosse questa persona che non riesce a dare il bacino a quell’altra persona, va via scontento! Perché questo desiderio… supponiamo che questo desiderio corrisponda veramente, abbia alla base, un rapporto karmico, ecc., ecc…

Quindi alla base delle voglie, dei desideri, c’è la densità delle forze del karma! I desideri non sono mai fasulli! Quelli che ci sono, sono espressione reale dell’essere che ce li ha!

Quindi, ogni desiderio che io ho, ogni brama che io ho, è un frammento importantissimo di me!

Ieri e l’altro ieri abbiamo discusso, ci siamo arrabbiati, no! – una persona lì quasi quasi mi avrebbe fucilato – una cosa bellissima tra l’altro! – non gli è riuscito: son troppo magro: le pallottole mi vanno a destra e a sinistra!

Una parentesi: quando ero in Laos, negli anni più micidiali della guerra nel Vietnam, mi trovavo là, la vita era molto più pericolosa nel Laos che nel Vietnam, per via di vari infiltrati. Abbiamo perso più di 15 bravi missionari; ci sparavano a distanza; ci vedevano che non avevamo gli occhi a mandarla, vedevano uno straniero e sparavano. Io mi son salvato la pelle soltanto perché ero magro magro e le pallottole andavano a destra e a sinistra, capito!

Ho avuto allievi, dalla prima elementare all’università, che non hanno mai visto la pace! Cresciuti sempre e solo in guerra!

Allora, il problema – vi stavo dicendo –… scrivo adesso una parola moralmente un po’ così: le voglie – ma per i benpensanti è …un po’! –.

Le voglie… devi dominare le tue voglie!

Le voglie sono una fetta grossa di ogni essere umano che si rispetta! Un essere umano senza voglie è una larva di uomo; un cadavere!

Il medico toscano mi sta guardando, dice: adesso stiamo a vedere dove va a parare… Io mica ve lo dico prima dove vado a parare! Eh, se no, senza suspence… adesso che mi avete messo qui sopra a troneggiare, allora creerò un po’ di suspence!

Le voglie! …Una parola bellissima che in tedesco non c’è! Perché il tedesco, insomma, fa come se… ce le ha anche lui, eh!, però fa come se… non ci fossero, capito! E’ un pochino più a disagio! Invece la cultura italiana è meno a disagio! Questo è bello; moralmente positiva la cosa!

Le voglie… – adesso faccio tentativi di interpretazione dell’umano, poi ne parliamo eventualmente nella discussione – le voglie sono la sfera, diciamo, della natura nell’uomo; e l’uomo, senza questa base di natura, sarebbe un angelo!

E un uomo che vorrebbe vivere da angelo è una catastrofe dall’inizio alla fine!

Perché uomo è e uomo resta; se vorrebbe – come certi antroposofi, per esempio – vivere da angelo, allora comincia ad andare nella stratosfera, ed è… andato via!

Volevo dire: il problema delle voglie – mettiamoci anche la voglia sessuale, se volete – certo!, perché una persona che fosse, come dire, neutrale… non è un essere umano!

Ora, l’essenza del moralismo, uno dei problemi più micidiali, proprio più ricattanti del moralismo, è quello di tacciare questa sfera delle voglie come se fosse moralmente sindacabile. Invece la sfera delle voglie è insindacabile! Perché è natura!

A questo punto sorge il problema più grosso, perché uno dice: ma allora, tu immagina cosa succede nel sociale, cosa salta fuori se ognuno si lascia andare alle sue voglie!

Quindi è importantissimo arginare – uso una parola bella borghese – a r g i n a r e !

Durante la notte io mi sono detto: ma ho usato in questi giorni una parola brutta! Adesso vi ricorderete qual è la parola brutta che ho usato al posto di “arginare”:

c a s t r a r e!

E io dicevo: ho visto certi volti… un po’ … Ci dev’essere una parola più bella, più pulita! …A r g i n a r e!

Quindi noi abbiamo una società piena di intenti di arginare le voglie!

A quello lì; a questo povero essere umano!

Le voglie… è tutto quello che lui ha! Gliele vai a portar via?

Se tenti di portargliele via, anche soltanto minimamente, e se ha un minimo di barlume di intelligenza, si ribella! Ti dà calci nel sedere! E ti dimostra di essere sano!

L’affermazione fondamentale della Filosofia della Libertà è che il problema non è di queste voglie che ci sono, ma sono le voglie che mancano! Quello è il problema!

E le voglie superiori… – permettetemi di dirlo – perché le voglie che mi dà la natura sono noiose rispetto alle voglie che mi conquisto io per libertà!

Se me le dà la natura… è lei ad essere brava!

Quindi noi, la nostra società, siamo tutti concentrati, fissati, sui problemi – giustamente, se volete – che saltano fuori da queste “voglie”, e non ci accorgiamo che la soluzione non è quella di cercare di rintuzzarle, arginarle!

Peggioriamo la situazione se cerchiamo di rintuzzare:

No!, non devi volerle!, non hai il diritto di volerle!, non volere!, uccidi questa voglia!

E non ci rendiamo conto che gli unici peccati che ci sono – per usare una parola religiosa – sono i peccati di omissione! In una morale della libertà esistono solo peccati di omissione!

Ai pochi o molti cristiani qui in sala, mi permetto di ricordare che, nel cosidetto cristianesimo, di cui noi non abbiamo neanche un barlume – perché il cattolicesimo, compreso anche il papa tedesco, è un proseguimento del buddismo, lo dicevo l’altro ieri – lo spirito del cristianesimo ancora deve venire!

Nei cosidetti vangeli c’è il bilancio totale, non soltanto del valore della vita, ma del valore dell’evoluzione; e il bilancere, il giudice del giudizio universale, non dice ai cattivi: te hai fatto questo! Che brutta cosa! Te hai espresso questa voglia! Che brutta cosa!

Nulla, nulla!!!

“Avevo fame e non mi avete dato da mangiare; avevo sete e non mi avete dato da bere… I cosidetti peccati di omissione! Non c’è nessun peccato di commissione, qualcosa che hanno fatto male! Il meglio che ti era stato reso possibile non l’hai neanche visto! Avresti potuto godere, godere, godere, non l’hai fatto, questo non l’hai fatto, quest’altro non l’hai fatto, ecc.

Allora dice il vangelo – Matteo 25, per chi se lo vuol studiare; insomma, i miei capelli li ho persi studiando teologia, quelli che mi conoscono lo sanno, alcune cose me le ricordo ancora – quelli lì, quelli alla sinistra dicono: ma, ma, ma, noi sappiamo quello che abbiamo fatto, tu ci parli di quello che non abbiamo fatto!

E quand’è che avevi fame e non t’abbiamo dato da mangiare? Quando eri assetato e non ti abbiamo dato da bere?

E Lui dice: dappertutto e sempre, in ogni essere umano c’è fame e sete delle voglie che non ci sono; perché le voglie che ci sono… ci sono!

Noi ci stiamo a preoccupare e stiamo rincarando la dose dei problemi, in base alle voglie che ci sono, e non ci rendiamo conto che gli unici problemi saltano fuori solo perché non creiamo altre voglie che la natura non dà.

Se noi, queste voglie che dà la natura, le prendiamo come base sana, tra l’altro necessaria, per costruirci sopra le voglie… quali? Quali?

I vocaboli non ci sono!

Questo ci sta a dimostrare che… aria fritta!

Se io vi dico: la voglia, ma una voglia passionale, viscerale, di studiare la scienza dello spirito…

Mi metto un paio di occhiali…

Di che stai parlando?… Ma tu, magari… stai parlando di qualcosa che c’è, che è possibile…

Sììì! Sì! Io, vi chiedo scusa, ma queste voglie qui sono pallidine… io da 35 anni studio questa scienza, che è all’infinito quello che c’è da imparare, e dico: ma queste passioni qui sono piccole, sono flebili, rispetto a queste grandi voglie!

E qualcuno diceva: eh, sì, ma queste voglie che non ci sono come si fa a farle sorgere?

Non ci sono!

Bisogna avere il coraggio – coraggio, eh!, altrimententi dovremmo castrare, arginare, e se arginiamo è peggio, perché costringiamo l’individuo a difendersi; giustamente! –. Bisogna avere il coraggio, la saggezza, il pensare ci dice: ogni essere umano ha il diritto a tutto il tempo, anche se sono diverse vite; e ci sono persone che hanno bisogno di diverse vite, perché se una persona per tutta una vita vive bene, gli va bene di godersi queste voglie, cosa avete voi in contrario?

Io dicevo – ho fatto ieri la proposta –: basta che ci accordiamo sulle azioni che sono proibite – azioni proibite ci vogliono, eh!; non sia mai che, se uno ha voglia di ammazzare un altro, noi lo permettiamo! – tutto il resto è permesso.

Se lui non ammazza nessuno, non fa nessuna azione proibita dalla legge, e vive tutta una vita dentro le voglie del mangiare, del bere, ecc., ecc., avete voi qualcosa in contrario?

Non avete il diritto di avere nulla in contrario, perché quella è la sua natura.

Allora: o abbiamo il convincimento, pulito perché è fondato sulla realtà, che l’essere umano, prima o poi, strutturalmente non gli basterà questa base di natura – e allora, se abbiamo questo convincimento, allora abbiamo anche la forza interiore di aspettare, di dargli la possibilità di arrivare al punto… della scontentezza!

Come il figliol prodigo – lo dicevo ieri –: che brutta vita! I salariati a casa del padre mio stanno meglio di me! E pensa di tornare.

Quindi l’unica molla morale, pulita, di volere, di far sorgere le voglie di ciò che è lo spirito, di ciò che è l’arte, la creatività, ecc., ecc., è che queste voglie qui non mi bastano più! Tutto il resto è moralismo che non funziona, e che crea soltanto problemi, problemi, problemi.

E vi dicevo: questo individuo qui – magari sono io, ognuno deve essere sincero con se stesso – se ha bisogno di due o tre vite, perciò ci vuole la reincarnazione; perché ci sono tante persone che ci mettono una, due, tre vite, per arrivare al punto di dire: non mi basta più!

Finché gli basta, gli basta!

Ma a me non mi va di vivere con una persona che è un animaletto! – adesso comincio ad usare una terminologia borghese –.

Non ti va di vivere con una persona che tu ritieni un animaletto?

Vai a vivere con un altro! Perché se tu ti adoperi a catechizzarlo, ti pigli una sberla dopo l’altra! Giustamente!

Io non interpreto il vostro silenzio come se foste tutti d’accordo con me! Così veloci non vanno le cose!

Interpreto il vostro silenzio che vi ripromettete, quando poi entriamo in discussione, di tornare all’attacco! E lo faremo, lo faremo dopo.

Allora: par. 31 – Tutto questo ha come presupposto il fatto che il piacere sia la misura del valore della vita.

E dicevamo: no, non cerca il piacere, non cerca la felicità, non cerca la gioia, cerca l’espressione… il desiderio, la voglia è sempre una voglia di autoespressione, di autorealizzazione. Quindi voglio esprimere qualcosa che c’è in me.

Ho voglia di incontrare una persona?

Questa voglia di incontrare questa persona fa parte di me. E voglio esprimere me stesso in un modo concreto e individuale. Queste due parole sono quelle che ci guidano questa mattina.

La prossima frase è importantissima, andrebbe meditata per tutta la vita!

La vita si manifesta attraverso una somma di istinti (bisogni). Istinti e bisogni: concreti e individuali; quindi non la ricerca di una felicità astratta.

Vi dicevo: istinti, bisogni… Triebe; in tedesco: Triebe.

Per non moraleggiare vedete che in italiano vi metto la parola più modesta che si possa immaginare: le voglie!

Cosa vuoi? La domanda è sempre: cosa vuoi? Che voglia hai?

Vuoi che andiamo a visitare i miei genitori? Dice la moglie al marito.

Andiamo a visitare i miei genitori domenica pomeriggio?

Non ho voglia!

Ecco, in italiano è la parola più schietta che ci sia! “Non ho voglia”

Eh, dai, non ci siamo andati da parecchi mesi!

Eh, non è che la voglia me la fai venire martellando!

Dai, se non hai voglia di andare dai miei genitori, fatti venire la voglia di accontentare me!

Vabbè, se si tratta di accontentare te, allora mi viene la voglia. Ma è la voglia di accontentare te, non di visitare i genitori. Quindi lo faccio per accontentare te.

Questo sta a dire che l’oggetto della voglia è di volta in volta preciso! Proprio circoscritto, concreto; e molto individuale!

Quello lì, se non ha voglia di visitare i genitori di sua moglie… non ha voglia!

Si può fargliela venire?

No! No!

Se io cerco di fargliela venire gli passa ancora di più! Perché è costretto a difendere la “non voglia”. Quindi essendo costretto a difendersi gli passa ancora di più! E allora non ho neanche più la chance che lo faccia per accontentare me!

Se il valore della vita dipendesse dal maggior piacere o dispiacere che reca…

Addirittura quantità, quantità astratta di piacere, felicità, gioia!

Se il valore della vita dipendesse dal maggior piacere o dispiacere che reca, Se fosse questo il voluto, intenzionalmente inteso… si dovrebbe qualificare come privo di valore un istinto una voglia che rechi a chi lo prova un eccedenza di dispiacere. Esaminiamo ora istinto e piacere, per vedere se il primo possa essere misurato per mezzo del secondo. In base al piacere che mi dà. Per non destare il sospetto di voler far cominciare la vita con la sfera dell’”aristocrazia dello spirito”, cominciamo con un bisogno “prettamente animale”: la fame.

Che vuole uno che ha fame… la felicità?

Un quantitativo di felicità… Dai, i negozi son tutti chiusi, è domenica, lo stesso quantitativo di felicità te lo diamo facendo una passeggiata!

Ma io ho fame!

Ma non cerchi un quantitativo di felicità in base all’appagamento della fame?

No! No! No! Cerco la sazietà!

Tra l’altro poi la voglia di mangiare… diciamo: voglia di mangiare… ieri già si accennava – qui davanti c’era chi lo diceva giustamente – uno che ha voglia di mangiare perché ha fame e dice: però io non mi accontento soltanto di mangiare e di conseguire la sazietà, voglio usare la mia fame perché ho voglia anche di gustare! …Ditemi altre parole in italiano!

PUBBLICO: Assaporare! / No, gustare va bene!

ARCHIATI: Assaporare cibi prelibati! Gustare, via! Cioè, non mi basta mangiare, voglio gustare al massimo il mangiare!

E’ moralmente pulito, insindacabile?

(Qualcuno dice: no!)

Chi ha detto no? Perché dici di no?

Interv. 1: E’ un lusso!

ARCHIATI: Soldi ne abbiamo abbastanza in Italia, no! Un lusso!? Perché vorresti negarmi questo lusso?

(Vari commenti del pubblico)

No, no, quello è il mangiare, io intendo qualcosa di prelibato in modo che le papille gustative… c’è un valore aggiunto oltre al conseguire la sazietà! Insomma ci siamo capiti, no! Non fate finta di non sapere di che si tratta! Magari in Germania si mangia e basta, ma in Italia! …Ci vuole il valore aggiunto!

Ho mangiato e sono soltanto sazio… eh, non basta! E il gusto del mangiare dove lo mettiamo!

Allora, adesso attenti, una cosa psicologica sottile, però molto importante. Questo qui è un esempio: lui ha fame, non soltanto appetito; Steiner sta prendendo l’esempio della fame, perciò dice di non cominciare con voglie aristocratiche e prende l’esempio di una voglia, di un desiderio, di una brama, che tutti hanno perché fa parte della natura.

Uno non ha mangiato da due giorni: ha fame!

Adesso la riflessione psicologica – e l’uomo è psicologico! Non è soltanto un essere di natura o metafisico; nell’anima, nella psicologia si esprime enormemente l’umano –: adesso però non prendete le riflessioni che io faccio come moralismi, se no mi fraintendereste! Perché devo descrivere un tipo che ha voglia di mangiare e gli basta, gli basta di conseguire la sazietà e non vuole altro, e il tipo che non gli basta, che vuole, in più, i cibi prelibati; che vuole gustare. Quindi il saziarsi non gli basta, vuole gustare.

Allora la mia proposta è questa proposta conoscitiva: se una persona – adesso nel contesto di prima lo si capisce – se usa la sazietà del corpo – essere sazio è un fenomeno fondamentale del corpo – se usa il corporeo, l’essere sazio, diciamo lo star bene, come strumento, e questo strumento – il violino, il mandolino, non è la cosa importante, la cosa importante è che, come str umento, serve per far saltar fuori le melodie dell’anima e dello spirito –.

Se una persona si è abituata – cosa bellissima: è il valore della vita! – ad usare tutto ciò che è il corporeo come strumento, perchè usa questo strumento per esprimere sfere di creatività che son del tutto individuali, ecc., ecc., non vuole sprecare soldi e energie ulteriori oltre alla sazietà; perché gli porta via soldi, energie, tempo, per le altre voglie.

Colui che cerca, oltre alla sazietà, la gustosità, è perché non ha queste altre voglie.

E va bene! E’ fatto così!

Io non dico l’uno è meglio l’altro è peggio: sono due esseri umani molto diversi.

Quindi se noi abbiamo una società piena di persone che questa sfera del corporeo vuole elaborarla all’infinito, è perché gli manca l’altra. E prima o poi non funziona, perché non basta! All’essere umano non basta.

Perché adesso, per avere dei cibi, non soltanto che mi rendono sazio, ma per avere dei cibi prelibati, gustosi, ecc., ecc., mi sono spaccato la pancia!

L’umanità è piena di stomaci rovinati, perché a nessuno basta lo stomaco sano! Con lo stomaco sano non sanno cosa farne.

Oh!, mi guardate con una faccia di gente che sta lì quasi per ammazzarmi!

Io mi salvo in calcio d’angolo continuando a leggere Steiner, se no stamattina rischio di grosso!

Ogni tanto quando non mi vengono i pensieri guardo lì a destra, abbiamo uno scrittore che scrive testi sulla follia, e adesso ha scoperto la forma suprema della follia – l’ho detto ieri a sua moglie – e ci siamo messi d’accordo che la suprema forma di follia è l’antroposofia! Che volete?!

Eh!, qui, verso la follia bisogna andare! Senza follia… ci sono solo folletti! Di quelli è pieno il mondo: gli manca la follia… tra virgolette, naturalmente!

Allora, prendiamo la fame. Vediamo cosa dice Steiner sulla fame.

Par. 32 – La fame sorge quando i nostri organi… i tedeschi esaminano i fenomeni scientificamente! Poi se lo leggete in tedesco sarebbe una cosa ancora più micidiale! Uno pensava di sapere già cos’è la fame, adesso legge la Filosofia della Libertà e adesso si rende conto metafisicamente di che cosa sia il fenomeno: fame!

La fame sorge quando i nostri organi non possono più funzionare secondo la loro natura senza l’apporto di nuove sostanze. La prima aspirazione di chi ha fame è quella di saziarsi. Appena sia avvenuta la somministrazione dell’alimento, in misura da far cessare la fame, tutto ciò cui aspira l’istinto della nutrizione è raggiunto. Quindi l’istinto della nutrizione vuole soltanto la sazietà. Il resto, quello di gustare ulteriormente, non viene dall’istinto della nutrizione, da una fruizione corporea, viene dall’anima. Giustamente! Non stiamo moraleggiando dicendo: questo è giusto, questo è sbagliato.

Il godimento che si collega con la sazietà consiste anzitutto nell’eliminazione del dolore che la fame procura. Quando uno ha fame, veramente fame, sta male! E questo star male è dolore. E la sazietà ha portato via al 100% questo dolore.

Ma al semplice istinto di nutrizione si aggiunge un altro bisogno. A questo punto però bisognerebbe dire: per tante persone si aggiunge un altro bisogno, ma non è necessario che si aggiunga un altro bisogno. Per molti – dico io – si aggiunge un altro bisogno.

L’uomo, prendendo il cibo, non vuole soltanto rimettere in ordine le disturbate funzioni dei suoi organi, e con ciò superare il dolore della fame; egli cerca di ottenere questo risultato con l’accompagnamento di gradevoli sensazioni di sapore. Cose che si possono dire meglio in italiano che in tedesco, queste qui!

Pertanto, quando ha fame, e sa che fra mezz’ora lo attende un pasto gustoso, egli può anche evitare di guastarsi il piacere… il puro e semplice piacere di saziarsi, perché il puro e semplice piacere di saziarsi è noioso, non è interessante più di tanto. Dice: a me non interessa soltanto saziarmi… egli può anche evitare di guastarsi il piacere di un cibo migliore prendendone uno di minor valore che potrebbe soddisfare subito la sua fame. Egli ha bisogno della fame per ricavare il pieno godimento dal suo pasto.

Questa frase è un errore di traduzione. Ce ne sono due in tutta la Filosofia della Libertà. Due veri errori di traduzione che vanno corretti.

Vi rileggo la frase: Egli ha bisogno della fame… Si serve della fame, si avvale della fame; usa la fame per raggiungere un piacere aggiuntivo.

(Sproloquia in tedesco qualche minuto). Quindi è un errore di traduzione, eh! Usa, si serve, della fame; adopera la fame per ricavare il pieno godimento dal suo pasto.

Si avvale della fame, usa la fame, ma comunque non “ha bisogno” della fame…

PUBBLICO: Qui dice: gli occorre la fame.

ARCHIATI: Ma non è che gli occorre, se ne serve, usa la fame. La parola letterale in tedesco è: usa la fame (braucht, brauchen). Usa la fame, si serve della fame, perché se non ci fosse la fame non potrebbe gustarsi ancora di più il mangiare.

Insomma, è una vera svista del traduttore

INTERV. 2: Ma brauchen non traduce anche abbisognarsi?

ARCHIATI: No, brauchen ha due accezioni fondamentali: ich brauche den Schlussel (la chiave). Significa: 1) Ho bisogno della chiave, perché vuol dire che non ce l’ho. 2) Io uso la chiave, che significa che ce l’ho.

Quindi tutti e due, che sono due significati del tutto diversi, il tedesco lo dice con: Ich brauche.

(Lunga discussione in tedesco con il pubblico).

Noi qui siamo gente che il tedesco non lo sa, capito! Quindi, se noi studiamo il testo in italiano, il tedesco non ci interessa. Il traduttore, il bravo traduttore, è il traduttore che la lingua di origine la fa sparire! Se io mi accorgo continuamente: è una traduzione dal tedesco, il tedesco è tradotto male. Quindi la lingua di origine deve sparire, deve essere italiano. Adesso chiedo a tutti voi: siete chiamati in causa più di me! Io soffro del fatto che ho perso il contatto proprio, diciamo intimo, col linguaggio italiano; insomma, la vita da zingaro mi ha portato in tutto il mondo.

Ma adesso io vi chiedo: questo pensiero, in italiano, è giusto o sbagliato?

E mi dovrete concedere che è sbagliato! Punto e basta! Non importa se è una traduzione dal tedesco, ecc.!

Egli ha bisogno della fame per ricavare il pieno godimento dal suo pasto…

No! No! No! Il pensiero è sbagliato, non è giusto! E’errato il pensiero!

Se io dico: si avvale della fame, usa la fame, si serve della fame, allora sì!, allora il pensiero è pulito! Quindi non venite a barare voi!

Così la fame diventa per lui anche una sorgente di piacere. Non soltanto per conseguire la sazietà, ma per godere piacere; piacere gustativo, piacere del mangiare; piacere ben definito, eh!

Se dunque tutta la fame esistente nel mondo potesse essere saziata, si otterrebbe la quantità totale di godimento che deve essere attribuita all’esistenza del bisogno di nutrizione; ma ad essa bisognerebbe aggiungere ancora il particolare godimento che i golosi ottengono coltivando i nervi del gusto oltre l’ordinario.

E’ interessante come il linguaggio deve stare attento a non diventare moralistico! Perché se uno si vuol godere una buona mangiata, si vuol godere una buona mangiata; gliela vogliamo proibire?

Con tutta l’arte culinaria che abbiamo in Italia, per esempio… anche in Francia… I tedeschi magari ci invidiano perché non sono così provetti nell’arte culinaria!

Par. 33 – Questa quantità di piacere raggiungerebbe il valore massimo se non rimanesse insoddisfatto alcuno dei bisogni connessi con questo genere di godimento e se, unitamente al godimento della sazietà, non si dovesse mettere in conto anche una certa quantità di dispiacere.

Adesso leggiamo anche il par. 34 e poi vorrei farvi una riflessione un po’ più generale.

Par. 34 – La moderna scienza naturale è del parere che la natura produca più vita di quella che possa mantenere, cioè che produca anche più fame di quella che sia in grado di saziare. L’eccedenza di vita prodotta deve perire fra i dolori nella lotta per l’esistenza. Ammettiamo che i bisogni della vita, in ogni momento del divenire del mondo, siano maggiori dei rispettivi mezzi di soddisfazione disponibili, e che il godimento della vita sia pregiudicato da tal fatto. Ma il singolo realmente esistente godimento della vita non rimane perciò per nulla diminuito.

Quindi la voglia singola, anche se… adesso siamo ancora nell’arco del tempo, di tutta la vita; parliamo del valore della vita.

Supponiamo che io, nella mia vita, abbia espresso, abbia sentito – faccio per dire, eh! – 1000 voglie. Se di queste 1000 voglie che ho avuto ne ho appagate soltanto 20, il valore della vita diminuisce, la vita vale di meno; se ne avessi appagate soltanto 10 il valore della vita è ancora minore; se ne ho appagate 500 il valore della vita è maggiore che non soltanto 10 o 20. Quindi questo riguarda il valore della vita.

Però sul valore della vita a questo livello così astratto, questo calcolo, non lo si fa!; non esiste questo calcolo. Quindi adesso noi guardiamo a queste 20 voglie che io ho appagato. Questo appagamento, queste 20 voglie appagate, le ho volute di meno per il fatto che ce ne sono state altre accanto che non sono state appagate?

No! no! Quindi l’appagamento della voglia singola concreta – concreta, singola e individuale – non dipende dal numero delle voglie che vengono appagate.

Anche se io avessi avuto un milione di voglie, ma quella che ho adesso viene appagata, il godimento di questa che viene appagata non viene diminuito per nulla!

Il che significa che l’essere vivente – l’animale e l’uomo – anche se gli resta la speranza di appagare soltanto una voglia, questa voglia tende a conseguirla; e quindi continua a vivere. Smetterebbe di vivere soltanto quando le voglie sono zero! Non vuole più nulla!

Quindi la lotta per l’esistenza sta a dire che l’essere vivente lotta finché non sono fattori esterni a ucciderlo. E zero al quoto (al denominatore) non c’è mai!

E il depresso, la depressione?

Adesso, il “depressivo” e il “compressivo”.

Non mi dite che il compressivo non c’è; lo so! Allora, siccome il compressivo non c’è ci metto l’ottimista.

Qual è la differenza fondamentale, però concreta, tra l’ottimista e il depressivo?

L’ottimista, quello che ha grinta, chiamatelo come volete, però dove ci sono difficoltà di linguaggio ci rendiamo conto dei problemi psicologici – anche del linguaggio borghese –, ci sono delle cose che si vorrebbero, come dire, nascondere.

E il fenomeno della depressione dilaga sempre di più; vi dicevo altre volte, lo Spiegel, questa rivista in Germania, quasi ogni due o tre settimane c’è un articolo sulla depressione!

Allora, faccio una proposta conoscitiva, però capirete cosa voglio dire.

La differenza (di cui sopra) è che l’ottimista ha 1000 voglie e la persona depressa ne ha una sola!

Una, una voglia sola. Quale? Perché se non ha più nulla… va all’altro mondo!

PUBBLICO: Quella di godersi la depressione!

PAOLO: Secondo me hanno tutti e due la stessa voglia, ma l’ottimista la sua voglia se la gode così tanto che gli basta per 1000! Perché non è detto che il depressivo abbia poche voglie, è che non si gode neanche quella lì.

ARCHIATI: Perciò dicevo: tutto fra virgolette, no! Se tu ricami su questo “tra virgolette” siamo nell’astratto. Serve se diventi concreto, proprio concreto concreto.

Cosa vuole? Vuole nulla il pessimista, il depressivo?

(Varie risposte confuse)

Faccio un’altra proposta – adesso voglio salvare la mia proposta – ha soltanto una voglia: che gli venga la voglia!

Però questa voglia che gli venga la voglia c’è, se no sparisce! Adesso è diventato un momentino più concreto!

Quindi: non ha nessuna voglia, ma avrebbe voglia che gli venisse la voglia di qualcosa.

Eh, è così, è così. Adesso ci stiamo arrivando vicini psicologicamente.

Invece l’altro vuole questo, poi quest’altro, poi quell’altro e quell’altro…

Questo qui ha voglia di farsi venir voglia. E soltanto quella voglia lì, lui ha!

Prima dicevamo: e perché ha soltanto quella voglia lì, che gli venga voglia di qualcosa?

Perché è fatto così!

INTERV. 3: Perché non vuole far nulla!

ARCHIATI: No, no! Sta attento – mannaggia, direbbero a Napoli: sempre moralismi! – adesso io ti dimostro che questo depresso è il super evoluto rispetto agli ottimisti! Molto più evoluto!

Non ha più voglia di ciò che non gli basta più! E’ arrivato al punto che non gli basta più ciò che la natura gli dà.

Quindi, tante persone non sono ancora abbastanza evolute da potersi permettere una depressione! Quindi, se tutto va bene, il depresso è più evoluto che non il papageno.

INTERV. 4: E’ una condizione necessaria quindi, quella della depressione per il dinamismo evolutivo.

ARCHIATI: Ma, sta attenta, prima dicevo: l’unica molla pulita per farsi venire voglie superiori, più belle, di maggior godimento, è che quelle che ti dà la natura non ti bastino più. E tu come chiami questo stato che tutto ciò che mi dà la natura non mi basta più? Se lo dici in una parola, dici: sono depresso! Capito!

E allora, siccome abbiamo una società che conosce soltanto questa area di natura delle voglie, fa di tutto per fargli venir voglia di mangiare, di… ecc., ecc.

No, lui dice; no, no, no, è proprio quello che non mi basta più!

E ciò che il depresso cerca glielo offre soltanto la scienza dello spirito, via! La follia, la forma suprema di follia. E’ inutile che vogliamo barare!

Interv. 5: Ma non ha voglia nemmeno di quello il depresso!

ARCHIATI: Ancora no! Perché è un conto adesso se tu fai una riflessione sulle voglie che ha portato a coscienza, e un conto è se tu vuoi fare un’affermazione su tutte le voglie latenti potenziali. Ci sono voglie potenziali nell’uomo?

PUBBLICO: Sììì!

ARCHIATI: E queste voglie potenziali come si presentano?

Se si presentassero direttamente lederebbero la libertà, e il moralista le presenta direttamente: devi studiare la scienza dello spirito!, devi studiare la scienza dello spirito!

Nooo! Per lasciare l’uomo libero si presentano con la scontentezza, col dolore!

Non voglio più essere così scontento, e allora cerca liberamente; ma deve avere a disposizione tutto il tempo di cui ha bisogno; questo stiamo dicendo.

Invece il moralista dice: studia Steiner!, studia Steiner!…

La persona sana gli dà un calcio nel sedere!

FIRENZE: Difatti anche nella letteratura si trovano queste figure che…

ARCHIATI: Ma c’eravamo messi d’accordo che parlavo solo io prima della pausa, santa pace!…

Si può fare solo con una fiorentina, eh!, perché, insomma, se comincia non finisce più. Voi toscani siete nati con l’italiano; io posso permettermi di essere cattivo solo con colui che intasca bene, capito! E’ un complimento! Con altre persone devo stare un po’ più attento!

Da quello che diceva lei, ieri, mi sono permesso di… Però vi faccio presente che io, in un fine settimana sulla Filosofia della Libertà, non ho mai fatto 34 paragrafi come questa volta a Milano! Mi dovete concedere che, insomma, mi sono sforzato di reprimere le mie voglie e di venire incontro alle vostre. Me le son godute, dai!

Allora: …Ma il singolo realmente esistente godimento della vita non rimane perciò per nulla diminuito. Quindi, la singola voglia che, qui e ora, che si appaga… questo appagamento non viene affatto sminuito dal fatto che, prima o poi, ci siano 1000, 2000, 5000 voglie non appagate! Meno sono i godimenti che la vita mi dà, più mi godo quelli che ci sono! E più mi valgono quelli che ci sono! Quindi è l’opposto!

E il nulla non c’è, non esiste. Perché per godere la vita zero, bisogna essere bacati, ma a livelli di follia! Ce n’è da godere, no!

Vi porto un esempio di godere: voi non avete mai goduto di una voce che funziona normalmente?

Io, qui a Milano, sono stato operato 35 anni fa; avevo perso la voce – per un italiano chiacchierone come me era una catastrofe! –, visto che avevo perso la voce, ero a New York e non potevo più predicare, mi è stato permesso di far l’eremita sul lago di Como. Manco arrivato sul lago di Como ho scoperto subito Steiner! Allora ho capito perché avevo perso la voce, perché doveva far l’eremita.

Il primario, qui a Milano, mi ha tagliato via mezza tiroide e mi diceva: signor Archiati, se nel giro di 10 mesi dopo l’operazione la voce non ritorna, allora non torna più! E io per 10 mesi avevo rinunciato al fatto che la voce tornasse.

Quindi, c’è il fatto che io sto qui a sproloquiare – da me funziona proprio soltanto una corda vocale – però io non sarò più in grado, in questa vita, di dare per scontata la voce! E godo del fatto di poter in qualche modo parlare!

Quindi le fonti di godimento ci sono! Il problema è che… qui ci metto la parola: karma!… il karma è il godimento possibile!

Siccome il mio karma… il karma di ogni persona ha un’enormità di godimenti possibili; siccome li do per scontati… non li godo!

E le persone diventano scontente, diventano depresse, perché vanno a cercare i godimenti fuori dal karma; quelli che non sono possibili! E poi si lamentano che non sono possibili!

Il valore della vita è di godere il più possibile tutto ciò che c’è. Perché se io voglio andare a godere ciò che non c’è… sarà una cosa un po’ difficilina!

E cosa c’è, qui, per tutti voi, da godere perché c’è?

Una voce sana, che io non ho!

L’avete mai goduta?

Se non l’avete goduta, mi dispiace per voi, ma siete tutte teste bacate!

Quindi il valore della vita, l’arte della vita è di godere ciò che c’è!

Ora, le voglie “superiori”, permettetemi la parola, finché non ci sono, non le posso godere!

Adesso vi chiedo un’altra domanda importantissima: permettetemi di nuovo la parola: le voglie “inferiori”, a chi non bastano?

Le voglie inferiori diventano insufficienti solo per l’uomo che le ha godute fino in fondo!

Solo per lui; perché se non le ha ancora godute fino in fondo cerca il godimanto che non è stato conseguito.

Vedete che tutti i moralismi vengono spazzati via! Perché abbiamo, sia nella società borghese, sia nella religione tradizionale, una morale retriva che vuole castrare, castrare, castrare le voglie. Nooo!

Guarda che ti verrà la voglia di qualcosa di più alto, di creativo, ecc., ecc., soltanto nella misura in cui tutto il godimento che ti mette a disposizione la natura non ti basta più. Ma non ti basta più soltanto se l’hai goduto tutto! Finché non l’hai goduto, cerchi di goderlo ancora di più.

Leggiamo il paragrafo fino alla fine, è un paragrafo lungo; poi qui c’è la famosa “frazione”, il paragrafo è famoso per questo.

…Dove avviene si verifica la soddisfazione del desiderio esiste la corrispondente quantità di godimento, anche se vi sia nell’essere stesso che nutre il desiderio, o in altri esseri a lui vicini, un buon numero di istinti insoddisfatti. Ciò che però rimane diminuito è il valore del godimento della vita.

Non l’intensità del godimento della singola voglia che viene esaudita.

Quando un essere vivente ottiene la soddisfazione di una parte soltanto dei suoi bisogni, ha sempre il godimento corrispondente; ma questo godimento ha un valore tanto minore, quanto più esso è piccolo in confronto alla globale richiesta della vita nel campo dei desideri in questione.

Vi dicevo prima: ho avuto nella mia vita 1000 voglie, ne sono risultate esaudite soltanto 20, ma quelle 20 me le son godute in tutto e per tutto. Le altre sono rimaste pie illusioni. Se non fossero rimaste pie illusioni si sarebbero esaudite anche loro.

Quindi l’arte della vita, il valore della vita è anche di avere più voglie di quelle che si realizzano. Se no… il depresso è quello che non ha più voglie di quelle che si realizzano. Quindi deve adesso farsi venire la voglia di qualcosa. E desidera di poter desiderare.

Ci si può immaginare questo valore come rappresentato da una frazione, il cui numeratore sia il godimento realmente presente e il denominatore la somma totale dei bisogni.

Al numeratore ci mettiamo l’appagamento, la soddisfazione, le gioie, i piaceri. E sotto, al denominatore, ci mettiamo le brame, i bisogni, le voglie; metteteci tutte le parole che volete, eh!

Quando, per esempio, gli appagamenti sono stati 5 e i bisogni erano 4; c’è stato più appagamento di quanto l’individuo aveva bisogno. Cosa non reale, comunque il valore della vita sarebbe massimo.

Se uno dice: i miei bisogni erano 1000 e gli appagamenti sono stati 1000, allora il valore della vita è stato pieno!

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Se dice: i bisogni della mia vita sono stati 1000 e soltanto uno è stato appagato, uno diviso mille è uguale a zero?

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No, no, no; sarà uguale a 0,001. Quindi il valore della vita non è mai nullo! Quell’appagamento là me lo son goduto! E mi è bastato per continuare a vivere. Nella speranza che arrivi il secondo!

Quindi l’essere umano non molla finché non tracolla!

Una bella cosa! Quindi è stata costruita bene questa natura. Dunque, non molla finché non tracolla perché porta dentro di sé l’aspirazione, il dinamismo, alla pienezza dell’essere; a tutti i livelli.

La frazione ha il valore uno quando numeratore e denominatore sono uguali, cioè quando tutti i bisogni vengono soddisfatti. Diventa maggiore di uno, quando un essere vivente prova più piacere di quel che richiedano i suoi desideri…

Lascio a voi appurare se questo caso sia possibile – matematicamente è possibile, però nella vita non è possibile! –.

… ed è minore di uno quando la quantità del piacere risulta inferiore rispetto alla somma totale dei desideri.

E questo è quasi sempre il caso!

La frazione però non può mai diventare zero, finché il numeratore abbia un sia pur minimo valore.

Anche se fosse 0,1 il risultato della frazione non è mai zero; è qualcosa di più di zero. Dovremo aggiungere un altro zero, o due, per i matematici qui in sala!

Se, prima della sua morte, un uomo facesse la chiusura dei conti e pensasse ripartita su tutta la vita la quantità di godimento dovuta a un dato istinto (per esempio la fame) con tutte le esigenze relative a tale istinto, il piacere provato risulterebbe forse di scarso valore; ma del tutto privo di valore non potrebbe mai diventare. Restando uguale la quantità di piacere, il valore del piacere della vita diminuisce con l’aumentare dei bisogni di un essere vivente. Lo stesso vale per la totalità della vita, nella natura. Quanto maggiore è il numero degli esseri viventi in confronto al numero di quelli che possono trovare il pieno soddisfacimento dei loro istinti, tanto minore è il valore medio del piacere della vita. Le cambiali sul godimento della vita, che vengono emesse dai nostri istinti, valgono tanto di meno quanto minore è la speranza di poterne incassare l’intero importo. Se io per tre giorni ho abbastanza da mangiare, e poi per altri tre giorni devo patire la fame, il godimento dei tre giorni di pasto non diventa per questo minore;…

Anzi, se so già in partenza che poi gli altri tre giorni non avrò nulla da mangiare, me lo posso godere ancora di più; psicologicamente. Non fisiologicamente, ma psicologicamente.

…ma in tal caso devo immaginarlo ripartito su sei giorni, e da ciò il suo valore per il mio bisogno di nutrizione si riduce a metà. Lo stesso si verifica per la quantità del piacere in relazione al grado del mio bisogno.

In italiano questo grado del bisogno significa l’intensità, la forza, del bisogno. Quindi per una brama – brama è il bisogno – qualsiasi sia l’oggetto della brama, determinante per il valore della brama, è la sua intensità! E’ l’intensità, la forza, con cui una persona brama una cosa.

Se una mamma, o un papà, ha un bambino di tre anni e ha problemi di coscienza continuamente perché sentirebbe di dover fare tante cose per il bambino, però, insomma, vorrebbe godersi la vita a modo suo, per esempio fare un corso di aggiornamento, ecc., ecc.; cosa vuol dire?

La brama – non la brama di avere un bambino, perché la brama di avere un bambino è troppo generale – la brama di dedicare tutte le forze al bambino è… esile!

E’ possibile avere la brama forte di dedicare tutte le proprie forze al bambino?

Certo che è possibile, non è proibito!

Mi direte che è raro, ma questo non dimostra che è impossibile.

Adesso ricostruiamo questo tipo folle, di cui l’oggetto della brama, ciò che veramente brama, desidera fortissimamente, è di dedicare tutta la propria fantasia morale, tutte le proprie energie, al bambino. Si gode questo dedicarsi! Perché lo brama!

Io non sto dicendo: allora tutte voi, mamme che avete bambini piccoli, lasciate perdere di curare la vostra vita personale, non è questo che sto dicendo; sto dicendo che tutto l’umano – e dedicare tutte le forze al bambino è un fenomeno dell’umano – tutto l’umano è passibile di fortissima brama. E tutto dipende da ciò che io bramo.

Se io bramo più fortemente la mia formazione, va benissimo. Però devo dirvi che la mia brama per la mia formazione è più forte della brama di dedicare il mio tempo al bambino.

Basta essere sinceri, basta essere oggettivi.

Quindi il problema è sempre un governo di brama. Ma non è un problema, le brame non sono un problema; perché finché ci sono, godile!

Tutte le brame della natura… arrivi al punto che non le godi più?

Che bella cosa! Adesso ti do l’informazione – casomai tu non l’avessi mai ricevuta l’informazione – che colui che non gode più di tanto le brame della natura, lo attendono brame che danno molto più soddisfacimento!

Sì, lo dici te!

Che ci sono, lo dico io; che tu sei scontento delle altre brame l’hai detto tu!

Vuoi continuare a vivere scontento?

Padronissimo, però non ti venire a lamentare con me; che ti pigli un calcio nel sedere.

Allora, prendiamo qui il corpo… mi permettete il corporeo di metterlo sotto?, la base è sotto, se no… ma non è perché vale di meno, eh!, perché il fondamento è importante: la sfera del corpo, una cosa complessissima.

Poi la sfera dell’anima – tutto tra virgolette via, ci capiamo! –. Poi la sfera dello spirito; rarefatta.

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FIG. 15

Allora partiamo da qui: il dinamismo dell’essere umano parte da questa base che dà la natura; quindi qui è il fattore di natura (corpo), e qui il fattore di libertà, di creatività (spirito).

E l’anima?

Insomma… oscilla! Tra i piaceri che gli dà il corpo e i piaceri che gli dà lo spirito.

Perché l’anima, per andar sicura, si butta sui piaceri del corpo?

Giustamente, perché lì va sicura; perché ci sono! Glieli dà la natura; quindi è sano!

Perché lì (in alto) dice: ci voglio pensare, non son mica sicura se poi mi riesce, insomma… Se guardo bene certi antroposofi, che sono andati nella stratosfera… Ci penso due volte!

Quindi l’anima proprio oscilla – questa bellissima oscillazione dell’anima, no! –

Allora, il valore della vita è di godere pienamente tutte e tre le sfere!

Quindi, adesso vi parlo di tutti e tre i tipi di godimento. Però il valore massimo della vita è di goderli tutti e tre!

Qui (corpo) cosa c’è da godere?

Godimento del vivere; il corpo è fatto per vivere. Ci mettiamo una parola?, una categoria?

Per vivere… per vivere…

Vivere sano! Più sano di sano non c’è mai stato! E il “santo” non è più sano di sano: comincia già ad andare in orbita. Quindi restiamo al sano, non il santo!

Quindi meglio di un corpo sano non c’è! Meglio della sazietà non c’è! Se io comincio a voler aggiungere il gusto del mangiare, rovino la sazietà, rendo il corpo meno sano. Quindi più sano di sano non c’è, e la base per il godimento totale della vita e per il godimento totale dello spirito, la “conditio sine qua non” è un corpo sano! E tutto quello che va fatto per mantenerlo sano.

Godimento del vivere sano, del corpo sano.

Qui (anima) godimento di che cosa?

Vivere, il vitale, è, diciamo, l’attività fondamentale del corpo. Qual è l’attività fondamentale dell’anima?

Scusate, lasciamo via i sostantivi: corpo, godere il vivere. Qui, nell’anima, godere il…?

Non vi viene in mente nulla? Ci siete o non ci siete!

PUBBLICO: Il sentire / il vissuto / il bello… ecc.

ARCHIATI: No, la bellezza è un frammento dello spirito.

PUBBLICO: Il piacere / la gioia / il buono / l’aspirare / l’amare… ecc.

Archiati: Il b r a m a r e!!! Bramare tutto!, tutto quello che c’è! Bramare tutto il godimento del corpo, bramare tutto il godimento… l’attività dell’anima è il bramare, il desiderare, il volere!…

Bramare è godimento! Desiderare è godimento! Volere è godimento! Tendere è godimento! Avere ideali è godimento!

E sopra (spirito) Godere il…?

PUBBLICO: Il pensare / il conoscere… ecc.

ARCHIATI: Cosa brama l’essere umano, al massimo?

PUBBLICO: Creare!

ARCHIATI: Creare! Il creare a tutti i livelli. Meglio non c’è!

Si vive per bramare e si brama per poter sempre meglio, sempre più fantasiosamente, sempre più artisticamente, creare all’infinito!

Creiamoci una buona pausa, createvi un paio di idee, e poi vediamo.

***

MILENA: Volevo chiederle… prima lei aveva detto che si può in qualche modo trovare soddisfacimento delle proprie brame all’interno di quello che è il nostro spazio karmico, altrimenti rimaniamo, tra virgolette, insoddisfatti. Non è come vedere un po’ la cosa come: devi accontentarti di quello che in questo momento, insomma, ti viene…

ARCHIATI: No, è l’opposto! Il tuo karma è il campo di tuo massimo godimento, altrimenti non ha il diritto di essere il tuo karma. Nel momento in cui esci dal tuo karma diminuisce il godimento. Eh, è logico, scusate!

INTERV. 6: Volevo dire solo che il karma non è solo godimento, mi sembra che sia anche molta sofferenza!

ARCHIATI: Allora, prendiamo la parola sofferenza, o dolore. Il Budda dice: la vita è dolore. La risposta della Filosofia della Libertà – adesso andiamo per sommi capi, non posso rifare una conferenza di un’ora – è questa: che se io sviluppo brame fortissime di ciò che mi è possibile – questo è il senso del karma – mi godo tutta la sofferenza, tra virgolette, che ci vuole per conseguirlo!

L’intensità della brama trasforma tutta le cosidette sofferenze necessarie per conseguire ciò che si brama, in una gioia.

E’ così ovvio; è così ovvio!

Una mamma gode di vivere col bambino, ecc., ecc… Eeeh, però c’è tanta sofferenza, c’è tanto dolore; e devo rinunciare a questo, e devo rinunciare a quell’altro… Allora non c’era la brama di questo godimento!

Quindi, coloro che sottolineano la sofferenza sono i poveracci in canna! Non hanno mai conosciuto brame che si rispettano!

Quindi, se tutta la cultura cattolica continua a sottolineare la sofferenza, dimostra che è una cultura di povertà.

Una partita di calcio… Oh, ma c’è da soffrire, eh! Va bene per cinque minuti, ma poi… Ho fatto di tutto per portare la palla lì, per fare gol… no, adesso ritorna indietro la palla… ma che sofferenza, che sofferenza!

Quella è la visione della mia amica accanto a me, che è venuta alla partita soltanto per far contento me. Perché la brama del giocare a calcio lei non ce l’ha!

Se avesse la brama di giocare a calcio non mi viene a parlare della sofferenza, di ciò che si soffre mentre si “calcia”.

Siamo all’inizio, ma proprio all’inizio dei godimenti veri della vita; forti, le brame vere! Le brame più forti sono quelle che consentono di trasformare tutta la sofferenza che c’è in gioia, in gratitudine.

Fila il discorso?

MASSIMO: Tanto è il bene che mi aspetto…

ARCHIATI: Sì, però la difficoltà con Francesco d’Assisi è questo aspettarsi, capito! In fondo non c’è ancora lo spirito, c’è l’anima che si ripromette; quindi lo spirito è ancora da venire: me lo aspetto, capito!, me lo aspetto.

Tanto il bene che mi godo! Allora sì!

Perché io, quando sto giocando a calcio, non è che il bene me l’aspetto… Allora gioco per vincere… quello è il bene che mi aspetto; oppure i soldi che piglio se ho vinto. Allora vanifico la gioia del giocare.

PUBBLICO: Tant’è vero che c’è una corruzione enorme di partite vendute.

INTERV. 7: Dunque mi par di capire che siamo di fronte a una scelta, cioè, insomma, bisogna essere onesti, nel senso che io, per la prima volta, ho sentito parlare in questo modo delle voglie; ma a questo punto ho un po’ scoperto, cioè ho capito che fino ad oggi, qualcuno, qualcosa, mi ha convinto che la voglia mi ha fatto confondere; che la voglia sia, come dire, la seduzione; cioè c’è una voglia della seduzione, che è una seduzione dello spettacolo, del commerciale, anche lo spettacolo del rito religioso; però in qualche modo questo coraggio di dire se quella è vera, è mia, o no… insomma adesso la vedo con chiarezza, quindi la domanda si è un po’ chiarita; quindi grazie!

ARCHIATI: Prego, prego! E’ importante quello che dici, eh! L’importante è fare esercizi di pensiero.

Allora prendiamo – visto che tu ci hai dato queste categorie – una donna che ha voglia di sedurre un uomo – capita qualche volta, eh! –.

Il fenomeno c’è… qualche volta! Qualche volta in Germania; qualche volta in meno, anche in Italia.

Hai qualche cosa in contrario con questa voglia?

Fa parte di lei; ed è sana! Se no, che donna è se non è capace di sedurre nessun uomo!

E quando funziona questa voglia?

Quando lui ha voglia di essere sedotto. E va tutto bene!

Allora, cosa hai tu contro la seduzione?

INTERV. 7: Niente detto così, però questa domanda ne sottintende un’altra. Cioè, quando io la subisco, poiché sono addormentato… arrivo al punto: facciamo il caso in cui questa seduzione diventi qualcosa che si sostituisca a me, cioè il plagio.

ARCHIATI: No, no, no, aspetta: correggiamo in modo da aver chiaro ciò di cui parliamo. Questa donna, noi non diciamo chi sia, però sta cercando di sedurre te, e tu non hai voglia… Continua! Tu, però! Tu non hai voglia!

INTERV. 7: Finché non ne ho voglia…

ARCHIATI: Padronissimo!

INTERV. 7: Poi, a un certo punto, è chiaro che deve venire da me la cosa.

ARCHIATI: No, no, no: “lei ha voglia di sedurti”. Adesso è concreta la cosa, se no, se le cose non vengono concretizzate, son troppo astratte; non funziona!

Lei ha voglia di sedurre te. Tu hai due possibilità: o hai voglia di essere sedotto e ti va bene, allora va tutto bene!; o non hai voglia.

Se non hai voglia, allora, cosa fai?

INTERV. 7: Vado via!

ARCHIATI: O mandi via lei.

INTERV. 7: O mando via lei.

ARCHIATI: E va tutto bene!

INTERV. 7: Però, se non è una donna, ma è un complesso, una struttura… cioè esiste anche la coercizione, il plagio, voglio capire lì…

ARCHIATI: Ma scusa, la seduzione senza un minimo di abbindolamento, non è seduzione! Sei nella stratosfera, scusa! Scendi giù!

INTERV. 7: Scendo giù: io parlo di quelli che, per esempio, entrano in una comunità di qualsiasi tipo e da lì dentro non riescono ad uscire; perché con delle tecniche particolari la loro mente è condizionata.

ARCHIATI: No, è perché sono imbambolati!

INTERV. 7: Appunto! Non sono presenti.

ARCHIATI: Eh! Se son fatti così, si lasciano abbindolare! Hai tu qualcosa in contrario a gente che si lascia abbindolare?

Se è fatta così… la vuoi cambiare?

Tu adesso stai dicendo: io godo, stamattina godo di essere diventato un minimo meno abbindolabile!

Godilo! E’ una gran bella cosa!

L’altro è rimasto abbindolato in tutto e per tutto… Eh, è abbindolabile!

C’è gente che esercita l’arte di abbindolare?

Eeeeeeh! E’ pieno il mondo!

INTERV. 7: E’ una lesione anche quella della libertà.

ARCHIATI: Il potere è una forma enorme di abbindolamento, scusa! Se no, come eserciti il potere?

INTERV. 8: Se il valore più alto della vita sono io, voglio tirare fuori le mie potenzialità. Per fare questo quindi, da quello che io ho compreso, devo fare un atto di fede fortissimo nei miei…

ARCHIATI: Non “devi” nulla!

INTERV. 8: No, no: voglio! Voglio fare un grande atto di fede verso me stessa…

ARCHIATI: No! Se usi la parola “fede” ti devo fermare subito!

INTERV. 8: Fiducia! …Neanche?

ARCHIATI: Una potenzialità in cui io devo soltanto credere, non c’è: non è una potenzialità. Una potenzialità è reale soltanto quando io la vivo come dinamismo reale mio. Affidati al dinamismo concreto, vissuto, del tuo essere.

INTERV. 8: D’accordo, perché mi voglio tuffare in questo dinamismo…

ARCHIATI: No, non è un tuffarsi! Sta attenta, la categoria del tuffarsi è che io sono sulla sponda e…

INTERV. 8: Sto facendo errori…

ARCHIATI: Stiamo esercitando il pensare, però la pulizia nel pensare è fondamentale. Io sono sulla sponda e mi tuffo. Ora questa immagine ti dice: ti stai tuffando in un elemento estraneo, e sei fuori strada!

Resti in te, devi restare in te stessa! Il problema della gente è che siamo abituati ad imbottire la nostra mente di rappresentazioni, ecc., e non abbiamo più persone che sono connesse con se stesse.

E poi le voglie che hanno, che sono: mangiare, bere, godere la vita, ecc., sono gli unici punti di connessione con se stessi, che una morale moraleggiante glieli ha messi come cattivi. Quindi devono andare per aria, per essere buoni!

Quindi l’unica domanda che mi porta avanti è sempre la domanda: cosa voglio io? Cosa mi va di fare in questo momento?

Fa parte di me. Fa parte di me. Fa parte di me.

C’è un sacco di gente che dice: non fare, non fare, non fare… Gli do un calcio nel sedere! Ognuno fa quello che vuole, no! Viviamo in una società dove ognuno fa quello che vuole.

Riguardo agli altri, uno vorrebbe che facessero quello che vuole lui, però lui fa quello che vuole! Allora, perché anch’io non devo fare quello che voglio?

Quindi è giusto quello che tu volevi dire: noi facciamo teorie, teorie, teorie, sull’umano, su ciò che è bene o male, e non abbiamo fiducia nell’umano.

Quindi, tu stai dicendo: io vado bene soltanto quando do fiducia a ciò che è reale in me, e si vuole esprimere.

Sì, però sta attenta che quello che si vuole esprimere dentro di te, sedurre un uomo può essere dannoso, ecc…

Moralismi! Moralismi!

Una donna veramente capace di sedurre un uomo è una donna che io rispetto, scusate! Perché se una donna non è capace di sedurre un uomo non vale nulla! Che donna è, scusate! Che è donna a fare, se non fa venir voglia a nessun maschietto!

Noi viviamo di un moralismo che condanna la natura nell’uomo!

Ma, è l’unica cosa che abbiamo, la condanniamo come moralmente cattiva!

Siamo teste bacate!

E secondo me è quello che cercavi di dire; io l’ho detto con parole mie, capito!

INTERV. 8: Sì, l’altra cosa è che: se ciò che ci capita, dicevi ieri, è ciò di cui noi abbiamo bisogno, qui la cosa più difficile è imparare ad accettare!

ARCHIATI: Le due parole, le due categorie che hai usato, sono moraleggianti: l’essere umano non ha bisogno di nulla! Perché se avesse bisogno di qualcosa, è carente!

Io non ho bisogno di nulla! Voglio soltanto esprimere il mio essere.

Esprimere, esprimere, esprimere, quello che c’è in me!

Di cosa ho bisogno? Di nulla! Non mi manca nulla!

E l’altra… qual’era la parola che hai usato?

Accettare… Ma, accettare!… accettare!… Io non ho mai accettato nulla!

Accettare è passivo! E’ ingoiare!

Perché accettare? Io devo “accettare” il mio essere?…

Sarebbe come dire che avremmo la possibilità di non accettare il nostro essere!

Ma ti do un calcio nel sedere! …Vivi!!!

Adesso io le sto prendendo sul serio perché non sono a caso queste categorie: il “bisogno” e “accettare”… moralismi!!! Micidiali, enormi!

Vivi!!! Vivi, santa pace! Esprimi il tuo essere!; finché arrivi – finalmente, sarebbe ora! – al punto in cui ti pigli una bella depressione, perché allora tutto quello che ti ha dato la natura non ti basta più!

Ma, la maggior parte della gente non arriva neanche al punto, importantissimo, di pigliarsi una depressione!

INTERV. 8: Quindi il fatto che dilaghi così tanto, oggi come oggi, sempre più la depressione, lo scontento, è perché siamo in un gradino evolutivo superiore?

ARCHIATI: Superiore…: ulteriore rispetto all’essere del tutto soddisfatti godendo soltanto la natura. Certo! Certo! Uno che è scontento vuole di più!

INTERV. 9: Allora, fino adesso mi ero fatta l’idea che, invece, il nutrire sempre voglie, desideri, ecc., quindi avere una mente non ferma, fosse fonte di insoddisfazione; mentre mi ha un po’ destabilizzato, adesso capire…

ARCHIATI. Per fortuna!

Interv. 9: …capire che invece sono quasi vitali queste voglie, che però per me sono: voglie uguale insoddisfazione, non so come dire, voglie uguale continua ricerca di quello che non si ha, quindi con una incapacità di saper fare bene ciò che si ha. Ugualmente, l’esempio che lei faceva prima del corpo sulla sazietà: diceva: immaginate lo strumento corpo che in qualche modo produce melodie, produce qualcos’altro; poi c’è invece un modo di produrre, poi dal corpo, il gusto come un ricavare ancora piacere dallo stesso strumento.

Ecco, mi è poco chiaro quale delle due direzioni… cioè, quando l’una e quando l’altra.

Archiati: Allora, ci provo: un avvio di pensiero.

Si tratta sempre di cogliere più concretamente possibile ciò che l’animo vive realmente. Il vissuto dell’animo è l’elemento più concreto che ci sia. Tutto ciò che è materiale è astratto per me, perché non lo posso vivere direttamente; concreto al massimo è un sentimento, perché lo vivo!

Quindi, il vissuto è la sfera di massima concretezza.

Allora, la tua domanda – se ho ben capito, se mai mi correggi – si riferisce al fatto che dici: ma, ma, son due cose scisse; son due cose staccate, diverse: una è la voglia, o desiderio, o brama; e un’altra cosa è il conseguire, l’appagamento.

E io dico: per la persona poverella sono due cose diverse! L’arte della vita, il valore della vita, sta nel farle diventare una cosa sola!

In che modo la brama diventa, contemporaneamente, un’appagamento?

Con l’aumentare della sua intensità!

Più una brama è intensa e più la godo! Più godo questa intensità!

Quindi, una brama che ha bisogno dell’appagamento per essere contenta, è una …bramuccia!

Vi faccio un esempio, stratosferico, eh! – forse per me è reale, forse non è reale per tutti –: supponiamo: uno ha studiato la Filosofia della Libertà, o un primo libro di Steiner, per la prima volta; e supponiamo che abbia fatto l’esperienza: per bacco!, ma quante cose sono saltate fuori! E’ la prima volta che leggo un libro dove saltano fuori un sacco di idee!… Non è proibito, eh!, non è proibito!

Vi viene la brama di leggere il libro successivo…

Questa brama di leggere un libro successivo, è del tutto inappagata?

E’ un godimento immanente… immanente, che dà la forza di prendere tutte le cosidette sofferenze, tutte le rinunce, perché voglio leggere il libro successivo.

Quindi, diciamo, psicologicamente il miracolo degli ideali forti, è che gli ideali forti fanno l’unità del presente e del futuro!

L’ideale forte è il futuro, vivente e operante, in me! Più di questo non si può. Più beatitudine non c’è.

E se il futuro non è forte in me nel presente, è perché non sono stato ancora capace di creare voglie, ideali, brame, a tutti i livelli, fortissime.

Ogni pena mi è diletto; non: mi sarà… perché se mi sarà… capito!

Mi è diletto.

Se ogni pena mi è diletto, allora bara quando dice poi: tanto è il bene che mi aspetto. Tanto è il bene che mi godo! Che mi godo! Se ogni pena mi è diletto, me lo godo adesso!

Serve? Servono questi pensieri per andare un po’ più avanti?

INTERV. 10: Volevo chiedere… mi ha pizzicato – io sono goloso e in realtà sono anche interessato a studiare la Filosofia della Libertà – e quindi questa cosa mi ha un po’ pizzicato, veramente!

ARCHIATI: Bene!

INTERV. 10: Però l’immagine che nel gusto è di andare verso il “basso”, mi sono detto: però in realtà io faccio esercizi di creazione…

ARCHIATI: Chi te l’aveva detto che andavi verso il basso?

INTERV. 10: Lei ha fatto una freccia verso il basso… vabbè…

(Risate del pubblico)

ARCHIATI: Guarda che per me una freccia fatta così non va verso il basso! Nella tua testa bacata va verso il basso; va verso ciò che è f o n d a m e n t a l e!

Se no vai in orbita, capito!

Il problema è che siamo talmente inficiati di moralismo che lo chiamiamo “il basso”. Il basso deve essere negativo? Vedi!

Tutta la morale cattolica fa sinonimo di basso come negativo. Ma è assurdo! Tutta la natura è tutta negativa perché è tutta bassa; e tu vai bene soltanto quando cominci a vivere da angelo… Però, se cominci a vivere da angelo, per quanto mi riguarda ti pigli un calcio nel sedere! Che poi, da angelo non ti pigli neanche un calcio nel sedere, perché il sedere non ce l’hai più!

Chi vuole l’ultima parola per accomiatarci?…

INTERV. 11: Volevo fare due domande, una per ieri e una per oggi.

Allora, la prima che volevo fare è questa: nel caso in cui la depressione sfocia in un suicidio, noi, come guardiamo questa cosa?

ARCHIATI: E io ho una risoluzione?

INTERV. 11: Si, perché lei dice che la depressione è una forma di sublimazione…

ARCHIATI: No, no…

INTERVENTO 11: Allora mi può chiarire questa cosa?

ARCHIATI: Naturalmente è complesso il fenomeno, eh! Cercando di individuare aspetti centrali, si lasciano via tante cose; quindi non portare il caso di eccezioni ecc.

INTERV. 11: Sì, questo lo capisco.

ARCHIATI: L’affermazione fondamentale è che: la natura, tutte le voglie della natura, i godimenti della natura, ecc., ce li dà la natura. Però l’essere umano non è fatto soltanto di natura, quindi non può, a lunga scadenza, essere soddisfatto e contento se vive come un animale.

L’animale è contento e soddisfatto della sua natura perché non ha altro!

Se è vero che, per l’essere umano, il godimento di ciò che è di natura ha il senso di farsi da base, da strumento necessario, pulito, bellissimo, per godimenti dell’anima e dello spirito, prima o poi, se gode soltanto i godimenti che dà la natura, diventerà insoddisfatto.

E questo fenomeno di diventare insoddisfatto, che è un passo in avanti rispetto a colui che ancora si gode – padronissimo! – il dato di natura, lo possiamo chiamare: depressione.

INTERV. 11: Quindi una sfumatura intermedia, insomma, dello stato depressivo.

ARCHIATI: Certo!, certo! Non gli basta più tutto ciò che gli altri si godono. Padrone lui, che non gli basta più, padroni gli altri che gli basta ancora. Ognuno ha il diritto al suo essere.

Però prima o poi, l’affermazione è che, prima o poi, l’essere umano è architettato in modo tale che il puro naturale non gli basta: vuole l’elemento della libertà, dove lui è creatore libero; non soltanto ciò che gli dà la natura.

FIRENZE: Comunque c’è stato un equivoco perché per depresso qui si intende una patologia grave. E’ chiaro che gradualmente – a ottant’anni qualcosa si è esperito – nel momento in cui certe cose non soddisfano più, contemporaneamente ne nascono delle altre… Almeno la mia esperienza è questa.

ARCHIATI: Non necessariamente!

FIRENZE: Non necessariamente, ma generalmente è così!

ARCHIATI: No! Perché altrimenti sarebbe di natura anche l’altro!

FIRENZE: E però non si arriva a una depressione tale che porta al suicidio, perché quella è proprio una cosa patologica!

ARCHIATI: No!

FIRENZE: Sì!

ARCHIATI: No!

FIRENZE: Sì!

ARCHIATI: No! Parlare di patologico, rispetto all’umano, è un modo terroristico di moraleggiare! Non esiste il patologico! Quindi parlare di patologico è il livello terroristico del moralismo.

Che cosa c’è di patologico in uno che si toglie la vita?

Giuda… il Cristo lo sa che Giuda si toglie la vita. Cos’è patologico in Giuda?

Nulla!

FIRENZE: Sì, va bene, da questo punto di vista qui posso essere anche d’accordo; da questo punto di vista posso dare anche ragione, perché poi è tutto un discorso karmico sui suicidi, che c’è la ripetizione, fino a che qualcuno dall’esterno non ti aiuta, quindi ci vuole una forza d’amore, ecc., ecc.; tutte cose giuste, però la gran parte della gente… se no tu ti contraddici perché c’è questa cosa dell’umano, cioè del valore dell’uomo! Allora l’uomo, gradualmente “umanizza” – il centauro, no!, e’ bellissimo! –, per cui afferra qualche cosa, anche se non chiaramente, dall’alto. Perciò c’è sempre un certo equilibrio che poi viene avanti; questa è la fiducia nell’umano, se no altrimenti…

ARCHIATI: E il suicida?

FIRENZE: E il suicida è un caso estremo di persona che non è riuscito ad afferrare niente!

ARCHIATI: Eh no!

FIRENZE: Eh sì!

ARCHIATI: E no! E no eh! E no eh! E no eh!

Dice: qui in questa costellazione non vale, ne voglio una nuova! E il creatore dell’umano gliela dà!!!

Perché, te pensi che sia la prima vita che ti è stata data?

FIRENZE: No, no…

ARCHIATI: E allora! E allora! Quindi il moralismo che ha messo Giuda all’inferno eterno… ma è di una disumanità proprio allucinante! Allucinante!

Uno dice: sono stufo, arcistufo, me ne vado!

Lo spirito che ha creato l’umano l’ha intriso di forze positive di amore, no!

Giuda, dài, non c’è problema! Te ne diamo un’altra di vita!

Se lui è stato arcistufo e se n’è voluto andare, cosa c’è di male?

Nulla!

Era arcistufo e se n’è andato!

I problemi sono i nostri moralismi! Perché l’umano prevede tutte le forze necessarie per ricostruirsi un corpo; e ricomincia da capo! Tutta un’altra costellazione: Agostino!

Giuda dice: se è vero che mi aspetta una vita da Agostino, adesso che io ho tradito il mio maestro ecc., ecc., c’è da spararsi… e s’è sparato! E si è pigliato la vita di Agostino!

Noi siamo abituati a vedere l’umano in chiave negativa. Siamo stupidi, siamo veramente stupidi! E una cosa positiva è di farsi, almeno la domenica, un buon pasto gustoso!

Buon appetito e ci vediamo la prossima volta. Grazie!

A proposito di Pietro Archiati

Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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