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Pietro Archiati

SCOPO DEL MONDO
E SCOPO DELLA VITA

(destinazione umana)

Commento a

La filosofia della libertà

di Rudolf Steiner

Volume 11

Cap. XI, dal par. 1 al par. 8

Rocca di Papa ( RM) 3 – 5 febbraio 2012

N.B. Trascrizione integrale del parlato,

NON redatta e NON rivista dall’autore

Indice

Venerdì 3 febbraio 2012, sera

2° aggiunta alla seconda edizione 1918

Sabato 4 febbraio 2012, mattina

Sabato 4 febbraio 2012, pomeriggio

Sabato 4 febbraio 2012, sera

Domenica 5 febbraio 2012, mattina

A proposito di Pietro Archiati

Venerdì 3 febbraio 2012, sera

A.: Questa sera facciamo un primo inizio – siamo all’inizio del capitolo XI° – e siccome bisognerà ripetere un pochino domani – ci sarà di sicuro più gente – propongo di fare metà, questa sera, di discussione… d’accordo?

LUCIANA: Anche perché l’ultima volta, la seconda aggiunta l’hai letta senza commentarla. Io te lo ricordo!

A.: Tu preferisci riprenderla, la seconda aggiunta?

LUCIANA: No, no, ti ricordo solo dove eravamo arrivati.

ROBERTO: Dopo introduciamo bene questo capitolo XI°.

A.: Bene, rivediamo insieme la seconda aggiunta al capitolo X°.

2° aggiunta alla seconda edizione 1918

A pag. 147 e seguenti si parla di materialismo. Sono ben cosciente che vi sono pensatori i quali, come il citato T. Ziehen, non designano affatto se stessi come materialisti, ma che tuttavia, dal punto di vista adottato in questo libro, devono venir annoverati sotto questo concetto.

Prima riflessione: qual’è il concetto di materialismo, stando alla Filosofia della Libertà?

Il concetto di materialismo, stando alla Filosofia della Libertà, è che anche la persona che si ritiene la più spirituale di questo mondo, come Teodor Ziehen, non si accorge che, in tempi di materialismo, si ritiene reale un qualche percepito.

Dio lo si ritiene una realtà in quanto sarebbe percepibile se avessimo altri organi di percezione.

Questa è l’essenza del materialismo: vedere il reale come percezione! Che poi questo reale sia un dato di percezione esterna, un dato di percezione introspettiva, un dato di percezione speculativa, puramente immaginata, ipostatizzata, sempre percezione è!

Quindi il concetto di materialismo della Filosofia della Libertà è che materialista è colui che vede la realtà là: il cielo dentro nell’anima, le rappresentazioni che vedo nell’anima.

Quindi il riassunto che io faccio sul X° capitolo è che il cosidetto monismo, nel senso della Filosofia della Libertà, è che il pensare, quindi l’accendere concetti intuitivi attraverso l’attività del pensare, supera ogni elemento di spazialità!

Quindi tutto il capitolo X° si riferisce alla dicotomia, alla dualità, tra io e mondo.

Ora, io e mondo è una dualità in fondo spaziale; di matrice spaziale: il dentro e il fuori: io sono dentro e fuori di me c’è il mondo.

Ora, ci sono tantissime conferenze di Rudolf Steiner dove lui dice – ma in questo basterebbe studiare la teologia tradizionale e anche la filosofia – che nel concetto di ciò che è spirituale, che poi è la realtà – la realtà è lo spirito – tutto ciò che è spirituale è oltre lo spazio e oltre il tempo.

Ora il monismo è il superamento di questi inganno di scissione tra interno ed esterno, che è una matrice spaziale; e essendo una matrice spaziale è materialistica.

Perché, cosa si intenderebbe dire dicendo: io e il mondo là fuori?

Il mondo là fuori è ciò che io percepisco: è di nuovo la percezione!

LUCIANA: Ti stai riferendo al monismo di Steiner, non quello che combatte lui.

A.: Sì, non quello che combatte lui. Perciò l’abbiamo precisato; l’ho detto: il monismo secondo il concetto della Filosofia della Libertà; l’ho precisato!

Quindi, nel capitolo X° si rifà… monismo significa l’unità del mondo. Nello spirito che pensa, nello spirito che ama, nello spirito che vuole, non c’è dualiltà!

Non ci sono cose fuori dello spirito; creare attraverso il pensare significa diventare uno con tutto ciò che c’è. E nel diventare uno con tutto ciò che c’è si supera una dualità che risulta illusoria.

Quindi ogni dualità è un inganno! Ed è l’inganno della percezione!

E perché l’uomo è costituito in questo modo: che dapprima sorge l’inganno della scissione, della spaccatura, tra ciò che percepisco – il mondo, comunque lo si voglia chiamare – e l’io?

Per lasciare all’uomo questa creatività di rifare, nel pensare, l’unità del mondo!

E rifacendo l’unità del mondo l’uomo si accorge che la dualità, il dualismo, era un inganno, un’illusione! Non c’è mai stato il dualismo in realtà!

Quindi c’è una spaccatura soltanto quando vivo nell’illusione, e, diciamo, soltanto quando io vivo nella percezione; perché ritornando nel pensare supero ogni dicotomia, ogni dualismo.

Quindi l’arte del pensare è l’arte del diventare uno con tutte le cose.

Il dualismo è il dormire del pensare, è l’uscire dal pensare, è l’addormentarsi, il lasciarsi ingannnare dalla cosidetta percezione, dall’apparenza, dalla parvenza.

Quindi l’essere umano dorme nella dualità e si sveglia, pensando, creando l’unità.

E ogni volta che si sveglia e pensando crea unità, i problemi sono risolti; non c’è più questa estraneità, perché il problema del dualismo è l’estraneità: come faccio io che sono un essere pensante, che sono una realtà spirituale, come fa un elemento così spirituale come il pensare a capire veramente un elemento così materiale come la percezione?!

Quindi, diciamo, il punto di partenza dormiente nel pensare è il presupposto che ci sia una realtà di percezione che invece non c’è: non è una realtà; è una parvenza di realtà; tant’è vero che tutto ciò che è percepibile sorge e sparisce, nasce e muore, non è essenziale.

Non importa che uno affermi che per lui il mondo non finisce nell’esistenza puramente materiale e che quindi egli non è un materialista. Si tratta di vedere se egli svolge dei concetti che siano unicamente applicabili a un’esistenza materiale.

Quindi ogni modo di parlare di qualcosa che non è immanente nel pensare è puro materialismo, perché presuppone qualcosa che sia estrinseco all’essere umano che pensa; allo spirito umano che pensa..

Ora l’estrinsecità c’è soltanto nell’inganno della percezione; quindi questo concetto di materialismo è molto più puro perché è essenziale; coglie proprio l’essenza. Quindi materialista non è soltanto colui che ritiene reale solo il mondo della materia; materialista è ognuno che spacca il mondo in due e mette di fronte al conoscente una cosa poi non conoscibile, perché la definisce in partenza come estranea; estrinseca ed estranea!

Perché se il mondo è una cosa che sta davanti all’io, se è una specie di opposto, se è una specie di binomio rispetto all’io, come fa l’io pensante, se è di natura del tutto diversa a cogliere qualcosa, a capire qualcosa che è di natura del tutto diversa?

Chi afferma: “ Il nostro agire è determinato da necessità come il nostro pensareâ€, ha con ciò stabilito un concetto che è applicabile solamente a processi materiali, ma non all’azione né all’essere;

Nei processi materiali, le leggi naturali sottostanno a una certa necessità, a un certo determinismo di natura.

Che il sole ritorni a risorgere ogni mattina è un fattore di determinismo di natura, o è una decisione volitiva libera?

Se noi ponessimo questa domanda a Zaratustra, che ha fondato l’antica cultura persiana – andiamo indietro di 4000/5000 anni prima di Cristo – Zaratustra sarebbe inorridito nel sentire che c’è un determinismo di natura alla base del fatto che il sole ogni giorno, puntualmente, senza sgarrare, si ripresenta e poi tramonta!

Noi gli diremmo: ma caro Zaratustra, se tu non conosci leggi di natura, leggi deterministiche di natura, dicci tu, in base a che cosa il sole, in modo così calcolabile, in modo così prevedibile, in modo così non-libero, ogni giorno…

Zaratustra direbbe: Ma caro essere umano, quando tu sposti il tuo corpo, lo sposti deterministicamente, o lo sposti liberamente?

Lo sposto liberamente!

E perché vuoi proibire allo spirito del sole che lui si muova, col suo corpo, così liberamente? È mica più poverello di te che sei un essere umano! Chi gli proibisce di muoversi liberamente col suo corpo?!

Ma allora perché i suoi movimenti si ripetono sempre uguali?, perché io non ripeto i miei movimenti sempre uguali! Perché mai ha deciso, ogni mattina – perché è il suo corpo, lui si muove col suo corpo – che si muova in un modo assolutamnte calcolabile, affidabile, ecco: in un modo del tutto affidabile?

Perché un bel giorno si è detto: se io voglio dare a tutti gli esseri umani un fondamento di natura su cui far emergere l’elemento della libertà, bisogna che questo elemento di natura non sia, lui stesso, ancora nel processo di godersi la sua libertà.

Le leggi di natura sono l’affidabilità dell’amore divino, che ha deciso di rendersi affidabile per farsi da fondamento per il fenomeno dell’evoluzione della libertà umana.

In fondo, una rinuncia a una libertà propria; altrimenti il sole ogni giorno potrebbe comparire a ore diverse; oppure una volta a un paio di milioni chilomeri più vicino alla terra, che brucia tutto!; poi più lontano, ecc.

Quindi, per rendere possibile il fenomeno primigenio dell’amore – la 2° parte della Filosofia della Libertà tratta dei misteri dell’amore! – io vi ho sempre detto: l’essenza dell’amore è l’amore alla libertà dell’amato; questa è l’essenza dell’amore; perché amare significa voler far di tutto, rendere possibile, alla persona amata, all’essere amato, la libertà.

Non troverete mai un amore più grande, più universale! Quindi la natura, il dato di natura, tutte le leggi di natura, sono la somma dell’amore divino che rende possibile la libertà dell’uomo.

Se la parola “divino†non vi piace, trovatene un’altra, eh! Però non val la pena di inventare il linguaggio ogni 5 giorni di nuovo; credo che ci capiamo. La natura non è l’uomo a inventarla, la natura la trova come fondamento che gli consente – i cicli della terra – di camminare!

Io cammino liberamente, quindi, in un certo senso, amare significa sempre rinunciare al potere della propria libertà, per fare spazio alla libertà altrui.

Ama il prossimo tuo come te stesso!

L’amore di sé è il godimento della libertà, artistica, creatrice; l’amore dell’altro è il renderglielo possibile; mettergli tutti gli strumenti a disposizione.

Quindi la natura è puro amore alla libertà dell’uomo!

Chi sia ad amare l’uomo in questo modo ditelo voi; non è questione di terminologia, ma sta di fatto che la natura è proprio il fondamento in assoluto per la libertà dell’uomo.

Allora: “questo nostro agire è determinato da necessità come il nostro pensare†è la massima del materialismo! Vede soltanto processi materiali, deterministici; e questo materialismo comporta due sviste fondamentali del pensare.

La prima svista è che non vede la libertà di spiriti sovraumani all’opera nella natura; e ciò che chiamiamo leggi di natura è un comportamento libero da parte loro, di amore alla libertà dell’uomo.

E la seconda svista è che non vede lo spirito umano, perché come fa a dire che il nostro agire è determinato da necessità come il nostro pensare? Un’enorme svista questa affermazione! L’essere umano, per quanto potenzialmente capace di gestire liberamente i processi di pensiero e i processi volitivi, viene proprio non-veduto, non viene veduto per nulla!

Certo che è possibile – però non al100% – ma è possibile a certi livelli, in un certo senso, all’essere umano, siccome è libero, di omettere di essere lui attivo nei processi di pensiero, che altrimenti li gestisce il cervello; e nei processi volitivi che altrimenti li gestiscono i muscoli.

Però questo omettere di essere attivo non può mai essere al 100%!, altrimenti avremmo un animale e non un essere umano. Quindi il fattore di libertà c’è sempre, anche se minimo – però non è giusta la parola minimo – non lo si nota, non si vede proprio. Quindi, diciamo: il materialismo è una svista, è un modo di pensare che non vede, proprio non vede lo spirito libero all’opera, sia nel pensare, sia nel volere.

Chi afferma: “Il nostro agire è determinato da necessità come il nostro pensareâ€, ha con ciò stabilito un concetto che è applicabile solamente a processi materiali, ma non all’azione, né all’essere; all’azione diciamo di uno spirito, né all’essere di uno spirito e, se pensasse il suo concetto fino in fondo, dovrebbe pensare, per l’appunto, materialisticamente. Vede soltanto processi di materia, nei quali vede soltanto determinismi di materia. Se non lo fa, è soltanto per quell’incongruenza che così spesso è il risultato di un pensare non portato alle sue ultime conseguenze. Spesso si sente ora dire che il materialismo del secolo decimonono è scientificamente superato. Non è vero: l’umanità non è mai stata così materialistica come oggi, cento anni fa lo era, ma oggi ancora di più. Ma in verità non lo è affatto. Soltanto, al giorno d’oggi, assai spesso non ci si accorge che non abbiamo altre idee all’infuori di quelle con le quali ci si può accostare soltanto a quanto è materiale. Così si occulta attualmente il materialismo, lo si nasconde, lo si rende non visibile; si fa come se non ci fosse; occulto significa nascosto: si nasconde, viene nascosto, mentre nella seconda metà del secolo decimonono si palesava apertamente. Quindi c’era più onestà quando il materialismo si chiamava materialismo. Ma, verso una concezione che comprenda il mondo spiritualmente, il celato materialismo contemporaneo non è meno intollerante di quello, confessato, del secolo scorso. Perché deride, denigra chiunque parli di spirito libero; questa è l’intolleranza. Solamente, esso inganna molti uomini, i quali credono di dover respingere una concezione del mondo che tende alla spiritualità, per il fatto che la concezione delle scienze naturali ha “ormai da lungo tempo abbandonato il materialismoâ€.

Direi, adesso naturalmente, nella seconda parte della Filosofia della Libertà, possiamo fare affermazioni che se io le avessi fatte all’inizio magari non si sarebbero capite; però adesso le possiamo fare; magari poi ci discutiamo un po’ insieme.

Il superamento del materialismo, il superamento della dualità spaziale tra io e mondo, tra pensatore e pensato, il superamento del materialismo è possibile soltanto attraverso il concetto puro del pensare. Soltanto nella misura in cui l’individuo si crea il concetto puro del pensare, che è l’organo di unificazione in assoluto, di diventare uno in assoluto, con tutta la realtà che c’è, resta un materialista.

La maggior parte della spiritualità che noi conosciamo, che io conosco, anche in Germania, è puro materialismo; perché non pone alla base il concetto di pensare puro, dell’attività intuitiva, creatrice, del pensare.

Il materialismo si supera soltanto nell’intuizione pura del pensare; al di fuori di questa intuizione pura del pensare resta un qualcosa di esteriore a me, e questo esteriore a me è il materiale, il materiale del mondo; la cosidetta materialità del mondo.

CARMINE: Perché aggiungi la parola “pura� C’è un’intuizione “non pura�

LUCIANA: Un pensiero puro.

CARMINE: Perché pensiero puro?

LUCIANA: Il pensiero puro è quello libero dai sensi.

A.: In un sito italiano che si chiama “libera conoscenza†adesso si era proposto: “pensare liberoâ€.

Io dicevo: come mai gli idealisti tedeschi, che poi da Croce e Gentile sono stati portati in Italia, non parlano mai di pensare libero – perché il pensare è libero per natura – ma parlano di pensare puro?

Il problema è che: reine Denken, in tedesco: il pensare pulito!; unreine è sporco!

Quindi bisognerebbe, in italiano, aggiungere categorie di… c’è un pensare puro e un pensare sporco, non impuro; pensare impuro non c’è.

Quindi la tua domanda chiede: ma perché questi idealisti, che ci sono stati prima della scienza dello spirito – la scienza dello spirito fa passi molto più avanti – però sono stati quelli che hanno portato il pensare, senza percezione dello spirituale, al punto massimo che si possa raggiungere, e parlano non di pensare libero, perché se è pensare è libero per natura, però può essere impuro, e parlano del pensare puro.

Il pensare impuro è un pensare dove c’è ancora un minimo di rimasuglio sporco di percezione; un minimo di dualità. E questa impurezza nel pensare è la paura di diventare io il creatore del mondo; perché tutti i poteri costituiti, per millenni, hanno cercato – perché l’io non emergeva più di tanto, eh! – ma comunque hanno fatto di tutto per tenere l’uomo bravo perché hanno visto, si sono resi conto che c’era questa aspirazione sempre crescente a diventare, come io pensante, il creatore del mondo.

Il pensare puro è il pensare senza paura!

Allora quando io penso il concetto puro di triangolo – puro – ; quindi puro significa senza nulla di non essenziale, perché ciò che non è essenziale è impuro; offusca il concetto; quindi questo offuscamento è impurità, lo adombra, lo rende sporco.

Invece se io ho un concetto dove c’è soltanto l’essenzialità del concetto – il concetto puro – non c’è nulla di impuro in questo concetto.

Quando io penso il concetto puro di triangolo sono io in tutto e per tutto triangolo, e nient’altro! E la paura di fronte a questa vertigine di creatività assoluta del pensare, rende il pensare impuro; e ci si attacca a qualcosa che non è essenziale; e ciò che non è essenziale è sempre un frammento di percezione.

Ho cercato adesso di dirlo un po’ in italiano, cosa che a questi idealisti tedeschi, certo, col linguaggio tedesco, è più facile; diciamo che il tedesco dà tutto uno strumentario di vocabolario molto più preciso, però lo possiamo dire anche in italiano. Anche perché l’italiano, tra l’altro è stato arricchito dall’idealismo che è stato preso da Croce e Gentile; e certe terminologie antroposofiche tra l’altro, non è che voglio criticare, però se nei decenni fra gli antroposofi in Italia ci fossero stati veramente dei pensatori, certi termini tedeschi sarebbero stati tradotti in un modo diverso, non in modo così dozzinale.

Per esempio: vi davo l’esempio dell’anima senziente: non esiste in italiano l’anima senziente, esiste l’anima sensitiva, l’anima affettiva, ma non l’anima senziente!

È un termine antroposofico creato dagli antroposofi, ma non ce n’era bisogno!

Se prendiamo Rosmini, Antonio Rosmini è quello che ha portato – tra l’altro portando oltre, andando oltre un Tommaso d’Aquino che ha scritto in latino – è quello che ha portato il linguaggio italiano, il linguaggio filosofico della lingua italiana, al massimo di distinzione e sotto distinzione.

Antonio Rosmini attende a tutt’oggi di venir studiato, soprattutto da antroposofi! Merita, merita! 10/20 anni fa c’erano…

WALTER: Ha una pubblicazione vastissima!

A.: Sì, certo! Basterebbero i 10 volumi di…

WALTER: Sì, i 10 volumi sulla teologia!

A.: Di teosofia, non di teologia: l’ultima sua opera.

Qual’era stata la tua domanda (Carmine), voglio riprendere il filo… Ah!: “perché tu dici pensare puro�

Perché se non è puro è materialistico! Ogni residuo di dualità è un’impurezza di pensiero.

ROBERTO: Basta poco per rendere impuro…

A.: Eh, certo! Nell’intuizione ci sei in un attimo e ne sei subito fuori! Perché il mondo della percezione ci sbatte fuori!

Quindi riassumiamo il capitolo X°: il concetto di monismo – il monismo della Filosofia della Libertà – come superamento di ogni dualismo, di ogni dualità, di ogni spaccatura, di ogni estraneità, è di quell’unità assoluta che crea il pensare.

Se io adesso dico che crea il pensare puro, si capisce, no!, dopo le spiegazioni date?! Perché c’è pensare e pensare, ovviamente. Quindi il fatto di aggiungerci “puro†ti sta a dire: guarda che anche nel pensare ci sono gradi di maggiore o minore purezza. E dove è massimamente puro il pensare?

Là dove è massimamente creatore!

In altre parole: il concetto di triangolo, io lo penso o lo creo?

Se lo penso senza crearlo ho subito l’impurezza di pensiero che presuppone che qualcun altro l’ha creato. Ecco l’impurezza!

Se invece io lo creo, non mi importa nulla di chi l’abbia creato o non l’abbia creato: lo creo io!

Questa è la vertigine del pensare puro!

Allora ripeto la domanda: il concetto di triangolo lo penso o lo creo?

Se lo penso senza crearlo il mio pensare non è puro perché il crearlo lo lascio a qualcun altro che l’ha creato, e io lo penso soltanto. Lo si capisce il concetto?

È molto importnte questo!

Se io invece il pensare il concetto di triangolo e il creare il concetto di triangolo lo vedo come una cosa sola, lo posso pensare soltanto se lo creo: non mi importa nulla di un creatore, o di tutti i creatori di triangoli che ci sono già stati; proprio non mi riguardano!

E allora mi trovo, nel pensare puro, all’inizio del mondo, dove io dico: il triangolo sia e il triangolo fu! Tale e quale come chi – affari suoi! – magari potesse già aver avuto prima di me il concetto di triangolo… Sono affari suoi!

Il primo che ha creato il concetto di triangolo, da dove l’ha creato?

Eh! Non c’era!

Da lì si vede che il pensare è creazione in assoluto! Perché prima che il Logos creasse il concetto di triangolo, il triangolo non c’era! Da dove lo crea?

Dal nulla, dal nulla lo crea!

Quindi il pensare puro è una creazione dal nulla!

LUCIANA: Cioè: non si deve dire: lo penso creandolo, ma lo creo pensandolo.

A.: È lo stesso!

LUCIANA: Non: lo penso creandolo, ma lo creo pensandolo.

A.: Lo penso creandolo perché lo creo pensandolo.

LUCIANA: Ecco: perché lo creo pensandolo; questo è esatto dire; è la realtà.

ROBERTO: Ma stiamo parlando dei concetti della matematica, della geometria, però. Quanto è estensibile questo discorso, perché il concetto di triangolo è un concetto che fa parte della matematica, della geometria, quindi di un mondo che è fatto tutto di concetti come questo; ma quanto è estensibile questo ragionamento?

A.: Fai presto a dire che è nella natura di un concetto matematico, o geometrico, di essere puro, perché – lo sai beninssimo – la stragrande maggioranza degli esseri umani non ha mai avuto il concetto di triangolo, ha solo la rappresentazione!

ROBERTO: Va bene!

A.: Quindi il concetto di triangolo è allo stesso livello di tutti gli altri concetti. Prendiamo il concetto di uomo!

ROBERTO: È l’opposto.

A.: No, non è detto, non è detto. Lo si può creare questo concetto? Il concetto puro?

I. 1: È stato creato l’uomo quindi sicuramente parte da un’idea, da un concetto puro…

A.: Sì, ma cosa intendi per “uomo� La domanda è: qual’è il tuo concetto di uomo?

I. 1: (?)

A.: Eh, vedi! La rappresentazione c’è, no!, ma noi lasciamo stare chi… noi parliamo di uomo, il concetto di uomo, per lo meno potenzialmente, incipientemente, inizialmente. Adesso lavoriamo un pochino al concetto di uomo: togliamo via tutto ciò che è impuro, che è accidentale direbbe Aristotele, e andiamo all’essenza.

PAOLO: Non è un concetto, è un insieme di infiniti concetti perché l’uomo…

A.: Allora dovresti usare infinite parole; perché ne usi una solo: uomo?

I. 2: È chi può diventare libero.

ROBERTO: Chi percepisce e pensa. Percepisce, pensa e vuole.

I. 3: È l’evoluzione del pensiero.

PAOLO: Hai ragione uso una parola, uomo è un concetto, però non è vero, non è un concetto “uomoâ€, è un insieme di concetti, tu usi una parola perché hai la rappresentazione di una figura che vedi. Come tu dici anche “alberoâ€; anche l’albero è fatto da infiniti altri concetti che lo compongono, per cui…

A.: No!

PAOLO: Come no?

A.: Il concetto di concetto è che il concetto riconduce all’unità un’infinità di elementi che altrimenti senza il concetto sarebbero dispersi. Quindi è nel concetto di concetto che il concetto concepisce l’unità di un’infinità di elementi.

PAOLO: L’unità…

A.: Certo, altrimenti non è un concetto. Quindi coglie il nesso comune a tutti questi elementi.

Adesso io cerco, se volete balbettando, però stando a tutto quello che abbiamo fatto nella Filosofia della Libertà, vi do una definizione del concetto di uomo.

Però tu dici giustamente: sta attento Pietro, che in questo concetto di uomo che tu ci vuoi dare ci dev’essere tutto ciò che riguarda l’uomo, se no non è il concetto giusto; deve cogliere l’essenza; se coglie l’essenza c’è dentro tutto.

Allora, secondo me, caso mai voi lo potete formulare meglio, eh!, adesso ci stiamo esercitando. Stando alla Filosofia della Libertà, soprattutto la 1° parte, il concetto puro di uomo è quello spirito che crea pensando nel vincere l’inganno della percezione. Ecco l’uomo!

E questo non vale per nessuno spirito angelico e per nessuno spirito della Trinità; vale soltanto per lo spirito umano; quindi è l’essenza dell’uomo.

PAOLO: Però è vero e non è vero, Pietro, perché questo tuo concetto tralascia per esempio tutta la sua parte fisica, non mi dice niente del suo corpo!

A.: È la percezione! È tutto elemento di percezione, te l’ho messo nel concetto in un modo centralissimo!

PAOLO: Nel concetto ho la parte spirituale.

A.: E no, eh! E non eh!

PAOLO: Come no?

A.: Hai la parte spirituale come superamento dell’inganno della percezione; perché tu stai presupponendo che il fisico sia una realtà. Sei un bravo materialista!

PAOLO: No, il fisico è pieno di concetti: il fegato viene da un concetto del fegato, per cui c’è tutta una parte spirituale.

A.: Ma è un fegato umano soltanto nella misura in cui serve a questo spirito che crea pensando, superando la percezione. Quindi dev’essere incarnato per superare la percezione, e per essere incarnato ci vuole anche il fegato.

Quello che voglio dire – adesso vogliamo essere onesti, sono cose molto importanti – trovatemi voi qualcosa dell’uomo che non sia compreso nel concetto che io ho espresso; non lo troverete mai! Perché c’è tutto il lato della percezione e c’è tutto il lato della creatività del pensare che trascende, supera, questo inganno della percezione; perché anche il fegato, come percezione, è un inganno. E allora tu devi reinserire il concetto di fegato nel concetto dell’uomo.

Oppure, lasciamo via il mio concetto di uomo, cos’è l’uomo secondo te? Dacci tu un concetto di uomo!

PAOLO: Io quello che penso è che certi concetti noi non siamo in grado di… ci vuole un lungo discorso per dare il concetto di uomo: non sono due parole.

Cioè un concetto così complesso richiede un lungo pensiero, non è un pensiero così breve. Come anche l’esempio della pianta, dell’albero, che è molto più semplice di un uomo, però per dare il concetto esauriente di albero tu devi fare un lungo discorso, un lungo sentiero, perché non è un pensiero così breve, perché contiene tantissime percezioni, per cui di tutti gli elementi della percezione io devo trovare un concetto e poi metterli tutti insieme e questo richiede un pensiero molto vasto.

A.: Allora non avresti il diritto di usare già il concetto di albero se non hai ancora finito di raccogliere tutta la fenomenologia di percezioni dell’albero.

Perché la tua riflessione dice: io posso arrivare ad un concetto soltanto per risultato cumulativo che è passato per tutta la fenomenologia, per tutta la percezione, per tutto il dato di percezione.

Allora non dovremmo avere nessun concetto, perché le percezioni sono tuttora in corso.

Domanda: di quante percezioni hai bisogno per cogliere il concetto di triangolo?

PAOLO: Embè, qualcuna sì, eh!

A.: No, no, per avere la rappresentazione devi avere la percezione, ma per avere il concetto di triangolo non hai bisogno di nessuna percezione! Basta il concetto!

PAOLO: Come: non posso avere nessuna percezione?

A.: Per avere il concetto… nella Filosofia della Libertà c’è…

PAOLO: Come faccio ad avere un concetto senza percezione?

A.: Certo che è possibile, certo che è possibile! Nella 1° parte della Filosofia della Libertà c’era questa frase che diceva: si può avere il concetto di leone senza mai aver percepito un leone; invece non si può avere la rappresentazione di un leone senza averne avuto la percezione.

Un esercizio che va rifatto sempre di nuovo; tu dici giustamente: è la coscienza che chiede, come dire, che vuol giustificare ciò che compie. Tu dici: ma come è possibile avere il concetto di leone senza aver mai percepito un leone?

È possibile!

PUBBLICO: È stato fatto l’esempio del cieco che può avere il concetto di leone; altrimenti il cieco non dovrebbe poter pensare.

PAOLO: Lei dice: se fosse vero quello che dico io, un cieco non potrebbe pensare! Non è vero! Questo non c’entra niente: lui può pensare benissimo, ma che lui abbia il concetto di alcune cose senza averne avuto la percezione è molto difficile per lui.

Abbiamo fatto un esercizio sui colori, una volta, mi ricordo: col blu e col rosso, no? Bellissimo, però un grande pensiero devo mettere in movimento per fargli avere il concetto di una cosa che lui non vede; mentre se io vedo il rosso, ho un’immediatezza, per una persona cieca io, per fargli avere qualcosa che vada vicino a un concetto di rosso, devo fargli un lungo discorso, perché se no lui non può cogliere la cosa che non vede.

A.: No, no, sta attento, quello che dici tu va subito integrato con la riflessione opposta; e la riflessione opposta, stando alla giustezza di quello che tu hai detto, è pure giusta. La riflessione opposta dice: è molto più facile per un cieco avere il concetto puro di leone che non per uno che l’ha visto!

Perché, per uno che l’ha visto, la percezione e la rappresentazione si mettono talmente in primo piano che gli precludono quasi del tutto la via al concetto puro!

Se uno è cieco, non ha mai avuto la percezione, quindi non ha mai avuto la rappresentazione, se ci riesce, può farsi del leone soltanto il concetto.

Ma è più facile per un cieco! Prendiamo il triangolo…

PAOLO: No, prendiamo il leone, come dici tu; però per il concetto del leone che porta Steiner devi essere chiaroveggente per averlo!

A.: No, no. E no, eh!

PAOLO: E come no! Tu, guardando un leone, arrivi a quel concetto?

A.: No, no, no, sei proprio fuori!

PAOLO: E perché, scusa?

A.: Steiner dice: se uno scienziato di scienza naturale fosse penetrante a sufficienza, se avesse un pensiero di sufficiente penetranza, per cui è capace di leggere a fondo la percezione che ha, arriverebbe a quel concetto di leone.

LUCIANA: Ah, ma deve avere la percezione! Abbiamo detto di uno che non ha mai visto un leone; che non ha una rappresentazione del leone, per cui non ha neanche la percezione del leone!

A.: Sì, adesso lei ci ha portato fuori…

PAOLO: Non è vero, Pietro, non ci ha portato fuori perché lei in fondo ha ragione: senza la percezione come faccio a studiare il leone, come faccio ad arrivare a cogliere quello che tu dici che è un concetto quando mi manca la percezione, che è la “metà†che mi serve! Come faccio io, senza vedere un leone, senza la percezione del leone, ad arrivare al suo concetto? La percezione è la metà che mi serve per raggiungere l’altra metà, se vuoi; ma la prima metà la devo avere, come faccio ad avere un concetto senza la percezione?

A.: Certo che è possibile.

MAURIZIO: Devi superare l’inganno della percezione!

A.: Allora, supponiamo… questo è un esercizio difficile, però dobbiamo metterci con impegno; supponiamo che nessuno di noi qui ha mai visto un leone; né sui libri, né in realtà, nello zoo ecc., e quindi non ha la percezione.

Se non ha mai visto un leone – noi lo sappiamo come è fatto un leone – supponiamo che non l’abbiamo mai visto: quindi niente percezione e niente rappresentazione. La domanda non si pone finché non arriva qualcuno dal mondo di Marte, o dalla Luna, o da Venere, che dice: leone!

Era questo il tuo (Paolo) problema! A chi non ha la percezione, né la rappresentazione, il problema gli si presenta soltanto quando ode il concetto e chiede: cos’è?

Allora gli si dice: ah, tu non hai mai visto leoni, per fortuna tua!, perché allora ti posso, nella misura in cui sono capace, posso tentare di comunincarti il concetto di leone!

Parentesi: Il concetto di leone, secondo Steiner, se lo può costruire, sia l’uomo normale che percepisce fisicamente il leone – se il suo pensare fosse sufficientemente penetrante – sia lo scienziato spirituale che percepisce l’astralità ecc., ecc., cioè tutto quello che noi non percepiamo del leone.

Quindi Steiner dice soltanto che lo scienziato spirituale ha in più una percezione soprasensibile, ma sempre percezione è!

Quindi ci sono tanti veggenti che percepiscono la realtà sovrasensibile del leone, ma il concetto del leone non lo sanno creare, col pensiero!

I. 4: Lui l’aveva detto però! Cioè è possibile, accessibile a un veggente, a un chiaroveggente, a una persona che comunque sia divenuta in questo senso; che poi ognuno di noi lo possa divenire assolutamente questo sì; però una persona che ha già esperito…

A.: Noooo! No! Steiner ti dice: percepire l’astralità del leone mi serve tanto quanto percepire la sua fisicità! È una percezione tale e quale! Mi dà un frammento di ignoranza in più! Vado avanti soltanto se sono capace, in chiave di pensiero, di penetrare questa percezione e trasformarla in un concetto!

Quindi Steiner sottolinea sempre che, al ivello di immaginazione – quindi a livello di percezione soprasensibile – lo scienziato spirituale non ha nessun vantaggio rispetto all’uomo normale; è soltanto più ignorante: ha due mondi che ignora; e supera l’ignoranza soltanto pensando.

E questo lo può fare, sia lo scienziato che sta davanti alla percezione materiale – chiamiamola così – sia lo scienziato spirituale che sta davanti alla percezione soprasensibile. Percezione è percezione! È inganno qui e là!

I. 5: Scusi, lei ci sta dicendo che quando Steiner, per esempio, descrive gli esseri lunari, gli esseri elementari lunari, ci sta passando quello che è il concetto di un essere lunare, che noi non abbiamo mai né visto, né percepito. E ciascuno di noi si fa un’idea di cos’è un essere lunare in base a quello che Steiner era in grado di trasmetterci. È questo che ci sta dicendo?

A.: Soltanto nella misura in cui io sono capace di cogliere in chiave pensante i concetti che mi esprime.

Allora, adesso svolgo il compito: prendiamo un pensatore intuitivo a livello di scienziato naturale – ci può essere, non è proibito che ci sia! – .

Allora quello ti dice: guarda, io, il leone, l’ho osservato in tutti i minimi particolari, in tutti i suoi comportamenti – questa è la fenomenologia di cui tu (Paolo) dicevi – e arrivo, se io colgo l’essenza, ciò che è essenziale, a tutto ciò che è questa strutturazione di tutte le sue parti.

Sono tre gli elementi fondamentali: l’elemento della testa, dove è centrata un po’ tutta la sensorialità, poi il ritmo, il pulsare del sangue e della respirazione, e infine gli arti, quindi il metabolismo, la digestione con le forze di procreazione ecc.

E lo scienziato naturale dice: – nessuno glielo proibisce di arrivare a una comprensione pensante, a un penetrare pensante della fenomenologia percepibile complessiva, complessissima come giustamente tu dici, del leone – e dice: questo animale, chi l’ha pensato, chi l’ha costruito, chi l’ha architettato, deve avere avuto come concetto questo: io creo un animale la cui essenza è di essere… tutto il sistema del capo e il sistema delle membra è, diciamo, ausiliario rispetto al sistema respiratorio. È un animale che vive in tutto e per tutto nell’elemento ritmico; e se io gli chiedo: ma tu come fai a saperlo?

Guarda, lui mi dice: tu puoi studiare tutti – magari è un Darwin, che ha fatto questi studi all’infinito – puoi studiare tutti i leoni di questo mondo, tu ti accorgerai che nel leone è essenziale che il rapporto 4 a 1, della respirazione e del sangue, sia i più perfetto possibile.

Quando sgarra, quando il rapporto si sposta di un minimo, per il leone la cosa diventa insopportabile; e il leone non mangia per ricostruire il suo corpo, mangia soltanto per ristabilire la perfezione del rapporto ritmico 4/1. Ed è questa perfezione che gli ricostruisce l’organismo, e nel momento in cui questa perfezione di 4 a 1 è ristabilita, non mangia neanche un pezzettino di carne in più!

Che poi tu dica: ci vuole uno scienziato naturale di una certa levatura di pensiero per cogliere l’essenzialità del concetto!

Cioè il concetto è ciò che è essenziale alla cosa: questa è essenziale al leone, il resto è accessorio, il resto serve a questa cosa che è centrale, che è essenziale.

Lo scienziato spirituale ti conferma, ti dice: se tu guardi l’etericità, quindi le forze vitali, che sono sovrasensibili, però a un certo livello di cammino spirituale si possono percepire; se tu guardi l’astralità, quindi, diciamo, la voracità del leone che sbrana ecc., arrivi esattamente a questo stesso concetto.

Quindi il concetto di leone è il concetto puro di un animale nel quale i due elementi, del sistema neurosensoriale e del sistema del ricambio metabolico, sono fatti per essere da base alla perfezione assoluta, che nessun altro animale ha così perfetta, del sistema ritmico.

Questo è il concetto puro di leone.

Adesso ti chiedo: si può comunicare questo concetto, in modo che anche lui lo pensi, a un cieco che non ha la percezione?

Certo che si può! Certo che si può: lui ha il concetto di leone!

LUCIANA: Sì, ma il nostro problema era questo: siccome tu hai detto: si può avere il concetto senza la percezione… allora tu hai cominciato: immaginiamo che nessuno di noi ha visto un leone e che nessuno di noi ha mai sentito parlare di leone; come possiamo arrivare all’essenzialità del concetto che hai detto?

Non ci arriveremo mai! Per cui non è possibile farsi un concetto senza prima aver avuto la percezione – non parlo di rappresentazione – . Che poi io possa pensare il concetto che tu ci comunichi, questo siamo d’accordo; ma che lo possa fare io autonomamente, non vedo come! A meno che non sia Dio!

ARCHIATI : Vedi che non è puro il tuo discorso. Colui che ha creato il leone, il Logos che ha creato il concetto, dove ce l’aveva la percezione?

LUCIANA: Infatti ti ho aggiunto: a meno che non sia Dio! Me lo devo inventare!, infatti prima ho detto.

A.: No, sta attenta che nel vangelo di Giovanni c’è: voi siete dei!

LUCIANA: Ah,eh!

A.: Eh, ma lo dicevo prima: la vertigine dell’essere creatore!

LUCIANA: Appunto prima ho detto: me lo devo inventare!, cioè lo devo creare; se no non me lo faccio.

I. 6: Volevo dire una cosa: allora, si sta parlando sempre soltanto di rappresentazione; cioè percezione e rappresentazione: leone, triangolo, qualunque altra cosa diciamo materiale; lo stesso discorso non si può fare legato, ad esempio, ai sentimenti?

Ci sono dei concetti: l’amore, la rabbia, sono cose che né vediamo, né tocchiamo e poi, cos’è che è legato al sentire?

Lo stesso sentire, secondo me, porta poi al pensare a noi, in quanto uomini, in base a quello che noi vediamo e che noi viviamo; a quello che in realtà sentiamo di essere e che non riusciamo a riconoscere, proprio perché abbiamo questa illusione della materia.

Oggi come oggi, se stiamo studiando quello che scrive Steiner, se stiamo arrivando proprio perché ci concentriamo col pensiero, col pensare, a una realtà che noi sappiamo che c’è, ma che ancora non la vediamo. Io penso che si possa fare anche questo tipo di discorso.

A.: Il problema è che trattandosi di cose un po’impegnetive, la lavagna ci aiuterebbe un pochino…

LUCIANA: La lavagna ce l’avremo domani.

A.: Allora, ci provo: supponiamo che uno… adesso io arrivo al concetto di leone, senza il leone – questo volevi tu (Luciana) – . Ci arrivo! Supponiamo che una persona parta dall’uomo. Detto fra parentesi, tutto il creato, tutto il mondo della percezione è un’estrinsecazione dell’essere dell’uomo. Parentesi chiusa.

Allora: nel mondo animale – il concetto di animale c’è, il concetto di leone non c’è, d’accordo? – nel mondo animale vedo, trovo, come dire, dei frammenti unilaterali di ciò che nell’uomo invece è armonizzato in una certa sintonia.

Allora dico: fa parte del concetto dell’uomo che nell’uomo questi tre sistemi fondamentali, che sono distinti, però sono articolati, organizzati in una unità, l’uomo si caratterizza per una certa armonia di questi tre sistemi.

Perché se il sistema neurosensoriale mortificasse, dominase, esuberasse, in tutto e per tutto, sul sistema ritmico e sul sistema metabolico, non avremmo l’uomo!

Allora dico: se nell’uomo c’è l’equilibrio di questa trinità, vuol dire che negli animali – dico animali, eh!, quindi se salta fuori la parola leone fatevi sentire subito; non deve saltar fuori! – allora dico: probabilmente negli animali avremo delle parzialità; avremo quindi: un terzo di animali dove l’elemento del sistema sensoriale domina in assoluto, perché è il loro elemento in cui vivono – gli uccelli – e dove il sistema respiratorio e il sistema metabolico fanno da sostegno.

Poi ci sarà, ci devono essere degli animali in cui il sistema della digestione, il sistema metabolico domina, e tutto il resto fisiologicamente nella costituzione dell’animale è fatto in vista di questa attività principale.

E ci deve essere un terzo tipo di animali nei quali il sistema neurosensoriale e il sistema digestivo metabolico fanno da sostegno, perché questi animali vivono, per loro natura, in quell’elemento che predomina sugli altri due, che è quello ritmico.

E tra questi animali, se il concetto viene pensato nella sua purezza, ci deve essere un animale che è perfetto in questo dominio del sistema ritmico sugli altri due e perfetto nell’armonicità di tutto il suo essere; nel vivere più perfettamente più di tutti gli altri nel sistema ritmico.

Oh! Oh! Ma tu mi stai parlando di una cosa che gli esseri umani ne parlano da tanto tempo!

Sì? Mai sentito!

Parlano di leone!

Ah, parlano di leone?!

Luciana, ti ho creato il concetto di leone senza che ci fosse la parola leone!

Quindi dico: quello a cui sono arrivato…

LUCIANA: Per ipotesi!

A.: No, no, no, per disamina dell’umano! Sono partito dal concetto di uomo, da questa armonia della triade fisiologica. E partendo dal concetto di questa armonia ho creato altri tre concetti di animali in cui predomina l‘uno, predomina il tre e predomina il due! E adesso mi si dice: guarda che questo concetto di animale in cui predomina, ma con perfezione, il sistema ritmico, questo concetto è già stato pensato da colui che ha creato il leone!

E io dico: ah, mi fa piacere saperlo!

LUCIANA: Però sei partito dalla percezione uomo. È solo il creatore…

A.: No, no, no, adesso sii sincera: qual’era il mio concetto di uomo?

LUCIANA: Che pensando crea.

A.: Hai detto solo la prima metà!

PUBBLICO: Superando l’inganno della percezione!

A.: Quindi ci vuole la percezione! È quello spirito che pensando crea, superando l’inganno della percezione. Quindi senza la percezione non hai l’essere umano.

PAOLO: Per cui tutta la forma del leone è accidentale!

A.: Certo, certo!

PAOLO: No, perché l’inganno della percezione è proprio questo che nel concetto… quello che inganna sempre è che tu nel formulare un concetto non riesci a prescindere dalla sua forma! Perché, in fondo, se il leone è fatto così, ci deve essere anche tutto il concetto del suo corpo con la criniera e con la coda!

A.: Ma cos’è venuto prima?!

PAOLO: Eh, certo, hai ragione! È quello che imbroglia, è un vero imbroglio quello della percezione!

A.: E perciò ho detto: vincendo l’inganno della percezione!

Secondo me in questo concetto di uomo non ci manca nulla. Perciò è un concetto puro.

I. 7: Quindi noi avremo la possibilità di avere un concetto del leone, senza averne una rappresentazione.

A.: Non esiste un concetto di leone, esiste il concetto di leone.

I. 7: Bene: allora, il concetto di leone privato della sua rappresentazione; perché se io non lo percepisco, non ne ho la rappresentazione, no?

A.: Però il punto di partenza che porta lo spirito umano pensante a creare il concetto di leone, il punto di partenza dev’essere sempre il superamento dell’inganno della percezione; però non deve essere l’inganno della percezione del leone, perciò io sono partito dalla percezione dell’uomo!

I. 7: Ribadisco: io resto privato comunque della rappresentazione del leone; ne avrò un concetto, ma non ne ho la sua rappresentazione.

A.: È una privazione?

I. 7: Non ce l’ho!

LUCIANA: Si può creare il concetto di leone senza che esista nessun leone.

A.: Ma lui (interv. 7) dice: adesso però, se mi manca la rappresentazione sono carente!

LUCIANA: Beh, no, non ha detto carente, gli manca; ha detto: resto privato – non nel senso negativo – cioè non avrà la rappresentazione.

I. 7: Ho detto solo che non ce l’ho!

A.: Allora, questa dinamica del dentro e del fuori, maggiormente spaziale, nell’XI° capitolo: “lo scopo della vitaâ€; diciamo: il senso della vita, lo scopo del mondo, la destinazione umana, si riferisce al tempo.

La vita ha uno scopo, una meta, un fine?

LUCIANA: La vita, o l’incarnazione?

A.: O l’individuo?

LUCIANA: Puoi rifare la domanda!

A.: La domanda è: ci sono degli scopi, dei fini da raggiungere?

Domani poi entreremo nel merito…

MAURIZIO: Ma chi, dei leoni o degli uomini?

PUBBLICO: (Risate!)

A.: Dell’uomo … Adesso siamo all’XI° capitolo, abbiamo cambiato registro. Ci sono due realtà fondamentali: c’è la natura e c’è l’uomo – parlavamo prima delle leggi di natura – . Nella natura, stando alle percezioni che noi trasformiamo in un concetto, c’è un operare in base a causa ed effetto.

Ora il concetto di causa e il concetto di effetto sono due concetti temporali, nel senso che la causa, per essere causa, deve sempre precedere nel tempo l’effetto; e l’effetto, per essere effetto, deve sempre venire dopo la causa.

Piove! La causa è la pioggia: la strada diventa bagnata, e l’effetto viene dopo.

Agire in base a scopi è l’opposto! Ciò che viene dopo causa ciò che viene prima!

MAURIZIO: È la fisica quantistica praticamente, che è l’effetto che genera la causa.

A.: Però se noi usiamo, in questa inversione di marcia, i concetti di causa ed effetto diventano impuri, perché sono puri se riferiti ai fenomeni di natura.

Quindi, nella natura c’è causalità: cause che causano i loro effetti; ma nel comportamento umano c’è finalità, non la causalità. Causalità e finalità.

Causa, causa l’effetto: siamo nella natura! Quindi non usiamo questi concetti che diventano impuri riferiti all’umano; qui parliamo di finalità.

Nell’uomo il fine – che viene alla fine! – causa ciò che viene all’inizio. Quindi ciò che viene dopo è la causa – tra virgolette la “causa†– di ciò che viene prima.

MAURIZIO: E ma una volta hai detto: campa cavallo!, rispetto al fatto che… adesso c’è questo fatto del fine; uno lo può concettualizzare con tutta l’immaginazione che ha, ma…

A.: No, ma guarda che io, oggi, mi sono riproposto di andare allo stadio a vedere una partita di calcio: questo è il fine che voglio raggiungere, altro che “campa cavallo che l’erba cresceâ€!

Mangio, mi metto in moto con la motoretta, o con la macchina; faccio tutto quello che c’è da fare per raggiungere questo scopo, capito! Lo scopo è quello di andare allo stadio! Però, che cosa mi muove?

Ciò che è futuro, ciò che ancora non c’è!

Quindi, ciò che avviene dopo – la partita di calcio – causa ciò che io faccio prima.

MAURIZIO: In questo senso sì; io vedevo il fine proprio quello grosso!

A.: Quello grosso! Lascia perdere! Vale per ogni fine.

LUCIANA: O piccolo o grosso, il processo è sempre lo stesso.

A.: Il concetto è sempre lo stesso! Quindi prendiamolo a livello percepibile, in modo che lo capiamo bene.

Questo agire in base a fini da raggiungere, che si realizzano a livello di percezione nel futuro, però, a livello di rappresentazione ci sono già adesso; perché se io non ho la rappresentazione della partita di calcio, non faccio tutto quello che c’è da fare per andarci.

Quindi, cos’è la causa che agisce, che opera nell’uomo?

La rappresentazione del fine che vuol raggiungere!

Ora, agire in base a rappresentazione di uno scopo, di un fine da raggiungere, ce l’ha soltanto l’uomo!

E ogni parlare di un Dio che ha creato l’uomo “allo scopo diâ€, è un puro antropomorfismo campato per aria! Puro ricatto all’essere umano!

Quindi la rappresentazione del fine che muove la gente a raggiungere il fine, deve essere percepibile in colui che agisce, per via introspettiva.

Adesso aggiungiamo un’altra affermazione: non soltanto abbiamo la percezione di questa rappresentazione del fine da raggiungere – questa rappresentazione la percepiamo soltanto nell’uomo – ma in più, ognuno può percepire la rappresentazione di un fine da conseguire soltanto in se stesso!

La rappresentazione che un altro ha di un fine che lui vuol raggiungere, anche se me ne parla, posso io percepire la sua rappresentazione?

No, è escluso!

Perché può darsi che menta; può darsi che dica: io voglio raggiungere questo scopo, voglio fare queste cose, e invece mi vuol abbindolare e vuol fare qualcosa d’altro. Quindi io ho soltanto la percezione delle parole che lui mi dice, ma non della rappresentazione che c’è dentro di lui, di uno scopo che vuol raggiungere.

Quindi ognuno può sapere soltanto riguardo a se stesso ciò che vuole; guardando alle rappresentazioni che porta denro di sé; dei fini, degli scopi, che vuol raggiungere.

Ha uno scopo la vita? – Adesso facciamo lo scopo più grosso! – .

MAURIZIO: Io lo posso dire per me, mica lo posso dire per gli altri!

A.: La vita di una persona può avere soltanto lo scopo che questa persona gli dà. E se non gli dà nessuno scopo, non ce l’ha; perché non ha nessuna rappresentazione di uno scopo della sua vita, del senso della sua vita.

I. 8: Ma l’animale che ha fame, si muove per andare a cercare il cibo, no? Perciò fa quello che faccio io se voglio andare a vedere la partita di calcio.

A.: No! Altrimenti tu saresti un animale e l’animale sarebbe uomo!

Quindi tu chiedi: ma allora c’è una differenza fondamentale, essenziale, tra uomo e animale?

La domanda non è così semplice perché tutta la corrente del darwinismo, che poi è stata ripresa dalle scienze naturali, ha offuscato la linea di demarcazione in assoluto tra uomo e animale, e presenta l’uomo come se l’uomo fosse un animale un pochino superiore, un pochino più perfetto, più complesso.

Invece se torniamo ad Aristotele, ai veri pensatori, loro dicono: l’essere umano, il concetto di uomo, è un tutt’altro concetto che non l’animale. Sono due mondi del tutto diversi!

Allora – non so se tu c’eri – nella prima parte della Filosofia della Libertà, abbiamo fatto esercizi ripetuti, dove io alla lavagna ho dimostrato che l’animale non ha percezione!

I. 8: L’animale, la sua fame non la percepisce?

A.: No, nulla! Non ha nessuna percezione! Perché tu dici: ma non è che ha la rappresentazione di quel bell’osso che vuol mangiare, il cane?

La rappresentazione sorge soltanto in base alla percezione, e l’animale non ha percezione.

I. 8: Ha solo la fame!

A.: Eh, gli basta!

I. 8: Che lo muove e basta?!

A.: Sì, sì!

I. 8: Che lo fa muovere in un certo modo…

A.: Ha un’astralità che lo fa muovere…

I. 8: Verso il cibo.

A.: Sì!

I. 8: La caccia…

A.: Sì, perché se poi è un cane, l’annusa l’osso, eh!; anche da lontano, se no come fa a saperlo, anche senza averlo “percepito ocularmenteâ€.

MAURIZIO: Voglio rispondere al concetto dello scopo della vita. Secondo la mia opinione, già l’ho detto, un fatto personale singolarissimo, a prescindere da questo, però in generale, che potrebbe riguardare tutta l’intera umanità, sicuramente c’è un processo evolutivo che non conosciamo, che mi esprimo a cercare di trovare il concetto; è che io non riesco a capirlo.

A.: Lo scopo della tua vita è ciò che tu vuoi. Quindi la domanda è: cosa vuoi?

MAURIZIO: Sì: cosa voglio… ah, devo rispondere? Voglio avere un’evoluzione come crescita di conoscenza, mi sembra poco…

A.: Vedi che ce l’hai il concetto dello scopo della tua vita!

CARMINE: Come si pone la sensazione in rapporto a percezione e rappresentazione?

A.: La sensazione è una percezione introspettiva. Percepisco in me qualche cosa che sento, e parlo di sensazione. Sento freddo, è una sensazione?

È una sensazione: sento freddo; la percepisco in me.

CARMINE: Quindi è fuori-dentro, o no? Allora: percezione è sia quella di fuori, sia quella di dentro. E il corrispettivo di sensazione visto solo per il di fuori non esiste, non c’è.

A.: No, è la sensazione di un altro allora, quella fuori di te.

LUCIANA: No, forse voleva chiedere qual’è la causa che determina la sensazione. Se c’è una causa esterna che provoca la sensazione.

CARLO: Il freddo in quel caso.

LUCIANA: In questo caso ha detto: sento freddo; se non c’è freddo non c’è nemmeno la sensazione del freddo. Come la percezione; hai fatto quel parallelo.

A.: Sì, però se uno è malato può essere bello caldo, ma lui sente freddo.

LUCIANA: Epperò c’è la causa che è malato; la sensazione deve essere provocata da qualcosa.!

A.: Sia che io percepisca la percezione esterna, sia che io percepisca una rappresentazione dentro di me, sia che io percepisca una sensazione, è tutta percezione! E la dualità del mondo la supero soltanto quando creo il concetto di percezione, il concetto di sensazione, il concetto di rappresentazione.

Nel pensare il concetto di sensazione, sono io sensazione, così come nel pensare il concetto di triangolo sono io triangolo. Devo creare il concetto!

C’è qualcuno qui che vuol creare il concetto di sensazione?

LUCIANA: Eh, magari domani, visto che sono già le 10,30!

A.: È lo spirito umano pensante che percepisce la propria corporeità!

Nella rappresentazione percepisce la propria anima. La rappresentazione è un frammento di anima che io percepisco. La sensazione è un frammento di corpo che io percepisco.

CARMINE: È quello che Rosmini chiama il sentimento fondamentale corporeo?

A.: Certo! Che poi si esprime in 12 sensi diversi.

I. 9: È quel certo frammento di spirito quindi.

A.: No, di spirito che supera l’inganno della percezione. Della percezione a livello corporeo:sensazione; della percezione a livello animico: rappresentazione; della percezione a livello spirituale: i concetti pensati dagli altri. Per me sono percezione.

Eh, come il leone! Qualcuno mi dice: “leoneâ€; leone è un concetto! Però finché io non lo ricreo io, è per me una percezione di un concetto creato da altri. Perché uno mi dice: guarda che con la parola leone io non intendo dire una percezione, è un concetto! Però per me è una percezione.

Quindi io posso percepire a livello corporeo: sensazione; posso percepire a livello animico: rappresentazione…

LUCIANA: Anche sentimento!

A.: Certo! Sentimento …sentimento è un oscillare tra anima e corpo, eh!

LUCIANA: È un frammento animico anche il sentimento, no?

A.: Sì, ma oscilla col corpo però. Un sentimento non è possibile senza il corpo, perciò una scienza dello spirito, più scientifica, parla di tre componenti del corpo, tre componenti dell’anima e tre componenti dello spirito.

Quindi stiamo un po’ riassumendo, stiamo un po’ semplificando le cose.

Allora, l’unità di percezione a livello corporeo, noi la chiamiamo percezione; l’unità di percezione a livello animico la chiamiamo rappresentazione; l’unità di percezione a livello spirituale la chiamiamo concetto. Finché non creo io il concetto di percezione, il concetto di rappresentazione e il concetto di concetto, per me sono percezione tutt’e tre; restano esterne al mio spirito.

Basta così per questa sera?

Domani cominciamo puntuali con l’XI° capitolo. Dopo la pausa vi parlerò un pochino del cambio di registro nella casa editrice: adesso stiamo cominciando con le edizioni Rudolf Steiner; cose nuove!

Buona notte a tutti!

Sabato 4 febbraio 2012, mattina

A.: Auguro una buona giornata a tutti! Questa volta ci tocca dire proprio: karmicamente chi c’è, c’è e chi non c’è, non c’è!

Lo prendiamo come un fattore karmico, perché con la neve che c’è non si muove nulla! Qualcuno ha già minacciato che non ci sarà concesso di tornare in Germania perché non si potrà andare neanche all’aeroporto, e quindi saremo costretti a proseguire il seminario… Io ho detto: se dovrà succedere, io non mi faccio costringere da nulla, lo farò volentieri; e voi?

Ah, neanche voi costretti! Bene! Allora, adesso vedo che c’è la lavagna e con la lavagna risolviamo tutti i problemi di questo mondo!

Il capitolo X° parla del monismo; monismo significa unità; unità del mondo, unità dell’uomo, unità che supera…

LUCIANA: Tu l’hai definito (il monismo): concezione unitaria del mondo.

A.: Sì, questa definizione c’è anche nel testo; non è mia, è di Steiner; quando invento qualcosa io ve lo dico; il resto è di Steiner.

Allora, il cap.X°: il superamento dello spazio! Perché tutto ciò che è spirituale, tutto ciò che è reale – lo spirito è il reale – è oltre lo spazio.

Cosa intendiamo con “spazio� C’è qualcuno qui che in men che non si dica ci dà il concetto di spazio?

Lo spazio è l’inganno totale della percezione, del percepibile! In quanto inganno di esteriorità. Quindi, ciò che noi chiamiamo spazio – lo metto tra virgolette, perché cerchiamo un avvio di concetto di spazio – ciò che noi chiamiamo spazio intendiamo l’esteriorità delle cose.

Ora l’esteriorità è proprio l’inganno per eccellenza, perché le cose sono esteriori l’una all’altra soltanto nella percezione; e nella percezione cadiamo fuori dall’essere; nella percezione ci addormentiamo, saltiamo fuori dall’essere, per trovare la gioia di ritornare all’essere!; e allora lo spazio (disegna alla lavagna) qui: dentro e fuori, interno ed esterno; sono le categorie fondamentali dello spazio, perché senza una distinzione tra interno ed esterno non c’è spazio.

Un corpo materiale è… dicevano in latino: materia signata quantitate: la materia in quanto definita, determinata dalla quantità. Quindi deve essere quantitativo lo spazio; lo spazio è quantità. Senza quantità non c’è spazio, senza spazio non c’è quantità.

Ora , cosa vuol dire quanità?

Quantità vuol dire che c’è una misura: spazio e peso, quindi se io ho un cubetto di zucchero, la misura, cioè la quantità, significa che l’inizio e la fine sono esterni l’uno all’altra. Ecco l’esteriorità; o l’estensione. Ecco, un’altra parola è l’estensione – che poi l’estensione ci porta anche al capitolo XI° perché l’estensione ci porta anche al tempo, ché il tempo si estende anche, nel prima e nel dopo – quello è il capitolo XI° che dopo affrontiamo – adesso sto riassumendo il cap. X°.

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Ora, la concezione unitaria del mondo è il fare l’esperienza che, nel pensare, tutto ciò che si presenta nell’inganno della percezione come qualcosa di fuori, di estraneo al mio essere, ogni esteriorità, ogni essere fuori, è apparente, è un inganno; e nel creare il concetto io divento… non soltanto divento “uno conâ€, ma divento ciò che penso!

Sì, però mentre io sto pensando il concetto di leone, tutte le altre cose mi restano esterne!

Attendono che io… sono tutti momenti di inganno che hanno il senso di trasformarsi in un disinganno! Quindi mi riguardano soltanto come potenziali disinganni, quindi come inganni.

Quindi ogni percezione potenziale, possibile, che ancora devo avere – prima di tutto ce ne ho abbastanza: se trasformassi tutte le percezioni che ho in concetto, per lo meno incipientemente, avrei già abbastanza da fare, e non mi occupo di tutte le percezioni che ancora devo trasformare – però il concetto di percezione è ciò che è trasformabile in concetto! Punto e basta!

Quindi tutto ciò che potrebbe venirmi incontro come percezione è, per natura, trasformabile in un concetto. Se non è concettualizzabile non è percepibile. E questa è una gran bella cosa, eh!, se uno si rende conto di cosa significa.

Quindi tutto il percepibile è pensabile, è trasformabile in un concetto, se no non sarebbe percepibile.

E l’animale non può trasformare nulla in concetto perché non può fare nessuna esperienza di percezione – abbiamo fatto questi esercizi! – .

L’animale, il toro vede il panno rosso, percepisce il rosso?

LUCIANA: Vive il rosso!

A.: Il toro, se percepisse il rosso dovrebbe farsi il concetto, cioè dovrebbe dire cos’è la percezione, quindi dovrebbe diventare un uomo che dice: sto vedendo il rosso!

Quindi il rosso, astralmente… – ovviamente ci sono delle realtà che non sono solo soltanto fisicamente, sensorialmente, percepibili – il rosso influisce su tutto l’essere dell’animale, che però non ha la facoltà di pensare, quindi non ha la capacità di percepire, e lo determina a muoversi, tra l’altro in un modo non molto pacato, nei confronti del rosso.

Ma questo fenomeno, di come il toro reagisce di fronte al rosso, chiamarlo percezione significa proprio non aver capito nulla! L’animale, il toro, non ha alcuna percezione, perché percezione significa potenzialità di trasformazione in un concetto; la percezione è il trasformabile in concetto, altrimenti non è percezione.

Il concetto di percezione è ciò che è trasformabile in un concetto, altrimenti non è una percezione.

La sensazione… una sensazione è una percezione?

Soltanto nella misura in cui la sensazione, per esempio, di freddo la percepisco, posso trasformarla in un concetto.

Uno si sveglia e dice: mannaggia, fa così freddo!

Lo sentiva anche mezzo minuto prima, il freddo?

Sì, lo sentiva, ma non lo percepiva!

È importantissima questa distinzione. Eh, certo, il corpo lo sentiva prima tale e quale, il freddo!

Quindi, facendo questi esercizi, noi ci accorgiamo che la scienza dello spirito aiuta, proprio tantissimo, le scienze naturali a diventare più pulite. C’è un sacco di confusione di pensiero anche nelle scienze naturali. E una delle confusioni più micidiali è di attribiure all’animale una percezione. L’animale non percepisce: sente!

CARMINE: Posso avere la rappresentazione anche della sensazione? Cioè, se la rappresentazione è…

A.:…l’immagine mnemonica interiore. La rappresentazione è l’immagine mnemonica interiore della percezione.

ROBERTO: Posso averla per la sensazione? Chiedeva lui (Carmine).

A.: Sì, certo! Mica mi sono dimenticato la domanda! L’ha appena fatta!

In queste cose bisogna andarci piano perché bisogna distinguere e sottodistinguere. Allora, che immagine mnemonica c’è?

CARMINE: Di un sentire…

A.: No, no, no, sei via dall’immagine! E perciò ti è così difficile! La rappresentazione è un’immagine! La rappresentazione della rosa è l’immagine della rosa. Quindi, se io percepisco la mia sensazione di freddo, devo avere un’immagine della rappresentazione!

ROBERTO: La neve!

A.: No!, non la neve, quella non è una mia sensazione di freddo.

PAOLO: L’immagine è quella.

A.: No! tutto astratto non c’è l’immagine di quello che tu dici!

PAOLO: Come no! Del fatto che io ho avuto freddo; nella parola stessa c’è la rappresentazione!

A.: No, no, il pensiero deve essere più attento, dobbiamo esercitare l’attenzione del pensiero. Allora, vi ho portato questo esempio – che calza, proprio è ottimo per fare questi esercizi – di uno che, prima di svegliarsi, un minuto prima di svegliarsi, il suo corpo sentiva freddo, se no non si sveglia a causa del freddo. Quindi il suo corpo sentiva il freddo; il sentire il freddo, la sensazione di freddo c’era; e io vi ho detto: mancava la percezione!

Adesso si sveglia, percepisce, quindi concettualizza!, perché il percepibile, il percepito è un concettualizzabile! Noi lo facciamo così veloci che non ce ne accorgiamo, non ci rendiamo conto che: un conto è la percezione e un conto è la concettualizzazione.

Quindi mi rendo conto che sento feddo, ho la sensazione del freddo. Mentre io percepisco la mia sensazione di freddo, quali immagini di rappresentazione sorgono?

CARLO: Del mio corpo.

ROBERTO: Di quando mi stavo svegliando.

CARMINE: Possono essere i brividi che provo.

A.: Eeeeeh! Mi sono mosso, mi vedo, quindi nell’immagine mnemonica mi vedo che poi mi muovo, cerco di scaldarmi le braccia e le gambe ecc., ecc. Quella è la rappresentazione, che altro! Quelle sono immagini.

E queste immagini di come tu ti sei percepito, mentre sentivi freddo, ti restano nella memoria. E quella è la rappresentazione: è un’immagine mnemonica, non si scappa!

Perché la rappresentazione deve essere un’immagine, la rappresentazione è una fotografia; così come la percezione è una fotografia verso l’esterno, così la rappresentazione è un calco tale e quale, è una fotografia verso l’interno. Ma deve essere una fotografia; devo vedere me… tant’è vero che lei ha fatto così (ha mimato un brivido di freddo), quello andava vicino alla rappresentazione: mi vedo che tremavo!

Quindi, questo aver trasformato la sensazione di freddo in una percezione di questa sensazione di freddo, mi crea l’immagine rappresentativa.

ROBERTO: Scusa, noi la chiamiamo immagine perché ci stiamo riferendo al senso della vista, ma se sento una nota, io ho la rappresentazione della nota che si chiama immagine, ma la devo concepire come un… mi ricordo la canzoncina, perché se no…

A.: E lui ti chiede: che rappresentazione ho di me udiente?

ROBERTO: Va bene…

PAOLO: Ho anche la rappresentazione animica di cosa ho provato in quel momento, perché sopratutto in certe cose io ricordo l’emozione che ho avuto, cos’è successo nell’anima. E’quello il ricordo; un’immagine interiore, però di un vissuto. Rivivo la sensazione del freddo, del disagio del freddo, questo brivido…

A.: Quindi lui ti sta dicendo: siccome fa parte del materialismo che dei 12 sensi, l’occhio è stato sempre più privilegiato, quindi noi per avere, per cogliere la rappresentazione abbiamo bisogno, come uomini moderni, dell’occhio: devo vedere! – per la rappresentazione – . Però lui ti dice: per il ricordo non ho bisogno di un’immagine, basta che mi ricordi di come ero contento! Non c’è bisogno che sia un’immagine visiva, è una rappresentazione anche il ricordo, però è più difficile, è più evanescnte, perché l’uomo moderno, da materialista, ha messo l’occhio in assoluto in primo piano.

Uno sente un CD; adesso lui chiedeva: che rappresentazione ho di questa percezione uditiva? Ho avuto una percezione uditiva, adesso che rappresentazione ho, che rappresentazione mi è rimasta?

PUBBLICO: La melodia che ritorna.

Il CD che sta dentro.

Di una persona che è attenta alla cosa.

A.: Ri-odo interiormente la melodia!

PUBBLICO: Insieme al piacere che mi ha provocato.

A.: Quello lo devo risentire. Ora bisogna abituarsi a considerare rappresentazione interiore, quindi rappresentazione mnemonica, immagine mnemonica, anche l’udire, non soltanto il vedere. Perché per la maggior parte delle persone, questo riudire il CD, è inscindibile dal fatto di vedersi “di nuovo mentreâ€; quindi mi vedo! Ma, tiriamo via che mi vedo, cosa resta a livello uditivo?

Per l’uomo d’oggi la cosa diventa molto evanescente; però si può esercitare, si può esercitare.

Quindi ho la rappresentazione della melodia: una rappresentazione uditiva, che è molto più difficile da cogliere, perché: cos’è una rappresentazione?

Una percezione introspettiva!

Quando io ho la percezione introspettiva della rappresentazione di una melodia – quindi io ho la rappresentazione di una melodia: già difficile la cosa! – cosa percepisco io quando percepisco questa rappresentazione interiore di una melodia? Diventa molto difficile:

Perciò il primo gradino, anche nei mondi spirituali, è il gradino dell’immaginazione che riguarda l’occhio. Quindi: immaginazione è al livello del vedere fisico; invece il secondo gradino è l’ispirazione – adesso stiamo stampando conferenze di Steiner a Oslo, nel 1912, dove lui dice: la maggior parte degli iniziati moderni si ferma, anche la Blavatsky si è quasi soltanto fermata al livello di percezione di immaginazione; invece il livello ispirativo è la capacità di cogliere, di percepire rappresentazioni uditive.

ROBERTO: Coscientemente?

A.: Beh, certo! Una percezione non cosciente non è percezione, lo dicevamo prima: il toro ha una percezione incosciente, quindi non è percezione. È nel concetto di percezione che una percezione, essendo trasformabile in un concetto, ti dimostra che il pensare è presente, che è cosciente.

La percezione del freddo, la tua sensazione di freddo, la puoi avere soltanto quando sei sveglio! Questa è la coscienza!

ROBERTO: Assolutamente!

A.: E allora! Una percezione non cosciente non c’è mai stata! Perché mentre sei cosciente nella percezione, la percezione non c’è ancora; la percezione la realizzi soltanto quando ne esci. Quindi prima di uscire dalla percezione pura, la percezione è potenzialmente presente. L’unica realizzazione della percezione – perché realizzare significa renderla reale – è il concetto. Quindi se non trovi il concetto della percezione, la percezione non è reale, non è ancora avvenuta.

LUCIANA: Invece la sensazione no!

A.: La sensazione, quella c’è sempre. Dove c’è corporeo c’è sensazione.

CARLO: Quindi, Pietro, per l’odorato e il gusto, è più facile la rappresentazione!

A.: No, è più difficile ancora!

CARLO: No, perché io rivivo il gusto; per esempio, lo posso risentire. La famosa limonata di cui parla Steiner, no!

LUCIANA: Però tu rappresenti te che bevi, così come l’esempio della melodia: rappresenti te che stai ascoltando, quello ti è facile.

A.: Lo trasformi in immagine

LUCIANA: Eh, trasformi in immagine: sono io che sto ascoltando. Invece il processo corretto è trasformare in immagine la melodia, non io che sto ascoltando la melodia. E quello è difficile!

CARLO: No, l’odore e il gusto lo risenti come sensazione.

A.: E questo che tu stai dicendo è l’essenza del materialismo. L’incantesimo assoluto della percezione che, a livello dei 12 sensi, mette il senso della vista in primo piano assoluto.

Allora, questo era un tentativo adesso di… la concezione unitaria del mondo, il monismo, che l’essere umano, in quanto essere pensante, in quanto spirito che pensa e crea – che creando pensa e pensando crea, sottolineando: “ pensando crea†– adesso, il capitolo XI° riguarda il tempo, non lo spazio, ma il tempo.

Cap. XI°: il tempo.

Il tempo, così come prima c’era dentro e fuori adesso ci mettiamo le due categorie di prima e dopo.

C’è un prima e un dopo nel pensare?

LUCIANA: C’è un prima e un dopo nei pensati, non nel pensare.

A.: Pensare è un’attività: è l’autopresenza; fra prima e dopo c’è il presente, prima: passato, dopo: futuro e qui ci mettiamo il presente (inizia uno schema alla lavagna).

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Quindi il pensare è la presenza di spirito in assoluto: non c’è passato e non c’è futuro, perché ogni passato e ogni futuro sarebbe un’esteriorità.

Allora, c’è evoluzione, o non c’è evoluzione? C’è un prima e un dopo, o non c’è un prima e un dopo?

Questa (linea curva) è il tutto dell’evoluzione umana. Metteteci qui, dentro questa linea, parecchi millenni, parecchie incarnazioni. Prima: passato, spostato al massimo l’inizio; dopo, nel futuro, spostata al massimo, c’è la fine.

C’è un modo di rendere l’inizio e la fine presenti?

Certo! Uno sguardo d’insieme!

Che esempio prendiamo, concreto, che conosciamo tutti, di questo sguardo d’insieme che contemporaneamente è all’inizio, è alla metà, al centro – centro però è una categoria spaziale – il mezzo! Ecco: il mezzo, era questa parola che cercavo! – però anche questo è spaziale! – .

Datemi voi un esempio semplicissimo di questo sguardo d’insieme, dove ognuno di noi è all’inizio e alla fine e a metà, ecc.

PUBBLICO: La vita!

A.: No! troppo grosso!

PAOLO: Ogni giornata.

PUBBLICO: Un progetto.

A.: Bravo! Chi ha detto: progetto? Tu!? Ammappelo! È bravo soltanto chi ha detto quello che avevo pensato io!

(Risate!)

A.: Difatti io avevo pensato proprio questa categoria, perché secondo me è la migliore su cui esercitare questo schema. Perché la giornata non è un progetto, la giornata è un progetto potenziale; però diventa un progetto nella misura in cui io ce l’ho presente, alla mia coscienza, come inizio, come tutta una trafila, e dove vuol arrivare tutta questa giornata: la meta, il fine di questa giornata.

Quindi anche una giornata può diventare un progetto, ma non è necessario che lo diventi. Quindi, il concetto di progetto è di un’unità nel tempo, di un’unità di un’enormità di particolari nel tempo, così come nello spazio c’erano tante percezioni che noi avevamo; una sequenza che potenzialmente sarebbe frammentabile all’infinito nel tempo, di cui però il pensiero ne fa un’unità assoluta; perché ne conosce contemporaneamente intuitivamente la partenza, il fine e tutti i passi da fare.

Quindi io, per realizzare questo progetto, devo sapere la realizzazione, la partenza e tutti i passi da fare.

Questa struttura di evoluzione nel tempo, la possiamo cogliere con le categorie fondamentali delle scienze naturali, che sono scienza dello spazio, di causa ed effetto? Che ciò che è prima è causa e ciò che è dopo è effetto?

No! perché ciò che è dopo, la realizzazione, è la causa del tutto!

Quindi l’agire umano è l’inversione assoluta, l’opposto assoluto, della causalità nel mondo della natura, nel determinismo di natura.

Quindi nella causalità di natura, la causa sortisce l’effetto per determinismo di natura; nel regno della finalità lo scopo da raggiungere è la causa del tutto. Quindi il futuro è la causa del presente e del passato.

FOGGIA: Quindi l’inizio e la fine poi si congiungono.

A.: Certo, però nel pensiero che progetta è presente; ma il fine, in quanto realizzazione all’esterno, è ancora da venire!

FOGGIA: Però nell’idea, nel pensare è già presente!

A.: Sì, ma è lo stesso? È lo stesso il fine che c’è nella testa e il fine realizzato fuori?

FOGGIA: Non sempre!

A.: No, per natura non è lo stesso!

PAOLO: Si diluisce nella materia.

A.: Noo! Mi sono ripromesso, ho colto lo scopo di regalarti 5000 euro e ce li hai già! Perché io son già alla fine!

I. 1: C’è un baco in questo ragionamento.

A.: C’è un…?

ROBERTO: Un “baco†in termini informatici vuol dire un errore!

I. 1: C’è un errore in questo ragionamento.

A.: Eh, certo! Allora, per spiriti non incarnati il concepire il fine significa averlo! Invece uno spirito incarnato incarna le cose una dopo l’altra. Questo è il tempo!

Quindi io dico all’amico: guarda che finché io non li ho in mano i 5000 euro, del tuo scopo, del tuo fine di darmeli, non me ne faccio proprio nulla! Perché con la tua intenzione di darmeli non posso comprare nulla.

E quindi torniamo alla definizione dell’essere umano, che abbiamo fatto ieri sera, che nella definizione dell’uomo ci deve essere il riferimento al mondo della percezione; perché è uno spirito incarnato.

Quindi il fine in quanto realizzato percepibilmente non c’è ancora quando io sono all’inizio, quando sono a metà, o quando sono due ore prima della fine.

Perché io ho sbuffato, sbuffato, sbuffato, per essere promosso all’esame – il mio fine è di essere promosso all’esame – ; adesso ci manca un’ora prima dell’esame, cosa ho realizzato io del fine?

Nulla! La promozione non c’è; perché magari un’ora dopo vengo bocciato!

I. 1: Volevo dire che non dobbiamo farci ingannare dal fatto che usiamo sempre la parola fine, sia come fine causante tutto il processo e fine come risultato finale.

A.: Realizzazione

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I. 1: Usiamo due vocaboli diversi, secondo me, per maggior chiarezza e diciamo che il fine causante è l’obbiettivo che io mi propongo di raggiungere…

A.: E come lo chiami? Che termini poi gli dài?

I. 1: Lo possiamo chiamare obbiettivo, lo scopo; e invece il fine realizzato lo possiamo chiamare realizzazione, risultato. Così è chiaro che sono due cose completamente diverse.

A.: La meta, il concetto di meta, in italiano, eh!, il linguaggio è anche questione di come i milioni che fanno parte di un popolo, sentono una certa parola.

C’è una meta soltanto pensata?

PUBBLICO: No!

A.: Ecco, lì è più chiaro, perché noi, l’italiano, lo spirito del linguaggio italiano usa la categoria di meta soltanto quando ci sei; tant’è vero che che noi diciamo: essere arrivati alla meta. Io non posso pensare la meta, posso arrivare alla meta.

LUCIANA: No, no, si può anche pensare alla meta; è come se fosse un sinonimo di progetto.

A.: Allora è un fine, uno scopo.

LUCIANA: Nel linguaggio italiano meta è anche nell’accezione di progetto.

A.: Arrivare alla meta… Sta attenta, però tu non dici spontaneamente: “mi sono riproposto come metaâ€â€¦

LUCIANA: Sì, come no!

A.: Se ci fossero toscani qui – questa volta con la neve non son venuti – i toscani non ce lo lascerebbero passare, secondo me, di usare la parola meta tale e quale come fine, come scopo. Perché si dice: è arrivato alla meta, non si dice: è arrivato allo scopo, è arrivato al fine.

PAOLO: Perché la meta è qualcosa di fisico. La meta è quando tu corri e arrivi alla meta. Il fine può essere una cosa spirituale.

A.: Esatto, proprio questo!

Quindi, il linguaggio ci dà degli indizi, perché lui diceva, il suo contributo era: allora dovremmo, a livello di linguaggio, distinguere un pochino meglio tra una meta, un fine, uno scopo che ho soltanto nel pensare, e uno scopo realizzato nel mondo percepibile.

E questo ci dice che la scienza dello spirito, man mano che la masticheremo, per natura dovrà arricchire il vocabolario con distinzioni sempre più minute; perché il pensare, finora, è stato dozzinale, non è stato preciso più di tanto.

Allora, il pensiero successivo è: che questo agire in base ad un progetto, in base ad uno scopo prefisso, è soltanto dell’uomo!

Secondo: ognuno ha soltanto le sue rappresentazioni degli scopi, dei fini, dei progetti, degli ideali che vuol raggiungere.

Terza affermazione: ogni tentativo di imporre le mie mete, i miei scopi, i miei fini ad un altro è un puro esercizio di potere; e ognuno che recepisce, che prende da un altro essere umano, che se li fa dare da lui gli scopi, ciò che deve raggiungere, il dovere, ciò che deve diventare, è una persona che non è ancora capace di crearseli lei gli scopi che vuol raggiungere. Non è ancora libera!

Quindi la tua vita ha, di volta in volta, di giorno in giorno, gli scopi, i fini, i progetti che tu gli dài. E se tu non glieli dài non ce ne ha; e se tu li prendi dagli altri hai preso i fini che ti hanno dato gli altri; della tua libertà sei responsabile soltanto tu, non gli altri.

Domanda: ci sono scopi comuni?

PUBBLICO: No!

A.: Ma come! Siamo in una scuola: lo scopo comune è l’educazione dei bambini!

PAOLO: Lo scopo comune è quando sei un bambino.

A.: No, stiamo parlando dei maestri.

PAOLO: Cioè, la fase comune fa parte dell’inizio di questo processo. Quando l’umanità è bambina si accontenta di insegnamenti esterni che sono preformati.

A.: No, no, no, stiamo parlando di un collegio di insegnanti adulti.

PAOLO: No, allora no!

A.: Allora, comune è la cornice che dà ad ognuno dei maestri – son 10 maestri, supponiamo – dà ad ognuno dei 10 di proporsi come scopo un tipo di educazione, un tipo di esperienza educativa, che è del tutto individuale e singola in ognuno. Due maestri sono due scopi educativi del tutto diversi; oppure uno copia l’altro e allora uccide la sua individualità.

Che scopo ha la mia vita?

Lo scopo della mia vita sono io stesso sempre in evoluzione; sono io che sono sempre all’inizio, sempre alla fine nel pensare; ogni giorno mi riprometto cose, progetti, ma sono sempre io.

Quindi il mio io pensante abbraccia sempre tutto, ogni progetto. Quindi lo scopo mio è la mia evoluzione, ma un’evoluzione del tutto individuale; nessuno può gestirla dal di fuori, neanche minimamente; “dal di fuoriâ€; così come l’agricoltore può mettere a disposizione delle pianticelle i sali, l’acqua ecc.

Dal di fuori si può permettere o si può rendere impossibile questa evoluzione, ma cosa alberga in me, quali cammini di pensiero, quali cammini di amore io farò non può essere gestito dall’esterno.

ROBERTO: Quindi si può parlare di scopo della vita dell’individuo, non dello scopo della vita in generale.

A.: No, non c’è! (lo scopo della vita in generale).

Allora, quindi prendiamo anche questo XI° capitolo… Il X°, l’XI° e il XII° sono in fondo il culmine della Filosofia della Libertà, perché poi il XIII° capitolo, quello più lungo di tutti, il valore della vita – il pessimismo, l’ottimismo e il pessimismo – è tutta una conseguenza dei capitoli precedenti – vabbè, il capitolo IX°, il concetto di libertà, è fondamentale – ma poi X, XI e XII… il XII° sarà, se la neve non ci permetterà di andar via, faremo anche il XII°, la fantasia morale.

Ora, se volete, il capitolo XII° – perché adesso ci stiamo ancora preparando – è il culmine della Filosofia della Libertà; perché in campo del pensare, il sommo dell’umano è l’intuizione conoscitiva; in campo dell’agire, in campo morale, il sommo dell’umano è l’intuzione morale. E qual’è la sorgente dell’intuizione morale?

C’è nell’essere umano la stessa sorgente che crea concetti conoscitivi: la stessa sorgente del pensare crea concetti di comportamento, concetti morali; crea progetti, crea ideali, ideali anche del tutto individualizzati, non soltanto generali, che valgono in generale; perché l’ideale della pace nel mondo è un ideale molto astratto. Però la fantasia morale è la capacità, in chiave di pensiero, di creare mille progetti, ogni giorno, mille progetti e i passi concreti che io “compio perâ€.

Cos’è “la pace nel mondo†nella mia vita?

L’armonia dei miei rapporti, dei rapporti che io ho: allora diventa concreto.

Quindi la sorgente pensante da porre alla base del comportamento, Steiner la chiama la fantasia morale; quindi l’intuizione morale, l’intuizione di un comportamento, di un modo di mettersi nel mondo, in rapporto col mondo.

Questa persona qui, che mi sta davanti, l’intuizione morale, la fantasia morale mi dice: mi comporto così, la tratto così.

Dando fiducia all’umano in me e all’altro e sperimentando di volta in volta, perché decido di comportarmi così?

Perché prevedo che, avendo percepito, essendomi creato il concetto della situazione complessiva nella quale mi trovo, la mia fantasia morale mi dice: questo tipo di comportamento sarà probabilmente quello che contribuisce maggiormente al mio cammino interiore e al suo cammino interiore.

E poi vediamo come reagisce, ecc., ecc.

CARLO: Dopo c’è la tecnica morale, anche.

LUCIANA: Beh adesso… poi ci dobbiamo arrivare.

A.: Quello è la realizzazione; perciò avevo detto subito: dopo vedremo come salta fuori e come lui reagisce ecc., no! Ci arriviamo però, fa parte maggiormente del XII° capitolo quello che tu dici; però, come piccola anticipazione ci mettiamo al fine, alla meta, però, in chiave di pensiero: nella morale c’è: primo gradino: un’intuizione morale, il “cosaâ€; poi c’è la fantasia morale: questo “cosa†diventa più concreto se io mi chiedo “comeâ€. Quindi la fantasia morale riguarda il “comeâ€, altrimenti non si concretizza, non si fa nulla; e poi il terzo gradino è la tecnica morale.

LUCIANA: Gli strumenti.

A.: Quello fa parte anche del “comeâ€; la tecnica morale… adesso io ci metto una categoria del tutto moderna – naturalmente si potrebbero tirar fuori tanti aspetti – il Mario Monti pochi giorni fa ha detto… Ogni volta quando Marco viene a prenderci all’aeroporto, quelle 3 o 4 ore che ci vogliono dall’aeroporto fino qua, lui ci ragguaglia di tutto quello che avviene in Italia; quindi io sono tutto fresco di notizie italiane. Dunque Mario Monti ha detto: il posto fisso, che dura per 50 anni, è noioso! Al che un sacco di gente s’è arrabbiata perché dice: ma come!

PAOLO: L’ha detto in un modo carino invece, perché non ha detto: non ci vuole un posto fisso; è stato frainteso da tutti perché l’ha detto in un modo come dire: beh insomma, è caduta questa cosa che…

A.: Se invece noi diciamo che di persone che cercano il “comodino†ce ne sono in Italia, abbiamo capito tutto, no!; che c’è bisogno di tante spiegazioni!

È quello che voleva dire l’affermazione, che il posto fisso rende fisso te, capito!

Perciò io, fra le tante cose che potrei mettere qui, ci metto la “flessibilitàâ€.

La tecnica morale è l’arte di essere flessibili. È un adattamento, un adattamento continuo a secondo di come il mondo reagisce al mio comportamento.

IL MONDO MORALE:

1 - IL COSA: L’INTUIZIONE MORALE

2 - IL COME: LA FANTASIA MORALE

3 – FLESSIBILITA’: LA TECNICA MORALE

I. 2: Flessibile, però in un quadro di certezze!

PAOLO: Continuare ad adattarsi a quello che succede. La contrattualità ininterrotta.

A.: Lui dice – poi è interessante che non è la persona più giovanissima che ci sia, che lo dice! Importante! – lui dice: però in un quadro di certezze! Flessibilità, però in un quadro di certezze.

Quali sono i parametri insindacabili, irremovibili, che ti danno la certezza? Quali? Il soldo? Che cosa?…

I. 2: No, macché soldo, sono da valutare…

A.: Dimmene uno!

I. 2: Il fatto di poter contare… la mattina di non trovare a confrontarsi con una persona che quella mattina ha la luna di traverso, che ti mette in difficoltà, ti fa rapporto, ti licenzia…

A.: E se tu muori? Se tu muori due ore prima?

I. 2: Beh, pazienza!

A.: No, tu hai detto: certezze nella flessibilità; in un parametro di certezze…

I. 2: Sì, nulla di particolare. Non dover sottostare all’umore del mio capufficio, per esempio.

A.: Dice: che io non debba sottostare all’umore del mio capufficio…

MAURIZIO: Se non c’è ricatto va bene tutta la flessibilità di questo mondo.

I. 2: Io cambio anche città. È che spesso sono rapporti interpersonali; lì la questione è complicata.

A.: Allora diciamo: è tutto comprensibile quello che stiamo dicendo, psicologicamente è comprensibilissimo. Diciamo che la traiettoria dell’evoluzione è che siamo in cammino, è di acquisire spazi di libertà tali che vincono ogni paura!

Però non possiamo pretendere da nessun altro che non abbia paura di nulla! Questa paura esistenziale è legittima, ce l’abbiamo tutti. Nella misura in cui l’essere umano è sempre più ancorato e vive sempre di più, ma realmente, in ciò che è libero in assoluto, e quindi affidabile in assoluto, perché non fa mai cilecca, si può permettere di vivere in un mondo dove non c’è alcun affidamento. E allora è libero!

PUBBLICO: Non ho capito.

A.: Nessuna certezza, nessun dato su cui puoi contare: Perché che cosa c’è nel mondo percepibile su cui puoi contare in assoluto?

Nulla!

È nel concetto di percezione!

Però, tu dici giustamente, il tuo contributo è: però noi facciamo come se fossimo già arrivati a queste mete, grosse, dell’evoluzione!

Teniamo presente che siamo in cammino! Quindi Mario Monti in fondo voleva dire che probabilmente tutti questi problemi che ci sono in Italia è perché forse c’è un sacco di gente che è diventata un po’ troppo comoda. Questo vuol dire! E del tutto sbagliata non sarà l’affermazione, perché è nella natura umana di diventare comodi, a meno che uno non si dia una mossa.

I. 3: Però lui è senatore a vita!

A.: Quindi vedete che la politica… io pensavo che me la lasciavate passare questo riferimento alla politica italiana! Quindi in campo di politica non li risolviamo i problemi, perché la politica non può essere pulita, soltanto il pensare può essere pulito in assoluto. Perché se lui è senatore a vita, giustamente tu dici: il seggiolino ce l’ha assicurato; allora cosa vieni a predicare a noi di essere flessibili? Giusto! È giusto.

Allora, l’avete capito questo piccolo contributo conoscitivo, che non c’è tecnica morale, quindi non c’è, diciamo, l’arte di realizzare ciò che io mi propongo, il cosa, il modo in cui io mi propongo – però il modo è il modo mio – . Invece la tecnica morale prende sul serio il come del reagire del mondo nei miei confronti; e quello lo devo prendere sul serio. Quindi è un riaggiustarsi continuo, capito!

Perché se io ho pensato, ho avuto l’intuizione di un colloquio, di una conversazione di un’ora con una persona – anziana, supponiamo – di come la vado a visitare, come spendo un’ora con lei; e poi quel giorno lì il suo umore è tale che mi manda a quel paese, allora io vado via.

Tecnica morale è fare i conti con il mondo; è la capacità di fare i conti col mondo.

I. 4: Quindi si può dire che nella realizzazione di finalità comuni, si può dire quindi che ogni individuo deve trovare i suoi scopi; cioè il modo come poi realizzare questo progetto…

A.: No, non soltanto il modo, anche il cosa! Non c’è un progetto comune! Un progetto comune è un’astrazione.

I. 4: Ma, fare una scuola, come hai citato prima…

A.: Non è un progetto, è una cornice…

I. 4: Ah, è un presupposto per…

A.: Perché ognuno ci metta un progetto suo!

I. 4: Ma deve anche funzionare, però, se è una scuola!

A.: Come?

I. 4: Deve anche funzionare; in questo senso è un fine.

A.: Deve?

I. 4: Insomma, sarebbe meglio funzionasse!

ARCHIATI. No, sei sicuro? E se funzionando rovinasse tutti gli alunni e tutti gli insegnanti?

Quindi non puoi mettere come scopo la scuola!

C’è soltanto uno scopo che è insindacabile: la realizzazione continua dell’individuo; perché questo scopo è la realizzazione dell’umano; e soltanto quello è insindacabile.

Quindi ogni scopo che io mi propongo è morale nella misura in cui è un frammento di autorealizzazione. Quello lo rende morale. Però deve essere un frammento di autorealizzazione.

E come l’altro maestro, in questa stessa scuola, si autorealizza, è tutt’altra cosa; perché lui deve realizzare un’individualità del tutto diversa dalla mia. È un karma, è venuto al mondo per vivere un karma tutto diverso dal mio.

Un’interazione con gli stessi alunni, però gli alunni sono gli stessi in quanto pezzi di materia; l’anima di questi alunni, la loro interazione con me è tutta diversa che non l’interazione con l’altro maestro. Quindi soltanto come pezzi di materia sono gli stessi alunni.

Quindi, nella mia ora di lezione queste anime degli alunni sono del tutto diverse che non nell’ora di lezione del maestro successivo. Quindi il materialismo fa delle astrazioni enormi, astrae dalla realtà concreta, perché vede soltanto la materia: la scuola è la stessa, allora hanno tutti lo stesso progetto, gli alunni sono gli stessi: hanno tutti lo stesso progetto… eh, no!, eh, no!

SCALIG.: La vera situazione della libertà non è lo scopo comune? Faccio fatica – coregga il mio pensiero – faccio fatica a individuare uno scopo comune.

A.: Non c’è!

SCALIG.: Perché la realizzazione della propria libertà…

A.: No, no, no, non è la libertà che si realizza, è l’individualità che si realizza; e questo è la libertà.

SCALIG.: Eh, la libertà…

ARCHIATI. Sì, ma la libertà è l’esercizio di continuamente realizzare la mia individualità. Quindi il realizzare la propria individualità è lo scopo universale, non comune! È lo scopo che hanno tutti, ma ognuno è diverso! Quindi il mio scopo è di realizzare la mia individualità, singola, irripetibile.

SCALIG.: Mi perdoni, anche in questo io applico il concetto del pendolo, vale a dire: entro nel mondo intuitivo dove ci sono tutti i concetti…

A.: Perché dici che ci entri? Non ci sei dentro? Cosa intuisci?

Qualcosa che vuoi fare! Il cosa, l’intuizione morale!

Allora io ti chiedo subito: cosa vuoi?

Voglio domani andare a una partita di calcio.

Ti chiedo io: perché lo fai?

Perché mi corrisponde: è un frammento di realizzazione del mio essere. Io sono un tipo a cui piace il calcio, questa esperienza l’ho già fatta tante volte e quando sono lì che vedo i giocatori ecc., mi piace!

Un frammento di autorealizzazione dell’individualità; e questo lo rende moralmente buono!

Se poi si picchiano e uccidono 70 persone, quello non può essere lo scopo degli individui di ammazzarsi; quindi quelli sono enormi frammenti di non libertà; ma finché una persona si propone qualcosa perché la sente dentro di sé, perché mi corrisponde, mi realizza…

Però tu dici: dopo la partita, o a 3/4 della partita, uno dice: ma chi me l’ha fatto fare!, quelli sono degli scalcagnati, non sanno neanche… ecc., ecc. Questa è la tecnica morale, che io non so già in partenza, non posso mai essere sicuro perché non so come sarà la partita. Non so se io avrò freddo, o avrò caldo, durante la partita, ecc., capito!

Quindi, siccome noi siamo in evoluzione, questo è il mistero del tempo! Il mistero del tempo è che io non posso anticipare il futuro a livello di percezione! Lo posso anticipare a livello di concetto di fine, di meta, ma non a livello di percezione.

Ora, nella misura in cui le percezioni mi vengono incontro, mi adatto alle percezioni; quella è la tecnica morale.

Adesso ritorno alla tua domanda – un passo dopo l’altro – vedrai che siamo andati un passo più avanti. Qual’era la tua domanda?

SCALIG.: Faccio difficoltà a non vedere un comune progetto degli uomini; un comune progetto che è molto legato al concetto di essere uomo: quello di essere uno spirito incarnato che crea pensando, superando l’illusione, l’inganno del mondo percettivo.

Lo capisco nella modalità, la necessità dell’esperienza individuale; tant’è vero che c’è la creazione dell’individualismo etico; però io applico il concetto del pendolo: la mia esperienza, nel mio progetto personale, io lo riporto nel mondo intuitivo dove attinge anche l’altro.

A.: Adesso faccio un’altra riflessione, poi lasciamoci accompagnare dal testo altrimenti le cose diventano un po’ stratosferiche.

Tu dici giustamente, prendiamo adesso la tua riflessione dal lato che dà un contributo, tu dici: prima di tutto il mondo della percezione è un mondo d’inganno, è destinato a venir sciolto, superato, attraverso l’inuizione; e in fondo tu dici: ma allora, prima o poi ci viene a mancare il mondo!

Perciò il versante morale, il versante dell’agire è quello opposto: quindi, così come il pensare è la libertà che io mi prendo di distruggere il più possibile di percezioni, così il morale è il coraggio di creare percezioni all’infinito; perché la mia azione, in quanto percepibile per te, la creo io!

Quindi il risvolto morale è far sì che il mondo della percezione non sparisca prima del necessario.

SCALIG.: Infatti la nostra evoluzione la possiamo fare fin quando siamo in questo campo percettivo.

A.: Esatto! Dobbiamo tornare sulla terra!

SCALIG.: Quando è finito noi ci portiamo dietro solo quello che abbiamo fatto.

A.: Quindi pensare significa distruggere percezioni – tra virgolette – e agire significa creare percezioni. E questo può aiutare. Non è che sono soluzioni, sono avvii di pensiero e servono nella misura in cui io li uso come…

Quindi la tecnica morale sta nel fatto che ognuno di noi “sfornaâ€.

I passi che io sto facendo qui – anche se non ci penso, io sto facendo dei passi – sono tutti frammenti di percezioune che creo io; prima che io li compia, questi passi non ci sono! E ognuno di voi, anche se subliminarmente, anche incoscientemente prende posizione. Quindi la tecnica morale è di gestire un mondo dove ogni agente umano sforna all’infinito percezioni nuove, che non ci sono mai state prima.

Perché, questo nipote che va a trovare la nonna, dicevo, va a trovare la nonna per passare un’ora di conversazione con la nonna; i pensieri che lui espone, cosa sono per la nonna?

Percezioni nuove di cose che prima non c’erano mai state! Le parole che lui dice sono percezioni che, nel mondo, prima non c’erano mai state. E la tecnica morale è l’arte di gestirle, in libertà.

Allora, vogliamo partire con l’XI° capitolo, quindi: lo scopo del mondo e lo scopo della vita, e della destinazione umana.

(XI, 1) Fra le molteplici correnti della vita spirituale dell’umanità, dobbiamo seguirne una in particolare, che si può chiamare il processo per superare il concetto di finalità nei campi in cui esso non è al suo posto.

In altre parole Steiner vuol dire: siccome l’essere umano, ognuno di noi in quanto individuo, agisce sempre, in tanti modi, in base a finalità, non si accorge che lui attribuisce finalità al Padreterno: il Padreterno mi ha creato “allo scopo diâ€, la Chiesa ha “lo scopo diâ€, lo Stato ha “lo scopo diâ€, ecc., ecc.

Quindi l’essere umano estrapola questa autoesperienza di essere uno spirito che in campo morale agisce secondo finalità – mettiamoci qui, bella grossa la parola “finalità†– e, come dire, inquina la morale, la rende impura, lasciandosi ricattare da un sacco di rappresentazioni false – che poi sono estrapolate dal mondo della percezione – di esseri estranei a me, che dovrebbero avere dei fini da raggiungere, voler raggiungere dei fini, o che gli mettono in testa che io sono stato creato percerti fini che un altro ha appiccicato al mio essere.

E l’affermazione del capitolo è che non ci sono scopi e fini del mio essere, che vengano dal di fuori del mio essere, tutti gli scopi e i fini del mio essere possono venire soltanto dal mio essere stesso, altrimenti sono scopi e fini di un altro essere.

E qual’è in fondo lo scopo e il fine del mio essere?

Il mio essere!!!

Che si realizza però, a mano a mano, nel tempo! E questo rende complessa la cosa! Nella misura in cui io, in chiave di pensiero, in chiave di progetto, anticipo sempre di più tutta la potenzialità dell’umano e tutta la potenzialità dell’umano in quanto al modo in cui si individualizza in me, sarò sempre più profondamente alla fine della mia evoluzione.

Quindi avrò sempre più ricco il concetto dell’io, del mio io; e allora avrò sempre di più lo sguardo d’insieme. E avrò sempre di più la possibilità di collocare ogni piccola meta, ogni piccolo progetto, in questo grande progetto di diventare quell’io singolo, irripetibile, individuale, che io sono potenzialmente.

Che stai facendo?… Qual’è la risposta più bella?

Sto realizzando me!

Una risposta più bella non c’è! Una risposta più morale non c’è. Perché la somma del bene morale è la realizzazione dell’individuo.

LUCIANA: Sto “cercandoâ€! È più realistico.

A.: No, è un ricatto morale! Perché questo cercare è la realizzazione dell’io! Perché un io umano che non cerca non c’è mai stato.

È proprio la tecnica morale, perché, che significa: sto cercando?

L’io, l’io veramente non cerca affatto; cerca di fare i conti meglio che può col mondo. Quindi questo cercare, che tu adesso vorresti mettere su tutti e tre i livelli, c’è al livello della tecnica morale.

Se invece è un cercare a livello delle intuizioni morali, allora non ho ancora trovato il mio io, quindi non sto neanche cercando.

Quindi, in fondo, è la voce della Chiesa cattolica che ti dice: sì, dài, stai cercando, eh! Però per vedere se stai cercando bene o male devi andare dal confessore, lui te lo dice poi se hai cercato bene o se hai cercato male.

Come sono profondi i ricatti dell’io, i ricatti della libertà: è incredibile!

Il cercare è la realizzazione dell’io! Un’altra non esiste!

Quindi ci sono soltanto esseri umani che cercano e esseri umani che non cercano. Perché dove finisce il cercare, s’è già trovato; ma allora si è usciti dal tempo; allora si è fuori dalla dimensione umana. Quindi questo cercare, adesso uso la tua categoria, eh!, questo cercare è la perfezione intrinseca dell’uomo; la perfezione specifica dell’uomo che è in evoluzione.

(XI, 1) Il finalismo è un determinato modo nel susseguirsi dei fenomeni. Il finalismo è veramente reale solo quando, in opposizione al rapporto di causa ed effetto in cui l’avvenimento che precede determina il successivo, accade che l’avvenimento che segue, il fine, lo scopo, la meta, eserciti un’azione determinante su quello che precede. Questo caso però si verifica solo nelle azioni umane. L’uomo compie un’azione che egli prima si rapprsenta, e da questa rappresentazione si fa determinare all’azione.

Quindi il fine, ciò che viene dopo in quanto percezione, come agisce sull’uomo che si trova all’inizio di un processo?

Agisce in quanto rappresentazione: io non ho il fine in quanto realizzato; ho la rappresentazione di un fine; rappresentazione che è molto complessa; l’elemento visuale, io mi vedo uscire fuori dall’esame, tutto bello contento perché sono stato promosso! Però ho la rappresentazione del fine, la promozione non c’è ancora: sto studiando per prepararmi all’esame.

Ciò che viene dopo, {l’azione, in quanto esercitata nel mondo della percezione, in quanto verificata nel mondo della percezione,} opera con l’aiuto della rappresentazione {non “con l’aiutoâ€, ma “tramiteâ€: tramite la rappresentazione} su ciò che precede, sull’uomo agente. Questo giro attraverso la rappresentazione è però indispensabile per stabilire un nesso che abbia carattere finalistico.

Quindi, attribuire un agire finalistico alla divinità è un assurdo perché significherebbe che la divinità è nel tempo, e ha delle cose ancora non realizzate.

Quindi l’agire in base a finalità significa avere tante cose, tanti progetti, che ancora non sono realizzati, che sono il fine da realizzare.

Quindi, agire secondo finalità è specifico in assoluto dell’uomo.

Questo è ciò che è comune: agire secondo finalità; è comune a tutti gli uomini. Però le finalità, i fini concreti, le mete concrete, sono individuali in ognuno.

FOGGIA: Anche il modo di agire è individuale.

A.: Anche il modo, certo!

FOGGIA: Anche la tecnica morale è individuale.

A.: Eh, certo! Tutti e tre i livelli sono individuali.

(XI, 2) Nel processo che si divide in causa ed effetto bisogna distinguere la percezione dal concetto. La percezione della causa precede la percezione dell’effetto. Nella nostra coscienza causa ed effetto rimarrebbero semplicemente l’una accanto all’altro, se non li potessimo collegare per mezzo dei rispettivi concetti. La percezione dell’effetto può sempre solamente seguire la percezione della causa.

Allora, causa: la nevicata – prendiamo l’esempio di una causa: la nevicata, scrivo nevicata invece che neve – e l’effetto: il furgone di Salvatore, fermo! Furgone fermo: non va avanti nella neve.

Posso parlare di causa ed effetto soltanto quando tutt’e due i fenomeni sono presenti a livello di percezione, perché, finché il furgone non s’è fermato, non c’è il furgone fermo. Quindi il fenomeno del furgone fermo dev’essere una percezione, se no il furgone non è fermo.

Adesso un’altra riflessione: la percepibilità, quindi la percezione della nevicata può venire dopo il furgone fermo?

PUBBLICO: No!

CARMINE: Sì, potrebbe…

A.: No, la nevicata che è causa! Non la prossima nevicata, non barare! Già è difficile la cosa… capito! Non tergiversiamo!

Quindi la causa, per natura, deve precedere l’effetto, e l’effetto è una percezione, percepiamo qualcosa che viene, per natura, dopo la causa. Quindi la causa viene prima e l’effetto viene dopo.

Il fine da raggiungere non può essere una percezione, perché in quanto percezione deve venire dopo; tant’è vero che il fine, in quanto realizzato a livello di percezione viene dopo. Il fine “viene prima†a quale condizione?

Che io lo trasformi in rappresentazione!

Quindi qui adesso scriviamo: la rappresentazione dello scopo è la causa, e la realizzazione è l’effetto. Realizzazione tra virgolette perché qui (a sinistra), in quanto rappresentazione è reale già adesso. Realizzazione come percezione, in quanto percezione, è l’effetto.

Questo modo di comportarsi ce l’ha soltanto l’uomo, ed è in ognuno del tutto individuale. Perché non ci sono due esseri umani che si rappresentano, che possano rappresentarsi, in modo uguale qualcosa da raggiungere.

Ma come! Hanno tutti e due la stessa rappresentazione dell’educazione!

No, non possono avere tutt’e due la stessa rappresentazione dell’educazione; è una cosa assurda. Quindi la rappresentazione del tipo di educazione che io voglio conseguire è in ognuno del tutto individuale; con risvolti infiniti individualizzati in ognuno; è chiaro!; basta rifletterci minimamente.

Quindi cosa stiamo dicendo noi in fondo?

Che ognuno è confrontato con la sovranità liberissima, non gestibile dal di fuori, del suo essere; che è una sorgente all’infinito di rappresentazioni, intuizioni morali, di cose da realizzare a livello della percezione – potenzialmente ognuno di noi all’infinito – e realizzare sempre di più questo mondo di rappresentazioni – siccome sono rappresentazioni perciò Steiner parla di fantasia morale, non di intuizione morale – che sono rappresentazioni, mi devo rappresentare io cosa, come, anche il modo concreto di come; perché la mia rappresentazione dell’educazione che io voglio dare ai bambini – i bambini sono gli stessi in quanto pezzi di materia anche per l’altro maestro – ma le mie rappresentazioni sul mio modo di educare sono del tutto individuali e sono copie della fantasia morale, perché sono rappresentazioni, sono immgini di comportamento, di interazione, di fatica, di comprensione, di studio dei bambini, magari di meditare di parlare con l’angelo custode, ecc., ecc., ecc. Tutte rappresentazioni!

Quindi dire che in questo mondo di rappresentazioni, gli scopi da raggiungere possono essere comuni, è un’aberrazione, un errore assoluto. Significa non aver ancora colto, neanche minimamente, l’emergere dell’individuale libero, sovrano, non gestibile dal di fuori, in ogni essere umano.

Che poi, siccome siamo agli inizi di questa individualizzazione sempre crescente e i poteri costituiti hanno paura perché vorrebbero ridurre l’individuo a quei comportamenti che servono a loro, questo lo possiamo comprendere; quindi è chiaro che la libertà non troverà mai ruota libera dal di fuori; la libertà è la forza di sfondare dal di dentro; altrimenti ti si sfondano dal di fuori.

CARLO: Mi sembra di aver capito bene questa individualità nel caso della fantasia morale; adesso però voglio salire un momento di nuovo all’intuizione…

A.: Conoscitiva! Perché anche quella morale è un’intuizione!

CARLO: Conoscitiva! Ecco appunto; allora lì come mi comporto rispetto all’universale e all’individuale? Adesso mi è venuto un dubbio.

A.: Allora, l’intuizione conoscitiva è la capacità dello spirito umano di universalizzarsi, di diventare uno con tutto. Questo modo del pensiero, dove l’individuo in un certo senso si annulla, diventa uno col tutto, ha un risvolto morale?

CARLO: Dovrebbe avere un risvolto morale, è quello che chiedo appunto: dopo dovrebbe avere un risvolto morale nell’intuizione morale. Però la mia intuizione morale, comunque, deve essere individuale, questo sì.

A.: Allora, faccio una proposta – queste sono domande grosse, no!, quindi non ci sono rispostine – un avvio di pensiero: qui abbiamo l’individualità e qui abbiamo la comunanza, anzi mettiamoci l’unità; queste due categorie: individualità e unità. Perché il linguaggio italiano nei concetti astratti ci mette sempre l’unità, l’individualità, la semplicità ecc.; allora: individualità e unità.

Sono alternative o sono la stessa cosa?

Nella misura in cui uno spirito, che è lo spirito umano… diciamo: il concetto specifico dello spirito umano – e vedrete che fa parte di quella definizione che ieri ho detto, ne fa parte perché ho aggiunto il lato di percezione – allora, specifico di uno spirito che è dentro l’evoluzione, dove c’è il prima e il dopo, dove non c’è la concomitanza assoluta – come si dice concomitanza nel tempo?… ah, la contemporaneità! – dove non c’è la contemporaneità assoluta della realizzazione dell’individualità singola, unica, irripetibile, e dell’unità assoluta, allora c’è, nel concetto del tempo, che individualità e unità si realizzano in alternanza.

Quindi, pensare è dare la precedenza all’unità e questo versante fa sorgere il desiderio di andare all’altra alternativa; quindi l’agire è il coraggio e la forza di dare precedenza all’individualità.

Però la perfezione dell’unità e dell’individualità è che nell’unità contemporaneamente c’è l’unica perfezione assoluta dell’individualità; quindi la perfezione somma dell’individualità è che questa individualità, non solo non si perde nell’unità, ma lì trova la sua perfezione ultima. E la perfezione dell’individualità è che questa individualità, non soltanto non esclude l’unità, ma si realizza soltanto portando l’unità alla perfezione.

Quindi il fatto che noi oscilliamo tra il pensare e l’agire dimostra che siamo in evoluzione nel tempo, perché alterniamo ciò che nell’eternità è contemporaneo, ed essendo contemporaneo è oltre il tempo.

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LUCIANA: Steiner ha dato l’immagine del pendolo; nell’aggiunta alla prima edizione.

A.: Sì!

CARLO: Del pendolo, sì; infatti l’abbiamo già visto!

PAOLO: E poi è l’esempio che sempre fai dell’organismo, che ogni organo è assolutamente individuale e assolutamente realizzato nell’unità!

A.: Certo! Quindi, l’imperfezione è dove l’oscillazione è massima: cioè va talmente lontano che dove c’è unità ha mandato a ramengo l’individualità. E qui, poi, dove c’è distantissima dall’unità, l’individualità, questa dice peste e corna e manda a ramengo l’unità.

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E queste unilateralità… quindi il problema non è che io realizzo l’unità, il problema è che ho perso l’individualità! E qui, il problema non è che io realizzo l’individualità, il problema è che ho perso l’unità!

E cosa aiuta? In che modo si realizza sempre di più la contemporaneità?

L’accelerazione! Sempre più veloci! Sempre più veloci! Sempre più veloci!

Alla fine sono una cosa sola!

Quindi lo spirito divino è una velocità tale di realizzazione dell’individualità e dell’unità, che non c’è più spazio di tempo fra l’una e l’altra!

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MAURIZIO: Sincronicità!

A.: Sincronicità assoluta!

MAURIZIO: Sarebbe bello sviluppare questo concetto…

A.: Sì, ma dacci un po’ di tempo, dài! Lasciaci godere un po’ l’evoluzione nel tempo; tu vuoi diventar subito un angelo? Ti annoieresti, capito! Torneresti subito… tant’è vero che quando andiamo oltre questa dimensione dell’evoluzione nel tempo, ci vien voglia soltanto di tornare indietro.

I. 5: A mio modo di vedere la realizzazione dell’individualità non avviene mai; a parte la realizzazione dell’unità. Vale a dire: un pesciolino che nuota nell’oceano…

A.: Resta nell’umano!

I. 5: È solo un esempio.

A.: Noi non siamo pesciolini!

I. 5: Allora, restiamo nell’umano, usciamo dal mio esempio e diciamo che, secondo me, anche quando uno realizza la propria individualità è sempre comunque collegato inscindibilmente all’unità…

A.: No, no, fermati, fermati!

I. 5: No, finisco: altro è dire che io ne sono consapevole o non ne sono consapevole, ma non puoi mai uscire dall’unità!

A.: Attento, l’essenza dell’umano è la consapevolezza! Non la realtà metafisica che nella mente di Dio io, comunque, sono nell’unità dell’umanità. Nel momento che io sto mandando al diavolo tutti quanti, dov’è l’unità?

I. 5: C’è lo stesso, però io sono uscito dalla consapevolezza!

A.: Eh, eh, per quanto mi riguarda, l’essenza dell’umano è proprio, diciamo, la posizione della sua consapevolezza; se tu gli porti via la consapevolezza, è via l’uomo!

I. 5: Beh, no! e’ comunque una precisazione

A.: No, un’unità astratta è aria fritta!, diventa concreta nella coscienza umana, nel pensare umano. E questo individuo qui ha mandato tutto il mondo a ramengo; cosa vuoi dire: ah, ma tu sei comunque nell’unità? No!, costui ha detto peste e corna a tutto ciò che vuole ricattarlo.

CARLO: Abbiamo fatto l’esempio della mamma col bambino.

I. 5: vabbè, sono comunque due punti di vista diversi.

A.: No, sta attento, questa astrattezza… tu dici: comunque sei dentro l’umanità, ma non serve a nulla! Cosa gli serve veramente a diventare un pochino meno estremo?

I. 5: La consapevolezza di esserlo.

A.: No! No! Perché lui nella sua consapevolezza sta dando botte a tutti quanti, ha mandato tutti a ramengo! L’unica cosa che lo aiuta sono le botte che vengono dal di fuori! Quello lo aiuta a tornare nel contesto universale. E allora va tutto bene. Quindi uno che veramente vuole realizzare la sua individualità a costo degli altri, gli altri si fanno sentire, no! Gli altri gli danno botte che poi lui si dà…

I. 5: Si dà una calmata!

A.: No, si dà una ripensata; perché tu parlavi di consapevolezza. Ci ripensa due volte! Adesso qui l’abbiamo esercittato… le cose devono diventare psicologiche, se no siamo nella stratosfera; l’uomo è psicologico, capito!

Quindi costui… uno può diventare un individualista estremo soltanto dando colpi e mandando al diavolo tutti quanti. Quindi i colpi devono ritornare; e qui esercitiamo questo adesso! Un individuo, un bravo cattolico, nella sua visione dell’unità siamo tutti unità, tutti unità… e non realizza nulla, non vede nulla di individuale ecc., ecc.; ci sono soltanto comandamenti comuni, la chiesa ecc., ecc. …Va bene?

PUBBLICO: Perde l’individualità.

A.: E che c’è di male!

PUBBLICO: Non ha più niente da dare agli altri.

Si perde nel mondo.

Lui sparisce.

A.: No, gli dovete dare qualcosa che lo costringe! Noi dobbiamo portare questo individuo qui al punto tale che sta male! Questo è importante! Allora sì che funziona! Deve star male a un punto tale che torna indietro!

In che modo, cosa fa l’evoluzione perché questo individuo si senta così male che poi torna un pochino indietro da questa esagerazione?

PUBBLICO: (varie risposte).

A.: Se è vero che gli manca oggettivamente la metà dell’umano e quindi gli manca anche questa metà – perché non è genuina – se è vero, dovrà, prima o poi pigliarsi una di quelle depressioni che lo costringe a tornare indietro.

Il primo (esempio) si piglia le botte e quest’altro si piglia la depressione.

E il fatto che la depressione aumenti nell’umanità è, secondo me, la dimostrazione proprio che noi abbiamo un sacco di persone che si lasciano fagocitare dalla ditta in cui vivono! Dalla meta comune! Hanno fatto di tutto per adattarsi alla ditta in modo da guadagnare sempre più soldi, adesso a migliaia vengono buttati sulla strada, e sulla strada sono in depressione paurosa.

Facciamo una pausa.

A.: Allora, ci sono domande rispetto ai discorsi di stamattina?

PATRIZIA: Non mi è molto chiaro… ho sentito dire anche che il concetto deriva dalla percezione…

A.: Non deriva dalla percezione, si accende… la percezione non è la causa del concetto, è l’occasione! L’occasione non è una causa; se vuoi l’occasione è una conditio sine qua non, una condizione necessaria. La percezione è una condizione necessaria.

PATRIZIA: …e non può essere definita causa, però se non c’è percezione mai formulerò un concetto!

A.: Attenta, il fatto che non ci sia concetto senza percezione, che è giusto, non significa che non ci può essere percezione senza concetto; non si può invertire; quindi ci può essere percezione, però soltanto nell’uomo, talmente dormiente, che lui non crea un concetto.

PATRIZIA: Bene, e nel momento in cui creo concetto senza percezione, vedi il leone…

A.: No! Non c’è! Non esiste un creare un concetto senza percezione!

PATRIZIA: Ma non si diceva che non è necessario vedere il leone, percepire il leone reale, per avere il concetto di leone?!

E comunque la domanda era: il concetto di fantasma, da dove arriva, se non lo vedo, non lo percepisco?

A.: No, si riferiva alla rappresentazione; diciamo: la percezione si può considerare causa della rappresentazione, perché se c’è una percezione, automaticamente sorge una qualche rappresentazione. Quindi la percezione si può considerare causa della rappresentazione.

Però adesso, la domanda che tu fai non è semplice, è molto complessa, perciò io dicevo: a monte, l’origine prima del pensare crea concetti senza percezione.

PATRIZIA: Ed è quella l’intuizione?

A.: Sì, originale. Allora io dicevo ieri – abbiamo fatto l’esempio del concetto del leone – e dicevamo: io, per avere il concetto del leone non ho bisogno della percezione. Però io ho detto: non ho bisogno della percezione del leone, ma non ho detto: non ho bisogno di nessuna percezione! Perché non sono all’inizio, non sono il Logos, che in assoluto crea senza percezione.

Quindi, mentre ascolto l’altro che mi sforna, articolando con la parola – che per me è una percezione – il concetto di leone, io, percependo le sue parole, percependo, se vuoi, i suoi pensieri, i suoi concetti, che per me sono percezione, posso farmi, se io accendo il concetto in base a queste percezioni, posso farmi il concetto di leone.

PATRIZIA: Attraverso la rappresentazione?

A.: No! Quella è una conseguenza! La rappresentazione non c’è perché non c’è neanche la percezione del leone!

PAOLO: No, lei diceva la rappresentazione delle sue parole. Io rappresento in me le sue parole, cioè i suoi concetti, e alla fine arrivo a cogliere un concetto senza avere la rappresentazione.

A.: Esatto! E adesso, nella percezione delle parole che io sento, ci deve essere la parola leone?

No! Non è necessario che ci sia!

Perché alla fine io posso dire: questo concetto, questo essere è quello che gli esseri umani, di lingua italiana, chiamano leone; ma glielo dico alla fine!

ROBERTO: Infatti il nome è il nome che si dà al concetto

A.: E già, il nome è il concetto!

PATRIZIA: E il concetto di quelle cose tipo fantasma, paradiso, cioè sono concetti a cui ci si affida…

A.: No, non sono concetti, sono rappresentazioni! Prendiamo il Padreterno; è un’ottima cosa, perché finché diciamo Dio, cos’è? Aria fritta!

Invece, il Padreterno… sorge subito una qualche rappresentazione di un padre, perché diciamo: “padreâ€! Dunque un padre è una rappresentazione, rimanda a percezioni di padri, quindi una persona più anziana che non un figlio; quindi deve avere la barba, i capelli bianchi ecc… il Padreterno… siccome lui non muore mai è eterno!

Che cosa ho io di questo Padreterno?

Una rappresentazione estrapolata dal mondo percepibile umano, perché il padre io lo percepisco soltanto nel mondo umano, e ipostatizzata, in chiave di astrazione assoluta – che non si riferisce a nessuna realtà – messa là per aria!

PATRIZIA: Ma diventa un mio concetto che non è universale!

A.: No, il Padreterno non è un concetto!

PATRIZIA: È una rappresentazione! Che quindi rimane personale, individuale.

A.: No, rimane legata al mondo fisico, al mondo della percezione.

PATRIZIA: Che appartiene a me. Un altro ha un’altra rappresentazione di Padreterno rispetto a me.

A.: Certo, certo!

PATRIZIA: Quindi la rappresentazione ha la caratteristica di essere unica e individuale, insomma!

A.: Sì, perché anche le percezioni sono uniche e individuali.

PATRIZIA: Sono uniche e individuali le percezioni, ma se ne ricaviamo un concetto si diceva che il concetto poi diventa di caratteristica universale, oggettiva.

A.: Ma parlando di Padreterno il concetto non esiste! Lascia via la parola concetto, tu riporti la parola concetto, ma non c’è! È una rappresentazione!

PATRIZIA: Quindi anche il paradiso è una rappresentazione!

A.: E, ma certo, eh! Che cos’è se no! Se tu porti via le immagini che tu ti fai di questo di questo paradiso cosa resta? Nulla!

PATRIZIA: Ma soprattutto rimangono sempre rappresentazioni soggettive.

A.: Estrapolate dalla percezione che uno ha avuto! Sta attenta, ognuno di noi può avere, nella sua anima – il suo corpo astrale, se vuoi – soltanto rappresentazioni come depositato delle percezioni che ha avuto. Nessuno può avere rappresentazioni oltre al riferimento delle percezioni reali che ha avuto, perché ogni rappresentazione presuppone la percezione; senza percezione non c’è rappresentazione.

PATRIZIA: Ma di questi mondi invisibili… comunque sono ipotesi anche di rappresentazioni, perché che mi si dica che il paradiso viene raffigurato, pensato, in quel modo, è una supposizione di qualcuno; che faccio anche mia e forse io posso aggiungerci altre cose, ma non è quella la realtà.

A.: Non è una realtà, è una “realtà†inventata, che non è reale.

PATRIZIA: Okey, okey.

A.: Quello che tu hai detto adesso in parole tue, è il concetto classico di astrazione. Io prendo, estrapolo, dal mondo della percezione rappresentazioni che mi sono fatto; astraggo dal mondo della percezine, faccio come se non venissero da lì e le metto in un mondo metafisico divino. Questa è l’astrazione: inventare mondi che non esistono, partendo dalla percezione.

PATRIZIA: Però ci si intende ugualmente, perché se dico triangolo si capisce triangolo, se dico paradiso si capisce paradiso, che differenza c’è?

Cioè, voglio dire che, nonostante che quello del triangolo sia un pensiero oggettivo, incontestabile come caratteristiche, ma anche quell’altro, non c’è nessuno che…

A.: Sta attenta, paradiso è una rappresentazione complessa, perché paradiso è un mondo; non è il Padreterno con la barba, ma è un mondo, capito!

Il paradiso, il concetto se vuoi, è una rappresentazione complessa, estrapolata dalle percezioni che noi abbiamo quando c’è una situazione in cui noi ci sentiamo bene: ah, “mi sento in paradiso!â€. Allora qual’è l’origine del paradiso?

Il sentirsi bene!

PATRIZIA: Che quindi è anche reale, come sentito, o come ricordo, vorrei azzardare.

A.: Sì, ma è reale in quanto paradiso percepito! Invece l’altro paradiso, che nessuno ha percepito, non è reale! Perché se qualcuno mi dice: guarda che tu, se vuoi, dopo la morte, andare in paradiso… e io penso: ah, ah, allora sarà un posto in cui avrò la piscina privata, in cui mi sentirò bene ecc., ecc. – nel mondo mussulmano ci sono queste rappresentazioni del paradiso, tra l’altro: tante donne a disposizione ecc., ecc. – tu per andare in paradiso devi fare questo, questo e questo!

Cos’è reale di questo paradiso? Quando muore, cosa trova di questo paradiso?

Aria fritta!

Quindi il cosidetto paradiso è un’estrapolazione, un’astrazione da certe esperienze di percezione che sono un massimo di sentirsi bene. Il paradiso è un posto in cui ci si sente più bene che si può, perché più bene non c’è del possibile.

Partendo dalle percezioni che più o meno ognuno fa dei momenti, delle situazioni di vita in cui si sentiva “in paradisoâ€, astrae dal fatto che questo paradiso c’è stato soltanto quel giorno, in quel momento o in quella settimana, e immagina, nella sua mente astratta, che ci sia lassù un luogo… dove va quando muore!

Materialismo puro! Mette nel mondo spirituale una copia del mondo della percezione; tira via tutto quello che è negativo, prende dal mondo della percezione soltanto quello che è positivo – quello è il paradiso, no! – un mondo in cui tutto è positivo.

Quindi, già deve crearsi un mondo falso, perché un mondo dove tutto è positivo non esiste; quindi si crea la rappresentazione di un mondo tutto positivo e lo mette fuori del mondo.

PUBBLICO: I testimoni di Geova!

A.: Sì, i testimoni di Geova, ma non soltanto loro.

PAOLO: E poi è da quando siamo bambini che ce lo creiamo questo mondo, ed è ben reale, proprio ben organizzato!

A.: Beh, le rappresentazioni son reali come rappresentazioni!

ROBERTO. Come l’inferno, è uguale!

A.: Come l’inferno… Quando mia sorella suora mi dice: guarda che se tu continui con Steiner, vai all’inferno! Secondo lei, dove vado io, con Steiner?

PUBBLICO: A star male!

A.: Sì, ma dove? Dov’è questo inferno?

PUBBLICO: Giù, nel fuoco!

A.: Ci devo mettere il fuoco, i forconi, i diavoli!

WALTER: Eh, dipende in quale girone ti mandano! (risate del pubblico)

A.: Pianto e stridor di denti!

WALTER: Ma il devachan superiore, non è il paradiso?

A.: Lascia perdere il devachan superiore! Allora l’astrazione… praticamente tu ci stai dicendo: facciamo un esercizio insieme su questo fenomeno enorme, reale, dell’astrazione, dove io, certe percezioni che ho interiorizzato – percezioni che devono essere nel mondo della percezione – le ho interiorizzate a livello di rappresentazioni e adesso invento mondi dove queste percezioni ci devono essere.

Un mondo di percezioni da cui io tiro via tutto ciò che è negativo: è il paradiso, un mondo di percezioni da cui io tiro via tutto ciò che è positivo: è l’inferno. Due mondi che non esistono; perché un mondo di percezioni solo positivo non c’è e un mondo di percezioni solo negativo non c’è !

PATRIZIA: Su questo piano!

A.: Quale piano?

PATRIZIA: Piano fisico.

A.: No, non c’è proprio! Tu pensi che il paradiso ci sia nel mondo spirituale? E l’inferno coi diavoli, i forconi ecc., ecc.?

PATRIZIA: Non ho idea!

A.: No, allora andiamoci piano, andiamoci piano! io adesso stavo dicendo: è un’astrazione! Io astraggo dal fatto che questo mondo di percezioni, tutte belle positive, ci può essere soltanto nel mondo della percezione e lo metto in paradiso.

Adesso, come esercizio, pensiamo al modo in cui è sorto, come enorme astrazione il sistema copernicano. Copernico ha detto: se noi restiamo così antropocentrici, geocentrici, che vogliamo per forza che la terra sia al centro di tutto questo mondo così complesso, prima di tutto siamo egoisti perché ci mettiamo noi al centro, ma poi le orbite dei pianeti – prendiamo soltanto il sistema solare – sono così complicate!

Copernico, la grossa scoperta di Copernico è di dire: supponiamo di essere sul Sole, e di vedere tutto che gira attorno al Sole! E lui dice: – siccome matematicamente si può calcolare, si può fare questa astrazione – se noi osserviamo tutte le orbite viste dal Sole sono più semplici! Sono ellissi belle, perfette! Senza tutti questi avanti e indietro dei pianeti (rispetto alla terra).

Quindi il sistema copernicano ammette al centro il Sole!

Però, a quale condizione il Sole è al centro? Per me, per te?

A condizione che tu sia sul Sole! Se no non è al centro per te! Chiaro?!

Piano, andiamo piano, passo passo. Perché finché io sono sulla terra, è un’astrazione vedere tutto come ruota attorno al Sole!

È legittima questa astrazione?

Padronissimi! Chi mi proibisce di calcolare le orbite come sono fatte viste dal Sole?

Chi me lo proibisce?

Eh, posso fare lo stesso a partire da Marte!

Solo che se ci mettiamo su Marte, le orbite sono ancora più complesse che non viste dalla terra; però chi te lo può proibire?

Quindi nell’umanità moderna è sorta l’astrazione! Esercita pensieri proprio belli, sobri… il calore va via!

Senza astrazione non c’è libertà!

Da che cosa astraggo io, nell’astrazione?

Dalla realtà!

Astraendo dalla realtà sono libero di fare quello che voglio. Posso mettermi sul Sole, posso mettermi su Marte, posso mettermi su Venere…

PATRIZIA: Diventa una fantasia. Diventa un’irrealtà!

A.: Eh! Eh! Ma è questo!

PATRIZIA: Diventa astratto, allora stiamo parlando di percezioni del reale, dell’esperienza concreta… bello, certo!, bellissimo, ma non è reale; lo si suppone.

A.: Cosa manca se noi consideriamo tutto dal punto di vista del Sole? Cosa ci manca?

PUBBLICO: La percezione.

A.: La percezione! La percezione ci manca! Quindi non c’è questa realtà per noi, perché una realtà c’è soltanto se c’è la percezione. Noi per percepire tutto a partire dal punto di vista del Sole, dovremmo essere sul Sole.

PATRIZIA: Infatti, ma allora come si è dato tanto credito a questo signore? È una teoria che ha convinto; perché?

A.: No, la teoria è giusta!

PATRIZIA: Ma come ha potuto essere giusta se è stata immaginata?

A.: Ma è immaginata giusta! Se tu ti metti sul Sole… ma guarda che questa prospettiva c’è: per l’essere del Sole c’è questa prospettiva, perché lui, tutti i corpi celesti li fa girare attorno a sé, capito! Però per noi è un’astrazione, è un’astrazione legittima; basta che non si presenti come realtà!

I. 6: Ma l’astrazione allora è un’ipotesi?

A.: Un’ipotesi è un tipo di astrazione.

I. 6: Che solo se riesco a verificare nella realtà diventa reale.

A.: E come la verifichi?

PATRIZIA: Tramite la percezione.

A.: Tramite la percezione, è ovvio!

CARLO: È come l’atomo.

I. 7: Però da questo punto di vista noi elaboriamo delle leggi, dei concetti che per noi diventano percezione. Dal punto di vista copernicano, da questa astrazione tra virgolette, si ricavano una serie di leggi che diventano poi percezione per noi. Per cui costruiamo poi dei mondi.

A.: Dammi un esempio. Adesso stai volando nell’astratto. Un esempio di un astrazione.

PAOLO: Eh, mandiamo un satellite sulla luna, in base a dei calcoli… che poi diventa effettivamente una percezione perché i calcoli erano giusti, come hai detto tu; per l’essere del Sole è vero che i pianeti girano a quel modo…

A.: Guarda che il satellite parte dalla terra non dal Sole!

PAOLO: Esatto, però noi calcoliamo in base a un pensiero che pensa anche delle cose che non sono percezione; però il pensiero funziona perché, quando calcola le orbite dei pianeti, non le calcola arbitrariamente, le calcola in base a quello che tu dicevi ieri sera: sono l’occasione che ci dà il mondo spirituale di poter comprendere; e la nostra comprensione comprende delle cose molto complesse oggi, che non sono errate, tant’è vero che tu riesci a far partire un satellite dalla terra che arriva sulla luna.

I.. 8: Crediamo che siano arrivati sulla luna!

PAOLO: Beh, insomma, basta!; se facciamo… (i bastian contrari)

I. 8: No, no, ma metti il caso che sia così: calcoliamo che siano andati sulla luna; l’hai visto tu? Cioè sono percezioni di altri ai quali noi diamo fiducia.

A.: Proprio due giorni fa c’era, alla radio tedesca, un programma di un’ora dove un sacco di persone volevano dimostrare che questo allunaggio non c’è mai stato.

PAOLO: Se si va avanti così devi costruirti tutte le volte la macchina, le scarpe, i vestiti, perché se non ti fidi di quella che è la storia dell’umanità, ti fermi; perché allora dici: beh, per andare in motorino me lo devo costruire io!

Ripartiamo dall’età della pietra, rifacciamo il mondo…

A.: Cosa c’entra?

PAOLO: Eh, no! È la stessa cosa; perché tu ti fidi del fatto che l’aereo ti porterà fino a qua; o lo verifichi?

A.: No, no, io ho la percezione: adesso sono intrappolato nella neve col furgone, adesso mi aiutano a mettere le catene e mi muovo: ho la percezione!

Dove hai tu avuto la percezione di Armstrong che mette il piede sulla luna?

Hai visto delle foto! Non la percezione reale.

PAOLO: E il suo racconto non mi basta?!

A.: No! Se lui riceve 10 milioni per mentire, a che ti serve i suo racconto? Vacci piano! No, Paolo, una percezione reale è una percezione reale, una percezione immaginata è una percezione immaginata! Perché se tu metti sullo stesso piano vedere queste sequenze televisive, quindi un film, ed essere tu sulla luna… perché per avere la percezione reale dovresti essere tu sulla luna!

PAOLO: Ma adesso questo è un estremo, torna a una cosa più semplice: tu usi il cellulare il cui segnale va su un satellite e torna. È vero o non è vero? Ci credi? Tu hai la percezione di quel satellite?

A.: No, io non ho bisogno di crederci…

PAOLO: Però usi il cellulare!

A.: No, ho bisogno soltanto della percezione di Marco che non so dov’è all’aeroporto e allora mi dice: guarda che sono qua ecc., ecc.; questa è la percezione che ho, le altre non ce le ho.

PAOLO: E perciò non sono vere?

A.: No, non sono esistenti.

PAOLO: Ma tu lo usi il cellulare!

A.: Ma guarda che una percezione che io non ho, non è né vera, né non vera: è non esistente. Non c’è percezione!

PAOLO: Non capisco allora cosa voglia dire questo discorso.

A.: Guarda: una percezione o c’è, o non c’è! Una percezione immaginata…

PAOLO: Perché immaginata: il cellulare io lo uso!

A.: Sì, ma tu non percepisci il punto di partenza!

PAOLO: E questo che vuol dire?

A.: Che tu queste percezioni non ce le hai, punto e basta! Su queste percezioni non puoi dire nulla perché non ce le hai.

PAOLO: Ma cosa vuoi dire? Io non posso avere tutte le percezioni di quello che sta intorno a me!

A.: No, no, no, quello che stiamo dicendo è che un pensare che vuole restare nel reale, deve imparare la disciplina di proibirsi ogni speculazione su ogni percezione che non c’è! Deve parlare soltanto di percezioni realmente percepite, da me! E le altre non mi riguardano.

PAOLO: È un processo che ci farebbe fermare… mi obbligherebbe a tornare all’età della pietra, credo.

A.: No, no, no, all’età della pietra tu hai avuto neanche un millesimo delle percezioni che hai avuto oggi.

PAOLO: Però, ritorniamo al cellulare che usiamo: io non posso parlare di un satellite che ho mandato in orbita e che mi permette di usare il cellulare? Non lo posso dire questo? Non posso avere questa rappresentazione? Io sono il tecnico che ha costruito il satellite che è andato su e che mi fa funzionare il cellulare che ho in mano! Allora io non mi posso fidare… Io non so costruire un motore di una macchina, allora non mi posso fidare della macchina?!

A.: Hai la percezione del motore che funziona, quella ce l’hai!

PAOLO: No, non ho nessuna percezione del motore, non ho mai aperto il cofano!

A.: No, hai la percezione della macchina che si muove!

PAOLO: Ho capito, ma ci devo credere alla macchina che si muove, perché io non l’ho fatta, non so come funziona!

A.: Non stiamo parlando di come funziona…

PAOLO: Come no! E il cellulare? Il cellulare funziona?

A.: Non ho bisogno di dirlo.

PAOLO: Ma lo usi, hai la percezione che lo usi, parli con la sorella in America…

A.: No, sta attento, ho la percezione di una voce che io riconosco e lui mi dice il nome; però come faccio ad essere sicuro che è Marco? Io dico: no, no, è la voce di Marco, lo so per percezine, perché ho percepito questa voce fuori dal cellulare ecc., ecc.; allora dico: è la voce di Marco, lo so per percezione.

Di questa percezione io sto parlando: è la voce di Marco che mi sta dicendo questo, questo e questo; perché la percepisco. Tutto il resto non mi riguarda!

Cioè, il processo di astrazione… l’umanità di oggi, in base alla credenza, in base all’astrazione, parla di tantissime cose dove non c’è percezione!

Ora, parlare di tante cose dove non c’è percezione significa impoverire sempre di più il pensiero; perché se tu cominci a parlare di qualcosa dove non c’è la percezione puoi fare tutto quello che vuoi.

PAOLO: Ma la percezione ce l’ho: lo uso! L’ho costruito, io sono il tecnico che ha costruito il satellite e ti faccio usare il cellulare…

A.: No!

PAOLO: Come no! la percezione ce l’ho: l’ho fatto io, con le mie mani!

A.: No, lo sei o non lo sei (il tecnico)?

PAOLO: E se non lo sono, allora non posso usare la macchina?!

A.: Io ho chiesto a te, Paolo: lo sei o non lo sei?

PAOLO: Vabbè, non lo sono! E allora non uso il cellulare?!

A.: No, hai altre percezioni di colui che ha costruito il cellulare, il satellite…

PAOLO: Allora non credo che il cellulare si basi su un satellite? Ci devo credere perché non ho la percezione? Io la percezione ce l’ho perché la sera, quando guardo il cielo, vedo passare il satellite, vedo la lucina luminosa; la percezione del satellite ce l’ho: vedo la lucina luminosa. Quando è passato il primo Sputnik, siamo andati, io e mio padre, in montagna e abbiamo visto passare il primo Sputnik. Hanno detto: alle 10 passa il primo Sputnik e alle 10 è passato!

A.: E tu ci hai creduto!

PAOLO: È passato, non ci ho creduto, l’ho visto: ho avuto la percezione!

A.: No, hai visto una scia luminosa.

PAOLO: No, ho visto un puntino luminoso che passava.

A.: No, quindi la percezione era la percezione di una scia luminosa, punto e basta!

PAOLO: Perciò tu devi credere al cellulare.

A.: Lo dici tu, di questo non hai la percezione.

PAOLO: Tu usi una macchinetta che ti dà la percezione di una voce, dài! Ma arriviamo al punto, qual’è il punto che non capisco? Perché stiamo facendo questa cosa che io non posso?… perché non posso?

A.: Io non ho detto che non puoi.

PAOLO: C’è un punto che non capisco, non capisco qual’è il punto!

A.: Ma perché ti arrabbi e non senti quello che ti si dice! Quello che sto dicendo… io non sto dicendo non è legittima l’astrazione, anzi ho detto: è necessaria per essere liberi. Quindi io posso astrarre dal fatto di essere sulla terra – perché questa è una percezione reale – e di mettermi sul Sole. Però non sono sul Sole, non ho la percezione di essere sul Sole, dovrei avere la percezione reale di essere sul Sole.

Allora immagino, astrattamente di essere sul Sole e calcolo le orbite dei pianeti in base al Sole, come si muovono attorno al Sole.

I pianeti si muovono attorno al Sole o attorno a Marte?

Tutto si muove attorno a tutto! È chiaro?

L’alternativa è se collidono gli uni contro gli altri: se non collidono si evitano a vicenda. L’unica differenza è che se faccio l’astrazione di mettermi su Marte vedo movimenti molto più complicati; quelli più semplici sono stando sul Sole!

Il secondo passo era di dire: il senso dell’astrazione è di astrarre dalla pereczione; perché essere sulla terra è un percezione, essere sul Sole non è una percezione. Quindi posso immaginarmi, per astrazione, di essere sul Sole e di vedere come si muove tutto attorno al Sole. Però devo tener presente che è nell’essenza dell’astrazione di astarre dalla percezione!

Adesso il terzo passo si chiede: quali percezioni ho io realmente?

Quelle che ho realmente!

Adesso tu hai portato un esempio complesso: io uso il cellulare. Quali percezioni ho con questo cellulare? E quali non ho?

La voce di Marco la percepisco!

PAOLO: Però tutta la tecnica è così; al di là del cellulare, tutta la tecnica si basa sul fatto che io non posso più avere tutte le percezioni di tutto quello che mi circonda.

A.: Ma non è di questo che si parla:

PAOLO: Tutto è un’astrazione, anche il carburatore della mia macchina è un’astrazione per me, perché io non riesco ad avere la pereczione di questa cosa!

A.: Ma certo, ma certo! Il problema dell’astrazione non è che ci sia; è di fare come se non fosse un’astrazione!

PAOLO: E allora questo cosa cambia?

A.: Che allora comincio a parlare dei movimenti dei pianeti come se io fossi realmente sul Sole; come se questo paradiso ci fosse realmente come percepibile.

Per avere la realtà devo avere la percezione. Quindi, cara Fausta – mia sorella suora – o questo inferno tu mi fai vedere dove io lo posso percepire, o non è una realtà! Questo è il concetto.

Quindi nessuno ti proibisce… ma ci sono tantissime percezioni possibili che altri hanno e che io non ho, e questo va bene, per forza è così!

Però è importantissimo per me distinguere tra percezioni che veramente ho, e solo quelle sono realtà per me! Tutto il resto per me non è realtà! Punto e basta!

PUBBLICO: È illusione?

A.: No, non è questo, non realtà non è illusione; illusione è realtà di un’illusione, perché la posso percepire!

PAOLO: Sì, e perciò questo perché? Perché se no mi stacco dalla realtà, cioè mi illudo, mi immagino, per cui entro in una fantasia.

A.: Entro in un mondo non reale. Quindi il copernicanesimo non ha creato effetti micidiali per aver fatto un’astrazione, perché quella tutti dobbiamo farla, ma l’ha presa come se fosse allo stesso livello di dove c’è la percezione; quindi prendendo il punto di vista del Sole come se fosse allo stesso livello, moralmente allo stesso livello, del punto di vista della terra, ha svuotato il peso morale della terra.

Perché un essere umano che vive nella sua struttura mentale ugualmente sul Sole come sulla terra, svuota il peso morale del mondo della percezione. Il mondo della percezione c’è solo sulla terra per l’uomo!

Questo vuoto morale è il lato micidiale del copernicanesimo; è quello di fare come se un’astrazione, alla base di un’astrazione c’è l’astrarre dalla percezione; quindi annullarla!

Astraiamo dal fatto di percezione che noi siamo sulla terrra e quindi cosa annulliamo? Annulliamo la percezione!

PAOLO: Ma la gravità… è proprio in quello che tu dici… per cui l’esasperazione di una tecnica porta uno svuotamento morale di quello che noi siamo.

A.: Però l’origine è lo svuotamento della percezione; fare come se fosse lo stesso che ci sia la percezione e non ci sia la percezione! No! Sulla terra ho la percezione, sul Sole non ho nessuna percezione, e questa differenza è enorme!

E Copernico ha fatto come se non ci fosse nessuna differenza. E quindi si svuota il peso morale della percezione che è l’unico mondo che dà all’essere umano la realtà!

Ci auguriamo un pranzo anche a livello di percezione! Buon appetito!

Sabato 4 febbraio 2012, pomeriggio

A.: Allora, continuiamo questo XI° capitolo, fondamentale, che fa una disamina dell’agire secondo scopi presfissi; e questo agire in base a scopi prefissi è specifico dell’uomo; a meno che dorma!, perché mentre dorme non ha scopi.

E lo scopo è qualche rappresentazione di un fine che uno vuol raggiungere – voglio visitare una persona, voglio assistere a una partita di calcio, voglio essere promosso all’esame, voglio diventare segretario, voglio fare un sacco di soldi, per esempio – e allora, per raggiungere questo fine che io mi rappresento… in che cosa consiste la rappresentazione di questo fine?

Ho la rappresentazione di me che, con una sacchetta di soldi, posso fare questo e quest’altro, posso godermi la vita, posso andare in crociera, ecc., ecc., ecc.

Quindi tutte queste rappresentazioni… perché il fine, non è soltanto la fine; il fine che io mi propongo comporta anche tutto questo che, dopo raggiunto questo fine, sarò in grado di fare!

Quindi tutte queste rappresentazioni io ce le ho, e queste rappresentazioni causano in me passi che io compio per raggiungere questo fine. E questo causare… queste rappresentazioni del fine che io voglio conseguire, sono percepibili in me.

Chi le può percepire?

Soltanto io, in me! Ognuno soltanto in sé.

E queste rappresentazioni del fine che voglio conseguire, che io percepisco in me, che mi motivano, mi muovono all’azione, a compiere certe cose, il loro influsso è percepibile o no?

PUBBLICO: L’influsso sul mondo?

A.: No, l’influsso su di me! Muovono me!

PUBBLICO: Sì!

A.: Certo che lo percepisco! Lo percepisco nel senso che so che io sto muovendo le gambe in base al fine che voglio raggiungere! Quindi la rappresentazione – la partita di calcio che voglio vivere allo stadio – proprio influisce sul mio agire, mi fa agire in un certo modo; e io questo influsso – chiamiamolo così, tra virgolette – lo percepisco.

E questa struttura di un futuro rappresentato che, in quanto realizzato nel mondo percepibile è solo nel futuro, in quanto anticipato a livello di rappresentazione, a livello di scopo, di fine, è già presente in me, e quindi causa ciò che raggiungerò nel futuro – in quanto rappresentazione presente in me causa il comportamento che mi porta a ciò che sarà in futuro – questa struttura, questo modo di essere, è specifico, è unico nell’essere umano. Non c’è in nessun altro essere! Quindi soltanto l’essere umano agisce seguendo degli scopi.

Ora, per il buon Dio, questo agire secondo scopi sarebbe una perfezione o un’imperfezione?

Un’imperfezione assoluta! Perché sarebbe un povero Dio che ha tante cose che ancora non ha raggiunto! Perché avere degli scopi significa avere delle cose che per me, nel corso del tempo, nella mia evoluzione, ancora attendono di venir realizzate a livello della percezione.

Quindi è chiaro che agire secondo scopi è specifico di un essere, di uno spirito che pensa, però che si realizza nel tempo. Invece lo spirito extraumano è oltre il tempo: abbiamo visto nel capitolo precedente oltre lo spazio e adesso: oltre il tempo; tutto ciò che è spirituale supera ogni dimensione di spazio e di tempo.

(XI, 2) Nel processo che si divide in causa ed effetto bisogna distinguere la percezione dal concetto. La percezione della causa precede la percezione dell’effetto. Nella nostra coscienza causa ed effetto rimarrebbero semplicemente l’una accanto all’altro, se non li potessimo collegare per mezzo dei rispettivi concetti. La percezione dell’effetto può sempre solamente seguire la percezione della causa. Se l’effetto deve esercitare un’influenza reale sulla causa, questo non può che avvenire che per mezzo del fattore concettuale.

“Fattore concettualeâ€â€¦ però noi ci siamo detti: per lo più è il fattore di rappresentazione! Perché una rappresentazione non è una cosa percepibile a livello di materialità: la rappresentazione è un elemento animico; quindi si avvicina al concettuale in un certo senso.

Lo scopo di partecipare a una partita di calcio non è un concetto, il suo scopo non è un concetto, non è presente in me a livello di concetto: è presente in me a livello di rappresentazione: ho l’immagine di come vivrò, di come sarò contento, di tutta la suspense che ci sarà durante la partita di calcio, ecc.

Infatti, prima del fattore percettivo della causa, il fattore percettivo dell’effetto non esiste addirittura. Chi afferma che il fiore sia lo scopo della radice, che cioè il primo abbia un’influenza sulla seconda, può trarre la sua affermazione soltanto da quel fattore del fiore che egli, col pensiero, constata nel fiore stesso. Il fattore percettivo del fiore, al tempo della formazione della radice, non esiste ancora.

Allora, nel tempo c’è: prima soltanto la radice; quando c’è soltanto la radice, cosa c’è del fiore? Nulla!

PUBBLICO: È in potenza!

A.: Rispondere in potenza è la risposta giusta, però crea problemi! Perché quando io sto pensando di vivere una partita di calcio, c’è in me potenzialmente la partita di calcio, però in modo diverso che non nel fiore!

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Qui c’è la radice… allora, attorno a questa radice bisogna supporre che ci siano delle forze vitali, e queste forze di vita si esprimeranno poi, diciamo, diventeranno percepibili a livello del fiore.

Dov’è il fiore, allora, nella radice?

Non è nella radice, è nelle forze eteriche della radice.

Allora: radice, e poi viene il fiore; nel tempo.

Qui c’è l’uomo: ha nella sua fantasia la partita di calcio; la rappresentazione della partita di calcio; la rappresentazione della partita di calcio è qui, nella sua fantasia. E poi, nel tempo, c’è la partita di calcio come percezione, come vissuto reale.

Quindi, qui c’è la rappresentazione di un’esperienza che voglio fare, e qui c’è l’esperienza reale: dopo, nel tempo.

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Adesso la domanda è: il fiore, ciò che viene dopo nella natura, in che modo influisce su ciò che c’è prima?

A livello di rappresentazione?

No! Perché la pianta non può farsi una rappresentazione di ciò che vuole conseguire nel tempo, in un tempo successivo.

Invece l’operare dell’effetto, a livello di causa, a livello di rappresentazione, è specifico dell’uomo.

L’uomo ha una rappresentazione dell’effetto che vuol raggiungere, quindi del fine che vuol raggiungere; e questa rappresentazione del fine che vuol raggiungere lo determina all’azione.

Quindi, agire seguendo degli scopi è unico dell’uomo; e ognuno individuale per sé.

Ogni essere umano agisce in base alle rappresentazioni reali di scopi che lui ha, così come sono; perché agiscono così come sono.

Un ideale è un tipo di scopo, d’accordo? Per esempio l’ideale della pace nel mondo – ho già usato questo esempio – . Come agisce in un essere umano l’ideale della pace?

Se uno non ce l’ha neanche, non agisce per niente, in lui! Diventa subito individuale.

Adesso due persone hanno l’ideale della pace, però in una questo ideale è del tutto astratto, quindi esercita una forza operativa molto minore; per l’altra diventa più concreto, ed esercita una forza molto maggiore.

Quindi c’è modo e modo di agire secondo scopi; a ogni livello è del tutto individualizzato.

Qual’è l’essere umano che vive puramente nel presente, senza anticipare a livello di rappresentazione degli scopi, dei fini, che vuol raggiungere?

Il bambino!

Quindi anche l’adulto resta bambino nella misura in cui non ha ancora la capacità – o la esercita troppo poco, a livelli iniziali – di cogliere, di ideare mete da raggiungere; e nella misura in cui le inventa, crea fini da raggiungere.

Come sorgono fini da raggiungere?

Vengono creati! Vengono creati dalla fantasia morale!

Quindi la facoltà della fantasia morale è la facoltà di creare fini, scopi, mete da raggiungere; sempre più belle, sempre più nuove, sempre più forti; e la moralità consiste nella forza in cui gli scopi, i fini, le mete positive, che quindi fanno crescere sempre più in pienezza l’individuo, nella misura in cui sono sempre più forti, gli danno un dinamismo sempre maggiore per camminare verso una crescente pienezza del suo essere del tutto individualizzato.

E man mano che gode la realizzazione, uno dopo l’altro di questi frammenti di autorealizzazione dell’io, più gli viene voglia, più la gode, più diventa moralmente buono; nella misura in cui, poi, arricchisce tutta l’umanità.

Quindi l’essenza della moralità è: intuisci sempre di più ciò che tu sei potenzialmente, e metti questa potenzialità, che in quanto da realizzare è ancora nel futuro, alla base delle tue azioni, in modo da realizzarne sempre di più, sempre più fortemente e sempre più genuinamente.

Di meglio non c’è al mondo!

E come si verifica l’ipotesi che, realizzando me stesso sempre più genuinamente, diventando sempre più ciò per cui potenzialmente sono stato creato; come verifichiamo l’ipotesi dell’umanità come organismo? Che più ognuno è individualmente, genuinamente, se stesso, più sorge armonia, come nella salute del corpo fisico?

Questa ipotesi… perché all’inizio è un’ipotesi: noi non siamo alla fine dell’evoluzione dove c’è un rimembramento, diciamo assoluto, compiuto, di tutti gli esseri umani che creano tutti in assoluto un organismo spirituale, un corpo dell’umanità in quanto organismo spirituale; siamo in via!

La prospettiva è una riorganizzazione di tutti questi frammenti di questi io, nel tempo del materialismo, nel mondo della percezione, tutti belli frammentati, tutti belli squadernati, uno fuori dell’altro… Stavo chiedendo: qual’è la verifica dell’ipotesi, che l’ipotesi è giusta, che gli io umani sono stati creati in armonia, come un organismo?

Vi faccio una proposta: la verifica di questa ipotesi che possiamo avere, ogni giorno, perché sta di fatto – la verifica deve essere un fatto di percezione – sta di fatto che nella misura in cui noi, e siamo sinceri, vediamo una persona che veramente agisce in base a un talento suo, genuino, e quindi un talento che è vero, che va a vantaggio di chi gode i frutti di questo talento, la nostra reazione, se è sana, è che gli diciamo: continua così, sei nel tuo elemento, continua a fare questo!

Quindi c’è un ritorno, una conferma, da parte di altri esseri umani, che gli dice: sì abbiamo l’impressione che stai realizzando genuinamente il tuo essere, oppure: no, guarda che non va; fai qualcosa d’altro, che forse è meglio!

Però un bene morale maggiore della realizzazione dell’io individuale, diciamo, irripetibile, unico, non può esistere.

Ripeto la domanda: qual’è il bene morale asoluto, più alto per me?

PUBBLICO: La realizzazione del tuo essere.

A.: Lo vedete, non vi può venir in mente nulla che sia fuori dell’uomo. Viene in mente qualcosa?

Ti stai sforzando, ma non lo trovi, capito! Vedo là una faccia che si sta sforzando, ma non lo trova! Non c’è, proprio non c’è!

Il problema – ma cosa sta dicendo quello lì? – è che noi siamo stati imbottiti di una morale comune; ma la morale comune va bene finché non c’è l’emergenza dell’individuale; nella misura in cui l’individuale emerge – l’umanità come evoluzione di coscienza – nella misura in cui l’individuale comincia ad emergere sempre di più, ciò che è comune si fa da base della morale; si fa da “conditio sine qua non†della morale.

Però il bene morale è soltanto la realizzazione, l’immettere quel frammento di ricchezza, quel frammento di bontà, quel frammento di bellezza – il buono, il bello e il vero sono i tre elementi del morale – che io solo, soltanto io posso immettere nell’umanità. Quello è il bene morale: la verità del mio io, la bellezza del mio io e la bontà del mio io, nell’organismo dell’umanità.

Nella misura in cui un pensiero così fondamentale lo capisco, è di per sé evidente! E se non è evidente è perché non l’ho ancora capito a sufficienza, nel suo centro, nel suo fulcro.

E questo pensiero, esercitato sempre di nuovo, è una liberazione interiore enorme, perché scalza ogni tentativo, proprio lo rintuzza, di gestire l’essere umano secondo norme esterne al suo essere.

Quindi questa gestione in base a norme esterne all’essere, è l’essenza dell’immoralità, perché uccide l’io, che è il bene morale supremo che ci sia, quello più alto che ci sia.

E, dicevo, tante volte ci troviamo di fronte ai problemi sociali che abbiamo e la radice più profonda è data dal fatto che abbiamo una morale del tutto antiquata; una morale che va bene soltanto per bambini, i quali non essendo ancora capaci di condursi dal di dentro, non avendo ancora il criterio morale, di bontà morale dell’individuo singolo, devono venir condotti dal di fuori.

Però il senso, la bontà di una conduzione dal di fuori – il pedagogo, il genitore, la Chiesa, lo Stato – è buona soltanto se fa di tutto per rendersi superflua! Soltanto allora è buona! E diventa del tutto buona quando sparisce!

PUBBLICO: In questo capitolo che stiamo leggendo, dove si coglie questo concetto in Steiner?

A.: Se Steiner dicesse, svolgesse, tutte le conseguenze di ciò che scrive, prima di tutto avremmo una biblioteca e non un libro solo, e in secondo luogo non ci sarebbe bisogno del seminario!

Ma desso ti faccio un esempio; lui dice: – ma l’abbiamo già letto – questo modo di agire secondo scopi c’è solo nell’uomo. Allora si pone subito la domanda: – dal testo però, si evince dal testo! – quanti scopi si sono messi nella testa di Dio per i quali lui dovrebbe avermi creato? Per quale scopo Dio mi ha creato?

Ha a che fare direttamente con questa domanda!

Ha degli scopi Dio?

Te l’ha appena detto: agire secondo scopi è specifico dell’uomo! Non esiste in Dio!

Adesso, forse tu hai avuto la fortuna di non aver avuto nulla a che fare col cattolicesimo, non lo so, però chiunque abbia avuto a che fare col cattolicesimo è stato proprio imbottito di un sacco di sensi di colpa per non essersi occupato abbastanza di seguire gli scopi che Dio ha messo alla base della sua esistenza: Dio mi ha creato perché io raggiunga questo scopo e invece io lo mando a ramengo, a me piace fare qualcosa d’altro… Mi sembra che questo abbia a che fare direttamente col testo: Dio non agisce secondo scopi, non ha scopi, non ha il diritto di averne; se non non sarebbe Dio, sarebbe un bravo uomo e come bravo uomo ha diritto ai suoi scopi, non per me.

LUCIANA: Stavo riflettendo sul periodo precedente che hai letto: “Chi afferma che il fiore sia lo scopo della radice… può trarre la sua affermazione soltanto da quel fattore del fiore che egli, col pensiero, constata nel fiore stesso.â€

Chiedo: col pensiero o con la rappresentazione che se ne fa? Perché dice dopo: “ il fattore percettivo del fiore, al tempo della formazione della radice non esiste ancoraâ€.

Allora, lui se l’è fatto prima con una rappresentazione? Spiegamelo perché non l’ho capito.

A.: Sta attenta, il fatto di stabilire un rapporto tra radice e fiore, presuppone che c’è già la percezione del fiore; perchè se il fiore non ci fosse saremmo alla prima pianta del mondo!

Immaginiamo di essere alla prima pianta del mondo: questa prima pianta ha soltanto la radice – tra l’altro non potremmo neanche farci il concetto di radice perché il concetto di radice, da sempre, noi lo facciamo in rapporto al fiore – ma, vediamo qui, sotto la terra, qualcosa… e diciamo: ma che cos’è?

Se uno mi dice: ma guarda che tu, la radice – adesso mi dice che questa cosa si chiama radice – guarda che tu la radice la spieghi soltanto se distingui nella pianta i due poli fondamentali che sono: la radice e il fiore.

E io gli chiedo: e che cos’è il fiore?

Siamo alla prima pianta e il fiore non c’è mai stato!

Allora Steiner dice: per stabilire un rapporto di causa ed effetto – un rapporto sbagliato di finalità, che invece è di causalità – tra radice e fiore, devo avere sia la percezione della radice, che precede, e poi, ogni volta che c’è una radice segue la percezione del fiore.

E io, dopo che ce le ho tutte e due… però sono abituato che ce le ho già tutt’e due in tante piante… per la millesima pianta non ho bisogno di aspettare che salti fuori il fiore, quando io ne ho già percepiti già mille di fiori! Capito? Questo è il concetto!

Però, per ogni radice che sorge, prima c’è la radice come percezine e quando c’è soltanto la radice, di una qualsiasi pianta, il fiore non c’è ancora; perché la percezione “fiore†avviene dopo. E quando ce le ho tutt’e due stabilisco un rapporto di causa e d effetto.

Invece atttribuire un modo di operare finalistico alla pianta significherebbe l’assurdo di immaginare che la radice sia così intelligente da avere in sé lo scopo, quindi la rappresentazione in sé del fiore; cioè che la radice s’è fatta il concetto del fiore, la rappresntazione del fiore, e dice: ‘mo voglio far di tutto per conseguire il fiore! Un assurdo! Ed è un esempio per evidenziare che…

LUCIANA: …la dimostrazione che solo nell’umano c’è la finalità!

A.: Esatto! Per evidenziare l’operatività di uno scopo da raggiungere, che in quanto percezione non c’è ancora, ma viene anticipato a livello di rappresentazione; questo scopo, il fine rappresentato, c’è solo nell’essere umano.

Ma “solo nell’essere umano†significa: non negli animali, non nelle piante, non nelle pietre; significa: non negli angeli, non negli spiriti disincarnati e non in Dio! Soltanto nell’umano!

E quando noi, proprio ci rendiamo conto, a livello di esercizio pulito di pensiero che questo modo – allora qui entriamo nell’umano – la rappresentazione della partita di calcio che io voglio vivere, creo l’intento di seguire una partita di calcio, ho la rappresentazione della partita di calcio, questa rappresentazione opera in me e mi fa seguire, mi fa comportare secondo un fine: agisco secondo il fine di andare a una partita di calcio.

Stavo aggiungendo: nella misura in cui noi, questo fenomeno della finalità, dell’agire secondo fini, lo riferiamo soltanto all’umano, viene evidenziata subito la seconda affermazione che ognuno ha i suoi fini o scopi.

E se pensa di essere per strada per raggiungere lo stesso scopo di un altro, è perché l’ha recepito dall’altro dormendo alla sua facoltà, alla sua potenzialità di creare fini, scopi, del tutto individualizzati. E quindi addormenta la sua individualità e la fa addormentare in una comunanza di fini comuni.

(XI, 2) Ma per determinare un nesso finalistico non è necessario soltanto il nesso ideale, {quindi tra la radice e il fiore c’è un nesso ideale, ma questo nesso ideale non basta per avere un comportamento finalistico, bisogna che la rappresentazione del fine operi nella causa!} secondo una legge, fra ciò che segue e ciò che precede, ma bisogna che il concetto (la legge) dell’effetto influisca realmente sulla causa, con un processo percepibile.

Lo stavo dicendo: il modo in cui la rappresentazione della partita di calcio opera in me, lo percepisco che opera in me! È questione di percezione; perché l’altro percepisce in sé il fatto che la partita di calcio non gli interessa nulla!

Anche questo è un fatto di percezione interiore.

Invece uno dice: no, no, vedere una partita di calcio mi piace, mi piace, mi piace! Questo piacere di fronte a una rappresentazione di qualcosa che vivrò ne futuro, lo percepisco in me! Deve essere uno sguardo introspettivo.

I. 1: Ma scusa, quando hai parlato del fiore, abbiamo detto che l’eterico ha in sé la rappresentazione del fiore, ha una legge…

A.: No! Forze vitali!

I. 1: La differenza è che le forze dell’eterico non sono percepibili rispetto alla mia rappresentazione. Cioè le forze dell’eterico in realtà in sé contengono già il fiore; è giusto?

A.: Sta attenta, uno ha mangiato: come avviene il proceso della digestione?

I. 1: Meccanicamente.

A.: Ecco, questo è il punto fondamentale. Se tu dici la digestione avviene a livello meccanico, allora non spiegherai mai il vegetale e l’animale; perché a livello meccanico avviene soltanto ciò che è minerale, che è morto.

Quindi ci sono quattro tipi di operatività diverse: l’operatività meccanica in ciò che è morto, in ciò che è minerale, dove non ci sono forze vitali. Dove avviene la crescita delle piante, come fai a dire che sono meccaniche queste forze?

I. 1: Sono forze vitali

A.: Che vuol dire? Che differenza c’è?

I. 1: Che hanno la possibilità di arrivare alla fine; oppure no, anche tra le altre cose….

A.: Quindi c’è un tipo di crescita per moltiplicazione di cellule, che è un modo tutto diverso dal minerale di comportarsi, e la chiamiamo il vitale. Tu hai una cellula, cos’è che da una cellula ne fa saltar fuori due? È la vis vitalis, la forza vitale, che è forza soprasensibile, ma è una forza reale.

I. 1: Ma che ha uno scopo nel momento in cui sviluppa in quella cellula.

A.: Per avere uno scopo questa cellula dovrebbe avere la rappresentazione del raddoppiamento! La ritieni capace tu, questa cellula, di avere una fantasia così formidabile da avere una rappresentazione del suo raddoppiamento in modo che gli fa dire: ora mi va di raddoppiarmi! Sarebbe subito un essere umano!

I. 2: Ma in quanto rappresentazione del Logos ce lo può avere qualcosa di simile a un fine. Non è qualcosa che è stato pensato, in qualche modo, già da qualcuno? Dicevo che il fiore è un pensiero del Logos, quindi qualcuno l’ha pensato…

A.: Non il fiore, la pianta completa!

I. 2: La pianta completa. In quanto tale pensiero è stato fatto comunque, precedentemente; ma come influisce in questo senso? Non possiamo più parlare di finalità perché non parliamo di uomini, ma dobbiamo in ogni caso immaginare un concetto simile.

LUCIANA: Creatività non è finalità.

A.: No, no, andiamoci piano adesso! Direttamente non c’è, però ci arrivi poi, capito! Questi esercizi fanno parte di questo capitolo. Poi vedremo; quello che leggeremo lo capiremo in base ad aver fatto questi esercizi.

Sta attenta, tu, il problema che ti sei creata è che tu, la pianta, l’hai atomizzata. Allora, atomizzandola, tu dici: ma allora il Logos, che ha creato la pianta, deve aver creato prima soltanto la radice, poi ha visto la radice e dice: voglio mettere nella radice la rappresentazione del fiore in modo che la radice si dia una mossa per raggiungere il fiore… No! O c’è tutta la pianta, o non c’è nulla!

PAOLO. Pietro, però quando io vedo tutto il processo, dice lei, io in un seme vedo che c’è una potenza; cioè la diversità secondo me, da quello che ho capito, è un processo che si ripete sempre uguale; per cui io ho il tempo di dividerlo, come dici tu, in tante parti. Perché il seme ha dentro il fiore, ha dentro l’albero, ha dentro il fine tra virgolette; però sempre uguale, non c’è la fantasia individuale che lo fa diventare una volta una rosa, una volta un fico, una volta una petunia, no, il seme della rosa fa sempe una rosa; però dentro il seme la potenza è in fondo una finalità, no?

A.: (tira una riga alla lavagna) Allora, radice, è l’inizio, qui c’è il tempo, il tempo e lo spazio – tempo e spazio vanno insieme – nello spazio e nel tempo si evidenziano, uno dopo l’altro, elementi che nel Logos sono compresenti: si rendono visibili uno dopo l’altro! Ma non possono essere pensati uno dopo l’altro; io non posso pensare: radice, senza pensare: fiore; perché non c’è radice senza fiore e non posso pensare il fiore senza la radice.

Allora, a che serve al Logos, che ha tutto in un’intuizione, in un lampo d’intuizione, squadernare nello spazio e nel tempo? Che senso ha?

Per renderla percepibile per l’uomo!

Quindi il mondo della percezione è possibile soltanto nel tempo che si esprime in un frammento dopo l’altro e nello spazio che si esprime in un frammento accanto all’altro.

Quindi lo spazio è il mistero delle cose una accanto all’altra e il tempo è il mistero delle cose una dopo l’altra. Ma nello spirito non c’è nulla accanto all’altro, perché “accanto†significa fuori; e non c’è nulla dopo l’altro, perché “dopo†significa non ancora raggiunto.

CARLO: Nel concetto di pianta c’è già tutto!

A.: C’è la pianta! C’è tutta la pianta! Quindi il prima e il dopo non è un prima e dopo che riguarda la pianta, è un prima e un dopo per evidenziare a livello percettivo. Quindi nella radice, il fiore non è ancora percepibile, ma c’è ad altri livelli. E se, in questa radice, il fiore fosse diverso, il fiore immanente, la radice sarebbe stata diversa. Stando la radice così, il fiore sarà così; quando si evidenzia.

Che rapporto c’è fra sistema neurosensoriale e sistema metabolico?

Un rapporto di fine? Che uno è il fine dell’altro?

No! C’è un rapporto di consonanza, di armonia, di organicità, di interazione però perfetta: l’uno è creato per l’altro!

(XI, 2) Ma per determinare un nesso finalistico non è necessario soltanto il nesso ideale, {quindi tra la radice e il fiore c’è un nesso ideale, non un nesso finalistico, nel senso che la radice ha lo scopo, persegue lo scopo di far saltare fuori il fiore,} secondo una legge, fra ciò che segue e ciò che precede, ma bisogna che il concetto (la legge) dell’effetto influisca realmente sulla causa, con un processo percepibile. Ma un’influenza percepibile di un concetto sopra qualcos’altro può essere osservata soltanto nelle azioni umane.

È questa la frase, tu che chiedevi: dov’è nel testo?

I. 3: Posso chiedere un cosa, forse non ho capito niente, ma nell’esempio della partita di calcio, se io ho come fine la partita di calcio, perché mi piace di andarci; quindi mi faccio la rappresentazione…

A.: …di me, nello stadio, e come me lo godo!

I. 3: Esatto! Posso anche dire che, grazie a questa rappresentazione di me che mi diverto alla partita allo stadio, sono io stessa che creo che ci siano le partite?

A.: Che io creo che ci siano le partite?!

I. 3: Cioè, l’interazione che c’è tra me, nel mio pensare, il rappresentarmi il piacere, ha una forza creante?

A.: Se capisco bene, tu correggimi, eh!, tu vuoi dire – ed è giusto – se non ci fossero stati mai esseri umani che si sono proposti lo scopo… quando non c’erano ancora le partite di calcio è chiaro che la rappresentazione è ancora confusa, non è così nitida come adesso che ci sono tutte le regole, gli arbitri, ecc.; ma comunque tu stai ponendo la domanda: come è sorto il calcio?

In base a rappresentazioni umane di esseri umani che dicono: ma, non sarà mai che se noi inventiamo un gioco con una palla, e poi, insomma dato che l’essere umano spontaneamente usa le mani, no!, allora escludiamo le mani, soltanto i piedi, e poi caso mai la testa; allora, soltanto con i piedi ecc., ecc., ecc.

Allora come è sorto, come sono sorte le regole del calcio?

In base a rappresentazioni di un massimo godimento di questo tipo di gioco! Di questo tipo di interazione tra persone.

E poi è stato perfezionato sempre di più, e qual’era lo scopo che si voleva raggiungere perfezionando sempre di più il calcio?

Il massimo di godimento! È ovvio!

I. 3: Quindi c’è l’interazione .

A.: No, adesso il calcio c’è, non siamo più agli stadi in cui stiamo creando culturalmente le regole del calcio, no, ormai è tutto fissato; non cambierà nulla in base a me!

PUBBLICO: Anche oltre, adesso è fissato anche il risultato, oggi!

ARCHIATI. Sì, adesso tra l’altro per i soldi, è già fissato anche il risultato, capito!

Quindi restiamo al fatto, adesso non vogliamo complicare le cose che sono già abbastanza complesse; io so già che tipo di regole ci sono, che tipo di interazione c’è, però tutta la dinamica di come la palla va un metro più in qua, o un metro più in là, quanti gol ci saranno, nessuno lo può sapere!

E questo è il bello, il divertimento!

Quindi, in base a queste rappresentazioni – magari sono due persone, un uomo e una donna, per esempio – il maschio ha tutte queste rappresentazioni e ci va volentieri; la donna invece non ha in testa il calcio, non ci capisce nulla e ci va per far contento lui… agisce in base a un fine?

Ma certo! Il fine di far contento lui! È uno dei fini più belli che ci siano, tra l’altro!

Fare qualcosa al fine di far contento un altro è un fine, scusate! Eh, se io faccio qualcosa per far contento un altro, voglio raggiungere il fine di farlo contento; ed è una conferma del fatto che l’essere umano agisce sempre, continuamente, in base a fini; vuol sempre far qualcosa, vuol sempre raggiungere qualcosa, se no sarebbe già finito, sarebbe morto!

(XI, 2) Ma un’influenza percepibile di un concetto {io qui ci metterei molto più semplicemente: di una rappresentazione, altro che concetto! Casomai, parlando di tedeschi, quasi un secolo fa, Steiner sperava ancora che ci fossero concetti, ma oggi diciamo semplicemente rappresentazioni.}

Ma un’influenza percepibile di una rappresentazione concettuale {via!} sopra qualcos’altro può essere osservata soltanto nelle azioni umane. Solamente qui nell’uomo è dunque applicabile il concetto di scopo. La coscienza primitiva, {adesso arriviamo alla coscienza bambina che si fa dare gli scopi da altri, perché non ce li ha ancora, lei.} La coscienza primitiva che dà peso soltanto a quello che si può percepire, cerca, come abbiamo ripetutamente osservato, di trasporre qualcosa di percepibile che nell’uomo è percepibile… cos’è che è percepibile nell’uomo?

L’agire reale degli scopi rappresentati!

Ora, ciò che noi percepiamo nell’uomo, che nell’uomo agiscono scopi rappresentati, viene attribuito anche a Dio, viene attribuito anche alla natura, viene attribuito anche alla radice!

La radice segue lo scopo di far saltar fuori il fiore! Un’assurdità assoluta!

Dio ha messo alla base della mia vita uno scopo… adesso un Dio che agisce secondo scopi!?

È un poveraccio in canna, scusate! Perché agire secondo scopi significa non averne ancora conseguiti.

E qui diventa molto importante perché tutta la morale del passato è tutta di ricatto, in base agli scopi: io devo seguire la volontà di Dio… cos’è la volontà di Dio?

Lo scopo che Lui si è prefisso creando me!

O gli do un calcio, oppure non sarò mai libero.

(XI, 2) La coscienza primitiva che dà peso soltanto a quello che si può percepire, cerca, come abbiamo ripetutamente osservato, di trasporre qualcosa di percepibile anche là dove si possono trovare solo cose ideali. Negli avvenimenti sensibili essa cerca dei nessi sensibili o, quando non li trova, ve li sogna dentro.

Li inventa, in tedesco; e attribuisce alla natura, attribuisce alla divinità, un agire secondo scopi.

Il concetto è: ho diritto di parlare di un agire secondo scopi soltanto là dove percepisco l’influsso dello scopo su colui che agisce! E come percepisco l’influsso dello scopo su chi agisce?

Percependo le rappresentazioni dello scopo.

E questo avviene soltanto nella persona umana.

Soltanto nell’uomo possiamo percepire l’influsso tramite la rappresentazione dello scopo.

In Dio, dove vogliamo percepire gli influssi degli scopi?

Nella pianta dove vogliamo percepire l’influsso dello scopo?

Nel momento in cui la radice avesse degli scopi, ce lo direbbe: guarda che io, caro uomo, sto facendo di tutto per far saltare fuori il fiore! Cosa assurda!

I. 4: Scusa, come ulteriore approfondimento di questo discorso, io anche in ambito antroposofico ho sentito più volte dire che il Logos, quando si è incarnato, perseguiva uno scopo rispetto al dare una spinta all’evoluzione dell’umanità in quel momento.

Vogliamo provare a fare un approfodimento in realazione a tutto ciò che si è discusso finora: – mi è tutto chiaro – però non riesco a capire in che modo l’azione di Dio, quando c’è stata l’incarnazione e l’evento del Golgota, sembra essersi assoggettata, prima di tutto al tempo, e poi sembra abbia avuto una finalità molto simile a quelle che possono essere le finalità che noi ci proponiamo quando compiamo un’azione.

A.: Allora, lasciamo via tutta la terminologia degli addetti ai lavori teosofici, qui siamo esseri umani, ci basta la testa capace di pensare – che avanza! Magari la usassimo! D’accordo? – Allora, l’affermazione fondamentale del cristianesimo – adesso la cosa la dico intermini della filosofia della libertà, quindi mi dispiace che devo usare la parola cristianesimo, ma, insomma, ci intendiamo; se potessi evitarla la eviterei, tant’è vero che tu non hai parlato del Cristo, giustamente, ma del Logos – allora, l’affermazione fondamentale del cristianesimo è che, se magari ci fosse un qualche dio, da noi non percepibile, diventa per noi una realtà soltanto nella misura in cui si umanizza; perché l’essere umano non può esulare dall’umano; però l’essere umano ha un organo, che è lo spirito pensante, capace di diventare uno con tutto ciò che c’è; però a condizione che anche il divino lo umanizza nel suo pensare.

Allora, il fatto morale – perché agire per scopi è un fatto morale, non conoscitivo; nell’intuizione conoscitiva non si agisce per scopi: o c’è l’intuizione o non c’è – allora, il fatto morale, la decisione di un qualche dio, che si chiami come si vuole, se ha deciso di diventare uomo, la decisione può essere soltanto nell’aver deciso di rinunciare alla sua onnipotenza, per dare all’essere umano la possibilità di realizzare l’umano individualizzato nel tempo, un frammento dopo l’altro.

Quindi lui l’ha reso possibile incarnandosi nell’umano… cos’è la divinità per noi?

O la divinità è incarnata nell’umano, o non c’è!

Quindi la divinità incarnata nell’umano è il fattore di onnipotenza che rinuncia a se stesso, per far spazio alla libertà dell’uomo.

E perché la libertà… è nella struttura della libertà che i frammenti dell’umano individualizzato si realizzino uno dopo l’altro e non tutti insieme?

Se si realizzassero tutti insieme non ci sarebbe libertà!

E il fatto di realizzarli, a livello individuale, uno dopo l’altro, è che è intrinseca la possibilità di non realizzarli, di ometterli.

Quindi l’incarnazione del Logos è la decisione, intrisa di amore, dell’onnipotenza divina, di rinunciare all’onnipotenza per rendere possibile la libertà dell’uomo.

Però una libertà senza la possibilità di omettere… perché io adesso ho il fine di diventare sempre più bravo nel pensare, sempre più bravo nell’amare… e però dico: ma è una faticcaccia! Non ce la faccio proprio!

Se io non avessi la libertà di omettere non sono libero.

Quindi nel rapporto con lo scopo che io mi propongo c’è la libertà; perché quando io ho in mente uno scopo mi resta ancora la libertà di dire: lo faccio o non lo faccio, capito!

Adesso, mi ha telefonato mia nonna, all’una di notte, e dice: dài, vieni che ho bisogno, ecc., ecc. Sta a 15 km… lo faccio o non lo faccio?

Lo scopo di andare a visitarla c’è, però io non sono costretto a farlo!

Quindi, dobbiamo vedere questo realizzare per scopi, uno dopo l’altro, per frammenti uno dopo l’altro, l’io individuale nella realtà della libertà; fa parte della struttura della libertà; perché deve far parte della struttura della libertà che io, ogni frammento che mi rappresento come scopo da raggiungere, devo avere anche la possibilità di ometterlo, se no non sono libero.

I. 4: Grazie!

A.: E questo piccolo esercizio che abbiamo fatto, secondo me, nella misura in cui uno lo capisce, non c’è bisogno del linguaggio degli addetti antroposofi, basterebbe un modo di pensare pulito.

Tu cosa avevi sentito?, mi son dimenticato cosa avevi detto all’inizio.

I. 4: Non ho precisato, ho solo detto vagamente che avevo sentito in ambito antroposofico che, a un certo punto dell’evoluzione umana, era necessaria questa incarnazione del Logos per controbilanciare determinate forze che stavano prendendo il sopravvento sull’uomo; e per completare, per dare una spinta all’evoluzione dell’uomo nel senso di una maggiore individualizzazione e una presa di coscienza dell’io, da parte dell’uomo.

Forse non mi sono espresso molto bene, ma in questo senso mi sembrava di intravvedere che la venuta del Logos, l’incarnazione del Logos, avesse uno scopo; e allora mi è partita la domanda di dire: però in questo caso Dio, anziché avere un rapporto di pensiero creativo diretto, che non passa attraverso degli scopi, perché, da quello che dicevi tu prima, emergeva il fatto che Dio, quando pensa, pensa fuori del tempo, ed è creativo, quindi non pensa alle diverse fasi in cui si sviluppa la pianta, ma pensa la pianta in tutta la sua interezza, tutta insieme.

A.: Contemporaneamente!

I. 4: Esatto, e invece questo processo lo riconosco nella creazione, diciamo: il processo del pensiero creativo; un po’ meno nel processo di incarnazione.

A.: È perché non si coltiva a sufficienza il pensiero!

Tu qui, nel tempo della pianta hai due parti: la radice e il fiore; e tu dici: chi ha creato il concetto di pianta non crea prima il concetto di radice e poi ci mette dentro lo scopo di raggiungere il fiore. È un’unità! D’accordo?

Che differenza c’è, ti chiedo io, tra l’evoluzione pianta e l’evoluzione umana: in due parti è stata pensata, tale e quale come gli altri. Qui la caduta e qui la risalita, concetti puliti, non sentimentalistici.

Allora tu dici: la caduta “ha lo scopo diâ€; no!, la caduta non ha lo scopo, è stata pensata come un’unità, perché senza il concetto di risalita non pensiamo il concetto di caduta.

Però così come si manifestano a livello percepibile, prima la radice e poi il fiore – ma soltanto a livello percepibile – e sono uno dopo l’altro; così a livello percepibile c’è prima la caduta e poi la risalita; ma non a livello ideale, a livello ideale sono un’unità strutturata.

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I. 4: Bene, grazie!

I. 5: Scusa, quando parli di libertà, di libero arbitrio, secondo me, il libero arbitrio non esiste dove non c’è conoscenza.

A.: Eh, certo che non esiste!

I. 5: Allora, uno rimane sempre nella caduta perché non conosce la possibilità di risalita.

A.: No, no, no! La caduta non sarebbe una caduta – l’abbiamo fatto diverse volte – qui, nel punto della caduta, prendiamo il figliuol prodigo – adesso mettiamola così: è sceso giù nel mondo della materia, si è allontanato dallo spirito divino, adesso vive soltanto nel mondo della materia – . Tu stai dicendo: se lui, nella sua coscienza, ci sta benissimo così, allora non c’è problema, allora non è una caduta! Se invece l’evoluzione del suo essere è sta pensata che c’è la potenzialità della risalita, allora gli manca nella misura in cui non la fa.

I. 5: Perciò sta male!

A.: Sta male! Proprio questo è il punto fondamentale. Quindi l’animico che sta male evidenzia i colpi perduti dello spirito.

I. 5: Siamo in una realtà esattamente…

A.: Certo! È come dicevo io stamattina. Guardiamo all’aumento della depressione; l’aumento della depressione è un’anima che subisce sempre di più, che soffre sempre di più, per tutte le omissioni di realizzazione dello spirito; perché questa realizzazione potenzialmente l’uomo ce l’ ha!

Quindi non può essere contento senza realizzare lo spirito; altrimenti sarebbe tutto a posto! Se non avesse questa potenzialità sarebbe tutto a posto!

I. 5: Perciò l’uomo, quando è contento, è nella sua realtà di libera scelta: sta bene; e la caduta… se sta bene lì…

A.: Non sarebbe una caduta; non avremmo il diritto di parlare di caduta.

I. 5: Perché per me la caduta è l’ignoranza. Finché ci sono tante situazioni nella vita che ci prendono e ci tengono lontano dal mettere in primo piano lo studio chiamiamolo spirituale, lo studio evolutivo, perché ci sono tante cose da fare…

A.: Sì, ma cos’è l’ignoranza che mi rende triste; cos’è l’ignoranza?

I. 5: Ignorare, non sapere!

A.: No, no! Aver omesso passi conoscitivi possibili! Soltanto allora c’è ignoranza! La pianta non sa nulla dell’evoluzione, ma non è ignorante; perché non ha la potenzialità.

Quindi il concetto di ignoranza presuppone, è connesso idealmente, col concetto di potenzialità conoscitiva; perché ciò che io non ho la possibilità di conoscere non è ignoranza, scusa!

E noi, il concetto di ignoranza, nel tempo del materialismo l’abbiamo riferito al sapere anziché al pensare. È questo il problema!

Quindi ne abbiamo fatto un fattore di quantità; invece l’ignoranza, in quanto concetto, sono cammini di pensiero omessi; quindi ignoranza in fatto di spirito, non in fatto di sapere sul mondo. Perché tanto, dove si evidenzia questo concetto di ignoranza, di sapere che non c’è, che diventa sempre più antiquato?

Si evidenzia nella scuola, dove il ragazzo di 14 anni si presenta con iPad e lui ha a disposizione, proprio con un clic, tutto il sapere di questo mondo! E il maestro, o la maestra, è un ignorante assoluto nei confronti di questo strumento.

Quindi questo concetto borghese di ignoranza, di sapere, diventa sempre più… il sapere non dice più nulla, scusate!

Se io adesso ho a disposizione Google, dov’è l’ignoranza?

Ho accesso a tutti i frammenti di informazione!

Quindi il concetto aristotelico di ignoranza sono cammini di pensiero che l’uomo omette: cioè il non capire ciò che uno potrebbe capire; non il non sapere ciò che uno potrebbe sapere.

Quindi il concetto futuro dell’ignoranza è di un essere umano che non capisce, non capisce, non capisce, perché ha omesso di esercitare il pensare. Ciò che una persona sa o non sa, diventa sempre meno importante.

Scusate, cosa è più affidabile, la biblioteca del cervello, o un computer, o internet?

I. 6: La piccola biblioteca mia!

A.: No, in quanto deposito quantitativo di sapere, il computer ti batte in assoluto!

I. 6: Sì, non in quantità, ma come esperienza mia

A.: No, sto parlando del sapere. State attenti, qual’è la differenza fondamentale?

Allora, il cervello umano è soggetto a un handicap enorme che il computer non ha, ed è il dimenticare! Ora il fatto che il computer non dimentica è un vantaggio enorme, in quanto a sapere quantitativo, rispetto al cervello.

Quindi usiamo le forze del cervello non per accumulare quantitativamente il sapere, visto che adesso la macchine ci accumulano sapere; usiamo le forze del cervello per pensare, non per sapere.

Questo voglio dire! Il sapere diventa sempre più noioso, le macchine ce lo danno.

Non farmi vedere ciò che sai, non mi interessa! Fammi vedere come sai pensare, questo sì che mi interessa!

Quindi la qualità del pensiero diventerà sempre più interessante, e il sapere diventerà sempre più noioso. E il maestro che si presenta in base a quello che sa viene da un mondo passato, tant’è vero che gli alunni si annoiano sempre di più!

(XI, 2) La coscienza primitiva che dà peso soltanto a quello che si può percepire, cerca, come abbiamo ripetutamente osservato, di trasporre qualcosa di percepibile anche là dove si possono trovare solo cose ideali.

Vuole andare a percepire uno scopo, che percepibilmente influisce sulla causa, vuole andare a percepire la rappresentazione di uno scopo anche nella radice; vuole andare a percepire la rappresentazione di uno scopo da raggiungere anche nel Logos; vuole andare a percepire l’operare di uno scopo da raggiungere dentro Dio.

Siamo ai massimi stati di astrazione; non si ha nulla a che fare con la realtà.

(XI, 2) Negli avvenimenti sensibili essa cerca dei nessi sensibili o, quando non li trova, ve li sogna dentro. Il concetto di scopo, che ha valore nelle azioni soggettive, è un elemento che si presta a siffatti nessi sognati. {Inventati di sana pianta.} L’uomo primitivo sa come egli porti ad effetto un avvenimento, e ne deduce che la natura non procede diversamente.

Se io agisco in base a scopi, perché non deve agire la pianta in base a scopi?!

Che è una cosa assurda!

Perché non deve agire Dio in base a scopi?

Allora sarebbe un uomo!

Tra l’altro prima volevo dire che il tedesco preferisce… noi diciamo: Dio si è incarnato – nella carne – , invece il tedesco preferisce dire: Dio si è umanizzato, è diventato uomo. E in italiano non c’è; però è un’omissione di cammini di teologia che sono stati fatti; perché il Logos, non è che si è fatto carne, si è fatto carne umana, è diventato uomo; e ha rinunciato ad agire come agisce la divinità, attenendosi a ciò che è possibile alla natura umana.

(XI, 2) Nei nessi puramente ideali della natura non vede solamente forze invisibili, ma anche impercepibili scopi reali. L’uomo fa i suoi strumenti secondo lo scopo che si prefigge; in modo analogo il realista primitivo fa fabbricare gli organismi dal creatore. {A seconda degli scopi che si prefigge.}

Uno – andiamo all’uomo primitivo – ha lo scopo di andare a caccia; per perseguire meglio lo scopo della caccia si crea certi strumenti – una lancia, o quello che è – quindi fabbrica degli strumenti in base agli scopi che si prefigge di raggiungere: uccidere gli animali.

E la coscienza primitiva pensa che Dio agisca nello stesso modo. Si crea degli strumenti per raggiungere certi scopi; è come se Dio fosse nel tempo; è come se realizzasse i suoi scopi, le sue cose, una dopo l’altra.

Allora sarebbe un bravo uomo, non sarebbe Dio.

A seconda degli scopi che il creatore si prefigge di raggiungere… e allora dice: gli scopi, o li percepisci, o non ci sono, o sono inventati. E chi di noi può percepire scopi dentro il creatore? L’agire degli scopi, l’agire delle rappresentazioni degli scopi da raggiungere dentro il creatore?

È una cosa assurda, dall’inizio alla fine!

(XI, 2) Solo gradatamente questo falso concetto della finalità sparisce dalle scienze. {E anche dalla morale tra l’altro.}

Nella filosofia questo concetto imperversa abbastanza ancora oggi con la sua assurdità: infatti si ricerca fuori del mondo lo scopo del mondo, si indaga sulla destinazione (e conseguentemente anche sullo scopo) dell’uomo, e così via.

Cosa sarebbe lo scopo dell’uomo?

Lo scopo che Dio si è prefisso di conseguire creando l’uomo.

Che scopo si può essere prefisso Dio di raggiungere creando l’uomo? L’uomo è stato creato in base a uno scopo?

Se l’uomo fosse stato creato in base a uno scopo il creatore dell’uomo sarebbe un uomo, perché soltanto l’uomo agisce in base a scopi. Soltanto nell’uomo ci sono scopi percepibili nella loro operatività, a livello di rappresentazione. Quindi non c’è uno scopo che sta alla base della creazione dell’uomo.

Dio non ha scopi, se no sarebbe un poveraccio in canna! Perché uno scopo è ciò che non si è ancora conseguito; in Dio sarebbe un’imperfezione assoluta!

È la perfezione specifica dell’essere umano quella di agire secondo scopi; altrimenti non sarebbe in evoluzione, non sarebbe dentro il tempo, sarebbe oltre il tempo.

(XI, 3) Il monismo respinge l’idea della finalità in tutti i campi, con l’unica eccezione delle azioni umane. Esso cerca leggi di natura, ma non scopi della natura. Gli scopi della natura sono presunzioni arbitrarie, come le forze impercepibili (v. pag. 100 e segg.). Ma anche scopi della vita che l’uomo non si ponga da sé sono, dal punto di vista del monismo, presunzioni infondate. {Non presunzioni, sono assunti infondati, ipotesi infondate. Nel linguaggio italiano la presunzione è una categoria maggiormente morale. }

Allora: assumere, non presumere; un assunto è un’asserzione… assunti, ipotesi; la parola tedesca è: ipotesi.

LUCIANA: No, ipotesi no, perché un’ipotesi potrebbe essere anche giusta

PUBBLICO: Ma dice: infondata!

A.: Assunti, sì: assunti.

(XI, 3) Ha finalità soltanto ciò a cui l’uomo ne ha assegnata una, poiché la finalità sorge soltanto dalla realizzazione di un’idea. {E uno scopo, un fine, è un’idea. È qualcosa che uno si propone di realizzare.} E unicamente nell’uomo l’idea diventa attiva in senso reale. Perciò la vita umana ha lo scopo e il destino che le assegna l’uomo. {E l’uomo singolo però, non l’uomo in generale.}

Alla domanda: “quale compito ha l’uomo nella vita?â€, il monismo può rispondere soltanto: “il compito che egli stesso si prefiggeâ€. La mia direttiva nella vita non è predeterminata, ma è quella che di volta in volta mi prescelgo. Io non intraprendo il cammino della vita con un itinerario fisso.

Qualcuno però potrebbe dire: ma la potenzialità del mio essere non è arbitraria, è ben determinata! La potenzialità del mio essere, il mio io in quanto potenziale, è già stato creato; non è che io lo posso inventare a modo mio.

Allora, nella libertà c’è soltanto la scelta tra realizzare e omettere questa potenzialità che c’è dentro di me?

CARLO: Sembrerebbe di sì!

A.: Allora, ripeto la domanda: che libertà è se io ho soltanto la scelta tra realizzare qualcosa che è già stato pensato dal Logos, quando ha avuto l’intuizione morale del mio io, oppure ometterlo?

Che libertà è se io ho soltanto la possibilità di ralizzarlo così com’è, come è stato pensato potenzialmente, oppure ometterlo?

PUBBLICO: La faccio mia!

A.: Come?! È una metafora “la faccio miaâ€!

PATRIZIA: Con la mia fantasia.

A.: Articola il pensiero!

I. 7: Mi accorgo sempre di più nel processo conoscitivo e nella esplicazione morale, che questa realtà ancora potenziale, a mano a mano che si realizza, mi trova d’accordo, mi entusiasma, mi piace, mi dà sempre maggior pienezza. Mi trovo d’accordo con il mio creatore, in un certo senso.

ARCHIATI. E godo del modo in cui questa realizzazione genuina del mio essere favorisce in infiniti modi, ogni membro del mio organismo di umanità.

Eh, di più non si può pretendere, scusate!

Quindi adesso l’hai reso concreto, a livello di esperienza umana completa.

Quindi se il Logos, la pienezza potenziale del mio io l’ha già pensata – altrimenti non c’è il concetto del mio io – non c’è per me una pienezza maggiore, anche di godimento, anche di libertà e di sorpresa, che non realizzare in tutto e per tutto questa pienezza! Quindi una libertà maggiore non c’è! L’alternativa sarebbe di essere io quello che crea il mio io.

Sarebbe una libertà maggiore?

No!

I. 8: Sono già determinato se sono stato già creato da un altro, come io, come spirito.

A.: Non determinato, non diciamo che mi ha determinato.

I. 8: Dio ha creato tutti gli spiriti…

A.: No!

I. 8: Lo spirito non è stato creato da Dio?!

A.: No! Lo spirito umano è uno spirito potenziale. Stiamo parlando degli uomini, della libertà umana. E la domanda era: ma che libertà è se la possibile realizzazione, il modo di realizzare il mio io è già stato pensato, perché il concetto del mio io l’ha creato il Logos. Quindi la pienezza potenziale del mio io non è arbitraria, è già stabilita!

I. 8: È quello che sto dicendo: è determinata. È già stata determinata!

A.: No! Ma non a livello di realizzazione!

I. 8: Sì, posso anche non realizzarla, io!

A.: Ma il suo contributo (INTERV. 7) era: di entrare nel modo in cui l’anima vive questa realizzazione dello spirito: Che un godimento maggiore, un’esperienza maggiore di libertà, di liberazione da tutto ciò che non è io, che mi impedisce di diventare io, un’esperienza maggiore di libertà, di gioia e di pienezza non è pensabile! Perché se fosse pensabile il creatore del mio io ce l’avrebbe messa dentro. Quindi una libertà di arbitrio assoluto è meno libera che non la libertà verso la pienezza.

I. 8: Difatti parlavi di libertà di matrice in assoluto!

A.: Quello impoverisce l’uomo, quindi lo rende meno libero, perché non lo realizza.

I. 8: Però fa quello che ha deciso lui.

PAOLO: Ma no, è che tu man mano che lo conosci lo ami; capisci che è la tua potenza, è lo scopo per cui lo vuoi; non è che lo devi, lo godi. È lo scopo dell’umano. Cioè, non è più una cosa che ti viene imposta, anzi scopri piano piano la potenzialità infinita della tua realizzazione, per cui la ami, perché è il Logos, è quello che è più logico fare per un uomo.

A.: E sai per esperienza che una libertà maggiore non esiste, non può esistere; perché diventare qualcosa di non io è una non libertà.

Facciamo una pausa.

CARMINE: Volevo chiederti come leggere un’esperienza di Goethe, che ho trovato nei testi di Steiner, relativamente al fatto che abbiamo detto che la natura non persegue scopi, che afferma: la natura è impegnata nel perenne sforzo di ascendere.

Da quello che mi è parso gli dà molto valore a questa forza intrinseca alla natura.

A.: È una forza o è uno scopo?

CARMINE: È una forza.

A.: Quindi non è uno scopo!

Allora: nella pianta, nel seme, nella radice, c’è una forza ascensionale: qui c’è la terra, il seme lo mettiamo dentro la terra, la radice… c’è una forza ascensionale; poi salta fuori la pianta e tutto quanto, no!

Che c’entra con la rappresentazione di uno scopo, quindi farmi un’idea, farmi un concetto, di uno scopo da raggiungere – la partita di calcio che mi voglio godere – e (il fatto che) questa rappresentazione opera in me e causa un comportamento?

Quindi questa forza vitale è un fenomeno del tutto diverso che non agire in base a scopi. Questo è il concetto.

CARMINE: Quindi potrebbe essere simile a una forza di volontà.

ARCHIATI. No! No! Volere qualcosa è specifico dell’uomo.

CARMINE: Ma nell’espressione le forze di crescita sono simili alle forze di volontà!

A.: No, no, no, quello ce l’aggiungi tu!

CARMINE: No, mi ricordo benissimo questa cosa che, in attinenza a quanto ho letto, le forze di crescita sono molto affini alle forze di volontà.

A.: Ah! Affini e non simili! Quindi il concetto di analogo, l’analogia non è il concetto di similitudine; non sono simili; sono paragonabili. Cioè, diciamo, una forza immanente nella natura è l’analogo all’elemento umano; quindi lo scopo è come una forza immanente che mi muove, capito!

CARMINE: Okay!

CARLO: Riprendo il concetto di Carmine. Volontà fluente; questa è un’espressione che io ho trovato in Steiner quando, in meditazione, uno osserva un prato fiorito, ecc.

A.: No, no, no; se noi adesso ci riferiamo a citazioni, prima di tutto ogni citazione è un estrapolare, portarci fuori da un contesto che già abbiamo, e in secondo luogo, se proprio volete citare, citateci proprio in modo da…

CARLO: Il mondo dei sensi e il mondo dello spirito.

A.: No, adesso tu vuoi costringerci a riferirci a qualcosa che è del tutto vago, non serve al pensiero! Dì con parole tue

CARLO: Mi ricordo questo: in meditazione sparisce la visione del prato fiorito e uno ha l’esperienza di “volontà fluenteâ€. Di più non so dire. Io naturalmente non sono riuscito ad avere questo tipo di percezione, quindi non te lo so dire, l’ho solo letto.

A.: Allora, qui abbiamo il seme di una pianticella – il geranio – messo nel suolo, nella terra… è come una pietra?

No!

C’è il seme… lasciamo stare ogni citazione, restiamo nell’umano, nel campo di ciò che tutti percepiamo e nel campo di ciò che tutti possiamo pensare; altrimenti se tu citi, ci porti fuori; non serve a nulla, capito!

Quindi io mi riprometto di dire soltanto cose che ognuno capisce cosa sono, e le sa pensare lui; allora ci porta avanti la cosa.

Se (questo seme) non è una pietruzza… la pietruzza resta tale e quale, non cambia in nulla – magari dopo mille anni è un po’ più piccola – se invece è un seme noi intendiamo dire: un seme ha un dinamismo… qui dobbiamo usare parole che si riferiscono a qualcosa che poi salta fuori, ma lì non lo vediamo ancora; però salta fuori! E quello che salta fuori noi lo conosciamo, lo percepiamo; in questa pianta qui noi lo percepiamo.

E io so che questa pianta qui, all’inizio, era un seme tanto quanto quello (la pietruzza). Allora dico: se da questo seme salta fuori tutta la pianta, vuol dire che non c’è soltanto il minerale, qualcosa di morto, ma ci devono essere, diciamo, delle forze – usiamo la parola: forze, no! – delle forze vitali, forze che fanno crescere!

Quindi noi diciamo: c’è nel seme un dinamismo evolutivo; il seme non mi evidenzia tutto quello che farà saltar fuori; cioè il seme mi promette che si evidenzierà sempre di più quello che all’inizio è nascosto.

E il pensare dice: sì, posso usare la categoria di dinamismo evolutivo; si evolve quello che è involuto; si evolve, si manifesta a livello percettivo; però un brano dopo l’altro, nel corso del tempo.

A che cosa si può paragonare questo dinamismo evolutivo?

Qui ho un essere umano, un bambino di 3 anni. È un fenomeno statico, che non si evolve?

C’è un dinamismo evolutivo, lo sappiamo!

In quanto dinamismo evolutivo è paragonabile, però non è lo stesso tipo di dinamismo evolutivo, quindi il concetto di analogia è che tra fenomeno e fenomeno ci sono elementi paragonabili ed elementi non paragonabili, altrimenti sarebbe lo stesso fenomeno e non due fenomeni diversi.

Quindi ogni volta che si fa un paragone, ogni volta che si fa un’analogia, si tratta di individuare, nel pensare, quali elementi sono paragonabili e quali non sono paragonabili. Quando si fa un paragone bisogna sempre sapere dove il paragone calza e dove non calza.

La differenza nell’essere umano è che a 3 anni, o diciamo, a 1 anno di vita è molto più paragonabile alla pianta; invece a 30 anni – per essere sicuri – è successo un altro elemento di dinamismo evolutivo, che nella pianta non c’è, che è quello di creare una dinamica di espressione dell’essere provocata, incentivata, dalla rappresentazione di scopi da raggiungere!

Certo che è un dinamismo evolutivo anche quello! Però tutto diverso dal dinamismo evolutivo insito nel seme!

Però sono paragonabili nel senso che tutti e due sono dinamismi evolutivi, che cioè c’è una potenzialità insita, che però si manifesta, si rende percepibile, gradualmente nel corso del tempo; non tutto in una volta.

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Quindi, c’è un dinamismo evolutivo specifico del vegetale, c’è un dinamismo evolutivo specifico dell’animale e un dinamismo evolutivo specifico dell’umano.

In quanto dinamismo evolutivo ci sono elementi paragonabili, ma in quanto diverso, ci sono elementi che non sono paragonabili.

E il non paragonabile in assoluto è l’agire secondo scopi; perché lo scopo deve essere una rappresentazione di qualcosa che a livello di percezione ancora non c’è; però io mi faccio una rappresentazione di ciò che voglio conseguire, e questa rappresentazione opera in me e mi determina all’azione.

Quindi agire secondo scopi è esclusivo dell’umano, c’è soltanto nell’uomo.

I. 9: Però fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare!

A.: E con questo che vuoi dire?

I. 9: Che è difficile il fare, cioè muoversi; parlo dell’uomo.

A.: Fra il dire e il fare… quindi: dire è lo scopo pensato e il fare è lo scopo realizzato.

I. 9: Perciò mi posso fermare alla prima fase senza mai…

PUBBLICO: …navigare!

A.: Allora, questo proverbio, questo assioma, diciamo, se il pensiero lo coglie in un modo intelligente, lo realizza in un modo intelligente; ma l’essere umano non è costretto a coglierlo in un modo intelligente; lo può cogliere dal lato del comodismo: siccome il divario tra il dire e il fare è infinito, non parto neanche! È la scusa per non far nulla!

Quindi la morale dell’impossibilismo è una delle armi più micidiali del potere per intimorire l’uomo e metterlo in regola: guarda che tu questi mari non li raggiungerai mai, fa quello che ti dico io che è meglio!

Invece pensato giustamente, se tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, ben venga un mare con infiniti passi evolutivi, che non finisce mai, perché io non voglio mai essere morto!

Quindi io smetto di occuparmi della fine dell’evoluzione. Perché certa gente pensa a scopi enormi, che non sono raggiungibili, per avere la scusa di non far niente. Perché non pensa a ciò che posso realizzare subito, qui ed ora, poi al passo successivo, e poi al passo successivo.

Io dico: ma se la neve non mi permette di ritornare, io non posso tornare in Germania domani; allora faccio un passo dopo l’altro, no!

Quindi l’arte dei passi uno dopo l’altro è l’arte di essere sempre realizzati; oppure mai! Quindi l’autorealizzazione, l’essere umano, o la vive nel presente, o mai!

Perché un’autorealizzazione che io rimando a domani non c’è mai; domani è il giorno che non viene mai.

Quindi, o io vivo ogni passo che faccio, ogni frammento del mio essere, non soltanto ogni ora, ogni momento, come autorealizazione, oppure non sono mai realizzato.

Quindi tra il dire e il fare non c’è neanche un passo, perché un vero dire è un fare! Cosa importa a me chi io potrò essere domani?

Mi serve solo a svuotare l’oggi il pensare al domani.

Voglio dire: la libertà o è adesso, o non è mai!

Sì, però in questo momento vorrei essere diverso…

Pigliati come sei! Se non ti godi come sei non sarai mai meglio di quello che sei. Ogni essere umano è perfetto sempre, non gli manca nulla!

Cosa manca all’essere umano? I colpi che ha perduto?

Ma quelli non gli mancano: li ha perduti!

Ripeti il pensiero… ma una sberla a tutti i moralismi di questo mondo, eh! Immaginate quanti sensi di colpa si mettono addosso: che dovrebbe essere meglio, che devi essere più perfetto, ecc., ecc., ecc.

Ognuno è in questo momento… adesso prendiamo le persone qua in sala, me compreso: ognuno è così com’è!

Cosa manca a una persona che è così com’è?

Nulla!

Ognuno è perfetto così com’è, un’altra perfezione non esiste.

Sì, ma tu avresti potuto fare di più!

Quello che avrei potuto fare di più non mi riguarda: non l’ho fatto! Non mi appartiene!

Chi ha il diritto di dirmi che io avrei potuto fare di più, come fa a saperlo?

Oppure io mi dico, mi son lasciato, come dire, imbottire di sensi di colpa: avrei potuto fare di più! Ma come faccio a saperlo?

Me l’hanno detto gli altri, magari, che avrei potuto fare di più. Se non l’ho fatto, non l’ho fatto: punto e basta!

Paolo, fila il discorso? Pericoloso, vero!

LUCIANA: Hai lasciato tutti perplessi!

A.: Perché? Cos’è la perplessità? Articola!

LUCIANA: Silenzio assoluto (in sala)! Mi dà questa sensazione: che tutti ci stanno pensando: ma cosa ci sta dicendo? Come, siamo perfetti?! Allora gli scopi che dobbiamo raggiungere… Insomma, penso che nelle menti ci sia un gran fermento sulla base delle affermazioni che hai fatto adesso, per cui: continua!

A.: No, ma il continuare è più fecondo, per il pensiero, se un’obiezione viene articolata, capito! Perché io la tesi l’ho già detta, posso solo ripeterla; se invece c’è un’obiezione allora io do un altro colpo, però in base all’obiezione; allora aiuta.

MAURIZIO: “Il compito che egli stesso si poneâ€; riguardo all’umano, che è l’unica entità a cui viene data questa possibilità qua.

A.: Che agisce in base ascopi!

MAURIZIO: Che agisce in base a scopi… Io veramente l’ho un po’ sofferta la cosa quando ha fatto l’intervento Stefania, dicendo che era tutto, insomma, bello, bello, son belle anche le difficoltà; però se è vero che io ho comprato il libro “Capire il karmaâ€â€¦

A.: Uno solo?!

MAURIZIO: Eh, uno!; per adesso uno!

A.: Io ti avevo detto: dovevi metterti in testa lo scopo di comprarne almeno 5!

MAURIZIO: Eh, ma se il karma non lo posso integrare in questa frase qua…

A.: Allora sei imperfetto!

MAURIZIO: Meno male che sono imperfetto, guarda!

A.: Eh no, fa parte di quello che stiamo dicendo; adesso parti tu con la tua obiezione.

MAURIZIO: Eh, l’obiezione non era… lui ha usato il termine obiezione… dicevo che fra queste due affermazioni non vanno d’amore e d’accordo, ma bensì vanno al contrario; cioè il karma e quella frase dello scopo, che l’uomo ha la possibilità dello scopo, qui e ora, in questo momento. Cioè, significa che ci dimentichiamo questo libro del karma; quindi perché devo comprare 5 copie, se poi il karma… lo risparmio, no!

A.: Certo, certo! Allora: ciò che noi chimiamo il karma dell’uomo, il karma dell’uomo è il campo di gioco concessogli, che ha a disposizione.

Ora, visto che prima ho parlato della partita di calcio, no!, il campo di gioco non ti determina tutti i passi, tutti i calci che tu dài al pallone: è un campo di gioco; ti mette se vuoi delle regole, dei limiti; ma se tu ti muovi dentro queste regole, dentro questi limiti – che il campo di calcio non è fatto di 5 Km, ma… di quanti metri è fatto? 120! – tu lì dentro puoi fare quello che vuoi; hai la tua libertà, non è tutto determinato, tutti i calci che devi dare; altrimenti non è partita di calcio.

Allora, Steiner porta una volta l’esempio del pesce: al pesce non viene in mente di dire: però, io vorrei volare! Arriva al termine tra l’acqua e l’aria e dice: ah, qui è il mio limite alla mia libertà, io non posso volare!

No, il pesce non ha questo problema; resta in acqua e dentro l’acqua può fare tutti i movimenti che vuole.

Quindi, se l’essere umano resta nel suo campo di gioco, che è la libertà, ed esercita la libertà che ha a disposizione, ne ha che ne avanza! Ne ha che ne avanza! Era questo che lei ti voleva dire!

MAURIZIO: Ma nello scopo è insita anche la sua realizzazione, però: se no il campo di calcio, l’esempio, è che la partita, o per il tifoso, o per il giocatore, che la vinca, che la pareggia la partita… c’è anche l’aspetto dell’effetto, oppure la causa girata al contrario, che l’effetto genera la causa; comunque c’è anche questo aspetto in relazione al karma. Ma non è un’obiezione, è che c’è anche questo; sembra che adesso non vogliamo parlare di quell’altra cosa, però stanno insieme le due cose.

A.: Ma guarda che il karma è come ciò che c’è oltre il campo… io sto giocando al pallone, è come tu mi dicessi: però occupati anche di quello che c’è oltre il campo di pallone. No, io adesso sono in campo e sto giocando a pallone.

PAOLO: Eh, ma, lui (Maurizio) non lo dice, ma intende se il campo di pallone è molto accidentato, io faccio una partita più difficile di quello che ha il campo bello liscio! Lui dice: un karma difficile, un karma molto impegnativo non è così liscio come un karma di una vita facile.

A.: No, invece il concetto di karma… questo è un concetto errato di karma! Il concetto di karma è il concetto dell’uguaglianza assoluta di tutti gli esseri umani; nel senso che ognuno, prima di nascere, ha la possibilità reale, e quindi fa la scelta reale, del karma che, in assoluto, è quello giusto e migliore per lui!

Quindi ognuno si prende, in senso uguale – lì siamo tutti uguali – il karma che ha voluto lui, nella sua libertà, come quello migliore per lui, per portarlo avanti.

Quindi il karma non fa torto a nesuno, mette tutti uguali; perché ognuno si piglia il karma che si è scelto, liberamente, come il karma migliore per favorire la sua libertà, la sua evoluzione.

Quindi il karma che non favorisce l’evoluzione individuale non c’è mai stato, perché il concetto di karma è ciò che al massimo favorisce la mia evoluzione individuale; altrimenti non l’avrei scelto come mio karma!

Quindi il karma non è mai ciò che io subisco, è ciò che io ho scelto liberamente, come campo di azione per l’io inferiore.

Quindi, detto questo, lui, tu volevi, giustamente… il non realizzabile esiste soltanto per l’uomo che non ha ancora la capacità, la fantasia morale, di sminuzzare i grossi scopi, le leggi morali, le norme morali; tu devi fare, tu devi, devi, devi!

No! non m’importa niente quello che devo, ho lo scopo di intuire moralmente, con la fantasia morale, passi piccoli!

Quindi, la realizzabilità degli scopi è fondamentale! Quindi gode la vita, gode la libertà al massimo, colui che esercita l’arte di concepire soltanto scopi realizzabili.

Quindi la realizzabilità è fondamentale, se io mi accorgo che uno scopo sarebbe bello, ma non è realizzabile, lo mando a ramengo, scusa!; perchè mi crea momenti di non libertà se non lo realizzo.

Quindi l’esercizio della libertà è l’arte di proporsi scopi sempre più concreti – perciò io parlavo dei momenti presenti, no! – quindi lo scopo più concreto e massimamente realizzabile, qual’è?

La manifestazione possibile del mio essere qui e ora.

MAURIZIO: Eh sì, l’hai detto 10 volte!

A.: Eeeeh; e quello è realizzabile!

Ma una libertà maggiore non c’è, scusa! Questa è espressione pura dell’essere. Una libertà più grossa non c’è!

E quello che questa espressione pura dell’essere, questa libertà pura, tira fuori adesso, a me non importa di sapere cosa tirerà fuori… tirerà fuori il meglio domani e dopodomani; ma il meglio domani e dopodomani non può venire se io non ho il meglio adesso. Quindi il meglio, o c’è adesso, o non c’è mai!

MAURIZIO: Il discorso è pulito, comunque. Il karma ce lo siamo tolto dicendo che comunque appartiene a una scelta fatta prima di… è una scelta nostra il karma, e quindi questa ce la siamo tolta. E quest’altra è anche una verità bruttissima.

A.: No, no, no; lo dico in un altro modo: il tuo karma è ciò che tu hai già fatto e ciò che non hai ancora fatto!

MAURIZIO: Perché è stato scelto, e comunque lo conosco.

A.: In base a ciò che tu sei divenuto, ti sei ripromesso di raggiungere questo, questo e quest’altro che non hai ancora conquistato.

Quindi, il karma è la mia libertà del passato, ciò che ho già realizzato nel passato; quindi, in base a ciò che io ho già realizzato, mi propongo ciò che ancora non sono divenuto. Un altro che ha realizzato dell’umano tutt’altre dimensioni, si propone tutt’altre dimensioni da realizzare.

Quindi il karma è l’esercizio passato della libertà.

MAURIZIO: E da qui e ora non c’è più karma!

A.: C’è la libertà da qui e ora!

MAURIZIO: Il karma non c’è più da qui e ora?

A.: No, sta attento, io adesso, il mio passo successivo non c’è ancora: (Archiati fa un passo in avanti) adesso è karma!, perché c’è, è stato fatto!

Quindi tutto ciò che parte dal momento presente e va indietro è karma. Karma significa: ti sei deciso!

MAURIZIO: Prima hai un po’ ammutolito, mi sembra, tutti. No, prima, quando facevi l’esempio del dire al fare, che ci sono infinite possibilità…

A.: I passi singoli.

MAURIZIO: Anche Luciana poi ha sostenuto che ci hai ammutolito tutti, insomma; adesso invece…

A.: Il discorso che facevo in mezzo, è che ognuno è perfetto così com’è!

LUCIANA: Sì, quello che ci ha ammutoliti è che ognuno è perfetto così com’è.

PAOLO: Ma questo fa parte del prendere coscienza del tuo karma. È la stessa cosa, no!

A.: Certo!

PAOLO: Man mano che quello che tu sei lo comprendi, capisci che quello che tu sei, sei! Per cui è il meglio che c’è, e per cui non ti poni più come un limite, ma è come uno strumento…

A.: Una potenzialità a continuare!

PAOLO: Eh, certo! Cioè guarda, il discorso che mi ha convinto tanto, è quando tu hai fatto il discorso sul codice della strada.

Il codice della strada uno lo subisce finché non lo capisce; quando lo capisci lo vuoi rispettare perché è lo strumento per la mia libertà: io vado dove voglio!, se rispetto il codice della strada; se no, ad ogni incrocio faccio un incidente!

Per cui, non lo “devo†rispettare, lo “voglio†rispettare!

E questo è la stessa cosa: il karma non lo subisco, lo amo perché è il mio strumento di libertà! Però è una conquista, non sempre ce la facciamo.

A.: Il mio karma è ciò che io sono; e un io migliore non c’è! Ve lo pigliate così com’è: un altro Pietro Archiati migliore non c’è, scusate! Il Pietro reale è il Pietro migliore che ci sia! Come può, un Pietro non reale, essere migliore… immaginate: uno non reale!

Quindi ognuno è il suo meglio.

Ora – adesso rincaro la dose – immaginiamo quante persone, quante depressioni, quante difficoltà nella vita, con tutti questi patemi d’animo, che proprio ti vengono imbottiti dallo Stato, dalla Chiesa, ecc., ecc.; che uno si sente fallito in tanti campi!

PUBBLICO: Anche dai genitori!

A.: Anche dai genitori! Ma è una cosa allucinante! Falliti non esistono, scusate!

PUBBLICO: Non esisterebbero.

ARCHAITI: Nooo! Non esistono! Lui dice: non esisterebbero! Ma che vuoi dire?

Esseri umani falliti non esistono! È importante questo, altrimenti non ci liberiamo mai dentro. Ognuno è così com’è, santa pace!

Eh, ma tu avresti potuto essere più perfetto!

Un calcio nel sedere a chi mi dice una cosa del genere! Come se lui fosse il più perfetto di quello che poteva realizzare… ma si rende conto?! È un’astrazione dire: avresti potuto far meglio!

Due genitori, son due genitori all’acqua di rose… eh, è il meglio che questo bambino aveva! Se li è creati lui, per parecchi secoli e millenni, questi due genitori all’acqua di rose! Non soltanto loro, ha contribuito anche lui a che siano così; e che vuole!

Esseri umani imperfetti non esistono! È un moralismo pauroso, che serve soltanto a soggiogare l’essere umano, a fargli paura, a metterlo in riga. E omette sempre di più la realizzazione del suo essere.

La perfezione somma dell’umano è di essere per strada, e siamo tutti per strada, no!

Qui non c’è un dormitorio, non c’è un cimitero, scusate!

Perché i sensi di colpa, immaginiamo che enorme freno pongono a queste ali che mi danno l’entusiasmo di affrontare, ogni giornata, col desiderio di: voglio vedere cosa salta fuori, voglio vedere cosa mi viene incontro, ecc.

In Germania io conosco quasi solo gente che ha paura di fare degli sbagli!

Ma è patologica la cosa, santa pace! Al che io gli dico: andate un po’ in Italia, dài!

(Risate)

Adesso, per un po’ di tempo ho poltrito… niente di male! Un po’ di tristezza mi aiuta a darmi una mossa! Ma uno che non ha mai poltrito come può godere il fare?! Un essere umano che non ha mai poltrito sarebbe come un essere umano che non dorme mai; una cosa assurda!

Tu, come ti chiami?

ROBERTO: Io mi chiamo Roberto…

A.: Adesso chiedo a te, perdonami eh!, C’è un Roberto migliore di quello che tu sei?

ROBERTO: Assolutamente no!

A.: E allora perché mi guardi in cagnesco?

(Risate)

ROBERTO: Penso al futuro, penso al dopo, quindi nel dopo posso progettare il futuro, se no non avrei scopi; ne abbiamo parlato fino adesso, dicendo che l’essere umano è l’unico che ha scopi; quindi, se ora e adesso, diciamo, non posso essere meglio di come sono, però posso proiettarmi nel futuro e posso…

A.: Attento adesso che fai un grosso sbaglio di pensiero! Tu volevi quasi dire: posso diventare meglio!

ROBERTO: No, volevo dire: evolvere!

A.: Ti sei fermato perché io ti ho guardato in cagnesco, giustamente!

Però lo stavi dicendo! Guarda che tu lo stavi dicendo; nel momento in cui io ti ho fulminato, ti è mancata la parola!

ROBERTO: Non è detto che l’avrei detto, dài!

A.: Allora, che cosa ti proponi tu per domani, dopodomani, di diventare meglio? … Di continuare a vivere in pienezza, di continuare a fare quello che hai fatto finora, scusa!

DONNA: Quindi è anche la relazione fra due persone che…

A.: È la più perfetta che c’è!

DONNA: Esatto, però voglio dire, se ognuno è così com’è, non manca nulla; facciamo un esempio terra terra…

A.: È perfetto così com’è

DONNA: Se stasera nella cassetta non si mette niente, come relatore uno dice: questa cosa mi vuol dire che dentro di me devo cambiare!

A.: No!No! Tu lascialo dire a me quello che dice il relatore! Tu non sei il relatore!

DONNA: No, voglio dire: se l’altro… partiamo dal concetto che uno è così com’è e non gli manca nulla.

A.: È perfetto così com’è!

DONNA: Nella relazione però, se l’altro non fa determinate cose, queste incidono sul relatore in questo caso, no?

A.: Eh, una cosa perfetta! Allora: mettono niente nella cassetta: io dico: sono dei perfetti farabutti! Ma guarda che dei “perfetti farabutti†è una cosa bellissima!

DONNA: No, devo arrivare a capire!

A.: Se una persona è fatta così che, essendo libera di dare qualcosa, non dà nulla, la sua perfezione è quella!

DONNA: E va bene! Però incide sul modo di essere relatore o no? Cioè, l’altro è perfetto, un perfetto farabutto, ma…

A.: Allora, scusa, se tu sei il relatore, parla per te! Non mettere parole in bocca a…

DONNA: No, io sto guardando il relatore e il farabutto.

A.: No, tu sei il relatore; come reagisci? Tu sei il relatore, hai fatto una sfacchinata…

PAOLO: Girala dalla nostra parte! Tu sei un’ascoltatrice: perché non metti i soldi?

A.: No, no, no, non è questo l’esercizio che sta facendo; Paolo, sei fuori, moraleggi eh! Lei picchia molto più forte! Allora, guarda che l’esercizio ti serve soltanto se tu sei il relatore, capito!

DONNA: Va bene!

A.: Allora tu sei il relatore, o la relatrice visto che sei una donna; hai fatto un seminario e hai lasciato libere le persone – bravissima, sei bravissima, dico io fra parentesi – e quelle non ti hanno dato niente!

Adesso ti chiedo: tu come reagisci? Tu sei il relatore.

DONNA: Se io prendo questa frase come un dogma dico: ognuno è perfetto così com’è…

A.: No! io non ti ho detto “seâ€! Io ti ho chiesto: come reagisci, cosa fai? Sii onesta!

DONNA: Cerco di trovare un insegnamento da questa cosa che io percepisco che non c’è niente lì.

PUBBLICO: La prossima volta metti l’obbligo di pagare!

DONNA: No, no, non può essere così. Io voglio battere sulla frase: ognuno è perfetto così com’è, e vorrei arrivare a capire il momento della relazione.

A.: Allora lascia dire a me come io reagisco.

DONNA: Ecco, grazie!

A.: Vedi che cambia la cosa! Perché tu volevi mettermi in bocca ciò che io avrei dovuto dire!

DONNA: No, no, no!

A.: Allora, supponiamo che – detto fra parentesi: finora non è mai successo! – ma supponiamo che faccio un seminario e non mettono niente nella cassetta. Io dico: ma io il seminario l’ho fatto per i soldi, o l’ho fatto per goderlo?

Io l’ho fatto per goderlo! Finché io campo, vado via volentieri con la sacchetta vuota!, perché mi interessa di campare, perché campando, io so come mi godo la vita e mi basta; perché se mi godo la vita, di meglio non c’è.

Adesso tu dici: però io dovrei propormi lo scopo pedagogico di educare gli esseri umani ad essere un pochino più responsabili!

Affari loro!

Perché se io, in un seminario non sono riuscito a comunicare un minimo della gioia immanente nell’acquisire, nell’evoluzione, sempre più responsabilità morale anche nei confronti di tutto il mondo, non solo nei confronti di Pietro Archiati, allora il seminario non valeva nulla, e hanno ragione le persone che non hanno messo nulla nella cassetta. E allora va tutto bene!

Cosa c’è di male nella cassetta vuota?

Se le persone sono così, è la loro perfezione!

Diverse volte vi ho fatto l’esercizio; vi volevo dimostrare che non esiste nulla che l’uomo “deveâ€; quindi non esiste neanche che l’uomo deve mettere nella cassetta; dove esiste questo “deveâ€?! O lo fai con gioia liberamente, o altrimenti… Se lo fai per dovere, non metterci i soldi!

Perché io vi lascio liberi? Proprio per evitare che voi facciate una minima cosa per dovere. Quindi, ovviamente questa libertà che avete vi dice: guarda che, piuttosto di mettere anche soltanto 5 euro per dovere, non farlo!

Perché ogni cosa che fai per dovere ti uccide interiormente.

Adesso immaginate voi quanti sensi di colpa in base al dovere, dovere, dovere; e alla libertà non arrivano mai.

DONNA: E se c’è un accordo?

A.: E l’altro rompe l’accordo!: è la sua perfezione, di non essere capace di attenersi ad un accordo; E allora?

E se l’accordo è per me vitale, lo faccio con un altro; dov’è il problema!

Ognuno è perfetto così com’è; non fa una piega!

PATRIZIA: “Così com’èâ€, per adesso!

A.: Ma scusa, tu sei quella che sarà domani?

PATRIZIA: No, no.

A.: E allora! Eh, non barare, tu stai barando adesso! Tu come ti chiami?

PATRIZIA: Patrizia.

A.: C’è una Patrizia più perfetta di quella che c’è?

PATRIZIA: In questo momento, adesso, penso di no!

A.: Io non ho detto: è perfetto così come sarà!

PATRIZIA: Sì, ma ti ripeti in un modo come se non ci fosse la possibilità di miglioramento! Ecco, si ripete questo concetto di evoluzione, di trasformazione e di predeterminazione; ma io non sono predeterminata!

A.: Ma guarda che la perfezione di oggi…

PATRIZIA: Io voglio essere diversa fra un anno.

A.: Ma certo! Ma certo! Quindi la perfezione di oggi, per domani è una catastrofe! Ma non cambia niente all’affermazione che uno è perfetto così com’è, non come sarà!

PATRIZIA: Perfetto, non imperfetto: perfetto! Io mi sento però molto imperfetta “così com’èâ€!

A.: Purtroppo, purtroppo! Ed è questo che frena, proprio che imprigiona l’essere umano al massimo! Perché, come vorresti essere più perfetta di quello che sei? Non c’è una Patrizia più perfetta di quella che c’è!

PATRIZIA: Se no sarebbe già successa!

A.: No, perché ogni Patrizia immaginaria è un’imperfezione su tutta la linea; perché non è realizzata!

PATRIZIA: No, nel senso che se fosse più perfetta di quello che è in questo momento si sarebbe già manifestata.

A.: Ci sarebbe!

PATRIZIA: Ci sarebbe.

A.: Se non c’è, non c’è!

Un altro tentativo, dài, di dar contro!

Allora: l’esercizio è: ognuno è perfetto così com’è.

Ovviamente io, certe affermazioni, le prendo dal lato che sono provocazioni al pensiero! Però io le provocazioni non le intendo che siano sbagliate, devono essere pulite. Però in una morale retriva, in una morale di repressione, in una morale di coercizione, queste tesi liberatorie, che sono proprio liberanti al massimo, ti danno da masticare!

Qualcuno provi – 5 minuti ce li abbiamo ancora – di nuovo: ma come, ma come puoi dire che io sono perfetto così come sono?

INSEGN.: La consapevolezza della mia imperfezione, non è anche una spinta a creare un cambiamento, a creare uno scopo?

A.: No, è frenante! Ottima la domanda! Adesso io ti chiedo: cosa intendi tu per la tua imperfezione; tu hai detto: la mia imperfezione; cosa intendi, cos’è?

INSEGN.: I limiti che ho.

A.: Quali sono? Dimmene uno! Dimmene uno solo!

INSEGN.: Non so parlare in tedesco!

A.: Non sai parlare in tedesco? Dimmelo in italiano, scusa!

INSEGN.: No, il mio limite è che non so il tedesco.

A.: Ah, quello era il limite mio che non avevo capito! Allora, il fatto che tu non sai il tedesco sarebbe un limite tuo?

INSEGN.: Sì!

A.: Guarda che il pensiero è allucinante! È allucinante!

INSEGN.: Beh, limita la mia comunicazione.

A.: No, assolutamente scusa; basta che tu vivi in Italia!

PAOLO: È un ottimo presupposto per decidere di impararlo!

A.: Se voglio! Non “devo†volere. Magari meglio imparare il cinese, scusa! Dalla Germania arrivano soltanto colpi; parliamo cinese, no!, lì è il futuro dell’umanità.

Allora, ritorniamo; lei dice: io non so il tedesco… è un limite?

Ciò che io non sono, non mi riguarda, non è un limite! Perché “è un limite†significa: io avrei potuto – non soltanto – avrei dovuto imparare il tedesco.

E come fai a saperlo che avresti dovuto imparare il tedesco, per cui è un limite non averlo imparato?

Il tedesco, se tu non lo sai, non ti riguarda; e parlare di limite è un moralismo pauroso; una botta in testa per tener brave le persone.

Allora: tutto ciò che io non ho ancora realizzato dell’umano, è un limite?

Ma scusate, è una potenzialità evolutiva! L’ha detto Paolo che è così bello! Tutto ciò che io non sono ancora divenuto è ciò che posso ancora diventare!

Allora lì non va bene, dimmi un altro limite!

INSEGN.: Allora, io faccio l’insegnante e ho uno scatto d’ira nei confronti dei miei alunni, e mi sento in colpa.

A.: Dov’è il tuo limite?

INSEGN.: È nella mia incapacità di contenere questa ira che ho all’interno, e, diciamo, trasformarla in una creazione.

A.: Allora, questa insegnante iraconda, che tu sei, è il meglio di te; perché un’insegnante migliore in te non esiste; che vuoi?

INSEGN.: Però questa consapevolezza di questa mia tendenza mi spinge…

A.: No, sta attenta, un’insegnante iraconda è un’insegnante che ha qualcosa da fare! Invece un’insegnante che invece non è mai capace di adirarsi, che ha meno da fare… poveraccia!

Cioè, tutti i fattori si possono svolgere in negativo e si possono svolgere in positivo. Se li svolgi in negativo è una negazione dell’umano! L’iracondia non è qualcosa di negativo, perché uno che non è capace di arrabbiarsi mai, è una bottiglia vuota – dicono in tedesco – non vale nulla! Una persona che non si arrabbia mai è un cimitero, scusate! È meglio?

FOGGIA: Se una persona si arrabbia deve guardare al positivo della sua rabbia; non vale lo stesso discorso per la persona che non si arrabbia? Perché è una bottiglia vuota?

A.: No, la perfezione di un persona che non si arrabbia mai, è di essere poverella nel suo animo; ma se è così, è la sua perfezione; però è la perfezione di uno poverello; perché uno capace di arrabbiarsi è più ricco di uno che non si arrabbia mai. Però è la sua perfezione; è così!

WALTER: Però è anche questione di temperamento: se uno è collerico, ma se uno è un flemmatico, o un melanconico… ci saranno in ballo anche i temperamenti, no?

A.: Certo, certo!

WALTER: Quindi, se uno è flemmatico, o melanconico, è molto difficile che si arrabbi, però è il suo temperamento.

A.: Perciò ho detto che è la sua perfezione!

WALTER: Sì, certo; però se io facessi saltare in aria tutti quanti, compreso te, non so quanto sarei perfetto!

A.: Sta a vedere se ci riesci, prima! Poi ne parleremo. Ognuno è così com’è, di meglio non c’è!

i. 10: Io vorrei aggiungere questo: quello che tu sei andato dicendo, negli ultimi minuti, secondo il mio punto di vista, si riferisce soltanto all’attimo presente; al qui e ora. Solo se io prendo consapevolezza di essere la cosa migliore che posso essere in questo istante, posso avere la gioia di essere, e posso trarre da questa gioia di essere, le migliori energie per essere qualcosa di meglio ancora, nell’attimo successivo. Se io invece continuo a guardare il passato e vivendo di frustrazioni, di ciò che avrei potuto essere e non sono, cado in uno stato negativo, che mi porterà a fare dell’attimo successivo qualcosa di peggio ancora!

A.: È una descrizione ottima di quello che cercavo di dire. Però tu hai detto all’inizio: “vale soltantoâ€, e lì ti sei sbagliato; perché ogni essere umano, tutti noi, abbiamo a disposizione sempre e soltanto il momento presente; il passato non ce l’abbiamo a disposizione e il futuro è ancora da venire! Quindi non è che “vale soltantoâ€, vale in tutto e per tutto.

INTERV. 10: Ho detto vale soltanto perché poi in tutti i discorsi che son venuti fuori c’era sempre questa confusione tra l’attimo presente e l’attimo precedente, o l’attimo successivo!

A.: Esatto! Esatto! Buon appetito, ci rivediamo dopo cena.

Sabato 4 febbraio 2012, sera

A.: Il paragrafo 3, l’avevamo finito? Riprendiamolo.

(XI, 3) Il monismo {Quindi la visione unitaria del mondo,} respinge l’idea della finalità in tutti i campi, con l’unica eccezione delle azioni umane. Esso cerca leggi di natura, ma non scopi della natura. Gli scopi della natura sono presunzioni arbitrarie, assunti diciamo, come le forze impercepibili (v. pag.100 e segg.). Ma anche scopi della vita che l’uomo non si ponga da sé sono, dal punto di vista del monismo, presunzioni infondate. Assunti senza fondamento. Ha finalità soltanto ciò a cui l’uomo ne ha assegnata una, poiché la finalità sorge soltanto dalla realizzazione di un’idea. {O di una rappresentazine, se vogliamo.} E unicamente nell’uomo l’idea diventa attiva in senso reale. Perciò la vita umana ha soltanto lo scopo e il destino che le assegna l’uomo. Alla domanda: “quale compito ha l’uomo nella vita?â€, il monismo può rispondere soltanto: “il compito che egli stesso si prefiggeâ€. La mia direttiva nella vita non è predeterminata, ma è quella che di volta in volta mi prescelgo. Io non intraprendo il cammino della vita con un itinerario fisso.

(XI, 4) Soltanto attraverso uomini le idee possono essere realizzate finalisticamente. {In quanto concepite come scopi.} È dunque inammissibile parlare di idee che prendono corpo per opera della storia. Tutte le frasi come: “la storia è l’evoluzione dell’uomo verso la libertàâ€, oppure “La storia è la realizzazione dell’ordinamento morale del mondo†e simili, non si possono sostenere dal punto di vista monistico.

La storia dovrebbe avere, la signora storia dovrebbe avere dei fini, quindi delle rappresentazioni; ma la storia non è un uomo; soltanto l’uomo può avere delle rappresentazioni che operano in lui in quanto fini da raggiungere.

Allora qualcuno diceva: ma qual’è in fondo la differenza tra la pianta, di cui c’è un concetto completo, con tutto il ciclo della pianta; qui il ciclo della pianta: c’è tutto: qui c’è la radice, le foglie, i fiori, tutto il ciclo! (Inizia uno schema alla lavagna)

Quindi c’è una legge, un concetto di pianta; il concetto di rosa è compiuto, non ci manca nulla!

E qual’è il concetto di rosa?

È che tutti questi elementi sono strutturati organicamente; è un organismo vivente; non se ne può togliere nessuno. E questa corrispondenza noi la chiamiamo: leggi naturali.

Quale sarebbe il presupposto per cogliere l’io umano – qui la rosa e qui un io umano – in tutta la sua… dovrei avere qui l’inizio e qui la fine; è tutto presente: è un’unità organica, è tutto presente nel seme. Il fenomeno umano è assolutamente diverso. È arrivato soltanto a metà.

LUCIANA: Mi pare di ricordare che abbiamo letto che l’essere umano è l’unica creazione che il Padreterno ha lasciato incompiuta.

A.: Aperta, non incompiuta! Perché “aperta†sarebbe un’imperfezione dentro di lui.

LUCIANA: Sì, aperta; ho sbagliato termine.

A.: Allora, l’io umano, in quanto legge evolutiva… il Logos, nella mente del Logos, se vogliamo, l’io umano è lo stesso della pianta: c’è tutto!

Eh, non può averne pensato solo una parte! Sarebbe come un corpo umano in cui c’è soltanto metà! No, allora non è un corpo! O c’è tutto, o non c’è nulla!

Quindi nella sua mente c’è tutto, però a livello di potenzialità!

Noi lo percepiamo a livello di realizzazione nella storia, a livello di realizzazione percettibile. E questa realizzazione, se l’io umano, se il pensatore umano avesse la capacità di cogliere in chiave di pensiero il tutto, sarebbe lui il Logos!

Ma allora non ci sarebbe evoluzione, sarebbe già tutto presente!

Allora, il discorso che dice che l’essere umano agisce per scopi, sta a dire che, adesso, qui noi siamo nella seconda metà, siamo diventati capaci di pensiero, di libertà, ecc.; per noi gli scopi sono quei frammenti di realizzazione che tentando, cercando, ecc., uno scopo dopo l’altro… perché il fine ultimo per noi è un’astrazione, perché non c’è ancora! Questo è l’essere aperto dell’essere umano: non c’è ancora, non è ancora realizzato.

Perché se io mi sono realizzato fino qui, anno 2012, il resto non è ancora realizzato!

Quindi agire secondo scopi è specifico di questo spirito umano, che è aperto nel senso che sta ancora realizzando se stesso.

È come una pianta che, finora avesse realizzato soltanto fino alle foglie, una pianta di cui non ci fossero mai stati i fiori; e allora noi diremmo: ma allora non è una pianta; nel concetto di pianta è che c’è tutta!

LUCIANA: Scusa, il Logos ha pensato l’io umano per intero, c’è tutto; però siccome nella pensata del Logos, nell’io umano c’è la potenzialità della libertà, per questo motivo la seconda parte è lasciata aperta; perché nella pensata del Logos c’è la potenzialità della libertà, per cui è aperta in quanto può essere espressa, realizzata, oppure omessa.

A.: Ma non realizzata in un altro modo, perché allora sarebbe un altro essere!
LUCIANA: Sì, sì, d’accordo questo; però è giusto quello che ho detto?

A.: Sì, certo che è giusto, però la domanda di dire: che cosa ti sarà dato, cosa potrai realizzare del tuo io fra cento anni; la risposta è: dammi cento anni!

LUCIANA: Eh certo! È logico!

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A.: Perciò dicevo: ognuno ha la perfezione intrinseca a ciò che è diventato finora; un’altra perfezione non c’è; e gode nella misura in cui si realizza più che può, e soffre nella misura in cui si realizza di meno di quello che potrebbe.

I. 1: Ma come faccio a sapere quando io non mi realizzo; dove sono?

LUCIANA: Perché stai male.

I. 1: Perché sto male? Perché soffro?

A.: Vacci piano, vacci piano; domande così fondamentali… tu fai un sorrisetto come per dire: adesso voglio vedere che risposta mi dài, capito! Per una domanda così fondamentale non c’è una rispostina!

Quindi, prendiamo l’analogia dell’organismo, fino al punto in cui ci serve, poi la lasciamo. Come fa un organo a sapere se funziona bene?

I. 1: Fino a quando non si inceppa, fin quando c’è qulcosa che non funziona.

A.: Eh, deve star bene lui; quindi deve essere sano, non mi deve far male; e tutto l’organismo gli deve dire che sta facendo un buon lavoro.

Allora per rispondere alla tua domanda, che è una domanda fondamentale – perché la morale vorrebbe darti dal di fuori degli orientamenti: se tu segui queste norme realizzi te stesso, se non le segui non realizzi te stesso – però tu adesso, col tuo sorrisetto, stai dicendo che è giusto, non possono essere fuori di me le norme della realizzazione del mio essere, perché si tratta del mio essere!

Allora ne hai due immanenti di norme. Una sei tu! Quindi il primo criterio fondamentale in assoluto è che ciò che ti realizza, ti rende contenta! E ogni volta che sei scontenta è perché non ti sei realizzata. Quindi è nel concetto di realizzazione la gioia; che deve dar gioia, se no non è autorealizzazione, e la scontentezza mi evidenzia che non mi sto realizzando al massimo. D’accordo?

Però questo criterio non basta, perché potrebbe essere illusorio: uno può essere contento anche sbafando o essendo egoista. Allora c’è l’altro criterio fondamentale, che però non è esterno a te, che è il tuo organismo!

E il tuo organismo qual’è?

L’umanità! Tu sei un membro dell’umanità!

Allora il tuo organismo, che non è una morale fuori di te, ma che ti fa parte, perché tu sei dentro questo organismo, ti dice: guarda che il tuo comportamento, il tuo modo di essere, è bello!, lo vediamo come armonico perché tu esprimi dei talenti che corrispondono ai nostri bisogni; allora, nella misura in cui le persone sono contente con te, è un altro criterio per dirti: va bene, continua così.

Nella misura in cui le persone sono scontente, non soltanto perché sono egoiste, allora tu dici: ma allora, forse non sto facendo quello che è il mio compito nell’organismo dell’umanità.

E se uno segue questi due criteri fondamentali, che sono puliti, io, come membro devo trovare la pienezza mia, e il concetto di pienezza è la gioia, perchè una cosa fatta bene, una cosa realizzata, dà gioia, capito!

Quindi devo vedere quali esperienze danno gioia e quali esperienze mi danno tristezza; quindi la gioia e la tristezza… nel vangelo di Giovanni la categoria della gioia è una di quelle più fondamentali, perché non è una norma esterna, ma è insita nell’essere.

Quindi la gioia è l’esperienza della pienezza; di più non c’è! Se io vivo sempre di più la pienezza, vado bene; moralmente vado benisimo; perché immetto nell’umano, nell’organismo dell’umanità, il meglio di me! Meglio non esiste!

I. 1: Quindi tu mi stai dicendo: io ho come due specchi. Uno specchio sono io; quindi mi guardo e dico: sono felice di me stessa, sto facendo delle cose che mi danno gioia, mi realizzano, okay; e l’altro specchio fondamentale, perché io posso anche barare, mi posso sbagliare, mi posso illudere, ho la conrtoprova in un altro specchio più grande che è l’umanità attorno, di cui sono membro, per cui l’altro specchio è l’umanità che io guardo, vedo che è contenta…

A.: E mi sta dicendo: guarda, ci sembra che stai dando il meglio di te!

E questo criterio morale è importantissimo; perché se io non do peso morale agli io umani, a che cosa do peso?

Però il primo sono io! Ma il primo criterio, che sono io, non basta da solo; perché una persona che guarda solo sé, si può contentare di poco.

I. 1: Oppure di troppo! Oppure voler troppo di sé!

A.: No, ma se è troppo, non lo realizza! Il troppo non è possibile, il troppo sarebbe l’impossibile! Quindi fare di più di quello che si può, non c’è, non esiste!

Però fare meno di quello che si può, c’è! Allora, quando una persona si accontenta di poco, arrivano gli altri e dicono: tu puoi di più!

Perciò il secondo criterio è importante; perché ti stai accontentando di troppo poco! Stai godendo, ma potresti godere ancora di più. Stai dando una pienezza, ma potresti dare ancora più pienezza. E se io i due criteri li metto insieme, eh, di meglio non c’è!

Ma una norma esterna non esiste. Non esiste assolutamente!

Quindi, quali sono i due scopi fondamentali che io mi posso proporre di raggiungere?

Il primo scopo fondamentale è quello di mirare, sempre, in assoluto, ad essere in armonia con me stesso, e mai in contraddizione col mio essere; e il secondo scopo è quello di creare un massimo di armonia, di cui fa parte anche la provocazione reciproca, di cui fanno parte magari anche le beghe, se sono in vista di un cammino, che è un favorire reciproco del cammino verso la pienezza.

E allora va bene! Meglio di così non esiste!

Nell’organismo meglio di un membro sano, che immette salute nell’organismo, non esiste. Se son tutti sani, l’organismo è sano. Più salute di salute non c’è! Sano è sano!

I. 1: Grazie!

A.: Con questo non è detto che qusti due criteri siano facili, eh! L’umano è complesso, e proprio perché è complesso è importantissimo avere dei criteri fondamentali, però chiari nel pensiero; perché se io non li ho chiari, mi lascio ricattare dalle norme che mi dicono dal di fuori: tu devi proporti lo scopo di far questo, di far quest’altro, di ubbidire a questa legge, ecc., ecc., ecc. Tutte cose che non mi realizzano.

I. 1: Ma anche l’umanintà che è fuori, bisogna stare attenti che non diventi norma! Cioè, quell’umanità di cui faccio parte, che sarebbe il mio secondo specchio, in realtà devo stare attenta che non diventi norma, che può diventare norma e me la può girare su e farmi su in un momento…

A.: Tu hai detto: “l’umanità che è fuoriâ€â€¦ l’umanità fuori di me non esiste! Però tu adesso dici: sì, però è troppo astratta la cosa!

Allora, ci sono degli esseri umani – parecchi – che di fatto non hanno voce in capitolo per quanto mi riguarda. E sono quelli che non sono direttamente, karmicamente congiunti con me.

Quelli non hanno voce in capitolo; perché sono solo teoricamente, sono solo in prospettiva evolutiva di diventare una parte di me, quando ci rimembriamo a tutt’altri livelli.

Per ora mi attengo alla contentezza e alla scontentezza, nei confronti del mio essere, di coloro che percepisco e fanno parte del mio karma; e basta! È sufficiente, capito!

E la Chiesa cattolica, che non fa parte del mio karma, questi preti che non ho mai visto, li mando a ramengo! Se no, io do più importanza a chi non fa parte del mio karma, agisco immoralmente perché devo dare meno importanza a chi fa parte del mio karma.

La milza e il fegato hanno un rapporto molto più diretto fra di loro che non con il cervello, supponiamo; e devono prendere molto più sul serio cosa c’è di osmosi tra milza e fegato. Quindi, quanto al criterio di riverbero che mi viene dagli altri, devo dare peso morale in assoluto alle persone con cui sono quotidianamente karmicamente congiunto; le altre persone non mi interessano proprio, non hanno voce in capitolo.

Però una persona con cui vivo giornalmente… oh!, sarà ben importante che prenda sul serio il mio modo di influire su di lei, perché anche per me, il suo modo di influire su di me, è importantissimo!

I. 2: Queste persone all’esterno possono condizionare, perché hanno delle aspettative che io non posso soddisfare, no? Le persone all’esterno possono avere delle aspettative, parlo sempre di persone karmicamente vicine, non lontane…

A.: Ma non ti riguardano queste aspettative. Che te ne importa delle loro aspettative!

I. 2: Ma riguardano il rapporto!

A.: Ma, allora: sono persone esterne o sono persone che hanno a che fare direttamente con te?

I. 2: Sono persone che hanno a che fare direttamente con me.

ARCHIATI : Quelle non hanno aspettative!

I. 2: Sì, sì, ce l’hanno!

A.: Hanno diritti karmici! Che è tutt’altra cosa! Diritti karmici! Così come tu ce li hai nei confonti loro.

Cioè, essere connessi karmicamente significa che c’è un’osmosi di forze le cui leggi vanno rispettate.

La persona che vive con me non è che ha l’aspettativa di non venire danneggiata da me, ha il diritto di non venire danneggiata da me; come io ho il diritto di non venir danneggiato da una persona che vive accanto a me. Non è soltanto un’aspettativa!

Se tu vivi accanto a me, io ho il diritto che tu viva in modo tale da favorire la mia evoluzione; se no vattene! Però tu hai altrettanto diritto a che il mio comportamento, il mio essere, favorisca la tua evoluzione.

Questo è il karma! Favorirsi a vicenda!

Ma favorirsi a vicenda è una legge evolutiva, è la legge del karma; non è un’aspettativa.

Guarda che se tu sei mio marito, sei venuto al mondo perché io ho dei diritti karmici nei tuoi confronti; altrimenti dovevi evitare di diventare mio marito; altrimenti tu fai come se fossi mio marito, però non lo sei! Allora, lo sei o non lo sei? Se non lo sei, vai! E se lo sei, allora hai dei doveri karmici ben precisi!

I. 2: E allora non ci sarebbero le separazioni che ci sono in continuazione!

A.: Questo è un’altra cosa: una separazione non significa nulla! Una separazione è soltanto un rapporto che nella sua fisicità termina. Una separazione sono due persone che erano una accanto all’altra e adesso sono fisicamente una distante dall’altra.

Cos’è terminato? Nulla!

Il giorno in cui io mi sono separato da mia madre, lei è vissuta in comunione con me in un modo molto più profondo di prima; e dov’è la separazione?

Perché gli altri 9 figli ce li aveva in casa, e piangeva perché l’altro era andato via, e quello ero io.

Noi siamo troppo materialisti; questo è il problema!

I. 1: Anche quando c’è una morte? Anche quando un congiunto non c’è più, è morto, continua a persistere…

A.: Non c’è più il corpo, scusa, lui c’è ancora, ancora di più.

I. 1: E quindi anche il diritto-dovere continua, in un altro…

A.: In un’altra dimensione; ma io adesso ho parlato di diritti e doveri, però, siccome la parola karma è pulita, diritto e dovere vanno messi tra virgolette, capito! Noi non abbiamo una morale senza moralismi; quindi abbiamo un sacco di parole che non esistono; quindi parlando del karma, mi tocca parlare di diritto e dovere; ma sono leggi, sono forze reali che io posso favorire, o che io posso distruggere.

LUCIANA: Adempimenti, magari è un po’ meglio.

A.: Sì, adempimenti.

I. 1: No, leggi, è più bello!

ARCHAITI: Beh, leggi… sono forze reali. Le forze che vigono tra la milza e il fegato sono forze reali; o loro distruggono queste forze, e allora c’è la malattia, oppure le tengono sane queste forze, e allora c’è la salute!

Il karma sono forze reali: o io, queste forze reali, che sono forze di favorirsi a vicenda – come il fegato e la milza – le rafforzo e allora c’è la salute del rapporto; oppure le distruggo, e allora c’è la malattia del rapporto.

Certo che una separazione può essere anche un mancare alla promessa fattasi a vicenda prima di nascere; certo! Ma chi di noi è perfetto, tra virgolette… Quindi, se la sua perfezione è di andarsene, se ne va! È la sua perfezione in questo momento.

Comunque credo che serva a qualcosa: sono tutti avvii di pensiero, non è che in due minuti si possa risolvere… importante è rendersi conto che siamo imbottiti di moralismi. Quindi la risposta alla domanda: che scopi hai, che cosa ti proponi di realizzare di te, è: eh!, dammi tempo, e sta a vedere!

E una persona adulta che si lascia gestire dal di fuori… la colpa è sua!

In che cosa consiste la colpa?

Nell’omettere l’autogestione!

Nel momento in cui ometto di gestirmi io, ci sono subito un sacco di poteri pronti a

gestirmi loro e a farmi fare quello che vogliono loro.

LUCIANA: Pietro, hai cominciato questo discorso dicendo: qualcuno mi ha chiesto la differenza tra la pianta…

A.: Sì, la differenza dove noi abbiamo l’intera fenomenologia a livello di percezione, e quindi possiamo cogliere il concetto; e in questo concetto ci sono i rapporti, le leggi immanenti dell’evoluzione. Qui (nella pianta) è un concetto compiuto. Qui (nell’uomo) è stato concepito dal Logos potenzialmente; quindi nella mente del Logos – usiamo metafore umane, no! – è già compiuto se si realizza, e non si può realizzare in un altro modo.

LUCIANA: Sì, sì, perché avevo perso il punto di partenza.

A.: Era quello il punto di partenza, capito! Allora, qui parliamo di evoluzione – quella umana – che mette alla base degli scopi, che sono rappresentazioni di ciò che questo io, a mano a mano, vuole realizzare di sé.

E dicevamo anche: più lo scopo è a lunga scadenza, e più diventa astratto!Quindi la scusa per non propormi degli scopi adesso realizzabili, oggi, domani, fra un’ora, ecc., la scusa per non far nulla è di propormi degli scopi che poi uno dice: eh, ma non è realizzabile!

La categoria materialistica, borghese, del successo è la struttura psicologica di quel poveraccio che ha imparato a godersi soltanto la fine!

E come la chiama la società borghese la fine?

Il successo!

E la rincorsa del successo è lo svuotamento della ricchezza dell’io nel momento presente; vive sempre nello scopo da raggiungere che è sempre nel futuro; ed è sempre scontento, perché non è mai alla fine!

SANTO. Si potrebbe dire che la pianta è prevedibile, è ripetitiva.

A.: Certo!

SANTO: È una continua copia, mentre l’uomo è imprevedibile e sempre nuovo. Non si può sapere cosa succede e quindi è creativo. Cioè la pianta è creata e l’uomo è creativo; la sua azione è sempre nuova, e non si sa cosa ne può saltar fuori, insomma; momento per momento. E quindi sempre nel momento presente e non nello scopo che in fondo è lontano; la creatività non può essere alla fine, ma sempre nei momenti presenti, continui, che poi diventano, appunto, karma, e creano il nuovo.

ARCHIATI. È convincente il discorso che stai facendo! Lo vedi tu stesso! Lo dici con parole tue, però mentre lo svolgi, lo senti, e tutti noi lo sentiamo: sì, sì, è così, per forza!

E il modo migliore per ricattare la ricchezza presente dell’io, è di fargli rincorrere un fine che è la fine della ricchezza presente. Gli vogliamo proibire di godere la sua ricchezza presente, in modo che non godendo la sua riccheza presente lo rendiamo ricattabile.

Quindi l’unico modo di essere liberi è di godere il momento presente, e il massimo godimento è di essere vivaci, vivi, nel pensare più che io posso in questo momento; e di essere vivi nelle forze dell’amore più che io posso in questo momento. Di meglio non c’è!

SANTO: Sì, solo il presente può essere creativo! Non c’è né passato, né futuro.

A.: Esatto! E questa pienezza del presente è il presupposto migliore in assoluto per continuare a vivere nel presente, perché se io sono vuoto adesso, non creo i presupposti per essere pieno nel momento successivo.

La pienezza crea pienezza, il vuoto crea il vuoto. Quindi la pienezza o c’è adesso e continua a creare pienezza, o non c’è adesso e non c’è mai.

SANTO: È vivere al di là del tempo e dello spazio.

A.: Sì, sì, è il primo esercizio di superamento del tempo e dello spazio. E questa presenza di spirito, che l’italiano deve usare tre parole: presenza - di- spirito, il tedesco la mette in un concetto solo: Geistesgegenwart. È la ricchezza pensante e amante del presente: Gegenwart.

Quindi lo spirito conosce soltanto il presente; non c’è un passato per lo spirito, sarebbe già povero, avrebbe perso qualcosa; e non c’è futuro per lo spirito: ci sarebbe qualcosa che ancora non ha. Allora questo non è spirito!

L’anima ha un passato e un futuro, ma non lo spirito! Lo spirito è pura presenza di spirito.

E che cosa è presente allo spirito divino?

Tutta l’evoluzione umana!

È presente perché l’abbraccia tutta!

E lo specifico dell’uomo è che vive un passo dopo l’altro, nel tempo e nello spazio. Lo specifico dell’umano. Io posso vivere lo spazio e il tempo, posso vivere i momenti successivi soltanto proponendomi uno scopo da raggiungere, uno dopo l’altro.

SANTO: Dicevi, nel divino è presente. Però questo non lo capisco bene; se io vivo l’attimo creativo momento per momento e sono realmente creativo… cioè questa creazione è mia, e quindi come fa ad essere presente nel Logos se sono io quello che rende imprevedibile…

A.: Io non creo la pienezza del mio io, la realizzo! Quindi se noi restiamo a Platone, alla tua domanda non riusciamo a rispondere.

SANTO: Sì, sì, quindi allora è in fondo la mia scoperta della creatività.

A.: Potenziale!

SANTO: Realizzatrice del mio essere.

A.: Ecco, è Aristotele che ha compiuto un passo enorme di pensiero rispetto a Platone; perché Platone pensava sub specie aeternitatis; invece Aristotele ha introdotto le prime categorie di pensiero che si riferiscono alla fenomenologia dell’evoluzione nello spazio e nel tempo. E la prima categoria di pensiero introdotta da Aristotele è la distinzione tra potenzialità e attualizzazione di una potenzialità. Senza questa distinzione non si risponde alla tua domanda, che è molto difficile. Quindi il mio io è un’intuizione unica e irripetibile del Logos, in quanto potenzalità evolutiva del mio essere; quindi io non ho una potenzialità a qualcos’altro!

Se realizzo il mio essere, lo posso realizzare soltanto come l’ha previsto lui! Perché non sono un altro essere, sono quello che ha pensato lui.

Però posso omettere di realizzarlo!

E in che cosa consiste il realizzarlo?

Nel recepirlo nella coscienza e nell’amarlo. E quello lo posso fare soltanto frammento per frammento.

E recependolo nella coscienza incarnata e amandolo nella coscienza incarnata, rendo percepibile la fenomenologia del mio io.

Però in quanto spirituale, in quanto potenzialità, l’ha pensata il Logos; ma in quanto si esprime a livello di percezione, nel mio modo di capire chi io sono, frammento per frammento, e nel mio modo di amare chi io sono nell’organismo dell’umanità, questo si realizza passo dopo passo.

Quindi, se uno mi chiede: chi sei tu? Io gli dico: Lui sa chi io sono, però io, per saperlo io, dammi ancora un po’ di tempo!

Ancora un paio di millenni, perché lo posso sapere soltanto realizzandomi.

SANTO: Quindi è il sorgere della coscienza, proprio dal basso, diciamo dall’ego, dal primo egoismo più elementare, che piano piano si accorge…

A.: Crea scopi sempre più alti! Che cosa sono gli scopi?

Scopi sono frammenti di autorealizzazione; oppure non sono scopi.

SANTO: E l’operato rende percepibile questa realtà. E poi sarà percepibile, non so, pensando al discorso di Steiner, su vari piani. Cioè sarà percepibile poi, nell’evoluzione, su vari piani; voglio dire, no! Ora siamo al minerale, al materiale, e poi è una percezione che entrerà nell’eterico e avanti, insomma. Questa realizzazione, questa creatività.

A.: Ma, le piccole mete… adesso mi propongo questa meta, poi questa meta, questo scopo, questo fine… dove li percepisco questi scopi, queste mete?

Nella mia anima! Nella mia anima! Sono rappresentazioni che sorgono nella mia anima; diventano percepibili nella mia anima.

SANTO: Sì, certo! l’ego nasce lì, sorge lì, nell’anima; quindi non può che partire da lì. Grazie!

A.: Quindi la risposta alla domanda, che poi era la tua domanda, no!, di uno che ti chiede: chi sei?

Eh!, ci sto lavorando! Guarda! Al mio essere ci sto lavorando.

E l’aiuto, quando uno poltrisce più di tanto, è che diventa triste, si sente non realizzato; è l’aiuto che gli dice: dài, datti una mossa!

I. 3: Volevo riprendere il discorso che hai accennato – spero di averlo appuntato correttamente – quando hai tradotto l’espressione tedesca che corrisponderebbe alla presenza di spirito.

Io ho scritto: la capacità di vivere nella pienezza pensante e amante, che mi fa superare il tempo e lo spazio.

Ecco, io volevo notare che questa espressione è veramente straordinaria perché questa capacità mi fa vivere superando la frammentazione delle mie esperienze e la inserisce in un tutto esperienziale che mi dà il senso della pienezza del mio vissuto.

Questo lo vorrei evidenziare maggiormente pensando a che cosa succede quando non si fa questo. Io l’ho sperimentato tanti anni fa e mi ricordo della mia incapacità di essere contento di quello che stavo facendo; perché se leggevo pensavo che sarei potuto andare fuori a correre, se andavo fuori a correre ero scontento perché pensavo che sarei potuto restare a casa a fare un pisolino, se facevo un pisolino ero scontento perché pensavo che avrei potuto andare al cinema, e in questo modo non ero mai contento di quello che stavo facendo.

Invece questa visione che tu hai evidenziato con questa espressione tedesca mi dà, con chiarezza, quella che poi è un’esperienza che io sto vivendo, in una certa misura ovviamente, che quando ho smesso di vivere in quell’altro modo che mi faceva star male, ho imparato – ma lasciamo perdere la mia esperienza – diciamo che si può imparare a superare quella che è la frammentarietà delle esperienze, che sono parziali, una dopo l’altra, mentre le si fanno, ma io posso benissimo essere contento di star a tagliare le carote in cucina anziché sognare di essere già con le gambe sotto il tavolo; perché, una dopo l’altra, tutte queste azioni costituiscono un tutto unico della mia vita, di cui posso essere soddisfatto perché è quel senso di pienezza del mio vissuto che mi sta portando avanti nella mia evoluzione.

A.: A questo punto si può fare – non è che si deve – si può fare un’altra riflessione, che si riferisce a quello che lei diceva prima: la categoria della contentezza e della scontentezza è passibile di moralismo, di ricatto dell’essere umano, maggiormente che un’altra categoria, che adesso non nomino – fra un minuto la nomino – .

Io posso interpretare la scontentezza come insaziabilità dell’essere; quindi la scontentezza fa parte del dinamismo dell’essere! Perché uno che è contento si siede, ed è morto! Quindi a me non va di essere contento di me stesso, perché allora mi manca…! Quindi vedo la scontentezza come un desiderio; ecco, pongo la categoria della scontentezza accanto all’anelito! Perché l’anelito è anche una scontentezza.

I. 3: Abbiamo detto per tutto il pomeriggio che siamo già perfetti!

A.: Certo! Certo! Certo! Aspetta però adesso, io non ho ancora introdotto l’altra categoria!

L’eros greco… il Simposio parla dell’amore e dice: l’amore, l’eros, è figlio di Poros, che è suo padre; e Penia, che è sua madre. Poros significa ricchezza e Penia significa penuria, povertà.

Allora, l’eros è il dinamismo evolutivo; per avere il dinamismo evolutivo devo avere la tensione tra ciò che già sono, altrimenti non c’è nulla che è in evoluzione, e quello che non sono; però se non mi manca nulla non posso avere la tensione evolutiva!

Quindi è una tensione tra ricchezza e povertà! Tutt’e due ci vogliono, se no non c’è la tensione evolutiva.

Allora la scontentezza è una categoria che noi possiamo interpretare del tutto in positivo, perché la scontentezza è proprio la tensione a conquistarmi ciò che ancora non ho. Invece l’altra categoria che evidenzia che la mia tensione non è abbastanza alta, quindi non sto godendo la vita quanto sarebbe possibile goderla, è la tristezza!; non la scontentezza! Quella è più pulita!

Quindi quando una persona è triste c’è qualcosa che non va! Quando invece è scontenta può darsi che vada tutto benissimo, se capiamo giustamente la scontentezza. Perché una persona contenta… è un poveraccio! Tant’è vero che noi diciamo: si accontenta!

I. 3: Io però volevo porre l’accento sul superamento del tempo e dello spazio…

A.: È troppo astratto! Lascialo perdere! Prendiamo psicologicamente… l’uomo è psicologico, altrimenti facciamo astrazioni; lo psicologico è il vissuto, ci capiamo perché è il vissuto! Allora io ti sto dicendo: siccome tu hai usato la categoria della scontentezza, io ti dico: meglio, più pulito, è parlare di tristezza; perché una persona scontenta è questo eros che non si accontenta mai, e quindi continua sempre.

I. 3: Sì, sì, sono d’accordo! Volevo semplicemente dire che la frammentarietà dell’esperienza umana va superata, perché se non la superi e ti fermi alla frammentazione delle cose che fai momento per momento, non riesci a trovare l’unitarietà di quello che sta i facendo.

A.: Tu vuoi vivere da angelo?!

I. 3: No, semplicemente dico che è possibile.

A.: Ma l’uomo non vive oltre lo spazio e il tempo! Vive nello spazio e nel tempo.

I. 3: Allora cos’è la presenza di spirito?

I. 4: Perché nella tristezza c’è qualcosa che non va?

A.: La tristezza è l’eco nell’anima di qualcosa che gli manca, e che avrebbe potuto conquistarsi; quindi mi evidenzia una pigrizia interiore, che è una povertà che non è necessario che ci sia. Quindi la tristezza mi evidenzia una pigrizia interiore; altrimenti non sono triste! Posso essere scontento di me stesso, nel senso che non mollo e continuo sempre, però non sono triste.

Quindi il vangelo di Giovanni non inroduce la categoria della contentezza, ma della gioia. Quindi abbiamo a che fare col binomio di gioia e tristezza, e contentezza… è superficiale, dài! Io preferisco una persona scontenta di sé, perché gode di più. Quindi la perfezione intrinseca all’uomo è di essere scontento, insaziabile, di non mollare mai! Appena hai fatto un passo, stai già pensando a fare quello successivo, se no fermi il dinamismo.

PUBBLICO: Boia chi molla!

A.: Sì, guai a chi molla! Essere scontenti va bene; per fortuna sono scontento se no che dinamismo c’è! Ma essere tristi è un’altra cosa. Un santo triste è un diavolo! È un tristosanto si diceva!

Vi dicevo un’altra volta, la categoria greca dell’amore – Caris – Steiner definisce l’amore come la forza interiore di compiere il bene, ciò che mi realizza, a partire dalla gioia interiore; non per norma esterna, per ubbidienza a una norma esterna.

Quindi il bene viene colto come autorealizzazione del mio essere e quindi è ciò che amo, ciò che voglio: questo è l’amore! Cioè l’amore alla realizzazione dell’io.

E la categoria della gioia in greco è la stessa parola! Gioia in greco si dice: Carà.

Quindi la gioia è la pienezza dell’amore; il greco usa proprio semanticamente la stessa parola!

Nei discorsi dell’ultima cena, nel vangelo di Giovanni, diciamo il lascito spirituale del Logos all’umanità, questa categoria è molto al centro: “vi lascio la mia gioiaâ€, “la mia gioia è diversa da quella che il mondo dàâ€, ecc. Quindi la gioia in greco è la pienezza dell’amore nel pensare e nel volere.

PUBBLICO: Lettera ai Corinzi: “Senza carità non abbiamo nullaâ€.

A.: Però lì, San Paolo usava la categoria di “agapèâ€. Un’altra categoria quella di agapè, che è diversa. Invece il vangelo di Giovanni usa la categoria greca di Carà; Caris, Carà: esuberanza gioiosa dell’amore!

PUBBLICO: Una diversa traduzione di “caritàâ€.

A.: Carità… Allora, in latino, caritas è la traduzione letterale di questa parola greca. Ora, io non posso chiedere a te, italiano, a che cosa pensava Agostino, a cosa pensavano i romani di allora, dicendo: caritas. Noi che abbiamo un’eco in italiano della lingua romana, cosa pensiamo quando poi da lì è saltata fuori addirittura la carità?!

In greco era: l’esuberanza gioiosa dell’amore; poi la caritas latina era il dovere dell’amore; in italiano è: fare la carità!

Quindi prendiamola nel senso di un impoverimento sempre maggiore, che dà adesso all’individuo la possibilità di riconquistarsi lui, in chiave di scienza dello spirito, anche capendo questi cammini di linguaggio, di riconquistarsi la dimensione della gioia insita nell’amore.

Cos’è l’amore?

È il godimento dell’essere! Cosa vogliamo di più!

La mamma ama il bambino piccolo piccolo; che vuol dire: lo ama?

Gode l’essere, gode ciò che il bambino è realmente, potenzialmente.

Se no, ditemi voi, che vuol dire amare: gestire dal di fuori? Io tiamo perché ti gestisco dal di fuori?

Mi ama solo colui che mi gode! Tutti gli altri mi odiano! Mi ama solo colui che mi gode! E può godermi soltanto se mi vede perfetto, nel modo in cui sono!

Perciò vi dicevo prima: non prendiamo sotto gamba il fatto che ognuno è perfetto così com’è; se no, come lo può amare, se lo vede imperfetto! Quindi il presupposto dell’amore è la gioia che dice: sei bello così come sei! Perché un altro te non c’è; quindi sei il meglio di quello che c’è di te! Più di così non si può, scusate!

Allora, adesso vi richiedo di nuovo – voi dimenticate tutto quello che ho detto – tanto lo fate anche se non ve lo chiedo – : adesso cerchi qualcuno di articolare, per un esercizio importantissimo, di dire a me, che ormai sono imbastardito col tedesco, che non so più cos’è l’amore, ditemi voi: cos’è l’amore?

Vuol provarci qualcuno? – un esercizio importantissimo – cosa vuol dire amare, cos’è l’amore?

BETTINA (Vuol prendere la parola)

A.: No, tu sei tedesca, sta zitta! Tu puoi dire cos’è “Liebe†casomai, ma non cos’è l’amore; che poi Liebe tedesca è tutt’altra cosa, eh! Quello picchia! Invece l’amore italiano, dài, è più artistico, è più fantasioso.

LUCIANA: Liebe tedesca è?…

A.: Un’altra cosa! Picchia di più, capito! L’amore italiano non picchia; in tedesco non si può amare senza picchiare!

BETTINA: Non mi difendo!

A.: Eh, perché è vero! Non c’è nulla da difendere, è così! Guarda che si può dar sberle per amore, capito! No, mamme che sanno anche picchiare sono mamme che amano di più che non mamme che non sanno picchiare; perché certe volte bisogna anche saper picchiare, per amore.

Allora, io sto ancora aspettando qualcuno che mi dica cos’è l’amore! Ma non la tedesca, scusa!

PUBBLICO: Ma dài, sentiamola!

A.: Vabbè, sentiamola!

BETTINA: Allora io spiego cos’è amare, non cos’è l’amore; okay!, come lo sento io.

A.: Cosa vuol dire amare!

BETTINA: Amare è permettere di farsi uccidere!

PUBBLICO. Oooooh!!!

A.: Ve l’ho detto che i tedeschi picchiano! Allora, adesso però devi concederci di prendere sotto la lente di ingrandimento la tua definizione. Amare è permettere difarsi uccidere?! Io ne so quanto prima; dimmi cosa vuol dire!

BETTINA: Quando non ti difendi più! Quando non hai più bisogno di difenderti; quando qualcuno ti dice qualcosa e non cerchi di distorcere, di girare, cioè accetti quello che ti dice; va bene; se soffri lo accetti; permettere di farsi uccidere, anche che non rimane più niente… non lo posso spiegare: una volta sono arrivata a questo e mi piaceva, e mi piace anche se ti…

A.: Mah! …e ti sei fatta ammazzare finora? Vedo che sei qui, ancora tutta bella!

Ve l’avevo detto che i tedeschi in fatto di amore non sono competenti. Complicata la cosa! …Un altro, dài; un italiano; ve lo dicevo, ci vuole un italiano: cosa vuol dire amare?

I. 3: Io molto semplicemente direi: godere della personalità dell’altro e promuovere la personalità dell’altro.

A.: Promuovere?

I. 3: Promuovere può voler anche dire lasciarlo semplicemente in pace, eh! Dipende da quali sono le necessità dell’altro.

PAOLO: Amare è qualcosa di molto più attivo, però!

I. 3: Allora è un godere dell’essere dell’altro e un favorirne l’evoluzione, laddove favorirne l’evoluzione prevede anche un totale disinteresse se in quel momento l’altro ha bisogno che tu ti disinteressi di lui.

A.: Troppa gestione!

I. 3: Troppa gestione nel disinteresse?

A.: Nel rapporto sorge troppa gestione se si fa quello che tu dici. Io direi subito: se uno mi vuol amare in questo modo, io gli dico: lasciami in pace!

I. 3: Perché?

PAOLO: Ti amo vuol dire proprio una pienezza! Come dire: che bello! Mi vai bene così, mi piace così! ti lascio in pace, ti godo così, mi piace star con te! È una cosa in attivo, cioè la tua presenza mi fa star bene!

A.: Troppa gestione!

PAOLO: Anche questo non va!?

I. 3: Ho capito dove vuoi arrivare! Massimo dell’amore è lasciare in pace gli altri.

A.: No, non basta! troppo poco!

I. 4: È anche accorgersi di essere continuamente capace di meraviglia! Cioè amare è anche sperimentare il fatto di potersi continuamente meravigliare di fronte a quello che l’altro è, per esempio.

A.: Troppa gestione!

FOGGIA: Pensando all’amore – ovviamente io sono una mamma oltre che una donna – sono stata una mamma giovane e poi sono andata avanti con gli anni e a un certo punto mi sono resa conto che i miei figli, la mia figlia grande in particolare, mi vedeva sempre troppo come un riferimento certo; e questo da un certo punto di vista mi gratificava, ma da un altro punto di vista mi preoccupava, perché dicevo: non è che sono eterna, posso anche morire, quindi la cosa che ho pensato è che in quel momento mi stavo comportando in quel modo e diventavo indispensabile – tra virgolette – . Quindi non permettevo a mia figlia di poter comunque sentirsi sicura di sé, senza la mia presenza.

Da un certo momento della mia vita ho detto: non va bene così, perché io adesso ci sono e però posso anche non esserci; e a quel punto ho capito che dovevo cambiare rotta e permettere di più a mia figlia di essere se stessa, e di tenermi sempre a debita distanza; guardarla, amarla a distanza – c’è sempre questa interazione ta me e lei nel parlarci, nel confrontarci – però permetterle di fare la sua strada, la sua vita, di andare da sola e crescere, perché è importante crescere, fare le esperienze, sbagliare; cioè viversi, godersi le persone così come sono, nel bene e nel male, quando sbagliano, e non aver paura che si facciano anche male.

La stessa cosa vale per me anche per tutto il resto, anche per un compagno o per una compagna, perché amare qualcuno significa lasciarlo libero di scegliere quello che vuole, di non imporgli nulla, anche proprio nel vivere quotidiano, quando lei diceva – non ricordo chi – adesso non mi ricordo questa frase…

PUBBLICO: Lasciarsi uccidere!

FOGGIA: No, lasciarsi uccidere no!, non sono per niente d’accordo! Assolutamente.

A.: Lasciarlo in pace, diceva qualcuno.

FOGGIA: Sì, lasciarlo in pace… no, neanche, perché lasciare in pace significa anche: non te ne frega niente! Cioè viversi l’uno nell’altro e l’uno per l’altro, nel senso che, io penso che ogni persona è lo specchio di sé; quindi io vedo nell’altro quello che potrei anche desiderare e pensare di essere anch’io, e viceversa. Quindi un crescere insieme giorno dopo giorno, perché non si è mai sempre la stessa persona; dove queste cose non si vivono nella quotidianità di un rapporto è difficile vedere l’altro come una persona sempre nuova e dire: ma adesso chi sei? Che vuoi? Quello che volevi ieri non lo vuoi oggi; è una domanda che non si fa mai.

Questo per me significa amare e sentirsi amati nello stesso modo.

A.: Riflessioni che vanno un po’ più a fondo di quello che si era detto prima. Il discorso l’hai articolato e quindi si vedeva che c’è un’esperienza vissuta. Però la domanda non è: cosa vuol dire amare un bambino; quello è un rapporto diverso, destinato a terminare quando il bambino diventa adulto. Noi la domanda la riferiamo a cosa vuol dire amare un altro adulto.

Cosa vuol dire amare?

Tutto giusto quello che è stato detto, ci mancherebbe altro!

Adesso io vi faccio una proposta di definizione di una risposta – una proposta, un avvio di pensiero – che è una provocazione assoluta!

Quindi vi avverto che è una provocazione; però se io la provocazione la prendo come avvio di pensiero, può essere utile.

La forma suprema dell’amore è di offrire all’altro – non di offrirgli, perché può darsi che non gliene frega nulla – di esporlo, se vuole, al massimo di gioia dell’amore di sé.

Quando io do all’altro la percezione di uno che sente, che vive, il massimo di gioia nell’amore di sé, nell’autorealizzazione, è il contributo massimo di amore che io gli posso dare; perché è contagioso. L’amore è un contagio o non è amore. E contagioso al massimo è la pienezza dell’essere; goduta; in gioia.

Quando io, andando in macchina, ieri, da Stoccarda all’aeroporto, abbiamo sentito queste bellissime suonate di Santo… Santo non c’era, – Santo ci aveva dato un CD bellissimo di suonate con l’armonica a bocca – tu Santo non c’eri, come percezione non c’eri, però c’era la percezione della gioia di questo suonare; dove tu – si vede, no! – un artista nel momento supremo della creazione artistica è proprio, diciamo, il fenomeno puro della gioia dell’amore di sé, dell’autorealizzazione dell’io.

Lì io mi sento, in quanto io, che anche lui vuole essere realizzato, amato al sommo; perché vedo l’io umano amato e quindi goduto, gioiosamente goduto, a livello sommo.

Più amore di questo non si può dare all’altro; tutto il resto è un tentativo di gestire l’altro. Quindi il massimo che io posso ricevere dall’altro, di amore, – perché voi giustamente avete detto che amare significa favorire la mia evoluzione – che cosa mi favorisce al massimo?

La contemplazione di un io che si realizza al massimo!

SANTO: La creatività!

A.: Eh, la creatività, certo! Io l’ho chiamata la gioia dell’amore di sé; proprio per uccidere ogni moralismo! Perché l’amore di sé viene sempre presentato come qualcosa di negativo! E allora l’amore per l’altro diventa un ricatto: tu devi terminare di amare te stesso per amare l’altro… È una morale a denti stretti, dove non c’è più la gioia. E allora è immorale, scusa!

SANTO: È un vivere la gioia!

A.: …della realizzazione dell’io umano in quanto spirito creatore! La realizzazione della gioia dello spirito creatore!

Colui che mi porta incontro questo fenomeno mi ama al massimo! Perché è quello che cerco!

Però questo io qui, che sono io, lo devo gestire io; l’altro non mi può dire nulla! Il massimo del suo favorire me è di presentarmi un io al massimo creatore, che gode! Allora sì che dico: ah, ah, ah, lì, lì, lì c’è la pienezza dell’umano!

PUBBLICO: Beh, è come dire: ama il prossimo tuo come te stesso! Cioè, se io amo me, so come amarmi, e riesco ad amare anche l’altro!

A.: Certo, ma un aspetto di questo “ama il prossimo tuo tanto quanto te stesso†significa che tu non puoi mai amare l’altro più di quanto ami te stesso!

Quindi ami l’altro al sommo soltanto a condizione che ami te stesso al sommo!

Quindi il sommo amore per l’altro consiste nel sommo amore a quell’io che il Logos ha amato talmente, nella sua perfezione, nella sua bellezza, da crearlo!

SANTO: In fondo offre un momento di realizzazione di se stesso.

A.: Certo! Ed è quello che ogni essere umano cerca!

SANTO: Quindi, sì: è un momento che è il massimo; in realtà, sì!

A.: E qual’è la reazione?

La reazione è: sei bello, sei bello, sei bello!

SANTO: Il contagio!

A.: Allora “sei bello†significa: essere un io creatore è bello! Allora voglio essere anch’io questo bello!

Questo è l’amore: la gioia della creatività. Però ognuno la può vivere soltanto nella propria creatività. Io non posso gestire la gioia della creatività dell’altro; la deve esercitare lui! Il massimo di amore è di favorire, di offrirgli, il massimo di gioia dello spirito che crea! Più amore di questo non c’è!

Cosa ci offre il Logos?

La sua bellezza, la sua pienezza!

Qual’è la pienezza del Logos?

SANTO: È il più grande artista!

A.: Qual’è la pienezza del Logos?

Il mondo intero; compresi gli uomini! Tutte intuizioni della fantasia morale del suo amore.

Si può amare di più che non presentandoci questa ricchezza sua?

No! No!

E la presa di posizione la lascia a noi; perché io posso ogni secondo chiudere il disco… ed è finito: adesso sento la radio, voglio sentir la radio, e Santo… è via! Quindi come ci ama il Logos?

Esponendoci alla sua ricchezza di spirito che crea! E noi, percependo questi frammenti di creazione del Logos, diciamo: è bello, è bello, è bello …all’infinito! La gioia! La gioia!

Questa categoria morale è importante, eh! Questo criterio per sapere se uno va bene o no!

E una persona triste va male, va male, va male!

E se è triste perché gli altri gli hanno detto che è un fallito, deve trovare la forza di dare un calcio nel sedere a tutti quanti quelli che vogliono sindacare sul suo essere! Allora finisce di essere triste!

Buona notte! Ci vediamo domani.

Domenica 5 febbraio 2012, mattina

A.: Una buona giornata a tutti! Vogliamo portare a termine questo breve capitolo XI°. Questo capitolo è breve in fatto di quantità, ma non breve come densità di contenuti e di significati.

Ripeto il concetto fondamentale, che poi è quello che ci ha portato a fare tante riflessioni, anche in chiave esistenziale, ecc.: di tutti gli esseri che noi conosciamo, di cui abbiamo percezione – e restiamo nell’ambito della percezione dell’essere umano normale che siamo tutti noi, quindi non includiamo la percezione di angeli, arcangeli ecc.; atteniamoci al regno minerale, al regno vegetale, al regno animale e al regno umano – e, in base alla percezione, ci facciamo dei concetti.

Ora c’è un concetto del tutto diverso riguardo ai primi tre regni percepibili – quindi il concetto di pietra, di pianta e di animale – questi tre hanno qualcosa in comune che li distingue in assoluto dal concetto dell’uomo; e la differenza, assoluta, tra il concetto di minerale, di pianta e animale e il concetto dell’uomo, è che, il concetto di pianta, il concetto che ha concepito colui che ha creato una pianta, o una pietra, o un animale, il concetto è compiuto! È completo! È già realizzato da sempre in tutto.

Quindi noi nella percezione abbiamo il tutto del concetto; invece vediamo l’emergenza di un fenomeno del tutto nuovo rispetto agli esseri della natura: l’uomo è metà, se si vuole – ma non è una questione quantitativa – un essere di natura e per metà è sovranaturale.

Il concetto di uomo è del tutto diverso; il concetto di uomo è che, colui che ha creato l’uomo, colui che ha concepito l’uomo ha detto: adesso io creo il concetto di un essere e lo faccio in modo da lasciare a lui la realizzazione del suo essere. E questo complica le cose!

Però è importante capire che il concetto di uomo è proprio in un certo senso opposto! La pianta, la rosa è già tutta realizzata! Il concetto è già tutto presente a livello di percezione. La percepibilità dell’essere umano, ciò che, come dire, la realizzazione a livello di percezione del concetto dell’uomo è aperta, è ancora in via di realizzazione.

Quindi l’uomo è un essere non ancora realizzato, o solo in parte realizzato; è un concetto del tutto diverso.

E come fa allora chi ha concepito l’uomo, che ha concepito questo concetto di uomo… concepisco, penso, architetto un essere e lascio a questo essere di realizzarsi. Come faccio?

Lo rendo capace di farsi lui un’idea di man mano quello che vuol diventare, di quello che era diventato, di quello che è potenzialmente; quindi gli metto dentro un anelito a realizzarsi sempre di più e la gioia di provare a realizzarsi, di sbagliare, di correggere, di fare meglio, e sempre meglio; insomma il realizzarsi sempre più, lo lascio a lui!

Allora l’uomo è l’unico essere che ha la capacità di anticipare, quindi di intuire moralmente – le intuizioni morali, no! – degli scopi, ciò che vuol divenire; e questa intuizione morale, che sono i fini, le mete, i propositi, gli intenti, gli ideali, i progetti, ecc., sono rappresentazioni, sono concetti anche di cose che vuol fare, che lavorano in lui e lo causano, sono la causa, lo spingono a fare dei passi verso la realizzazione di questi concetti.

E vi dicevo: il pensiero successivo è che ognuno, ogni essere umano, è singolo!

L’umano non si realizza in generale; la realizzazione dell’umano è ogni volta la realizzazione di un io diverso. Quindi l’umano si realizza in me in un modo del tutto diverso che non in te! Tu sei un altro io, sei un altro registro dell’umano; il tema sarà uguale per tutti gli esseri umani perché tutti abbiamo in comune questo realizzare in libertà, per pianificare in proprio, in via di pianificazione propria: questo ce l’abbiamo in comune. Però il modo, il mio modo… cioè, ciò che io voglio realizzare è tutto diverso dall’io tuo. Quindi ciò che va bene per me, di sicuro va male per te! Perché tu, nel momento che cerchi di copiarmi, uccidi te stesso! Quindi questo è immorale! Questo è il male morale!

E allora siamo confrontati con la domanda… l’unica domanda della morale è: chi sono io?

Diventa colui che sei!

Solo questo c’è nella morale. Diventa, realizza, ciò che sei stato pensato soltanto potenzialmente!

Allora, come faccio io concretamente a sapere che cosa c’è dentro di me, che vuole realizzarsi a livello di percezione?

Allora: io, chi sono io! (scrive alla lavagna)

Percepisciti, ascoltati; devo ascoltarmi, prima cosa è quello di ascoltarsi, Quindi primo scopo della vita – sto parlando di quattro scopi fondamentali – quindi: la percezione, il percepire; il capire; l’amare e il realizzare.

Diciamo: percezione; pensiero; sentimento; volontà; e azione.

Allora, primo: percepirmi: chi sono io? Cosa ho già realizzato, che voglie ci sono dentro di me, quali desideri ecc., che tipo di temperamento ho, ecc., ecc.

Quindi: ascolto il mio essere, bisogna ascoltarsi, ascoltare ciò che c’è dentro di sé; parlo di un udire, un ascolto interiore; non si può dire: vediti!

LUCIANA: A che cosa riferisci “percepire�, perché percepire e ascoltare sembra la stessa cosa.

A.: Sì, è lo stesso! Sto dicendo: dei 12 modi di percepire, sto privilegiando l’ascoltare rispetto al vedere, perché il vedere non calza. Posso guardarmi allo specchio, ma non percepisco il mio essere allo specchio! Vedo la mia faccia soltanto!

Quindi sto privilegiando questo dei 12; devo ascoltare ciò che vive dentro di me: i miei desiderii, ciò che mi ha deluso, ecc., ecc.

Poi, dopo il percepire c’è il capire.

Quindi non mi bastano le percezioni che ho di me stesso, le devo capire, le devo interpretare, le devo comprendere!

Comprendere è già l’intento di prendere l’essere nel suo contesto, per comprendere chi io sono devo vedermi nel mio contesto; come per percepire un membro di un organismo lo devo comprendere, lo devo prendere dentro il contesto del suo organismo.

Poi viene il sentimento: devo – importantissimo – che io mi proponga lo scopo – parliamo dei quattro scopi – di quattro fini fondamentali da porre alla base del mio agire.

Il primo scopo è quello di percepirmi, perché se non mi percepisco, se non mi ascolto, non posso capirmi; il secondo scopo è quello di capirmi. Questi sono gli scopi grandi della vita, che valgono sempre. Però si parla sempre del mio essere: io, chi sono io, da realizzare.

Poi, nella misura in cui io mi comprendo, devo capire, è importantissimo, e qui viene superata una morale, come dire, una morale moraleggiante, che non regge più: io posso realizzare il mio essere soltanto se lo amo!

Amare! Cioè devo vedere, devo trovare… colui che mi ha creato non può aver creato qualcosa di brutto!, lo può aver creato soltanto perché lo amava!, lo ha amato!

Quindi tutti gli io umani, anche il mio io, è stato oggetto di un amore, ma proprio fortissimo perché creandomi ha detto: sei bello!

Questo modo di essere umano, questo io umano, che lascio a te di realizzare, in base a percepirti, a capirti sempre meglio, ad amarti sempre di più, a realizzarti sempre di più, è una cosa bellissima! Se no non ti avrei creato!

Quindi alla base della creazione c’è che il creatore è talmente bravo nel creare, che crea soltanto capolavori! Nel mondo ci sono soltanto capolavori! Se no, prima di tutto il creatore sarebbe un creatore scadente, non un artista supremo; e poi, insomma, avrebbe dato colpi a vuoto!

Quindi ogni essere umano è un capolavoro in assoluto; è amabile in assoluto, perché è bello in assoluto.

E il concetto di creazione nella Bibbia, nel primo capitolo della Genesi, troviamo che: creò, creò, creò, e poi alla fine vide che tutto era bello – questo termine ebraico: tou; in greco: kalòn kagatòn – e se no, che creatore è!, che artista divino è!

Quindi io devo capire, proprio devo capire che l’architetto del mio io, chi ha creato il mio io, ha avuto un’idea geniale, se non non mi creava!

Quindi io sono un’idea geniale del creatore che ha creato gli io umani. Quindi il mio essere è amabile in assoluto; quindi nessun essere umano può realizzarsi, che non si ami. E questo amare, volersi bene, voler bene a se stessi però, è la gratitudine, è la gioia, dell’autorealizzazione.

Quindi un essere umano che si realizza troppo poco è sempre perché, in qualche modo, si ama troppo poco.

Vedete come è liberante questa etica!

Perché ciò che una persona ama, la realizza! Nella misura in cui ci sono forze di amore – qui parliamo di forze reali, eh! – man mano che si va sempre più giù, è sempre più forte; l’amore è una forza reale: mi spinge, mi fa; capito!

Però devo amare, voglio amare, il mio io vero, non posso amare i miei comodismi, il mio io inferiore, il mio egoismo! No! L’amore si riferisce all’io vero, genuino; alla pienezza, alla bellezza, alla bontà dell’io vero. E lo amo nella misura in cui lo realizzo e vedo che sono un membro di cui hanno bisogno tutti gli uomini per l’organismo dell’umanità per vivere.

E poi il quarto è il livello di volizione, volontà, volere e agire: realizzare; quindi realizzare l’io nel comportamento.

Questi sono i grandi scopi della vita.

E questi quattro scopi che riassumono tutto, diciamo, l’intento morale, la spinta morale dell’evoluzione, abbracciano tutta la vita; quindi uno potrebbe dire: sì, però la cosa è astratta: percepire me stesso sempre meglio, capire me stesso sempre meglio, amare me stesso sempre meglio, realizzare il mio io sempre meglio… scendi giù!, scendi giù!, prendila concreta la cosa!

È molto semplice, è molto semplice!

Come mi percepisco?

Qui ed ora!

MAURIZIO: Doveri, doveri; tutti doveri sono!

A.: No, no, no! Voglio!(non devo!) Io mi godo il percepirmi sempre più oggettivamente; mi godo il capirmi sempre meglio, mi godo l’amarmi sempre più, mi godo il realizzarmi sempre più!

Se tu lo senti come un dovere sei un poveraccio in canna, capito! Però non venire a vendere a me la tua povertà; te la tieni!

MAURIZIO: Hai usato il verbo “devi†tante volte!

A.: Sì, ma io lo intendo sempre tra virgolette! La morale ti dice ciò che devi; allora quand’è che io devo – tra virgolette intendo quel “devoâ€, capito! – perché percepirmi non è una cosa che “devoâ€. Non c’è altro dovere – tra virgolette – che ciò che il mio essere vuole!

PUBBLICO: È una cosa che uno deve a se stesso, non una cosa che deve agli altri.

A.: Qui non c’è nulla che viene dal di fuori, capito! Il dovere è una cosa che viene dal di fuori; qui non c’è nulla che viene dal di fuori.

Quindi: cosa percepisco in me in questo momento; come mi comprendo nella situazione karmica in questo momento; cosa posso amare, cosa voglio amare, quale frammento di me stesso tiro fuori, in quale frammento di me stesso voglio realizzare, quale tipo di comportamento concreto, qui ed ora, come un frammento di realizzazione di me stesso.

Ho cercato di nuovo di ripetere… Il capitolo XI° parlava degli scopi, gli scopi, il fine. Lo scopo, il fine è sempre la realizzazione del mio io.

Allora, riprendendo la categoria del dovere: ci sono altri doveri per quanto mi riguarda?

Nella misura in cui io realizzo, meglio che posso, il mio io, c’è altro da fare?

No! Di più non posso!

Perché realizzando al meglio il mio io, contribuisco al meglio ad essere quel tipo di organo che sono stato pensato nell’organismo dell’umanità.

Quindi, più bene morale che non la realizzazione del proprio io, in questo momento, non c’è, non esiste.

Fila il discorso?

Ogni morale di gestione dal di fuori proprio la si butta via, e si torna al fatto che l’unico criterio della moralità è il mio essere, in quanto aperto; lasciato aperto alla mia percezione, lasciato aperto al mio capire, lasciato aperto al mio amare e lasciato aperto sopratutto al mio realizzare.

Adesso possiamo leggere fino in fondo il testo; qui c’è anche la citazione di un testo di Robert Hamerling.

(XI, 4) Soltanto attraverso uomini le idee possono essere realizzate finalisticamente. {In quanto fini ancora da raggiungere, ancora da realizzare. Soltanto nell’uomo, diciamo, ci sono rappresentazioni, concetti di fini, di scopi, di mete, ancora da realizzare; solo nell’uomo!; e ognuno ha soltanto i suoi. }

E se va a comprare i fini di un altro è perché omette di realizzare il proprio essere, e vive nell’illusione; o nella cattività di farsi gestire dal di fuori. Cattività nel senso di prigionia, nel senso di non libertà.

Captivus, in latino. Interessante è il concetto di cattivo, è lo stesso concetto di gestito dal di fuori, di non libero. Captivo: prigioniero; bellissima la cosa!

(XI, 4) È dunque inammissibile parlare di idee che prendono corpo per opera della storia. Tutte le frasi come: «La storia è l’evoluzione dell’uomo verso la libertà» {La storia insegue il fine della libertà…}

Ma cosa dovrebbe fare la storia per seguire il fine della libertà?

La storia dovrebbe avere nel cervello, nel suo cervello di storia, il fine della libertà! Una cosa assurda! Perché un cervello che persegue un fine, e lo vuole e lo realizza, è soltanto il cervello umano!

Oppure l’altra frase che dice: <La storia è la realizzazione dell’ordinamento morale del mondo> E questo fare chi ce l’ha in testa? Chi lo pensa?

La storia!

Quindi se uno la capisce la frase, ne vede subito l’assurdità; che è un’astrazione assoluta! E non si rende conto di quello che dice.

… e simili, non si possono sostenere dal punto di vista monistico.

(XI, 5) I sostenitori del concetto di finalità credono che, abbandonando questo, essi debbano abbandonare nello stesso tempo ogni ordine e unità del mondo. {Ma come! Se non c’è un essere ordinati verso un fine, se la pianta non è ordinata verso un fine, è disordinata! Perché l’unico modo di essere ordinati è di essere ordinati verso un fine. Allora bisogna pretendere dalla pianta che il seme, il cervellino del seme, abbia già nel suo cervellino il fine di arrivare fino al fiore!}

Il fine è una rappresentazione, è un concetto, che esiste soltanto nel pensare dell’uomo.

Alla base della pianta che cresce non c’è un fine che la pianta deve darsi da fare per conseguire, perché rischia di non conseguirlo. C’è un concetto: il concetto di tutta la pianta. C’è una legge di natura, quindi forze di natura che esistono così come sono; non c’è nulla di aperto nella pianta, lasciato alla libertà della pianta: mi va o non mi va; questo fine lo voglio conseguire, quest’altro fine non lo voglio conseguire; l’altra volta sono andata fino al fiore, invece questa volta ho lo scopo di non arrivare fino al fiore… È tutto assurdo, no!

I. 1: Scusa, per cercare di trovare quel po’ di senso che può avere questa frase, non si può pensare che è stata fatta questa affermazione: «la storia è l’evoluzione dell’uomo verso la libertà», intendendosi con questo la sommatoria di tutti i fini individuali dei singoli individui, presi collettivamente, che fanno la storia, che è l’evoluzione verso la libertà?

PAOLO: È più facile pensarla come Dio. La storia è Dio. Dio è là in alto che ha già l’idea della fine.

I. 1: Scusa, aspetta un attimo che risponda a me, poi dopo aggiungiamo altre cose.

A.: Perché non vuoi lasciar rispondere a lui?

Pubblico: Per non far confusione.

A.: Perché non fai confusione tu, allora?! Dài il microfono a lui. Oh, l’uguaglianza c’è!

I. 1: Sarai tu poi a fare ordine!

A.: Come se fosse già scontato che dalla platea qui viene soltanto il disordine!

PAOLO: Cioè, quando uno parla di storia in questo modo, è come quelli che parlano di natura: natura è, come dire, non voglio chiamarlo Dio, lo chiamo natura, o storia… Do a questa parola un pensare un agire un volere… è lo stesso tipo di atteggiamento in fondo. Cioè, i materialisti che dicono: la natura fa questo. La “natura†cosa vuol dire? Eh, la natura presuppone… tu dài a questa parola il valore di avere dentro di sé la coscienza, di avere un fine, un pensiero, un obbiettivo. Perché la storia, se viene messa come parola “storiaâ€, lei assume dentro di sé questa finalità: cioè lei ha già in mente lo scopo che vuol raggiungere, no!

A.: Adesso sei arrivato al punto centrale; prima ci giravi intorno! Ma è giusto, è bene che sia così.

Quindi diciamo adesso, congiungendo i due contributi – i contributi vanno presi non dalla parte del disordine, ma dalla parte dell’ordine, per quello contribuiscono – il grosso problema del pensare non è quando il pensare sgarra, perché un pensiero sbagliato lo si coglie più facilmente!

Ora queste frasi non dicono un pensiero sbagliato; era questo che tu volevi dire: che si potrebbe anche trovare… e allora si tratta di capire che – nella morale c’erano i peccati veniali e i peccati mortali – gli errori sono i peccati veniali del pensare, perché sono più facilmente riparabili: la realtà, o gli altri, ti dicono: no, no, no, sei proprio fuori! Invece un pensiero confuso è il peccato mortale del pensare, perché tu non puoi dire che è sbagliato, ma è confuso!

Era questo che tu volevi dire!

Quindi queste frasi non sono sbagliate, ma sono del tutto confuse; un pensiero del tutto confuso.

Ora, creare chiarezza in un pensiero confuso è un cammino molto più difficile, molto più complesso che non dire: guarda, questo pensiero è sbagliato! Perché sbagliato è sbagliato! Uno basta che si accorga che è sbagliato e dice: sì, sì, è proprio così!

Quindi quello che noi stiamo facendo non è mai… è molto raro che uno sia così stupido da esprimere un pensiero del tutto sbagliato, perché non sarebbe neanche pensabile. Quindi pensieri del tutto sbagliati non esistono neanche, perché non sarebbero pensabili!

Si tratta sempre di mettere chiarezza in un pensiero che è confuso, che non distingue abbastanza.

E l’esempio ce lo avete nel pensiero che dice: l’uomo è anche un essere di natura. L’uomo è un essere di natura o no?

Sì e no!

Quindi se io dico: “l’uomo è un essere di natura†non è un pensiero sbagliato, ma è confuso; perché non distingue ulteriormente: è confuso!

I. 1: Ho capito, ma l’interpretazione che io ti proponevo… io ti chiedevo se ti convince o no!

A.: Io l’ho presa… sarebbe come dire: tu hai il diritto soltanto di dirmi: o il mio pensiero era giusto, o era sbagliato! Io ti sto dicendo: era confuso! Capito!

Invece quello che ti sto dicendo è che tu, sulle frasi che c’erano qui: “la storia è l’evoluzione dell’uomo verso la libertàâ€, tu sei partito dicendo: però questa frase si potrebbe salvare; e io ti ho detto: giusto!, certo che si può salvare, perché non è un errore, non è un pensiero sbagliato; ma non è neanche un pensiero preciso: è confuso.

I. 2: Ma se è un pensiero confuso posso eventualmente farmi aiutare da qualcun altro, magari andando in analisi?

A.: Attento! I dialoghi di Platone sono pieni… Allora, Platone ha fatto una dinamica, una drammaticità bellissima perché il pensiero pulito, quindi il pensiero non confuso, nitido, che distingue fino in fondo, è Socrate; e soltanto lui!

E questi giovincelli attorno a Socrate sono proprio tutti i tipi di pensiero confuso!

PUBBLICO: Hai detto Socrate?

A.: Socrate, sì!

PUBBLICO: Sei partito da Platone!

A.: Ma scusa, i dialoghi di Platone dove Socrate parla! Santa pace!

Allora, abbiamo il fenomeno di un pensare confuso e il maestro del pensiero che è Socrate. Come fa lui ad aiutare – era questa la tua domanda – un pensiero confuso ad aiutare a diventare sempre meno confuso, più ordinato?

Gli dice: guarda che tu, nel pensiero che hai espresso, quello che hai detto è giusto, però hai dimenticato questo, hai dimenticato questo, hai dimenticato questo, hai lasciato via questo; devi distinguere ulteriormente.

Ah, ah, ah! E questi giovincelli dicono: sì, sì, è vero!, è vero!

E ha sempre ragione Socrate!

Perché?

Perché Socrate ha un pensiero che prende tutti gli elementi; e per prendere tutti gli elementi un pensiero complessivo deve… è facile essere unilaterali: un pensiero confuso afferra un aspetto che c’è e manda a ramengo un altro aspetto, un altro aspetto, un altro aspetto.

I. 2: Quindi è giustificabile la possibilità che mi possa rivolgere a un altro.

A.: Certo!

I. 2: Cioè, rovescio la cosa: Socrate aveva questi discepoli, però in questo caso sono io che vado da Socrate, magari pagando…

A.: Sì, ma è quello che facciamo continuamente!

I. 2: Cioè l’analisi psicologica è giustificabile?

A.: Sì, ma è quello che sta avvenendo! Adesso prendiamo quel giovincello che dice: “ la storia ha lo scopo di ecc., ecc.â€; allora t’arriva il Socrate… se no voi non verreste qui se non faceste l’esperienza che, ascoltando questo Pietro – a parte come lui è fatto non importa nulla, non è di quello che si tratta, ognuno ha il diritto al suo temperamento – però ascoltandolo, ognuno si rende conto che, seguendo i processi di pensiero che lui sciorina, il suo pensiero si affina.

Quindi è sempre un processo di un pensiero che non è mai sbagliato, un pensiero sbagliato non esiste in fondo; ma si tratta di un pensiero che risulta confuso, che non distingue ancora, che fa affermazioni astratte; e allora si tratta di dire: sotto questo aspetto, sotto questo aspetto, sotto questo aspetto, e sotto questo aspetto.

Quindi l’arte poi degli scolastici del medioevo hanno portato al sommo l’arte del pensare e la tecnica del pensare – Steiner la chiama la tecnica del pensare – Tommaso D’aquino – . La legge è: distinguo, e sottodistinguo; e poi sotto-sotto distinguo.

I. 3: Allora è incompleto il pensiero, non confuso. C’è solo un aspetto che viene fuori e gli altri aspetti non saltano fuori.

A.: No, il concetto del completo è il concetto di organismo; però se tu hai l’organismo senza distinguere tutti gli organi, hai una cosa confusa; quindi non basta che sia completo, deve essere articolato. Un organismo è completo, scusa!

Tu dici: io ho l’organismo dell’uomo e ho tutto!

L’organismo è un’unità o una pluralità infinita?

Tutt’e due!

Cosa si evince da questo?

Che il pensare umano è sempre per strada verso il fine ultimo di cogliere tutti i particolari e il tutto di tutti i particolari. E lì hai l’evoluzione del pensiero.

Tu in fondo volevi dire: in fondo, vogliamo o non vogliamo una volta per tutte chiarire le cose! E invece l’essere umano è aperto verso questo fine sempre più vasto, più profondo, di capire sempre di più, sempre più contesti e sempre più particolari.

Il grosso contesto dell’umanità è l’organismo dell’umanità. Ma non basta dire: c’è l’organismo dell’umanità, e poi avere una astrazione assoluta!

I. 2: Mi fa paura il fatto che posso condurre una vita intera e rimanere sempre confuso.

PUBBLICO: Ne hai un’altra! (di vita).

A.: Una chiarificazione. Conclusione, chiarezza, chiarificazione. L’evoluzione del pensiero è un processo di chiarificazione. Una chiarificazione che non crei confusione a livello più alto, non è una chirificazione!

Quindi ogni chiarificazione vera si apre ad uno sguardo verso qualcosa che prima non vedevi neanche!

Questo evidenzia il dinamismo dell’evoluzione dello spirito umano; non soltanto in campo morale si realizza; si realizza non soltanto come agente, ma si realizza anche come pensatore, capito!

Quindi il problema è il comodismo, il problema è che pensiamo: sarebbe meglio, sarebbe comodo, di essere già arrivati… no!, no!, bisogna godersi i passi! Prima parlavo dei dialoghi di Platone, ma il fine di un dialogo, per esempio il dialogo del Teeteto, con la questione dell’origine del linguaggio; il linguaggio è nato per convenzione degli uomini, o è nato come fatto di natura?

Allora uno direbbe: beh, però il fine di un dialogo è di arrivare alla verità!

FOGGIA: È lo stesso ragionamento della storia. Non è il dialogo che arriva alla verità, siamo noi uomini che adoperiamo la parola per arrivare alla comprensione della verità.

A.: Allora, il linguaggio italiano ti dice: guarda che tu, quando pensi di essere arrivato al fine, se questo fine non ti apre dei fini ancora più grandi, sei tu alla fine!

E usiamo la stessa parola in italiano: il fine e la fine!

E questa realtà pedagogica che non c’è un’ultima parola – che io dico: è così: adesso ho la verità! – Platone te lo evidenzia con il fatto che alla fine di un dialogo non si sa chi ha ragione! Non importa nulla! Non si sa neanche quale tesi ha abbracciato Socrate. Non gli interessa! Gli interessa l’esercizio del pensare in modo da imparare a pensare sempre meglio!

Perché poi Socrate lo sa già!, che lui ti dice: ma allora il linguaggio è nato per convenzione umana o per un fatto di natura? Socrate lo sa: il linguaggio umano è un fattore umano; quindi se tu lo consideri da questa parte è nato per convenzione, se tu lo consideri da quest’altra parte è nato per natura.

Quindi hanno ragione tutti quanti!

Quindi l’arte del pensare… il più bravo pensatore è colui che è capace, a ragion veduta, di dar ragione a tutti; ma a ragion veduta! Perché sa cogliere sempre più aspetti!

Io ho dato ragione a lui prima; dove lui diceva: no, no, no, … però io ho detto: tu volevi dire che se noi considerassimo la cosa da questa parte, sì, si può dare anche un minimo di ragione; e ho distinto tra un pensare che crea sempre più chiarezza – ma allora lo fa con le regole del distinguere e sottodistinguere – e un pensare confuso.

Lui era partito – ve lo ricordate, no!; le cose sono molto concrete – era partito vagando, era come uno che non sa e sta cercando, lo vedeva lui stesso, lo si vedeva; e poi all’improvviso ha afferrato: adesso sì, adesso sì che vado bene!

Era questo il tuo vissuto introspettivo?

PAOLO: Sì, perché a volte cogli che c’è un punto che non ti torna proprio, però per metterlo a fuoco ci vuole un pochino.

A.: E qualche volta non riesce proprio! E tu alla fine hai galoppato perché hai avuto la percezione: sì, sì, adesso sono nel nucleo della cosa! E io ti ho dato subito ragione.

Lo vedi quando una persona farfuglia, va in nebbia, o quando invece crea chiarezza; e chiarezza si crea soltanto distinguendo e sottodistinguendo. E alla base di questo capitolo c’è una distinzione fondamentale tra un essere di natura il cui concetto è compiuto, la cui realizzazione è un concetto del tutto realizzato nel mondo percepibile, e l’uomo il cui concetto è tutto da realizzare – nella storia, se vuoi – nel mondo della percezione; e finché non finisce l’evoluzione umana è aperto!

I. 1: La tua riflessione mi ha mosso dei pensieri che volevo comunicarti…

A.: Ah, comunicare a me, come se ci fossimo soltanto noi due qui!

I. 1: No, no, volevo dire: mettere in comune; ho sbagliato a parlare.

A.: (rivolto alla platea) Oh, fatevi sentire!

I. 1: Ho detto: volevo mettere in comune. Va bene così?

Allora, prima eravamo partiti dicendo: si potrebbe vedere la storia come la sommatoria di fini individuali, ma chiamare “storia†questa sommatoria non è chiarezza di pensiero – hai detto – . Allora ho pensato: la somma dei fini individuali e delle evoluzioni individuali non è la storia. Che cos’è allora la storia?

Per me la storia è la cronaca di tutte le azioni umane compiute nel cammino di realizzare i fini individuali, nell’evoluzione individuale verso la libertà.

A.: No, non esiste quello che tu hai detto.

I. 1: Dov’è che ho sbagliato?

A.: Una cronaca di tutto non è possibile, quindi la storia è un’enorme astrazione. La storia è un’enorme astrazione, non è una realtà. Quindi la rappresentazione di storia – non è neanche un concetto, è una rappresentazione – è il passato dell’umanità. È il passato dell’umanità.

I. 1: Ma non è la stessa cosa? Dire che è il passato dell’umanità e dire che è la somma dei fini individuali, delle evoluzioni individuali…

A.: Prima avevi detto la somma di “tuttiâ€!

I. 1: Poi ho detto che la storia è la cronaca di tutte le azioni.

A.: Questa cronaca di tutte non esiste!

I. 1: Vabbè, ma perché esista non è necessario che sia scritta; esiste! È la cronaca di tutto ciò che l’uomo fa.

A.: Sì, a livello spirituale; io voglio soltanto dirti…

I. 1: Non me ne frega niente che qualcuno la scriva. Ma che tu non la possa conoscere non significa che non esista.

A.: È percepibile a chi percepisce nella cronaca dell’akasha, è questo che vuoi dire?

I. 1: Va bene!

A.: Sì, ma qui stiamo parlando della Filosofia della Libertà, non di testi di scienza dello spirito. Dove ce l’hai tu la percezione della cronaca dell’akasha? Di che cosa stai parlando? … Stai parlando della percezione di Steiner! Lascialo in pace questo Steiner, non ci interessa la sua percezione.

I. 1: Ma io non sto citando Steiner, io sto dicendo che i fatti avvenuti esistono a prescindere dal fatto che io li possaa percepire.

A.: Questo non è come la storia si intende normalmente.

I. 1: Beh, io la intendo così.

(XI, 5) I sostenitori del concetto di finalità credono che, abbandonando questo, essi debbano abbandonare nello stesso tempo ogni ordine e unità nel mondo. Si ascolti per esempio Robert Hamerling (Atomistica della volontà, vol.II, pag. 201): {Stiamo citando Hamerling.} «Fino a che nella natura vi siano impulsi, è stoltezza negare in essa delle finalità».

Ma un impulso non è una finalità; una finalità, un fine, è un impulso portato a coscienza; quindi diventa un fine soltanto se l’impulso viene portato a coscienza; allora mi propongo il fine di esprimere questo impulso, altrimenti è una forza!

Ma una forza che opera non è un fine, un fine si esprime a livello di rappresentazione, di concetto. Quindi non distingue tra impulso e fine.

L’impulso è una forza di natura e il fine è una rappresentazione che mi lascia libero; un impulso non mi lascia libero, opera oggettivamente; un fine mi lascia libero, lo decido io; dico: questo fine lo voglio conseguire, quest’altro fine non lo voglio conseguire.

Quindi confondere – ecco il pensiero confuso! – perché uno potrebbe dire: però quando io un fine mi propongo di raggiungerlo, opera in me similmente a qualcosa che è un impulso!

Quindi non si può dire che è sbagliato mettere i fini sulla stessa onda degli impulsi. È un pensiero confuso. Un ottimo esempio!

Quindi il fine diventa un impulso soltanto nella misura in cui lo voglio; perché io posso pensare un fine e dire: no, no, per carità, l’ultima cosa che vorrei!; e non è un impulso, perché non mi viene voglia nel modo più assoluto.

Se invece un fine lo voglio – esempio: andare a una partita di calcio – allora sì, diventa subito un impulso; ma partendo dal presupposto che io sono libero di farne un impulso o no.

Quindi non si può dire che mettere sullo stesso piede impulsi e scopi, o fini, sia un errore in assoluto: è confuso; non distingue, non distingue gli aspetti. Ma l’impulso è per natura incosciente.

SCALIGERO: Approfitto di questo spazio che è dialogo di Platone per inserirmi.

Dico, visto che si dà per scontato che c’è l’impulso incosciente, può esserci un impulso, da parte dell’uomo, per la sua trasformazione anche corporea, per stato evolutivo?

A.: Un impulso cosciente? Cosa?

SCALIGERO: L’evoluzione a cui è soggetto l’uomo, può dipendere da un suo impulso, può interagire con la crescita della sua coscienza?

A.: Ma, adesso hai spostato… tu eri partito chiedendo se ci può essere un impulso…

SCALIGERO: …incosciente!

A.: Allora, resta alla prima domanda che hai fatto, scusa! Stavi barando perché l’hai buttata via. Io ti stavo già dicendo: un impulso… è nel concetto di impulso che è incosciente! Se diventa cosciente si chiama un motivo, si chiama uno scopo, si chiama un fine, non un impulso!

SCALIGERO: Perdonami, io non è che sto barando…

A.: No, nel senso che eri scappato via dalla prima domanda, d’accordo? Adesso aspetta però!

Allora, il concetto di uomo è il concetto di un essere… chi ha creato l’uomo ha creato un essere dandogli la capacità di portare a coscienza tutti – potenzialmente tutti – gli impulsi che ha, trasformando ogni impulso in uno scopo; perché di fronte allo scopo l’uomo è libero: lo faccio o non lo faccio!

Quindi uno scopo è un impulso portato a coscienza; è qualcosa che percepisco in me, è qualcosa che capisco di me, che fa parte di me; è qualcosa che amo, è qualcosa che voglio realizzare.

SCALIGERO: Mi perdoni, altrimenti me lo porto a casa e non ho Platone a casa!

A.: Quando tu vuoi dire qualcosa non cominciare a scusarti; dì quello che vuoi dire! È tutta farraggine il resto!

SCALIGERO: Sì, sì, come il concetto racchiuso di pietra, pianta ecc., come si spiega…

A.: Ho detto “conchiuso, completoâ€!

SCALIGERO: Sì, conchiuso…

A.: Ah, è diverso!

SCALIGERO: Il fatto che adesso stanno uscendo nuovi insetti, mai esistiti, rientrano sempre nel concetto “conchiuso�

A.: Sta attento: o sono insetti, o sono uomini. Se sono uomini dimostreranno che, nel corso della loro evoluzione, sono capaci di riflettere su se stessi portando a coscienza gli impulsi che sono i loro. Se invece non hannno questa capacità di portare a coscienza e di gestire liberamente gli impulsi che sono i loro, sono esseri di natura.

E se sono viventi e se sono senzienti non sono… se sono morti sono pietre, se sono viventi senza astralità sono piante, e se c’è il minerale, il vegetale e anche la sensibilità, sono animali. Specifico dell’uomo è la capacità di portare a coscienza ciò che vive in lui a livello di impulso, e di gestirlo liberamente.

Questo è il concetto dell’uomo.

Si crea un essere dotandolo della capacità di portare a coscienza, in chiave di percezione, di comprensione e di amore e di realizzazione, la capacità di portare a coscienza ciò che la dinamica complessissima di autorealizzazione del suo essere, in modo che questa dinamica di autorealizzazione del suo essere, non sia un fatto deterministico di natura, ma sia rimesso in mano alla sua libertà.

Dandogli quindi la possibilità anche di omettere la propria realizzazione. Ma nessun essere umano ha la possibilità di realizzare un altro essere umano!

SCALIGERO: Però arriverà ad incidere sulla propria materia? L’uomo arriverà a manipolare anche la materia?

A.: Ma scusa, ogni volta che mangi non è un manipolare la materia del tuo corpo?! Non è un intervento sulla materia del tuo corpo ogni volta che mangi?

Cosa stai aspettando per vedere la manipolazione! Perché la chiami manipolazione?

Gestione in chiave di libertà!

Perché per forza manipolazione? Andiamoci piano!

Che vuol dire “manipolazione�

Che io mi percepisco in modo sbagliato, mi capisco in modo sbagliato, amo qualcosa che è contro il mio essere e realizzo qualcosa contro il mio essere.

Quindi vado contro la mia natura.

Questa è manipolazione! Manipolazione è agire contro natura!

Ma io non posso agire liberamente favorendo la mia natura, se non ho anche la possibilità di agire contro la mia natura. Quindi è insito nella libertà che deve avere la possibilità, l’uomo deve avere la possibilità invece di favorire, di costruire l’umano in sé, di distruggerlo. Questa è la manipolazione.

Però il concetto di manipolazione è un concetto confuso, perché non dice chiaro né la realizzazione dell’essere, né la distruzione.

Come fai tu a manipolare un organismo?

O contribuisci alla salute, o contribuisci alla malattia; se contribuisci alla malattia usa categorie come la distruzione, non la manipolazione. Che vuol dire manipolare?

Quindi tante categorie del linguaggio comune denotano un pensare che è diventato povero perché confuso.

Quindi la categoria del manipolare, per un pensiero lucido, pulito, non serve! Non è pulita la cosa. O contribuisce alla salute, o contribuisce alla malattia.

PUBBLICO: Ma lui stava parlando di insetti.

A.: Ma io non ho commentato tutto quello che lui ha detto, ho commentato la categoria del manipolare che lui ha usato, capito! Perché se io chiedessi, qui in sala, cosa vuol dire manipolare, vi assicuro che sarebbe una delle cose più difficili; perché manipolare vuol dire tutto e non vuol dire nulla!

Che vuol dire manipolare?

Te l’ho detto: ogni volta che mangio manipolo il mio corpo, intervengo io; faccio una bella violenza allo stomaco! Prima era bello vuoto e mi permetteve di pensare a livelli molto più lucidi, adesso l’ho manipolato, è bello pieno, l’ho rimpinzato e…

Non è una manipolazione!?

Quindi il concetto di manipolazione non serve, via!

(XI, 6) {Allora, Hamerling:} «Fino a che nella natura vi siano impulsi, è stoltezza negare in essa delle finalità. {Quindi nella natura non ci sono finalità, non ci sono esseri con in testa fini da raggiungere.} Come la struttura di un membro del corpo umano non è determinata e condizionata da un’idea di esso che stia sospesa per aria, ma dal nesso con il tutto più grande, col corpo al quale quel membro appartiene, così la struttura di ogni essere della natura, sia pianta, animale o uomo, {o anche questi insetti che adesso pare si percepiscano per la prima volta} non è determinata o condizionata da un’idea di esso, sospesa per aria, ma dal principio formativo di un insieme più grande, quello della natura, che conforma lo svolgimento della sua vita e della sua organizzazione a una finalità».

{Poi, sempre Hamerling:} E a pag.191 del medesimo volume: «La teoria della finalità afferma soltanto che, nonostante le mille incongruità e miserie della vita delle creature, esiste innegabilmente nelle creazioni e negli sviluppi della natura un’alta coordinazione verso un fine e un programma, una coordinazione però che si attua solamente nell’ambito delle leggi della natura, e che non tende alla produzione di un mondo fantastico, nel quale alla vita non stia di fronte la morte, né al divenire il decadere, con tutti gli stadi intermedi più o meno spiacevoli, ma assolutamente inevitabili. Quando gli avversari del concetto di finalità oppongono, ad un mondo pieno di meraviglie del finalismo, quali la natura manifesta in tutte le sue sfere, una spazzatura faticosamente raccolta {una cosa piccola rispetto alla saggezza di tutti i fini saggi del mondo} di casi incompleti o completi, presunti o reali, di cattivo adattamento al fine, io trovo la cosa comica…».

Adesso poniamo la domanda in questo modo: quale scopo si è proposto il Logos… Il Logos, supponiamo che sia un pensatore che agisce in base a scopi: voglio far questo, voglio far quest’altro; non è che glielo possiamo negare!

E allora sorge la domanda: quale scopo si è prefisso creando l’uomo?

I. 2: Ieri dicevi che non ha scopi il Logos, perché se li avesse sarebbe un uomo!

A.: Eh, è diventato un uomo; quindi la cosa è complessa. Se agisse in base a scopi significherebbe che è ancora per strada!

PAOLO: Infatti è vero perché l’uomo non è ancora realizzato, per cui il Logos si è fermato e aspetta di vedere cosa succede. Cioè, l’uomo è in evoluzione e la libertà ci permette di camminare, di non camminare, di metterci un tempo piuttosto che un altro, per cui lui aspetta. Come dire, decide di fermare la sua onnipotenza e di aspettare di vedere questo essere, che ha lasciato libero di muoversi, dove si muoverà.

A.: Allora, creando tutte le altre cose, il Logos ha detto: le creo tutte compiute, faccio tutto io; e creandole compiute le ha create tutte in un lampo, nell’intuizione!

Quando ha creato il concetto di uomo ha detto: adesso creo una cosa non compiuta! Però questo concetto è compiuto in lui! È il concetto di un essere aperto. Però l’essere è aperrto, non il concetto dell’uomo del Logos.

E’un paradosso!

E allora noi distinguiamo, in tutti i modi nostri, perché il pensare distinguendo si affina sempre di più, ma non è che arriva alla fine: ah, adesso ho capito tutto! se no saremmo il Logos1

Allora noi distinguiamo tra il concetto di uomo, che c’è già tutto nel concepire del Logos, e la realizzazione, a livello di percezione, nel mondo della percezione, nel mondo dello spazio e del tempo, che è lasciata aperta all’uomo.

E questa distinzione tra essere in potenza – l’essere umano in potenza è tutto, è stato pensato dal Logos nella sua completezza – e allora distinguiamo tra l’essere umano in potenza e l’attualizzazione nella storia, nel mondo dello spazio e del tempo – la storia è il mondo del tempo – della realizzazione a livello percepibile.

Allora la domanda è: cosa ha pensato il Logos pensando il tuo io?

Eh!, continua a vedere, che io continuo a mostrartelo!; dammi tempo finchè c’è l’evoluzione umana; e io di giorno in giorno ti rendo percepibili nuovi aspetti, nuovi frammenti. Oppure ometto di renderteli percepibili; ma non posso mai renderti percepibili frammenti dell’io di un altro essere umano.

Questo si intende dire con: l’uomo è un essere in divenire.

(XI, 7) Che cosa si chiama qui finalismo?

PUBBLICO: È il paragrafo 7, non l’8!

A.: No, state attenti, l’italiano ha pasticciato i paragrafi tedeschi.

Adesso vi dico. Il paragrafo 5 comincia con: I sostenitori… Poi, il paragrafo 6 non comincia con: Fino a che…, il tedesco comincia con la frase dopo: Come la struttura… Il paragrafo 7 in tedesco comincia con: Quando gli avversari…

MAURIZIO: Scusa, perché Steiner ha dato tutta questa importanza a questo Hamerling?

A.: Robert Hamerling… Come dire: se tu leggi il Simposio di Platone, lì c’è Agatone che fa un discorso sull’amore, poi c’è Alcibiade, l’ultimo, il settimo che fa un discorso sull’amore, e tu dici: ma a me non interessa niente di Alcibiade, non so neanche chi sia; perché Platone in questo discorso dà una tale importanza ad Alcibiade?

Ogni libro, ogni testo, ha un suo contesto. Quindi il contesto della Filosofia della Libertà era il discorso culturale, sopratutto filosofico, di 100 anni fa, col fulcro nell’Europa centrale, nel mondo di lingua tedesca.

E nel mondo di lingua tedesca questo Robert Hamerling è importante nel senso che la sua “Atomistica della volontà†è un testo che per quanto riguarda la distinzione che lui (Hamerling) non fa – perché è un pensiero confuso – tra impulsi e scopi da raggiungere, è la citazione che Steiner riprende come quella più significativa per indicare proprio un pensiero confuso!

MAURIZIO: Ah, ho capito!

A.: È chiaro, però tu basta che ti chiedi: quando è stata scritta la Filosofia della Libertà?

Un secolo fa!

Dove è stata scritta?

Nell’Europa centrale dove c’è la lingua tedesca!

Quali erano i pensatori con i quali bisognava confrontarsi?

Altrimenti hai uno Steiner campato per aria!

MAURIZIO: No, perché è confusa questa mezza pagina.

A.: Sì, lo scopo del seminario è di capire dov’è la confusione.

MAURIZIO: Poi ce n’è un’altra di confusione: che pensavo che alcune cose le avesse dette Steiner; non si spiega bene chi le ha dette, chi le ha fatte.

A.: La citazione va fino a: “io trovo la cosa comica…†Lì termina la citazione; però scusa, il testo lo devi leggere con attenzione: in italiano c’è l’inizio della citazione, ci sono le virgolette e ci sono le virgolette fino alla fine della citazione.

(XI, 7) Che cosa si chiama qui finalismo? {Questo tipico pensatore, no! Hamerling che cosa chiama finalismo?} Una concordanza di percezioni formanti un insieme, un intero. Come un organismo. Ma siccome a tutte le percezioni stanno a base delle leggi (idee) che noi troviamo per mezzo del nostro pensare, così l’armonica coordinazione degli elementi di un insieme di percezioni non è altro che l’ideale concordanza degli elementi di un insieme di idee, contenuti in questo insieme di percezioni.

Quindi un organismo, un corpo per esempio, è un’ideale concordanza degli elementi di un insieme di idee; c’è un insieme di idee, ogni organo è un’idea, c’è un insieme di idee concordate concordantemente, sono gli uni con gli altri; ma dove esistono fini, pensati, rappresentazioni di fini da raggiungere?

Non ci sono!

(XI, 7) Dire che un animale o un uomo non è determinato da un’idea sospesa per aria, {nella mente di Dio, per esempio} è un modo inesatto di porre la cosa.

Inesatto, confuso; inesatto e confuso è la stessa cosa: è questo che io volevo dire. Non è sbagliato, ma è inesatto di porre la cosa.

(XI, 7) Correggendo l’espressione {quindi facendo chiarezza su ciò che è confuso} la proposizione criticata perde da sé il suo carattere assurdo: certo, non è un’idea sospesa per aria che determina l’animale, bensì un’idea innata in lui e formante la sua essenza conformemente ad una legge.

L’idea che fa funzionare una macchina – che poi vale tale e quale – l’idea che fa funzionare una macchina è rimasta nella testa dell’ideatore della macchina?

L’ideatore ha architettato le parti della macchina in modo che interagiscano secondo la sua idea! Quindi l’idea è l’essenza della macchina. È il suo funzionamento, e il suo modo di funzionare è l’idea della macchina, se no la macchina non salta fuori!

Quindi all’inizio la macchina era lo scopo; lui si è proposto di fare una macchina. Però raggiunge questo scopo di fare una macchina soltanto se – adesso non lo scopo – ma l’idea della macchina, il suo funzionamento, non soltanto ce l’ha nella testa, ma la mette dentro la macchina; diventa attiva nella macchina.

Prendiamo un’automobile; lui dice: basta un inizio, una scintilla iniziale, questa scintilla iniziale comincia a muovere il pistone e muovendosi il pistone si muove tutto il resto. Quindi l’idea di un’automobile è l’idea che ha congegnato l’insieme, proprio il modo di interagire delle parti quando tutte si mettono in moto.

E questo concetto di interazione fra le parti è rimasto solo nella sua mente, o l’ha messa dentro la macchina?

L’ha messa dentro la macchina: è il modo di funzionare della macchina.

Dire che la macchina agisce secondo un fine è da stupidi!

Lui aveva il fine di costruire una macchina, però voglio vedere se la fa o non la fa! Quando l’ha fatta, l’idea, il concetto di macchina, l’ha messo dentro e opera all’interno della macchina.

Perché il pistone deve essere lungo tanto così, e il diametro deve essere tanto così. Ora la larghezza del diametro non è rimasta nella sua testa, è nel pistone!

Quindi il modo di funzionare di una pianta non è fuori della pianta, è dentro la pianta: sono forze immanenti; oltre al meccanismo del modo di interagire delle parti c’è il vitale che è una trasmissione di forze, un’osmosi di forze vitali da membro a membro; quindi c’è un elemento in più; però il principio è lo stesso.

Riguardo l’uomo… chi ha creato l’uomo dice: no, non voglio fare l’uomo di nuovo come un essere che io gli metto dentro i miei pensieri e deterministicamente questi pensieri lo fanno agire secondo i pensieri miei… no!, i miei pensieri me li tengo per me; lo rendo capace di farsi lui i suoi pensieri, su ciò che c’è potenzialmente dentro di lui.

(XI, 7) Proprio perché l’idea non sta al di fuori della cosa, ma opera in essa come sua vera essenza, non si può parlare di finalismo. {Ma di leggi immanenti.} Proprio chi nega che ogni essere naturale sia determinato dal di fuori (è indifferente, sotto questo riguardo, che lo sia per opera di un’idea sospesa per aria o di un’etica esistente al di fuori della creatura, nello spirito di un creatore del mondo), deve ammettere che questo essere non è determinato secondo un piano e un programma dal di fuori, ma da cause e leggi dal di dentro. Io costruisco una macchina atta a uno scopo, {io voglio costruire una macchina allo scopo di spostarmi molto più velocemente che non andando a piedi, da un posto all’altro. Ma questo scopo qui è nella testa dell’uomo; io mica posso comunicare alla macchina: per favore cara macchina, devi capire che devi concorrere al mio scopo, devi fare tu il mio scopo di andare più veloce che non quando io cammino.}

La macchina mi dice: ma che mi stai dicendo?

Quindi lo scopo mio con la macchina non c’entra nulla!

Cosa ci metto io nella macchina, i miei scopi?

Dovrebbe essere capace di pensare, allora la macchina deve diventare un uomo!

(XI, 7) Io costruisco una macchina {attenti eh!, piano!} atta a uno scopo {di farmi spostare più veloce – questo è lo scopo – però lo scopo ce l’ho io, nella testa!} quando dispongo le sue parti in una connessione che per natura non hanno.

Tra l’altro le parti non ci sono ancora neanche, quando una macchina viene creata per la prima volta.

Quando invece la macchina già c’è – ho raccontato diverse volte: quando ero al ginnasio mio fratello una volta aveva smontato un trattore tedesco – mio fratello contadino – ; aveva una stanza enorme, un duemila, tremila pezzi, tutti uno accanto all’altro, perché il trattore aveva un problema. C’era un catalogo dove c’erano tutte parole in inglese e in tedesco e lui aspettava me che avevo cominciato a masticare un po’ di tedesco. Allora io gli leggevo il catalogo e gli dicevo: qui c’è una parola che dice che il pezzo va dentro, qui dice che va fuori, e lui eseguiva subito. In un giorno e mezzo abbiamo montato il trattore, capito!

Quindi le parti, dispongo le sue parti in una connessione che per natura non hanno: le parti, in quanto parti, sono lì, tutte belle disposte l’una accanto all’altra, ma quello non è un trattore! …Assemblare!

(XI, 7) L’utilità del dispositivo consiste in ciò che, a base di esso, io ho posto il modo di agire della macchina come idea di questa. In tal modo la macchina è divenuta oggetto di percezione, con un’idea corrispondente.

E l’idea corrispondente è il modo di interagire delle parti l’una con l’altra. Ma il modo di interagire delle parti l’una con l’altra non è rimasta nella mia testa, è dentro la macchina, funziona nella macchina. Quindi, la legge del funzionamento in origine è stato pensato dall’uomo, ma poi lo deve realizzare nella macchina, se no non è una macchina che funziona.

E quindi ogni pietra, ogni pianta, ogni animale è una macchina che funziona – una macchina tra virgolette, eh! – .

SCALIGERO: La macchina risponde a un’idea dell’uomo…

A.: Non “rispondeâ€; non basta “rispondeâ€, che vuol dire “rispondeâ€?

SCALIGERO: Espleta il funzionamento che si è dato con quell’idea, l’uomo che l’ha creata quell’idea. Però quella macchina risponde a quell’idea; se quella macchina cammina su un terreno accidentato e noi ci accorgiamo, dal di fuori, che quegli ammortizzatori, che sono derivati da quell’idea, non rispondono a quell’esigenza, la cosa deve essere sottoposta ad un’altra idea dell’uomo, che deve modificare gli ammortizzatori.

A.: Non è un’altra idea, è una variazione della stessa idea.

SCALIGERO: Sì, una variazione della stessa idea.

A.: Allora tu dici: voglio architettare, voglio fare una macchina normale o una macchina da corsa?

Allora uno dice: se voglio fare una macchina da corsa devo fare una macchina che affronta, diciamo, livelli di complessità, e anche di ostacoli, tutti diversi che una macchina normale. Quindi tu hai il concetto di macchina normale e il concetto di macchina da corsa.

SCALIGERO: Io voglio rispondere al fatto che lei la paragona alla pianta; riprendo il discorso di prima…

A.: No, ho paragonato la pianta alla macchina, non viceversa!

SCALIGERO: Sì, però la pianta interagisce; le forze immanenti interagiscono con l’habitat della pianta, ed ecco che danno origine a piante che prima non esistevano: non hanno bisogno di… altrimenti non siamo nel concetto di conchiuso.

A.: Attento, fermati! Tu dici: la pianta interagisce con l’habitat. Se tu dici: la macchina interagisce con gli ostacoli, sei fuori! Reagisce agli ostacoli, ma non interagisce, non entra in un’interazione.

Ora il fatto di reagire è un fatto puramente esterno. Quando io do un calcio a un sasso anche il sasso reagisce, ma non è un interagire con me; perché l’interagire è uno scambio di forze che va avanti e indietro, e lo scambio di forze che va avanti e indietro è il concetto del vitale.

SCALIGERO: L’interazione è il concetto conchiuso della pianta?

A.: Eh, certo! Per forza!

SCALIGERO: Che mi risponde all’evoluzione; che a me è quello che mi… (crea difficoltà).

A.: Ma scusa, se tu non aggiungi il sottoconcetto di interazione fra le parti, non hai una pianta. E quando le piante interagiscono fra di loro terminano di essere parti e cominciano a diventare membri.

Quindi nel vitale, nella pianta e nell’animale, non ci sono parti, pezzi che si possono sostituire: sono membri; e siccome questi membri sono in interazione tu, togliendone uno, porti via un bel po’ a tutti i membri.

E questo vuol dire che il trapianto di organi è massimamente possibile ad una condizione e minimamente possibile ad un’altra condizione.

Qual’è la condizione che rende il trapianto di organi massimamente possibile?

Che il corpo che riceve sia massimamente meccanizzato.

Nella misura in cui il corpo che riceve è massimamente meccanizzato puoi cambiare le parti, puoi cambiare i pezzi, perché sono minimamente membri gli uni degli altri.

Se invece tu hai un organismo pieno di vitalità, ti riuscirà molto meno di fare un trapianto di organi perché questi organi sono tutti interdipendenti gli uni dagli altri e ti rifiutano.

Quindi il presupposto – karmico se volete – …quindi parliamo di un’integrazione reciproca fra scienza naturale e scienza dello spirito; allora sì che i fenomeni li capiamo di più.

Il trapianto di organi, prima di sapere se si può fare, se non si può fare, se moralmente…ecc., ecc., dobbiamo capire, in chiave di scienza naturale, se funziona o non funziona, se è possibile o non è possibile.

E allora bisogna distinguere: in un corpo molto meccanizzato gli organi hanno terminato il grande fatto di essere organi, e funzionano già da un bel po’ di tempo come pezzi di una macchina; allora è maggiormente possibile tirar via un pezzo e sostituirlo.

Se invece hai un organismo pieno di vitalità ti rifiuterà il pezzo; perché non vuole un pezzo, ha bisogno di un membro.

I. 4: Ma quand’è che è meccanizzato un corpo?

A.: Quand’è che è maccanizzato un corpo! Ma scusa! Quand’è che è meccanizzato un corpo?

Prendete una persona giovane, maschile o femminile, a 20 anni: è bello meccanizzato un corpo?

E no, eh! Se no non ha 20 anni!

I. 4: Ma neanche a 80 anni è meccanizzato!

A.: Molto di più che non a 20 anni!

LUCIANA: È meno vitale!

A.: Io non ho mai detto che è al 100% macchina. Però un corpo di 80 anni è, per natura, molto più meccanizzato che un corpo di 20 anni; per natura!

LUCIANA: Cioè nel senso che è meno vitale?

A.: È meno vitale, scusa! Ma più meccanizzato significa meno vitale!

I. 4: Ma io penso alla macchina…

A.: Meccanizzato… io non t’ho detto che è diventato al 100% una macchina!

I. 4: “Meno vitale†mi chiarisce.

A.: Ma “meno vitale†significa “più meccanizzatoâ€, scusa! Perché vuoi sottolineare soltanto la parte negativa? Che vuol dire meno vitale? Cosa vuoi dire con “meno vitaleâ€?

I. 4: Meno forze, meno forze fisiche, meno forze proprie.

A.: E che vuol dire?

I. 4: Vuol dire che hai meno forze a 80 anni che a 20 anni. Hai una resistenza diversa, no!

A.: Quindi, quelli che a 20 anni interagivano fra di loro, maggiormente come membri gli uni operanti dentro gli altri, adesso interagiscono un bel po’ di più come i pezzi di una macchina, che sono esterni gli uni agli altri.

(XI, 7) Chi, di una cosa, dice che essa è rispondente ad uno scopo perché è formata secondo una legge, può chiamare rispondenti ad uno scopo anche gli esseri della natura. Solo, questo conformarsi ad una legge non deve essere scambiato con quello dell’azione soggettiva umana. Per un vero finalismo è assolutamente necessario che la causa operante sia un concetto, {il concetto del fine da raggiungere,} e precisamente quello dell’effetto. {Del fine da raggiungere: quello è l’effetto. Però l’effetto deve essere concettualizzato per avere il finalismo, e questo avviene soltanto nell’uomo!} Nella natura però non è possibile in nessun luogo indicare dei concetti come cause; {nessun essere di natura ha nella sua testa dei concetti che operano come causa;} il concetto si mostra sempre solamente come nesso ideale fra causa ed effetto. {Così come il concetto di una macchina è il concetto che si mostra come nesso ideale fra causa ed effetto.} Nella natura non si trovano cause che sotto forma di percezioni. {Non di concetti; il concetto che diventa causa c’è soltanto nell’uomo; e il concetto che diventa causa lo chiamiamo il fine, lo scopo, che l’uomo si prefigge.}

È un concetto che diventa causa. E il concetto dell’effetto diventa causa in chi lo concepisce; invece nella natura l’effetto c’è soltanto se ho la percezione dell’effetto.

(XI, 8) Il dualismo può parlare di fini cosmici e naturali.

Invece noi stiamo parlando della visione unitaria del mondo, quindi colui che spacca il mondo in due può parlare di fini cosmici e naturali.

(XI, 8) Dovunque si manifesti alla nostra percezione un accoppiamento di causa ed effetto, secondo una legge, il dualismo può supporre di vedere soltanto la copia di un nesso nel quale l’assoluto Essere cosmico {Dio per esempio} ha realizzato i suoi fini. Per il monismo {per il nostro modo più pulito di vedere, non confuso, per un pensare non confuso – monismo è un pensare non confuso –} viene meno, insieme con l’assoluto Essere cosmico non sperimentabile, {che non possiamo percepire e di cui non possiamo parlare} ma conosciuto soltanto per via di ipotesi, anche ogni base per la supposizione di fini cosmici e naturali.

In altre parole fini esistono soltanto nell’uomo; scopi e fini esistono soltanto nell’uomo. Intenti, ideali, progetti, esistono soltanto nell’uomo; l’anticipazione di un futuro da realizzare a livello di concetto – la macchina – ; a livello di rappresentazione – la partita di calcio a cui voglio partecipare, o che voglio vedere – ecc., ecc. – esistono soltanto nell’uomo.

Ma Dio deve aver creato l’uomo secondo un fine, no?!

La Chiesa dice: ma Dio avrà ben creato l’uomo secondo un fine!…

Faccio una proposta: affari suoi! Se c’è!

Non mi riguarda! Basta!

È pulito il pensiero?

Perché: chi si è messo nella testa di Dio per percepire i suoi fini in modo da ricattare me, da mettermi un sacco di sensi di colpa, perché io non seguo i fini che Dio si è proposto creandomi?

Certi papi, certi cardinali, pare che li abbiano percepiti questi fini; loro sanno quale fine Dio si è proposto creando l’uomo. Loro lo sanno! Io no, ma loro lo sanno. Hanno il telefono privato!

MAURIZIO: È la prima volta che esce fuori questa frase nella Filosofia della Libertà; è questa in assoluto la prima volta!

A.: Eh, certo! Una rivoluzione copernicana!

MAURIZIO: È una cosa eccezionale!

A.: Questo libro è una rivoluzione copernicana anche nell’etica.

MAURIZIO: Prima di allora questa questa frase non era stata mai detta!

A.: Non in questa assolutezza! Non in questa assolutezza.

Però, allora adesso: ma Dio deve aver avuto uno scopo, un fine, creando l’uomo!… Allora è un povero uomo, non è un Dio! Perché avere uno scopo, avere un fine, significa non averlo ancora realizzato!

I. 5:Ha semplicemente elargito…

A.: Cosa ha elargito?

I. 5: La vita all’uomo.

A.: No, no, no! Ha creato l’uomo! Per quanto mi riguarda gli do il diritto di aver voluto soltanto me; se voleva qualcosa d’altro non mi riguarda!

Quindi creando me, ha soltanto il diritto di aver voluto me!

Però io, adesso, resto con me stesso… Chi sono io?

Io non ho bisogno di prendere una nave spaziale per andare verso Dio: ho la percezione di me stesso, ho una facoltà pensante capace e posso capirmi sempre meglio, e di me stesso ho un’infinità di percezioni, del mio operare, di quello che ho dentro, ecc., ecc.

Non sono soltanto percezioni del mio corpo, ma percezioni della mia anima e del mio spirito all’infinito; posso capirmi all’infinito; che mi interessa andare là per avere, come dire, suggerimenti sull’uso… le istruzioni sull’uso!

Sarebbe un poveraccio in canna se mi avesse creato in questo modo qui; allora non avrebbe creato un uomo, ma avrebbe creato una macchina. Ma anche in una macchina gliela metti dentro un’idea di funzionamento! Perché se ogni volta per far funzionare una macchina devo andare da chi l’ha creata… dico: guarda, vai a fare qualcosa d’altro!

PATRIZIA: Quindi, forse, anche Lui si sorprende nel vedere le tappe di conquista via via di questi esseri… È una sorpresa, o lo sa già?

A.: Sorpresa è un antropomorfismo, no! È una rinuncia libera all’onnipotenza!

PATRIZIA: Dell’altro?

A.: L’onnipotenza sull’uomo! L’onnipotenza significa: io gestisco l’uomo in tutto e per tutto! Solo così sono onnipotente come Dio.

PAOLO: (dice qualcosa sull’amore)

A.: Quindi la divinità… se noi capiamo il fenomeno umano dobbiamo dire: la divinità agisce con onnipotenza nella natura, e riguardo all’uomo ha deciso, deve aver deciso liberamente – perché altrimenti “non libera†la divinità è cosa assurda – deve aver deciso liberamente di rinunciare all’onnipotenza.

La decisione libera di rinunciare al potere si chiama amore.

Quindi noi, percependo il fenomeno uomo, capendo il fenomeno uomo, capiamo che, creando il fenomeno uomo, il creatore deve aver rinunciato alla sua onnipotenza, altrimenti non sorge la libertà umana.

Invece la sua onnipotenza se l’è tenuta rispetto alle pietre, a tutte le piante, a tutti gli animali.

Allora, l’aggiunta alla seconda edizione 1918.

(XI, 8) Se si riflette spregiudicatamente su quanto è stato qui esposto, non si potrà giungere alla conclusione che l’autore, negando il concetto finalistico per i fatti extraumani, si metta sullo stesso terreno di quei pensatori che, col respingere quel concetto, si creano la possibilità di intendere tutto ciò che sta fuori dell’agire umano – e poi anche questo stesso – come avvenimenti puramente naturali. Da questa interpretazione dovrebbe già preservarci il fatto che in questo libro il processo del pensare viene presentato come puramente spirituale. Se qui si respinge il concetto finalistico anche per il mondo spirituale, che sta al di fuori dell’agire umano, ciò accade perché in quel mondo viene a manifestazione qualcosa di più alto di un fine che si realizzi nell’umanità. E se si dice errato il pensiero di un destino finalistico del genere umano pensato secondo il modello del finalismo umano, quel che si intende dire è che il singolo individuo si pone delle finalità, e da tutte queste insieme si ha come risultato l’attività complessiva dell’umanità. Questo risultato è allora qualcosa di più alto delle sue parti, le finalità umane.

Allora, questa aggiunta cosa vuol dire?

MAURIZIO: A tutt’oggi è stata criticata questa frase qua; quella dell’idea dell’uomo aperto, diciamo. A oggi, no!, e tutti gli studi che sono stati fatti dopo… rimane attuale questa frase qua!

A.: Eh, certo!

MAURIZIO: E qualcuno l’ha criticata, volevo sapere…

A.: Perché ha un pensare confuso. La neurobiologia, per esempio – una cosa che ci siamo detti tante volte – qui abbiamo le strutture del cervello, lei ti dice: non c’è la libertà, perché l’analisi, l’investigazione dei fenomeni cerebrali, ha dimostrato che tutti i fattori di coscienza avvengono “dopoâ€: prima avviene qualcosa nel cervello e dopo c’è qualcosa nella coscienza: un’immagine, un sogno, un pensiero, lo scopo, l’intento di fare qualcosa ecc., ecc.

Allora, siccome prima avviene qualcosa nel cervello e poi avviene qualcosa nella coscienza, stando al fatto che la scienza naturale vede tutto in chiave di causa ed effetto, ciò che viene dopo non può essere la causa; quindi la causa è il cervello e i fenomeni di coscienza sono l’effetto.

I fenomeni del cervello sono liberi o sono determinismi di natura?

Sono determinismi di natura!

Quindi questi neurobiologi pensano di averci dimostrato che non c’è la libertà.

Allora resta la domanda: questo pensiero è giusto, o c’è un errore, o è confuso?

MAURIZIO: Quindi oggi c’è ancora confusione!

A.: Eh, eccome! Sempre di più! Sempre di più.

Allora, la scienza dello spirito si attacca a questo punto qui – (causa=cervello, effetto=fenomeni di coscienza) – e dice: è giusto! I fatti dell’elemento di coscienza sono tutti effetti determinati da queste cause, però nella coscienza non c’è nulla di realtà, sono tutte immagini speculari; nulla di reale.

Nella coscienza io ho l’immagine della mia macchina, l’immagine della giraffa, l’immagine del “Mondo Miglioreâ€, ma non tutto l’edificio del Mondo Migliore, capito! Quindi concedo che queste immagini speculari, che ho nella coscienza, siano l’effetto determinato, non libero, dei processi del cervello.

E adesso io chiedo: e il cervello chi l’ha creato?

MAURIZIO: Il cervello è stato creato dall’idea aperta.

A.: Quale?

MAURIZIO: Da chi ha creato l’idea di questo congegno; diciamo il Creatore che ha creato anche il cervello. Però l’ha lasciato aperto; adesso non uso termini…

A.: No, no, secondo me, se noi vogliamo essere puliti… tenete presente che questa discussione avviene tutti i giorni; quindi ogni scienziato dello spirito poi va a casa, ha i suoi amici, a questo punto ti pigliano e dicono: ma di cosa stai parlando quando parli di libertà?

Allora io vi dicevo già: prendiamo sul serio quello che stanno dicendo – questo Wolf Singer, per esempio – lui giustamente dice: io, per spiegare i fenomeni di coscienza, se è vero che sono effetti determinati, li spiego trovando la causa.

Quindi il suo assunto metodologico fondamentale è che una cosa la spieghi in base alla sua causa: conoscendo la causa capisco l’effetto.

Bene, caro scienziato naturale, ti prendo sul serio!

Allora, tu mi spieghi i fenomeni di coscienza come effetto di ciò che avviene nel cervello; e perché non mi spieghi il cervello? Come me lo spieghi il cervello?

Tu devi per forza ammettere che anche il cervello è l’effetto di qualcosa, perchè me lo spieghi soltanto quando trovi la sua causa.

E qual’è la sua causa?

Perché tu non mi dirai che il cervello si è creato da sé, che non ha una causa che lo ha creato!

E allora lui mi dice: certo, anche il cervello, se c’è, deve avere una causa che l’ha fatto, però non la conosco.

E allora: benissimo! Allora dì che non la conosci, ma che ci deve essere! Perché se un fenomeno c’è, dev’essere l’effetto della sua causa. Un fenomeno non causato non esiste, secondo il suo modo di pensare.

C’è qualcosa che non è effetto di una causa?

Perché finché andiamo indietro: effetto, la causa, la causa è l’effetto di un’altra causa, e così via. Non ci si ferma mai?

Bisogna trovare una causa, che si chiama la “causa primaâ€, che non è un effetto; è pura causa!

C’è o non c’è?

FOGGIA: Certo che c’è!

A.: No! hai il diritto di dire che c’è soltanto se ne hai la percezione!

FOGGIA: Ma come discorso logico, lo posso dire.

A.: No, no, tanto è vero che anche un Kant ti dice: no, logicamente tu puoi anche dire: vai (all’indietro) all’infinito e non arrivi mai alla fine!

E allora Kant, nelle antinomie della ragion pura – la critica della ragione pura di Kant ha tutta una sezione sulle antinomie della ragione pura e le prime due antinomie sono sullo spazio e il tempo – è interessantissimo perché nell’edizione tedesca le antinomie sono su due colonne: a sinistra Kant ti dimostra apoditticamente che il mondo deve aver avuto un inizio e a destra ti dimostra che il mondo non può avere avuto un inizio nel tempo.

E poi l’altra antinomia, lo spazio, ti dimostra che deve essere finito, se no non è un mondo, e a destra ti dimostra: no, non può essere finito.

Quindi un inizio primo, o ce l’hai nella percezione, o non hai il diritto di parlarne come fosse realtà.

Tutta la prima parte della Filosofia della Libertà – ce lo siamo dimenticati! – è servita a portarci alla percezione di qualcosa che è un inizio assoluto senza essere causato. Ed è il pensare!

Se percepisco il pensare e mi creo il concetto giusto, non errato, del pensare, io dico: il pensare è un inizio assoluto, che non è causato.

Quindi lo spirito creatore, che pensa e che crea, non è l’effetto di qualcosa: è l’inizio eterno del mondo: quindi crea tutto lo spazio e tutto il tempo; ma è fuori dello spazio e del tempo.

Questo è il concetto aristotelico-tomistico di causa prima: il motore non moto.

Tutti gli altri muovono il successivo, ma sono mossi da quello che viene prima.

Quindi ogni cosa è al contempo causa ed effetto, eccetto il pensare.

Il pensare è pura causa, non è effetto. Perché se il pensare fosse un effetto, devo fare un passo ancora più indietro e devo trovare la causa del pensare.

Può avere una causa il pensare? Qualcosa che è ancora più causante del pensare, che causa il pensare?

PUBBLICO: Anche la percezione causa…

A.: No, se creo il concetto giusto di ciò che percepisco percependo il pensare, il concetto giusto è: il pensare è una creazione in assoluto, che apre tutto lo spazio e tutto il tempo.

FOGGIA: Perché è un’attività costante e continua.

A.: Perché ci dicevamo, questo tipo di riflessione, di autopercezione dell’essere umano pensante, paragonata all’inizio del mondo della scienza naturale che mi parla di Big bang, dimostra in che modo il pensare si sia impoverito; di molto impoverito.

Ah, scusate, stavo riassumendo l’aggiunta! L’aggiunta l’ha scritta Steiner nel 1918, 25 anni dopo, quindi dopo esser diventato scienziato spirituale ecc. Lui fa una riedizione della Filosofia della Liberetà tale e quale, con alcune aggiunte, però precisando cose in base ai fraintendimenti che c’erano stati.

Allora c’è l’aggiunta che dice: ci sono tre livelli dell’essere (inizia uno schema alla lavagna).

Qui c’è l’umano: già il concetto di umano consente naturalmente uno staccarsi da un lato e dall’altro; perciò abbiamo: lo chiamo l’infraumano, o sottoumano – tra virgolette, se volete – e il sovraumano.

Quindi: sotto l’uomo e sopra l’uomo – tra virgolette, eh! – non che sia migliore o peggiore: un’altra cosa!

Allora, il fattore umano, il concetto dell’uomo è che è un’interazione tra natura, quindi determinismo, e la libertà che agisce con finalità.

Avevo trovato prima un’altra parola… causalità, ecco!, causalità; invece di determinismo: causalità; quindi un nesso deterministico tra causa ed effetto.

Quindi nella natura c’è un nesso deterministico, già precostituito, di causa ed effetto: questa causa sortisce questi effetti, questi effetti sono causa degli effetti successivi e così via.

Invece, dove si agisce secondo fini, il fine ti lascia libero, perché tu puoi dire, di fronte a una cosa che concepisci come fine dell’agire, la faccio o non la faccio.

Quindi, la natura si comporta in base alla causalità, perciò senza libertà, deterministicamente, e l’uomo si comporta in base a finalità, quindi liberamente.

Quindi dal concetto dell’uomo si evince che ci deve essere la pura natura, quindi la pura causalità senza libertà; e questi sono gli animali, le piante e le pietre.

Ci siamo finora?

Ora con questi due concetti andiamo più facilmente perché li abbiamo creati in base alla percezione. Adesso qui non c’è bisogno di avere la percezione di angeli, arcangeli, la percezione del Logos, ecc.; creiamo il concetto del sovraumano partendo dall’interazione di questi due: se l’infraumano lo definiamo in quanto in esso è presente soltanto questo elemento dell’umano, il sovraumano saranno quegli esseri che hanno soltanto la libertà, quindi pura finalità.

La frase che dice: la luce sia e la luce fu, è pura finalità; senza aggiungere altro, senza aggiungere che avviene non nel tempo, ma in un momento. Pura finalità, pura libertà!

Il Logos non ha la possibilità di perdere colpi, perché allora non sarebbe il Logos.

LUCIANA: Ma non ha neanche scopi, lo abbiamo visto, se no sarebbe un poveraccio, hai detto!

A.: Perché se avesse degli scopi sarebbe soggetto al tempo!

LUCIANA: Ma finalità e scopi sono la stessa cosa!

A.: No, è pura finalità; qui (nell’uomo) la finalità è impura, perché è in interazione con la natura. Quindi la pura finalità è la realizzazione istantanea: è l’intuizione!

Però tu dici giustamente: sono categorie umane che stiamo estrapolando… basta che ci capiamo!

Ma guarda che anche “pura libertà†non va, perché la libertà è una categoria umana.

Allora, se mettiamo categorie che esulano dall’umano entriamo nell’astrazione, però, allora lo metto tra virgolette: “pura creativitàâ€. Se volete sarebbe: “pensare puroâ€.

Il concetto dello spirito divino è il concetto di pensare puro, non inquinato dall’elemento di natura.

Quindi se noi chiedessimo all’idealista tedesco: come vorresti tradurre tu la parola greca: Logos, il Logos in quanto essere spirituale, creatore a livello di pensiero?

Il tedesco direbbe: il pensare puro!, che pensando un concetto lo realizza, se no non lo pensa. Pensarlo e realizzarlo è la stessa cosa; non ha bisogno di un arco di tempo per realizzare.

La luce sia e la luce fu! Pensare puro!

Adesso qui: Logos = pensare puro.

Nella storia della filosofia, noi, al liceo classico, abbiamo imparato questa categoria ricevuta dall’idealismo tedesco del pensare puro. Molto importante.

E l’opposto del pensare puro non è il pensare impuro nel senso dei pensieri impuri, ecc., ecc., come dice la Chiesa, ma è un pensare meno creativo.

Quindi puro significa puramente creativo, senza niente di passività; pura attività. Perché se io dipendo dal tempo, da un arco di tempo per realizzare ciò che penso, il pensiero diventa dipendente e quindi inquinato dalla dipendenza dal tempo; non è puro!

Allora, adesso faccio di nuovo un riassunto: qui abbiamo la sfera divina, ci metto qui Dio, tra virgolette, come astrazione, e qui la natura. I due tentativi fondamentali della teologia, e della scienza naturale, da sempre, di ricattare l’uomo: dal lato della natura e dal lato di Dio. ( vedi schema alla fine della conferenza )

Di questi due ricatti naturalmente il più forte è lo scienziato naturale, perché lo scienziato naturale picchia a base di percezione; quindi lo scienziato naturale è stato preso sempre più sul serio negli ultimi secoli; e invece il teologo sempre di meno, perché la gente ha cominciato a dire: ma di che parli?

Quindi, finché l’animo aveva paura, aveva timore, nei confronti di questo fantasma di cui si parlava, funzionava!

Nella misura in cui, con l’illuminismo delle scienze naturali, l’animo si è liberato da questo timore di un Dio inventato, la Chiesa, i teologi, hanno sempre meno presa; però il tentativo c’è, e dobbiamo capirlo come il nostro passato, il passato della nostra cultura.

Quindi ognuno di noi si riconquista l’umano stagliandolo, quindi facendone emergere la differenza assoluta nei confronti della natura e facendone emergere l’umano, altrettanto sottolineandone la differenza assoluta dal mondo cosiddetto divino; perché l’uomo si perde sia se diventa pura natura, sia se tenta di vivere come un angelo.

Quindi, sia lo spiritualismo, sia il materialismo, sono due modi uguali di vanificare l’umano.

Allora parto dal primo. Vi porto due fenomeni archetipici – ur-phanomen: facciamo un minimo di goetheanismo – . Un fenomeno originario, archetipico, di questo rifarsi, di voler ricattare, soggiogare l’uomo in base a scopi che Dio si è proposto, e tu devi fare la volontà di Dio, un esempio, un sintomo fondamentale è il Papa tedesco Ratzinger che parla al parlamento tedesco, al Bundestag – roba di un paio di mesi fa, un avvenimento proprio archetipico, una cosa straordinaria! –.

Adesso voi mi chiederete cosa ha detto!

Ha cominciato dicendo: nella dottrina cattolica c’è il diritto naturale; il diritto naturale non lo metto qui al centro, lo metto qui (nel sovraumano) dato che il diritto naturale dovrebbe essere vincolante per ogni parlamento; perché come faccio io a sapere quali diritti ha l’uomo, quali sono i diritti fondamentali della persona umana, se io non conosco la natura dell’uomo?

Quindi il diritto naturale è fondato sull’interpretazione della natura umana, e allora la Chiesa ti dice – perché lei l’ha saputa da Dio, per rivelazione; lei ha saputo cos’è la natura umana – ; quindi la natura umana è il concetto del Logos che ha creato l’uomo; la natura umana è il concetto dell’uomo.

Chi la conosce la natura umana? Cosa è essenziale a questa natura e cosa non è essenziale? Perché il concetto coglie l’essenziale e tira via ciò che non è essenziale.

La natura umana è una delle più grandi astrazioni che esistano!!!

Non c’è una natura umana, ci sono io umani, ognuno diverso dall’altro. E l’organismo, il modo in cui questi io sono pensati come membra organiche di un organismo, questo non lo chiamo “la natura umanaâ€, lo chiamo l’organismo dell’umanità.

Allora creo il concetto di un organismo dell’umanità, non di natura umana.

Quali sono i diritti universali dell’uomo?

C’è soltanto un diritto universale assoluto, che è diverso in ognuno: è il diritto a realizzare il proprio io unico. Altri diritti non ci sono!

Quindi la natura umana comprende tutto ciò che c’è nell’uomo, e in ogni uomo quella è la natura umana: tutto ciò che c’è.

WALTER: E in versione Ratzinger? Cioè la realizzazione è nostra, e Ratzinger che cosa ha pensato?

A.: Lui (Ratzinger) ti dice: la Chiesa per rivelazione ti dice chi è l’uomo, qual è la natura umana…

WALTER: E quali sono i diritti naturali? Presumo voglia dire il diritto alla vita, il diritto al lavoro, non lo so! È così?

A.: C’è un diritto alla vita? Lui direbbe, il papa che si rifà a Dio direbbe: il diritto di ogni uomo alla vita!… Leggiamo Platone, che sta nel trapasso tra la cultura orientale e l’inizio della cultura europea, la cultura europea si caratterizza per emergenza dell’io: una individualizzazione sempre crescente. Nella fase infantile dell’umanità in oriente, la comunità aveva molto più diritto all’esistenza che non l’individuo singolo; quindi, ancora in Platone, un bambino che era nato menomato, che si vedeva che non avrebbe dato nessun contributo alla comunità, non aveva il diritto di esistere! I genitori avevano il diritto di trattarlo come spazzatura! Ancora in Platone questo!

L’essere umano prima di nascere pianifica, fa il progetto della vita, lo scopo, il fine; ha il fine di incarnarsi e di vivere una vita… è un diritto?

Cos’è una vita?

Queste sono vite (disegna): vita 1, vita 2, vita 3, poi si va nel mondo spirituale, poi vita 4, vita 5, ecc.

missing image fileAdesso sono nella vita 3: mi sono incarnato e sono in questa vita qui.

Una vita, l’arco di una vita è un’unità di autorealizzazione, ma propormi un’unità di autorealizzazione, una dopo l’altra, non è un diritto che qualcuno mi dà; un diritto è qualcosa che qualcuno per grazia sua mi dà… Noooooo!!!

È la mia natura che si vuol realizzare un brano dopo l’altro, ma quali diritti! Ma ci rendiamo conto noi che enormità! Che qualcuno mi dà il diritto, che ce l’ho perché me lo dà lui! Ma scherziamo!

È la mia natura di realizzarsi brano a brano, non il diritto che qualcuno mi dà; che se poi me lo toglie allora non ho più il diritto!

È la mia essenza! È il mio dinamismo, del mio essere! Santa pace!

E quanti anni io voglio vivere sulla terra lo decido io in base al mio essere!

Quindi, parlare di diritti e doveri è un giuridismo, un paternalismo all’infinito! Io non ho bisogno di nessuno che mi dia il diritto alla vita. È una mia creazione la mia vita, non un diritto che ho. È una manifestazione, un pezzo grosso di manifestazione, di realizzazione del mio essere.

PUBBLICO: Anche se vieni abortito?

A.: Ma guarda che la decisione mia, non il diritto, la mia decisione di realizzarmi per tutta una vita, è chiaro che è la decisione di espormi anche agli egoismi degli altri. Ma mi espongo anche ai miei egoismi, perché è la decisione di fare passi in avanti per vincere anche il mio egoismo; però non sono costretto io a vincere il mio egoismo, altrimenti non sarei libero.

E se i miei genitori mi chiudono la porta devo sapere che ho contribuito io, per millenni, a renderli così egoisti come sono! Perché se questa donna è destinata ad essere mia madre, significa che abbiamo fatto cammini enormi di influssi reciproci, nei secoli e nei millenni: quindi io non posso dire: tu sei egoista e io no! Lo so che in base al karma passato c’è la possibilità che colei, col suo egoismo, mi chiuda la porta!

WALTER: Ma questa non è la sola spiegazione; come ogni verità ha 12 aspetti diversi: non è l’unica spiegazione.

A.: Dimmene un’altra; ma di che cosa stai parlando, scusa! Dimmene un’altra!

WALTER: L’apertura può arimanizzarsi a tal punto da diventare molto egoista, che vuol dire? Non è l’unica spiegazione!

A.: Ma è di questo che stiamo parlando; non hai capito nulla, allora!

È di questo che stiamo parlando: che la decisione di incarnarsi è la decisione di espormi a tutto quello che c’è!

WALTER: Se ho ben capito, l’egoismo di un genitore l’ho creato io, tu hai detto…

A.: No! Ho detto che ho conncorso!

WALTER: Ho concorso. Sì, benissimo: rettifico: ho concorso; ma non sempre è vero tutto questo, ci sono casi particolari che escono da questa regola generale.

A.: Ma lo dici tu, scusa!

WALTER: Certo che lo dico io, sto parlando io!

A.: Ma tu pretendi che io ti creda?

WALTER: Io non posso pretendere niente, se no sarei fuso; no, sto dicendo che questa interpretazione si può allargare con altri esempi perché un genitore può diventare demente, può succedere qualsiasi cosa; può arimanizzarsi, per cui può diventare egoista in maniera rafforzata rispetto al rapporto con cui ho concorso a farlo diventare così. Questo sto dicendo.

A.: Ma questo non cambia niente, scusa! Non cambia niente! Io sto soltanto dicendo che la decisione di tuffarmi dentro un contesto karmico è la decisione di prendermi gli esseri umani, karmicamente congiunti con me, così come sono.

WALTER: Sì, l’avevo inteso, l’avevo inteso questo.

A.: E tu cosa hai aggiunto? Nulla!

WALTER: Ah beh, meglio, meglio!

A.: Se uno è demente, è demente: è la stessa cosa, scusa!

WALTER: Ma demente non quando io sono nato! …Poi volevo aggiungere una cosa – sarò brevissimo – ritornando al discorso della meccanizzazione del corpo fisico, che gli organi si possono cambiare, questo non è completamente vero, non sempre almeno è vero, perché man mano che c’è un’individualizzazione sempre più forte non si può più donare il sangue a nessuno e riceverlo da nessuno, e anche gli organi; quindi anche a 70 anni, anche a 80 anni!

A.: Guarda che io ho parlato di membri, il sangue non è un membro.

WALTER: Sì, il sangue è un prodotto dell’io, ma anche alcuni organi, anche determinati organi non si possono più donare, non si possono più cambiare.

A.: Non serve a nulla! Se noi svolgiamo un processo di pensiero non serve a nulla se tu vieni, per saperla più lunga, e dici: sì però ci sono casi dove non è così. È il discorso di uno che vuol saperla più lunga, ma non dà un contributo. Dov’è il tuo contributo al nostro processo di pensiero? Quale contributo vuoi dare? Questo ti chiedo: dov’è il tuo contributo?

WALTER: Quello che posso dare è questo!

A.: No, quale? Quale! Dimmi quale? Tu sei passato in pratica a dire: io sono più bravo di te!

WALTER: Nooo!, non me ne importa niente! Non me ne può importare di meno!

A.: Sì, ma soltanto questo mi è venuto incontro; qual’è il tuo contributo, dimmelo? Se no, sta zitto, scusa!

WALTER: No, ho finito, non potrei dire altro…

A.: Ecco, vedi che adesso finisci quando si tratta di dare un contributo positivo; devi dare un contributo positivo: allora ci serve!

Dire soltanto: no, tu Archiati, non hai pensato a questo, non hai pensato a quest’altro, è pura negatività, scusa! E la pura negatività non è un contributo positivo.

WALTER: Ma da parte mia non era negatività perché era un’esigenza di fare chiarezza.

ARCIATI: Dimmi la chiarezza; qual’è la chiarezza che stai facendo?

WALTER: Sul fatto appunto dell’egoismo, della libertà umana di entrare in un contesto di una famiglia…

A.: E qual’era la non chiarezza mia?

WALTER: Ma non c’è stata nessuna accusa di non chiarezza da parte mia, anche se implicita; non c’è stato niente di questo.

A.: Ma tu non puoi far chiarezza se non presupponi che non ci sia stata! Siamo onesti!

WALTER: Sì, ho detto… però mi dovrei ripetere, allora è inutile.

PUBBLICO (segni di insofferenza)

A.: Allora, Il primo punto: il diritto naturale dedotto dalla natura umana – il papa Ratzinger al Bundestag – la domanda è: chi definisce per tutti la natura umana, uguale in tutti, normativa per tutti?

Dicevamo che, i nostri discorsi dicevano: la cosidetta natura umana si esprime in un modo diverso in ogni individuo, e in ogni individuo si esprime in un modo diverso di giorno in giorno; quindi non c’è una natura umana generalizzabile; la natura umana è un fattore aperto in assoluto, perché si esprime come una potenzialità infinita, si esprime come una sinfonia potenziale.

Poi, quando la sinfonia si realizza ci sono dei temi, quindi dei tratti comuni a tutti gli esseri umani, e poi le variazioni sono diverse da ognuno.

Quindi la natura umana è tutto ciò che gli uomini sfornano di sé, tutto ciò che fanno, tutto ciò che dicono, tutto ciò che compiono.

Questa è la natura umana.

Quindi la natura umana è ancora in fase di manifestazione, è ancora in fase di creazione. La natura umana non è conchiusa, è un fattore aperto.

Poi, il secondo punto: allora diciamo: la natura umana non c’è, ildiritto naturale non c’è, è questione di astrazione. Allora la scienza naturale parla di diritti della persona umana; e l’esempio più fondamentale è il diritto alla vita.

Allora lo scienziato naturale ha il diritto di parlare di diritto alla vita?

No! No! Il leone passeggia per la foresta e gli animali più piccoli se li mangia… ma non hanno loro il diritto alla vita?

Quindi un essere naturale non ha il diritto alla vita: muore, muoiono tutti! Hanno tanto il diritto alla vita quanto hanno il diritto alla morte, perché muoiono tutti. Quindi, sia qui, nella teologia, che si rifà ad una rivelazione divina che parla della natura umana, che è pura astrazione; sia qui, che è puro materialismo, non c’è possibilità di moralità.

Perché qui (sopra) siamo oltre la moralità essendo oltre la libertà; e qui (sotto) siamo oltre la moralità perché siamo al di sotto della libertà.

Quindi la moralità è soltanto qui, nel centro, dove noi parliamo dell’individuo – della natura umana, se volete, che però diventa reale nell’io singolo individualizzato – e questo io singolo individualizzato non ha bisogno che gli si diano dei diritti, che gli si attribuiscano dei diritti paternalisticamente dal di fuori.

Ha un dinamismo evolutivo insito che si vuol manifestare, che vuol diventare percepibile! E chiamare questo un “diritto alla vita†è un imborghesimento di qualcosa che è molto più sacro; perché allora io sarei dipendente da una legge che mi dà il diritto… No! No! Questo è disumano, scusate!

Io non ho il diritto di essere io: sono io!!!

Buon appetito e ci vediamo la prossima volta.

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