Indice
Prefazione
conferenza tenuta a oxford
il 27 agosto 1922
Glossario
Letture correlate
A proposito di Rudolf Steiner
… Guidati dal Cristo, ci sentiamo nuovamente vivificati in ciò che abbiamo sperimentato come “la morte”. Sentiamo che da tutti gli esseri di questo mondo parla a noi lo Spirito risanatore.
Prefazione
Da bambina e anche da ragazza andavo volentieri in chiesa. È solo negli anni dell’università che ho cercato sempre più di verificare se assistere alla messa avesse davvero senso per me o – soprattutto negli ultimi anni – non fossi andata in chiesa più che altro per accontentare i miei genitori. Nonostante fossi interiormente certa, soprattutto grazie a mia madre, che ci dovesse essere un senso più profondo, da bambina e ancor più da adolescente ero assillata dalla domanda: perché quel Gesù Cristo che passa per il migliore degli uomini ha dovuto patire delle sofferenze così indicibili, perché mai ha dovuto morire sulla croce? A che cosa è servito? Che senso ha?
Dopo i primi anni di lavoro, in cui le cose mi sono andate davvero bene, sono arrivata a un punto in cui mi sono detta: finora hai messo tutte le tue energie nel lavoro, hai raggiunto molti degli obiettivi ideali della società, ma dentro di te come persona c’è un gran vuoto. A ventisette anni mi sentivo priva di forze, come una vecchia, e continuavo a chiedermi: tutto qui? Non è possibile che questo sia il senso della vita!
A quei tempi non conoscevo ancora Rudolf Steiner e tutto ciò che ha da dire sul senso della vita, sul senso dell’evoluzione della Terra e dell’uomo. Cose come questa: «Allora venne il Cristo e disse: ‹Io voglio vivere con voi sulla Terra, affinché troviate la forza di infiammare la vostra anima in modo da darle un impulso interiore tale da portarla attraverso la morte come anima vivente› ».
Oggi credo che ci sia qualcosa di buono nel fatto che gli esseri umani vivono con sofferenza la mancanza di significato nella vita sociale ed economica. Forse proprio così potranno riscoprire questo Cristo nell’uomo: vivendo l’unicità in se stessi e negli altri e recuperando così senso ed energia per la propria vita. Perché la “funzione religiosa” del futuro non dovrebbe aver luogo nella convivenza in ambito economico e nella vita quotidiana, come servizio reso allo spirito divino che vive in ogni uomo?
Monika Grimm
Duemila anni fa
Il Mistero del Golgota come senso
dell’evoluzione della Terra e dell’uomo
Conferenza tenuta a Oxford
il 27 agosto 1922
Cari amici,
l’umanità deve di nuovo arrivare a comprendere il Mistero del Golgota con tutte le forze che vivono dentro l’anima dell’uomo, e non semplicemente a comprenderlo nel modo in cui è possibile farlo muovendo dalla civiltà attuale, ma in modo tale che l’intero essere umano vi si possa collegare.
Ma ciò sarà possibile all’umanità soltanto se sarà in grado di avvicinarsi al Mistero del Golgota dalla prospettiva di una conoscenza spirituale. Nessuna conoscenza intellettualistica in realtà è in grado di far valere nel mondo il cristianesimo senza privarlo del suo pieno impulso, poiché ogni conoscenza intellettualistica afferra soltanto il pensiero dell’uomo.
E se abbiamo una conoscenza che parla unicamente al pensare, dobbiamo cercare i nostri impulsi di volontà – che all’interno del cristianesimo sono i più importanti – a partire dai nostri istinti. Non li possiamo percepire muovendo dal mondo spirituale nel quale sono effettivamente presenti.
Nel tempo attuale non ci sarà altra possibilità se non quella di indirizzare nuovamente lo sguardo alla grande domanda dell’umanità: «In che senso il Mistero del Golgota dà il suo significato all’intera evoluzione terrestre»?
Meglio sarebbe presentare in un’immagine ciò che si vuole esporre al riguardo, in un’immagine forse un po’ paradossale.
Se un essere qualsiasi, proveniente da un altro pianeta, scendesse sulla Terra, probabilmente, non potendo essere un uomo nel senso terrestre, troverebbe davvero incomprensibile tutto ciò che su di essa si trova. Ma io sono profondamente convinto – e tale convinzione è sorta dalla conoscenza dell’evoluzione terrestre – che un simile essere, anche se provenisse da Marte o da Giove, verrebbe profondamente toccato dal dipinto di Leonardo da Vinci, l’Ultima cena.
Un simile essere infatti troverebbe nel dipinto qualcosa che gli dice: «Con la Terra e con la sua evoluzione è collegato un senso profondo»! E muovendo da tale senso, un essere proveniente da un mondo completamente diverso potrebbe capire la Terra unitamente a tutte le altre sue manifestazioni.
Noi uomini del presente non sappiamo affatto in quale misura siamo entrati nell’astrazione intellettualistica. Perciò non possiamo più immedesimarci nell’anima degli uomini che vissero un po’ prima del Mistero del Golgota. Quelle anime umane erano completamente diverse da quelle attuali!
Ci si rappresenta infatti la storia dell’umanità troppo simile a quei processi che hanno luogo oggi. Le anime degli uomini invece hanno attraversato un significativo sviluppo e nei tempi che precedettero il Mistero del Golgota erano tali per cui tutti gli esseri umani, persino quelli che nella propria anima avevano una formazione soltanto primitiva, scorgevano in se stessi qualcosa e quel qualcosa era un’entità animica. Possiamo caratterizzare tale entità come il ricordo del tempo vissuto dall’anima dell’uomo prima che scendesse in un corpo terreno, in una fisicità terrena.
Così come noi oggi, nella comune esistenza, ci ricordiamo di ciò che abbiamo vissuto a partire all’incirca dal nostro terzo, quarto, quinto anno di vita, allo stesso modo l’antica anima dell’uomo aveva un ricordo della propria vita prenatale nel mondo animico-spirituale.
In rapporto all’anima, l’uomo era in un certo senso trasparente. Egli sapeva: «Io sono un’anima ed ero un’anima prima che scendessi sulla Terra». E conosceva anche, specialmente nei tempi antichi, alcuni dettagli della propria vita animico-spirituale antecedente la sua discesa sulla Terra. Sperimentava se stesso in immagini cosmiche.
Alzava lo sguardo alle stelle e non le vedeva soltanto nella loro configurazione astratta come le vediamo noi, le vedeva in immaginazioni sognanti e poteva dirsi: «Questo è l’ultimo barlume di quel mondo spirituale dal quale sono disceso. E scendendo, come anima, da quel mondo spirituale, presi dimora in un corpo umano».
L’uomo dei tempi antichi non si collegava mai tanto intensamente con il proprio corpo umano, così da non avere un’esperienza dell’elemento animico.
Cosa sperimentava dunque l’uomo dei tempi antichi? Sperimentava qualcosa per cui poteva dirsi: «Prima che fossi disceso sulla Terra mi trovavo in un mondo nel quale il Sole non è soltanto un corpo celeste che diffonde luce; io ero in un mondo nel quale il Sole è il luogo di raccolta di alte gerarchie spirituali. In un mondo nel quale il Sole non emana soltanto luce, ma saggezza irradiante. Lo spazio in cui mi trovavo non era fisico, ma spirituale. Ero in un mondo nel quale le stelle sono delle entità che fanno valere la propria volontà. Da quel mondo io sono disceso».
A una simile sensazione si collegavano, per l’uomo dei tempi antichi, due esperienze: l’esperienza della natura e l’esperienza del peccato.
L’uomo moderno non ha più tale esperienza del peccato, poiché per lui il peccato vive soltanto nel mondo dell’esistenza astratta, perché esso è per lui soltanto un traslato, qualcosa che egli non mette in collegamento, come elemento morale, con le necessità naturali.
Per l’uomo antico non c’erano nell’esistenza terrena quelle due correnti, ossia la necessità naturale da un lato, quella morale dall’altro. Ogni necessità morale era per lui anche necessità naturale, ogni necessità naturale era anche necessità morale.
Egli poteva quindi dirsi: «Io sono dovuto discendere dal mondo divino-spirituale. Per il fatto però di avere preso dimora in un corpo umano, rispetto a quel mondo dal quale sono disceso in verità io sono malato». Per l’uomo antico sussisteva dunque un collegamento tra il concetto di malattia e quello di peccato.
Qui sulla Terra l’uomo si venne a sentire in modo tale che dovette trovare in sé il superamento della malattia. Perciò in quelle antiche anime si fece largo sempre più la seguente consapevolezza: «Ci occorre un’educazione che sia guarigione. L’educazione è medicina, l’educazione è terapia». Apparvero così, in qualità di guaritori, delle figure particolari, come i Terapeuti del tempo che fu di poco antecedente al Mistero del Golgota.
Anche in Grecia tutta la vita spirituale fu messa in collegamento con una guarigione dell’essere umano, poiché si avvertiva che all’inizio dell’evoluzione terrestre l’uomo era più sano e poi, poco a poco, si era evoluto in modo tale da allontanarsi sempre più dall’essere divino spirituale.
Tale fu il concetto dell’esser malato – sebbene lo si sia dimenticato – che si diffuse in quel mondo nel quale poi, storicamente, si collocò il Mistero del Golgota.
In quegli antichi tempi infatti l’uomo viveva tutto ciò che è spirituale per mezzo di uno sguardo rivolto al passato: «Se voglio guardare nella direzione di ciò che è spirituale, devo risalire fino al tempo che precedette la mia nascita. Devo gettare uno sguardo indietro nel passato: là è lo spirito. Da lui sono stato generato ed è quello stesso spirito che io devo ritrovare. Io però me ne sono allontanato».
L’uomo del passato sentiva quindi lo Spirito, dal quale si era allontanato, come lo Spirito del Padre. E colui che nei Misteri aveva sviluppato in se stesso, nel proprio cuore, nella propria anima, quella forza in virtù della quale poteva rappresentare all’esterno il Padre, era ritenuto il sommo iniziato.
Quando i discepoli dei Misteri avevano oltrepassato la soglia di accesso ai Misteri stessi, entravano in quelle istituzioni che erano a un tempo istituzioni d’arte, di conoscenza e di riti sacri, e quando si trovavano dinanzi al sommo iniziato, in esso scorgevano il rappresentante del Dio Padre. I Padri erano iniziati più alti degli Eroi del Sole. Prima del Mistero del Golgota dominava il Principio del Padre.
L’umanità sentiva che sempre più si era allontanata dal Padre – nei confronti del quale si può dire: Ex Deo nascimur (siamo generati dal Dio Padre) – e che doveva essere guarita. In Colui che sarebbe venuto, essa attendeva il Risanatore, il Salvatore.
Il Cristo per noi non è più vivente in qualità di Salvatore. Ma se lo si riconoscerà nuovamente come il medico universale, soltanto allora lo si potrà collocare di nuovo nel cosmo nel modo giusto.
Tale era la sensazione di fondo che le anime antiche, che vissero prima del Mistero del Golgota, avevano riguardo al proprio rapporto con il mondo sovrasensibile del Padre. Ciò che fu avvertito in Grecia, e che fu reso con la significativa espressione: «Meglio essere un mendicante qui sulla Terra, che un re nel regno delle ombre», sta a indicare come l’umanità dovesse sentire profondamente quanto, nella totalità del suo essere, si fosse allontanata dal mondo spirituale. Contemporaneamente a ciò viveva negli uomini una nostalgia profonda di tale mondo.
Mai però l’umanità sarebbe potuta pervenire alla piena autocoscienza dell’io, alla libertà interiore, se si fosse sviluppata ulteriormente soltanto avendo coscienza del Dio Padre. Per poter infatti pervenire a tale libertà interiore, nell’essere dell’uomo dovette insediarsi proprio ciò che, rispetto a stati precedenti, fu considerato come una malattia.
L’umanità intera in un certo senso sentì la malattia di Lazzaro. Ma si trattava per l’appunto di una «malattia che non conduce alla morte», bensì alla liberazione e a un nuovo riconoscimento dell’elemento eterno nell’uomo.
Si può dire: sempre più gli uomini avevano dimenticato quel passato animico-spirituale antecendente la nascita, sempre più il loro sguardo si era rivolto al mondo materiale circostante.
Se un’anima più antica, attraverso il corpo, gettava uno sguardo in tale mondo circostante, vedeva ovunque nelle stelle le immagini dello spirituale che essa aveva lasciato per scendere sulla Terra attraverso la nascita. Nella luce del Sole vedeva la saggezza irradiante, nella quale aveva vissuto come nella propria atmosfera di vita; nel Sole stesso vedeva il coro delle gerarchie superiori, dalle quali era stata inviata quaggiù sulla Terra.
Ma l’umanità aveva dimenticato tutto ciò. E lo si sentiva, man mano che si avvicinavano l’ottavo, il settimo e i successivi secoli antecedenti il Mistero del Golgota.
Se la storia esteriore non racconta nulla di ciò, è appunto alla storia che va attribuita una simile mancanza! A colui che sa seguire la storia in modo spirituale, essa presenta quanto segue: al punto d’inizio dell’evoluzione dell’umanità vi era una possente coscienza del Dio Padre e tale coscienza fu a poco a poco smorzata dal fatto che l’uomo sempre più doveva volgere lo sguardo all’esterno, verso una natura privata dello spirito.
Molte cose rimasero a quel tempo inespresse, molte giacquero nelle profondità subcoscienti delle anime umane. Ma nelle sfere subcoscienti delle anime umane era più che mai attiva una domanda, che gli uomini non sapevano esprimere a parole, che sentivano soltanto con i propri cuori, e la domanda era la seguente: «Intorno a noi c’è la natura. Dov’è lo spirito di cui noi siamo i figli? Dove scorgiamo lo spirito del quale noi siamo figli»?
Tale domanda viveva inconscia nelle anime migliori del quarto, terzo, secondo, primo secolo, senza che venisse formulata. Era un tempo pieno di domande, un tempo in cui l’umanità avvertiva la lontananza dal Dio Padre e per così dire nelle profondità dell’anima essa aveva anche cognizione di quanto segue: «Deve essere così: Ex Deo nascimur° (veniamo generati dal Dio Padre). Ma lo sappiamo ancora? Possiamo ancora saperlo»?
Se guardiamo ancor più profondamente nelle anime degli uomini che vissero in quell’epoca in cui si stava approssimando il Mistero del Golgota, ci si mostra quanto segue: erano anime semplici, primitive, quelle che, unicamente nelle profondità del proprio subconscio, potevano sentire come sempre più esse fossero separate dalla connessione con il Padre.
Gli uomini in cui vivevano tali anime erano infatti i discendenti di quegli uomini primigeni che non erano affatto così simili agli animali, quali ce li rappresentiamo scientificamente oggi, ma che all’interno della propria sagoma che richiamava quella degli animali, albergavano un’anima per mezzo della quale traevano da una chiaroveggenza di sogno questo loro sapere: «Siamo discesi dal mondo divino-spirituale, abbiamo assunto un corpo umano. Dio Padre ci ha guidati dentro il mondo terreno. Da lui siamo stati generati».
Le anime più antiche dell’umanità sapevano questo: nei mondi spirituali dai quali erano discese avevano lasciato qualcosa che noi oggi chiamiamo – o che così fu chiamato in genere più tardi – il Cristo. Per tale motivo i primi scrittori cristiani dicevano che le anime più antiche erano cristiane. Quelle anime sapevano anche realmente venerare il Cristo.
Nei mondi spirituali nei quali esse si trovavano prima che fossero discese sulla Terra, il Cristo era il punto centrale della loro visione, era l’entità centrale verso la quale esse rivolgevano il proprio sguardo animico. E negli uomini sulla Terra viveva il ricordo di tale vivere insieme con il Cristo nella vita prenatale.
C’erano inoltre altre regioni – e Platone per esempio ne parla in un modo del tutto particolare – dove i discepoli dei Misteri venivano iniziati in modo che venisse risvegliata la visione dei mondi spirituali, in modo che venissero svincolate dall’entità umana le forze mediante le quali si può guardare nei mondi spirituali.
Di fatto tali discepoli degli Iniziati non acquisivano una conoscenza del Cristo – con il quale tutti gli uomini avevano vissuto prima che fossero discesi sulla Terra e che ora qui nelle anime umane era già come una rappresentazione per metà dimenticata – muovendo semplicemente da un’oscura reminiscenza, ma lo conoscevano nuovamente nella totalità del suo essere. Ne facevano però conoscenza come di una Entità che nei mondi spirituali aveva perduto la sua funzione.
Vale a dire che nei Misteri del secondo e del primo secolo antecedenti il Mistero del Golgota si guardava in un modo del tutto particolare a quell’Entità dei mondi spirituali che più tardi fu chiamata Entità del Cristo.
Ci si diceva: «Noi vediamo, è vero, tale Entità nei mondi spirituali, ma la sua attività è andata scemando sempre più».
Quell’Entità, che entrò poi nell’esistenza terrena, fu la medesima che innestò nelle anime il ricordo del tempo prenatale. Nei mondi spirituali essa era il grande Maestro per ciò di cui l’anima, dopo essere discesa sulla Terra, serbava ancora il ricordo.
L’Entità che più tardi venne chiamata l’Entità del Cristo appariva dunque agli iniziati come un’Entità che ha perduto la propria attività in quanto gli uomini a poco a poco non ne hanno, non ne ricevono più il ricordo.
Col passare del tempo affiorava negli Iniziati, sempre più chiaramente, la coscienza di quanto segue: «L’Entità di cui l’umanità primigenia serbava ricordo nell’esistenza terrena, quell’Entità che noi ora vediamo essere sempre meno attiva nei mondi spirituali, si cercherà una nuova sfera di vita. Scenderà sulla Terra, per poter risvegliare nuovamente negli esseri umani la spiritualità sovrasensibile».
Si cominciò quindi a parlare di quell’Entità, che più tardi fu chiamata il Cristo, come di colui che in futuro sarebbe sceso sulla Terra, che avrebbe assunto un corpo umano, come poi lo assunse in Gesù di Nazareth. Parlare del Cristo come di un veniente, costituì uno dei principali contenuti dei discorsi che si andavano facendo negli ultimi secoli antecedenti il Mistero del Golgota.
Nell’originaria magnificenza dei tre Magi o Re provenienti dall’Oriente scorgiamo i rappresentanti di quel genere di iniziati, che nelle proprie sedi d’iniziazione avevano appreso: «Il Cristo verrà quando i tempi saranno compiuti e i segni nel cielo lo annunceranno. Dobbiamo allora cercarlo nella sua dimora nascosta».
Nel Vangelo, se lo si compenetra di nuovo con lo sguardo spirituale, risuona ovunque come un profondo arcano, come un profondo mistero, ciò che si palesa nell’evoluzione dell’umanità.
In tal modo gli uomini primitivi, come smarriti, volgevano lo sguardo al sovrasensibile. Nel loro subconscio essi si dicevano: «Abbiamo dimenticato il Cristo».° E vedevano la natura intorno a loro°. Sorgeva allora nei loro cuori la domanda prima menzionata: «Come troviamo di nuovo il mondo spirituale»?
Ciò che gli Iniziati sapevano all’interno dei Misteri era questo: l’Entità, che più tardi fu chiamata il Cristo, verrà e assumerà figura umana. E ciò che le anime sperimentarono in precedenza nella loro esistenza preterrena, lo sperimenteranno nella visione del Mistero del Golgota.
Pertanto la risposta alla domanda: «Come perveniamo di nuovo al sovrasensibile»? non è data in un modo intellettualistico, ma mediante il fatto più possente che mai sia avvenuto sulla Terra.
Gli uomini che a quel tempo avevano sviluppato un senso per ciò che accadde, da quel loro sapere avevano appreso che nell’uomo Gesù viveva un vero Dio, quel Dio che l’umanità aveva dimenticato in virtù del fatto che si andavano sviluppando le forze della fisicità, della corporeità in vista della libertà, e che ora appariva in una nuova forma, sì che lo si poteva guardare, lo si poteva vedere, sì che ancora in seguito la storia ne poteva parlare come di un essere terreno.
Quel Dio, che si era conosciuto solo lassù nel mondo spirituale, era disceso, aveva camminato in Palestina, aveva consacrato la Terra, grazie al fatto che egli stesso era entrato in un corpo umano.
Perciò la grande domanda di coloro che, secondo il significato di quel tempo, erano persone colte, era la seguente: «Quale via ha percorso il Cristo per giungere fino a Gesù»?
Nei primi tempi del cristianesimo la domanda riguardante il Cristo era puramente spirituale. Non si indagava intorno al Gesù, si indagava intorno al Cristo, al modo in cui egli era disceso. Si levava lo sguardo ai mondi spirituali, si scorgeva la discesa del Cristo sulla Terra, ci si chiedeva: «In che modo l’Essere soprannaturale è diventato un Essere terrestre»?
Tale fu il motivo per cui quegli uomini semplici, che attorniavano il Cristo in qualità di discepoli, ebbero la possibilità di parlare con lui in quanto Spirito anche dopo la morte.
Quel che di più importante egli poté dire dopo la morte è preservato solo in alcuni frammenti. Ma la scienza spirituale, la conoscenza spirituale può investigare ciò che il Cristo disse, dopo la morte, ai propri intimi, poiché apparve loro nella sua pura spiritualità.
Parlò loro nella veste del sommo guaritore, del terapeuta; e come tale egli era anche un consolatore, poiché era a conoscenza di tutto ciò che concerneva il mistero del ricordo che gli esseri umani avevano di lui un tempo, di quel ricordo dovuto al fatto che erano stati con lui nei mondi sovrasensibili durante l’esistenza preterrena. E ora poteva dire loro:
In passato vi ho dato la facoltà di ricordarvi della vostra esistenza sovrasensibile, preterrena. Ora, se mi accogliete nelle vostre anime, se mi accogliete nei vostri cuori, vi do la forza di passare attraverso la porta della morte con la coscienza dell’im-mortalità. E voi non riconoscerete più il Padre soltanto – ex Deo nascimur – voi sentirete il Figlio come colui con il quale potete morire, rimanendo tuttavia viventi: in Christo morimur.
Ciò non era naturalmente espresso nelle precise parole che ho appena detto, ma in base al senso era questo che il Cristo diceva dopo la morte corporea a coloro che gli erano vicini.
Quando erano ai primordi gli uomini non conoscevano la morte, poiché a partire dal tempo in cui acquisirono la coscienza portavano con sé una conoscenza interiore del proprio elemento animico. Avevano cognizione di ciò che non poteva morire. Potevano vedere morire le persone intorno a loro; il morire era per loro una mera parvenza all’interno delle realtà da cui erano circondati. Gli esseri umani non avevano la sensazione della morte.
Gli uomini sentirono la realtà del morire soltanto quando si approssimò il Mistero del Golgota. Infatti il loro elemento animico si era a poco a poco così collegato con quello corporeo, che ora poteva sorgere il dubbio su come l’anima può sopravvivere quando il corpo decade. Nei tempi antichi tale domanda non si sarebbe posta, poiché gli uomini riconoscevano l’anima.
Adesso veniva il Cristo e diceva:
Io voglio vivere con voi sulla Terra, affinché troviate la forza di infiammare la vostra anima in modo da darle un impulso interiore tale da portarla attraverso la morte come anima vivente.
Fu ciò che Paolo non afferrò subito, ciò che afferrò soltanto quando a lui medesimo venne dischiuso l’accesso ai mondi spirituali, quando ottenne qui su questa Terra l’impressione del Cristo.
Per tal motivo il cristianesimo paolino è oggi sempre meno apprezzato, poiché esso richiede che si guardi il Cristo come colui che proviene da mondi spirituali e che collega la propria forza sovraterrestre con l’uomo terreno.
Per l’evoluzione dell’umanità, alla consapevolezza che «Siamo generati da Dio – vale a dire dal Dio Padre – » si aggiunse così la parola di vita, di consolazione, di forza: «Nel Cristo noi moriamo». Vale a dire: noi viviamo in lui.
Ci si presenterà nel modo migliore davanti all’anima ciò che l’umanità è potuta diventare grazie al Mistero del Golgota, se ora illustro tale evoluzione nel presente – e come la dobbiamo auspicare per il futuro – dalla prospettiva dell’iniziato moderno.
Ho cercato di porre dinanzi alla vostra anima la prospettiva dell’iniziato antico, dell’iniziato del tempo in cui avvenne il Mistero del Golgota. Ora vorrei cercare di illustrare la prospettiva dell’iniziato del presente, che non si accosta semplicemente alla vita con una conoscenza esteriore della natura, ma nel quale si sono risvegliate quelle più profonde forze di conoscenza che possiamo ridestare traendole dall’anima con quei mezzi che vengono indicati nella letteratura spirituale.
Quando tale iniziato acquisisce le conoscenze che oggi costituiscono lo splendore, la gloria del tempo attuale – nelle quali innumerevoli uomini, che di tali conoscenze si sono appropriati, si sentono a proprio agio, come in una sorta di coscienza superiore – con quelle conoscenze egli si sente in una tragica situazione.
Il nuovo, il moderno iniziato infatti sente proprio quelle conoscenze, che oggi nel mondo hanno particolarmente valore e che sono particolarmente preziose, come un morire, se congiunte con la sua anima. E quanto più l’iniziato moderno, dinanzi alla cui anima è risorto il mondo della sfera soprannaturale, si compenetra con ciò che viene universalmente chiamato scienza, tanto più sente morire la propria anima.
Le scienze sono per l’iniziato moderno il sepolcro dell’anima. Già da vivo egli si sente unito con la morte, se acquista conoscenze sul mondo alla maniera delle scienze moderne. E sente tale morire sovente in modo profondo e intenso.
Naturalmente egli allora cerca il motivo per cui, ogni volta che arriva a una comprensione nel senso moderno, abbia l’impressione di morire; il motivo per cui, proprio quando si libra fino alle più alte conoscenze moderne, che egli sa veramente apprezzare, ma che sono per lui un presentimento della morte, avverta una sorta di sensazione di puzzo cadaverico.
Egli allora, muovendo dalle proprie conoscenze del mondo sovrasensibile, si dice qualcosa che io vorrei esprimere davanti a voi per mezzo di un’immagine.
Prima che fossimo discesi sulla Terra vivevamo in modo spirituale-animico. Di ciò che vivevamo in piena realtà animico-spirituale nell’esistenza preterrena, qui sulla Terra abbiamo nella nostra anima solo pensieri, concetti, rappresentazioni. Essi sono nella nostra anima. Ma in che modo lo sono?
Osserviamo l’essere umano come esso si trova nella vita tra nascita e morte, ossia pieno di vita e con il corpo pervaso di carne e sangue; di lui diciamo che è un uomo vivo. Egli oltrepassa la soglia della morte. Dell’uomo fisico qui rimane il cadavere, che viene poi affidato alla terra, agli elementi.
Osserviamo l’essere umano fisico dopo la morte: davanti a noi abbiamo il cadavere, ciò che rimane dell’uomo vivo, dell’uomo pervaso di sangue vivente. Fisicamente l’uomo è morto. Guardiamo ora nella nostra anima e gettiamo uno sguardo indietro, ma servendoci dello sguardo dell’iniziazione.
Osserviamo i nostri pensieri, quelli che abbiamo ora nella vita tra nascita e morte, quei pensieri che noi abbiamo e che costituiscono l’attuale moderna saggezza e scienza°, e vediamo: sono il cadavere di ciò che eravamo prima che fossimo discesi sulla Terra.
Così come il cadavere di un uomo si rapporta all’uomo in piena vita, allo stesso modo i nostri pensieri, che noi oggi stimiamo alla stregua delle più grandi ricchezze, che ci recano le conoscenze concernenti la natura esteriore, si rapportano a ciò che noi eravamo prima della nostra discesa sulla Terra. Li vediamo come il cadavere in noi di ciò che eravamo nei mondi spirituali.
Ecco ciò che l’iniziato può sperimentare: nel pensiero egli non sperimenta la sua vita reale, in esso egli sperimenta il cadavere della propria anima.
Questo è un fatto, è qualcosa che non viene proferito muovendo da sentimentalismo, ma ciò che appare oggi con tutta vivezza dinanzi all’anima proprio sulla base di un’energica conoscenza. Non si tratta di qualcosa che oggi il sognatore sentimentale, mistico, dice a se stesso, di qualcosa che egli vuole percepire muovendo da una qualche oscura profondità mistica del proprio essere.
Oggi colui che oltrepassa la porta dell’iniziazione scopre nella propria anima quei pensieri che, per il fatto di non essere viventi, possono essi soli rendere possibile la libertà vivente.
Tali pensieri sono tutto il fondamento della libertà umana. Appunto perché sono morti, perché non sono viventi, non costringono l’uomo. Oggi l’uomo può diventare un essere libero in quanto ha a che fare non con pensieri vivi, ma con pensieri morti. I pensieri morti possono venire afferrati dagli uomini e impiegati per la libertà. Li si sperimenta però anche, con pieno senso di tragicità universale, come cadaveri dell’anima.
Prima che l’anima fosse discesa nel mondo terreno, tutto ciò che oggi è cadavere era pienamente vivente e vivace. Nei mondi spirituali-sovrasensibili, fra le anime umane che erano passate attraverso la morte e che non erano ancora ridiscese sulla Terra, si muovevano le entità delle gerarchie superiori, che stanno al di sopra degli uomini; si muovevano pure quegli esseri elementari, che sono alla base della natura.
In quei mondi tutto era vivente nell’anima. Qui, nell’anima, c’è solo l’eredità di ciò che proviene dai mondi spirituali. Il pensiero è morto.
Se però noi, quali iniziati moderni, sappiamo compenetrarci del Cristo, di ciò che Egli stesso ha vissuto nel Mistero del Golgota, se comprendiamo nel senso più profondo, più interiore, le parole di Paolo: «Non io, ma il Cristo in me», allora il Cristo ci conduce anche attraverso questa morte. Allora penetriamo nella natura, con i nostri pensieri, ma il Cristo cammina spiritualmente con noi, e immerge i nostri pensieri nel sepolcro della natura.
Infatti, poiché solitamente noi abbiamo pensieri morti, la natura diventa come una tomba. Se però, con tali pensieri morti, ci accostiamo ai minerali, agli animali, al mondo stellare, al mondo delle nubi, alle montagne, ai fiumi, se ci avviciniamo a loro, ma accompagnati dal Cristo secondo le parole: «Non io, ma il Cristo in me», allora, quando ci immergiamo nel cristallo di quarzo, nella moderna iniziazione sperimentiamo che dalla natura, dal cristallo di quarzo il pensiero ora risorge come pensiero vivente.
Sperimentiamo come dal sepolcro minerale il pensiero si innalzi come un pensiero vivente. Il mondo minerale fa sorgere in noi lo spirito. E se il Cristo ci conduce attraverso tutta la natura fuori da tutto ciò in cui altrimenti vivrebbero solo pensieri morti, sorgono ovunque i pensieri viventi.
Ci sentiremmo come malati, se ci accostassimo alla natura e guardassimo dentro il mondo delle stelle soltanto con lo sguardo calcolatore dell’astronomo, se solo i pensieri morti si immergessero nel mondo. Ci sentiremmo malati e la malattia ci condurrebbe alla morte.
Se però ci lasciamo accompagnare dal Cristo, se accompagnati dal Cristo portiamo i nostri pensieri morti dentro il mondo stellare, nel mondo del Sole, della Luna, delle nubi, delle montagne, dei fiumi, dei minerali, delle piante e degli animali, se li portiamo dentro tutto il mondo fisico umano, accade che nell’osservazione della natura tutto diventa vivente, e sorge come da un sepolcro lo spirito vivente, che ci risana, che ci risveglia dalla morte, lo Spirito Santo.
Guidati dal Cristo, ci sentiamo nuovamente vivificati in ciò che abbiamo sperimentato come la morte. Sentiamo che da tutti gli esseri di questo mondo parla a noi lo Spirito risanatore.
Questo è ciò che dobbiamo riconquistarci in una conoscenza spirituale, in una nuova conoscenza iniziatica. Allora riconosceremo nel Mistero del Golgota il senso di tutta l’esistenza terrena.
Sapremo allora che nel tempo in cui, attraverso i pensieri morti, si deve sviluppare la libertà umana, dobbiamo essere condotti alla conoscenza della natura per mezzo del Cristo.
Sapremo come il Cristo, morendo all’interno del Mistero del Golgota, abbia posto sulla Terra non solo il proprio destino, ma come abbia conferito alla Terra stessa la grande libertà pentecostale, promettendo all’umanità terrena lo spirito vivente, che, per mezzo del Suo aiuto, può risorgere da tutto ciò che si trova sulla Terra.
La nostra conoscenza rimane una conoscenza morta, rimane essa stessa “peccato”, se per mezzo del Cristo non veniamo destati in modo che da tutta la natura, da tutta l’esistenza cosmica, ci parli di nuovo lo spirito, lo spirito vivente.
La formula della Trinità del Dio Padre, del Dio Figlio e del Dio Spirito Santo, non è una formula arbitrariamente escogitata. È qualcosa di profondamente collegato con l’intera evoluzione del cosmo, qualcosa che diventa per noi non una conoscenza morta, bensì vivente, se facciamo vivere in noi come un risorto il Cristo stesso, il portatore dello Spirito Santo.
Comprendiamo allora che sarebbe una malattia, se non potessimo scorgere il divino dal quale siamo nati. L’uomo ateo nel suo profondo è malato. È sano soltanto se comprende la propria natura fisica in modo tale che il senso delle parole: «Da Dio sono stato generato», possa vivergli nell’interiorità ed egli lo possa sentire come il compendio del suo proprio essere.
Ed è una sventura, una sfortuna se l’uomo nella propria vita non trova il Cristo che, alla fine dell’esistenza terrena, lo può condurre attraverso la morte, che attraverso la morte lo può guidare alla conoscenza. Se sentiamo in tal modo il senso delle parole: «In Christo morimur», allora sentiamo anche ciò che si vuole avvicinare a noi mediante l’accompagnamento, la guida del Cristo.
Sentiamo allora come da ogni cosa risorga lo spirito, e come esso risorga ancora in questa vita terrena. Ci sentiamo nuovamente vivi in essa, guardiamo attraverso la porta della morte, oltre la quale il Cristo ci conduce, guardiamo a quella vita che sta al di là della morte e ora sappiamo perché il Cristo ha mandato lo spirito, lo Spirito Santo: perché, se ci affidiamo alla guida del Cristo, possiamo già qui nella vita unirci con lo Spirito Santo.
Allora con sicurezza possiamo dire: «Moriamo nel Cristo, mentre passiamo attraverso la porta della morte».
Ciò che abbiamo sperimentato qui con la nostra conoscenza della natura, è già una preparazione per l’avvenire. Quella che infatti sarebbe scienza morta, viene risvegliata per mezzo dello spirito vivente.
Di conseguenza, quando al posto della morte della conoscenza subentra la morte reale, che ci sottrae il corpo, possiamo anche dire: se abbiamo giustamente compreso quel che significa «Siamo stati generati dal Padre», e «nel Cristo moriamo», allora gettando uno sguardo attraverso la porta della morte, possiamo pure dire: «Nello Spirito Santo verremo nuovamente risvegliati» (per Spiritum Sanctum reviviscimus).