Indice
Prefazione di Pietro Archiati
Prima conferenza
la questione sociale
come fatto di cultura, di diritto e di economia
• La questione sociale riguarda tutta l’umanità in termini di vasta portata, non è solo una questione di sopravvivenza e posti di lavoro
• La prima economia nazionale cercava le “leggi” dell’economia, secondo il modello delle scienze naturali
• Nello stesso tempo andò persa ogni fede nella capacità dello spirito di plasmare la vita
• Il capitalismo e la tecnica hanno creato una classe operaia che dalla vita culturale della borghesia ha ereditato soltanto la scienza materialistica
• L’anima s’intristisce se si convince che lo spirito sia solo un’ideologia astratta senza praticità
• Secondo Woodrow Wilson, presidente degli USA, Stato e diritto sono diventati sempre più impotenti nei confronti dell’economia
• La vita sociale è e va triarticolata in vita culturale, giuridica ed economica – ma l’economia ha fatto della cultura e del diritto i propri servi
• Nell’economia monetaria il valore concreto delle merci e dei servizi viene camuffato da un prezzo astratto
• L’economia monetaria tende a trasformarsi in un’economia di credito e di talenti
Risposte alle domande
Seconda conferenza
la vita economica:
associazioni per la creazione di valore e di prezzi. Sistema creditizio e tributario
• L’idea della triarticolazione nasce da un fiuto istintivo per la realtà e funge da metodo
• Si tratta di una triade: libertà individuale, solidarietà sociale e loro bilanciamento tramite l’uguaglianza democratica
• La vita culturale diventa produttiva e pratica solo se viene amministrata indipendentemente dallo Stato e dall’economia
• L’economia diviene produttiva e sociale solo se è indipendente dalla vita statale e giuridica
• L’amministrazione politica è la morte dell’economia
• Nell’era della tecnica e delle macchine l’iniziativa del singolo è indispensabile per l’economia
• L’associazione è un cooperare in base ai talenti in vista di una produzione al servizio del consumatore
• Nell’economia di denaro il soldo tiranneggia l’uomo
• Il lavoro non è una merce, non può essere pagato
• Nell’economia monetaria è il potere del denaro a determinare i prezzi. In un’associazione è il buonsenso sociale a determinare il valore reciproco di merci e servizi
• È soprattutto la bravura umana, il talento, che merita “credito” (= fiducia). Le imposte sulle entrate inibiscono il talento, quelle sulle uscite lo favoriscono
• Decisivo è il pensiero, la capacità di giudizio dell’individuo. La massa operaia cessa di essere una massa quando il singolo supera ogni tipo di fede nell’autorità
Risposte alle domande
Terza conferenza
la vita giuridica:
compiti e limiti della democrazia. Diritto pubblico e diritto penale
• Sono gli uomini a creare istituzioni, non viceversa
• Nelle classi dirigenti la morale e il diritto sono diventati sempre più impotenti. La classe operaia ne ha tratto il dogma che sono impotenti e che l’economia è onnipotente
• Il diritto è scomparso: oggi l’uomo che pensa e vuole non incontra mai l’altro sulla base del sentimento – cioè da pari a pari in quanto esseri umani
• Il fattore democratico vale per tutti gli aspetti della vita in cui ogni individuo maggiorenne ha la stessa capacità di giudizio dell’altro
• I parlamenti – vedi l’impero austroungarico – sono composti perlopiù da rappresentanti di interessi economici
• I diritti pubblici sorgono attraverso deliberazioni perse a maggioranza di voti e si esprimono sotto forma di leggi
• È necessario ricostituire un terreno giuridico su cui gli uomini s’incontrino unicamente come uomini, a prescindere dal talento individuale e dal potere economico
• Nel lavoro, il soddisfacimento per il proprio prodotto – che non può più essere provato – dev’essere sostituito dall’interesse per l’uomo
• In sede di giudizio è determinante il talento individuale del giudice. Come gli insegnanti, anche i giudici devono essere assegnati dalla libera vita culturale
• Dato che la giustizia è stata fatta scomparire dall’economia, il sistema giuridico va ricreato di sana pianta
Risposte alle domande
Quarta conferenza
la vita culturale:
arte scienza e religione. L’educazione come arte sociale
• Il movimento scientifico-spirituale contribuisce al rinnovamento dell’intera vita
• Il naturalismo (per esempio la pittura paesaggistica) ha fatto dell’arte un puro lusso, una vera menzogna culturale
• La scienza vede solo la realtà esteriore, è diventata sempre più astratta e intellettualistica
• La religione si arroga il monopolio sullo spirito, ma conosce solo uno spirito vecchio, che non è al passo con i tempi
• Ne La filosofia della libertà l’uomo viene descritto come spirito individuale in grado di diventare sempre più libero. La “libertà” meccanicistica di Wilson è tutt’altro che libertà
• Essere liberi vuol dire trarre da se stessi più di quanto ci dà la natura. Grazie alla “modestia intellettuale” l’uomo può sperimentare da adulto una “seconda nascita”
• Da astrazione che è, lo spiritio deve diventare esperienza concreta. Esempio: la volontà è di natura puramente spirituale
• L’arte deve tornare a plasmare la vita quotidiana a partire dallo spirito
• La religione reclama la libertà di pensiero, un tipo di incontro col cosiddetto “Cristo” sempre più individualizzato
• L’arte dell’educazione deve superare la vecchia pedagogia normativa, l’insegnante deve fare del bambino il proprio maestro
• L’arte euritmica è una nuova arte sociale, un “movimento pervaso d’anima” che va oltre la ginnastica puramente fisica
• La questione sociale richiede una nuova struttura mentale da parte dell’individuo
Risposte alle domande
Quinta conferenza
l’interazione tra cultura,
diritto ed economia nell’organismo sociale
Dal valore di una merce si vede come tre correnti autonome confluiscano a formare un’unità
• Una buona parte della scienza e del diritto è asservita all’economia. La parte indipendente (l’arte, la religione e la morale) ha perso il contatto con la vita reale, è diventata esangue e inerme
• Ovunque il potere economico è stato convertito in diritto. Per questo la classe operaia vuole rendere l’intera economia dipendente dallo Stato
• Diritto e morale sono stati scissi l’uno dall’altra: il diritto è diventato sempre più disumano, la morale sempre più illusoria
• Una vita culturale libera ha la forza di plasmare sia il diritto sia l’economia. Non ha senso voler elevare la moralità con l’obbligo delle tasse
• È facile dire che al sociale manca l’anima: più difficile è mostrare dove e come la si può creare
• il capitale e i mezzi di produzione devono circolare: la loro gestione deve passare dai capaci ai capaci, nello spirito del servizio alla collettività
• Dall’antica società di potere è nata l’odierna società di scambio che tende a essere sostituita da una “società organica”
• «La vera vita culturale è pratica»
Risposte alle domande
Sesta conferenza
la vita nazionale e internazionale
nella triarticolazione sociale
• La coscienza internazionale ha fallito nella guerra
• L’egoismo e l’amore sono le fonti dell’agire umano. «Il nazionalismo è un egoismo vissuto collettivamente»
• L’internazionalismo cresce con l’interesse a conoscere altri popoli
• In economia il consumo nasce dal bisogno che è per natura egocentrico. La produzione invece presuppone una vera dedizione alla comunità sociale
• Nell’economia mondiale regna l’anacronismo del mercato aleatorio e della società basata sullo scambio fra gli Stati
• Al posto del principio commerciale del mercato deve subentrare la reciproca comprensione fra i popoli
• Una moderna scienza dello spirito fa riconoscere anche lo spirito che è comune a tutti gli uomini
• L’umanità è un organismo vivente, dotato di anima e spirito: i suoi organi e le sue membra – popoli e individui – costituiscono un’unità nella molteplicità
• L’economia mondiale si occupa dei bisogni di tutti gli uomini, il diritto internazionale salvaguarda la loro uguale dignità. Lo spirito comune dell’umanità anima la produzione mondiale
• I veri ideali sono le realtà più efficaci nel plasmare la vita pratica
• Quello che uno dice è pura teoria, solo se diventa vita acquista realtà
Risposte alle domande
Indice dei nomi
A proposito di Rudolf Steiner3
Prefazione
La vita sociale è costituita da tre sfere ben distinte fra loro, dato che in ciascuna di esse l’uomo può fare esperienze del tutto diverse. La prima sfera Steiner la chiama “vita spirituale”, in italiano forse meglio “vita culturale”. Qui gli uomini sperimentano i propri talenti individuali, la creatività della loro libertà interiore. Il polo opposto è rappresentato dalla “vita economica”, in cui gli uomini si dedicano al soddisfacimento dei loro bisogni. In questo settore dipendono dall’aiuto reciproco, dallo spirito di solidarietà. Un terzo ambito della vita sociale, la “vita giuridica”, ha il compito di ricreare sempre di nuovo il giusto equilibrio fra libertà individuale e solidarietà collettiva. Questo avviene nell’esperienza dell’uguaglianza come uomini, della parità di dignità, in base alla quale ogni uomo può far valere gli stessi diritti e gli stessi doveri nei confronti di chiunque altro.
Nella vita sociale del giorno d’oggi l’onnipotenza dell’economia si è imposta ovunque, valendosi del suo braccio destro che è il denaro. L’economia ha inglobato sia lo Stato che la cultura; ha strappato alla vita culturale l’amministrazione del capitale e dei mezzi di produzione – in altre parole: lo spirito è diventato sempre più impotente di fronte alle necessità oggettive dell’economia. Per risanare la vita sociale, occorre restituire alla vita culturale la gestione del capitale. Solo così è possibile riconoscere e apprezzare i talenti individuali, mettendo a disposizione di chi è portato per una determinata attività sia il capitale, sia i mezzi di produzione. Essere “dotato” non significa solo avere la capacità di realizzare o produrre qualcosa, ma soprattutto di farlo al servizio della società.
Per quanto riguarda la vita giuridica, nel suo strapotere l’economia si è appropriata anche della regolamentazione del lavoro, ha imposto con violenza un pagamento, una rimunerazione del lavoro. Ma in sé e per sé il lavoro umano non ha niente a che fare con la vita economica. Solo il risultato del lavoro in quanto separato dall’uomo, solo la merce o la prestazione come tali giocano un ruolo all’interno dell’economia. Gli interessi economici non devono mai determinare quanto e come un essere umano lavora.
Quel che si fa con il lavoro viene fatto direttamente al “lavoratore”, all’uomo stesso. Una retribuzione del lavoro equivale ad una umiliazione del lavoratore, che in tal modo viene pagato come una merce e non trattato come un essere umano. Quando ad essere pagato è il lavoro in quanto tale, e non il suo risultato, si crea una costrizione esistenziale al lavoro che, per mancanza di una motivazione positiva e altruistica, può solo arrecare danni incalcolabili all’economia.
Come l’amministrazione del capitale deve tornare in mano alla vita culturale, così in un organismo sociale sano tutta la regolamentazione del lavoro va affidata alla vita giuridica.
In queste conferenze Rudolf Steiner fa notare che, nonostante nella società moderna vi siano abbastanza leggi e regolamenti, non esiste più l’esperienza del diritto, che è “caduta in un buco”. In pratica la società moderna non offre agli uomini nessuna occasione di confrontarsi fra loro come pari, come esseri umani in quanto tali. Anche quando alcuni uomini conversano tra loro, magari parlano di sport, di politica, di donne o di qualunque altro argomento, senza accorgersi che non si stanno rapportando gli uni agli altri come “esseri umani” uguali, ma come “uomini maschi”. E lo stesso vale per le donne. Gli uni e gli altri farebbero l’esperienza dell’uguaglianza della dignità umana, dei pari diritti e doveri solo se parlassero del mondo interiore dell’essere umano, dei suoi sentimenti e delle sue emozioni. Uno dei compiti più urgenti nella formazione del sociale è il recupero dell’incontro tra uomo e uomo, cioè della sfera giuridica, dell’esperienza puramente umana di ciò che è “legittimo” e “giusto” fra persona e persona.
Nella vita culturale è il pensiero dell’uomo ad occupare una posizione di primo piano. Alla base di ogni talento, di ogni capacità c’è l’idea di come realizzare al meglio qualcosa. Nella vita economica è la volontà ad essere in primo piano, lì l’uomo deve assumere un’occupazione e agire. Però l’essere umano è dotato anche di sentimento, non solo di pensiero e volontà. E il senso del diritto, della giustizia è scomparso proprio per il fatto che nella società moderna in quanto tale alla vita del sentimento non è data la possibilità di esprimersi. Ma un atteggiamento che tenga conto della dignità umana, gli uomini possono viverlo solo tramite il sano sentimento, tramite la sensibilità umana nel rapporto diretto fra simili, per poi esprimerlo sotto forma di leggi. Ciò che va riscoperto è la coscienza di quanto viene provato nell’incontro fra uomo e uomo, di quanto viene sentito e vissuto in termini di giustizia o ingiustizia.
Un esempio attuale: a livello mondiale, come reagiscono dal punto di vista emotivo le varie persone alle caricature del profeta Maometto apparse sui quotidiani europei? Il mondo occidentale conosce solo una reazione della mente e una della volontà, ma non una del cuore o del sentimento. La mente dice: esiste piena libertà di espressione, da noi c’è piena libertà di stampa; oppure: ci sono delle regole comunemente accettate di “political correctness”. La volontà dice: nessuno può limitare la mia libertà, oppure: con queste caricature mettiamo a repentaglio la vita dei nostri ostaggi. Ma cosa avviene se queste caricature offendono il più profondo sentimento religioso di centinaia di milioni di persone? Cosa succede se queste persone vivono la propria dignità umana come una sola cosa con i loro valori religiosi e si sentono disprezzate come esseri umani nel momento in cui si manca di rispetto alla loro religione? Si ha il diritto di ignorare o addirittura di ferire il senso di dignità umana di così tanta gente? Con la sua mente illuminata, chi è privo di un forte senso di giustizia e di ingiustizia non farà altro che rimproverare un’incontrollata emotività a chi prova tali sentimenti.
Il recupero della vita giuridica vera e propria presuppone da parte sua che la vita culturale ritrovi la propria autonomia. In queste conferenze Rudolf Steiner illustra in modo incisivo come nella società moderna una componente della vita culturale – la ricerca scientifica, l’educazione statale, la sociologia, le scienze economiche – sia diventata in tutto e per tutto dipendente dall’economia. Un’altra fetta della cultura – la religione, l’arte e la cosiddetta morale – è rimasta, sì, indipendente dall’economia, ma ha dovuto pagare questa autonomia con una totale impotenza nei confronti della vita. Morale, arte, religione si sono sempre più estraniate dalla vita, sono diventate sempre più inadeguate nei suoi confronti, poiché si sono sempre più ritirate da essa confinandosi all’ambito della cosiddetta “vita privata”.
La soluzione, semplice ma non facile, è questa: tutta la vita culturale dev’essere affrancata da quella giuridica e da quella economica, dev’essere amministrata autonomamente, secondo le sue proprie condizioni di vita. Questo vale in prima linea per l’educazione: l’essere umano non può essere educato in modo tale da essere un buon servitore dello Stato o dell’economia senza che questo produca danni incalcolabili per la società a tutti i livelli. Viceversa, il senso e il compito dell’educazione consistono nel mettersi al servizio dell’uomo, di ogni singolo individuo nella sua unicità.
Nella quarta conferenza, in cui viene descritta la vita culturale, è l’uomo come individuo libero ad occupare una posizione di primo piano, nell’ultima è l’umanità intera come organismo unitario, in cui ogni uomo vuol sempre più inserirsi. Per rimediare ai danni prodotti dalla cosiddetta globalizzazione è necessario che all’economia mondiale si affianchino un diritto e una cultura mondiali. La duplice disumanità dell’economia odierna globalizzata si manifesta nel suo farsi sempre più ingiusta nei confronti dell’uomo – per esempio nella crescente militarizzazione della vita che annulla il singolo individuo – e sempre meno umana nei confronti della natura – per esempio nel materialismo che depreda e avvelena l’ambiente. L’umanità intera potrà avere giustizia solo quando un diritto veramente internazionale diventerà più forte di tutti i poteri di questo mondo. E il vicolo cieco del materialismo potrà essere superato solo da una scienza dello spirito che racchiuda in egual misura l’uomo e la natura.
A questo punto si potrebbe chiedere: ma come si fa? Queste idee, queste teorie possono anche sembrare molto belle, ma non si tratta di un’utopia bell’e buona?
L’elemento incoraggiante delle idee di Steiner consiste proprio nel loro rimandare a forze reali, effettivamente presenti in ogni uomo, per quanto inconscie o assopite. Questi pensieri portano in sé la forza necessaria per intervenire nella vita, per plasmarla a misura d’uomo in tutti i suoi campi. Ogni attività umana comincia con la presa di coscienza, con la comprensione in chiave di pensiero. Mettersi ad agire senza idee non è pratico, non fa altro che produrre ancora più confusione e disumanità. La caratteristica positiva e ottimistica delle idee di Steiner qui esposte sta proprio nel fatto che chiunque le può pensare, capire davvero e mettere in pratica subito là dove si trova, con sempre più energia giorno dopo giorno.
Ma è qui che sorge quello che forse è lo scoglio più insidioso per la vita moderna. Da un lato, nell’era della democrazia, nessuno vuol essere manovrato dall’esterno. L’uomo libero vive la sua dignità nella capacità che ha di agire in base alle sue convinzioni individuali. Ma questo significa nel contempo che l’unica via per un rinnovamento della vita sociale è quella che passa per la testa del singolo individuo. D’altro canto, una profonda illuminazione di questa testa non può avvenire col fatto che qualcuno preme un pulsante dall’esterno e neppure in un battibaleno dall’interno. In questo modo si spiega l’impazienza di tante autorità, di tante potenze costituite, che cercano di eludere la mente dell’individuo valendosi della legge dello Stato o della costrizione dell’economia. Vogliono imporre ciò che fa loro comodo o che ritengono giusto diventando così sempre più patriarcali e anacronistiche. Così facendo sono a loro volta costrette ad esercitare il loro potere in maniera sempre più disumana, poiché sempre meno riescono a conquistare il cuore del singolo individuo. E come potrebbero farlo, dato che calpestano proprio l’elemento più sacro, il singolo uomo nella sua dignità e libertà?
È trascorso quasi un secolo da quando Steiner ha tenuto queste conferenze. Si potrebbe pensare che ci sia stato tempo a sufficienza per mettere in primo piano la formazione della coscienza individuale, che qui viene richiesta con urgenza. Eppure in tutta onestà dobbiamo dirci che perfino coloro che hanno abbracciato la scienza dello spirito di Rudolf Steiner hanno fatto tragicamente pochi passi in questa direzione. E non si può in nessun modo accampare la scusa che i fenomeni di quell’epoca, che Steiner cita in queste conferenze, non siano più attuali. Proprio per il fatto di non essere più attuali da un punto di vista esteriore, questi eventi hanno per noi oggi due vantaggi decisivi: da una parte, grazie alla distanza dal punto di vista storico-politico, possono essere capiti con maggiore spassionatezza e obiettività – la storia può qui davvero diventare maestra di vita. Dall’altra parte, tutti i fenomeni storici a cui fa riferimento Steiner possono essere intesi come sintomi della situazione odierna dell’umanità, poiché questa nei suoi tratti essenziali non differisce quasi per niente da quella di allora. Le idee fondamentali della “triarticolazione” sono soltanto diventate ancora più attuali e urgenti di allora.
Ma se le cose stanno così, perché Rudolf Steiner non si è impegnato fin dall’inizio in ambito sociale? Come mai per tutti gli anni prima della guerra ha coltivato la sua scienza dello spirito quasi esclusivamente per teosofi o antroposofi, ai margini della vita e in maniera elitaria? Non avevano ragione quelli che sostenevano che occupandosi del sociale dopo la guerra aveva abbandonato la retta via? Non erano pochi quelli che non lo potevano o volevano seguire: nell’impegno sociale di Steiner vedevano addirittura una contaminazione della scienza dello spirito. Sostenevano che quest’ultima può mantenersi pura solo se la si coltiva nell’ambito protetto della vita privata.
Nel percorso personale dello stesso Steiner, nella sua biografia, vediamo esprimersi una legge fondamentale della vita e dell’evoluzione: ogni cosa compiuta dall’uomo deve avere origine nel pensiero. Non è possibile tralasciare la conoscenza, la formazione della coscienza e lo studio senza arrecare gravi danni alla vita stessa. Considerando anche solo le idee fondamentali della triarticolazione dell’organismo sociale quali vengono esposte in queste conferenze, ce ne sono più che a sufficienza di cose che vanno studiate e capite a fondo, prima di poterle mettere in pratica in maniera sensata. Questo spiega che c’è una bella differenza fra un trentenne che si dedica prevalentemente allo studio della scienza dello spirito e lo stesso uomo che a sessant’anni continua ancora a fare la stessa cosa, a “studiare” la scienza dello spirito chiuso nella sua stanzetta. In questo caso potrà chiedersi come mai questa scienza non ha generato la forza necessaria per diventare di anno in anno sempre più capace di agire nella vita, come è nella sua natura.
In queste conferenze Rudolf Steiner sottolinea ripetutamente che il futuro dell’umanità dipende in tutto e per tutto dal fatto che ci sia o meno “un numero sufficiente di persone” che, con coraggio e senso di responsabilità, prendano sul serio questi due compiti: la formazione di una coscienza individuale attraverso lo studio, e la realizzazione degli ideali della “triarticolazione” in tutti i campi della vita.
Al termine dell’ultima conferenza Rudolf Steiner suggella ancora una volta tutte le sue riflessioni col pensiero: tutto dipende dal singolo individuo. Nell’umanità odierna le autorità non hanno futuro. L’affermazione secondo la quale “gli uomini” – gli altri – non sono maturi per queste idee e per queste azioni non è altro che un pretesto del potere patriarcale e autoritario. Steiner sostiene che gli esseri umani maturano più in fretta proprio se non ci si stanca mai di dar voce a ciò che ogni singolo individuo non solo è in grado di fare, ma nel suo intimo fortemente vuole.
Non è forse estremamente sintomatico che tutte le edizioni di queste conferenze pubblicate finora (Eymann 1948/49, Boos 1950, Opera omnia 332a 1977, HDD 2004) abbiano omesso, semplicemente cancellato, proprio i pensieri conclusivi dell’ultima conferenza? Questo fatto mi sembra un sintomo eloquente della gravissima omissione che perdura ormai da quasi un secolo. Si tratta proprio dell’omissione di quello a cui Rudolf Steiner sprona di nuovo nelle sue parole conclusive: continuare a proporre a tutti ciò che è sano e necessario per l’individuo e per la società, metterlo a disposizione di tutti, ricordarlo a tutti e stimolare ed incoraggiare ognuno in questa direzione.
Cosa accadrebbe se, solo in ambito germanofono, o di lingua italiana, con cadenza settimanale centinaia di migliaia di piccoli “gruppi di lavoro” si mettessero a studiare, a sviscerare queste conferenze, a discuterci e a litigarci sopra, ad approfondirle in tutte le direzioni e a sperimentarle con coraggio nella vita? La nostra società resterebbe così com’è anche se uno o due milioni di persone si dedicassero ad assimilare queste idee interiormente e più ancora a farne linfa vitale della loro esistenza quotidiana? Questa pubblicazione non intende solo porre rimedio ad un’omissione, ma vuol essere più di tutto l’espressione della fiducia nell’esistenza reale di “un numero sufficiente di persone” che non solo possono salvare il futuro dell’uomo e della Terra, ma lo vogliono anche fare.
Pietro Archiati
nella primavera del 2006
Prima conferenza
La questione sociale
come fatto di cultura, di diritto e di economia
Zurigo, 24 ottobre 1919
Carissimi ascoltatori!
Chi oggi riflette sulla questione sociale dovrebbe aver ben chiaro che attualmente, in base alle lezioni forniteci dai fatti violenti degli ultimi tempi, questa non può più essere vista come una qualsiasi questione partitica, come una questione che scaturisce unicamente dalle rivendicazioni soggettive di singoli gruppi di uomini, ma che va intesa come una domanda posta all’umanità intera dallo svolgimento stesso della storia.
Quando parlo dei fatti decisivi che devono portare a questa visione, mi basta far notare come da oltre mezzo secolo il movimento proletario socialista abbia continuato a crescere. E di fronte alle idee che sono venute alla luce in questo movimento socialista operaio ci si può porre in atteggiamento di critica o di approvazione, a seconda delle proprie opinioni e delle proprie condizioni di vita, ma bisogna comunque prenderlo come fatto storico da considerare in maniera oggettiva.
E chi esamini gli ultimi terribili anni della cosiddetta guerra mondiale, non potrà nascondersi – pur vedendo qua e là delle cause e delle ragioni di altro tipo per questi orribili avvenimenti – che in definitiva sono state in gran parte le rivendicazioni sociali, i contrasti sociali a produrre questo orrore; e non potrà nascondersi che, proprio adesso che stiamo uscendo provvisoriamente da questi terribili eventi, emerge con estrema chiarezza come in gran parte del mondo civile la questione sociale appaia come un risultato di questa cosiddetta guerra mondiale. Ma se appare come un risultato di questa cosiddetta guerra mondiale, allora non c’è dubbio che fosse già presente all’interno di questo conflitto.
A questo punto chi osservi i fatti in questione solo dal punto di vista immediato, che spesso è poi quello personale, come è così frequente al giorno d’oggi, chi non sia in grado di ampliare i propri orizzonti passando ad una considerazione generale degli eventi umani, non riuscirà a tenerli in giusto conto.
Ed è questo ampliamento degli orizzonti a cui mira il mio libro I punti essenziali della questione sociale, che dev’essere sviluppato soprattutto per la Svizzera mediante la rivista Soziale Zukunft che viene pubblicata qui a Zurigo.
Ora va detto che la maggior parte delle persone che oggi parlano della questione sociale vede in essa prima di tutto una questione economica. Sì, dapprima non vi vede nient’altro che una questione di pane e al massimo, e i fatti lo dimostrano fin troppo chiaramente, una questione di lavoro umano: una questione che riguarda il pane e il lavoro quotidiani.
Proprio volendo trattare la questione sociale come una questione di pane e di lavoro, bisogna rendersi conto che l’uomo riceve il pane perché è la collettività umana a produrlo e che la collettività umana può produrre questo pane solo se viene svolto del lavoro. Ma il modo in cui si deve lavorare dipende, sia complessivamente sia nei particolari, dal modo in cui è organizzata la società umana, un qualsiasi territorio circoscritto di questa società umana, per esempio uno Stato.
E chi riesce ad ampliare la propria visuale si accorgerà presto che anche solo un pezzetto di pane non può aumentare o diminuire di prezzo senza che si producano enormi cambiamenti nell’intera struttura dell’organismo sociale. E anche chi osservi il modo in cui il singolo interviene nell’organismo sociale con il proprio lavoro vedrà questo: se il singolo individuo lavora anche solo un quarto d’ora in più o in meno, questo si ripercuote sul modo in cui la società di un settore economico circoscritto dispone di pane e denaro per il singolo. Da ciò vedete che anche volendo considerare la questione sociale solo come questione di pane e di lavoro si arriva subito ad un orizzonte più ampio.
In queste sei conferenze voglio parlare dei vari ambiti di questo orizzonte più ampio. Oggi ho intenzione di fare una specie di introduzione.
Chi si sia fatto un’idea generale della più recente storia dell’evoluzione umana, troverà presto conferma di ciò che i saggi osservatori della vita sociale hanno espresso con sufficiente insistenza – benchè solo quelli saggi. C’è un’opera del 1910 di cui si potrebbe dire che contiene alcune delle migliori idee scaturite da una vera comprensione delle condizioni sociali. È il libro di Hartley Withers: The Meaning of Money (Il significato del denaro).
In quest’opera si ammette abbastanza apertamente qualcosa che dovrebbe essere chiaro a chiunque si accinga ad occuparsi del problema sociale. Withers dice fuori dai denti: il modo in cui al giorno d’oggi le situazioni creditizie, patrimoniali e finanziarie figurano nell’organismo sociale è talmente complicato che finisce per disorientare se si vuole analizzare in maniera logica le funzioni di credito, denaro, lavoro e via dicendo nell’organismo sociale. È praticamente impossibile procurarsi ciò che è necessario per capire davvero e per seguire in modo intelligente le cose che avvengono all’interno dell’organismo sociale.
E quanto viene espresso da un interlocutore così sagace viene avvalorato da tutto il pensiero storico sul problema sociale che possiamo seguire in questi ultimi tempi, sulla cooperazione sociale, soprattutto economica, degli uomini.
E che cosa abbiamo visto? Da quando sotto un certo aspetto la vita economica ha smesso di essere organizzata in modo istintivo-patriarcale, da quando è stata resa sempre più complessa dalla tecnica e dal capitalismo moderni, si è sentito il bisogno di riflettere su questa vita economica e di farsene delle idee allo stesso modo in cui lo si fa nella ricerca scientifica, come avviene nel lavoro scientifico.
E si è visto come negli ultimi tempi siano sorte delle opinioni sulla cosiddetta economia politica, come quelle dei mercantilisti, dei fisiocrati, quelle di Adam Smith e così via, fino a Marx, Engels, Blanc, Fourier, Saint-Simon e ai contemporanei. Che cosa è emerso nell’andamento del pensiero in fatto di economia politica?
Si può volgere lo sguardo a quella che era, per esempio, la scuola mercantilista o a quella fisiocratica dell’economia politica, ai contributi dati da Ricardo, il maestro di Karl Marx, all’economia; si possono prendere in considerazione diversi altri economisti e si finirà sempre per concludere che questi personaggi volgono lo sguardo a questa o a quella corrente presente nei fenomeni. Da questa corrente parziale cercano di ricavare determinate leggi in base alle quali plasmare la vita politico-economica.
Si è sempre visto che quello che si trova sotto forma di “leggi”, in base al modello delle idee scientifiche degli ultimi tempi, si adatta ad alcuni fatti di economia politica; ma altre realtà dell’economia si rivelano troppo vaste per poter essere racchiuse in queste leggi. Le opinioni emerse nel diciassettesimo, nel diciottesimo e agli inizi del diciannovesimo secolo, che pretendevano di trovare le leggi in base alle quali plasmare la vita economica, si sono sempre rivelate unilaterali.
Poi è emerso qualcosa di molto, molto strano. L’economia politica è diventata finalmente “scientifica”. È stata annoverata fra le nostre scienze universitarie ufficiali e si è cercato di studiare anche la vita economica con tutti gli strumenti della ricerca scientifica. E dove si è arrivati?
Vediamo dove sono arrivati Roscher, Wagner e altri: ad uno studio delle leggi economiche che non osa più sviluppare delle norme e degli impulsi volitivi davvero in grado di intervenire nella vita economica per darle una forma. Si potrebbe dire che l’economia è diventata puramente “contemplativa”, speculativa. È in fondo arretrata di fronte a quello che si potrebbe definire un “volere sociale”. Non è giunta a delle leggi che possano incidere sulla vita così che questa vita umana possa svolgere un’azione plasmante nella vita sociale.
La stessa cosa si è manifestata anche in un altro modo. Si è vista la comparsa di uomini generosi, benevoli, filantropi, dotati di sentimenti fraterni nei confronti dei loro simili. Ci basti citare Fourier, Saint-Simon e altri come loro, che hanno elaborato in maniera geniale delle idee sociali e che credevano che realizzandole nella vita umana si sarebbero create delle condizioni auspicabili dal punto di vista sociale.
Ora è ben noto come si comportano nei confronti di questi ideali sociali coloro i quali oggi vedono nella questione sociale soprattutto una questione di vita. Chiedete un po’ a quelli che credono di avere un sentire socialista consono ai nostri tempi che cosa pensano delle idee sociali di un Fourier, di un Louis Blanc, di un Saint-Simon. Vi diranno che sono utopie, progetti di vita sociale con cui si fa appello alle classi dominanti: «Fate questo e quest’altro, così spariranno molti danni della miseria sociale.»
Ma tutto quello che viene escogitato in termini di simili utopie non ha la forza di incidere sulla volontà degli uomini, rimane pura e semplice utopia. Si possono formulare le più belle teorie, così si dice, ma gli istinti umani – per esempio quelli dei benestanti – non ne faranno nulla. Sono ben altre le forze che devono fare ingresso nel sociale!
In breve, è sorto un radicale scetticismo nei confronti degli ideali sociali diffusi fra gli uomini a partire dalla sensibilità di oggi e dalla coscienza moderna. Questo a sua volta dipende da quanto è successo all’interno della vita spirituale e culturale dell’umanità nel corso della più recente evoluzione storica.
Spesso, miei cari ascoltatori, è stato sottolineato che quella che oggi appare come questione sociale è essenzialmente dovuta all’ordinamento economico capitalistico, che a sua volta deve la sua forma attuale al predominio della tecnica moderna, e così via.
Ma non si renderà mai giustizia a tutte le cose in questione se non si prende in considerazione anche qualcos’altro, se non si tiene conto del fatto che con l’ordinamento economico capitalistico, con la moderna cultura tecnologica, è sorto nel modo di vivere della moderna umanità civile un tipo particolare di ideologia, che ha portato grandi frutti, progressi significativi e decisivi, soprattutto nella tecnica e nella scienza, ma di cui nel contempo va detto anche qualcos’altro.
Cari ascoltatori, esaminando l’una o l’altra cosa contenuta nelle mie opere, non potete negare che io sia un estimatore e non un detrattore o un critico di ciò che è sorto negli ultimi tempi grazie al modo di pensare scientifico. Riconosco pienamente che quanto si è verificato grazie alla concezione copernicana del mondo, grazie al galileismo, grazie all’ampliamento degli orizzonti umani attuato da Giordano Bruno e da molti altri, ha contribuito al progresso dell’umanità.
Però quello che si è sviluppato contemporaneamente alla tecnica moderna, al capitalismo moderno, è il fatto che le antiche concezioni del mondo si sono trasformate in modo tale per cui il modo di pensare dell’uomo d’oggi ha assunto un carattere fortemente intellettualistico e astratto, più che altro scientifico.
Ci basti ricordare – anche se al giorno d’oggi risulta scomodo prendere davvero in esame simili fatti – come quella che oggi chiamiamo con orgoglio la nostra concezione scientifica si sia sviluppata gradualmente a partire da antiche correnti di pensiero religiose, estetico-artistiche e morali, cosa che possiamo dimostrare in ogni particolare.
Queste correnti di pensiero avevano una certa forza propulsiva per la vita. Erano soprattutto contraddistinte da una caratteristica: rendevano l’uomo consapevole della spiritualità del suo essere. Queste antiche concezioni del mondo, che ognuno oggi può valutare come vuole, parlavano all’uomo dello spirito in modo da fargli sentire che in lui esiste un essere spirituale che vive in comunione con entità spirituali che reggono e intessono il mondo.
Al posto di questa concezione del mondo con una certa forza propulsiva sociale, con un effetto dirompente sulla vita, ne è subentrata una nuova, con un orientamento più scientifico. Questa nuova concezione ha a che fare con leggi naturali più o meno astratte, con verità sensibili più o meno avulse dall’uomo – con idee e realtà teoriche. E bisogna considerare queste scienze naturali – senza minimamente privarle del loro valore – per quello che danno all’uomo, per quello che danno all’uomo così che lui possa trovare una risposta alla domanda relativa al proprio vero essere.
Queste scienze dicono moltissimo sui rapporti fra i fenomeni naturali, dicono moltissimo anche sulla costituzione fisica dell’uomo, ma quando vogliono fare delle affermazioni sull’intima natura dell’uomo travalicano il loro campo d’indagine. La scienza non ha risposte sulla natura interiore dell’uomo e fraintende se stessa quando fa anche solo il tentativo di fornire una risposta in proposito.
Ora non sto affatto sostenendo che quella che è la coscienza popolare comune a tutti gli uomini derivi dagli insegnamenti della scienza. Ma, cari ascoltatori, un’altra cosa è profondamente vera: il modo di pensare scientifico in quanto tale è scaturito da una certa predisposizione dell’anima umana moderna.
Chi oggi abbia una conoscenza profonda della vita sa, che a partire dalla metà del quindicesimo secolo, l’atteggiamento dell’anima umana a confronto con le epoche precedenti si è modificato profondamente. Sa che su tutta l’umanità, dapprima sulla popolazione urbana, ma poi anche nelle campagne, è venuta sempre più a diffondersi quella visione del mondo che ciò che si è poi espressa come un sintomo nella corrente di pensiero scientifica.
Quindi, quando si parla dell’indole dell’anima umana moderna, non si ha a che fare con un semplice risultato di scienze teoriche, ma con qualcosa che dall’inizio della nuova era si è impadronito dell’umanità sotto forma di una nuova mentalità, di un nuovo modo di vivere.
E a quel punto è subentrata una cosa significativa: questa concezione del mondo a orientamento scientifico è comparsa in contemporanea con il capitalismo, con la tecnica moderna. Gli uomini sono stati strappati ai loro antichi mestieri artigianali e soggiogati alla macchina, stipati nella fabbrica. Vivono con ciò a cui sono avvinti e che viene dominato dalla regolarità di ciò che è meccanico, da cui non scaturisce nulla che abbia a che fare con l’uomo.
Dall’antico artigianato si sprigionava ciò che rispondeva alla domanda sul valore e la dignità dell’uomo. La macchina astratta non dà alcuna risposta in merito. L’industrialismo moderno è come una rete meccanica che viene tessuta attorno all’uomo, in cui l’uomo si trova irretito senza però avere in cambio la soddisfazione che provava di fronte al prodotto del lavoro artigianale.
E così ha avuto origine la frattura nei confronti di coloro che lavoravano come classe operaia industriale dell’era moderna, quelli che stavano alle macchine, in fabbrica e che dal loro ambiente meccanizzato non potevano più trovare la fede nell’antica visione ancora piena di vita, che dovevano dar l’addio a tutto un patrimonio con cui non avevano più nulla a che fare, che accettavano la sola e unica spiritualità prodotta dalla cultura moderna, e cioè la concezione del mondo ad orientamento scientifico.
E come agiva su di loro questa concezione del mondo a orientamento scientifico? Agiva sui lavoratori in modo tale che essi si dicessero, che sentissero sempre più profondamente che tutto ciò che si trasmette come verità altro non è che pensieri, idee, qualcosa che ha solo una realtà concettuale.
Cari ascoltatori, chi ha vissuto con la moderna classe operaia, chi sa come il suo vissuto sociale sia andato gradualmente formandosi in epoca recente, sa che cosa significa una parola ricorrente negli ambienti operai e socialisti, la parola “ideologia”.
Sotto gli influssi che vi ho appena descritto, per l’attuale umanità lavoratrice la vita culturale è diventata una pura ideologia. La concezione del mondo a orientamento scientifico è stata assorbita in modo tale per cui la gente si dicesse: «Trasmette solo pensieri!»
L’antica visione del mondo non voleva trasmettere solo pensieri, voleva dare all’uomo qualcosa che gli mostrasse che il suo spirito vive veramente in comunicazione con le entità spirituali del mondo. Le antiche concezioni di vita volevano dare allo spirito dell’uomo lo spirito, quella nuova invece gli dava “solo pensieri” e soprattutto nessuna risposta al quesito sulla vera natura dell’uomo. Perciò venne vissuta come un’ideologia.
E così si è formata la frattura con le cerchie dirigenti, dominanti, che avevano conservato la tradizione delle antiche usanze, delle antiche visioni del mondo, delle concezioni artistico-estetiche, religiose e morali dei tempi antichi e via dicendo. Queste classi dirigenti le hanno conservate in tutta la persona, testa, cuore e arti, mentre la loro testa assorbiva quella che è diventata la concezione del mondo a orientamento scientifico.
Ma una gran parte della popolazione non era più in grado di provare la minima inclinazione o simpatia per quelle tradizioni. Come contenuto di visione del mondo accettava solo la scienza e la assorbiva in modo tale da viverla come pura ideologia, come puro e semplice prodotto cerebrale.
Ci si diceva: l’unica realtà è la vita economica. È reale solo ciò che viene prodotto, il modo in cui le merci prodotte vengono distribuite, il modo in cui l’uomo le consuma, in cui l’uomo possiede questo o quello o lo cede ad altri e così via. Tutti gli altri elementi della vita umana – il diritto, la morale, la scienza, l’arte, la religione – sono come fumo che sale sotto forma di fatua ideologia dall’unica realtà che è quella economica.
E così per la grande massa la vita culturale è diventata un’ideologia, soprattutto per il fatto che le classi dirigenti non sono state capaci di tenere il passo con la nuova vita economica mentre la vedevano formarsi, non hanno saputo far sì che la vita culturale si ponesse alla guida di una vita economica che diventava sempre più complessa. Hanno conservato la tradizione dei tempi antichi, ragion per cui la vita culturale ha mantenuto più o meno lo stesso orientamento che aveva in epoche passate. La grande massa, invece, ha fatto sua la nuova visione del mondo, senza che questa le desse qualcosa che potesse riempire il cuore e l’anima.
Cari ascoltatori, con una simile concezione del mondo, che viene vissuta come ideologia – così da dirsi: diritto, morale, religione, arte e scienza sono solo una sovrastruttura, nient’altro che fumo che esala dall’unica realtà che sono i rapporti di produzione, che è l’ordinamento economico –, con una simile mentalità si può ben pensare, ma non si può vivere. Con una simile visione del mondo, per quanto imponente per ciò che riguarda l’indagine della natura, l’anima umana viene svuotata. E ciò che questa concezione causa nell’anima umana agisce a sua volta nelle realtà sociali dell’epoca moderna.
Si fa torto a queste realtà sociali se si osserva soltanto ciò di cui gli esseri umani sono consapevoli. Partendo dalla loro coscienza gli uomini possono ben dire: «Ah, ma cosa ci venite a raccontare? Che la questione sociale è una questione culturale e spirituale? La cosa importante è che i beni economici sono distribuiti in modo ingiusto. Noi lottiamo per una distribuzione equa.»
Gli uomini possono sentire cose simili a livello conscio, ma nelle profondità inconsce della loro anima si agita qualcos’altro. È qualcosa che si sviluppa inconsciamente, poiché da ciò che è cosciente non scaturisce quello che sarebbe il vero appagamento spirituale dell’anima, poiché in essa agisce solo ciò che svuota le anime, in quanto viene percepito come pura ideologia.
È il vuoto della nuova vita culturale che dev’essere visto come primo elemento della questione sociale. Questa questione sociale è in primo luogo una questione culturale-spirituale.
E poiché le cose stanno così, poiché si è sviluppata una vita culturale che nell’ambito dell’economia è diventata, per esempio in campo universitario, un passivo osservare, un semplice rilevare i fatti non più in grado di generare le forze di un volere sociale – poiché si è giunti al punto che i migliori filantropi come Saint-Simon, Louis Blanc e Fourier hanno elaborato degli ideali sociali a cui nessuno crede, poiché ciò che proviene dallo spirito viene sentito come utopia, come pura e semplice ideologia, proprio perchè è una realtà storica il fatto che si è sviluppata una vita culturale che ha solo una funzione di sovrastruttura della vita economica, che non interviene nei fatti e che viene perciò vissuta come ideologia –, è proprio per tutto questo che la questione sociale va intesa in primo luogo come questione culturale-spirituale.
Oggi abbiamo davanti a noi questa domanda, scritta a caratteri di fuoco: come deve formarsi lo spirito umano per poter venire a capo della questione sociale?
Si è visto che la mentalità scientifica ha messo mano con il suo metodo migliore all’economia politica. È giunta ad una semplice osservazione, non ad una volontà sociale. Quindi, dal fondo della più recente vita culturale deriva una disposizione d’animo che non è in grado di trasformare l’economia per porla alla base di un volere sociale pratico.
Come dev’essere plasmato lo spirito perché da lui provenga un’economia tale da poter costituire la base di una vera volontà sociale?
Si è visto che le grandi masse gridano solo «Utopia!» quando sentono parlare degli ideali sociali di filantropi benintenzionati. Non credono affatto che lo spirito umano sia abbastanza forte da padroneggiare le realtà sociali. Come dev’essere allora la vita culturale, come dev’esser fatto lo spirito dell’uomo per far sì che gli uomini possano di nuovo credere che lo spirito può avere idee in grado di formare le istituzioni in modo tale che i danni sociali spariscano?
Si è visto che in vaste cerchie quella che è la concezione del mondo a orientamento scientifico viene percepita come ideologia. Ma l’ideologia come unico contenuto dell’anima umana la svuota, e nelle profondità del subconscio produce quello che oggi si manifesta nei fatti confusi e caotici della questione sociale. Come dev’essere allora la vita culturale per non produrre più un’ideologia, ma per poter riversare nell’anima umana le forze che la rendano capace di intervenire nelle realtà sociali così che gli uomini sappiano davvero comportarsi in modo sociale gli uni accanto agli altri?
Cari ascoltatori, così si vede che la questione sociale è in primo luogo una questione culturale, che lo spirito moderno non è stato in grado di fornire qualcosa che colmasse l’anima, ma che l’ha svuotata con l’ideologia.
Nell’introduzione di oggi desidero mostrarvi dapprima da un punto di vista storico come, in base alle condizioni della vita moderna, la questione sociale venga sentita come una questione culturale, giuridica ed economica.
Prendiamo le affermazioni fatte non molto tempo fa da un personaggio che era attivamente coinvolto nella vita politica e statale, un personaggio che è un prodotto della vita culturale dei nostri tempi. Quelli di voi che hanno già assistito in precedenza alle mie conferenze non fraintenderanno quanto sto per dire. Ai tempi in cui Woodrow Wilson veniva osannato da tutto il mondo, ad eccezione di quello mitteleuropeo, come una specie di statista mondiale, io mi sono sempre opposto a questo osannare. E chi mi ha sentito parlare sa che non sono mai stato un sostenitore, ma sempre un oppositore, di Woodrow Wilson. Anche quando perfino la Germania è caduta vittima del culto di Wilson, non mi sono trattenuto dall’esprimere questo parere, che ho continuato a ribadire anche qui a Zurigo. Ma oggi che questo culto è per così dire cessato, si può dire qualcosa che un oppositore di Wilson può affermare senza suscitare ire.
Quest’uomo ha preso le mosse da una forte sensibilità per le condizioni sociali dell’America, formatesi a partire dalla guerra di secessione e da quella civile degli anni sessanta. Quest’uomo ha capito quale rapporto c’è fra le condizioni statali e giuridiche, e quelle economiche. Ha visto con una certa imparzialità come, per via del nuovo complesso ordinamento sociale, sono andate accumulandosi grandi masse di capitali. E ha visto, miei cari ascoltatori, come hanno avuto origine i trust, le grandi società di capitali. Ha visto come perfino in uno Stato democratico i principi della democrazia si siano sempre più evaporati di fronte alle trattative segrete di quelle società che avevano interesse ad agire in segreto, che in un certo senso conquistano un gran potere con le masse di capitali accumulate e dominano grandi masse di persone.
E a più riprese ha alzato la voce per difendere la libertà degli uomini nei confronti del potere che deriva da fattori economici. Si può dire a suo favore che, partendo da una profonda sensibilità umana, ha sentito come la realtà sociale sia in relazione con il singolo individuo, con il modo in cui il singolo diventa maturo per questa vita sociale. Ha fatto notare quanto sia importante per il risanamento della vita sociale che sotto ogni abito umano batta un cuore orientato alla libertà.
Ha continuato a richiamare l’attenzione sul fatto che la vita politica dev’essere democratizzata, su come debbano essere sottratti alle singole società potenti il loro potere e gli strumenti di potere in loro possesso, come le capacità e le forze individuali di ogni uomo debbano essere aver accesso alla vita statale, economica e sociale in genere. Ha affermato in maniera incisiva che il suo Stato, che lui evidentemente considera il più progredito, soffre delle condizioni che si sono create. Come mai?
Sì, le condizioni economiche si sono sempre più imposte. Tutto quello che c’era fino a poco tempo fa in questo campo è stato intrappolato nelle grandi concentrazioni di capitali, dall’affermarsi del potere economico. Questa organizzazione economica ha prodotto forme di convivenza umana assolutamente nuove. Ci si è trovati di fronte ad una nuova organizzazione della vita economica. E non io, basandomi su una teoria qualunque, ma questo statista, oserei dire di fama mondiale, ha detto che il danno fondamentale della recente evoluzione umana consiste nel fatto che le condizioni economiche sono progredite, che gli uomini hanno plasmato la vita economica secondo i nuovi poteri occulti, mentre invece le idee del diritto, della vita comunitaria e politica non sono andate di pari passo, ma sono rimaste al punto di prima.
Woodrow Wilson l’ha affermato chiaramente: noi amministriamo in condizioni del tutto nuove, ma pensiamo ed emaniamo leggi sull’economia da un punto di vista ormai da tempo superato, da un punto di vista antiquato. Nel campo della vita giuridica e politica non si è formato qualcosa di nuovo come in quella economica. Questi due settori sono rimasti indietro. Viviamo all’interno di un ordinamento economico completamente moderno con idee giuridiche e politiche desuete. Questo è più o meno il succo dei discorsi di Woodrow Wilson.
Nei suoi discorsi sostiene con insistenza che in questa incongruenza fra vita giuridica e vita economica non può svilupparsi ciò che il momento attuale della storia umana richiede, e cioè che il singolo individuo non lavori per se stesso ma per il bene della comunità. E Woodrow Wilson esercita una critica energica all’ordinamento sociale che gli sta di fronte.
Cari ascoltatori! Posso dire – consentitemi questa osservazione personale – di essermi impegnato a fondo per verificare le critiche mosse da Woodrow Wilson alle attuali condizioni sociali, quelle americane che ha sott’occhio, confrontandole con altre critiche. Ora vi dirò qualcosa di decisamente paradossale, ma d’altra parte le attuali condizioni richiedono molto spesso di esprimersi per paradossi, ed è necessario farlo se si vuole rendere giustizia alla realtà odierna.
Ho cercato di raffrontare la critica alla società di Woodrow Wilson, per quanto riguarda sia la forma esteriore che il nerbo dei contenuti, con la critica alla società mossa da parte dei progressisti, dei socialdemocratici radicali. Sì, cari ascoltatori, è addirittura possibile estendere questo paragone all’ala più radicale delle convinzioni e delle azioni socialiste di oggi.
Rimanendo all’interno della critica fatta da queste persone, si può dire: la critica di Woodrow Wilson all’ordinamento sociale odierno coincide quasi alla lettera con quel che sostengono gli stessi Lenin e Trotskij, gli affossatori della civiltà del presente. Di loro va detto che, se quel che hanno in mente per l’umanità agirà troppo a lungo anche solo in alcuni ambiti, ciò significherà il declino della civiltà moderna e porterà inevitabilmente alla scomparsa di tutto ciò che grazie ad essa è stato raggiunto. Eppure bisogna esprimere questo paradosso: Woodrow Wilson, che di certo si è sempre immaginato la struttura sociale in modo diverso da questi distruttori, muove quasi letteralmente la loro stessa critica all’attuale ordinamento sociale.
E giunge alla conclusione che i concetti giuridici e politici oggi in vigore sono obsoleti, che non sono più in grado di intervenire nella vita economica. La cosa strana è che se si cerca di volgere al positivo questa critica, se si cerca di verificare quali sono i contributi di Woodrow Wilson alla creazione di una nuova struttura sociale, di una struttura dell’organismo sociale, non si trova difatti nessuna risposta – solo singoli provvedimenti qua e là, che però potrebbero essere attuati anche da chi esercita una critica meno energica ed obiettiva, niente di drastico. E comunque non dà risposta alla domanda: che forma devono acquisire il diritto, i concetti politici, gli impulsi politici per far fronte alle esigenze della moderna vita economica, per intervenire attivamente in questa vita economica?
Qui si vede come dalla vita odierna stessa scaturisca il secondo elemento della questione sociale: la questione sociale come questione giuridica.
Prima di tutto occorre trovare un fondamento per il diritto, per i rapporti politici e statali, che devono esistere per dar la giusta impronta alla vita economica moderna. Bisogna quindi chiedersi: come si arriva a degli impulsi giuridici e politici di fronte alle grandi richieste della questione sociale? Questo è il secondo elemento della questione sociale.
Cari ascoltatori, osservate voi stessi la vita! Vedrete come questa vita umana è triarticolata, come l’uomo ha una triplice funzione all’interno della società umana. Se osserviamo la posizione dell’uomo nella società, vediamo delinearsi chiaramente tre elementi distinti fra loro:
• Il primo consiste nel fatto che per contribuire in qualche modo alla comunità, al lavoro comune, alla creazione di valori e beni comuni – cosa assolutamente indispensabile nella società moderna per la salute di un ordinamento sociale –, l’uomo deve in primo luogo disporre dell’attitudine individuale, del talento individuale, della capacità individuale di far qualcosa.
• Il secondo è che l’uomo deve poter andare d’accordo con i suoi simili, deve poter collaborare in pace con loro.
• E il terzo è che deve trovare un posto da cui fare qualcosa per gli altri con il suo lavoro, con il suo operato, con le sue prestazioni.
Per quanto concerne il primo punto, l’uomo ha bisogno che la società lo aiuti a formare le sue capacità e i suoi talenti, che guidi la sua mente, rendendola al contempo in grado di guidare il suo lavoro fisico.
Per il secondo, l’uomo ha bisogno di potersi inserire in una struttura sociale tale per cui gli uomini vadano d’accordo tra loro così da lavorare insieme in pace.
Il primo elemento ci porta nell’ambito della vita culturale. Nelle prossime conferenze vedremo come la cura della vita culturale sia in relazione con il primo punto. Il secondo ci porta nell’ambito della vita giuridica, che può formarsi secondo la propria natura solo se si trova in una struttura sociale tale per cui gli esseri umani collaborino in pace fra loro e in pace provvedano al sostentamento reciproco.
E la vita economica moderna, cari ascoltatori, questa economia moderna che, come vi ho descritto, viene vista da Woodrow Wilson come una persona che è cresciuta e indossa dei vestiti troppo piccoli, in cui non sta più – per Woodrow Wilson questi abiti troppo stretti sono i vecchi concetti giuridici e politici, mentre la vita economica è cresciuta da un pezzo –, questa crescita della vita economica che lascia indietro quel che c’era prima come vita culturale, come vita giuridica, è stata avvertita in particolar modo dai pensatori socialisti. E per rendersi bene conto di quello che ha agito in quest’ambito occorre far notare una cosa.
Voi sapete, cari ascoltatori, e di tutte queste questioni parleremo in seguito più dettagliatamente, che al giorno d’oggi la moderna classe operaia subisce in tutto e per tutto l’influenza del cosiddetto marxismo. È vero che il marxismo, la dottrina marxista della trasformazione della proprietà privata dei mezzi di produzione in proprietà collettiva, è stato ritoccato più volte da questi o quei sostenitori o avversari di Karl Marx, ma il marxismo è qualcosa che di questi tempi agisce sulla mentalità, sulla concezione della vita di grandi masse di persone, agisce in particolar modo nei fatti sociali così sconcertanti del presente.
Basta prendere in mano quel libretto pur sempre significativo e singolare di Friedrich Engels, amico e collaboratore di Karl Marx: L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza. È sufficiente prendere confidenza con la mentalità che pervade questo libretto, per vedere come un pensatore socialista intende la vita economica dei tempi recenti nel suo rapporto con la vita giuridica e culturale. Per esempio, basta capire nel modo giusto quest’unica frase, che è come una sintesi del citato libretto di Engels: in futuro non dovranno più esserci governi sugli uomini, sulle persone, ma dovrà esserci solo la direzione di settori economici e l’amministrazione della produzione.
Cari ascoltatori! Ciò vuol dire molto, vuol dire che da questa parte si desidera che dalla vita economica scompaia qualcosa che proprio grazie agli impulsi evolutivi dei tempi recenti si è legato ad essa. Essendosi per così dire sviluppata, come vi ho mostrato, andando oltre la vita giuridica e quella culturale, la vita economica ha in un certo senso invaso tutta la vita e ha agito in maniera suggestiva anche sui pensieri, sulle sensazioni e sulle passioni degli uomini. E così è emerso sempre più che la vita culturale e quella giuridica si adeguano al modo in cui viene gestita l’economia.
Ci si è andati via via rendendo conto fin troppo chiaramente che chi ha il potere economico detiene proprio per questo anche il monopolio culturale. I deboli dal punto di vista economico rimangono privi di cultura.
Si è stabilito un certo rapporto fra la vita economica e quella culturale, e anche fra la vita culturale e quella statale. La vita culturale è diventata sempre più qualcosa che non nasce dai suoi effettivi bisogni, che non segue i suoi impulsi propri, bensì qualcosa a cui, soprattutto laddove viene amministrata pubblicamente l’istruzione e il sistema scolastico, viene data la forma che serve ai poteri statali.
L’uomo allora non può essere considerato per quello di cui è capace, non può svilupparsi secondo le sue inclinazioni naturali, ma la domanda che ci si pone è: di che forze ha bisogno lo Stato, di che forze ha bisogno la vita economica, che formazione devono avere gli uomini per servire allo Stato e all’economia? Ed è a questo che si conformano i materiali didattici e gli esami. La vita culturale-spirituale non viene plasmata a partire dalle sue proprie esigenze, ma viene adeguata alla vita giuridica – alla vita dello Stato, alla vita politica – e a quella economica.
E questo ha fatto sì che negli ultimi tempi la vita economica sia venuta a sua volta a dipendere da quella giuridica.
Questa coesistenza di economia, diritto e cultura è stata vista da persone come Marx e Engels, che hanno notato che la vita economica moderna non sopportava più la vecchia forma giuridica e neppure il vecchio tipo di cultura. Sono giunti perciò alla conclusione che la vecchia vita giuridica e la vecchia vita culturale dovessero essere estromesse dalla vita economica.
Ma ora sono approdati ad una strana superstizione, un dogma di cui dovremo parlare parecchio nel corso di queste conferenze. Sono giunti alla superstizione in base alla quale la vita economica è in grado di produrre da sola le nuove condizioni giuridiche e culturali, e questo perché vedevano nella vita economica l’unica realtà, mentre la vita culturale e quella giuridica non dovrebbero essere che un’ideologia. Si credeva quindi, e si trattava di uno dei più fatali pregiudizi, che strutturando in un certo modo l’economia, seguendo certe leggi, la vita culturale e quella giuridica, statale e politica si sarebbero messe a posto automaticamente.
Ma come è nata questa superstizione? Cari ascoltatori, questo pregiudizio è potuto sorgere solo per il fatto che la struttura dell’economia umana, l’effettivo operare della moderna vita economica si nascondeva dietro a quella che siamo soliti chiamare l’economia monetaria. Questa economia monetaria è sorta in Europa come fenomeno concomitante a determinati avvenimenti.
Basta rivolgere uno sguardo più profondo alla storia – permettetemi di farvi cenno in questa introduzione – per vedere che nel momento in cui nel mondo civile europeo sono sorti la Riforma e il Rinascimento, cioè una nuova corrente culturale, più o meno nello stesso momento – parlo in termini storici, dove i momenti sono più lunghi che nella vita delle persone – sono state scoperte le vene d’oro e d’argento dell’America. L’afflusso d’oro e d’argento, soprattutto dell’America centrale e del sud, ha fatto a quel tempo il suo ingresso in Europa.
Quella che prima era prevalentemente un’economia naturale di baratto venne sempre più soppiantata dall’economia monetaria.
L’economia di baratto era ancora in grado di osservare i prodotti del suolo, cioè la realtà oggettiva; era in grado di tenere in considerazione le capacità del singolo individuo, ciò che egli può produrre, si orientava quindi secondo la realtà e le capacità oggettive. In queste conferenze vedremo come, con la circolazione del denaro, la visione della realtà sia andata gradualmente svanendo.
Mentre l’economia monetaria ha preso il posto di quella naturale, sulla vita economica si è steso per così dire come un velo.
Non si potevano più vedere le pure e semplici esigenze della vita economica. Cosa fornisce all’uomo la vita economica? Gli fornisce dei beni che gli servono per il suo consumo. Non c’è bisogno per ora di distinguere fra i beni intellettuali e quelli fisici, poiché l’economia può vedere anche i beni culturali come beni di consumo. Quindi diciamo che questa vita economica fornisce dei beni.
E questi beni hanno un valore per il fatto che l’uomo ne ha bisogno, dato che la brama dell’uomo si rivolge su di essi. L’uomo deve attribuire un determinato valore ai beni di consumo. In tal modo essi ricevono il loro valore oggettivo all’interno della vita sociale, un valore intimamente connesso con quello soggettivo della valutazione che l’uomo conferisce loro. Ma di questi tempi come si esprime il valore giuridico-economico dei beni? Come si esprime il valore delle merci, quel valore che ne determina sostanzialmente l’importanza nella convivenza sociale ed economica?
Questo valore si esprime oggi nei prezzi. In questi giorni dovremo parlare di valore e di prezzo, ma oggi voglio solo accennare al fatto che nelle transazioni economiche, nella vita sociale, nella misura in cui questa vita relazionale dipende dall’economia, per l’uomo il valore dei beni si esprime nel prezzo.
È un grave errore confondere il valore dei beni con il prezzo che hanno in quanto espresso in denaro!
E, cari ascoltatori, non per via di considerazioni teoriche, ma in base all’esperienza, l’umanità dovrà capire sempre meglio che il valore dei beni prodotti in ambito economico – ciò che dipende dalla valutazione soggettiva dell’uomo, da determinate condizioni sociali e giuridiche – e ciò che si esprime nella situazione dei prezzi, che emerge col denaro, sono due cose del tutto distinte.
Ma di questi tempi il valore dei beni viene occultato dalla situazione dei prezzi che domina nel circolo sociale.
È questo, cari ascoltatori, il terzo elemento della questione sociale che sta alla base delle moderne condizioni sociali. È qui che si impara a riconoscere la questione sociale come questione economica – per risalire a ciò che documenta il valore effettivo dei beni rispetto a quanto si manifesta nella pura e semplice situazione dei prezzi. I rapporti dei prezzi possono, specialmente nei periodi di crisi, esser mantenuti stabili soltanto se lo Stato, cioè l’ambito giuridico, si assume la garanzia del valore del denaro, vale a dire del valore di una singola merce.
Ma a questo si aggiunge qualcosa di nuovo. Come già detto, non c’è bisogno di considerazioni teoriche su ciò che è emerso per via della discrepanza fra prezzo e valore, ma basta far notare dei fatti concreti emersi negli ultimi tempi. Se ne parla nell’economia politica, si dice che nei tempi antichi, addirittura fino alla fine del medioevo, in Germania c’era l’antica economia naturale che si basa sul semplice scambio dei beni, e che al suo posto è subentrata l’economia monetaria, in cui il denaro rappresenta i beni, e che in effetti il bene di valore viene sempre scambiato contro del denaro.
Ma nella vita sociale vediamo già oggi entrare qualcosa che sembra destinato a sostituire l’economia monetaria. Questo qualcosa è già all’opera dappertutto, solo che non viene ancora notato. Ma chi va al di là della comprensione astratta dei propri libri di cassa o dei conti, chi va oltre le semplici cifre ed è in grado di leggere quel che si esprime nei numeri, troverà che nei numeri di un libro di cassa o dei conti dei giorni nostri non ci sono solo dei beni, ma che in tali cifre si manifestano quelli che possiamo definire rapporti di credito nel senso più moderno del termine.
Quello che in modo sorprendente penetra sempre più nella nostra vita economica arida e piatta è ciò che un uomo sa produrre solo in base al fatto che si ha fiducia in lui, fiducia che sia capace di questo o di quello. È ciò che ispira fiducia a partire dalle capacità di un uomo.
Se studiate i libri contabili del giorno d’oggi, vedrete che rispetto al puro e semplice valore monetario sta facendosi strada la fiducia negli uomini, nella bravura umana. Nei numeri dei libri contabili odierni, se li si legge correttamente, si esprime un rivolgimento epocale, una possente metamorfosi del sociale. Mentre si sottolinea che l’antica economia naturale si è trasformata in economia monetaria, oggi bisogna non meno sottolineare che il contraltare di questo fenomeno è la trasformazione dell’attuale economia monetaria in economia creditizia, cioè di fiducia nei talenti dell’uomo.
E così qualcosa di nuovo prende il posto di ciò che è invalso per lungo tempo. Così fa il proprio ingresso nella vita sociale ciò che evidenzia il valore dell’uomo stesso. La vita economica in quanto tale subisce nella produzione di valori una trasformazione. Si trova di fronte ad una nuova questione, alla questione economica che è il terzo elemento di questa questione sociale.
Nel corso di queste conferenze dovremo fare la conoscenza di questa questione sociale
• come questione culturale,
• come questione giuridica, statale o politica e
• come questione economica.
Lo spirito dovrà rispondere alla domanda: come si fa a coltivare le capacità degli uomini, di modo che possa sorgere una struttura sociale priva degli irresponsabili danni odierni?
La seconda domanda è: quale sistema giuridico riporterà gli uomini alla pace nelle condizioni economiche invalse nella società moderna?
La terza è: quale struttura sociale saprà collocare l’uomo al posto in cui possa lavorare per il bene della comunità umana in base al proprio essere, alle proprie capacità e ai propri talenti? E a ciò vale la domanda: che credito va concesso al valore personale di un uomo? Ecco allora che davanti a noi vediamo la trasformazione dell’economia a partire da nuove condizioni.
Una questione culturale, giuridica ed economica ci sta di fronte nella questione sociale. E vedremo che ogni minima articolazione della questione sociale può essere vista nella giusta luce solo considerandola in maniera differenziata: come una questione culturale, come una questione giuridica e come una questione economica. Ma di questo, cari ascoltatori, continueremo a parlare domani.
Risposte alle domande
(dopo la prima conferenza)
Carissimi ascoltatori!
È nella natura della cosa che oggi abbia dato solo un’introduzione e che facilmente si possano porre delle domande alle quali solo nei prossimi giorni e nel contesto delle altre conferenze si potranno trovare delle risposte adeguate. Una di queste domande, la prima che mi è stata posta, è:
Come si può trovare un criterio oggettivo di valutazione dei beni?
Come ho già detto, desidero dire solo poche cose rispetto a questa domanda, poiché sicuramente nei prossimi giorni le mie riflessione dovranno riferirsi in particolare a questa questione, che quindi troverà risposta nel suo contesto. Desidero però già ora dire quanto segue.
Vedete, cari ascoltatori, quando si pone una simile domanda è importante rendersi conto che la si pone sul terreno della vita economica. La domanda sul valore dei beni può essere posta solo nell’ambito dell’economia. Ma questo significa che occorrerà familiarizzarsi con qualcosa che al presente richiede un nuovo modo di pensare.
È facile credere che gli uomini d’oggi sappiano pensare in maniera assolutamente pragmatica. E facilmente al giorno d’oggi si definisce “grigia teoria” questa o quella cosa. Ma con il pensiero davvero pragmatico non si è poi così avanti. E proprio quelli che oggi spesso si definiscono pragmatici sono dominati dalle teorie più grigie. Sono solo in grado di esprimere queste grigie teorie in una specie di ovvia routine di vita, e le ritengono pragmatiche per il semplice fatto che non sanno vedere se agiscono sulla vita in maniera proficua o deleteria.
Ciò che viene propugnato qui, la triarticolazione dell’organismo sociale, deve distinguersi dalle teorie socialiste o da altre per il fatto di essere qualcosa di ricavato in modo assoluto dalla vita pratica. Per questo bisogna dire che la domanda sul valore oggettivo di una merce, di una prestazione, di un prodotto, dev’essere rigorosamente posta sul terreno della vita economica.
Ma allora – e qui arrivo a quello che il mondo d’oggi ancora non riesce a immaginarsi – non si tratta di trovare una qualsiasi definizione astratta di quello che è il valore di una merce. Si è sempre trovata la definizione più bella per tutte le cose possibili, ma spesso le definizioni più geniali hanno la caratteristica di non farci compiere neanche un solo passo in avanti.
Quando si parla del valore dei beni, non si tratta di poter dire che il valore di un bene è questo o quello, ma del fatto che il valore dei beni si esprime nella loro circolazione e nell’interazione umana. Si tratta del fatto che la merce da me prodotta mi frutti davvero quel che mi serve per ripetere la stessa prestazione. Si tratta quindi del fatto che il bene entri con il proprio valore adeguato nel traffico delle merci.
E la riflessione non deve occuparsi di indicare qual “è” il criterio oggettivo di valutazione del valore di una merce, bensì di instaurare una struttura sociale tale che consenta ai prodotti umani di immettersi nella vita sociale così da circolarvi per il bene della comunità. Si tratta soprattutto di individuare le condizioni che possono far sì che i beni valgano di più o di meno.
Vedete, basta far notare per esempio quanto segue: mettiamo che in un’area economica a sé stante venga prodotto troppo grasso, grasso consumabile dall’uomo. Bene, l’eccedenza che non può essere consumata dalle persone può essere usata, che ne so, per ungere i carri. In tal modo però il valore del grasso per questa comunità umana viene sostanzialmente ridotto. Supponiamo che venga prodotto troppo poco grasso, allora il valore aumenta e solo quelli che hanno una ricchezza superiore alla media possono procurarsi questa merce. È quindi possibile indicare le condizioni che fanno sì che il valore di un bene o di una prestazione aumenti o diminuisca.
Ora si tratta di instaurare una struttura sociale in cui si manifesti adeguatamente il valore del singolo bene rispetto ad altre merci. Non si tratta quindi di poterlo indicare – cosa che si può naturalmente fare col relativo prezzo in denaro, ma in questo modo non si esprime il valore completo. Si tratta invece di far in modo che le merci in questione abbiano il valore a loro corrispondente in rapporto ad altri beni.
Perciò è importante porre questa domanda sul terreno della vita economica: allora non si chiede una definizione astratta del valore, ma si indagano le condizioni che permettono ai beni di ottenere il giusto valore corrispondente.
Questa è la prima cosa che volevo dire. Volevo solo far notare che sotto molti aspetti dobbiamo trasformare il modo di porre le domande circa la vita sociale, il nostro modo stesso di considerarla. L’umanità dovrà abituarsi a un cambiamento di mentalità. Oggi perfino la vita pratica è diventata teoria, e nella conferenza volevo far presente che ora, a sua volta, la vita concreta dell’economia creditizia fa il suo ingresso a poco a poco nella vita diventata del tutto astratta, diventata astratta proprio sotto l’influsso dell’economia monetaria.
Vedete, oggi di queste cose ci si occupa con un certo sussiego scientifico. Non si nota affatto da quali complessi fattori dipende il valore, quello reale. Se ci si limita a considerare il prezzo monetario non si può avere un’idea del valore giusto. Bisogna considerare l’intera base economica.
Vedete, si può per esempio parlare della formazione dei prezzi nel senso della formazione dei prezzi in denaro. Se ne ricava – gli economisti politici, ad esempio Unruh, hanno già richiamato l’attenzione su questo fatto, ma senza scorgerne il contesto più vasto –, si arriva a vedere che all’interno di un’area economica circoscritta un’oca ha un certo valore che si esprime nel prezzo. È il prezzo espresso in valore monetario.
Ma se poi, come ha fatto per esempio l’economista Ricardo, si vuole capire a partir da lì l’intera struttura dell’economia, si giunge a risultati alquanto unilaterali, poiché in un’area economica delimitata anche il valore delle oche non può essere stabilito unicamente in base al prezzo monetario. Il prezzo stesso dipende anche dal fatto che si tratti di oche da ingrasso da vendere o che si tratti di oche che vanno spennate per venderne le piume. Diverse cose dipendono quindi dal fatto di essere un produttore di oche o un commerciante di piume. Ma questo emerge solo da un’osservazione oggettiva della vita economica.
Se si considerano solo a livello statistico le cifre corrispondenti ai prezzi delle singole cose, non ci si fa un’idea dell’andamento oggettivo della vita economica e neppure della reale valutazione delle merci.
Se si vuol parlare di valori è quindi necessario occuparsi dei rapporti che ci sono, attenersi rigorosamente al campo dell’economia. Allora non c’è neanche bisogno di chiedere come si esprime oggettivamente il valore, ma la domanda da fare sarà: quali fattori di natura sociale sono in grado di conferire a una merce, a un servizio, a un prodotto umano il giusto valore in rapporto ad altre prestazioni, altri prodotti e altri beni? Questa è la domanda giusta.
Le domande altamente teoriche che sorgono al giorno d’oggi dovranno, se così posso dire, “impratichirsi”, ed è proprio in questa direzione, che oggi risulta ancora estranea anche a quelli che vorrebbero essere pragmatici, che va la triarticolazione dell’organismo sociale.
Poi è stato chiesto:
Da quali premesse ha avuto origine l’impulso alla triarticolazione sociale?
Cari ascoltatori, va detto che in effetti la questione sociale si è fatta critica durante questa grande catastrofe della guerra mondiale. Non mi piace sfiorare gli argomenti personali, ma in certi casi si è spesso costretti a farlo.
Ho avuto più che a sufficienza occasione di sperimentare direttamente l’andamento della questione sociale. Per lungo tempo sono stato a Berlino insegnante presso una scuola di formazione di operai, dove il rapporto con allievi non solo adulti, ma spesso anche decisamente anziani, mi ha permesso di studiare bene la questione sociale. Ho avuto modo di entrare in contatto con la questione sociale nella vita pratica dalle più svariate angolazioni, in primo luogo vedendo come essa vive nelle anime delle grandi masse del giorno d’oggi e con quanta difficoltà viene capita proprio da queste classi sociali.
Ho visto per esempio che sarebbe stato possibile – il mio insegnamento risale a due decenni fa –, proprio al momento del passaggio dal diciannovesimo al ventesimo secolo, portare alle grandi masse moderne della popolazione operaia delle idee che avrebbero potuto evitare il caos e la furia devastatrice che regnano oggi in ambito sociale.
Davvero, cari ascoltatori, mi era chiaro vent’anni fa che gran parte della popolazione sarebbe stata pronta ad accogliere delle idee nate dallo spirito, se solo la sua attenzione fosse stata diretta su di esse. So bene che cosa si opponeva a questo, perché ho conosciuto anche la controparte. Vedete, ho avuto la “sfortuna” di farmi dei sostenitori fra gli allievi, sostenitori di un modo di pensare davvero diverso da quello con cui erano cresciuti.
Ho visto come le grandi masse del popolo fossero realmente disposte ad accogliere delle idee sane. E posso dire senza peccare di immodestia – vi sto raccontando solo dei fatti – che di solito, quando c’erano degli insegnanti socialisti qualsiasi, i soliti insegnanti propagandisti della scuola di cultura operaia, succedeva che nel primo trimestre – le lezioni erano divise in trimestri – avessero un certo pubblico, che però si riduceva nel giro di poco tempo. Il mio uditorio – posso permettermi di dirlo perché è un dato di fatto – cresceva di trimestre in trimestre ed è diventato troppo grande per i capi della classe operaia, per quei capi che hanno assorbito gli scarti della scienza borghese e li hanno riutilizzati in un modo che è ormai arcinoto.
Quando costoro videro che mi stavo guadagnando dei seguaci, fecero in modo che per una volta la scolaresca dell’intero trimestre venisse messa insieme. E fra gli allievi furono mandati anche tre esponenti della direzione, ma di levatura inferiore. Mi hanno rimproverato di non insegnare la visione storica marxista ortodossa, il materialismo storico, e di non servirmi della scienza per fondare il materialismo, per sostenere il marxismo, ma per portare in modo serio una visione scientifica alla massa. In poche parole, mi si accusava di non essere un insegnante ortodosso dei dogmi del sistema socialista.
Allora ho osato ribattere: «Voi volete rappresentare una società che lavora per il futuro. A me sembra che la prima cosa necessaria sia che voi rispettiate una vera esigenza del futuro, che permettiate cioè la libertà d’insegnamento.» Al che uno degli emissari rispose: «Non possiamo accettare la libertà d’insegnamento, nella vita pubblica per noi non conta nulla. Conosciamo solo una ragionevole costrizione.»
E con questa “ragionevole costrizione” la faccenda ha preso questa piega: tutti gli altri seicento hanno votato in mio favore, ma quei tre hanno votato contro di me ed io sono stato estromesso. Questo è l’altro lato dell’andamento della questione sociale di cui ho potuto fare la diretta esperienza. E qui si poteva vedere quali sono le forze pubbliche che dominano effettivamente la questione sociale.
Si veniva sempre più indotti a osservare l’intrecciarsi dell’elemento culturale, di quello giuridico-politico e di quello economico nella vita umana, nell’evoluzione umana in genere. Ma poi si poteva anche vedere come proprio nelle nuove condizioni di vita si siano formati i grandi imperi economici, gli imperialismi economici, per via dell’accoppiamento, dell’identificazione dell’elemento giuridico-politico con quello intellettuale-culturale, da cui dipende tutta la vita sociale.
Si poteva osservare come il sistema economico, continuando nello stesso modo ritenuto ideale da certe cerchie tra la fine del diciannovesimo e gli inizi del ventesimo secolo, avrebbe portato a crisi continue. Si poteva poi rilevare come questa catastrofe della guerra mondiale fosse solo una crisi concentrata, poiché gli Stati, da corporazioni politiche che erano, hanno assunto le dimensioni di imperi economici, imperi che hanno assorbito l’elemento politico e culturale, e si poteva vedere come questi fenomeni si ripercuotono sull’intera collettività.
Prendiamo per esempio l’esito di questa catastrofe della guerra mondiale. Se si escludono alcune espressioni occasionali, ho cominciato relativamente tardi a parlare della questione sociale nei termini in cui ne parlo oggi, in quanto fa parte del mio compito il doverne parlare. Ma durante tutta la mia vita ho osservato il movimento sociale dell’umanità.
E chi come me ha trascorso metà della sua vita, trent’anni, in Austria, avrà visto in quest’Austria un tipico esempio di una grande realtà storica che ha dovuto crollare per fattori interni. Chi ha osservato quest’Austria ha potuto vedere in che modo erano ingarbugliate fra loro soprattutto le realtà culturali e quelle nazionali, cioè le condizioni culturali, con quelle giuridico-politiche ed economiche.
Prendete in considerazione il sud-ovest dell’Europa, quell’angolo meteorologico che è stato l’elemento scatenante della catastrofe della guerra mondiale. Vedrete allora come si sono preparati gli eventi che in seguito hanno fatto divampare le fiamme per mezzo del Congresso di Berlino, in cui all’Austria è stata concessa l’occupazione della Bosnia e dell’Erzegovina. Quello che così è intervenuto nella struttura politica dell’impero austroungarico era un programma di natura politica, ma le condizioni così create non erano più sostenibili nel momento in cui nei Balcani era in corso uno sconvolgimento, una rivoluzione puramente politica, cioè un sovvertimento in ambito politico-giuridico. L’antico elemento reazionario turco è stato soppiantato dalla giovane classe dominante turca. Un’immediata conseguenza è stata che l’Austria fu indotta ad un’annessione anziché ad un’occupazione della Bosnia e dell’Erzegovina, e che la Bulgaria passò da principato a regno. Queste erano le realtà politiche in gioco.
Ma a queste condizioni politiche se ne intrecciavano di economiche. E alla fine le condizioni economiche hanno interagito con quelle politiche in modo tale che da questa “sinergia” sono sorte le cose impossibili del divenire storico. Dato che l’amministrazione politica dell’Austria era nel contempo anche economica, fu necessario collegare strettamente alle condizioni politiche una cosa come il prolungamento della linea ferroviaria verso il sud-ovest dell’Austria, la ferrovia di Salonicco. Era qualcosa di esclusivamente economico, eppure le condizioni politiche continuavano ad interagire con quelle economiche. Il tutto è dovuto alla mancata comprensione delle realtà intellettuali-culturali, e precisamente del divario che c’è fra slavità e germanesimo.
Queste tre cose si aggrovigliarono l’una nell’altra, e da questo groviglio ha avuto origine la terribile catastrofe. Si può studiare di anno in anno come siano state create delle condizioni fittizie per il fatto che non si sapeva tener separate l’una dall’altra la sfera giuridica, quella culturale e quella economica. Ma la realtà richiedeva la loro separazione, la loro netta distinzione.
E bisogna ricordarsi come, con l’avvento delle recenti circostanze, la vita giuridica, quella culturale e quella economica abbiano avuto fin dall’inizio la tendenza a distinguersi fra loro. Proprio il fatto che dal loro stretto legame potesse nascere qualcosa di così terribile come la catastrofe della guerra mondiale, ha fatto notare l’analogia esistente fra le sostanze non omogenee messe insieme in una provetta in laboratorio chimico, che quindi si separano, e le condizioni economiche che a loro volta si emancipano relativamente presto da quelle culturali e giuridiche.
Voglio rammentarvi un fenomeno che si è verificato relativamente presto e di cui in seguito sono state cancellate le tracce dopo la Riforma e il Rinascimento. Già solo studiando la storia del medioevo vedrete che la Chiesa era contraria agli interessi monetari, vale a dire che diffondeva ovunque degli insegnamenti secondo i quali ricavare interessi dal prestito di denaro è immorale, in disaccordo con una vita realmente cristiana. Questo era un insegnamento, era vita culturale, era un insegnamento ritenuto nobile.
Ma in realtà la Chiesa incassava enormi interessi tramite i suoi rappresentanti. La vita economica era nettamente separata da quella spirituale, si svolgeva su un binario parallelo a quello dei principi morali. E si potrebbe richiamare l’attenzione su fenomeni analoghi verificatisi negli ultimi anni, se per esempio si volesse dimostrare come la vita economica, sotto forma di ogni tipo di nepotismo, di procacciamento di generi alimentari sottobanco, si sia separata dalla vita giuridica, che per gli altri continuava a “razionare”. Suvvia, in questo vedete dei fenomeni simili a quelli che avvengono in provetta quando le sostanze non affini si separano le une dalle altre.
Tutte queste cose vanno studiate una per una, e allora – poiché questo si manifesta sempre più sia nella vita nazionale che in quella internazionale per via della complessità delle moderne condizioni di vita – ne risulta col tempo la necessità di lavorare in vista di una triarticolazione dell’organismo sociale, come illustrerò nelle prossime conferenze, posizione che vedete sostenuta qui in Svizzera dalla rivista Soziale Zukunft (Avvenire sociale) e descritta nel mio libro I punti essenziali della questione sociale.
Bisogna assolutamente rendersi conto che l’affermazione di Hartley Withers che vi ho citato all’inizio è del tutto fondata. Negli ultimi tempi le condizioni sono diventate estremamente complesse, e solo se si arriva a individuare determinate leggi fondamentali, determinate idee originarie – così le ho chiamate nei miei Punti essenziali della questione sociale – che possano indicare la strada da percorrere all’interno delle realtà complesse della vita pratica, solo allora si può sperare di contribuire in qualche modo a quella che è oggi la questione sociale. E solo così si può sperare di superare quello che, sotto forma di slogan e di dogmi di partito, si sta impadronendo in maniera così terribile delle masse e che viene purtroppo trasformato dagli uomini in realtà.
Non possiamo sperare di andare avanti se prima non riusciamo a emancipare dalle manovre di partito quella che è la questione sociale, mettendola sul terreno della comprensione pratica e ragionevole della realtà. Con queste conferenze desidero mostrarvi che una simile comprensione è possibile. Oggi volevo perlomeno accennare a quanto ho da dire a proposito della nascita e della comparsa della triarticolazione nella vita recente. Nelle prossime conferenze emergeranno anche altre cose.
Seconda conferenza
La vita economica:
associazioni per la creazione del valore
e del prezzo. Sistema creditizio e tributario
Zurigo, 25 ottobre 1919
Cari ascoltatori!
Dalle convinzioni sorte osservando i fatti dell’evoluzione sociale, come ho cercato di illustrare ieri, è nata l’idea che espongo nel mio libro I punti essenziali della questione sociale, l’idea della triarticolazione dell’organismo sociale.
Questa idea della triarticolazione dell’organismo sociale intende essere un’idea di vita pratica, che non contiene nulla di utopistico. Per questo, il presupposto per comprendere il mio libro è di leggerlo con un certo intuito per i fatti reali, di non giudicarlo in base a teorie preconcette o a opinioni di partito.
Se quello che ho esposto ieri è giusto, e non dubito che lo sia, vale a dire che le realtà sociali, le condizioni di vita dell’uomo sono diventate gradualmente così complesse che è estremamente difficile averne uno sguardo d’insieme, per discutere su quel che oggi deve condurre all’azione è necessario allora un metodo ben preciso.
È fin troppo evidente che di fronte alla complessità dei fatti l’uomo abbia dapprima solo una certa capacità di comprendere i fenomeni economici all’interno degli ambienti in cui vive. Però ogni singolo fenomeno dipende dall’economia intera, oggi non solo da quella di un Paese, ma dall’economia mondiale.
Ecco allora che spesso il singolo individuo si troverà nell’ovvia e comprensibile situazione di voler valutare le necessità dell’economia in base alle esperienze del proprio ambiente ristretto, cosa che lo porterà naturalmente a commettere errori.
Chi ha familiarità con le esigenze di un pensiero aderente alla realtà sa anche quanto sia importante accostarsi ai fenomeni del mondo con un certo fiuto istintivo per la realtà, così da acquistare determinate conoscenze fondamentali che nella vita possono ricoprire un ruolo analogo a quello delle verità fondamentali degli assiomi in certe conoscenze scolastiche.
Vedete, se si volesse prima conoscere tutta la vita economica nei minimi particolari per poi trarre da lì delle conclusioni per il da farsi, non si finirebbe mai. Ma non si finirebbe mai neanche di conoscere tutti i particolari di tutti i casi in cui in ambito tecnico si applica il teorema di Pitagora, per poi dedurne la validità.
Si fa propria la verità del teorema di Pitagora da certe relazioni interne, e si sa che deve poi valere ovunque entri in gioco la sua applicazione.
Così, anche nella conoscenza del sociale si intuisce che certe idee fondamentali sono vere e valide in base alla loro stessa natura. E se si ha un fiuto per la realtà, le si troverà poi applicabili ovunque nella vita si presenti il caso.
Così il libro I punti essenziali della questione sociale andrebbe capito a partire dalla sua intima natura, dal carattere intrinseco delle condizioni sociali in esso descritte. Ed è così che in un primo tempo va intesa nel suo complesso anche l’idea della triarticolazione dell’organismo sociale.
Ma in queste conferenze cercherò anche di mostrarvi come singoli fenomeni della vita sociale forniscano delle conferme a quanto è contenuto nell’idea della triarticolazione dell’organismo sociale che risulta dalle necessità di vita del momento attuale e del prossimo futuro dell’umanità: mostrerò in che modo emergono queste conferme e che cosa ne deriva.
In primo luogo però, cari ascoltatori, prima di passare all’argomento di oggi, devo presentarvi a titolo introduttivo e di pura informazione quella che è l’idea fondamentale di questa triarticolazione dell’organismo sociale.
Ieri ci è risultato che la nostra vita sociale deve far valere le proprie richieste a partire da tre radici fondamentali, in altre parole, che la questione sociale è triplice: è una questione culturale, una questione statale (giuridica o politica) ed una questione economica.
Chi esamini la recente evoluzione dell’umanità scoprirà, cari ascoltatori, che nel presente questi tre elementi della vita – la vita culturale, quella giuridica (statale o politica) e quella economica – sono confluiti a poco a poco a formare un’unità caotica e che da questa mistura sono nati i nostri attuali danni sociali.
Se ci si rende ben conto di questo – e queste conferenze vogliono fornire la base per una comprensione profonda –, si scopre che il futuro deve svolgersi in modo che la vita pubblica venga articolata
• in un’amministrazione autonoma della cultura, particolarmente dell’educazione e della pubblica istruzione,
• in un’amministrazione autonoma delle istituzioni politiche, statali e giuridiche e
• in un’amministrazione del tutto indipendente dell’economia.
Attualmente nei nostri Stati c’è un’unica amministrazione che comprende tutti e tre questi elementi della vita, e quando si parla di triarticolazione si viene subito fraintesi. La reazione tipica a questa proposta è: «Ma sì, adesso arriva uno che vuole un’amministrazione autonoma della vita culturale, di quella giuridica e di quella economica. Quindi vuole tre parlamenti, uno per la cultura, uno democratico-politico e uno per l’economia.»
Fare una simile richiesta significherebbe non aver capito niente dell’idea della triarticolazione dell’organismo sociale. Questa idea infatti vuol prendere assolutamente sul serio quelle esigenze che sono emerse storicamente nel corso della più recente evoluzione del genere umano.
E queste esigenze le possiamo esprimere con tre parole che sono già diventate degli slogan. Ma se andiamo oltre gli slogan per trovare la realtà, vediamo che queste tre parole contengono degli impulsi storici più che legittimi. Queste tre parole sono:
• l’anelito alla libertà della vita umana,
• l’aspirazione alla democrazia, all’uguaglianza, e
• l’impulso ad un’organizzazione solidale della collettività.
Ma, cari ascoltatori, se si prendono sul serio queste tre aspirazioni, non le si può ingarbugliare in un’unica amministrazione, perché allora l’una finirà inevitabilmente per ostacolare l’altra.
Chi, per esempio, prende sul serio l’appello alla democrazia, dovrà dirsi: questa democrazia può esplicarsi solo in una rappresentanza popolare o attraverso un referendum, solo se ogni singolo individuo di maggiore età viene messo sullo stesso piano di ogni altro maggiorenne e può decidere in base al suo giudizio riguardo a tutto ciò che può essere deciso democraticamente dalla capacità di giudizio di ogni individuo maggiorenne in quanto tale.
Così dice anche l’idea della triarticolazione dell’organismo sociale: c’è un settore della vita – quello della vita giuridica, dello Stato, delle condizioni politiche – in cui ogni soggetto maggiorenne è chiamato ad esprimere il proprio parere in base alla sua coscienza democratica. Tuttavia, se si vuol far sul serio con la democrazia, non si può assolutamente includere in questa amministrazione democratica da un lato l’ambito culturale, e dall’altro la vita economica.
In questa amministrazione democratica un parlamento va benissimo, ma in un tale parlamento democratico non si potrà mai deliberare su ciò che deve avvenire nel campo della cultura, nel campo della pubblica istruzione e del sistema scolastico. Qui accenno solo brevemente a titolo introduttivo a quello che sarà l’argomento della quarta conferenza.
La triarticolazione dell’organismo sociale aspira ad una vita culturale autonoma, soprattutto per quanto riguarda le questioni pubbliche, l’istruzione e il sistema scolastico. Ciò significa che in futuro non dovrà essere qualche decreto statale a stabilire che cosa e in che modo insegnare, ma coloro che si occupano a livello pratico di insegnamento e di educazione dovranno essere anche gli amministratori della pubblica istruzione.
Questo vuol dire che, dal gradino più basso della scuola elementare al più alto livello di insegnamento, l’insegnante dev’essere indipendente da qualunque altro potere – statale o economico – per quanto riguarda il cosa e il come insegnare. Questo deve scaturire da ciò che viene ritenuto opportuno per la vita culturale all’interno della corporazione culturale autonoma stessa. E quindi, il tempo che il singolo dedica all’insegnamento deve essere tale da lasciargli anche il tempo di prender parte attivamente all’amministrazione dell’intero processo dell’istruzione e del sistema scolastico, nonché della vita culturale in genere.
Nella quarta conferenza cercherò di mostrare come, in base a questa autonomia della vita culturale, l’attività spirituale dell’uomo riceva un tutt’altro fondamento, come in tal modo possa avverarsi ciò che per via dei pregiudizi odierni si ritiene non possa verificarsi. Grazie a questa autonomia, la vita culturale acquisirà le forze necessarie per intervenire in maniera efficace e salutare nella vita statale e soprattutto in quella economica.
E a livello interiore, una vita culturale autonoma non fornirà della grigia teoria o delle opinioni scientifiche avulse dalla realtà, ma saprà anche intervenire direttamente nella vita umana, di modo che l’uomo, a partire da una vita culturale così indipendente, non sarà pervaso dalle solite idee astratte, ma avrà conoscenze che gli permetteranno di essere autonomo anche in fatto di economia. Proprio in virtù della sua autonomia, la vita culturale diventerà del tutto pratica.
E lo diventerà al punto che si potrà dire: nella vita culturale devono stare in primo piano la competenza e la sua applicazione, non ciò che proviene dal giudizio di un individuo maggiorenne in quanto tale. L’amministrazione della vita culturale va dunque affrancata dal parlamentarismo, e chi crede che anche lì debba comandare un parlamento democratico fraintende del tutto l’impulso alla triarticolazione dell’organismo sociale.
Un discorso analogo vale anche per la vita economica, anch’essa dotata di radici proprie e autonome. L’economia dev’essere amministrata secondo le sue specifiche condizioni. Anche qui non è possibile che ogni individuo in quanto maggiorenne decida democraticamente sul modo in cui dev’essere gestita l’economia, ma questo dovrà essere stabilito solo da chi vive e opera in un qualche settore dell’economia, da chi ha esperienza in un certo campo, da chi ne conosce le concatenazioni con altri ambiti economici.
Competenza e specializzazione sono i requisiti indispensabili per far sì che nella vita economica possa realizzarsi qualcosa di proficuo. Questa vita economica deve quindi svincolarsi dallo stato di diritto da una parte e dalla vita culturale dall’altra, per essere posta sulla base che le è propria.
Ed è proprio questo, cari ascoltatori, che oggi non viene capito neanche da chi ha convinzioni socialiste.
Questi individui dalle idee di sinistra pensano che basti che la vita economica assuma una certa forma per far sì che in futuro spariscano determinati danni di natura sociale. Si è visto, ed è facile vederlo, che l’ordinamento economico degli ultimi secoli fondato sul capitale privato ha prodotto certi danni. Questi danni sono evidenti.
Che giudizio si dà? Ci si dice: l’ordinamento economico del capitalismo ora in vigore ha prodotto dei danni. Questi danni svaniranno se elimineremo l’ordinamento economico del capitalismo privato, se lo sostituiremo con l’economia collettiva. I danni sorti derivano dal fatto che singoli proprietari hanno trasformato in proprietà privata i mezzi di produzione. Quando non ci saranno più singoli proprietari che trasformano i mezzi di produzione in proprietà privata, quando tali mezzi saranno amministrati dalla collettività, allora i danni spariranno.
A questo punto si può dire: anche chi ha opinioni socialiste si è procurato conoscenze parziali, ed è interessante il modo in cui queste conoscenze singole operano negli ambienti socialisti. Oggi si dice: «Sì, i mezzi di produzione dovrebbero essere amministrati collettivamente» – o il capitale, che in fondo rappresenta i mezzi di produzione. Però si è già anche visto a che cosa ha portato la statalizzazione di determinati mezzi di produzione, per esempio delle poste, delle ferrovie, e così via. E non si può affatto dire che i danni siano stati eliminati ora che lo Stato è diventato capitalista.
Dunque non serve statalizzare e neanche municipalizzare, non si può ottenere nulla di proficuo neppure fondando delle cooperative di consumo di cui fan parte le persone che hanno bisogno di determinati articoli. Coloro che vogliono regolare questo consumo e in base ad esso esercitare il controllo anche sulla produzione dei beni, diventano dei tiranni della produzione, ormai anche secondo l’opinione delle persone a orientamento socialista.
E così si è già fatta largo la consapevolezza che sia la statalizzazione che la municipalizzazione, come pure l’amministrazione mediante cooperative di consumo, portino alla tirannia dei consumatori. I produttori finirebbero per trovarsi in una situazione di dipendenza tirannica dai consumatori. Per questo taluni pensano che andrebbero fondate – come una specie di amministrazione collettiva – delle associazioni operaie di produzione, delle cooperative in cui gli operai potrebbero organizzarsi e produrre per se stessi, in base alle loro idee e ai loro principi.
E di nuovo, anche persone di tendenza socialista si sono accorte che in tal modo non si otterrebbe altro che la sostituzione di un singolo capitalista con un tot di operai che producono da capitalisti. Ma neppure questi operai che producono da capitalisti sarebbero in grado di fare qualcosa di diverso rispetto al singolo capitalista privato. Viene quindi respinta anche l’idea delle cooperative operaie di produzione.
Ma, cari ascoltatori, a tanti non basta vedere che queste singole associazioni non porteranno a nulla di fruttuoso in futuro. Tanti pensano che la collettività di tutto uno Stato, di un’intera area economica potrebbe diventare una grande cooperativa in cui tutti i soci siano nel contempo produttori e consumatori. Allora non è più il singolo individuo a produrre questo o quello di sua iniziativa per la comunità, ma sarebbe la collettività stessa a impartire le direttive sul come e cosa produrre, come distribuire i prodotti e così via. Sì, al posto dell’amministrazione privata della nostra moderna vita economica si vuole mettere un’enorme cooperativa che gestisca sia il consumo che la produzione.
Chi guardi a fondo nella realtà sa che in fin dei conti questo passaggio all’idea della cooperativa generale deriva semplicemente dal fatto che lì l’errore non viene visto così facilmente nei particolari come nella statalizzazione parziale: nella municipalizzazione, nelle cooperative operaie di produzione e nelle cooperative di consumo.
In queste ultime l’ambito di cui farsi un’idea è per così dire più ridotto. È più facile vedere gli errori che si commettono mentre si cerca di realizzare delle istituzioni di questo genere. La cooperativa statale, che abbraccia un’intera società, è invece grande. Si parla allora di quel che si vuol fare e non ci si accorge che dovranno necessariamente sorgere gli stessi errori – che nel piccolo si vedono subito ma nel grande no, poiché non si ha una visione d’insieme del tutto. Questo è il problema.
E bisogna riconoscere su cosa si basa l’errore fondamentale di questo modo di pensare – sul fatto che ci si muove a vele spiegate in direzione di un’enorme cooperativa che vuole amministrare da sola tutto il consumo e tutta la produzione.
Che tipo di pensiero è quello che vuole realizzare una cosa del genere?
Cari ascoltatori, che tipo di pensiero sia ce lo mostrano i numerosi programmi di partito del giorno d’oggi. Come si presentano questi programmi di partito? Ci si dice: «Allora, ci sono certi settori di produzione che vanno amministrati collettivamente. Questi, a loro volta, devono fondersi in settori più grandi, in campi amministrativi più vasti. Là ci dev’essere una sorta di centrale amministrativa che diriga il tutto, per poi arrivare ad un ufficio economico centrale che amministri tutto il consumo e tutta la produzione.»
A quali pensieri, a quali idee si ricorre quando si vuole organizzare in questo modo la vita economica? Si ricorre a quanto si è appreso nella vita politica, così come si è sviluppata nella recente storia dell’umanità.
Quelli che oggi parlano di programmi economici si sono formati perlopiù alla scuola della politica in quanto tale. Hanno preso parte a campagne elettorali, hanno esperienza di tutto ciò che si verifica quando si viene eletti per rappresentare in qualche parlamento quelli da cui si è stati votati. Hanno fatto esperienza di cosa avviene negli uffici amministrativi, sulle sedie dei politici, e così via. Hanno per così dire imparato la routine dell’amministrazione politica e vogliono applicarla alla vita economica. Ciò vuol dire che in base a tali programmi la vita economica dev’essere completamente politicizzata, poiché gli interessati conoscono solo l’amministrazione della politica.
Oggi è assolutamente necessario rendersi conto che questa prassi che si vuole imporre alla vita economica è qualcosa che le è assolutamente estraneo.
Eppure, la maggior parte di quelli che oggi parlano di riforme della vita economica o addirittura di una sua rivoluzione, sono tutto sommato dei puri e semplici politici che vivono nel pregiudizio secondo il quale ciò che hanno imparato in ambito politico vada bene anche per l’amministrazione dell’economia. Ma un risanamento del ciclo economico potrà aver luogo solo se l’economia viene studiata e gestita a partire dalle sue condizioni di vita specifiche.
Che cosa vogliono in fondo questi riformatori politicanti dell’economia? Niente di meno che, per prima cosa, in futuro sia questa gerarchia di uffici centrali a stabilire cosa dev’essere prodotto. In secondo luogo esigono che tutto il processo produttivo venga determinato dagli uffici amministrativi. E in terzo luogo vogliono che chi deve partecipare al processo produttivo venga eletto e messo al suo posto da questi stessi uffici centrali. Come quarta cosa poi chiedono che questi uffici centrali si occupino di distribuire le materie prime alle singole aziende.
L’intera produzione deve, in altre parole, essere subordinata ad una gerarchia di amministratori politici. È il succo della maggior parte delle idee di riforma economica del presente.
Non ci si rende conto che con una simile riforma si resterebbe al livello attuale e non si eliminerebbero i danni che, al contrario, crescerebbero a dismisura. Ci si rende conto che non funziona con la statalizzazione, con la municipalizzazione, con le cooperative di consumo o con quelle operaie di produzione. Ma non ci si rende conto che si finirebbe per trasferire nell’amministrazione collettiva dei mezzi di produzione proprio tutto quello che si critica così aspramente nel sistema del capitale privato.
È questo che va soprattutto capito al giorno d’oggi: che ovunque vengano introdotti tali provvedimenti e tali istituzioni sorgerebbe inevitabilmente quello che vediamo ben chiaramente realizzarsi nell’Europa dell’est.
Nell’est dell’Europa, cari ascoltatori, singoli individui sono stati in grado di realizzare queste idee di riforma economica, di metterle in pratica. Chi vuole imparare dai fatti potrebbe vedere nel destino a cui va incontro l’est come questi provvedimenti portino all’assurdo.
E se gli uomini non fossero fissati sui loro dogmi ma cominciassero a imparare dai fatti, non si direbbe che la socializzazione economica in Ungheria è fallita per questo o per quel motivo, ma si studierebbe il perché era per natura destinata al fallimento. Ci si renderebbe conto che ogni socializzazione di questo genere può solo portare distruzione, che non può produrre niente di proficuo per il futuro.
Ma ancor oggi ci sono ampie cerchie a cui risulta difficile imparare in questo modo dai fatti. Lo vediamo soprattutto nelle cose che spesso vengono citate solo fra parentesi dai pensatori socialisti. Costoro dicono: «Sì, è vero, tutta l’economia attuale è stata trasformata dalla tecnica moderna.»
Se volessero proseguire questo ragionamento, dovrebbero riconoscere lo stretto legame che c’è fra la tecnica moderna e la competenza, e la specializzazione. Dovrebbero capire che la tecnica moderna incide in modo determinante su ogni campo della vita economica stessa. Ma non vogliono vederlo.
E così dicono come fra parentesi di non volersi occupare dell’aspetto tecnico dei processi produttivi, che si possono lasciar perdere! Vogliono occuparsi solo del modo in cui gli uomini coinvolti nei processi di produzione sono inseriti a livello sociale, di come si conformi la vita sociale per gli individui coinvolti nei processi produttivi.
Ma, cari ascoltatori, è evidente, se solo lo si vuole vedere e capire, come la tecnica intervenga in modo diretto e decisivo nella vita economica. Basti fare un solo esempio, un esempio direi classico.
La tecnica moderna ha portato, mi esprimo per sommi capi, a produrre con le sue numerose macchine dei prodotti che servono al consumo. E queste macchine dipendono solo ed esclusivamente dal fatto che per l’attività economica sono stati estratti da quattrocento a cinquecento milioni di tonnellate di carbone nel periodo antecedente allo scoppio della guerra. Se ora si calcolano le energie economiche, le forze economiche impiegate dalla macchina, che viene costruita e gestita dal pensiero umano, emerge un risultato interessante:
Calcolando delle giornate lavorative di otto ore, emerge il curioso risultato che, mediante le macchine, cioè grazie i pensieri umani incorporati nelle macchine, grazie all’inventiva delle menti, viene prodotta tanta forza lavorativa quanta ne verrebbe generata da settecento o ottocento milioni di persone.
Se quindi pensate, cari ascoltatori, che la Terra ha oggi circa millecinquecento milioni di abitanti che impiegano la loro forza lavoro, allora grazie all’inventiva degli uomini della recente evoluzione culturale, grazie allo sviluppo tecnico, ne ha ottenuti settecento o ottocento milioni in più. Quindi ci sono duemila milioni di persone che lavorano. Questi settecento o ottocento milioni di “persone” in più non lavorano in effetti, sono le macchine a lavorare per loro. Ma che cosa lavora dentro le macchine? La mente umana!
È straordinariamente importante comprendere davvero questi fatti che potrei facilmente moltiplicare, perché da essi si riconoscerà che la tecnica non può essere lasciata tra parentesi, ma che è attivamente coinvolta nel processo economico, è diventata un tutt’uno con esso. Senza il fondamento della tecnica moderna, senza competenza e specializzazione dell’individuo, l’economia moderna è impensabile. Se si ignorano queste cose si fanno i conti non con la realtà, ma con idee preconcette, che scaturiscono dalle passioni umane.
L’idea della triarticolazione dell’organismo sociale prende sul serio la questione sociale, e proprio per questo non può andar d’accordo con quelli che parlano per slogan e programmi di partito. Sente invece il dovere di parlare in base ai fatti.
Per questo, ponendosi sul piano della realtà, deve riconoscere che, soprattutto nella nostra vita complessa di oggi, l’economia dipende in tutto e per tutto dall’iniziativa del singolo. Mettere la comunità astratta al posto dell’iniziativa del singolo significa annientare la vita economica, ucciderla.
L’Europa dell’est ne potrà dar prova se resterà ancora a lungo sotto l’attuale regime. Togliere al singolo l’iniziativa che deve partire dal suo spirito per fluire nel movimento dei mezzi di produzione in vista del bene della comunità umana, equivale ad annientare, ad uccidere la vita economica stessa.
Ma come si sono formati quelli che oggi consideriamo dei danni?
La recente evoluzione umana con la sua perfezione tecnologica ha fatto sì che il processo produttivo d’oggi richiede l’iniziativa del singolo, e quindi anche la possibilità che il singolo disponga del capitale per gestire di propria iniziativa il processo produttivo. E l’origine dei danni che hanno accompagnato questa recente evoluzione va ricercata altrove.
Se ne vogliamo scoprire l’origine, la prima cosa da fare è metterci sul piano del principio d’associazione anziché su quello di cooperativa, sia essa pure una grande cooperativa.
Che cosa vuol dire mettersi sul piano del principio d’associazione anziché su quello del principio di cooperativa? Vuol dire questo, cari ascoltatori:
Chi si pone sul piano del principio di cooperativa pensa che basti che gli uomini si mettano insieme e deliberino a partire dalla loro comunanza, per amministrare il processo produttivo. Si cerca prima l’associazione degli uomini, la loro cooperazione, e dopo si vuole produrre a partire da questa comunanza, dalla comunità delle persone.
L’idea dell’organismo triarticolato si pone sul piano della realtà e dice: per prima cosa devono esserci le persone in grado di produrre, persone competenti e specializzate. È da loro che deve dipendere il processo produttivo. E questi individui competenti e specializzati devono consociarsi per occuparsi della vita economica sulla base di una produzione che deriva dall’iniziativa del singolo.
In questo consiste il vero principio d’associazione: prima si produce, e ciò che viene prodotto sulla base della consociazione di persone dedite alla produzione viene portato al consumo.
In un certo senso, la disgrazia del nostro tempo consiste nel non capire la radicale differenza fra questi due principi, poiché in sostanza, cari ascoltatori, tutto dipende dal rendersi conto di questa differenza.
Non si è dotati di quell’istinto che fa capire che ogni comunità astratta finirà inevitabilmente per minare il processo produttivo qualora voglia amministrarlo. Il tipo di comunità che sorge in un’associazione, può arricchirsi solo di ciò che viene prodotto a partire dall’iniziativa del singolo per poi distribuirlo in spirito di solidarietà ai consumatori.
Oggi, per un motivo a cui ho già accennato ieri, non ci si rende conto del fatto importante che sta alla base di queste cose. Ho già detto ieri che, più o meno all’epoca in cui nella storia dell’umanità abbiamo avuto il Rinascimento e la Riforma, dall’America centrale e del sud sono arrivati i metalli preziosi i quali hanno contribuito alla trasformazione dell’economia naturale, che fino ad allora era in vigore, in economia monetaria.
Cari ascoltatori, in questo modo si è compiuta in Europa un’importante rivoluzione economica. Si sono create delle condizioni che vigono ancor oggi. Sopra queste condizioni si sono calati per così dire dei sipari che non consentono più di vedere le vere realtà.
Osserviamo con più attenzione queste condizioni. Partiamo dalla vecchia economia naturale, anche se oggi non è più in vigore.
Nel processo economico di baratto si ha a che fare unicamente con ciò che viene prodotto dal singolo. Questi lo può scambiare con il prodotto di un altro. È ben ovvio che all’interno di questa economia naturale, dove un prodotto può solo essere scambiato con un altro prodotto, deve regnare una certa affidabilità. Se si vuole ottenere in baratto un prodotto di cui si ha bisogno, bisogna averne uno da offrire che abbia per l’altro un valore corrispondente. Ciò significa che, se vogliono avere qualcosa, gli uomini sono costretti a produrre qualcosa, sono costretti a barattare qualcosa che abbia un valore reale, evidente.
Al posto di questo scambio di beni, dotati di valore reale per la vita umana, è subentrata l’economia monetaria. E il denaro è diventato qualcosa con cui si fanno scambi di tipo economico, proprio come si fa con gli oggetti reali nell’economia naturale. Bisogna solo tener presente che il denaro, essendo diventato un oggetto economico reale, simula all’uomo allo stesso tempo qualcosa di immaginario, di irreale, e così facendo tiranneggia gli esseri umani.
Cari ascoltatori, prendiamo un caso estremo: consideriamo il fatto che proprio l’economia creditizia, a cui ho fatto cenno ieri, alla fine faccia il suo ingresso nell’economia monetaria, cosa che negli ultimi tempi ha fatto diverse volte. Allora emerge, ad esempio, quanto segue.
Come Stato o come singolo si vuole realizzare un impianto, un impianto telegrafico o qualcosa di simile. Si può richiedere un credito per un ammontare cospicuo e si sarà cosi in grado di realizzare questo impianto telegrafico. Certi rapporti permetteranno di ottenere determinate somme di denaro, su cui però dovranno essere pagati degli interessi. Bisogna allora garantire questa corresponsione di interessi. E in molti casi che cosa succede all’interno della nostra struttura sociale, soprattutto nella statalizzazione, laddove è lo Stato stesso a gestire l’economia?
Succede che la cosa per cui si è usato il denaro in questione è stata realizzata, è stata prodotta, e il denaro è stato consumato, non esiste più – ma la gente continua a pagare il credito che era stato richiesto per la sua realizzazione. Questo significa che ciò per cui ci si è indebitati in chiave di credito non c’è più, ma si continua ad amministrare il denaro.
Queste cose hanno anche un risvolto economico a livello mondiale. A Napoleone III, che era tutt’altro che stupido in fatto di idee moderne, è venuto in mente di abbellire Parigi e ha fatto costruire moltissimo. I ministri, suoi docili satelliti, hanno costruito e costruito. Hanno avuto l’idea di usare le entrate dello Stato per pagare gli interessi. Così Parigi è diventata molto più bella, ma la popolazione sta ancora oggi pagando i debiti che sono stati fatti allora. Benché da tempo le cose non abbiano più un fondamento reale, si continua a fare affari sul denaro che è diventato a sua volta oggetto economico.
La faccenda ha anche il suo lato positivo. Nell’antica economia naturale, quando si commerciava era necessario produrre dei beni. Ovviamente questi beni erano soggetti a deterioramento, potevano deperire, e quindi si era costretti a continuare a lavorare, a produrre beni sempre nuovi, se questi erano necessari.
Con il denaro questo non è più necessario. Lo si dà via, lo si presta a qualcuno, e ci si mette al sicuro. Cioè, con il denaro si commercia in modo del tutto indipendente da quelli che producono i beni. In un certo senso il denaro, diventando esso stesso un fattore produttivo, emancipa l’uomo dal processo economico diretto.
È qualcosa di straordinariamente significativo, questo, poiché nella vecchia economia naturale il singolo dipendeva dal singolo, l’uomo aveva bisogno dell’uomo. Gli uomini dovevano cooperare, dovevano andare d’accordo, dovevano intendersi su determinati provvedimenti, altrimenti la vita economica non poteva andare avanti. Nell’economia monetaria, chi diventa capitalista dipende naturalmente da quelli che lavorano, ma per costoro egli è un perfetto estraneo – e loro per lui.
• Quant’era vicino il consumatore al produttore nella vecchia economia naturale, dove si aveva a che fare con dei beni reali!
• Quanto è distante chi fa economia di denaro da chi lavora perché questo denaro possa fruttare interessi!
Vengono scavati degli abissi fra gli uomini, i quali, nell’economia monetaria, non possono più essere vicini gli uni agli altri.
È la prima cosa da prendere in considerazione se si vuole trovare un modo per riavvicinare le masse dei lavoratori – sia intellettuali che fisici –, quelli che producono realmente, a coloro che con gli investimenti di capitali rendono possibile l’economia. Questo tuttavia può avvenire solo per mezzo del principio di associazione, cioè se gli uomini riprendono ad associarsi in quanto uomini. Il principio d’associazione è un’esigenza della vita sociale, ma un’esigenza quale l’ho descritta io, non come quella che appare nei programmi socialisti.
E che altro è subentrato proprio per via dell’economia monetaria che negli ultimi tempi sta crescendo a dismisura? Vedete, cari ascoltatori, in tal modo anche quello a cui si dà il nome di lavoro umano è diventato dipendente dal denaro.
I socialisti e gli altri litigano sull’inserimento del lavoro umano nella struttura sociale, ed è possibile trovare buone ragioni sia a favore che contro le opinioni sostenute tanto dagli uni quanto dagli altri.
Lo si capisce perfettamente soprattutto se si è imparato non a pensare e a sentire sulla classe operaia, ma a pensare e a sentire in sintonia con lei. Allora si capisce bene quando l’operaio dice che in futuro la sua forza lavoro non dovrà più essere una merce, che non dovrà più esistere la condizione per cui da un lato sul mercato delle merci si pagano i beni, e dall’altro, sul mercato del lavoro, il lavoro umano viene pagato sotto forma di salario. Non ci vuol molto per capirlo.
Ed è facile anche capire che Karl Marx ha trovato molti seguaci quando ha calcolato che chi lavora produce un plusvalore, che non ottiene i pieni proventi della sua forza lavorativa ma produce un plusvalore che viene intascato dall’imprenditore. Si capisce poi che l’operaio, sotto l’influsso di una simile teoria, lotta per questo plusvalore.
Ma dall’altra parte è altrettanto facile dimostrare che il salario viene pagato dal capitale, che la moderna vita economica viene regolata completamente dall’economia capitalistica, che certi prodotti fruttano qualcosa a livello di capitale ed è in base a questo che viene pagato il salario, che si compra il lavoro. Ciò significa che il salario viene prodotto dal capitale.
Si può dimostrare sia l’una che l’altra teoria. Si può dimostrare che il capitale è il parassita del lavoro e anche che il capitale è il creatore del salario. In poche parole, è possibile sostenere le opinioni di partito dell’una o dell’altra parte a pari ragione. Bisognerebbe capirlo fino in fondo, allora si capirebbe anche che attualmente si cerca di raggiungere qualcosa solo con la lotta di classe e non per mezzo di un’analisi e di una spiegazione oggettive della situazione.
Il lavoro umano è qualcosa di talmente diverso dalle merci che è del tutto impossibile pagare allo stesso modo la merce e il lavoro senza produrre danni economici.
Solo che gli uomini non si accorgono di come stanno le cose; proprio in quest’ambito oggi non afferrano ancora la natura dell’economia. Sono molti gli economisti che sanno fin troppo bene: se si aumenta in un modo qualsiasi la liquidità dei mezzi monetari, il denaro in circolazione, cioè le monete metalliche o la cartamoneta, il denaro costerà di meno e i beni di prima necessità diventeranno più cari. È una cosa che si capisce subito, ci si rende conto dell’assurdità del semplice aumento della quantità del denaro in circolazione che, lo si può toccar con mano, non provoca nient’altro che un aumento dei prezzi dei generi alimentari. La famosa spirale continua a salire senza mai fermarsi.
Ma c’è qualcos’altro di cui invece non ci si rende conto. Non si capisce che nel momento in cui il lavoro viene pagato come merce, come si pagano i prodotti, è ovvio che i lavoratori lotteranno per ottenere una rimunerazione sempre migliore. Ma quello che il lavoratore ottiene sotto forma di retribuzione in denaro, cari ascoltatori, ha sulla formazione dei prezzi lo stesso effetto del semplice aumento della quantità di denaro in circolazione. È di questo che ci si dovrebbe rendere conto.
Invece di aumentare la produzione, invece di fare in modo che la produzione diventi più redditizia, potete, come hanno fatto alcuni ministri delle finanze, limitarvi ad introdurre banconote, ad aumentare la quantità di denaro in circolazione. Allora la gente avrà più liquidità di denaro, ma tutti i prodotti, soprattutto i generi di prima necessità, diventeranno più cari. Di questo gli uomini si rendono già conto, per questo capiscono quanto sia assurdo aumentare solo a livello astratto la quantità di denaro in circolazione.
Ma non ci si accorge che tutto il denaro messo in circolazione solo per pagare il lavoro produce non meno un rincaro dei beni. È infatti solo in una vita economica indipendente dallo Stato che possono formarsi dei prezzi sani. È possibile che si formino dei prezzi sani solo se vengono sviluppati in base al libero apprezzamento della prestazione umana.
Per questo l’idea della triarticolazione sociale – e domani sarà nostro compito spiegare esaurientemente come – tende ad emancipare completamente il lavoro dal processo economico.
Il lavoro in quanto tale, cari ascoltatori, non è qualcosa che fa parte del processo economico. Pensateci bene – sembra strano, paradossale dire queste cose, ma al giorno d’oggi molte cose che devono essere comprese si presentano come paradossali. Gli uomini si sono allontanati di parecchio da un pensiero lineare, per questo trovano del tutto assurde certe cose che devono essere dette proprio a partire dai capisaldi della realtà.
Supponete che uno faccia dello sport da mattina a sera, che pratichi un tipo di sport. Costui impiega forza lavoro esattamente come uno che spacca la legna. Esattamente allo stesso modo, solo che uno la impiega per la collettività umana.
Chi pratica uno sport non lo fa direttamente per la collettività, magari lo fa indirettamente in quanto diventa più forte, ma di solito non mette il suo potenziale di energia al servizio della collettività. Per la comunità non è di nessuna importanza il fatto che impieghi energia lavorativa facendo dello sport, che lo fa stancare come a spaccar legna. Lo spaccar legna sì che ha importanza in campo economico.
Questo significa che l’esplicare forza lavoro è qualcosa che in sé e per sé non viene affatto preso in considerazione a livello economico. Ma quello che si produce grazie all’impiego della forza lavoro, quello sì che viene preso in considerazione nella vita economico-sociale. Bisogna guardare a quello che per mezzo della forza lavoro viene prodotto, poiché è quello che ha valore per la collettività.
Perciò anche all’interno della vita economica può essere preso in considerazione soltanto il prodotto realizzato mediante la forza lavoro. E l’amministrazione dell’economia deve occuparsi esclusivamente del valore reciproco dei vari prodotti.
Il lavoro deve restare completamente fuori dal circuito economico. Ha il suo giusto posto sul terreno giuridico, sul terreno di cui parleremo domani, dove ogni individuo maggiorenne deve esprimere il suo giudizio da pari a pari rispetto ad ogni altro individuo maggiorenne. Il genere, la durata e il carattere del lavoro vengono stabiliti dai rapporti giuridici che si stabiliscono fra gli uomini. Il lavoro va quindi tirato fuori dal processo economico.
Allora al processo economico resterà solo quella che possiamo definire la regolazione del valore reciproco delle merci, la regolamentazione di quali prestazioni uno debba ricevere in cambio della propria prestazione. A questo dovranno provvedere quegli uomini che emergono dalle associazioni stipulate fra produttori e altri produttori, fra produttori e consumatori e così via.
In economia si avrà dunque a che fare unicamente con la formazione dei prezzi. Il lavoro non sarà un fattore che viene regolamentato all’interno della vita economica, ma ne verrà invece del tutto estromesso.
Se il lavoro resta all’interno della vita economica bisogna pagarlo a partire dal capitale. In tal modo si origina proprio quello che nella vita economica più recente può essere definito l’anelito al puro profitto, al puro e semplice guadagno. In questo modo infatti chi vuole fornire prodotti economici è inserito nel bel mezzo di un processo che trova la propria conclusione nel mercato. E qui chi vuole davvero capire dovrebbe rivedere un’idea, un concetto che oggi viene formulato in modo del tutto sbagliato.
Si dice: il produttore capitalista immette i suoi prodotti sul mercato per trarne profitto. Vuole solo ricavarne un profitto. E dopo che per lungo tempo i pensatori socialisti hanno affermato con un certo diritto che l’etica nel suo insieme non ha niente a che vedere con questo trarre profitto, con questo “approfittare”, che con esso ha a che fare solo il pensiero economico, oggi si è di nuovo disposti a considerare il profitto, il guadagno, da un punto di vista etico e morale!
Io invece intendo parlare non da un’ottica etica, e nemmeno da una unilateralmente economica, ma dal punto di vista della società nel suo insieme. E allora bisogna chiedersi: che cos’è ciò che si manifesta nel guadagno, nel profitto? È qualcosa, cari ascoltatori, di cui nel contesto vero e proprio dell’economia si può parlare solo alla stregua del fatto che quando la colonnina di mercurio sale si sa che nella stanza fa più caldo.
Quando uno dice: questa colonnina di mercurio mi indica che la temperatura è aumentata, sa bene che non è la colonnina di mercurio a riscaldare la stanza. Essa indica solo che la temperatura del locale è aumentata per via di altri fattori. Così il guadagno che risulta sul mercato dalle nostre attuali condizioni produttive altro non è che l’indicatore del fatto che si è autorizzati a fabbricare quei prodotti, in quanto fruttano un utile.
Vorrei, infatti, che mi si dica dove mai al mondo si trovi un’indicazione che un prodotto ha diritto di essere fabbricato se non risulta che, una volta che lo si è prodotto e messo sul mercato, sortisce un profitto. È l’unica indicazione del fatto che la struttura economica va organizzata in modo tale che salti fuori questo prodotto. E così si capisce che un prodotto non va realizzato se risulta che, immettendolo sul mercato, non c’è smercio, nessuno lo richiede, non produce nessun guadagno.
Così stanno le cose, non secondo le chiacchiere e le ciance che parlano di domanda e offerta nelle teorie economiche. Il fenomeno originario, archetipico, in questo campo è che oggi solo e soltanto il cosiddetto profitto dà la possibilità di dirsi: puoi realizzare un certo prodotto, perché esso avrà un certo valore all’interno della comunità umana.
Cari ascoltatori, la necessaria trasformazione del mercato, oggi così importante, avrà luogo quando nella nostra vita sociale sarà presente un effettivo principio di associazione. Allora non saranno la domanda e l’offerta impersonali, staccate dall’uomo, a decidere sul mercato se un prodotto dev’essere fabbricato o meno. Saranno le associazioni, in base alla volontà sociale degli individui in esse coinvolti, a far emergere da sé altre persone che si occuperanno di analizzare il rapporto che c’è fra il valore di un bene prodotto e il suo prezzo in denaro.
Oggi, il valore di una merce che viene prodotta non viene per tanti versi neanche preso in considerazione. Esso costituisce sì l’impulso alla domanda, ma questa domanda è alquanto problematica nella nostra vita sociale attuale, perché c’è sempre da chiedersi se si hanno anche i mezzi, le possibilità patrimoniali per poter comprare. A che serve avere dei bisogni, se non si dispone dei mezzi necessari per soddisfarli? A quel punto la cosiddetta “domanda” tace.
Si deve creare un elemento di raccordo fra i beni da una parte e i bisogni umani che danno un valore a quei beni, a quei prodotti dall’altra Ciò di cui si ha bisogno riceve il suo valore umano in base al bisogno stesso. Dall’ordinamento sociale dovranno emergere delle istituzioni che creino un ponte tra il valore impresso ai prodotti dai reali bisogni umani e i prezzi che tali prodotti devono avere.
Oggi il prezzo viene dettato dal mercato in base alla presenza di persone in grado di acquistare questi beni, dotate cioè del denaro necessario per comprarli. Un vero ordinamento sociale dev’essere invece orientato a far sì che coloro che devono avere dei beni per via dei loro bisogni legittimi possano anche ottenerli. Ciò significa che il prezzo va assimilato al valore dei beni, che gli deve corrispondere realmente.
Al posto dell’odierno mercato caotico deve subentrare un’istituzione mediante la quale i bisogni degli uomini, il loro consumo, non vengano più tiranneggiati come accade ora per via delle cooperative operaie di produzione o della grande cooperativa socialista. L’associazione sarà un’istituzione che analizza il consumo degli uomini per stabilire di conseguenza come venirgli incontro.
Per questo è necessario che, sotto l’influsso del principio d’associazione, venga introdotta la possibilità reale di produrre le merci di modo che corrispondano ai bisogni rilevati. Questo vuol dire che ci devono essere istituzioni con persone che studiano i bisogni. La statistica può solo recepire un istante, uno spaccato del presente, non è mai indicativa per il futuro. I bisogni che sorgono di volta in volta vanno sempre di nuovo studiati, e le misure per la produzione vanno adottate di conseguenza.
Se un articolo tende a diventare troppo caro, questo è segno che troppo poche persone lavorano per produrlo. Vanno allora condotte delle trattative per trasferire degli operai da altri settori produttivi a questo, così che la produzione di questo articolo aumenti. Se invece un articolo tende a diventare troppo a buon mercato, se cioè se ne ricava troppo poco, allora bisogna introdurre delle trattative per far sì che a questo articolo lavorino meno persone.
Vuol dire che in futuro il soddisfacimento dei bisogni dipenderà dal modo in cui le persone vengono assegnate ai loro posti di lavoro. Il prezzo del prodotto è condizionato dal numero di persone che lavorano per realizzarlo, ma grazie ai provvedimenti delle associazioni diventerà sostanzialmente simile o uguale al valore che il bisogno umano reale deve attribuire al prodotto in questione.
Allora vediamo come al posto del mercato aleatorio subentrerà la ragione degli uomini, come il prezzo esprimerà ciò che gli uomini hanno negoziato, a seconda dei contratti conclusi mediante le istituzioni esistenti. Vediamo il mercato trasformarsi nel senso che la ragione umana prende il posto della cieca casualità del mercato oggi in vigore.
Non appena separiamo la vita economica dagli altri due ambiti di cui parleremo nei prossimi giorni, vediamo che essa viene posta su una base sana e ragionevole. I due campi sono quello giuridico o statale e quello culturale, che tratteremo anche in relazione alla vita economica, così che, ciò che oggi non può che risultare un po’ oscuro, verrà poi chiarito. In economia si guarderà solo al modo in cui si esplicano attività economiche.
Non è più necessario compromettere i prezzi delle merci per il fatto che questi prezzi devono anche stabilire la durata o la quantità di lavoro da svolgere o quanto questo lavoro dev’essere retribuito o cose del genere. Nella vita economica si ha a che fare solo con il valore reciproco delle merci. In questo modo ci si pone su un terreno sano anche nell’economia, terreno che va salvaguardato per l’intera vita economica.
In una vita economica di questo tipo ciò che oggi può essere un’illusione solo per via dell’economia monetaria in cui il denaro stesso è oggetto dell’economia sarà ricondotto al suo fondamento naturale, autentico. In futuro non si avrà più un’economia di denaro e in vista del denaro, poiché le istituzioni si occuperanno del valore reciproco delle merci.
Ciò significa che si ritornerà alla realtà naturale dei beni e quindi anche alla reale produttività degli uomini, alla loro bravura.
E non sarà più possibile far dipendere i rapporti di credito dalla presenza o meno di denaro, o dal fatto che il denaro venga “rischiato” in questo o in quel modo, ma i rapporti di credito dipenderanno dal fatto che ci siano uomini capaci di fare questo o quello, di realizzare questa o quella cosa. Sarà la bravura umana, sarà il talento dell’uomo ad avere credito. E nel momento in cui sono i talenti umani a stabilire i limiti entro i quali concedere credito, questo credito non potrà essere concesso oltre le capacità reali degli uomini.
Se vi limitate a dare denaro perché venga amministrato, allora ciò che viene così prodotto potrà essere consumato da un pezzo – il denaro continuerà ad essere amministrato. Se versate del denaro solo per il talento umano, allora col cessare della bravura umana cessa anche ciò che si può amministrare col denaro. Di questo parleremo nei prossimi giorni.
La vita economica può infatti procedere con le proprie gambe in modo sano solo se gli altri due campi indipendenti, l’ambito giuridico e quello culturale, stanno al suo fianco. Ma allora all’interno della vita economica tutto deve risultare da presupposti prettamente economici. I beni materiali vengono prodotti a partire da presupposti genuinamente economici.
Basta pensare a qualcosa che nella vita sociale rappresenta una specie di scarto della vita economica, per vedere come un pensare sanamente economico debba rimuovere alcuni aspetti di quello che ancor oggi viene dato per scontato nell’ordinamento sociale, per cui si lotta come se si trattasse di un progresso.
Carissimi ascoltatori! Oggi fra quelli che credono di capire qualcosa della vita reale non c’è ancora quasi nessuno che pensi che non rappresenta affatto un progresso aggiungere a tutte le possibili tasse indirette o agli altri introiti dello Stato la cosiddetta imposta sul reddito, in particolare l’imposta sul reddito crescente. Oggi tutti pensano che sia giusto tassare il reddito.
Eppure, cari ascoltatori, per quanto possa sembrare paradossale all’uomo d’oggi, l’idea che si possa raggiungere una tassazione equa tassando il reddito deriva dall’inganno prodotto dall’economia monetaria.
Il denaro viene incassato, lo si usa per fare scambi economici. Attraverso il denaro ci si libera dalla concretezza del processo produttivo stesso. In un certo senso, nel processo economico il denaro causa il medesimo tipo di astrazione che subiscono i pensieri nel processo conoscitivo.
Ma come dai pensieri astratti non si possono far saltar fuori per incanto delle realtà, così anche dal denaro non si può far comparire nulla di reale se esso non è un semplice simbolo dei beni che vengono realmente prodotti, se non è per così dire una specie di contabilità, una contabilità corrente, scorrevole, se ogni cifra monetaria non rappresenta un certo bene.
Anche di questo dovremo parlare più dettagliatamente nei prossimi giorni, ma oggi va detto che un’epoca che è fissata sul modo in cui il denaro diventa oggetto autonomo dell’economia deve necessariamente considerare le entrate monetarie come la cosa da tassare in prima linea.
Ma, cari ascoltatori, in questo modo, gravando di imposte, ci si rende corresponsabili dell’economia monetaria. Si tassa quello che in effetti non è un bene reale, ma solo un segno che indica un bene. Si lavora con qualcosa di economicamente astratto.
Il denaro diventa reale solo quando viene speso. In quel momento entra nel processo economico, e non importa se lo spendo per divertirmi o per soddisfare i miei bisogni fisici e intellettuali o se lo investo in banca così che possa essere usato per il processo economico. Anche quando lo investo in una banca faccio una specie di spesa, questa è naturalmente una cosa da tener presente.
Nel processo economico il denaro diventa qualcosa di reale nel momento in cui smette di essere di mia proprietà per immettersi nel processo economico stesso. Agli uomini basta ricordarsi di una sola cosa: non serve a niente incassare molto. Se uno mette il suo grande incasso sotto il materasso, se lo tenga pure, ma quel denaro non sarà di nessuna utilità per il processo economico. Un vantaggio lo si ha solo con la possibilità di spendere molto.
E per la vita pubblica, per la vita realmente produttiva, i molti incassi sono il segno della possibilità che si ha di spendere altrettanto. Se nel sistema tributario si vuole creare qualcosa di non parassitario per il processo economico, ma qualcosa che sia una vera dedizione del processo economico alla collettività, allora il capitale va tassato nel momento in cui viene immesso nel processo economico.
E allora, cari ascoltatori, emerge il fatto sorprendente che l’imposta sulle entrate dev’essere trasformata in un’imposta sulle uscite, che vi prego di non confondere con l’imposta indiretta.
Spesso al giorno d’oggi le imposte indirette emergono come brame di certi governanti solo per il fatto che di solito le tasse dirette, quelle sugli introiti, non bastano. Quando parlo di imposta sulle uscite, non intendo dire imposte indirette e neanche dirette. Si tratta del fatto che nel momento in cui ciò che ho acquistato viene immesso nel processo economico, nel momento in cui diventa produttivo, viene anche sottoposto a tassa.
Cari ascoltatori, proprio dall’esempio delle tasse si vede come sia necessario cambiare modo di pensare, come la convinzione che sia importante soprattutto un’imposta sulle entrate costituisca un fenomeno collaterale di quel sistema monetario che è sorto nella civiltà moderna a partire dal Rinascimento e dalla Riforma.
Se si mette la vita economica sulla sua base giusta, allora sarà ciò che realmente partecipa all’economia, ciò che si inserisce nel processo produttivo, a fornire gli strumenti per produrre ciò che è necessario per la collettività. Allora ciò che ci vuole è un’imposta sulle uscite, non sulle entrate.
Vedete, cari ascoltatori: come ho già detto ieri, occorre cambiare mentalità. Finora in queste due conferenze ho potuto solo accennare ad alcune cose per sommi capi, ma nelle prossime quattro molte cose troveranno una ulteriore spiegazione.
Chi oggi dice cose simili, sa bene di suscitare scalpore a sinistra e a destra, sa che all’inizio non ci sarà quasi nessuno a dargli ragione, poiché tutte queste questioni sono state inghiottite dalle opinioni di partito.
Ma non si può sperare in una qualche salvezza se prima queste questioni non riemergeranno dall’ambito in cui infuriano le passioni partitiche per far ritorno al campo del pensiero oggettivo, desunto dalla vita reale. E si vorrebbe che, nel loro accostarsi alla triarticolazione dell’organismo sociale, gli uomini non giudichino in base a schemi di partito, a principi di parte, ma che per emettere i loro giudizi si lascino ispirare dall’intuito per la realtà.
Per questo motivo si continua a fare l’esperienza che proprio coloro che oggi dipendono più o meno dal puro consumo capiscono in fondo istintivamente e con una certa facilità quello che vuole un’idea realistica come quella della triarticolazione dell’organismo sociale.
Ma poi arrivano i capi, soprattutto quelli delle masse socialiste. E oggi non si deve nascondere che questi capi delle masse socialiste non sono affatto propensi a tener conto della realtà. Oggi c’è purtroppo da notare una cosa che, soprattutto in ambito economico, fa parte degli elementi impellenti della questione sociale:
Lavorando per la triarticolazione, abbiamo fatto l’esperienza di parlare alle “masse” e che queste, grazie al loro innato intuito per la realtà, hanno capito bene quanto è stato detto. Poi sono venuti i capi e hanno decretato: «Questa è un’utopia». In verità era solo qualcosa che non quadrava con quello che da decenni rimestano nella loro testa, così dicono ai loro fedeli seguaci che si tratta di un’utopia, che non è realtà.
E purtroppo di questi tempi si è formata in questo campo una fede cieca, un andar dietro da pecoroni, un terribile senso di autorità, per cui bisogna dire: quello che un tempo è invalso come ossequio verso l’autorità dei vescovi e degli arcivescovi della Chiesa cattolica non è niente in confronto al senso d’autorità della moderna massa operaia nei confronti dei suoi capi. Perciò a questi corifei risulta così facile far passare quello che vogliono.
Quello che ci vuole è soprattutto di mostrare ciò che c’è di onesto in questo campo, non ciò che dice il cliché partitico. Se in queste conferenze dovessi riuscire a dimostrare che l’obiettivo della triarticolazione è davvero inteso per il bene complessivo dell’umanità, senza differenza di classe, stato sociale e così via, allora avrei ottenuto quello a cui, con conferenze di questo genere, si può solo aspirare.
Risposte alle domande
(dopo la seconda conferenza)
Signor Ballmann: A un tecnico meccanico la questione si pone così: se lo si osserva si vede cosa si dovrebbe dire. Al tecnico che non ha direttamente a che fare con questioni monetarie, ma soltanto con la costruzione di una macchina o di un oggetto, la cosa dovrebbe presentarsi in questo modo: c’è una macchina in funzione che costa, mettiamo, 100.000 franchi. Ora diciamo che forse questa macchina lavora un mese all’anno, che può essere usata per un mese per questa fabbrica, per chi la ordina. Però ci sono altre tre o quattro fabbriche simili, e anche queste fabbriche hanno bisogno di tanto in tanto di una macchina come questa, che anche per loro costa 100.000 franchi. Qui si vede che se si pensasse a livello sociale si direbbe: un momento, questa macchina che adesso ciascuno utilizza solo un mese all’anno per la propria produzione potrebbe essere usata in modo che basti una sola macchina che viene fatta funzionare tutto l’anno. Sarebbero quindi forse trecento o quattrocentomila franchi, su cui adesso si pagano gli interessi in ogni fabbrica e su cui in base all’attuale sistema devono essere pagati gli interessi, che verrebbero meno se pensassimo su scala sociale. Diciamo che ci sarebbe una fabbrica che lo realizzerebbe e avrebbe per questo una macchina, e l’altra potrebbe ultimare il semilavorato. … Questo pensiero sociale, così come l’ho capito io, sarebbe quindi di grande aiuto. E con questo ho finito di esporre la mia opinione e chiedo al Dr. Steiner se questa opinione, così come l’ho intesa io, è in linea con la sua idea. Io credo che sia proprio così.
Rudolf Steiner: Forse posso rispondere subito dicendo che quanto ha appena detto questo signore conferma in pieno il principio di associazione. Quando si lavora in maniera del tutto individuale, senza che gli operai si associno fra loro e quindi lavorino insieme, è naturale che si verifichi ciò che Lei ha appena immaginato, e cioè che una macchina venga usata solo in parte. La piena utilizzazione può essere ottenuta solo se i diretti interessati si associano. Ecco dunque che quanto Lei dice è del tutto in linea con il principio di associazione.
Signor Marder: Il Dr. Steiner ha spiegato che il tracollo nell’Europa dell’est e in Ungheria deriva dal fatto che certi uomini hanno intrapreso qualcosa che probabilmente non hanno compreso nel modo giusto. Mi potrebbe fornire ulteriori informazioni su come si sarebbe dovuta affrontare la cosa in base alle circostanze che regnavano allora in Austria e in Ungheria, e come mai quello che c’è adesso in Ungheria è meglio di quel che c’era prima?
Rudolf Steiner: Desidero rispondere prima all’ultima domanda, nel senso di una conclusione che raggruppi le risposte – le volte prossime avremo ancora occasione di occuparci di altre domande.
Al giorno d’oggi, cari ascoltatori, in realtà – e va detto, senza provare né timore né speranza per le opinioni di questi ambienti – in ampie cerchie è diffusa l’opinione che quanto accade all’est sia qualcosa di terribile. E ci sono ambienti che vi vedono invece qualcosa di promettente per l’avvenire.
Di solito coloro che più o meno a ragione condannano le condizioni dell’est presentano a comprova l’una o l’altra cosa terribile che lì accade. Vengono descritte certe situazioni e alcune descrizioni possono far rabbrividire, è chiaro. Quelli che vogliono ritoccare i fatti, che sono dei sostenitori di quello che accade là, cercano di minimizzare o di negare le condizioni terribili.
Ma vedete, cari ascoltatori, in questo modo non si conclude nulla. Queste cose non possono essere giudicate in base a singoli sintomi. Possono andare all’est tanti giornalisti quanti volete, e descrivere tutte le cose che osservano – da simili descrizioni nessuno potrà formarsi un giudizio, per il semplice motivo che nessuno è in grado di dire quale parte degli orrori dell’est europeo, che non sono di certo piccoli, siano imputabili ai governanti attuali e quale alle conseguenze della terribile guerra. Le cose si intrecciano: le conseguenze della guerra e ciò che nasce a partire dalle condizioni attuali.
Quello che si vede e che accade oggi direttamente potrà anche essere oggetto di interessanti conversazioni da terza pagina, ma non fornisce alcun appiglio per una valutazione della situazione. Bisogna saper individuare le intenzioni a partire dalle quali si verifica quello che viene fatto all’est con l’intento di introdurre un nuovo futuro sociale dell’umanità.
Ora questo signore mi chiede se credo che si sarebbe potuto fare qualcos’altro o se le condizioni attuali non siano più promettenti di quelle passate.
So molto bene quanto poco promettenti fossero le precedenti condizioni zariste. Che siano piaciute a moltissima gente deriva dal fatto che queste persone non si sono create le basi per un sano giudizio, né avevano la volontà di crearselo. Chi prenda davvero in esame ciò che è stato fatto dallo zarismo – soprattutto quello che lo zarismo ha combinato in tempi recenti – può forse già adesso arrivare a chiedersi: che cosa è meglio, quello che c’era prima o quello che c’è oggi?
Ma neanche questa è la cosa più importante. La questione è invece: quello che è subentrato oggi è sostanzialmente qualcosa che ha davvero migliorato le vecchie situazioni? Allora bisogna essere in condizione di analizzare le intenzioni – e in un simile campo occorre mantenere un giudizio imparziale, che per esempio potete procurarvi occupandovi di intenzioni come quelle che persegue un Lenin.
Se vi leggete qualcosa come Stato e rivoluzione di Lenin, vi trovate le intenzioni di Lenin da prima della guerra, dato che il libro è stato scritto a quei tempi. Si può dire che in un certo senso Lenin ha addirittura ragione quando dà una lavata di capo a quelli che sono marxisti a metà o per un quarto o per tre quarti, quando ritiene di essere l’unico marxista davvero coerente. In futuro, dice, gli uomini dovranno essere inseriti nell’ordinamento sociale in modo che ciascuno vi possa vivere secondo le proprie capacità e i propri bisogni. Questo però dovrebbe creare un’altra situazione che si sostituisce a quella attuale iniqua e impossibile.
Ora si trova in Lenin una discussione estremamente interessante, in cui finisce per dire: ma con gli uomini che ci sono oggi non è possibile vivere nell’ordinamento sociale in base alle capacità e ai bisogni di ognuno, questo potrà avverarsi solo quando ci saranno altri uomini, quando sorgerà una razza umana completamente diversa. Occorre prima creare questa razza umana del tutto diversa.
Vedete, cari ascoltatori, lì avete un procedere a vele spiegate nell’irrealtà più estrema, il contare su qualcosa che non è affatto possibile. Per mezzo delle condizioni là prodotte infatti non viene di sicuro allevata quella nuova razza umana che possa poi introdurre delle condizioni sociali eque. È su un terreno così friabile che poggiano le intenzioni rispetto a ciò che accade. E allora si può inorridire per i dettagli o trovarli inevitabili, lodarli o biasimarli, non è questo che conta. Importante è rendersi conto che si sta facendo affidamento su idee irreali, su illusioni.
E per questo ciò che viene realizzato in questo modo altro non è che una dilapidazione di ciò che è stato costruito in passato. Me ne sono accorto in maniera singolare – a volte le cose più importanti si presentano in sintomi – alcuni mesi fa a Basilea, dove ho parlato ad un’assemblea dello stesso argomento di cui sto parlando a voi adesso. Ad un certo punto un signore si è alzato e ha detto: «Sì, tutto questo è molto bello e lo sarebbe anche se venisse realizzato. Ma non potrà essere realizzato prima che Lenin sia diventato l’imperatore del mondo.»
Vedete, cari ascoltatori, quella volta ho dovuto rispondere: «Se qualcosa dev’essere socializzato, allora la prima cosa da rendere sociali sono i rapporti di sovranità.» Ma questo socialista, che era un seguace di Lenin, voleva fare di Lenin un sovrano universale, l’imperatore del mondo o il papa dell’economia mondiale. In questo modo però i rapporti di sovranità non vengono socializzati e neanche democratizzati, ma vengono monarchizzati, anzi tiranneggiati. Si crea un’autocrazia. Chi sostiene una cosa simile non ha capito affatto che bisogna cominciare a socializzare prima di tutto i rapporti di sovranità.
Così, per chi osserva più attentamente, emerge qualcosa di molto singolare circa la realtà dell’est odierno. I fautori delle intenzioni attuali dell’est credono di poter raggiungere in questo modo qualcosa di costruttivo. No, cari ascoltatori, quello che là si intende non è qualcosa di opposto allo zarismo, ma è la quintessenza dello zarismo, solo ulteriormente perfezionato per un’altra classe, è una prosecuzione dello zarismo che lo rende peggiore di quanto non fosse prima – come coloro che si trovano all’ala più a sinistra dei partiti radicali oggi non nascondono più di non essere dei progressisti, bensì solo dei reazionari ancora più conservatori di quelli che prima di loro hanno sostenuto la reazione.
Chiedendo la dittatura di una classe, da questa classe non scaturisce nient’altro che la tirannia di alcuni singoli, non voglio dire “eletti”. Non sono certo degli eletti, ma sono quelli che gettano polvere negli occhi agli altri. Nascerebbe la tirannia di quelli tra i provenienti dalle singole classi che gettano sabbia negli occhi degli altri. Si verificherebbe solo un sovvertimento di uomini, ma le condizioni non migliorerebbero, anzi tenderebbero sostanzialmente a peggiorare.
Si tratta quindi di individuare veramente il principio che sta alla base, di pensare a partire dalla realtà, non da grigie teorie preconcette. Vedete, talvolta coloro che pensano in modo sano a partire dalla realtà sono in grado di dare un sano giudizio su singoli fenomeni.
Oggi vi ho illustrato che la plutocrazia ha un effetto disorientante sulle reali condizioni sociali. Bisogna solo rendersene conto. La plutocrazia agisce in modo che il denaro produca rapporti di potere, rapporti di tirannia, che al posto delle vecchie potenze conquistatrici e compagnia bella subentri il potere del denaro.
In Europa ci si rende conto ancora poco di queste cose. C’è un proverbio americano che dice più o meno: «Essersi arricchiti con la sola economia capitalistica significa ritrovarsi in braghe di tela dopo tre generazioni.» Il carattere illusorio dell’economia di denaro viene lì presentato molto chiaramente, come il dissolversi di qualcosa di puramente immaginario. Si può diventare miliardari, e dopo tre generazioni i discendenti di sicuro girano in braghe di tela, perché il denaro diventa il padrone degli uomini.
Quelli che lavorano secondo le intenzioni di Lenin non vogliono trovare principi nuovi, non vogliono studiare a partire dalle condizioni di vita degli uomini come dev’essere la struttura sociale. Quello che vogliono è applicare ciò che hanno appreso sul capitalismo a un grande capitalista reclutato dall’enorme Stato a loro disposizione. Quello che ha agito nella dominazione capitalistica continuerà ad agire attraverso l’economia di spionaggio, di protezionismo e quant’altro.
Prima si diceva: trono e altare. All’est si dice: ufficio commerciale e macchina. Ma la superstizione è la stessa. Importante è di non voler creare nuove condizioni usando i vecchi concetti e limitandosi a introdurre una nuova classe di persone. L’importante è unirsi intorno a principi davvero nuovi, ad una concezione della vita realmente nuova.
Dopotutto questo risulta anche dalla realtà dell’evoluzione. Prendete ancora l’America: oggi ci sono un partito repubblicano e uno democratico. Se oggi si studiassero questi partiti senza sapere niente della storia, non si capirebbe come mai vengono chiamati in questo modo. Infatti il partito repubblicano non è repubblicano e quello democratico non è democratico, ma sono soltanto delegazioni di cricche, dove ciascuna rappresenta gli interessi particolari della propria brigata. I nomi dei partiti sono dei residui di tempi andati e hanno perso da tempo il loro significato originario. La realtà è ormai un’altra.
Oggi non si tratta di farsi abbagliare da qualche cliché partitico, ma di osservare in modo pratico la realtà. Di questo si tratta.
E chi osserva con sguardo pratico la realtà dell’est si dice quanto segue – forse posso raccontare una storiella, è importante che queste cose sulla sintomatologia dell’epoca non vengano taciute del tutto.
Quando nel gennaio del 1918 sono tornato dalla Svizzera a Berlino, ho parlato con un uomo profondamente immerso negli avvenimenti, molto coinvolto, e che da tempo conosceva la mia idea secondo la quale era giunta l’ora che nell’Europa centrale e orientale si capisse il concetto della triarticolazione dell’organismo sociale. All’epoca l’avevo elaborata e presentata in base alla situazione di allora alle persone che avrebbero potuto farne qualcosa.
L’uomo di cui vi parlo ne era al corrente. Gli sembrava molto plausibile che si dovesse uscire dalla miseria prendendo sul serio lo spirito. All’epoca se ne parlava già da parecchio tempo. Come vi dicevo, sono arrivato a Berlino – ricordatevi cosa c’era nel gennaio del 1918. Quando gli ho parlato dell’infelice idea, dell’idea impossibile – era un militare, un ufficiale di grado superiore – di riprendere quell’offensiva primaverile, quella terribile del 1918, invece di intraprendere un’azione spirituale, mi ha risposto: «Ma che cosa vuole? Kühlmann non ha forse avuto la triarticolazione in tasca? Sì che l’aveva in tasca, eppure ha stipulato Brest-Litovsk.»
Oggi per voi possono sembrare i racconti di un sognatore qualsiasi, ma io so che questa “fantasticheria” affonda le sue radici nella realtà: so che nel popolo russo ci sono gli elementi necessari per comprendere per primo l’idea della triarticolazione, se la si comunica nel modo giusto. È quello che sarebbe dovuto subentrare come azione spirituale al posto dell’azione insulsa di Brest-Litovsk. Fra l’Europa centrale e quella orientale sarebbe stata possibile una comunione che avrebbe rappresentato un’azione spirituale, un venirsi incontro su un terreno comune. Questo sarebbe stato qualcosa di completamente diverso!
Credo che quanto è stato instaurato dal leninismo sia un’importazione – vi ricordo solo che Lenin è stato condotto in Russia attraversando la Germania in un vagone piombato. Se si vuole parlare del militarismo tedesco bisogna dire che il leninismo è stato un’importazione. Vorrei ricordare che è lecito pensare che un’azione spirituale avrebbe potuto avere effetti ben diversi, solo che non c’è stata. Ignorando del tutto l’indole del popolo russo, è stata imposta una vuota retorica marxista universale sulla realizzazione di condizioni sociali che, se mai fossero state attuabili, avrebbero potuto essere attuate in Brasile o in Argentina o in qualsiasi altro paese, anche sulla Luna per quel che mi riguarda, proprio come è stato fatto in Russia senza tenere minimamente conto dell’indole particolare di quel popolo.
Questa superstizione, secondo la quale si può imporre qualsiasi cosa ugualmente a tutte le regioni della Terra, è la grande disgrazia dell’est, è quello che dà fondamento alla tirannia di un’idea che sarà terribile nei suoi risultati poiché saccheggia in modo abusivo ciò che è stato creato nel passato. Anche se si sostituisce a qualcosa di terribile, quello in cui è produttiva sono solo i resti, le vestigia del vecchio. Ma quando tocca a lei essere produttiva, si vede piombare nel nulla.
Cari ascoltatori, non farsi un’idea imparziale su queste cose costituisce oggi un’omissione sociale, poiché la situazione è straordinariamente grave. Per questo non è possibile valutare queste cose in base ad una qualsiasi opinione di partito, ma vanno invece giudicate tenendo conto di tutta la realtà.
Allora bisogna chiedersi: che cosa si sarebbe dovuto creare dalle fondamenta a partire dalla società russa stessa? Di certo non il leninismo, che è un’astrazione tale da affermare che prima bisogna creare una nuova razza umana. Il lavoro di Lenin non è quindi per i russi, ma per uomini che lui vuol far spuntare dal nulla per mezzo delle condizioni inverosimili da lui create. Questo è il dato di fatto. Alla base di quanto dico non c’è davvero né simpatia né antipatia, ma un intento di comprensione. Oggi il non osservare queste cose in tutta la loro gravità non porta a niente.
Un’altra domanda molto interessante è questa:
Qual è il rapporto fra quanto detto oggi e la scena della truffa monetaria di Mefistofele nel Faust di Goethe?
Cari ascoltatori, è interessante che venga posta questa domanda. Le si può rispondere indicando con quale profondità il goetheanismo osservasse le condizioni reali già ai tempi di Goethe. Cercate di immaginarvi tutta la scena della seconda parte del Faust, in cui Mefistofele, il diavolo, inventa la cartamoneta, dove presenta all’imperatore tutta la truffa del denaro. Cercate di vedervi questa scena davanti agli occhi. In fin dei conti avete una bella immaginazione, una rappresentazione metaforica di quella che oggi dev’essere considerara come realtà sociale: la totale separazione dell’economia monetaria dalla realtà concreta, presentata come una creazione dello «spirito che sempre nega», che non crea mai niente di positivo – una grandiosa raffigurazone poetica!
Mostra come Goethe abbia dato forma poetica a qualcosa che a quei tempi non avrebbe potuto dire apertamente, dato che perfino il duca Karl August di Weimar, uomo decisamente spregiudicato, non sarebbe stato più di tanto in grado di capire quello che Goethe intendeva con questa creazione del denaro da parte dello «spirito che sempre nega». Ma Goethe le voleva dire le cose. Andate un po’ a vedere quante idee di questo tipo ci sono nel suo romanzo Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister. Goethe voleva esprimersi. Nella sua epoca non poteva esprimersi in modo diverso da come ha fatto, e proprio in questa scena ci sono moltissimi intuiti con impulsività in campo sociale.
Un po’ alla volta si capirà cosa significhi il fatto che Goethe sia stato in evoluzione per tutta la sua vita. Al giorno d’oggi è qualcosa che si capisce molto poco, perché oggi si parla di evoluzione nelle scienze naturali, ma non dell’evoluzione dell’uomo nel corso della sua vita. A vent’anni si è maturi per essere eletti al parlamento, scrivere articoli di terza pagina, esprimere giudizi su ogni cosa possibile. Si pensa ben poco al fatto che ci si debba evolvere ulteriormente, non è vero? Goethe invece ci pensava. Era abbastanza consapevole di essersi conquistato negli ultimi anni della sua evoluzione delle cose di cui non disponeva in gioventù.
C’è un’ottavina piuttosto simpatica tratta dalle opere postume di Goethe, in cui lui si è espresso a proposito di quelli che dicevano: «Eh sì, Goethe è diventato vecchio. Le opere giovanili – all’epoca era stata pubblicata solo la prima parte del Faust –, quelle sì che testimoniano una vera forza artistica, ma il vecchio Goethe è proprio invecchiato.» Lo si è detto anche dopo la sua morte. Vedete, Vischer ha definito la seconda parte del Faust un lavoro abborracciato della vecchiaia. Per il resto non ho niente da obiettare a Vischer, che stimo molto. Ma era un perfetto filisteo, borghese fin sopra i capelli, che non poteva capire ciò che Goethe ha conseguito grazie a un lungo cammino interiore.
Goethe stesso ha lasciato come dicevo un’ottavina valida per i contemporanei e non solo. Ve la leggo:
«Ora lodano il Faust.»
Si riferisce alla prima parte del Faust, la seconda non era ancora stata data alle stampe, era un’opera dell’evoluzione matura –
«e quanto d’altro
nei miei scritti rintrona
a loro comodo.
Il vecchio su e giù
si rallegra assai;
per la marmaglia io non sarei
più quello di prima!»
Goethe era ben consapevole del fatto di aver raggiunto grazie alla propria evoluzione qualcosa che doveva unicamente all’età avanzata. E così, quello che ha “nascosto” nella seconda parte del Faust è davvero artistico ed è quando lo si rappresenta euritmicamente – come vogliamo fare prossimamente con la scena della seconda parte del Faust sulla cura – che se ne nota l’artisticità anche nella forza creativa.
Ma gli uomini non prestano attenzione all’evoluzione interiore e pensano di trovare una visione del mondo matura citando il sentimento astratto e affermando che in Goethe c’è già tutto e citano: «Il nome è solamente un suono, un fumo. Il sentire è tutto. Chi può nominare e riconoscere Colui che tutto abbraccia e tutto regge» – e così via.
E questo dovrebbe avere più valore di una concezione del mondo matura! Perfino i filosofi lo citano, dimenticandosi completamente che Goethe l’ha messo in bocca a Faust mentre cerca di catechizzare una ragazzina di sedici anni. L’insegnamento all’adolescente viene citato in contrapposizione ad una concezione matura del mondo! Sono molte le cose in cui oggi bisognerebbe cambiare modo di pensare, e il goetheanismo è già qualcosa che lo consente. E proprio come questa scena con la truffa monetaria, si potrebbe richiamare l’attenzione su altre cose tratte da Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister, che potrebbero mostrare che cos’è l’evoluzione umana, come si possa trarre ispirazione da questo Goethe.
Mi è stato anche chiesto:
Come dev’essere pagato il salario se non dal ricavato della merce?
Vedete, cari ascoltatori, è decisamente interessante riflettere sulla retribuzione del lavoro – il tempo che ci resta è talmente poco che posso solo occuparmene brevemente. È significativo il fatto che a poco a poco la vita economica con esclusione di ogni altra cosa abbia avuto un effetto talmente ipnotico da far subire al programma socialista una completa trasformazione, proprio per quanto riguarda queste cose, all’epoca in cui l’umanità ha cominciato a cullarsi nella grande illusione.
Entrare nel merito di questi tre programmi fa parte dello studio più importante del moderno movimento operaio:
• il programma di Eisenach,
• il programma di Gotha,
• il programma di Erfurt.
Se prendiamo i programmi fino a quello di Erfurt, redatto nel 1891, troviamo ancora dappertutto la consapevolezza di dover lavorare a partire da determinati ideali di giustizia, da convinzioni politiche. Per questo motivo le due richieste principali presenti in quei vecchi programmi erano: l’abolizione del salario e la creazione dell’uguaglianza in merito ai diritti politici.
È vero che il programma di Erfurt è semplicemente economico, ma tende a politicizzare, come vi ho descritto oggi. Le principali richieste che avanzava sono: trasferimento dei mezzi di produzione all’amministrazione collettiva, alla proprietà collettiva, e produzione effettuata dalla collettività. Il programma veniva stabilito a livello puramente economico, ma era pensato secondo categorie politiche. Oggi si dà talmente per scontato l’attuale ordinamento sociale, che su vasta scala non ci si rende affatto conto di come il salario in quanto tale sia in realtà una menzogna sociale.
La realtà del rapporto che c’è fra il cosiddetto lavoratore salariato e il cosiddetto direttore d’impresa è quella di una collaborazione. In realtà quello che avviene è un contrattare – che viene solo camuffato da ogni tipo di rapporto ingannevole, perlopiù rapporti di potere e così via –, per venire a un’intesa sulla distribuzione del ricavato.
Volendo esprimersi in maniera paradossale si potrebbe dire: il salario non esiste affatto, quello che esiste già oggi è la distribuzione del ricavato. Solo che di solito oggi chi è debole dal punto di vista economico al momento della spartizione viene imbrogliato. Di questo si tratta.
L’importante è di non trasporre nella realtà qualcosa che si basa solo su un errore sociale. Nel momento in cui la struttura sociale è così come l’ho descritta nel mio libro I punti essenziali della questione sociale, risulta evidente la natura di una collaborazione fra i cosiddetti lavoratori e i datori di lavoro. E del resto questi concetti di “lavoratore” e “datore di lavoro” cessano di esistere, e resta una pura e semplice intesa riguardo alla spartizione del ricavato.
A quel punto il rapporto salariale non ha più nessun senso. Non si deve neanche pensare di pagare il lavoro in quanto tale. Questo è ovviamente l’altro lato della medaglia. Il lavoro viene subordinato ad un rapporto giuridico – ne parlerò soprattutto domani. La quantità e il tipo di lavoro vengono determinati in ambito giuridico, nello stato di diritto. Il lavoro, come le forze di natura, fa parte delle basi della realtà economica. Ma ciò che viene prodotto non potrà costituire il criterio per un salario di qualsiasi genere.
Nell’ambito economico conta esclusivamente la prestazione. La cosa più importante è conoscere il fondamento della vita economica, la sua cellula originaria. Questa cellula primordiale l’ho descritta spesso in questo modo:
Sostanzialmente le misure da me oggi descritte devono tendere a far sì che, grazie all’efficacia dell’associazione, ogni uomo riceva in cambio di ciò che produce ciò che lo metta in condizione di soddisfare tutti i suoi bisogni fino al momento in cui avrà realizzato un altro prodotto uguale.
In parole povere: se produco un paio di stivali, grazie alle istituzioni di cui vi ho parlato oggi, questi devono avere un valore tale per cui io ricevo in cambio quello che mi occorre finché non ne avrò realizzato un altro paio. Non può quindi trattarsi di fissare un salario come remunerazione del lavoro, ma di stabilire i prezzi reciproci dei prodotti. Naturalmente nel calcolo va compreso tutto ciò che serve per l’assistenza agli invalidi, ai malati, per l’educazione dei bambini e via dicendo. Di questo dovremo ancora parlare.
Si tratta di creare una struttura sociale tale per cui la prestazione, il risultato del lavoro occupi davvero una posizione di primo piano, e che il lavoro stesso al contrario venga fondato su un rapporto giuridico, poiché non può essere regolato se non in modo che l’uno lavori per l’altro. Ma il modo in cui l’uno lavora per l’altro dev’essere regolamentato in campo giuridico, non va cercato nella mentalità di mercato propria dell’economia. Domani vedrete che questi pensieri poggiano su una base assolutamente ragionevole.
Poi mi si chiede anche come dovranno essere rilevate le uscite.
Cari ascoltatori, è molto facile registrare le uscite per il semplice fatto che non si possono nascondere. Ogni volta che inserisco qualcosa nel processo sociale, questo può essere naturalmente rilevato, proprio come viene registrata una lettera spedita per posta, dove l’ufficio postale non mancherà di farmi pagare il francobollo e così via. Chi rifletterà su questi singoli provvedimenti particolari non li troverà poi troppo difficili.
E ancora:
come si comportano i rapporti di credito agricoli?
Oggi non abbiamo più tempo per occuparci di queste cose. Nel corso delle prossime conferenze tornerò a parlare delle condizioni agricole in altri contesti.
Terza conferenza
La vita giuridica:
compiti e limiti della democrazia.
Diritto pubblico e diritto penale
Zurigo, 26 ottobre 1919
Cari ascoltatori!
Per crearsi dei concetti giusti sulla vita sociale bisogna capir bene che rapporto c’è tra gli uomini – che nella loro convivenza danno origine alla vita sociale – e le istituzioni nelle quali vivono.
Chi osservi con spassionatezza la vita sociale, scoprirà che in fin dei conti tutto ciò che ci circonda in fatto di istituzioni esterne proviene dai provvedimenti e dalla volontà degli uomini stessi.
E chi giunge a questa convinzione finirà per dirsi che nella vita sociale tutto dipende in primo piano dal fatto che gli uomini si rivelino individui sociali o asociali in base alle loro forze, alle loro capacità e alla loro mentalità nei confronti di altre persone. Gli individui con una struttura mentale sociale, con una visione comunitaria della vita, daranno origine a istituzioni che favoriscono la socialità.
E su vasta scala si può dire che il fatto che il singolo sia in grado di avere le entrate adeguate al proprio sostentamento dipende da come i suoi simili gli forniscono gli strumenti per questo mantenimento, se sanno lavorare per lui in modo che possa mantenersi con questi mezzi. Per essere del tutto concreti: che il singolo possa comprare pane a sufficienza dipende dal fatto che gli uomini adottino misure tali per cui chiunque lavori, chiunque faccia qualcosa, possa ottenere un’adeguata quantità di pane in cambio del proprio lavoro, della propria prestazione.
D’altro canto, il fatto che il singolo sia in grado di dare efficacia al proprio lavoro, di occupare effettivamente il posto in cui gli è possibile procurarsi i mezzi necessari al suo sostentamento, dipende a sua volta dal fatto che gli uomini fra i quali vive abbiano o meno adottato delle misure sociali che gli consentano di occupare un posto di lavoro adeguato ai suoi talenti.
Cari ascoltatori, basta un’osservazione un pochino spassionata della vita sociale per rendersi conto che quanto ho appena detto è una sorta di assioma, una specie di massima fondamentale evidente da sé, nei confronti della questione sociale. E sarà difficile dimostrare un tale principio a chi non lo riconosce, poiché tali persone non sono disposte a guardare la vita senza pregiudizi – e lo si può fare in ogni ambito della vita – per convincersi che le cose stanno davvero così.
Però, cari ascoltatori, per l’uomo moderno questo concetto ha qualcosa di molto spiacevole, per il fatto che per lui la cosa più importante è che non lo si chiami in causa personalmente. Accetta senza problemi che si parli della necessità di migliorare le istituzioni, di trasformarle, ma quando il discorso si sposta sull’esigenza che lui stesso cambi qualcosa nella propria disposizione d’animo, nel proprio modo di vivere, allora lo sente come un attacco diretto alla sua dignità di persona umana. Non ha problemi a sentir dire che le istituzioni devono ricevere un’impronta di solidarietà sociale, ma non sopporta che si chieda a lui di comportarsi in modo sociale.
E così nella recente evoluzione storica dell’umanità è subentrato qualcosa di molto singolare. Durante il secolo scorso, come ho già esposto nella prima conferenza, la vita economica ha lasciato dietro di sé tutte le convinzioni, giuridiche e culturali, che gli uomini hanno elaborato su di essa.
Nella prima conferenza ho richiamato la vostra attenzione su come proprio la critica sociale di Woodrow Wilson arrivi a fargli affermare che la vita economica ha imposto le proprie esigenze, è progredita, ha assunto determinate forme. La vita giuridica, invece, e quella culturale, con le quali cerchiamo di governare questa vita economica, non hanno tenuto il passo con essa, sono ancora ferme su vecchie posizioni. Ma in tal modo, cari ascoltatori, si tocca una realtà molto importante dell’evoluzione umana più recente.
Con l’apparizione di complesse strutture tecniche e dell’inevitabile assetto capitalistico e imprenditoriale dell’economia, la vita economica ha continuato a far valere le sue esigenze. Oserei dire che le realtà della vita economica sono gradualmente sfuggite di mano agli uomini, assumendo più o meno un andamento autonomo.
L’uomo non ha trovato la forza di padroneggiare la vita economica a partire dalle proprie idee, dalle proprie convinzioni. L’uomo d’oggi ha voluto formare sempre più i suoi concetti giuridici e i suoi progetti culturali muovendo da rivendicazioni economiche, dall’osservazione della vita economica così com’è di fatto.
Si può quindi dire che l’elemento caratteristico nell’evoluzione dell’umanità degli ultimi secoli sta nel fatto che sia i concetti giuridici, tramite i quali gli uomini tendono a vivere in pace fra di loro, sia quelli della vita culturale, mediante i quali vogliono sviluppare e organizzare i propri talenti, sono diventati sempre più dipendenti dalla vita economica.
Non si nota affatto quanto in quest’epoca le idee e il trattamento vicendevole degli uomini siano diventati dipendenti dalla vita economica. È ovvio che anche le istituzioni degli ultimi secoli sono state create dagli uomini stessi, ma non le hanno create tanto a partire da nuove visioni o idee, quanto piuttosto da istinti inconsci, da impulsi involontari.
In tal modo si è prodotto qualcosa che in realtà potremmo definire una certa anarchia nella struttura dell’organismo sociale. Nelle prime due conferenze ho già delineato questa fisionomia anarchica da diversi punti di vista. Ma all’interno di questa struttura sociale odierna si sono per l’appunto sviluppate le condizioni che hanno poi portato alla forma moderna della questione proletaria.
Che cosa ha visto in primo piano l’operaio che, strappato al suo mestiere, è stato inchiodato alla macchina, stipato in una fabbrica, mentre osservava la vita che si svolgeva intorno a lui?
Nella sua vita ha potuto più che altro vedere come qualsiasi cosa egli sia in grado di pensare, o qualunque diritto egli abbia nei confronti di altri uomini, come tutto ciò dipenda e sia determinato da quei rapporti di potere economici in cui per lui si evidenzia la sua impotenza economica rispetto a chi è economicamente forte.
Si può allora dire che nelle cerchie dirigenti, dominanti, è nata una certa negazione della verità fondamentale secondo la quale le istituzioni umane hanno origine dalla vita cosciente degli uomini stessi. Gli uomini hanno dimenticato di far valere questa verità nella vita sociale. Le classi dirigenti si sono abbandonate a poco a poco, direi istintivamente, ad una vita – se non proprio ad una convinzione – che ha reso la cultura e il diritto dipendenti dai mezzi di potere economico.
Da questo però ha avuto origine un dogma, una concezione della vita di pensatori socialisti e dei loro seguaci, secondo la quale nell’evoluzione umana le cose devono stare necessariamente così, in base alla quale non è possibile che l’uomo organizzi i rapporti giuridici e la vita culturale a partire dalle proprie convinzioni. È nato il dogma secondo il quale la vita culturale e quella giuridica non possono che essere un’appendice delle realtà economiche, dei rami economici di produzione e così via.
E così in vasti ambienti la questione sociale è sorta sotto forma di una rivendicazione precisa che aveva alla base la convinzione: la vita economica crea la vita giuridica, la vita economica decide della vita culturale – quindi bisogna trasformare la vita economica in modo che produca una vita giuridica e una vita culturale adeguate alle esigenze di queste cerchie.
Dalle abitudini di vita delle cerchie dominanti, la classe operaia ha imparato a portare a coscienza quello che gli altri vivevano a livello istintivo, trasformandolo così in un dogma.
E noi oggi ci troviamo di fronte alla questione sociale in maniera tale per cui c’è in tantissime persone l’idea che basti trasformare la vita economica, le istituzioni economiche, perché tutto il resto – la vita giuridica e quella culturale – cambi da solo; l’idea che istituzioni economiche, tutte perfette da un punto di vista sociale, automaticamente forgino diritto e cultura a loro immagine.
Come conseguenza di questo modo di vedere non si è capito intorno a che cosa verte in realtà la questione sociale dei nostri tempi. In un certo senso questo dogma ha celato, ha velato la realtà vera della questione sociale con un grande inganno, con una grossa illusione.
E la realtà è che la dipendenza della vita giuridica e culturale da quella economica è un fatto della storia più recente, e che si tratta proprio di superare questa dipendenza diventata sempre più reale.
E mentre oggi in molti ambienti socialisti si pensa che per prima cosa vada modificata la vita economica, dopo di che tutto il resto seguirà automaticamente, bisogna porsi la domanda: quali condizioni vanno create dapprima in ambito giuridico e culturale affinché da un nuovo tipo di diritto e di cultura possano sorgere delle condizioni economiche che corrispondano alle esigenze di un’esistenza degna dell’uomo?
Quindi la prima domanda che dobbiamo porci non è: in che modo rendiamo la vita giuridica e quella culturale sempre più dipendenti dalla vita economica?, bensì: come possiamo uscire da questa dipendenza?
Queste riflessioni sono estremamente importanti, poiché ci mostrano quali sono gli ostacoli per una comprensione spregiudicata dell’attuale questione sociale, come uno degli ostacoli principali sia un dogma formatosi nel corso degli ultimi secoli. Questo dogma si è radicato al punto che al giorno d’oggi numerose persone colte e incolte, operai e non operai, deridono chiunque creda che un risanamento della vita giuridica e culturale possa aver luogo senza essere la conseguenza inevitabile di una trasformazione della vita economica stessa.
Il mio compito oggi è quello di parlarvi della vita giuridica, dopodomani vi parlerò di quella culturale.
Cari ascoltatori, la vita giuridica ha posto gli uomini, nella sua essenza e nel suo significato, a più riprese di fronte alla domanda: qual è la vera origine del diritto? Qual è l’origine di ciò che gli uomini ritengono legale e giusto nei loro rapporti interpersonali?
Questa domanda è sempre stata di estrema importanza per gli esseri umani. È invece molto strano che oggi in un’ampia cerchia di persone interessate al sociale la questione giuridica vera e propria sia come caduta in un buco, sia praticamente sparita. Certo, anche oggi ci sono molte discussioni accademico-teoriche sull’essenza e il significato del diritto eccetera, eccetera. Ma è caratteristica nella discussione effettuata da vaste cerchie proprio la scomparsa più o meno totale della questione giuridica.
Per spiegarlo devo richiamare la vostra attenzione su qualcosa che al giorno d’oggi si manifesta sempre più chiaramente, mentre fino a poco tempo fa veniva ancora ignorato del tutto.
Gli uomini hanno visto sorgere delle condizioni sociali insostenibili, e anche quelli che non sono stati sfiorati esistenzialmente da queste condizioni in contrasto con le esigenze della vita sociale hanno cercato di rifletterci sopra.
E mentre fino a poco tempo fa le cose erano davvero così radicali come vi ho appena detto, al punto che si veniva derisi se ci si aspettava qualcosa per le condizioni economiche dall’assetto giuridico e da quello culturale, oggi si sente fare sempre più spesso – ma si potrebbe dire da oscure profondità dell’anima – questa affermazione: «Sì, in fondo nell’atteggiamento sociale degli esseri umani gli uni verso gli altri giocano un ruolo anche questioni psicologiche e giuridiche.»
E gran parte della confusione che regna nelle condizioni sociali deriva dal fatto che i rapporti psicologici degli uomini e quelli giuridici sono stati tenuti troppo poco in considerazione nella loro fisionomia autonoma. Ora si comincia ad accennare, dato che la cosa è ovvia, al fatto che la salvezza dovrebbe venire da un’altra parte che non sia quella puramente materialistica dell’economia. Ma quando poi se ne parla a livello concreto, questo viene messo ancora troppo poco in evidenza.
È come un filo rosso che si snoda attraverso tutto ciò che hanno da dire i nuovi pensatori socialisti, e cioè che occorre instaurare una struttura sociale in cui tutti gli uomini possano vivere secondo le loro capacità e i loro bisogni. A loro non importa che quanto ho appena detto venga più o meno attuato – in maniera grottescamente radicale o più in linea con una mentalità conservatrice.
Sentiamo dire dappertutto che i danni dell’attuale ordinamento sociale derivano soprattutto dal fatto che all’interno di quest’ordinamento l’uomo non è in grado di esplicare pienamente le proprie capacità, e dall’altra parte che questo ordinamento sociale è tale per cui l’uomo non è in condizione di soddisfare i propri bisogni – in pratica che non c’è uguaglianza nella possibilità che si ha di soddisfare i propri bisogni.
Dicendo queste cose, ci si rifà a due elementi fondamentali della vita umana:
Le capacità sono qualcosa che si pone maggiormente in relazione con l’intelletto umano, poiché in definitiva tutti i talenti dell’uomo, che deve agire consapevolmente, hanno origine dal suo pensiero, dal suo raziocinio.
È vero che le capacità della mente devono essere costantemente incoraggiate, spronate dal sentimento, ma questo da solo non può fare nulla se manca l’idea di fondo, il genio conoscitivio. Quindi quando si parla di talenti, anche di abilità pratiche, bisogna rifarsi alla vita intellettiva, allo stato di coscienza. Perciò diverse persone si sono rese conto che bisogna fare in modo che l’uomo possa valorizzare la propria vita intellettiva all’interno della struttura sociale.
L’altro fattore che vuole esprimersi riguarda maggiormente l’elemento vitale della volontà. Il volere, che nasce dal desiderio, dalla necessità che si ha di questo o quel prodotto, è una forza basilare della natura umana. E quando si dice che l’uomo deve poter vivere in una struttura sociale in base ai propri bisogni, ci si riferisce alla sfera del volere.
Ecco quindi che, pur senza accorgersene, anche i marxisti parlano dell’uomo quando sollevano la loro questione sociale, anche se vorrebbero far credere di star parlando solo di istituzioni. È vero che parlano di istituzioni, ma le vogliono organizzare in modo tale che la vita intellettiva dell’uomo, le capacità umane, possano essere valorizzate così che i bisogni umani possano essere soddisfatti equamente così come si presentano.
Solo che in questa visione c’è qualcosa di molto particolare: manca del tutto un elemento umano altrettanto essenziale, e cioè la vita emotiva, la sfera del sentimento.
Vedete, se si dicesse che si vuole instaurare una struttura sociale nella quale gli uomini possano vivere in base ai loro talenti, ai loro sentimenti e ai loro bisogni, allora si avrebbe l’uomo nella sua totalità. E invece è strano, ma anche tipico, che mentre si vuole descrivere la meta sociale complessiva dell’uomo si tralasci la sua vita emotiva.
Ma chi, nella sua osservazione dell’umanità, ignora la vita emotiva, omette di prendere in considerazione i reali rapporti giuridici nell’organismo sociale, poiché nella convivenza fra esseri umani tali rapporti possono svilupparsi solo in base al modo in cui interagiscono fra loro i sentimenti umani. Il diritto pubblico risulta dai sentimenti che gli uomini vivono gli uni nei confronti degli altri.
E siccome nella fondazione del movimento sociale si è ignorato l’elemento vitale del sentimento, la questione giuridica è piombata per forza, come vi ho detto, in un buco: è sparita. Si tratta di rimettere questa questione giuridica nella sua giusta luce. Certo, si sa che esiste un diritto, ma lo si vorrebbe come una semplice appendice delle condizioni economiche.
E come si sviluppa il diritto nella convivenza umana? Vedete, si è cercato più volte di dare una definizione del diritto, ma non si è mai riusciti a trovarne una davvero soddisfacente. E anche quando si è analizzata l’origine del diritto non ne è risultato nulla. Volendo rispondere a questa domanda, non è mai emerso niente. Perché?
È come se si volesse far sviluppare il linguaggio solo e soltanto dalla natura del singolo uomo. Spesso è stato detto, e a ragione, che un uomo cresciuto su un’isola deserta non giungerebbe mai a parlare, poiché il linguaggio si attiva nel contatto con gli altri esseri umani, all’interno della società umana.
Allo stesso modo, cari ascoltatori, il diritto si sviluppa a partire dal sentimento che si prova nell’interazione col sentimento dell’altro all’interno della vita pubblica.
Non si può dire che il diritto scaturisca da questo o da quell’angolo dell’uomo o dell’umanità, ma si può dire soltanto che, attraverso i sentimenti che vengono vissuti gli uni per gli altri, gli uomini entrano in relazioni reciproche che poi sanciscono a livello giuridico. Il diritto è perciò qualcosa che va studiato soprattutto nel suo formarsi all’interno della società umana.
Per l’uomo moderno la riflessione sul diritto viene così a coincidere con ciò che si è sviluppato sotto forma di rivendicazione democratica nella storia più recente dell’umanità.
Ci avviciniamo all’essenza di rivendicazioni come quella democratica solo se consideriamo l’evoluzione dell’umanità come quella di un grande organismo, ma i modi attuali di vedere le cose sono ben lontani da questo modo di vedere spirituale.
Vedete, di sicuro ognuno troverebbe ridicolo e assurdo il voler spiegare come l’uomo si sviluppa dalla nascita alla morte in base all’influenza dei prodotti alimentari, se si volesse cioè affermare che il modo del suo sviluppo dalla nascita alla morte sia dovuto al fatto che il cavolo è così, il frumento è così, la carne di manzo è così, e via dicendo.
No, nessuno ammetterà che questo sia un modo ragionevole di vedere le cose. Chiunque riconoscerà invece che bisogna chiedere: qual è il motivo per cui intorno al settimo anno di vita dalla natura umana stessa si sviluppano quelle forze che danno origine alla seconda dentizione? Non è possibile dedurre dal cavolo o dalla carne di manzo il fatto che si verifichi il cambio dei denti!
Allo stesso modo bisogna chiedere: come si sviluppa a partire dall’organismo umano stesso ciò che per esempio rappresenta la maturità sessuale? E via dicendo. Bisogna cioè indagare la natura interiore dell’organismo che è in via di sviluppo.
Provate un po’, fra le opinioni odierne, a cercarne una che possa essere applicata alla storia e all’evoluzione dell’umanità, una che per esempio abbia ben chiaro che, mentre l’umanità si evolve sulla Terra, di epoca in epoca sviluppa a partire da se stessa, dalla natura del proprio organismo vivente, determinate forze e prerogative, determinate qualità.
Chi, osservando la natura, impari ad essere oggettivo, potrà trasferire questa obiettività anche all’osservazione della storia.
E in quell’ambito si scopre che dalle profondità della natura umana a partire dalla metà del quindicesimo secolo si è sviluppata, trovando una corrispondenza più o meno soddisfacente nelle varie zone della Terra, proprio questa esigenza di democrazia, la richiesta che, nei suoi rapporti con i propri simili, l’uomo faccia valere ciò che egli stesso sente come giusto, come adeguato a lui.
Il principio democratico che scaturisce dal profondo della natura umana è diventato il tratto distintivo dell’anelito umano nei rapporti sociali dell’era moderna. Quella dell’umanità odierna nei confronti della vita democratica è dunque un’esigenza elementare.
Chi si rende conto di queste cose deve però anche prenderle del tutto sul serio, e deve porsi la domanda: qual è il significato e quali sono i limiti del principio democratico?
Il principio democratico – l’ho appena descritto – consiste nel fatto che gli individui che vivono insieme in un organismo sociale circoscritto devono prendere decisioni che provengano dalla partecipazione di ogni singolo. Tali decisioni possono diventare vincolanti per la società solo se si formano delle maggioranze. Ciò che rientra in tali deliberazioni prese a maggioranza dei voti sarà democratico solo se
• ogni singolo individuo in quanto tale si trova
• di fronte all’altro singolo individuo
• come suo pari.
Ma allora, cari ascoltatori, è possibile deliberare democraticamente solo su quelle cose in cui il singolo individuo è realmente pari ad ogni altro uomo nella sua capacità di giudizio. Cioè, sul terreno democratico possono essere prese unicamente decisioni in merito alle quali ogni individuo maggiorenne è in grado di esprimere un giudizio suo proprio per il fatto stesso di essere maggiorenne.
E con questo, credo che siano indicati nel modo più chiaro possibile i limiti della democrazia. Sul terreno della democrazia si può deliberare solo ciò che può essere giudicato ugualmente da ognuno per il semplice fatto di essere maggiorenne.
Così si esclude dalle deliberazioni democratiche tutto ciò che ha a che fare con lo sviluppo dei talenti umani nella vita pubblica. Tutto quello che è educazione e pubblica istruzione, tutto ciò che fa parte della vita culturale, richiede l’intervento dell’individuo – ne parleremo dettagliatamente dopodomani –, richiede soprattutto la conoscenza dell’individuo, esige che l’insegnante, l’educatore, sia dotato di particolari capacità individuali che non vengono dati all’uomo semplicemente grazie al raggiungimento della maggiore età.
O non si prende sul serio la democrazia, e allora la si lascia decidere anche su tutto quello che dipende dalle capacità individuali; oppure la si prende sul serio e allora si deve escludere dalla democrazia, da un lato, l’amministrazione della vita culturale.
Ma da questa democrazia si deve escludere, dall’altro lato, anche tutto quello che è vita economica. Tutto quello che ho esposto nella conferenza di ieri si basa sulla competenza e sulla specializzazione che il singolo acquisisce negli ambienti e nelle attività di tipo economico in cui è inserito. La maggiore età, la capacità di giudizio di ogni individuo diventato maggiorenne, non potrà mai stabilire se uno è un buon agricoltore o un bravo industriale e via dicendo. Quindi non è possibile usare le deliberazioni prese a maggioranza da maggiorenni per stabilire quello che deve succedere nell’ambito della vita economica.
Ciò significa che l’elemento democratico dev’essere reso autonomo sia dalla vita culturale sia dalla vita economica.
A quel punto fra le due sorge la vita statale prettamente democratica, in cui ogni uomo sta di fronte all’altro in qualità di individuo capace di giudizio, maggiorenne e con pari diritti e doveri, ma nella quale possono essere prese decisioni a maggioranza solo su ciò che dipende dall’uguale capacità di giudizio di tutti i soggetti maggiorenni.
Chi non si limita ad affermare in astratto queste cose che vi ho appena esposto, ma le valuta per il peso che hanno per la vita concreta, vede che gli uomini si ingannano su di esse perché sono scomode da immaginare, perché non si ha voglia di trovare il coraggio di seguire questo modo di pensare fin nelle sue ultime conseguenze.
Ma, cari ascoltatori, non averlo voluto fare, aver opposto cose del tutto diverse all’esigenza generale di democrazia ha avuto conseguenze del tutto concrete nella recente evoluzione dell’umanità. Preferisco descrivervi queste cose a partire dalla storia piuttosto che da principi astratti.
In questi anni abbiamo visto crollare uno Stato, si potrebbe dire che si è sfasciato a causa delle sue stesse condizioni. E questo Stato, il vecchio impero austroungarico che non esiste più, può anche diventare oggetto di un esperimento per questioni giuridiche.
Chi ha seguito gli anni della guerra, sa che alla fine l’Austria è caduta per via di eventi puramente bellici. Ma il dissolvimento dello Stato austriaco è avvenuto come un fenomeno a parte, come qualcosa che è risultato dalle sue condizioni interne. Questo Stato si è sgretolato, e si sarebbe probabilmente sgretolato anche se l’Austria se la fosse cavata meglio in guerra. È una cosa che può dire chi ha osservato obiettivamente per decenni le condizioni dell’Austria – ed io vi ho trascorso trent’anni della mia vita.
Negli anni sessanta del secolo scorso in quest’Austria è sorta l’esigenza della democrazia, cioè di una rappresentanza popolare. Che forma è stata data a questa rappresentanza popolare? È stata concepita in modo tale che i rappresentanti del popolo nel consiglio dell’impero fossero composti da quattro curie, da quattro curie di natura esclusivamente economica:
• in primo luogo la curia dei latifondisti – prima curia;
• in secondo luogo le città, i mercati e le zone industriali – seconda curia;
• in terzo luogo le camere di commercio – terza curia;
• la quarta curia era formata dai comuni rurali, ma anche lì venivano presi in considerazione solo gli interessi economici.
Quindi i rappresentanti nel consiglio dell’impero austriaco venivano scelti in base alla propria appartenenza ad un comune rurale, ad una camera di commercio e così via. In tale consiglio si riunivano i rappresentanti di interessi puramente economici. Le deliberazioni che prendevano a maggioranza provenivano ovviamente da singoli individui, ma quei singoli individui rappresentavano gli interessi che derivavano dalla loro appartenenza economica ai latifondi, alle città, ai mercati e alle zone industriali, alle camere di commercio o ai comuni rurali.
E che genere di diritti pubblici veniva alla luce in quel modo, quali diritti pubblici venivano sanciti per maggioranza? Dei diritti pubblici che altro non erano se non interessi economici camuffati!
È infatti evidente che quando per esempio le camere di commercio erano d’accordo con i latifondisti su qualcosa che procurava a entrambi dei vantaggi economici, si poteva prendere una decisione a maggioranza contro gli interessi di una minoranza, per la quale magari proprio quella cosa era importante. Quando nei parlamenti siedono delle rappresentanze di interessi di natura economica, è sempre possibile costituire delle maggioranze che deliberino a partire dagli interessi economici, creando così dei diritti che non hanno niente a che vedere con quella che sarebbe la coscienza giuridica che ha origine dal sentimento che vive nei rapporti interpersonali.
Oppure prendete il fatto che nell’antica assemblea nazionale tedesca c’era un grosso partito, che si chiamava “il centro” e rappresentava soltanto gli interessi culturali dei cattolici. Questo partito poteva allearsi con qualunque altro per raggiungere una maggioranza, e a quel punto dei bisogni puramente culturali-spirituali venivano trasformati in diritti pubblici. Questo è successo innumerevoli volte.
Si è spesso fatto notare che cosa vive nei parlamenti moderni che vogliono diventare democratici, ma non si è arrivati a capire che cosa deve accadere: una netta separazione fra la vita giuridica e la rappresentanza, l’amministrazione di interessi economici.
L’impulso alla triarticolazione dell’organismo sociale deve perciò esigere con la massima fermezza la separazione della vita giuridica, del terreno giuridico, dall’amministrazione del circuito economico.
Come vi dicevo ieri, all’interno del processo economico devono formarsi delle associazioni. Categorie professionali, produttori e consumatori si troveranno in esse gli uni di fronte agli altri. I fatti e i provvedimenti puramente economici che intercorreranno a quel livello saranno fondati su contratti stipulati fra le associazioni.
Nella vita economica tutto deve fondarsi su contratti, su prestazioni reciproche. Le corporazioni si troveranno di fronte a corporazioni; la competenza e la specializzazione costituiranno l’elemento determinante. Lì la mia opinione, poniamo, di imprenditore sul valore che deve avere il mio settore industriale nella vita pubblica non avrà alcuna importanza.
No, se la vita economica è autonoma non potrò decidere niente in proposito, ma dovrò produrre qualcosa nel mio settore industriale, dovrò stipulare dei contratti con le associazioni di altri rami dell’industria, che a loro volta dovranno offrirmi in cambio le loro prestazioni. La possibilità che avrò di piazzare le mie prestazioni dipenderà dalla mia capacità di sollecitare le loro controprestazioni. A livello contrattuale si formalizzerà un’associazione in base alle capacità. Questi sono i fatti.
Diversamente dovranno svolgersi le cose sul terreno giuridico, dove sono gli individui a stare gli uni di fronte agli altri e dove ci si può occupare solo di deliberare sulle leggi che regolino i diritti pubblici attraverso decisioni prese dalla maggioranza.
Certamente molti dicono: «Ma in fin dei conti che cos’è il diritto pubblico? Non è nient’altro che ciò che esprime a parole e mette sotto forma di legge ciò che esiste nelle situazioni economiche.»
Sotto molti aspetti è senz’altro così, e come l’idea della triarticolazione sociale non trascura la realtà, così non trascura neppure questo aspetto. Ciò che risulta legittimo per via delle decisioni prese sul terreno democratico viene poi ovviamente introdotto nella vita economica da chi commercia. L’importante è che non venga estratto dalla vita economica per essere trasformato in diritto. Lo si introduce nella vita economica dopo che è stato deciso fuori di essa.
Quelli che pensano in astratto dicono: «Sì, ma quello che c’è nella vita esteriore, dove l’uno commercia con l’altro quando emette una cambiale o qualcosa di analogo, quello che emerge nel diritto cambiario, non fa pienamente parte della vita economica? Non è un’unità in tutto e per tutto? E adesso arrivi tu, triarticolatore, e vuoi separare ciò che nella vita è una perfetta unità». Come se nella vita – proprio quella a cui l’uomo non può accedere e a cui non può arrecare danno con le sue opinioni – non ci fossero molti settori in cui correnti di forze provenienti da parti diverse si uniscono formando un’unità.
Prendete l’essere umano in fase di crescita. Possiede varie qualità che ha ereditato, che si ritrova addosso, e altre che gli sono state trasmesse mediante l’educazione. L’individuo in crescita ottiene da due fonti diverse le proprie caratteristiche: dall’ereditarietà e dall’educazione che gli dà l’ambiente.
Se fate qualcosa a quindici anni, non potete dire che ciò che fate non è un’unità. In quello che fate, però, confluisce a costituire quell’unità da un lato il risultato della vostra eredità e dall’altro quello della vostra educazione. È così che in esso c’è unità, ma è un’unità solo per il fatto che vi si contribuisce da due provenienze diverse. L’unità che si forma è sana proprio perché c’è una confluenza di due realtà distinte.
Per quanto riguarda l’idea dell’organismo sociale triarticolato, dalla realtà della vita risulta non meno che una sana unità per l’agire in ambito economico può craersi solo nella misura in cui vi vengono inclusi anche dei concetti giuridici. Però si tratta di due fonti diverse: i provvedimenti economici vengono presi autonomamente in base a punti di vista economici e i diritti vengono sanciti a parte secondo i criteri della vita giuridica.
Poi gli uomini ne fanno un’unità. Solo in questo modo c’è armonia, mentre se si fanno derivare i diritti dagli interessi della vita economica, nascono delle caricature. In quel caso il diritto è solo una fotografia, solo una copia dell’interesse economico. Ma allora il diritto non esiste più. È solo facendolo nascere fin dall’inizio su un terreno democratico autonomo che si può introdurre il diritto nella vita economica.
Cari ascoltatori, dovremmo poter credere che si tratti di un concetto talmente chiaro da non aver bisogno di essere spiegato in lungo e in largo, ma la prerogativa della nostra epoca è che la vita recente ha oscurato e deformato proprio le verità più lampanti.
Al giorno d’oggi, nell’ambito in cui si sviluppano tante opinioni socialiste, si ritiene di dover tranquillamente continuare a far dipendere la vita giuridica da quella economica. Vi ho accennato al fatto che si pensa di fondare una sorta di gerarchia secondo il modello politico e che la vita economica debba essere da essa regolamentata e amministrata. Allora, si pensa, quelli che amministrano la vita economica svilupperanno automaticamente come realtà collaterale anche i diritti.
Sostenere una cosa del genere equivale a non avere nessun senso della vita concreta e reale. Non è di certo la vita economica, in cui bisogna essere soprattutto abili nell’organizzazione dei rapporti di produzione, che può creare i rapporti giuridici. Questi devono sorgere autonomamente accanto alla vita economica. Tali rapporti non possono instaurarsi in base a pii desideri, ma solo se accanto al circuito economico si sviluppa concretamente un elemento statale in cui il singolo individuo è posto sullo stesso piano di ogni altro singolo individuo.
Non si può, solo per il fatto di essere un economista, emanare anche delle leggi in ambito giuridico a partire da una qualsiasi coscienza originaria, ma quello che conta è creare prima il terreno concreto sul quale gli uomini si incontrino in base ai loro sentimenti, così che possano trasformare questi rapporti in rapporti di tipo giuridico. Si tratta di creare una realtà parallela alla vita economica.
Allora il diritto non sarà una semplice sovrastruttura della vita economica, ma un’entità che si plasma autonomamente.
Non è con una risposta teorica che si vince l’errore fondamentale, la grande superstizione della questione sociale moderna, che pensa sia sufficiente trasformare la vita economica per giungere a concetti giuridici diversi. Nell’organismo sociale triarticolato la realtà verrà creata realizzando un terreno giuridico autonomo, una realtà dalla quale grazie ai rapporti interumani ha origine quella grande forza propulsiva che è in grado di dominare e domare anche la vita economica.
In fin dei conti l’osservazione storica dell’epoca recente conferma da un’altra angolazione quanto ho appena esposto. Cari ascoltatori, ripensate agli impulsi che gli uomini hanno avuto fino al tredicesimo e al quattrodicesimo secolo per i loro lavori artigianali o di altro genere. Spesso i pensatori socialisti sottolineano che l’uomo d’oggi è separato dai suoi mezzi di produzione. Questa situazione ha raggiunto le proporzioni attuali solo da quando esistono le moderne condizioni economiche. L’uomo è stato separato particolarmente dal prodotto del suo lavoro.
Qual è la partecipazione dell’operaio che lavora in fabbrica a ciò che l’imprenditore poi vende? Che cosa ne sa? Che ne sa del percorso che il prodotto fa nel mondo? Conosce solo una piccola parte di un grande insieme, di cui forse non avrà mai coscienza! Pensate che differenza enorme rispetto all’antico mestiere, dove il singolo artigiano provava soddisfazione per le cose da lui realizzate. Chi conosce la storia sa che era davvero così, che l’artigiano provava grande soddisfazione nel produrre.
Pensate alla relazione personale fra un uomo e la realizzazione di una chiave, di una serratura e prodotti analoghi. Quando si va in posti all’antica è ancora possibile fare esperienze simpatiche sotto questo aspetto, ma nelle aree “progressiste” non si sperimentano più queste cose. Una volta – perdonatemi se vi racconto qualcosa di così personale, ma forse può servire alla descrizione – sono andato in una regione e sono rimasto straordinariamente affascinato quando, entrando nel negozio di un barbiere, ho visto la gioia provata dall’apprendista nel riuscire a fare un bel taglio di capelli ad un cliente. Ci provava un gusto da matti nel fare bene il suo mestiere.
È sempre più raro un simile rapporto personale fra l’uomo e ciò che fa. Il fatto che non ci sia più questo rapporto è ovviamente un’esigenza inevitabile della vita economica moderna. Le cose non possono andare diversamente, date le complesse condizioni in cui dobbiamo lavorare all’interno della divisione del lavoro.
Se non avessimo la divisione del lavoro, non avremmo la vita moderna con tutto ciò che ci occorre, non avremmo alcun tipo di progresso. L’esperienza dell’antico rapporto fra l’uomo e il suo prodotto non è più possibile averla.
Eppure, cari ascoltatori, l’uomo ha bisogno di un rapporto umano con il proprio lavoro, ha bisogno di provare gioia e anche una certa dedizione nei confronti del proprio lavoro.
L’antica dedizione, l’unione con l’oggetto prodotto, non esiste più, e perciò dev’essere sostituita da qualcos’altro. L’uomo non può fare a meno di un impulso al lavoro simile a quello procuratogli un tempo dalla gioia per la diretta realizzazione di un oggetto. Questo impulso dev’essere sostituito da qualcos’altro, ma da che cosa?
Può essere sostituito solo facendo in modo che l’orizzonte degli uomini si allarghi, attirandoli su un piano su cui si possano incontrare con i loro simili a raggio più vasto, con tutti coloro che fanno parte dello stesso organismo sociale, così che l’uomo senta sempre più interesse per l’uomo.
È necessario che avvenga quanto segue:
• perfino chi lavora nell’angolo più nascosto ad una singola vite per un grande contesto non deve ridursi al rapporto con questa vite, ma
• può invece portare nella sua officina ciò che ha dentro di sé sotto forma di sentimenti per gli altri esseri umani,
• lo può ritrovare quando esce dalla sua officina,
• può avere una coscienza vivace del proprio rapporto con la società umana,
• può lavorare con gioia anche se non prova soddisfazione immediata per il prodotto del suo lavoro,
• può lavorare perché si sente un membro degno nella cerchia dei propri simili.
Da questo impulso hanno avuto origine la moderna esigenza di democrazia e il modo moderno di sancire democraticamente il diritto pubblico. Queste cose sono intimamente connesse con la natura dell’evoluzione umana e possono essere capite a fondo solo da chi è disposto ad esaminare seriamente la natura dell’evoluzione dell’umanità nel suo svolgersi in ambito sociale.
Bisogna avvertire la necessità che gli uomini amplino i loro orizzonti, per far sì che ognuno dica a se stesso: «È vero che non so cosa sto facendo ai miei simili mentre sono qui a fabbricare questa vite, ma so che, per via dei rapporti di vita che instauro con loro grazie al diritto pubblico, sono un membro degno dell’ordinamento sociale, un membro che ha pari valore con tutti gli altri.»
Questo deve stare alla base della moderna democrazia e – agendo come sentimento vissuto da uomo a uomo – delle moderne norme giuridiche pubbliche. Solo osservando la struttura interiore dell’uomo si può concepire in maniera davvero moderna ciò che deve svilupparsi come diritto pubblico in tutti i campi.
Ne parleremo più dettagliatamente nella quinta conferenza, ma ora per concludere voglio ancora mostrarvi come l’ambito dell’accertamento del diritto sconfini dall’effettivo terreno giuridico in quello culturale.
Vedete, se si considerano i fatti che vi ho descritto ora, si può ben capire che sul terreno democratico sorgono leggi grazie ad un confronto di sentimenti fra uomini con gli stessi diritti, mentre sul terreno economico sorgono contratti fra le varie associazioni o anche fra i singoli individui.
Nel momento però in cui il singolo deve cercare o far valere il proprio diritto – civile, privato o penale che sia –, il diritto si sposta dal terreno propriamente giuridico a quello culturale.
E qui troviamo di nuovo un punto, come ieri nella legislazione tributaria, in cui il moderno raziocinio umano non si è ancora adeguato a quello che risulta evidente se si prendono in esame gli elementi di fondo.
Vedete, quando si tratta di valutare come una data legge debba essere applicata al singolo individuo, subentra una valutazione del singolo individuo stesso. E per questa valutazione è decisivo il talento che sa cogliere l’indole propria del singolo.
La giustizia penale e civile non può quindi restare sul terreno giuridico generico, ma dev’essere trasferita sul piano il cui carattere specifico vi verrà illustrato più a fondo dopodomani a proposito della vita culturale. La giurisdizione può diventare un fatto di giustizia solo se chi diventa giudice ha la possibilità reale di giudicare in base alle sue facoltà individuali, in base al rapporto individuale che ha con la persona che deve giudicare.
Si può pensare che una cosa simile sia realizzabile nei modi più diversi. Nel mio libro I punti essenziali della questione sociale ho messo in evidenza uno dei modi possibili.
Nell’organismo sociale triarticolato esiste l’amministrazione autonoma dell’economia come ve l’ho descritta ieri. C’è poi l’ambito giuridico, che ho delineato oggi e di cui mi occuperò ancora nella quinta conferenza per quanto riguarda la sua interazione con gli altri campi. Ma c’è anche la vita culturale autonoma, in cui soprattutto la pubblica istruzione viene amministrata nel modo a cui ho accennato ieri e che descriverò ulteriormente dopodomani.
Ma coloro che sono gli amministratori della vita culturale dovranno nel contempo fornire i giudici, ed ogni uomo avrà il diritto e la possibilità di decidere lui stesso da quale giudice vuol essere giudicato – diciamo addirittura per un certo periodo di tempo – nel caso in cui debba essere giudicato per faccende civili o penali. L’uomo designerà così il proprio giudice in base alle effettive condizioni di vita individuali.
E il giudice, che non è un burocrate legale ma che viene designato dall’organismo culturale in base al rapporto che stabilisce con il proprio ambiente, sarà anche in grado di giudicare nel contesto del suo ambiente sociale colui che gli sta di fronte in attesa di giudizio.
Si tratta di nominare i giudici non a partire da esigenze statali, ma in base a motivi simili a quelli in vigore nella libera vita culturale, che consentono di mettere in un dato posto il miglior maestro. Il diventare giudice sarà qualcosa di analogo al diventare insegnante o educatore.
Naturalmente, in tal modo il far giustizia si discosta dal legiferare, che avviene in modo democratico. Proprio nel caso della giustizia penale vediamo come ciò che riguarda il singolo esuli dal diritto – che è uguale per tutti – e può essere perciò valutato solo a livello individuale.
L’accertamento del diritto è una questione eminentemente sociale, ma nel momento in cui si ha necessità di rivolgersi a un giudice, si ha di solito a che fare con una questione asociale o antisociale, con qualcosa che trasgredisce il sociale. Tutte queste questioni sono perciò in sostanza individuali, come lo sono i rami amministrativi della vita culturale, in cui rientra pure la giurisprudenza, la giurisdizione, che va al di là dei confini della democrazia.
Vedete quindi, cari ascoltatori, che si tratta in effetti di attuare nella sua realtà ciò che fra gli uomini dà origine alla vita giuridica.
Allora questa vita giuridica non sarà una pura sovrastruttura della vita economica, ma potrà agire in essa e su di essa. Per capire cosa deve accadere in questo campo non basterà affatto una visione puramente teorica, ma occorrerà osservare la vita pratica e dirsi: una vera vita giuridica con un’adeguata forza propulsiva può nascere solo se viene creato un terreno giuridico autonomo.
Questo terreno giuridico è oggi scomparso, sommerso dalla vita economica che ha fagocitato ogni cosa. La vita giuridica si è trasformata in un’appendice della vita economica; deve tornare ad essere indipendente, così come anche la vita culturale deve emanciparsi da quella economica.
Per vederci chiaro nella questione sociale, è necessario superare il grave errore, l’idea sbagliata secondo la quale è sufficiente trasformare le istituzioni economiche perché tutto il resto venga poi da sé. Questa convinzione illusoria è sorta perché negli ultimi tempi la vita economica è diventata prepotente.
Ci si lascia influenzare in maniera suggestiva dal solo potere rimasto, quello della vita economica, ma così non si arriva mai a risolvere la questione sociale. Gli uomini, specialmente gli appartenenti alla classe operaia, si culleranno in illusioni; vorranno ricavare dalla vita economica quella che chiamano equa distribuzione dei beni. Ma questa equa distribuzione dei beni potrà essere realizzata solo se nell’organismo sociale ci saranno gli uomini capaci di promuovere le dovute misure per soddisfare le esigenze economiche.
Questo potrà accadere soltanto se ci si renderà conto che la soddisfazione delle rivendicazioni sociali non dipende unicamente dalla trasformazione della vita economica, ma anche dalla risposta alla domanda: che cosa va posto accanto alla vita economica affinché questa possa essere resa sociale dagli uomini che diventano essi stessi sociali grazie alla vita giuridica e a quella culturale? È questo che deve contrapporsi come verità ad una superstizione, a un dogma.
E coloro che cercano nella sola vita economica i rimedi atti a far guarire l’organismo sociale devono venir rinviati alla cultura e al diritto. Non devono sognare, affermando che il diritto è solo un fumo che esala dalla vita economica, ma devono imparare a pensare in modo aderente alla realtà che, proprio per il fatto che il diritto e la coscienza del diritto sono passati in secondo piano in quanto sommersi dalla vita economica, per la socializzazione della vita pubblica abbiamo bisogno che venga creato veramente un organismo giuridico dotato dell’adeguata forza propulsiva.
Risposte alle domande
(dopo la terza conferenza)
Signor Bosshardt: Nella conferenza del Dr. Steiner mi è sembrata carente la trattazione del diritto penale nell’ordine sociale. Non l’ha illustrata a sufficienza. A mio parere tuttavia essa è la quintessenza del diritto e oggi che si parla tanto di diritto ci si può occupare anche del sistema penitenziario della democrazia. Gradirei una risposta del Dr. Steiner in merito a quello che deve succedere dopo che la sentenza penale è stata pronunciata, e soprattutto su com’è la pena al giorno d’oggi e come dovrebbe essere. Che cosa c’è di giusto nel sistema penitenziario odierno? E come dovrebbe essere la pena?
Rudolf Steiner: Cari ascoltatori! Ci sono anche altre domande fatte per iscritto. La prima è questa:
Com’è possibile regolamentare la vita economica per mezzo di un diritto stabilito autonomamente?
Cari ascoltatori, bisogna tener conto di quanto è diverso l’organismo triarticolato qui proposto da quello che si trova nello stato platonico come articolazione degli uomini di un organismo sociale in tre classi – lavoratori, guerrieri e magistrati.
Fra i fraintendimenti di vario genere mi è capitato anche di sentir dire: «Sì, questa triarticolazione in un organismo culturale, giuridico o statale ed economico non è che un riproporre il principio platonico della classe dei governanti-filosofi come organismo culturale, di quella dei guerrieri-custodi come organismo statale e giuridico, e di quella dei lavoratori-artigiani come organismo economico».
Non è affatto così, bensì l’esatto contrario. La triarticolazione dell’organismo sociale comporta la separazione delle amministrazioni dei rispettivi settori della vita umana, non la divisione degli uomini in classi. Qualcosa di distinto dall’uomo, e cioè l’amministrazione delle istituzioni, si articola in tre elementi che devono interagire proprio per mezzo dell’uomo vivente. L’uomo in carne e ossa è ben inserito in tutti e tre questi ambiti.
Vedete, a poco a poco è sorta nell’umanità la coscienza che sia disumano dare origine a differenze di classe o di ceto. Nella realtà queste potranno essere superate solo se si articolerà l’organismo sociale nella sua realtà oggettiva, cioè separata dall’uomo.
Così dobbiamo per esempio immaginarci quanto segue – parlerò ancora di argomenti analoghi nella quinta conferenza: chi si fa un’opinione della vita culturale veramente libera, sarà in grado di vedere come essa non sia affatto così astratta come la vita culturale odierna. Vedete, voi oggi conoscete o perlomeno potreste conoscere ogni sorta di concezione filosofica, religiosa ecc. Pensate solo a come tali concezioni del mondo siano diventate astratte, avulse dalla vita.
Vi basti pensare come oggi sia possibile a chiunque – commerciante, statista, industriale, agricoltore – avere le proprie opinioni etiche, estetiche, scientifiche, religiose, e accanto ad esse occuparsi dell’amministrazione del proprio ufficio, della propria fattoria e via dicendo. In un certo senso sono due vite che viaggiano in parallelo, senza incontrarsi mai.
Questo proviene dal fatto che in fondo ancor oggi nell’ambito della vita culturale abbiamo il proseguimento dell’antica vita culturale greca, sorta da condizioni sociali completamente diverse dalle nostre. La maggior parte delle persone non se ne accorge, ma nella nostra mentalità sociale abbiamo davvero il prolungamento della vita culturale greca, basata sull’idea che solo chi non lavora, ma si occupa di politica e al massimo tiene d’occhio l’agricoltura e cose simili, conduce un’esistenza veramente dignitosa. Chi lavora non fa parte degli uomini che vanno presi sul serio.
Il Greco ce l’aveva nel sangue questo modo di considerare l’umanità, e in base a questo organizzava tutta la sua vita culturale. La vita culturale greca è unicamente immaginabile in base al fatto che c’era uno strato superiore che stava al di sopra di un vasto strato inferiore di persone che non potevano prender parte alla cultura, che non avevano dentro di sé la cultura greca come tale.
Questo modo di vedere la cultura ci è rimasto nell’animo fino ad oggi. Ed è per questo che – vedete, non è necessario guardare a queste cose con animosità, è possibile rendersene conto oggettivamente – le classi dirigenti, dominanti, si sono spesso occupate in maniera molto astratta di fraternità, di amore per il prossimo e via dicendo.
Prendiamo un esempio drastico. Nella metà del diciannovesimo secolo, mentre la gente rifletteva dal punto di vista della propria concezione religiosa, etica, sull’amore per il prossimo, sulla fraternità, in quel periodo è stata fatta per esempio in Inghilterra un’indagine statistica sui danni del lavoro in miniera. È emerso che in effetti nei pozzi delle miniere venivano calati ragazzini di nove, undici, tredici anni. Quei poveri bambini venivano fatti scendere in miniera prima dell’alba e fatti uscire solo dopo il tramonto, così che non vedevano la luce del sole per tutto il giorno, per tutta la settimana, se non la domenica.
Già, al calore del carbone che veniva estratto in quel modo, nel tepore delle loro stanze, le classi colte discorrevano di fraternità e amore per il prossimo, immerse nella loro visione del mondo del tutto avulsa dalla vita. Hanno elaborato i loro ideali etici, in base ai quali è un individuo morale solo colui che ama i propri simili come se stesso senza distinzione di classe e così via.
Ma, cari ascoltatori, una vita culturale di questo tipo – e in fin dei conti tutta la nostra vita culturale è fatta così – è avulsa dalla realtà! È una vita spirituale soltanto interiore, priva della forza propulsiva per plasmare la vita reale.
Pensate all’abisso che esiste fra quella che il commerciante vive come la sua formazione estetica, morale o religiosa, e quello che annota nel suo libro di cassa. Può anche aver scritto “con Dio” sulla prima pagina, ma il tutto ha poco a che fare con il Dio che venera nel suo cuore.
Vedete, lì avete l’abisso profondo fra la vita culturale astratta e la realtà esteriore concreta. Di questi tempi ci si è abituati a questo abisso come se fosse una cosa del tutto normale.
Ci sono filosofi, etici, che parlano di filantropia, bontà, amore per il prossimo e quant’altro. Ma prendete uno di questi testi filosofici e interrogatelo per esempio su come organizzare una banca. Non vi troverete nessuna indicazione in proposito. Una vita culturale veramente emancipata, in grado di reggersi sulle proprie gambe, saprà collegare l’attività intellettuale, la cultura, alla prassi quotidiana.
Chi verrà alla mia conferenza di dopodomani non crederà che io voglia anche solo minimamente conferire un tratto materialistico alla vita culturale, ma vedrà che è esattamente il contrario. Proprio se non si vuole questo, ma si vuole porre la cultura sulle sue basi spirituali, non è possibile considerare la vita culturale come qualcosa di estraneo a quella materiale, ma si attiverà lo spirito così che possa intervenire nella realtà più immediata.
Oggi gli uomini si stupiscono se si parla loro in modo concreto. Oggi per esempio un industriale mi ha chiesto: «Lei allora vuole che per esempio chi esercita una professione pratica ed è esperto nel suo campo, qualunque esso sia, a trentacinque o a quarant’anni possa essere chiamato ad insegnare per un certo periodo in una scuola superiore o inferiore, nel caso in cui l’amministrazione culturale lo ritenga idoneo a questo compito. Allora gli tocca però lasciare l’esperienza pratica, e quindi la vita culturale risulta separata da quella economica.»
Ma chi è attivo in campo economico applica proprio ciò che ha fatto suo in una vita culturale autonoma. È una continua osmosi far un campo e l’altro. E lui:
«Sì, però un individuo dev’essere messo in un posto ben preciso in base alle sue capacità. Vede, nella mia azienda, nella mia fabbrica, ho un dipendente che ha delle caratteristiche tali per cui mi chiede sempre di attrezzargli un laboratorio chimico in cui possa fare degli esperimenti per conto suo. Gli esseri umani sono diversi fra loro!»
Certo che lo sono, e lo sono perché crescono nelle condizioni dei tempi moderni. In realtà non è possibile essere davvero inseriti nella vita culturale se non si è in grado di cavarsela anche in quella pratica. Solo se si è capaci di introdurre la cultura in ogni settore della vita pratica si sa il fatto proprio anche nella vita intellettuale.
È così che articolando in tre parti ciò che è separato dall’uomo, il tutto viene poi riunificato dall’uomo stesso. Una volta che nello stato democratico nasce il diritto, gli uomini attivi nella vita economica traspongono in essa anche il diritto, creano istituzioni che concordano col diritto. Sono gli uomini vivi e reali a portare il diritto nella vita economica, non dei provvedimenti astratti o misure analoghe. Di questo si tratta, di rimettere le istituzioni sociali sulla base dell’uomo vivente. È così che desidero rispondere a questa domanda.
Vedete, anche nei singoli campi risulterà che il sapere può davvero essere reso fecondo per la vita. Guardate le università di oggi. In molte di esse viene insegnata anche la pedagogia. Bene, i filosofi insegnano la pedagogia, di cui in genere capiscono poco, come materia complementare.
In un organismo sociale sano, un qualsiasi insegnante capace, in grado di gestire la lezione a livello pratico, dovrà insegnare pedagogia per due o tre anni, dopo di che tornerà alla sua occupazione pratica. E così sarà per tutti gli ambiti della vita. La triarticolazione di ciò che è separato dall’uomo consentirà all’uomo di portare in ognuno dei tre ambiti ciò che si esprime autonomamente negli altri due.
Cari ascoltatori, così ci riallacciamo alla seconda domanda, che chiede:
Da chi vengono giudicate le questioni di tribunale commerciale? Non certo solo da consiglieri dell’area culturale, a cui mancano le conoscenze specifiche, e neanche da esperti?
Sostanzialmente quanto ho appena detto risponde già in gran parte a questa domanda. Quello che conta è che grazie alla nostra organizzazione della vita culturale una persona non riceve una formazione in vista di farne un tirocinante o un commerciante come si deve. Nell’organismo sociale triarticolato con la sua vita culturale autonoma non viene insegnato così, ma l’uomo fa sua una certa pratica di vita e si pone anche in grado di organizzarla grazie al modo in cui la vita culturale crea le proprie condizioni di esistenza.
Vedete, non è necessario avere una capacità di giudizio oggettivo in ogni ambito. Non è possibile, e non è a questo che si deve mirare. Ma l’amministrazione culturale dovrà far sì che un tribunale commerciale sia presieduto dalla persona giusta, dal momento che dell’amministrazione culturale faranno parte anche uomini che si intendono di leggi commerciali.
Il sapere non verrà centralizzato in settori specializzati come succede al giorno d’oggi, ma il modo in cui gli uomini si rapportano fra loro nelle corporazioni dell’organizzazione culturale permetterà di costituire un tribunale di questo genere in maniera adeguata, oggettiva, non in base a qualche bisogno economico.
Come si fa ad individuare correttamente i bisogni di un individuo o a dare la giusta valutazione di un oggetto da lui prodotto, dal momento che i bisogni dell’uomo sono così diversi?
Proprio a causa della loro diversità è necessario creare delle istituzioni reali in cui ci siano delle persone che studiano questi bisogni, che vengono a conoscerli. Queste cose non sono campate per aria, possono essere collocate su un terreno del tutto reale. Vi posso citare un piccolo esempio.
Esiste una società, la si vede pure sui manifesti, è la Società Antroposofica. Oltre a quello che alcuni le attribuiscono, si è occupata anche di faccende decisamente pratiche, del tutto in linea, seppure in piccolo, con quanto vi ho esposto a proposito della questione sociale.
Così all’interno della Società Antroposofica c’era un uomo che sapeva fare il pane. Avendo a disposizione una corporazione di antroposofi, che naturalmente sono anche consumatori di pane, è stato in un certo senso possibile creare un’associazione fra l’uomo in qualità di produttore di pane e questi consumatori. Voglio dire, quell’uomo ha potuto adeguare la sua produzione ai bisogni dei consumatori, dandosi da fare per conoscere i loro bisogni per poter organizzare la produzione in base ad essi. Questo non viene fatto dal mercato, che organizza il tutto in maniera caotica o casuale, ma potrà avverarsi solo se gli uomini mettono in piedi delle istituzioni che studino veramente i bisogni e insieme ai rappresentanti delle associazioni regolino la produzione in base ad essi.
Oggi i teorici socialisti vorrebbero accertare questi bisogni in base alle statistiche, ma questo non è possibile! La vita non si lascia plasmare secondo le statistiche, ma solo dal diretto senso di osservazione degli uomini. All’interno dell’organismo economico, le condizioni sociali devono fare in modo che determinate cariche o uffici vengano occupati da individui che sanno far circolare le conoscenze, le informazioni relative ai bisogni.
Proprio perché i bisogni sono diversi, si tratta di non incappare in una tirannia dei bisogni, quale nascerebbe di sicuro se ci si basasse sull’odierno programma socialdemocratico, ma di studiare i bisogni effettivi e concreti per capire come soddisfarli. Dalla prassi emergerà pure che ci sono determinati bisogni che non possono essere soddisfatti.
Non vanno prese decisioni in proposito a partire da un dogma – per esempio perché qualcuno ritiene che un certo bisogno non sia un “autentico” bisogno umano. Ma se un certo numero di persone sente il bisogno di certi beni per la cui produzione si dovrebbero sfruttare degli esseri umani – cosa che può appurare una vita economica viva, davvero indipendente –, non sarà possibile produrre quei beni di cui certi individui sentono il bisogno. Si tratterà di intuire se è possibile tener conto dei bisogni senza trascurare o danneggiare le forze umane.
Come si immagina il Dr. Steiner la realizzazione pratica della triarticolazione? È possibile intervenire nel consiglio federale o, dopo che queste idee saranno state diffuse a sufficienza, dovrà aver luogo un referendum? O bisognerà aspettare che l’ordinamento attuale venga rovesciato dalla rivoluzione e dalla guerra civile?
Cari ascoltatori, in primo luogo va preso sul serio il fatto che qui si tratta di un nuovo metodo, un metodo almeno relativamente nuovo rispetto a quelli adottati di solito. Non si tratta, come avviene nei vecchi parlamenti, di perseguire degli obiettivi, ma di comprendere a partire dalla realtà stessa, dalle tendenze della vita moderna, cosa vogliono davvero gli esseri umani nel loro subconscio, anche se non hanno le idee chiare in proposito.
Nella misura in cui si riesce a rendere comprensibile ciò di cui si tratta, ci sarà un certo numero di persone che capirà che cosa deve accadere, che cosa va fatto. E quando ci sarà un numero sufficiente di persone che si rendono conto di che cosa deve succedere, allora si troverà anche il modo di farlo.
Nel mio libro I punti essenziali della questione sociale ho descritto proprio come in ogni momento e in ogni situazione della vita si possa iniziare con questa triarticolazione, se solo si vuole, se solo se ne comprende davvero il senso. Il fatto che non si abbia intenzione di raggiungere mediante una rivoluzione ciò che vive nella triarticolazione si basa semplicemente su un’osservazione storica.
Va detto a proposito che in occidente si sono verificate grandi trasformazioni sul piano culturale – si pensi solo al cristianesimo –, e anche sul piano politico. Ma già a livello politico le trasformazioni lasciano certi residui. Oggi gli uomini pensano a rivoluzioni economiche. Parleremo ancora di questo nella quinta conferenza e nelle prossime.
Ma le rivoluzioni di questo tipo saranno tutte destinate a finire come quella dell’Europa orientale – demolire senza costruire nulla –, come quella ungherese, e in particolare come quella tedesca del novembre 1918 che si è completamente arenata per l’evidente motivo che oggi quello che conta non è tanto produrre dei cambiamenti radicali, quanto avere delle idee in grado di creare delle situazioni normali e stabili.
Quando un numero sufficiente di persone si dichiara apertamente fautore di questa cosa, allora si troveranno anche i modi per attuarla.
L’idea della triarticolazione dell’organismo sociale infatti non è solo un traguardo, ma è essa stessa una via da percorrere.
L’importante è non mettersi sullo stesso terreno su cui si mettono tante persone. Per esempio in certi ambienti in cui ho illustrato la triarticolazione mi è capitato di incontrare persone che avevano letto il mio libro I punti essenziali della questione sociale e trovavano plausibili le affermazioni in esso contenute.
Ma poi certi esponenti dell’ala radicale della sinistra hanno dichiarato: «Certo, questa triarticolazione è una gran bella cosa, ma prima ci dev’essere la rivoluzione, la dittatura del proletariato, dopo di che penseremo alla triarticolazione.» E con le migliori intenzioni è stato aggiunto: «Per il momento però siamo suoi acerrimi nemici.» In altre parole si argomentava così: dato che si è d’accordo, si lotta contro di essa all’ultimo sangue! È così che mi è stato risposto da più parti. Sì, cari ascoltatori, queste cose si basano su un pensiero sbagliato, sull’idea di poter realizzare qualcosa prima di aver fatto sì che sia entrato nelle teste.
C’è un piccolo episodio che mi sembra particolarmente significativo. Ho parlato una volta di queste cose in una località del sud della Germania. Fra gli interventi c’è stato anche quello di un comunista. Era un tipo in fondo simpatico, ma nel corso del suo discorso ha detto queste cose al suo pubblico – nel suo conscio si sentiva molto modesto, nel subconscio lo era molto di meno. Costui ha detto: «Vedete, io sono un calzolaio. So di essere un calzolaio e di non poter diventare un ufficiale di stato civile nella futura società. L’ufficiale di stato civile lo può fare chi ha ricevuto una formazione adeguata per questa professione.» Ma poco prima il tipo aveva esposto fin nei minimi particolari i suoi progetti sull’ordinamento sociale, e da questo si vedeva che sentiva la vocazione a far da ministro nello stato del futuro – l’ufficiale di stato civile no, ma il ministro sì!
Potrei dimostravi con altri esempi non meno simpatici che è questa la mentalità dominante. Ma quello che emerge è l’importanza che prima prenda piede l’effettiva comprensione del contenuto della triarticolazione, e di seguito si troveranno anche i modi per attuarla. E sarebbe da sperare che questa comprensione abbia luogo prima che sia troppo tardi.
Se gli uomini d’oggi si sforzassero di capire almeno un po’ quello che ci vuole, il tutto sarebbe possibile. Allora non si chiederebbe se si deve presentare un esposto al consiglio federale mediante un referendum e cose simili, ma sarebbe chiara una cosa: non appena ci sono abbastanza persone che la capiscono, la cosa si realizza.
Questo è sostanzialmente il segreto di una società che aspira alla democrazia: che una cosa si attua quando trova una vera comprensione interiore, quando è chiara alla mente. È questo che conta.
Ed ora tocca alla domanda:
Il principio del diritto penale non è un residuo del passato?
Questa domanda è in stretta relazione con quella che è stata posta sull’esecuzione della pena, in riferimento alla gestione del diritto penale. E ancora:
L’idea della pena è legittima rispetto a quella pedagogica del miglioramento, della reintegrazione sociale?
Vedete, cari ascoltatori, il concetto di pena, di punizione, è uno dei più spinosi, e proprio a questa domanda nel corso della storia sono state date tutte le risposte possibili e immaginabili.
Il convincimento che va sviluppato, o che quantomeno è possibile procurarsi, se ci si pone su un terreno come quello da cui nascono idee come quella della triarticolazione, è: un terreno simile comporta anche l’insorgere di determinate conseguenze che su un altro non si verificherebbero. Ogni singola cosa che avviene all’interno di un ordinamento sociale è in fin dei conti una conseguenza di quell’ordinamento sociale stesso.
Come ogni pezzo di pane è con il suo prezzo una conseguenza dell’intero ordinamento sociale, così anche il modo, gli incentivi alla pena hanno il loro fondamento all’interno dell’intera struttura dell’organismo sociale. E proprio la necessità delle pene mostra che nell’intero organismo sociale c’è qualcosa che non va.
Vedete, non dico quando si “sostiene” l’organismo sociale triarticolato in quanto tale, ma quando si sviluppa una visione pratica del mondo da impulsi simili a quello da cui scaturisce l’idea dell’organismo sociale triarticolato, allora si sa che si consegue qualcosa di diverso anche per quanto riguarda la pena e la sua esecuzione. E quando queste cose saranno effettive a livello sociale, realtà del tipo di quelle fatte valere nella conferenza odierna, ci sarà sempre meno bisogno di pene e di punizioni.
Il diritto penale, che accompagna come la loro ombra situazioni antisociali, potrà essere ridotto al minimo in situazioni di socialità. Perciò le domande che emergono oggi a proposito del diritto penale, se si tratti di un rimasuglio del passato e via dicendo, verranno poste su un terreno del tutto diverso qualora si verifichi realmente una trasformazione di questa portata.
Quando l’uomo è malato fa certe cose, quando è sano ne fa altre. Lo stesso avviene anche qui: la necessità di punire indica la presenza di determinati sintomi di malattia all’interno dell’organismo sociale nel suo insieme. Se si aspira a risanare l’organismo sociale, i concetti relativi alla pena, al diritto penale e all’esecuzione della pena possono essere messi su un terreno completamente diverso.
Direi quindi che è nella discussione sulla trasformazione sociale nel suo insieme che va cercata la risposta alla domanda: che ne è del singolo individuo, del diritto penale o dell’esecuzione della pena?
Ogni uomo è dotato della capacità di giudizio necessaria a stabilire quante ore lavorative richiede un determinato ramo di produzione?
Cari ascoltatori, essere in grado di giudicare per decidere insieme ad altri su tali questioni, è qualcosa di diverso che affidarsi all’arbitrio di un singolo individuo. Se leggete il mio libro I punti essenziali della questione sociale – e tornerò ancora sul diritto del lavoro nelle prossime conferenze –, vedrete che nell’organismo sociale triarticolato la regolamentazione del tipo di lavoro, del tempo da dedicare al lavoro, deve diventare di competenza del diritto pubblico, che quindi ciò che viene chiesto qui dovrà essere regolamentato sul terreno giuridico democratico.
Si tratta perciò del fatto che una simile questione verrà regolamentata da ogni uomo insieme a tutti gli altri uomini che fanno parte dell’organismo sociale. In questo l’uomo è capace di giudicare, per il fatto di saper effettuare una regolamentazione su una simile questione. Non è quindi legittimo chiedere se ogni uomo è in grado di giudicare quante ore lavorative richiede un determinato settore di produzione. Questo non risiede di sicuro nell’arbitrio del singolo individuo. Possibile è invece ottenere una sentenza pubblica tramite una regolamentazione democratica e una maggioranza democratica su questioni giuridiche del tipo che vi ho descritto oggi.
Ma prima di dedicarci alla realizzazione in grande all’interno di questo Stato, non dobbiamo chiarire l’elemento animico nell’uomo?
Molto di quanto chiede questa domanda sarà oggetto della prossima conferenza. Ma vedete, l’idea della triarticolazione dell’organismo sociale è un’idea pratica, ragion per cui vede anche tutte le cose da un’ottica realistica.
Al giorno d’oggi ci sono molte persone che dicono: «Bene, abbiamo una questione sociale, che dunque va risolta, quindi si deve trovare un programma che ci dia modo di risolvere la questione sociale. Oggi abbiamo delle condizioni sociali spiacevoli, ma se troviamo una soluzione alla questione sociale, allora domani ci troveremo delle condizioni sociali piacevoli.»
Ma le cose non stanno così. In quell’evoluzione dell’umanità che ho descritto oggi, la questione sociale è emersa da determinate condizioni psichiche e fisiche e dalle loro conseguenze sulla vita sociale. La questione sociale ora c’è e non la si può risolvere sul piano teorico, non si possono dare delle leggi per risolverla. C’è e continuerà ad esserci sempre, ogni giorno si ripresenterà di nuovo.
Per questo devono anche esserci sempre delle istituzioni che consentano di risolverla ogni giorno di nuovo. Non si tratta allora di dividere la faccenda in due parti uguali: prima prepariamo gli animi, e poi spunteranno le condizioni auspicabili dal punto di vista sociale. No, si tratta invece di accettare la questione sociale, di cercare di realizzare nella realtà qualcosa come il terreno giuridico autonomo o il terreno culturale indipendente, di modo che la questione sociale possa essere risolta continuamente, ogni giorno di nuovo.
Vedete, nel mio libro I punti essenziali della questione sociale mi sono opposto al fatto che quanto ho detto a proposito della triarticolazione sulla somiglianza fra l’organismo umano fisico e l’organismo sociale venga considerato un ozioso gioco di analogie. In realtà non avevo nessuna intenzione di fare un gioco di analogie fra l’organismo naturale e quello sociale equivalente a quelli di un Meray o di uno Schäffle.
Ma quello che ho esposto nel mio libro Enigmi dell’anima, cioè che un’attenta osservazione della natura giunge a considerare l’organismo umano come un’interazione fra tre sistemi indipendenti l’uno dall’altro, richiede un pensiero e un modo di vedere le cose che possono essere applicati proficuamente anche all’organismo sociale, non per via di trasposizione, ma per mezzo di un’osservazione senza pregiudizi come quella rivolta all’organismo naturale. È qualcosa che si può imparare studiando sia l’uno sia l’altro.
Gli uomini desiderano vedere l’organismo sociale come qualcosa in cui ci sono delle istituzioni che mantengono tutto nelle condizioni ideali, in cui tutto viene fatto nel modo migliore. Non ci si chiede mai se questo sia anche possibile. La gente vorrebbe fondare una vita economica in cui ci siano delle istituzioni che impediscano l’insorgere di qualsiasi danno. Non si tiene conto del fatto che nella vita si ha a che fare appunto con la vita e non con delle astrazioni.
Vedete, nell’essere umano, nell’organismo naturale, c’è per esempio il fatto che noi inspiriamo l’ossigeno, che poi viene trasformato in anidride carbonica. Nell’organismo umano l’ossigeno svolge un determinato ruolo tramite determinati organi che lo trasformano, cioè, non lo trasformano, ma lo combinano con altre sostanze di modo che possano svolgersi determinate funzioni dell’organismo. Sì, devono esserci degli organi particolari che fanno una certa cosa, e se ci fossero solo loro, nell’organismo si produrrebbero dei danni.
La possibilità dei danni ci dev’essere, si tratta di impedirne la formazione. Questa è la natura di tutto ciò che è vivente.
Quelli che dicono: abbiamo un organismo economico; se lo organizziamo in modo che funzioni bene, non abbiamo bisogno di affiancargli nessun organismo giuridico o culturale – parlano esattamente come quelli che dicono: sarebbe molto meglio, rispetto a quello che hanno fatto il Creatore o le forze della natura, se bastasse mangiare una volta sola in vita e poi l’organismo umano fosse attrezzato in modo che niente andasse distrutto e non si dovesse continuamente mangiare.
Quando si tratta di esseri viventi, si tratta di processi cha vanno su e giù. Una vita economica sana, proprio in virtù della sua robustezza fa sì che si presentino dei danni. E nello stesso tempo questi danni vanno eliminati sul nascere, in statu nascendi. Questo non può essere fatto per mezzo dell’organismo economico stesso, ma mediante l’organismo giuridico e quello culturale che lo affiancano, e la cui funzione consiste proprio nell’eliminare sul nascere i danni che l’organismo economico deve creare proprio per il fatto che è sano.
Questo è il carattere dell’elemento vitale, che le varie funzioni sono in vivace interazione fra loro. Un simile modo di considerare le cose è certamente più scomodo, ma si attiene alla realtà, non vuole riformare l’organismo economico in modo tale che esso si autoelimini, si autodistrugga.
È facile dire: questi e quei danni sono sorti dalla produzione moderna, quindi va eliminata e sostituita con un’altra. Non si tratta di rivendicare qualcosa, bensì di studiare le leggi di vita di un organismo vivente che già esiste. E una di queste leggi consiste nel provocare da un lato certe cose che da sole potrerebbero far morire l’organismo. Perciò altri elementi dell’organismo agiscono in senso opposto, e già in statu nascendi, allo stadio embrionale, viene effettuata la correzione.
Le tre funzioni principali dell’organismo devono correggersi a vicenda. Così l’idea è concepita in maniera aderente alla realtà. Chi oggi vuole occuparsi della questione sociale, deve abituarsi a pensare in maniera conforme alla realtà. Se si affermasse su vasta scala un pensiero distorto, simile ad una caricatura, che non ha nulla a che fare con la realtà e che fa programmi partendo dalle passioni e dalle emozioni umane, ci muoveremmo a vele spiegate verso condizioni terribili. Un pensiero aderente alla realtà invece darà origine a realtà. Questa è la prima cosa da fare: acquisire un pensiero aderente alla realtà.
Quarta conferenza
La vita culturale:
arte, scienza, religione.
L’educazione come arte sociale
Zurigo, 28 ottobre 1919
Cari ascoltatori!
Se osserviamo la storia degli ultimi anni e ci chiediamo come si presentino al suo interno le questioni e le rivendicazioni di natura sociale sollevate da oltre mezzo secolo, non potremo che ottenere la seguente risposta.
In vaste aree del mondo civile, vari personaggi che si sono dedicati per decenni all’osservazione delle questioni sociali avevano la possibilità di lavorare positivamente ad una fondazione, ad una riorganizzazione della società. E un fenomeno straordinariamente tipico è appunto questo: tutte le teorie e le opinioni sorte da parte socialista da oltre mezzo secolo si sono rivelate impotenti per quanto riguarda un lavoro costruttivo, una riorganizzazione in senso positivo delle condizioni attuali.
Cari ascoltatori! Negli ultimi anni abbiamo assistito a molti fallimenti e a poche realtà costruttive – chi vede a fondo le cose direbbe addirittura a nessuna. Non deve forse l’animo umano chiedersi quale sia la vera causa dell’impotenza delle proposte avanzate rispetto al lavoro positivo?
Mi sono permesso di dare una breve risposta a questa domanda, risposta a cui vorrei oggi fare un accenno. È successo nel momento immediatamente precedente alla grande catastrofe della guerra mondiale nella primavera del 1914, in un breve ciclo di conferenze che ho tenuto a Vienna davanti a un ristretto numero di persone – all’epoca una cerchia più grande mi avrebbe probabilmente deriso per le mie affermazioni.
Quella volta, rispetto a tutti i pronostici sul futuro prossimo fatti dai cosiddetti pragmatici, mi sono permesso di dire che nelle nostre condizioni sociali in tutto il mondo civile c’è qualcosa che agli occhi dell’osservatore attento della vita interiore dell’umanità appare come un’ulcera sociale, come una malattia sociale, una specie di formazione cancerosa che in breve tempo dovrà esplodere in maniera terribile in tutto il mondo civile.
Quelli che all’epoca parlavano della “distensione politica” e di cose simili – erano statisti pragmatici, esperti in materia! – l’hanno considerato il pessimismo di un idealista. Invece, cari ascoltatori, quelle parole scaturivano da una convinzione che ci si può formare osservando in modo scientifico-spirituale l’evoluzione umana, prendendo le mosse dal tipo di osservazione scientifico-spirituale che voglio descrivervi questa sera.
A questa osservazione scientifico-spirituale è dedicato il cosiddetto edificio di Dornach, il Goetheanum, situato qui in Svizzera, in un angolo nord-occidentale della Svizzera. Questa costruzione vuole rappresentare a livello esteriore il movimento scientifico-spirituale di cui vi sto parlando. Oggi potete sentire e leggere varie cose a proposito di ciò a cui si aspira con l’edificio di Dornach, a proposito del movimento che questo edificio rappresenta.
E nella maggior parte dei casi potete dire che è vero il contrario delle chiacchiere che si fanno oggi in proposito. In questo movimento, simboleggiato dall’edificio di Dornach, si va a cercare ogni genere di mistero, di finta mistica priva di senso, di sciocchezze. È fuori discussione che su questa corrente della vita culturale ancor oggi regnano malintesi su malintesi.
In realtà si tratta del fatto che con questa corrente culturale si aspira in modo cosciente a un rinnovamento di tutta la nostra vita civile quale si è sviluppata nel corso della storia nella sua arte, nella religione, nella scienza, nell’educazione e via di seguito. Per chi si rende conto della situazione è necessario un rinnovamento, un rinnovamento a partire dalle fondamenta.
E questa corrente culturale della scienza dello spirito porta alla convinzione a cui ho già accennato nelle conferenze precedenti. Porta alla convinzione che oggi, per quanto riguarda il movimento sociale, non basta pensare all’uno o all’altro provvedimento singolo, sporadico, ma che ciò che viene richiesto dal più profondo dell’evoluzione dell’umanità sia una trasformazione della mentalità, del modo di pensare, della più intima disposizione d’animo dell’umanità stessa.
La scienza dello spirito di cui qui si parla tende ad una trasformazione di questo tipo. E non può che pensare che, dal momento che le opinioni sociali di cui ho appena parlato, in quanto sorte da modi di pensare antiquati, non più adeguati all’evoluzione dell’umanità e alla vita attuali, hanno fatto cilecca nel loro mettersi a ricostruire, a riorganizzare la società.
Quello di cui abbiamo bisogno è un tipo di pensiero che capisce veramente le cose. Che cosa vogliono in realtà i desideri e le aspettative dell’umanità odierna, desideri e aspettative inconsci, non ancora affiorati al pensiero conscio? Che cosa vogliono soprattutto per quanto riguarda l’arte, la scienza, la religione e l’istruzione pubblica?
Prendiamo per esempio in considerazione ciò che negli ultimi tempi è andato formandosi come arte.
So molto bene, cari ascoltatori, che quanto sto per dire come breve caratterizzazione di quella che è andata formandosi come arte, scandalizzerò molti di voi. Molti potranno vedere la cosa come se con essa si documentasse la totale mancanza di comprensione nei confronti delle correnti dell’arte più recente.
A prescindere da singoli tentativi – peraltro molto lodevoli – fatti negli ultimi anni, la caratteristica principale della recente evoluzione artistica è quella di non aver più avuto un vero impulso interiore che consente di presentare all’umanità qualcosa che l’uomo percepisce come un suo bisogno diretto.
È invece sorta sempre più l’opinione che davanti a un’opera d’arte ci si debba chiedere in che misura viva in essa lo spirito, il senso della realtà esteriore, in che misura la natura esteriore o la vita esteriore umana venga riprodotta fedelmente dall’arte. E basta semplicemente chiedersi: che significato ha un’opinione del genere di fronte a un dipinto o a un’opera d’arte di Raffaello o di Leonardo?
In questi due artisti, non vediamo che l’elemento determinante non è il rapporto con l’immediata realtà esteriore, ma che si tratta invece di creazioni a partire da qualcosa di estraneo alla realtà esteriore? Quali mondi ci si illuminano quando ci troviamo di fronte al Cenacolo di Leonardo, quell’affresco a Milano che non si riesce più a vedere molto bene, o a un dipinto di Raffaello!
Non è in fondo irrilevante stabilire in che misura questi artisti abbiano colto questa o quella legge dell’esistenza naturale? L’importante non è forse che ci raccontano qualcosa di un mondo che non possiamo vedere con gli occhi fisici, che non possiamo percepire con i sensi esteriori? E invece l’unico criterio di valutazione di un’opera d’arte o di un prodotto artistico è che l’uomo moderno si chiede se la cosa è vera, e con “vera” intende qualcosa di naturalistico nel senso consueto.
Chiediamoci, per quanto oggi sembri ingenuo anche a certe correnti artistiche: nella vita, anche in quella sociale, che cos’è un’arte che non vuol altro che riprodurre un lembo di realtà esteriore?
Cari ascoltatori, nella stessa epoca in cui sono nati il capitalismo e la tecnica moderni, si è sviluppato in ambito specificamente artistico il paesaggio.
Ovviamente conosco anch’io la giustificazione pittorica del paesaggio, ma anche l’altra domanda è pienamente giustificata: mi trovo di fronte ad un paesaggio perfetto fin che si vuole dal punto di vista artistico – è mai in grado di raggiungere quello che si presenta ai miei occhi quando sono sul pendio di una collina e ho davanti a me il paesaggio naturale?
Proprio la nascita del “paesaggio” testimonia in che misura l’arte, ormai incapace di creare a partire da qualcosa di spirituale, di sovrasensibile, si sia rifugiata nella mera imitazione della natura, con la quale non può in nessun modo concorrere. Che cosa diviene di un’arte che vive solo di tali impulsi?
Un’arte siffatta, cari ascoltatori, non è qualcosa che spunta dalla vita come un fiore dal terreno, ma qualcosa che si colloca accanto alla vita come un lusso, come qualcosa che può essere apprezzato solo da chi non è completamente immerso nella vita con le sue preoccupazioni personali esistenziali.
Non è comprensibile che gli uomini occupati dalla mattina alla sera in questioni di pura e semplice sopravvivenza – che non hanno neppure accesso ad una cultura che li porti alla comprensione di quest’arte, cultura che dev’essere essa stessa qualcosa di artistico – sentano che un abisso li divide da quest’arte?
E anche se oggi non si osa dirlo, poiché lo si ritiene piccolo borghese, nella vita sociale si delinea il fatto che ampie cerchie considerano inconsciamente quest’arte come un lusso della vita, come qualcosa che non appartiene a tutti, e che la vera arte invece deve far parte di ogni esistenza dignitosa, poiché è solo attraverso di essa che un’esistenza dignitosa diventa piena di contenuto.
In un certo senso l’arte naturalistica sarà sempre un lusso, fatto solo per coloro che hanno la possibilità di vivere senza preoccupazioni legate alla sopravvivenza e di ricevere una formazione artefatta che li fa godere di quel tipo di arte.
Me ne sono ben accorto, cari ascoltatori, facendo per anni l’insegnante in una scuola di formazione per operai, dove ho avuto occasione di parlare direttamente agli animi del popolo in modo da farmi capire, rispetto a tutto ciò che certi che si definiscono “guide del popolo” inculcano come teoria socialista per la rovina del popolo – perdonatemi questa osservazione personale. Mi sono accorto cosa significhi presentare agli animi semplici questa o quella scienza usando un linguaggio universalmente umano.
E da un certo desiderio di conoscere i prodotti dell’arte moderna nacque nei miei allievi anche la richiesta di essere guidati da me nei musei la domenica.
E cosa succedeva? Naturalmente si poteva spiegare alle persone ciò che dovevano capire, dal momento che avevano il desiderio sincero di essere istruite. Ma si vedeva chiaramente che la cosa non aveva sugli animi lo stesso effetto di quanto proviene dall’umano a tutti comune quando viene comunicato agli animi semplici. Cari ascoltatori, il raccontare alla gente quello che nel recente naturalismo si è presentato come un’arte di lusso lontana dalla vita reale veniva vissuto come una menzogna culturale.
E non vediamo come dall’altra parte l’arte abbia perso il rapporto con la vita?
Anche lì negli ultimi decenni sono stati fatti tentativi molto lodevoli, ma assolutamente futili. Nel campo dell’artigianato artistico sono emerse delle aspirazioni che hanno visto come il nostro ambiente quotidiano abbia perso qualsiasi tipo di fisionomia artistica. L’arte ha fatto apparentemente dei progressi, ma tutte le case da cui siamo circondati, gli oggetti di uso comune in cui ci imbattiamo ogni giorno sono diventati quanto mai disadorni, privi d’arte.
Poiché l’arte stessa si è separata dalla vita pratica, quest’ultima non ha potuto essere elevata ad una configurazione artistica. Un’arte che vuole solo imitare la realtà stessa non avrà nessuna possibilità di dare ai tavoli, alle sedie e agli altri oggetti d’uso comune una forma tale per cui, vedendoli, si possa avere la sensazione di qualcosa di artistico – poiché questi oggetti devono trascendere la natura, allo stesso modo in cui la vita umana stessa va oltre quella naturale.
Se l’arte vuole semplicemente imitare, non può che vacillare posta di fronte alla rappresentazione della vita pratica, che diventa allora prosaica, banale, arida. Non saprà darle una forma tale per cui l’elemento artistico ci circondi in modo immediato nel quotidiano.
Cari ascoltatori, si potrebbe continuare a descrivere questa situazione, ma io voglio solo indicare la direzione presa dalla nostra evoluzione culturale. E anche in altri campi della civiltà moderna ci siamo mossi in maniera analoga.
Non abbiamo visto come la scienza ha rinunciato sempre più a essere portatrice di qualcosa che sta alla base della vita sensibile esteriore? Non c’è da meravigliarsi che l’arte non riesca a trovare la via d’uscita dall’esistenza materiale, se la scienza stessa ha perso di vista la strada. Passo dopo passo, la scienza si è ridotta a registrare le realtà sensibili o al massimo a catalogarle in leggi naturali.
Nell’attività scientifica degli ultimi tempi è andato diffondendosi un sempre più deciso intellettualismo; e gli scienziati hanno il terrore di non riuscire ad abbandonarsi interamente a questo intellettualismo nelle loro ricerche, di introdurre nella scienza anche solo un po’ di fantasia, un po’ di intuizione artistica.
Provate un po’ a leggere o ad ascoltare qualcosa di quegli scienziati che al giorno d’oggi si esprimono in questa direzione: vi accorgerete della grande paura che hanno che nella scienza possa fare il proprio ingresso qualcosa di diverso dall’arido e prosaico intelletto fondato sull’indagine sensoriale. Questi personaggi sostengono che in tutte le attività che non si attengono ai meri concetti l’uomo non sia sufficientemente distaccato dalla realtà per poterla valutare nel modo giusto.
Così il ricercatore, lo scienziato del giorno d’oggi, tende ad improntare la propria attività solo all’intellettualismo, perché solo così crede di essere abbastanza distante dalla realtà per poterla giudicare obiettivamente, come dice lui.
Ma a questo punto ci si dovrebbe domandare: per mezzo dell’intellettualismo non si tende invece ad allontanarsi dalla realtà al punto da non viverla più?
È questo intellettualismo che più di ogni altra cosa ci ha portati a non saper più padroneggiare la realtà con la nostra scienza, come ho già accennato nelle precedenti conferenze e come continuerò a illustrarvi oggi.
E per quanto riguarda la vita religiosa: con quale diffidenza e con quale critica sprezzante viene accolto dalle comunità religiose ogni tentativo intrapreso in ambito scientifico-spirituale di fare ingresso nella realtà dello spirito, come quello di cui si parla qui! Per quale motivo?
Oggi la gente non si rende affatto conto del vero motivo. Dai nostri centri ufficiali, da una scienza che si vuole attenere unicamente al mondo sensibile esteriore, apprendiamo come si debba giustificare in maniera apparentemente obiettiva il fatto che solo così è possibile che sorga una scienza autentica e rigorosa. Per chi conosce l’evoluzione storica dell’umanità le cose non stanno affatto in questo modo.
Per chi conosce l’evoluzione storica dell’umanità le cose stanno altrimenti: nel corso dell’era moderna – in effetti sempre più a partire dagli ultimi secoli – le comunità religiose hanno reclamato il monopolio in campo di anima e spirito, conferendo validità soltanto a quelle opinioni a cui l’umanità poteva credere perché autorizzata da loro.
E sotto l’influsso di queste pretese monopolistiche, gli scienziati hanno tralasciato di occuparsi d’altro che non di realtà sensibili esteriori, e al massimo hanno cercato di penetrare nell’ambito spirituale con alcuni concetti astratti. Credono di farlo per amore dell’oggettività della scienza, e non sospettano minimamente di farlo sotto l’effetto del monopolio della conoscenza circa l’anima e lo spirito da parte delle confessioni religiose.
Quello che per secoli è stato loro proibito, oggi viene dichiarato dagli scienziati come una necessità oggettiva per la loro esattezza, per la loro obiettività. Così si spiega che, non avendo le comunità religiose sviluppato ulteriormente la comprensione del mondo animico e spirituale, ma essendosi limitate a conservare delle vecchie tradizioni, nella ricerca di nuove vie verso l’anima e lo spirito per mezzo di nuovi modi di pensare si veda un elemento ostile alla religione, mentre questo modo di ricerca e queste nuove vie dovrebbero essere considerati i suoi migliori amici.
Dovremo parlare in primo piano di queste tre sfere – arte, scienza e religione –, poiché la scienza dello spirito a orientamento antroposofico si prefigge come suo compito una rifondazione di questi tre campi. Per spiegarvelo, devo spendere qualche parola sulla vera natura di questa scienza dello spirito.
Questa scienza dello spirito, cari ascoltatori, parte da presupposti completamente diversi da quelli della scienza odierna corrente. La scienza dello spirito riconosce pienamente i metodi scientifici, nonché i trionfi delle attuali scienze naturali. Ma siccome ritiene di capire la ricerca scientifica meglio degli studiosi della natura, per la conoscenza dello spirito e dell’anima sa di dover intraprendere strade diverse da quelle che al giorno d’oggi vengono considerate da vasti ambienti come le uniche giuste.
Dato che ogni ricerca che ha per oggetto l’anima e lo spirito viene accolta con pregiudizi così radicati, si diffondono le idee più errate e i fraintendimenti più insidiosi sulle intenzioni del movimento scientifico-spirituale. Che tale movimento non ha false e tantomeno oscure intenzioni mistiche lo si potrebbe desumere chiaramente da ciò che ho cercato di fare già all’inizio degli anni ’90 per dar l’avvio a quel movimento scientifico-spirituale di cui vi sto parlando ora e del quale l’edificio di Dornach è il rappresentante.
All’inizio degli anni ’90 ho riassunto nella mia Filosofia della libertà ciò che allora ritenevo indispensabile per la conoscenza sociale del presente.
Chi legga questa Filosofia della libertà non potrà accusare di falsa mistica la scienza dello spirito qui presentata. Potrà invece riconoscere il grande divario che c’è fra la visione della libertà umana contenuta in quel libro e ciò che oggi si trova nella nostra civiltà moderna come impulso, come idea di libertà.
Come esempio di quest’ultima desidero citare il concetto di libertà di Woodrow Wilson – un concetto singolare, ma assolutamente tipico della cultura, della civiltà della nostra epoca.
La richiesta di libertà di questo Woodrow Wilson per la vita politica attuale nasce in lui dal profondo. Ma qual è il suo concetto di libertà? Si arriva a capire cosa intende per libertà leggendo nei suoi scritti parole come queste: una nave, dice, si muove liberamente se si adegua a tutte le forze che risultano dalla direzione del vento, dalle onde del mare e così via, se nella sua costruzione è perfettamente conforme all’ambiente, così che le forze provenienti dal vento e dalle onde non possano mai costituire un ostacolo alla sua navigazione.
Così anche l’essere umano potrà “veleggiare liberamente” lungo il corso della vita se si adegua alle forze che incontra, così che non ci siano ostacoli. Woodrow Wilson paragona la libera esistenza dell’uomo anche alla componente di una macchina, sostiene infatti: di un qualsiasi pezzo montato in una macchina si dice che si muove liberamente se non urta in nessun punto, se il resto della macchina è costruito in modo che quella parte vi si possa muovere senza alcun intoppo.
Ho solo una cosa da dire in proposito, cari ascoltatori: che si può parlare di libertà per l’uomo solo se la si vede come l’esatto opposto di un simile adattamento all’ambiente; che non si può parlare di libertà dell’uomo se le sue manifestazioni sono solo come quelle di una nave in mare, che si adegua nel miglior modo possibile alle forze del vento e delle onde, ma che se ne può parlare solo se lo si paragona a una nave che fosse capace di andare contro il vento e le onde, di fermarsi nonostante il loro inveire, senza curarsi delle forze per cui è conformata.
Voglio dire che una simile concezione della libertà ha alla base la visione meccanicistica del mondo, che attualmente viene ritenuta l’unica possibile e che è sorta dall’intellettualismo degli ultimi tempi. Nella mia Filosofia della libertà ho dovuto oppormi nel modo più risoluto a questo modo di pensare.
So molto bene – permettetemi un’altra considerazione personale – che questo libro presenta per così dire le caratteristiche tipiche del suo cantiere di fabbricazione. Prende le mosse dalla filosofia europea e ha dovuto confrontarsi con i concetti ricorrenti all’interno di tale concezione del mondo, ragion per cui ad alcuni può apparire accademico, benché nelle sue intenzioni non lo sia affatto. L’intento di questo libro è che quanto in esso viene indicato come impulso interiore debba diventare una componente della vita pratica, che quanto è in grado di riversarsi nella volontà umana grazie alle idee lì sviluppate possa anche far ingresso nell’immediata vita sociale dell’uomo.
Ma per questo ho dovuto porre la domanda sulla libertà umana in modo completamente diverso dal solito. Ovunque vi voltiate, per secoli e secoli di evoluzione dell’umanità la domanda sulla libertà della volontà dell’uomo è stata posta in questi termini: questo essere umano è libero o non è libero?
Ho dovuto mostrare come la domanda posta in questo modo sia sbagliata, come sia necessario porla su una base del tutto nuova. Se infatti prendiamo quello che l’uomo, per via della moderna concezione scientifica del mondo e anche della moderna coscienza umana, considera come il proprio essere, del quale conosce però solo il lato fisico naturale, quello, cari ascoltatori, non potrà mai essere un essere libero. Quello deve agire in base ad una necessità di natura.
Se l’uomo fosse soltanto quello che la scienza moderna vede in lui, allora la sua “libertà” sarebbe proprio quella descritta da Woodrow Wilson. Ma quella non sarebbe una libertà, bensì solo quello che per ogni singola azione possiamo definire un effetto deterministico in base a cause naturali. Ma questa moderna coscienza umana non si è data eccessivamente pensiero per l’altro elemento, dove davvero nell’essere umano ha inizio la domanda sulla libertà.
Questa moderna coscienza umana parla solo di quello che sta alla base dell’uomo come elemento naturale, come essenza unicamente dipendente dalla causalità di natura. Ma colui che scende più a fondo nella natura umana deve dirsi: nel corso della propria esistenza l’uomo può diventare più di quel che è in base a ciò che la natura gli ha dato.
Si capisce che cos’è l’uomo solo nell’istante in cui si ha questo obiettivo, quando ci si dice: una componente dell’uomo è quello che ha avuto per nascita, ciò che è ereditario in lui, ma tutt’altra cosa è quello che l’uomo può sviluppare in sé liberamente, quello a cui non è indotto per via della sua fisicità, ma che può diventare solo ridestando un secondo essere che era prima sopito in lui.
Stando così le cose, non ho chiesto se l’uomo è libero o no, ma ho posto la domanda in questi altri termini: può l’uomo, grazie alla sua evoluzione interiore, diventare un essere libero o no?
E può sì diventare un essere libero, se solo sviluppa quello che altrimenti resta assopito dentro di lui, quello che può essere ridestato e diventare libero. Cioè, la libertà non appartiene all’uomo per natura, ma nell’uomo è libero ciò che lui stesso può e deve risvegliare in sé oltre il dato di natura.
Ma se quello che nella mia Filosofia della libertà ho svolto maggiormente in riferimento alla vita sociale deve essere reso chiaro ad una cerchia più vasta di persone, sulla base di questa filosofia va costruita quella che io chiamo “scienza dello spirito a orientamento antroposofico”. Allora bisogna mostrare il cammino che rende l’uomo capace di prendere in mano la propria evoluzione, di ridestare un essere che dorme dentro di lui.
Ho cercato di farlo nel mio libro L’iniziazione: come si consegue la conoscenza dei mondi superiori? e negli altri libri che ho dato alla letteratura scientifico-spirituale. In questi testi ho voluto mostrare che l’uomo ha la capacità di prendere in mano la propria evoluzione, e che solo così facendo, diventando qualcosa di diverso da quello che è per nascita o per natura, può ascendere ad una vera conoscenza dell’elemento animico e spirituale.
Tuttavia ancor oggi gran parte dell’umanità lo considera un modo di pensare balordo. Qual è infatti il presupposto di questa concezione? Essa presuppone che l’uomo si conquisti una certa modestia intellettuale, cosa che al giorno d’oggi sono in pochissimi a volere. Desidero spiegarvi nel modo seguente questa modestia intellettuale che l’uomo d’oggi è chiamato a far sua.
Se mettiamo in mano a un bambino di cinque anni un volume di liriche di Goethe, lui di sicuro non assumerà un atteggiamento adeguato nei confronti di questo libro. Lo farà forse a pezzi o ne farà qualcos’altro; ad ogni modo, pur stando in piedi o seduto davanti a questo volume di liriche di Goethe, non sa che cos’ha di fronte. Ma è possibile che passino dieci o dodici anni, e che noi nel frattempo abbiamo provveduto alla sua crescita e alla sua istruzione. Allora il suo atteggiamento nei confronti di quel volume delle liriche di Goethe sarà ben diverso.
E in fin dei conti, a livello esteriore non c’è poi una gran differenza tra il bambino che si trova davanti al volume di Goethe a cinque anni e il ragazzo che ha dodici o quattordici anni in più. A livello interiore invece c’è una differenza enorme. Noi abbiamo educato il bambino in modo che adesso sa cosa farsene del volume delle liriche di Goethe.
È più o meno come il bambino piccolo davanti al libro di Goethe che dovrebbe sentirsi l’uomo adulto davanti alla natura e al mondo intero, qualora prenda sul serio la realtà dell’anima e dello spirito.
Dovrebbe dirsi: devo prima lavorare all’evoluzione del mio essere interiore per imparare a leggere nel libro della natura e del mondo, come il bambino di cinque anni va educato a leggere e capire il contenuto delle liriche di Goethe.
La modestia intellettuale dovrebbe aiutarci a riconoscere che non possiamo capire il mondo con ciò che riceviamo dalla nascita o dalla natura. Dovremmo ammettere che ci possono essere delle vie per un’evoluzione personale, per lo sviluppo di quelle forze interiori dell’uomo che ci danno di vedere l’elemento animico e spirituale in ciò che si presenta ai sensi.
E le opere citate dovrebbero mostrare come questo sia possibile in pratica. Oggi ciò è diventato necessario perché l’intellettualismo invalso nel corso degli ultimi secoli non è in grado di dominare veramente la vita, ma sa solo penetrare in una delle sue sfere, quella della natura inanimata. Non può far altro che brancolare di fronte alla realtà dell’uomo, e in particolare a quella sociale.
E quella che ho ora definito modestia intellettuale, cari ascoltatori, dovrà porsi alla base di ogni concezione veramente moderna dell’impulso umano alla libertà, nonché di un’effettiva comprensione della necessità di trasformare anche l’arte, la religione e la cultura.
La vita puramente intellettuale ha mostrato fin troppo chiaramente che non è in grado di giungere ad una conoscenza che coglie l’elemento spirituale e animico. Come vi ho già accennato, si è limitata al mondo sensibile esteriore per registrarlo e sistematizzarlo. Per questo non ha potuto affermarsi contro il monopolio delle comunità religiose, che comunque sono state altrettanto incapaci di elevarsi ad una nuova conoscenza dello spirito e dell’anima, ma hanno invece introdotto nell’era moderna una concezione antiquata, anacronistica.
Una cosa va assolutamente superata: il timore che ho appena descritto di calarsi troppo intensamente nelle cose se le si deve conoscere dal punto di vista spirituale. Si trova comodo schierarsi dalla parte dell’intellettualismo, per il semplice fatto che occupandosi solo delle idee astratte anche in campo scientifico, si prendono le distanze dalla realtà in modo da essere sicuri di non subirne alcun influsso, di non venire “contagiati” dalla realtà.
Ma con una conoscenza come quella qui intesa, una conoscenza che ci si procura solo se si prende in mano la propria evoluzione, ci si deve proprio immergere a fondo nella realtà della vita. E bisogna andare a fondo anche del proprio essere, ben più a fondo di quanto sia possibile con la semplice autoeducazione in chiave di intellettualismo.
Il puro intellettualismo consente di toccare solo gli strati superficiali della propria vita. Scendendo invece nelle profondità del proprio essere con la conoscenza di cui stiamo parlando, non troviamo solo idee o sensazioni che rispecchiano un mondo esteriore, ma troviamo processi e realtà dell’interiorità umana davanti ai quali l’uomo che conosce solo con l’intelletto arretra spaventato, e che sono simili a ciò che avviene nella natura, nel mondo. Ecco allora che immergendosi nella propria interiorità si impara a conoscere l’essenza stessa del mondo.
Non la si conosce, invece, se ci si limita ai concetti astratti o alle leggi di natura. Occorre raggiungere uno stato di fusione con la natura. Bisogna non aver paura di avvicinarsi alla realtà, ma, grazie alla propria evoluzione interiore, bisogna entrarvi dentro senza però venirne consumati, bruciati o soffocati, ma, pur restando immersi in essa, pur senza avere la distanza da intellettuale, saper afferrare la realtà oggettiva delle cose.
Così, nel mio libro L’iniziazione: come si consegue la conoscenza dei mondi superiori? si trova descritto il cammino interiore dell’uomo verso la conoscenza spirituale, nel senso che l’uomo immergendosi nella realtà acquisisce conoscenze che non hanno il carattere di distanza intellettuale, ma che sono esse stesse talmente sature di realtà da potercisi immedesimare.
Cari ascoltatori, vedrete che una caratteristica fondamentale della scienza dello spirito di cui stiamo parlando è la sua capacità di immergersi nella realtà. Essa non parla infatti di uno spirito astratto, ma dello spirito concreto che è presente nel mondo circostante esattamente come le cose del mondo sensibile.
La moderna vita culturale ha prodotto solo osservazioni astratte. Prendete una cosa qualunque che nella moderna vita culturale non sia uno studio scientifico, ma un saggio puramente filosofico, e vedrete come spesso questa visione filosofica, o come la volete chiamare, della vita sia lontana dalla vita reale, dalla vera conoscenza delle cose.
Leggete per esempio in un testo di psicologia moderna qualcosa a proposito della volontà. Quello che ci trovate non va oltre a qualcosa che potremmo definire un puro e semplice gioco di parole. Nelle idee degli uomini che si dedicano a tali riflessioni non c’è la forza necessaria per immergersi nell’essere più profondo della natura. La materia resta qualcosa di esteriore perché non si è in grado di entrarci dentro con lo spirito. Lasciatemi spiegare la cosa con un esempio.
In uno dei miei ultimi libri, Enigmi dell’anima, ho accennato a come una certa concezione scientifica tradizionale debba essere sostituita da quella di una moderna scienza dello spirito. So quanto paradossali sembreranno a molti le cose che sto per dire, ma ciò che è all’altezza delle esigenze vere dell’uomo, che già adesso si annunciano e che in futuro si paleseranno sempre più, risulterà spesso paradossale rispetto a ciò che oggi viene considerato come l’unica cosa giusta.
Oggi ogni scienziato che si sia occupato di queste cose afferma che nel corpo umano e in quello animale – noi ora vogliamo interessarci solo dell’uomo – ci sono due tipi di nervi. Gli uni conducono dai sensi all’organo centrale – sono i nervi sensitivi, sensori, che vengono stimolati quando si percepisce mediante i sensi. Si sostiene che questo stimolo si propaghi fino al centro nervoso dell’uomo. Poi ci sarebbe l’altro tipo, i cosiddetti nervi motori che dal centro si dirigono agli arti dell’uomo. Grazie a questi nervi motori l’uomo sarebbe in grado di muovere i suoi arti. Mentre i primi sono “nervi senzienti”, questi sarebbero “nervi volenti”.
Bene, cari ascoltatori, nel mio libro Enigmi dell’anima ho illustrato, seppur a grandi linee, quanto segue: non esiste differenza sostanziale fra i nervi sensori e i cosiddetti nervi motori; i cosiddetti nervi della volontà non sono al servizio della volontà. I fenomeni che dovrebbero dimostrare che tali nervi servono alla volontà, come per esempio quella malaugurata malattia che è la tabe polmonare, la tubercolosi, provano esattamente il contrario, come può essere facilmente dimostrato, provano quello che sto per esporvi.
Questi cosiddetti nervi volitivi sono anch’essi nervi sensitivi. Mentre gli altri nervi sensitivi vanno dagli organi di senso all’organo centrale per far sì che quanto viene trasmesso dai sensi dall’esterno possa essere percepito, i cosiddetti nervi volitivi, che sono anch’essi nervi sensitivi, percepiscono i movimenti che avvengono dentro di noi. Non ci sono nervi volitivi, della volontà: si tratta della percezione dei propri movimenti.
Il volere è di natura puramente spirituale, è una realtà animico-spirituale che agisce direttamente come tale. Noi abbiamo bisogno dei cosiddetti nervi motori perché essi percepiscono in noi la parte che si deve muovere, che va percepita se si vuole che la volontà la metta in moto.
Per quale motivo vi ho fatto questo esempio, cari ascoltatori? Perché oggi potete vedere, leggere e ascoltare tante discussioni in cui si parla della volontà, solo che vengono sviluppate delle idee che non hanno la forza propulsiva necessaria per conoscerla nella sua realtà, per osservare il volere nel suo operare reale. Queste conoscenze restano astratte, avulse dalla realtà, con esse la scienza può ben venirci a raccontare che esiste un tipo di nervo volitivo-motorio.
La scienza dello spirito sviluppa sulla volontà delle idee che mostrano anche di che natura è l’elemento corporeo del sistema volitivo umano. In altre parole, la scienza dello spirito sa indagare l’essenza vera dei fenomeni naturali, delle realtà naturali; non resta in un ambito estraneo alla vita, ma si immerge nella realtà concreta.
Questa scienza ha il coraggio di non lasciare la materia là fuori, ma di entrarvi dentro con lo spirito. Per essa tutto diventa spirituale, e perciò essa vuole anche entrare nel merito dell’organizzazione sociale e può contribuire alla realizzazione della vita sociale, compito che le scienze naturali astratte e intellettualistiche non sono in grado di svolgere.
E così, cari ascoltatori, questa scienza dello spirito dovrà anche parlare di una conoscenza spirituale, di una nuova via per far ingresso nel mondo dello spirito e dell’anima. Avrà il coraggio di dire: oggi per noi quelle immagini dei mondi spirituali viste da artisti come Raffaello, Michelangelo e Leonardo da Vinci non possono far più testo. In base all’ulteriore evoluzione dell’umanità, siamo tenuti a cercare un nuovo accesso al mondo spirituale.
Ma se riacquistiamo la conoscenza del mondo spirituale, se riusciamo a farvi ingresso, se impariamo a conoscerlo non come fa un panteismo nebuloso che continua a parlare dello spirito astratto e oscuro in generale, ma se davvero ci inoltriamo nei fenomeni reali del mondo spirituale – non per mezzo dello spiritismo, ma sviluppando le forze spirituali e animiche umane, come ve le ho descritte qui –, allora si avrà di nuovo coscienza del mondo spirituale in un modo adeguato all’attuale evoluzione dell’umanità, allora i misteri dello spirito si riveleranno nuovamente al mondo.
Allora si verificherà anche quello che Goethe – che era ad uno stadio iniziale rispetto a queste cose, ma che già intuiva quello che la recente scienza dello spirito sta portando avanti – descrive già con queste parole: colui al quale la natura comincia a rivelare il proprio segreto manifesto, prova una profonda nostalgia per la sua interprete più degna, che è l’arte.
Allora l’artista riceverà a sua volta una rivelazione dal mondo spirituale, non sarà indotto a credere che quando si rappresenta l’elemento spirituale in un’immagine visibile si tratti di un’allegoria astratta, simbolica o fatta di carta, ma verrà a conoscere lo spirito vivente, e sarà in grado di esprimerlo con strumenti sensibili. E allora non si dirà più che il meglio di un’opera d’arte consiste nell’imitazione della realtà esteriore, ma lo si vedrà nella sua capacità di manifestare ciò che lo spirito rivela all’uomo.
Rinascerà un’arte intrisa di spirito, un’arte che non è più simbolismo o allegorismo, che non presenta un carattere di lusso ponendosi accanto alla natura, che non può comunque eguagliare, ma che dimostra di essere necessaria e legittima nella vita umana per il fatto che annuncia qualcosa che non può essere evidenziato dall’osservazione sensibile della natura, dall’immediato naturalismo.
E anche se quello che l’uomo plasma a partire dallo spirito fosse dapprima maldestro, si tratterebbe comunque di qualcosa che ha un suo significato, perché va oltre la vita della natura, poiché la trascende. Non imita più la natura abborracciando quello che lei sa fare molto meglio di lui. Cari ascoltatori, qui si apre la via per quel tipo di arte che abbiamo cercato di esercitare anche nella costruzione e nell’organizzazione esteriore del Goetheanum di Dornach.
Lì si è cercato di creare un’espressione per quello che dev’essere come un ateneo della scienza dello spirito. In ogni parete, in tutto ciò che è dipinto sulle pareti, in tutto ciò che è intagliato nel legno e così via, si è cercato di dar forma a quel che si rivela alla scienza dello spirito, che nel Goetheanum trova la sua rappresentazione.
Questo edificio è quindi un’espressione del tutto naturale dello spirito che incarna. Non lo si poteva costruire secondo un vecchio stile architettonico per il fatto che in esso si deve parlare di uno spirito nuovo. Come in natura ogni guscio assume la forma richiesta dal nocciolo che deve contenere – vi basti osservare un guscio di noce, vedrete che è conformato in base a quanto stabilisce la noce dal suo interno –, così nell’edificio di Dornach tutto è strutturato nel modo richiesto da ciò che lì dentro deve risuonare sotto forma di musica, di quello che dev’essere messo in scena sotto forma di rappresentazioni teatrali, di drammi misteriosofici, e di quanto dev’essere espresso in parole come rivelazione della scienza dello spirito.
Ogni parola deve per così dire riecheggiare in ciò che è scolpito nelle colonne, nei capitelli e negli altri elementi dell’edificio. In questo modo nasce un’arte – che è certo ancora agli inizi, e coloro che vi lavorano ne sono i critici più severi – creata realmente a partire da uno spirito nuovo, e quindi dallo spirito in quanto tale.
Cari ascoltatori, quando si intraprende una cosa simile, non si può fare a meno di esporsi a dei malintesi che sono più che comprensibili. Sono venute delle persone – anche altre, che non hanno prestato il fianco ai malintesi nei confronti di questo edificio di Dornach da parte dei suoi numerosi visitatori, che aumentano di giorno in giorno –, ma sono venute anche persone che hanno scritto: «Perbacco, questi antroposofi hanno costruito un edificio pieno di simboli, pieno zeppo di allegorie.»
La cosa interessante è che lì non c’è neanche un solo simbolo, neanche una sola allegoria. Ciò che è stato osservato a livello spirituale è stato direttamente sciolto nella forma artistica. Nelle cose espresse in questo edificio non c’è niente di simbolico o di allegorico, ma tutto vuol essere qualcosa di reale per via della sua forma stessa. Tuttavia oggi come oggi, cari ascoltatori, in quest’epoca in cui si costruiscono perfino le banche in quell’antico stile greco con cui gli Ateniesi edificavano le loro case, finora ci è stato possibile dare un involucro solo ad un laboratorio spirituale, poiché le condizioni sociali esteriori ancora non permettono di costruire secondo questi criteri anche una stazione ferrroviaria o magari una banca.
Per motivi a voi forse facilmente comprensibili non siamo ancora riusciti a escogitare lo stile di una banca moderna o di un moderno emporio, ma anche queste sono cose che vanno trovate. E soprattutto bisogna trovare in questo modo il rapporto con la capacità di plasmare artisticamente tutta la vita pratica.
Pensate solo al significato sociale che avrebbe per la maggior parte delle persone! Come ho detto di recente e come illustrerò ulteriormente, la diffusione di un movimento dipende dal modo di pensare e di sentire degli uomini. Sarà di grande importanza sociale per gli uomini il fatto che gli oggetti di uso quotidiano si presentino all’anima umana in forma artistica, che un cucchiaio o un bicchiere non abbiano una forma casuale desunta dall’utilità puramente esteriore, ma che la loro forma si ispiri alla loro funzione, che nella forma stessa si possa vedere immediatamente e provare piacere per come la cosa è inserita nella vita dell’uomo.
La vita spirituale verrà ritenuta indispensabile da ampie cerchie solo quando avrà un legame diretto con quella pratica. Come la scienza dello spirito è in grado di illuminare la materia – ve l’ho mostrato con l’esempio dei nervi sensitivi e motori –, così l’arte sorta dalle idee scientifico-spirituali sarà capace di spingersi fino all’ideazione di ogni singola sedia, di ogni tavolo e via dicendo.
E se risulta evidente che proprio da parte delle confessioni religiose provengono i più pesanti pregiudizi e malintesi nei confronti di questo orientamento scientifico-spirituale, c’è da chiedersi a che cosa sono approdate alla fin fine queste confessioni religiose, queste Chiese. È nella loro natura che le confessioni religiose trovino una legittimazione solo nella misura in cui si occupano realmente del sovrasensibile.
Ma nella nostra epoca si sono conservate delle antiche concezioni sullo spirituale sorte da presupposti d’animo completamente diversi dai nostri. Una moderna scienza dello spirito vuol indagare il mondo con un nuovo tipo di pensiero, in conformità alla vita interiore dell’uomo d’oggi. Potrà mai il senso religioso degli uomini, correttamente inteso, prendersela con questa scienza dello spirito? Ma nemmeno per sogno!
Con che cosa dovrebbe infatti aver a che fare il senso religioso, tutta la prassi religiosa? La prassi religiosa non dovrebbe consistere nell’annunciare teorie o dogmi sul mondo sovrasensibile, ma nell’offrire agli uomini la possibilità di venerare il sovrasensibile. La religione ha a che fare non con la teoria, ma con la venerazione del sovrasensibile.
La natura umana ha bisogno di questa venerazione, ha bisogno di sollevare lo sguardo pieno di venerazione verso il sublime che vive nel mondo spirituale. Se le si impedisce un accesso al mondo spirituale consono ai tempi, occorre proporgliene uno vecchio. Dal momento però che un tale accesso non è più adeguato alla sensibilità dell’uomo d’oggi, bisogna imporlo come dogma, per decreto, obbligando l’uomo al riconoscimento dell’autorità. Da qui deriva il carattere di esteriorità delle confessioni religiose nei confronti dell’attuale indole umana. Le guide spirituali d’oggi impongono agli uomini modi vecchi di vedere il mondo sovrasensibile.
Cari ascoltatori, immaginatevi delle comunità che capiscono la vera essenza della religione, che consiste nella venerazione dello spirituale. Non dovrebbe essere nel più alto interesse di tali comunità che i loro membri sviluppino una conoscenza viva del sovrasensibile? I più facili da condurre alla venerazione del sovrasensibile non saranno proprio quelli che lo intravedono già nella loro anima, che gli sono vicini nel loro anelito alla conoscenza?
Fa parte della fase recente dell’evoluzione umana il fatto che a partire dalla metà del quindicesimo secolo l’essere umano abbia vissuto un’evoluzione sempre più individuale allo scopo di formarsi una personalità autonoma. Se al giorno d’oggi si esige che l’uomo giunga alla comprensione del sovrasensibile non per mezzo della sua individualità, della sua personalità, ma dovendo sottomettersi ad un’autorità, allora si pretende da lui qualcosa che va contro la sua natura di uomo moderno.
Se invece gli si lascia la libertà di pensiero per quanto riguarda la conoscenza dell’invisibile, allora egli si associerà con i propri simili per coltivare in comunità la venerazione di quel sovrasensibile di cui ciascuno ha una conoscenza fatta a modo suo, del tutto individuale. E proprio il culto comune rivolto al sovrasensibile, la vera religiosità, si svilupperà nel migliore dei modi se gli uomini vivranno in libertà di pensiero, se si accosteranno alla conoscenza del mondo spirituale ognuno a partire dalla propria individualità.
Questo, cari ascoltatori, si manifesterà particolarmente nel modo di concepire l’entità stessa del Cristo. Nei primi secoli questa entità cristica era qualcosa di ben diverso da quello che è diventata perfino per molti teologi dei secoli scorsi, soprattutto del diciannovesimo secolo. Quanto si è allontanata l’umanità dalla contemplazione della vera realtà spirituale del Cristo, realtà che ha vissuto nell’uomo chiamato Gesù!
L’umanità si è allontanata di molto dal capire che nel mistero del Golgota si è verificata l’unione di un’entità sovrasensibile con un corpo umano, affinché la Terra potesse acquisire il suo significato vero e profondo all’interno dell’evoluzione universale. Quanto poco perfino i teologi moderni di un certo tipo hanno capito quest’unione fra sovrasensibile e sensibile, compiutasi grazie al mistero del Golgota!
L’uomo Gesù è diventato sempre più per la teologia il semplice uomo di Nazareth, il modo di pensare della religione è diventato sempre più materialistico. Non essendo in grado di trovare vie per la comprensione del sovrasensibile consone alla nuova umanità, si è perduta anche la via invisibile che porta all’entità del Cristo.
E molti di quelli che oggi credono di vedere il Cristo, lo credono soltanto. Non sanno immaginare quanto poco di ciò che dicono o pensano del Cristo corrisponda realmente a quello che scopre chi si avvicina a questo mistero originario con una conoscenza adeguata allo spirituale.
Si può quindi dire: la scienza dello spirito non vuole di certo fondare una nuova religione, vuol essere una scienza, una conoscenza. Ma si dovrebbe però anche ammettere che essa può fornire non meno le basi per un rinnovamento della vita religiosa dell’umanità. È in grado non solo di rinnovare la vita artistica degli uomini, ma anche quella religiosa.
C’è un ambito in cui la scienza dello spirito potrà agire in maniera particolarmente feconda, un ambito che deve risultare di enorme importanza a chi sa prendere sul serio il futuro sociale dell’umanità: quello della pubblica istruzione.
Negli ultimi tempi si è parlato moltissimo di educazione, ma bisogna dire, cari ascoltatori, che molto di quanto è stato detto non coglie l’elemento più importante. Proprio in questi ultimi tempi ho cercato di mettere in risalto questa cosa principale, avendo ricevuto l’incarico di tenere un corso seminariale per insegnanti di una scuola, la scuola Waldorf di Stoccarda, fondata nel settembre di quest’anno secondo lo spirito della triarticolazione dell’organismo sociale.
In occasione della fondazione di questa scuola ho cercato di dare non solo ai dettagli esteriori una forma corrispondente alle esigenze della triarticolazione dell’organismo sociale, ma anche di organizzare la pedagogia stessa, la didattica da presentare al collegio dei docenti di questa nuova scuola in modo che – come si può immaginare – l’uomo possa essere educato a vivere in quel futuro che, adeguandosi a esigenze immutabili della natura umana, dovrà diventare un futuro sociale nel senso giusto.
Allora si arriva a dirsi: la vecchia pedagogia normativa, che stabilisce determinate regole su come educare, è qualcosa che va superato. Certo, sono molti oggi a sostenere che nell’educazione e nell’insegnamento si debba tener conto dell’individualità della persona, e si citano tutte le regole possibili in base alle quali prenderla in considerazione.
Ma, cari ascoltatori, in futuro la pedagogia non sarà una scienza normativa, bensì una vera e propria arte umana. In futuro la pedagogia si fonderà su una conoscenza completa dell’uomo e si saprà che in quest’uomo, che si sviluppa nel corso degli anni a partire dalla nascita, c’è un’anima e uno spirito che affiorano in superficie plasmandosi gli organi del corpo.
Si vedrà come ogni nuovo anno, all’inizio della scuola, forze diverse si sviluppano dal profondo della natura umana. Questa attenzione non potrà essere accompagnata da una pedagogia normativa astratta, ma solo da una visione concreta della natura umana.
Negli ultimi tempi si è molto parlato di educazione visiva, di lezioni con supporti didattici. È una scelta pienamente legittima entro certi limiti, ma ci sono cose che non possono essere comunicate per mezzo di un’osservazione esteriore, cose che possono esser trasmesse all’adolescente solo se nell’insegnante, nel maestro, nell’educatore vive una vera conoscenza dell’uomo in divenire, se ogni anno lui sa veder sbocciare nell’allievo qualcosa di diverso rispetto all’anno precedente, se conosce quali sono le esigenze della natura umana a sette, a nove, a dodici anni.
Infatti, solo se l’educatore si attiene alla natura è possibile rendere forte la persona che cresce. Oggi nella vita vediamo tante esistenze spezzate, tante persone che non sanno fare niente di giusto nella vita e delle quali la vita non sa che farsene. Le esistenze di questo tipo sono molte, molte più di quanto non si creda di solito. Da che cosa dipende questo fatto?
Cari ascoltatori, questo proviene dal fatto che proprio nell’educazione e nell’insegnamento non si tiene conto delle leggi fondamentali dell’essere umano in crescita.
Vi faccio un esempio. Pedagoghi benintenzionati non fanno che sottolineare l’importanza di illustrare al bambino in modo plastico ciò che si presenta alla sua anima, ciò che è in grado di capire. Già, in teoria saltano fuori cose interessanti, in pratica però si sviluppano delle banalità. Ci si vuole abbassare al livello di comprensione del bambino, lo si vuole educare artificialmente, e ormai lo si fa già per istinto. Ma volendo educare in questo modo, mirando a questa falsa evidenza, che cosa si finisce per trascurare?
Si trascura un’importante legge della vita. Non si sa più cosa significhi per un uomo, mettiamo a trentacinque anni, ricordarsi una cosa del genere: «Una volta il mio maestro mi ha detto questo o quello» – lui all’epoca aveva forse nove o dieci anni – «e io l’ho accolto semplicemente perché a quei tempi provavo una grande venerazione per l’autorità di quel maestro, poiché in lui viveva qualcosa che gli permetteva di trasmettermi le cose che diceva. Ora che guardo indietro da adulto mi rendo conto che il suo insegnamento ha continuato a vivere dentro di me e che adesso sono maturo per comprenderlo!»
La vita acquista uno splendore indicibile quando, a trentacinque anni, grazie alla maturità conseguita, si torna col pensiero a ciò che si è accolto semplicemente con amore, senza essere ancora in grado di comprenderlo. Un tale fulgore della vita, che è pura forza di vita, va perduto se ci si abbassa alla banale “evidenza”, che al giorno d’oggi viene continuamente lodata come un ideale pedagogico da perseguire.
Bisogna capire quali forze vanno sviluppate nel bambino in modo tale che permangano in lui per tutta la vita, di modo che il bambino non debba solo ricordarsi teoricamente di ciò che ha imparato fra i sette e i quindici anni, ma che le cose apprese possano rinnovarsi costantemente in lui e mostrarsi come realtà trasformate quando le osserverà alla luce della maturità.
Vedete, le cose che ho appena detto ho cercato di porle alla base di una pedagogia che renda l’educazione un’arte, tramite la quale l’uomo può essere introdotto nella vita così da essere all’altezza delle esigenze sociali del futuro.
Cari ascoltatori, lo potete vedere in tutti i particolari: per quanto oggi la gente declami questi o quegli ideali sociali, a volte non si ha affatto una visione d’insieme della vita, quella visione vasta che si dovrebbe avere quando si tratta di simili ideali.
Per esempio, si dice che i mezzi di produzione debbono essere trasferiti alla collettività e si crede di aver raggiunto qualcosa nel sottrarli all’amministrazione del singolo. Mi sono già espresso su questo argomento e nelle prossime conferenze mi esprimerò ancora più precisamente. Ma adesso immaginiamo per un istante che sia davvero possibile trasferire i mezzi di produzione alla collettività nell’immediato presente.
Li avrebbe ancora in mano quella collettività che cresce con la prossima generazione? No, perché se li vogliamo affidare tali e quali anche a quella, non teniamo conto del fatto che questa prossima generazione produce forze nuove, innovative e che perciò tutta la produzione deve di nuovo trasformarsi dal suo interno.
Se si vuole preparare il futuro sociale ci si deve collocare nel pieno della vita. Dall’idea dell’uomo come essere costituito di corpo, anima e spirito, dalla vera conoscenza di questi tre elementi sorgerà anche un’arte dell’educazione del tipo che vi ho detto, un’arte che potrà essere vissuta come un qualcosa di imprescindibile all’interno della vita sociale.
È da un simile modo di pensare, cari ascoltatori, che all’interno del movimento spirituale che si appoggia a Dornach è sorto anche ciò che è stato più volte frainteso. Dopotutto ci sono sempre state persone che già negli anni precedenti sono arrivate a pensarla non tanto male del nostro movimento scientifico-spirituale. Ma quando, qualche tempo fa, abbiamo cominciato a mettere in scena qui a Zurigo e in altri luoghi la cosiddetta arte euritmica – che nasce dalla scienza dello spirito e che è, ne siamo ben consapevoli, solo agli inizi –, la gente ha detto: «Ora è chiaro che neanche la scienza dello spirito può essere una cosa sensata. Se al suo interno ha posto anche questo tipo strambo di danza, allora la scienza dello spirito è una cosa da pazzi.»
Cari ascoltatori, in una cosa del genere non si tiene conto di quanto dovrà apparire paradossale ciò che, a partire da queste basi, lavora ad una riorganizzazione del mondo, nel modo in cui lo fa ciò che è al servizio della scienza dello spirito. Quest’arte euritmica vuol essere un’arte sociale nel senso più elevato del termine, poiché intende comunicare in prima linea i misteri dell’uomo. Intende utilizzare quelle inclinazioni al movimento che sono insite nell’uomo, le vuole far sprigionare dall’uomo stesso nel modo che verrà illustrato in occasione della prossima rappresentazione di euritmia.
Ma qui voglio accennare al fatto che quest’arte euritmica è vera arte proprio perché rivela i misteri più profondi dell’arte umana stessa. Essendo un vero linguaggio visibile, espresso dall’uomo nella sua totalità, quest’arte euritmica è una vera e propria arte, ma nello stesso tempo – rispetto alla semplice ginnastica fisica, che proviene unicamente dalla fisiologia, dallo studio della struttura anatomica degli arti – esprime una capacità motoria grazie alla quale l’uomo si affida a movimenti pervasi di anima e di spirito.
Quella che è stata insegnata come ginnastica puramente fisiologica da un’era materialistica potrà essere insegnata ai bambini nel modo in cui già avviene nella scuola Waldorf di cui vi ho parlato: con un movimento pervaso d’anima, che interessa l’uomo nel suo insieme, mentre l’esercizio fisico puramente materiale coinvolge solo una parte dell’essere umano, lasciando così inaridire molte componenti della persona in fase di crescita.
Quello che vi volevo esporre oggi è che dal profondo della natura umana stessa deve emergere una vita culturale nuova che possa intervenire nei settori principali dell’esistenza.
Cari ascoltatori, nei prossimi giorni sarà mio compito mostrarvi come questa vita esteriore debba organizzarsi nel presente e per il futuro, se si vorrà darle forma a partire da un tale spirito nuovo. Diverse persone, anche persone da cui non ce lo si aspetterebbe, sentono la necessità di padroneggiare a partire dallo spirito le grandi esigenze della vita sociale che si manifestano nell’umanità odierna.
Si prova un profondo dolore nel vedere come al giorno d’oggi un così grande numero di persone dorma di fronte a queste esigenze sociali della vita, come molti se ne appassionino solo in un modo erroneamente agitatorio. Si cominciano anche a trovare accenni al fatto che tutti i programmi esteriori non serviranno a niente, se prima non avrà luogo una trasformazione del modo di pensare, un radicale cambiamento dello spirito.
Ma quanto è ancora esteriore l’anelito a un nuovo spirito! Possiamo dire che sovente oggigiorno questo desiderio del nuovo spirito viene sentito in modo vago e confuso anche da persone strane, che di certo non hanno in mente quello che dev’essere rappresentato dall’edificio di Dornach. E comunque viene espresso il desiderio di uno spirito nuovo, come emerge dal seguente esempio.
Prossimamente, alle numerose riflessioni sulla catastrofe della guerra appena trascorsa si aggiungeranno anche quelle dello statista austriaco Czernin, che promettono di essere estremamente interessanti, poiché – è difficile esprimere questa caratteristica senza essere fraintesi – Czernin era di un bel po’ meno modesto degli altri che finora hanno “esternato” le loro considerazioni sulla guerra, tanto per esprimermi con cautela.
Ma in questo libro di Czernin si può forse leggere quanto segue: «Versailles non è la fine della guerra, ne è solo una fase. La guerra continua, seppure in forma diversa. Credo che le generazioni future non chiameranno guerra mondiale il grande dramma che da cinque anni sta dominando il mondo, ma gli daranno il nome di rivoluzione mondiale, e sapranno che questa rivoluzione mondiale ha solo avuto inizio con la guerra mondiale.
Né Versailles né St. Germain daranno origine a qualcosa di duraturo. Questa pace contiene il germe disgregante della morte. I crampi da cui l’Europa si sente scossa non accennano ancora a diminuire, proprio come dopo un forte terremoto il sottosuolo continua a brontolare. Qui e là la Terra continuerà a spalancarsi e a lanciare fuoco contro il cielo, nei paesi continueranno a imperversare, devastandoli, avvenimenti di carattere e violenza elementari finché tutto ciò che ricorda la follia di questa guerra e le paci francesi non sarà stato spazzato via.
Lentamente e con sofferenze indicibili nascerà un nuovo mondo. Le generazioni future ricorderanno la nostra epoca come un lungo incubo, ma anche alla notte più buia segue sempre il giorno. Intere generazioni sono finite nella tomba, uccise, morte di fame, stroncate dalle malattie. A milioni sono morti nel tentativo di annientare e distruggere, con l’odio e l’assassinio nel cuore.
Ma altre generazioni rinascono, e con loro uno spirito nuovo. Ricostruiranno ciò che è stato distrutto dalla guerra e dalla rivoluzione. Dopo ogni inverno torna la primavera. Anche questa è una legge eterna nel ciclo della vita: alla morte segue la risurrezione.
Beati quelli che saranno chiamati a contribuire alla costruzione del nuovo mondo come soldati del lavoro.»
Risposte alle domande
(dopo la quarta conferenza)
Vengono richieste informazioni sul modo in cui il relatore pensa che queste considerazioni possano essere messe in pratica.
Gradirei sapere in che misura l’arte moderna possa essere definita in un certo senso naturalistica.
Rudolf Steiner: Innanzitutto mi è stata posta per iscritto questa domanda:
Il suo concetto di libertà non è simile a quello del superuomo di Nietzsche nella Gaia scienza?
Cari ascoltatori, per quanto riguarda la mia visione dell’essere umano in rapporto al concetto di libertà, posso rinviarvi a come lo descrivo nella mia Filosofia della libertà – per prima cosa nel mio breve scritto Verità e scienza, e poi nella Filosofia della libertà.
Rispetto alla concezione del mondo di Nietzsche mi sono espresso nel mio libro Friedrich Nietzsche: un lottatore contro il suo tempo, scritto nel 1894.
È assolutamente giusto che anche chi, come me, si rende conto della necessità di un approfondimento e di un rinnovamento del concetto di libertà, e di conseguenza di tutto l’essere umano, possa vedere nella concezione di Nietzsche, pur contestabile sotto certi punti di vista, i germogli di quello che in effetti rappresenta il desiderio più profondo degli esseri umani, l’aspirazione ad un’organizzazione futura della civiltà.
La vita e l’ideologia di Nietzsche sono straordinariamente interessanti, e forse il modo migliore per approfondirne la conoscenza consiste nel prendere in considerazione quanto c’è di tipico nel suo rapporto con il periodo combattuto dell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo. Nella sua tragica esistenza, Nietzsche ha lottato per comprendere la libertà dell’uomo, e lo ha fatto tramite un suo rapporto profondamente tragico con lo svolgersi delle concezioni del mondo nell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo.
La figura di Nietzsche mi appare nel modo seguente: in lui si è espresso forse con la massima intensità tutto quello che viveva negli uomini migliori dell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo. Ma in parte questo trovava in lui una natura che non era all’altezza di dominare del tutto i problemi, che non era in grado di formulare e ponderare fino in fondo gli enigmi che gli gravavano sull’anima. Si potrebbe dire che il destino di Nietzsche è stato quello di soffrire di tutte le correnti ideologiche di cui era possibile soffrire nell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo.
Si veda innanzitutto come, dopo aver superato le conoscenze scolastiche che aveva assimilato da filologo in maniera brillante, abbia familiarizzato con la concezione del mondo di Wagner e Schopenhauer. Chi conosce il bel testo di Nietzsche dal titolo Schopenhauer come educatore saprà che per lui questo prendere confidenza con Schopenhauer e Wagner ha rappresentato una lotta interiore che è dovuta finire con una sofferenza per questa ideologia che conteneva molti degli impulsi futuri dell’umanità, ma che non è riuscita ad essere veramente incisiva sul piano sociale.
Così possiamo dire che nel 1876 Nietzsche ha abbandonato questa concezione, per rivolgersi ad una più positivista, più scientifica. Mentre era immerso nella visione di Schopenhauer e di Wagner, aspirava a liberarsi dall’elemento scientifico per accostarsi alla realtà con una disposizione d’animo artistica, per avvicinarsi ad essa più di quanto non fosse possibile attraverso la scienza.
Dopo aver sentito che ciò era insufficiente, si è rivolto all’orientamento positivista, cercando per così dire di giungere alla realtà mediante un’intensificazione dell’anelito scientifico, osando infine spingersi a quelle che oggi troviamo come le sue idee dell’eterno ritorno delle stesse cose e del superuomo. Quest’ultima idea ha cercato di esprimerla liricamente nel suo Zarathustra. È poi crollato nell’istante in cui ha voluto applicare ai grandi problemi dell’evoluzione dell’umanità dell’era moderna quella che aveva sviluppato come idea del superuomo, la trasformazione dell’uomo comune in un essere superiore.
Proprio per quanto riguarda Nietzsche, è molto significativo vedere come sia riuscito a familiarizzare con tutto quello che c’era in quel periodo. In fin dei conti il suo problema del superuomo altro non è che l’estensione del principio darwinistico a tutta l’evoluzione dell’umanità. Come l’uomo rappresenta qualcosa che evolve dall’animale, così il superuomo dev’essere qualcosa che si sviluppa a partire dall’uomo.
La tragedia di Nietzsche consiste nel suo essersi sentito sempre in contrasto con certi tratti caratteristici della sua epoca, l’ultimo terzo del diciannovesimo secolo, ed è per esempio interessante che si sia spinto fino all’idea dell’eterno ritorno di tutte le cose, che a certi può apparire grottesca, di quell’ordine cosmico in base al quale tutto quello che accade deve ripetersi uguale in un movimento ritmico eterno. A molti quest’idea dell’eterno ritorno era sembrata estremamente paradossale anche dal punto di vista psicologico.
Una volta ebbi l’occasione di parlare di queste cose con diversi studiosi nell’archivio di Nietzsche; si parlava anche di questo eterno ritorno in relazione all’idea nietzschiana del superuomo. E io dissi: «Così come si è manifestata in Nietzsche, quella dell’eterno ritorno mi sembra l’idea opposta a quella di un positivista molto rigido e pedante del diciannovesimo secolo, Eugen Dühring.» Curiosamente Dühring ne parla in un punto, credo nel suo compendio filosofico, a cui dà il nome di Filosofia della realtà: partendo da determinati presupposti si potrebbe quasi ardire di sostenere un’idea come quella dell’eterno ritorno degli avvenimenti cosmici, un’idea del tutto impossibile.
Io dissi: l’idea nietzschiana dell’eterno ritorno di tutte le cose è l’idea opposta a questa, e in effetti può essersela formata solo dopo aver letto Dühring ed essersi detto: può essere giusto solo il contrario di quello che pensa un tale individuo del diciannovesimo secolo. E, vedete, eravamo nella biblioteca di Nietzsche. Io presi la Filosofia della realtà di Dühring, aprii la pagina e trovai il passo corrispondente: lì accanto, ben sottolineato, c’era scritto “asino”! È un commento che si trova a margine di molti libri appartenuti a Nietzsche. È allora che in lui è nata l’idea contrapposta a quello che ha trovato in uno spirito dell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo.
È un fatto che in Nietzsche si ripete con notevole frequenza: l’esposizione di cose che riteneva elementari, che dovevano continuare ad evolversi – e poi la totale opposizione ad esse. Se nell’archivio di Nietzsche vi dovesse capitare di prendere in mano la sua copia di Guyau sulla morale francese, vedreste che tutte le pagine sono completamente evidenziate e potreste rendervi conto di come ha sofferto per le idee del diciannovesimo secolo e di come ha cercato di elaborarle ulteriormente. È interessante pure la sua copia dei Saggi di Emerson, che non solo è piena di sottolineature, ma dove interi paragrafi sono incorniciati a matita e numerati, così che da Emerson ha ricavato una specie di sistematica.
Allora si può capire come in effetti Nietzsche mirasse a trovare un simile concetto di libertà. Tuttavia non posso dire che ci sia qualche pagina di Nietzsche in cui si palesi chiaramente lo stesso impulso che vuol emergere per mezzo della scienza dello spirito, e che oggi vi ho descritto con l’esempio del bambino di cinque anni alle prese con le poesie di Goethe.
Nietzsche non aveva dentro di sé quell’orientamento animico che gli consentisse di muoversi in quella direzione. Lo potete arguire già dall’inizio del suo Anticristo, dove nel primo, nel secondo e nel terzo capitolo ribadisce che il superuomo non è qualcosa di spirituale, bensì qualcosa che va allevato fisicamente in futuro e via dicendo. Quindi in Nietzsche quasi ogni concetto è ambiguo, ma è proprio da questa ambiguità che dobbiamo uscire. Per questo credo che Nietzsche sia uno spirito estremamente ricco di spunti, ma che non sia possibile fermarsi a nessuna delle sue conclusioni. È così che desidero rispondere alla domanda espressa prima.
Dalla sua conferenza sembra risultare che dovremmo riavvicinarci al mistero del Cristo. Significa che gli dovremmo dare lo stesso contenuto che gli ha dato l’epoca in cui ha avuto luogo?
Cari ascoltatori! Vedete, una delle migliori esposizioni nella Filosofia della rivelazione di Schelling è quella dove fa notare che nel cristianesimo quello che conta non è tanto la dottrina quanto la comprensione di un fatto storico. Quello che si è verificato all’inizio del cristianesimo è un fatto, un evento. Ora si tratta di questo: quando si parla di una dottrina si può essere facilmente indotti a trasformarla in un dogma. E se si hanno le idee chiare sull’evoluzione dell’umanità, ci si deve dire: tutte le dottrine sono in continua evoluzione, progrediscono con l’umanità stessa. I fatti invece si trovano in quei momenti dell’evoluzione storica in cui sono avvenuti e là restano!
Ma già quando abbiamo a che fare con l’uomo comune, non vogliamo forse imparare qualcosa del suo essere reale entrando in contatto con lui? E se diventiamo un po’ più saggi, impareremo a conoscere questo essere diversamente e meglio. In particolar modo, di fronte ad un personaggio importante possiamo dirci che capiamo per ora questa o quella cosa, ma progredendo oltre ne coglieremo altri aspetti ancora.
Lo stesso avviene di fronte ad un fatto, ad un evento quanto mai ricco nella sua struttura fondamentale. I cristiani dei primi secoli avranno inteso in un certo modo il fatto del mistero del Golgota, ma è possibile che i modi di vedere un simile evento facciano dei progressi. Ed è proprio questo che ha in mente la scienza dello spirito: non il rinnovamento di una dottrina che è già esistita, ma la possibilità di avere una visione evoluta di questo mistero, cioè conforme allo spirito umano d’oggi. Questa è la risposta che desidero dare alla domanda che mi è stata fatta.
A proposito di una conoscenza scientifica, come per esempio quella relativa alla natura dei nervi, è possibile dire che sia sociale o asociale?
Qui si tratta di qualcosa di cui parlerò volentieri anche nella conferenza di domani. Oggi comunque desidero dire questo: in definitiva anche tutti gli avvenimenti esteriori che si svolgono nella convivenza sociale umana dipendono dal modo in cui gli uomini pensano, sentono e vogliono. È solo un punto debole della nostra epoca quello di voler far derivare dalle condizioni esteriori tutto quello che l’uomo pensa, sente e vuole, quello di voler per così dire considerare l’uomo un prodotto degli avvenimenti e delle istituzioni esteriori.
In verità tutto quello che esiste in forma di istituzioni esteriori risale a ciò che gli uomini hanno pensato, vissuto e voluto. Ecco allora che delle istituzioni esteriori sane segnalano la presenza di pensieri sani, mentre quelle malsane rimandano a pensieri malsani. E viceversa, un’epoca che pensa in maniera malsana a proposito di molte cose non potrà sviluppare impulsi volitivi sani per quanto riguarda la vita esteriore.
Vedete, all’interno della nostra comune concezione socioeconomica, il concetto più problematico è quello di lavoro umano. L’ho già accennato, ho detto che nel marxismo, per esempio, il concetto della forza lavorativa riveste un ruolo notevole, ma il punto è che in questa teoria marxista il concetto di lavoro viene visto da un’ottica completamente sbagliata. Il lavoro, la forza lavoro in quanto tale, ha un significato a livello sociale per via della prestazione e della funzione che la prestazione riveste nella convivenza sociale degli uomini.
Qualche giorno fa vi ho detto che c’è una grande differenza fra l’esaurire la propria forza lavoro praticando uno sport o spaccando la legna. Quando l’uomo spacca la legna, l’importante è il modo in cui il suo lavoro confluisce nella convivenza sociale, non il consumo della forza lavorativa in quanto tale. Così nei prossimi giorni emergerà che non rendiamo giustizia al lavoro come funzione sociale se, invece di considerarlo in questo suo inserirsi nell’organismo sociale, parliamo solo del consumo della forza lavoro in quanto tale.
A questo punto ci si può chiedere: da dove vengono questi concetti sbagliati a proposito del lavoro? Chi ha le idee giuste sui cosiddetti nervi motori, prima o poi si farà di certo dei concetti giusti anche sulla funzione del lavoro nell’organismo sociale. Chi si rende conto che non ci sono nervi motori, ma che i cosiddetti nervi motori sono solo nervi che ci fanno sentire l’arto in questione a cui la volontà trasmette la propria forza, porterà a coscienza la forza reale con cui agisce nel mondo esteriore ogni impulso volitivo – già per il fatto di essere forza volitiva e di manifestarsi nel lavoro.
Ma in questo modo, grazie ad un giusto concetto della volontà e della relazione che intercorre fra essa e l’organismo umano, si avrà un punto di riferimento per capire la parentela che c’è fra la volontà e il lavoro. E grazie a questa idea, si arriverà anche a farsi dei concetti sociali corretti, delle idee e dei sentimenti sociali esatti.
Si può dire che il modo in cui l’uomo pensa a livello sociale dipende sotto molti aspetti dalla sua capacità di sviluppare in modo corretto o meno determinati concetti riguardanti la natura. Bisogna aver ben chiaro che chi sostiene che nell’uomo sono i nervi motori a stimolare la volontà non sarà mai in grado di ravvisare un’effettiva connessione fra il fattore che attiva il lavoro – la volontà – e la funzione del lavoro nell’organismo sociale. Era questo che vi volevo anticipare oggi a proposito di questo argomento.
Come si deve valutare l’espressionismo?
Vedete, cari ascoltatori, lo posso mettere in relazione con quest’altra domanda:
In che misura può essere definita naturalistica l’arte moderna?
Come ho già accennato nel corso della conferenza, non sono affatto dell’opinione che tutti gli artisti stiano su un terreno naturalistico. Sarebbe sbagliato, dal momento che proprio questi ultimi decenni ci hanno mostrato molti artisti che cercano proprio di uscire dal naturalismo. Ma una cosa è parlare di quest’evoluzione dell’arte che è ancora agli inizi e un’altra è parlare del fenomeno complessivo dell’arte nella nostra vita attuale. Ed è con questo che abbiamo a che fare oggi.
In primo luogo si potrà allora dire che la nostra concezione dell’arte in quanto tale, la posizione dell’arte nella nostra vita pubblica è tale per cui alla sua base c’è solo l’elemento naturalistico. Ciò che cerca di uscire dal naturalismo è qualcosa che non è ancora riuscito a incidere a livello sociale.
Forse il momento in cui meglio vi rendete conto che l’elemento essenziale e determinante nella nostra tendenza artistica è quello naturalistico non è quando volete descrivere delle opere d’arte, quando volete prendere in esame gli artisti, ma ve ne accorgete piuttosto analizzando i gusti artistici del pubblico, verificando per quante persone, onde sapere se il personaggio di un romanzo è buono o brutto, l’unico parametro è quello di potersi dire: «Questo è assolutamente realistico» – intendendo che è riprodotto in modo naturalistico sul modello della vita esteriore. È il giudizio meno artistico che si possa emettere, eppure al giorno d’oggi è il più frequente. E di questi tempi in molte cose si può addirittura toccare con mano come tutto si orienti al naturalismo, solo che non ci si accorge che tutto è diventato naturalistico.
Prendiamo per esempio l’arte declamatoria del presente. Vi ricordo che oggi perlopiù si declama e si ritiene giusto declamare cercando di mettere in risalto con l’intonazione o qualche altra cosa il contenuto prosaico della poesia. Se ritorniamo ai tempi antichi dell’evoluzione dell’umanità, troviamo qualcosa che se abbiamo una certa età abbiamo ancora potuto vedere presso le popolazioni primitive delle campagne: allora la gente recitava andando su e giù, dando un ritmo a tutto l’organismo.
Lì si manifesta qualcosa che rimanda all’elemento prettamente artistico. Quando scriveva una poesia, nella maggior parte dei casi Schiller aveva una vaga melodia nell’anima. Solo in un secondo tempo trovava le parole adatte. Significa che alla base delle sue composizioni c’erano originariamente la melodia, il ritmo, il tempo. Goethe ha allestito la sua Ifigenia, un’opera drammatica, con la bacchetta da direttore d’orchestra e sosteneva che quello che nella recitazione odierna viene trascurato fosse proprio la cosa più importante. A lui interessava pochissimo dare espressione all’elemento che oggi si ritiene essenziale, vale a dire al contenuto in prosa.
Solo andando oltre al naturalismo della nostra epoca – che da molti non viene affatto vissuto come tale, ma che viene invece percepito, come nel caso della recitazione, come il vero spirito dell’arte –, superandolo nei più svariati ambiti della vita, potremo vedere quanto il nostro tempo sia immerso in quella corrente.
Movimenti come l’espressionismo cercano in effetti di uscire dal naturalismo. E in tali casi bisogna dire: per quante obiezioni si possano sollevare alle opere degli espressionisti di oggi, esse hanno fornito all’arte contributi di tutto rispetto. La rappresentazione di quello che non si vede nella realtà esteriore ma che può solo rivelarsi alla visione interiore dell’uomo è un primo passo per andar oltre il naturalismo. Che spesso i tentativi degli espressionisti risultino maldestri è dovuto al fatto che attualmente gli uomini non sono molto progrediti nell’osservazione dello spirito.
Annovero invece l’impressionismo fra le manifestazioni estreme del naturalismo, poiché lì non viene neanche fatto il tentativo di comprendere qualcosa nella sua realtà naturalistica, bensì quello di cogliere l’impressione di un singolo istante. E questo impressionismo, per quanto intelligente possa sembrare, è l’ultima conseguenza del naturalismo. Mentre direi che l’espressionismo è un tentativo spasmodico di tirarsi fuori dal naturalismo.
Da queste cose si potrebbe vedere anche esteriormente, se non lo si sente a livello interiore, come la moderna tendenza artistica sia immersa nel naturalismo. In fin dei conti, credo che al giorno d’oggi si tenda a criticare aspramente qualunque cosa che non abbia la pretesa di far concorrenza alla realtà esteriore, ma che voglia piuttosto rivelare una visione spirituale. Era principalmente questo che volevo farvi notare.
Poi mi è anche stato chiesto:
Come metto in pratica quello che viene esposto in queste conferenze?
Vedete, chi si basa sul fatto che tutto ciò che viene prodotto nella vita sociale esteriore provenga dall’uomo, non dubiterà neppure per un attimo di questo: se un numero sufficiente di uomini è fortemente convinto di una certa cosa, allora si apre la via perché questa si realizzi nella prassi esteriore. Si tratta solo di rendersi conto una buona volta della relazione che intercorre fra il vissuto interiore, che comprende anche ciò che è scientifico-spirituale, e la prassi esteriore.
Prendiamolo in esame nel piccolo: che ci crediate o no – di queste cose può parlare solo chi ne ha fatto l’esperienza –, potete credere che l’uomo, per il semplice fatto di accogliere dentro di sé la scienza dello spirito, di capirne interiormente il significato, acquisisca un sapere riguardo a dei mondi forse molto interessanti. Ma non è così. Quello che vorrei dire, che ci crediate o no, è questo: se l’uomo penetra davvero a fondo in quella che vi ho presentato come scienza dello spirito, non gli viene dato qualcosa di astratto, delle semplici idee come le troviamo nelle scienze naturali o nell’economia sociale odierna, ma una forza interiore, qualcosa che fa nascere una forza interiore.
Proprio come quella che ho presentato oggi come pedagogia: essa pervade di forza interiore il maestro, così che egli non segue delle regole pedagogiche, ma quanto di imponderabile avviene fra lui e l’allievo. Così, grazie alla scienza dello spirito, l’uomo diventa anche più abile fin nei minimi particolari della vita. Per capire queste cose bisogna vederle anche nel piccolo; allora non si avranno più dubbi sul fatto che quando un numero sufficiente di persone, che ovviamente fanno parte della convivenza sociale, accoglierà dentro di sé questi impulsi, essi troveranno un’immediata applicazione pratica proprio tramite queste persone.
Per spiegarlo con un esempio tratto dalla quotidianità, prendete in considerazione la calligrafia umana. Ci sono due tipi di grafia: una è quella a cui si tende di solito. L’uomo scrive – beh, come la grafia lo vuole; la maggior parte delle persone scrive così. Dal loro organismo sgorga come di necessità un certo tipo di grafìa. Altri invece hanno una grafia diversa, che per sua natura è completamente differente da quella a cui normalmente si dà il nome di calligrafia. Queste persone “disegnano” le lettere quando scrivono, in loro è come se la scrittura vivesse nell’occhio che osserva la forza che pulsa nella mano.
Ci sono perciò grafie che hanno origine direttamente dalla mano, ma anche altre che, mentre si scrive, vengono seguite dall’occhio che osserva la forma delle lettere. In questo caso lo spirito non vive solo a livello organico, negli arti, ma viene percepito coscientemente all’opera in essi. Lì l’esperienza spirituale dell’uomo si traduce direttamente nell’attività pratica. È proprio così che si vive tutto ciò che fa parte della scienza dello spirito.
E così colui che comprende lo spirito vivente di cui abbiamo parlato oggi, capirà queste cose anche nel loro orientamento a diventare vita. Certo, di questi tempi sarà un eremita, un predicatore nel deserto, ma questo non migliora le cose per la vita odierna. Oggi, se si vuol rappresentare la vera vita concreta, ci si trova di fronte a degli strani “pragmatici”, che hanno una certa pratica negli ambienti più immediati, mentre la vera vita concreta consiste nel saper padroneggiare la vita esteriore per mezzo di idee che abbracciano l’esistenza nel suo insieme.
Si può quindi dire che quello che conta prima di tutto nelle cose esposte in questa conferenza è di renderle chiare e accessibili a più persone possibili. Una volta che vivranno nel cuore e nella testa di tante persone, diventeranno anche senz’altro pratiche. Che oggi non lo siano ancora è dovuto al fatto che non sono ancora entrate nella testa e nel cuore di un numero sufficiente di individui. Non basta che il singolo abbia il controllo delle idee sociali in una specie di torre d’avorio, ma bisogna che costui trovi altre persone con cui mettersi d’accordo per fare qualcosa.
Ma quando le idee sono veramente pratiche, la prassi scaturisce dall’esistenza stessa di tali idee; ed è solo l’assoluta incredulità, lo scetticismo dogmatico ad impedire che la nostra vita diventi effettivamente pratica, non la praticità delle idee o dello spirito.
Lo sperimentiamo dappertutto, non vi pare? Chi secondo molti era “privo di senso pratico”, ve l’ho descritto all’inizio di questa conferenza, ha dovuto dire nella primavera del 1914: la nostra vita sociale soffre di un cancro che prossimamente esploderà in maniera terribile. Un paio di mesi dopo è scoppiata la catastrofe della guerra mondiale, l’evento a cui allora avevo voluto accennare.
Naturalmente tutti i “pragmatici” a quel tempo mi hanno deriso, ma hanno anche detto ben altre cose. Potrei citarvi gli statisti, per esempio quelli degli Stati mitteleuropei, che ancora in quella primavera del 1914 affermavano: siamo in ottimi rapporti di vicinato con Pietroburgo e questi rapporti forniranno nei prossimi tempi una base sicura alla pace mondiale. Lo stesso signore ha detto qualcosa di analogo a proposito delle relazioni fra le potenze mitteleuropee e l’Inghilterra, riassumendole con queste parole: la distensione politica generale sta facendo notevoli progressi.
Orbene, la distensione politica ha fatto progressi così soddisfacenti che poche settimane dopo si sono verificati quegli eventi in cui sono stati uccisi dai dieci ai dodici milioni di persone, e tre volte tante sono state mutilate. Le ultime parole sono quelle del “pragmatico”, le prime quelle di chi è stato considerato da quei “pragmatici” un idealista visionario.
Quello di cui abbiamo terribilmente bisogno è di farci correggere il pensiero dalla prassi, è di renderci conto che potremo creare un terreno per la vera vita concreta solo imparando davvero a conoscere la vita spirituale. Alla domanda: com’è possibile tradurre in pratica simili considerazioni? bisognerebbe allora rispondere: per prima cosa occorre farle entrare negli animi degli uomini. Allora in men che non si dica potranno riverberare incontro all’uomo dalla vita pratica stessa.
Quinta conferenza
L’interazione fra
vita culturale, giuridica
ed economica nell’organismo sociale
Zurigo, 29 ottobre 1919
Cari ascoltatori!
Nella seconda conferenza ho già detto che un’organizzazione della vita culturale, giuridica ed economica come quella che ho cercato di descrivere nelle tre conferenze precedenti sia realizzabile solo se quello che finora è stato concepito come uno stato rigorosamente unitario verrà triarticolato, se si trasformerà in un organismo sociale triarticolato.
Ciò significa che tutto quello che si riferisce a rapporti giuridici, politici o statali dovrà essere amministrato in un parlamento democratico, mentre tutto quello che concerne la vita culturale sarà separato da questa organizzazione politica o giuridica così che questa vita culturale venga amministrata autonomamente; e dall’altro lato anche la vita economica dovrà staccarsi da quella politica per venir amministrata in base alle proprie condizioni di vita, sulla base della competenza e della specializzazione.
A questo punto mi si obietta sempre che una simile articolazione dell’organismo sociale contraddice alla necessità di dare una forma unitaria alla vita sociale, dato che ogni singola istituzione, ogni singola cosa che l’uomo può realizzare all’interno dell’organismo sociale deve tendere a formare un’unità. E si dice che una tale unità verrebbe spezzata se si cercasse di dividere l’organismo sociale in tre parti.
Cari ascoltatori, una simile obiezione è del tutto comprensibile se si tiene conto delle abitudini mentali del presente, ma, come vedremo oggi, non è affatto giustificata. Viene sollevata spontaneamente perché basta guardare la vita economica stessa per vedere come in essa confluisca fin nei minimi dettagli a formare un’unità tutto ciò che è culturale, giuridico ed economico. Già rispetto a questo ci si può chiedere: com’è possibile che una separazione, un’articolazione porti a qualcosa di positivo?
Prendiamo in considerazione il valore di una merce, e vedremo che il valore dei beni, delle merci, mostra già di per sé una triplicità, ma che però nel momento in cui il bene viene prodotto, messo in circolazione e consumato, si manifesta nell’organismo sociale come unità, legata all’unità della merce nel modo seguente.
Da che cosa è determinato il valore di una merce tramite la quale l’uomo può soddisfare i propri bisogni? In primo luogo l’uomo deve avere a livello soggettivo un qualche bisogno di questo bene. Ma, cari ascoltatori, vediamo da che cosa viene determinato un tale bisogno. Ovviamente dipenderà in prima linea dal carattere fisico dell’uomo, che determina il valore dei vari beni materiali.
Ma gli stessi beni materiali vengono valorizzati diversamente a seconda del tipo di educazione ricevuta o dalle esigenze che ognuno ha. E anche quando si tratta di beni intellettuali, che spesso non possono essere separati dalla sfera di quelli fisici, vediamo che l’indole dell’uomo condiziona nel suo insieme il suo modo di valutare un bene qualsiasi, determina quale lavoro è disposto a compiere per un certo bene, quanto è disposto a pagare in termini di proprie prestazioni per un tale bene. Vediamo che anche l’elemento culturale che vive nell’uomo è determinante per il valore che egli dà a un bene o ad una merce.
Dall’altra parte vediamo che, quando vengono scambiate fra due uomini, le merci sono vincolate da rapporti di proprietà, vale a dire da fattori giuridici. Quando un uomo vuole acquistare un bene da un altro si imbatte nei diritti che l’altro fa valere in qualche modo su quel bene, così che la vita economica, le transazioni economiche sono completamente pervase da rapporti giuridici.
E in terzo luogo una merce ha anche un valore oggettivo, non solo quello che gli attribuiamo noi per via dei nostri bisogni e della loro valutazione soggettiva che viene poi trasmessa al bene. Un bene ha anche un valore oggettivo nella misura in cui è qualcosa che si può conservare a lungo o meno, che è durevole o meno, a seconda che la sua natura lo renda più o meno utilizzabile, a seconda che sia più o meno diffuso o raro. Tutto ciò comporta un valore economico oggettivo, per la cui determinazione è necessaria una competenza oggettiva e per la cui produzione occorre un’oggettiva specializzazione.
Ma queste tre estimazioni di valore costituiscono un’unità nella merce stessa. Si può quindi chiedere a ragione: come è possibile separare quello che si unifica nel bene in tre settori amministrativi diversi che si riferiscono allo stesso bene, che devono avere qualcosa a che fare con il suo circolare?
Cari ascoltatori, prima di tutto riguardo al concetto in quanto tale si tratta di vedere che nella vita possono fondersi delle cose che vengono amministrate dalle istanze più disparate. Perché, da una parte, la valutazione soggettiva che l’uomo dà ai beni non dovrebbe essere determinata dalla sua educazione, che gode di una propria amministrazione autonoma? E per quale motivo i rapporti giuridici non dovrebbero essere introdotti da tutt’altra parte nella vita economica? E perché a tutto ciò non dovrebbe aggiungersi il fatto che nell’oggetto si fondono a formare un’unità anche la competenza e la specializzazione che determinano il valore oggettivo di quel bene?
Questo però vale solo in linea ideale, non ha un valore particolare. Occorre perciò motivare più a fondo ciò che si propone la triarticolazione dell’organismo sociale.
Innanzitutto bisogna dire che questa triarticolazione dell’organismo sociale non è un’idea qualsiasi concepita da uno o due uomini a partire da motivazioni soggettive, ma che questo impulso della triarticolazione dell’organismo sociale risulta da un’osservazione oggettiva dell’evoluzione storica dell’umanità in questi ultimi tempi.
Si può quindi dire che in fondo già da secoli nei propri impulsi principali l’umanità tende inconsciamente a questa triarticolazione, solo che non ha mai trovato la forza per metterla realmente in atto. E la mancanza di questa forza ha causato le condizioni in cui ci troviamo attualmente, ha dato origine allo sfacelo che ci circonda.
Oggi le cose sono maturate al punto che bisogna dire: è necessario metter mano a quello che da secoli si sta preparando in vista di un’organizzazione triarticolata dell’organismo sociale.
In primo luogo va detto che già da molto tempo quella vita culturale che è veramente libera si è separata dalla vita statale e da quella economica. Cari ascoltatori, quella parte della vita culturale che dipende dalla vita economica o statale non è affatto libera, è stata strappata da una vita culturale veramente libera e feconda.
All’inizio dell’epoca in cui sono sorti il capitalismo e il moderno ordinamento economico tecnico con la sua possente divisione del lavoro, quella vita culturale che è davvero libera – quella che crea solo a partire dagli impulsi dell’uomo, così come l’ho presentata come esigenza di tutta la vita culturale – questa porzione della vita culturale, solo questa parte che abbraccia determinati settori dell’arte, della filosofia, delle convinzioni religiose si è staccata dalla vita economica e da quella statale e si svolge avulsa dalla vita, in un certo senso fra le righe della vita. E viceversa è stato strappato alla vita culturale libera, che crea a partire dagli impulsi umani, tutto ciò che serve all’economia e allo Stato per la loro amministrazione.
Ciò di cui la vita economica ha bisogno per la sua amministrazione è diventato dipendente dai poteri economici stessi. Nei posti, negli ambienti in cui c’è il potere economico, esiste la possibilità di fornire ai discendenti una formazione scientifico-economica tale per cui essi a loro volta saranno idonei a conquistare il potere economico.
Ma quello che scaturisce dall’economia stessa come scienza economica è solo una parte di quanto potrebbe confluire nella vita economica se tutta la vita culturale venisse resa feconda per l’economia. È solo un residuo dell’economia aleatoria di mercato, che viene lasciato alla riflessione per poi essere trasformato in scienza economica.
E a sua volta la vita statale si comporta in questo modo: lo Stato ha bisogno che i suoi funzionari, e perfino i suoi scienziati, corrispondano ai calchi che ha elaborato per le proprie funzioni. Lo Stato si augura, anzi esige, che nell’uomo venga formato quello che corrisponde alle posizioni da occupare all’interno della vita statale. Ma una simile vita culturale non è libera, anche se pensa di esserlo. Questa vita culturale non si accorge della propria dipendenza, di come è costretta entro i limiti degli schemi relativi alle seggiole da occupare.
La vita culturale veramente libera si è conquistata, sì, nel mondo una certa posizione indipendente dalla vita economica e da quella statale. Ma che genere di posizione? In parte ve l’ho già descritta: questa vita culturale che ha conservato la propria libertà ha perso il contatto con la vita reale, assumendo un carattere astratto.
Oggi basta osservare che cosa c’è nelle concezioni estetiche, religiose, perfino in quelle a orientamento scientifico della vita culturale libera, per vedere che vengono dette tante cose, ma quel che viene detto è solo più o meno una bella predica per gli uomini. Questa vita culturale parla alla ragione e al sentimento, gioca un ruolo nell’interiorità dell’uomo, gli colma l’anima con una sensazione di piacere e di soddisfazione, ma non ha la forza necessaria per intervenire sul serio nella vita esteriore.
Per questo nei confronti di questa vita culturale è sorto da parte socialista quello scetticismo che ho già descritto e che dice: «Mai un’idea sociale, per quanto benintenzionata, sarà in grado di trasformare la vita sociale se nasce unicamente dalla mente. Per la trasformazione della società occorrono forze reali.» E questa vita culturale avulsa dalla vita non viene per nulla annoverata fra le forze reali.
Vi ho già detto quale divario esiste al giorno d’oggi fra ciò che il commerciante, il funzionario statale o l’industriale vive come proprie convinzioni religiose o anche scientifiche da una parte, e le leggi che applica nella vita economica, nella sua posizione esteriore, nell’amministrazione di questioni pubbliche dall’altra.
È una vita vissuta su due binari paralleli: da un lato determinate leggi, create in tutto e per tutto dalla vita economica e da quella statale, dall’altro un residuo di libertà nella vita culturale, che però è condannata all’impotenza nei confronti delle faccende reali della vita.
Da una parte va detto che già da secoli si è staccata una vita culturale libera unilaterale che però, visto che non la si voleva riconoscere nell’organizzazione della vita pubblica, è diventata astratta, senza aggancio con la vita reale. Ma oggi, dato che c’è bisogno dell’influsso della mente sulla vita sociale esteriore, questa vita culturale chiede che le sia restituito il proprio potere, la propria forza. Questa è la situazione nella quale ci troviamo oggi.
Cari ascoltatori, la vita giuridica ha imboccato da parte sua una strada diversa. Mentre la vita culturale, nella misura in cui è libera, si è in un certo senso emancipata, nel corso degli ultimi secoli la vita giuridica si è fusa completamente con i rapporti di potere economico.
Non lo si è notato, ma i due sono diventati una cosa sola. Quelli che erano interessi e bisogni economici sono stati tradotti in diritti pubblici, che spesso vengono considerati diritti umani ma che, ad un esame più attento, risultano interessi e bisogni economici e statali a cui è stato conferito un carattere di legge.
Mentre da una parte la vita culturale rivendica la propria forza, vediamo dall’altra come sia subentrata una confusione circa il rapporto fra diritto ed economia. In quella che chiamano questione sociale, vaste cerchie della nostra attuale popolazione in tutto il mondo civile rivendicano un’ulteriore saldatura fra la vita giuridica e quella economica. Vediamo come l’intera vita economica debba essere organizzata in base a concetti politici, giuridici.
Prendiamo in considerazione gli slogan in voga oggi presso molta gente: che cosa sono se non l’estrema conseguenza della fusione della vita giuridica con quella economica, della confusione tra diritto ed economia?
Oggi vediamo il partito radicalsocialista, che si sta rinfoltendo sempre più, richiedere, come vi ho già detto, che a capo della vita economica venga posto un sistema politico centrale-gerarchico di amministrazioni ramificate. La vita economica dev’essere completamente irretita in rapporti giuridici. Vediamo come il potere della legge debba estendersi addirittura su tutta l’economia.
È questa la grande crisi del nostro tempo, crisi che si può esprimere nel modo seguente: rivendicando in modo radicale questa gestione giuridica e politica per la vita economica, si vuole in fondo che venga ad abbattersi sull’economia la tirannia dello Stato, del sistema giuridico. Vediamo che per la vita economica e il suo risanamento non viene richiesta una sua organizzazione a partire dai fattori economici stessi, quanto piuttosto la conquista del potere politico, in vista di impadronirsi della vita economica e di controllarla con questo potere politico.
Che cos’è la dittatura del proletariato se non l’estrema conseguenza della fusione fra vita giuridica o statale e vita economica?
Vediamo così la dimostrazione, certamente in maniera negativa, dell’urgente necessità di effettuare un esame approfondito del rapporto fra vita giuridico-statale e vita economica. Se da un lato vediamo che una parte della vita culturale libera si è emancipata e chiede di ritrovare la propria forza originaria, dall’altro vediamo che la vita giuridica, se dev’essere legata sempre più strettamente a quella economica, creerà disordine nell’intero organismo sociale.
Ebbene, cari ascoltatori, è stato concesso abbastanza a lungo di pensare in preda alla suggestione dello Stato unitario, dell’organismo sociale unitario. Ora è giunto il momento in cui i frutti di questo pensiero ci si presentano nel caos sociale che si è riversato su gran parte del mondo civile.
I processi economici richiedono di essere rigorosamente separati dalla vita giuridica, poiché si è visto quali danni cagionerebbe alla vita economica questa vita giuridica stessa se si dovessero trarre le estreme conseguenze da quanto è andato formandosi nel corso degli ultimi secoli.
È con questi fatti, cari ascoltatori, che vuol fare i conti l’impulso dell’organismo sociale triarticolato. E desidero fornirvi un esempio incisivo per mostrarvi come proprio questi fatti abbiano brutalmente separato quello che nella vita dovrebbe agire come un’unità.
Oggi si dice che la triarticolazione dell’organismo sociale vuole distruggere l’unità della vita sociale. In futuro si dirà: questa triarticolazione serve proprio a costituire nel senso giusto questa unità. C’è un esempio che dimostra come questo anelito astratto all’unità abbia finito per distruggerla.
Al giorno d’oggi certi opinionisti sono particolarmente orgogliosi di fare una distinzione teorica fra diritto e morale. La morale è la valutazione di un’azione umana in base a criteri puramente interiori dell’anima. Il giudizio espresso sulla bontà o sulla cattiveria di un’azione viene guidato per la morale solo da questi punti di vista interiori dell’anima. E in chiave ideologica si distingue oggi nettamente da questa valutazione morale quella giuridica, che riguarda la vita esteriore, pubblica, e che dev’essere determinata in base ai decreti, ai provvedimenti della vita statale o di quella sociale e pubblica.
Prima della comparsa del recente sviluppo tecnico e del capitalismo non si sapeva nulla di questa separazione tra morale e diritto. È solo in questi ultimi secoli che gli impulsi del diritto e quelli della morale sono stati scissi gli uni dagli altri. Per quale motivo?
Perché la valutazione morale è stata relegata nella vita culturale “libera” che si è estraniata dalla vita diventando inerme nei suoi confronti, riservandosi la funzione di predicare e di perorare. E le massime che vogliono intervenire nella vita hanno allora bisogno di stimoli economici, dal momento che non sono più in grado di trovare quelli puramente umani interiori che sono stati confinati nella “morale”. E questi stimoli economici vengono poi trasformati in diritto.
Così la vita si è sdoppiata: la definizione del diritto da un lato, e la morale che ne dovrebbe essere la fiamma ardente dall’altro. Quella che dovrebbe essere un’unità è stata spaccata in due.
Per questo chi studia più attentamente l’evoluzione dello Stato moderno, troverà che proprio la suggestione dello Stato unitario ha prodotto la separazione di quelle forze che dovrebbero mirare all’unità. L’impulso alla triarticolazione dello stato sociale vuole proprio agire contro questa separazione. Se si coglie giustamente l’anima di questo impulso, si vede chiaramente come esso non tolleri nessuna spaccatura della vita.
La vita culturale deve avere la sua propria amministrazione: non è forse vero che ogni uomo ha un rapporto con questa vita culturale se essa si sviluppa del tutto liberamente, come ho descritto? Ognuno viene educato, e a sua volta ognuno fa educare i propri figli in questa vita culturale libera, è lì che ha i propri interessi culturali. Ognuno ha un intimo legame con essa.
E gli stessi uomini che sono legati in questo modo alla vita culturale, che da essa traggono la loro forza, sono attivi anche nella vita giuridica o statale, dove stabiliscono l’ordinamento di legge in vigore fra loro. Lo sanciscono a partire dallo spirito che fanno proprio nella vita culturale. Il diritto si ispira direttamente a quello che si acquisisce mediante il rapporto con la vita culturale.
E di nuovo: ciò che si sviluppa democraticamente nei rapporti fra gli uomini sul terreno dell’ordinamento giuridico, ciò che l’uomo fa suo come modo di porsi in rapporto con l’altro, lo traspone nella vita economica, dal momento che si tratta degli stessi uomini che vivono la vita culturale, che sono attivi all’interno della vita giuridica e che fanno economia.
I provvedimenti che l’uomo adotta, il modo in cui si associa con altri uomini, il suo modo di commerciare, tutto è permeato da quello che lui stesso crea nella vita culturale, da quello che introduce come ordinamento giuridico nella vita economica.
Sono sempre gli stessi uomini che vivono all’interno dell’organismo sociale triarticolato. La sua unità viene prodotta non da un qualsiasi ordinamento astratto, bensì dall’uomo vivente – solo che ogni ambito esprime la propria natura e il proprio carattere specifico tramite la sua autonomia, e proprio in questo modo contribuisce nel modo migliore a formare un’unità.
Ciascuna delle tre sfere può in questo modo far valere il suo contributo, mentre vediamo come per via della suggestione dello Stato plenipotenziario avvenga la separazione di due elementi che nella vita sono inscindibili, cioè il diritto e la morale. L’impulso alla triarticolazione dell’organismo sociale cerca di affermarsi non per separare qualcosa che deve restare unito, ma proprio per permettere di collaborare a quegli elementi che devono interagire fra loro.
La vita culturale da me descritta ieri può svilupparsi solo sul proprio terreno libero, ma così facendo, se le si accorderanno gli stessi diritti delle altre due sfere dell’organismo sociale, non diventerà un prodotto avulso dalla realtà come la vita culturale che da secoli ha preso una direzione astratta e priva di contatto con la vita, ma genererà la forza propulsiva necessaria per intervenire direttamente e concretamente nella vita giuridica e in quella economica.
Potrebbe sembrare una contraddizione grottesca, paradossale, se da una parte si sostiene che la vita culturale debba diventare del tutto indipendente, debba svilupparsi a partire dalle proprie basi, come ho descritto ieri, e che dall’altra possa poi intervenire nei settori pratici della vita. Ma è proprio quando lo spirito è lasciato a se stesso che sviluppa impulsi tali da permettergli di abbracciare e plasmare la vita intera.
Questo spirito lasciato libero, infatti, non è tenuto a prestare ascolto a ciò che l’uomo deve formare dentro di sé per aderire a qualche modello statale. Non è caratterizzato dal fatto che solo chi detiene un certo potere economico possa ricevere un’istruzione, ma in base alle leggi di sviluppo dell’individualità umana, stando all’osservazione delle facoltà umane, viene coltivato quello che vuole emergere in una data generazione.
E poiché lo spirito estende il proprio interesse alla vita intera, ciò che vuol venire alla luce in una data generazione non comprenderà solo la natura nei suoi fenomeni e nelle sue realtà, ma comprenderà soprattutto la vita umana.
Siamo stati condannati ad essere così poco pratici in ambito culturale per il fatto che alla vita culturale libera erano state riservate solo quelle sfere che non erano autorizzate ad intervenire nella realtà esteriore.
Nel momento in cui alla cultura verrà concesso non solo di registrare ciò che i parlamenti decretano sotto forma di diritto statale, ma di determinare direttamente questo diritto, allora essa farà del diritto statale una sua propria creazione. E lo spirito interverrà anche nel meccanismo, nell’ordinamento dell’economia nell’istante in cui starà a lui decidere e intervenire, e si smetterà di formare determinati punti di vista e massime in base ad un’economia lasciata a se stessa – che continua a muoversi secondo le proprie realtà, senza essere dominata dai pensieri. Allora la cultura si dimostrerà capace di concretezza anche nella vita economica.
Basta riconoscere allo spirito la forza di incidere sulla vita pratica e lui lo farà, eccome! Ma in questa concezione della realtà non si può chiudere ermeticamente la cultura nell’astrazione, ma bisogna far sì che lo spirito eserciti la propria influenza sulla vita. Allora si dimostrerà ogni giorno in grado di fecondare la vita economica, che altrimenti resterebbe infruttuosa o verrebbe spinta solo dal caso.
Vedete, cari ascoltatori, di questo va tenuto conto se si vuole avere una visione chiara di come devono interagire all’interno dell’organismo sociale la cultura, il diritto e l’economia. Su queste cose non hanno le idee chiare neppure vari personaggi molto intelligenti dei giorni nostri, che spesso vedono come sotto l’influsso di quella vita che ha mandato a quel paese la morale e la cultura si siano sviluppate delle situazioni divenute insostenibili dal punto di vista sociale.
C’è uno studioso della vita economica assai stimato che afferma per esempio quanto segue: se oggi osserviamo la vita economica, vediamo innanzitutto un sistema di consumo che comporta danni sociali in grado sommo. Le persone che se lo possono permettere consumano questo e quell’altro, il che rappresenta in effetti solo un lusso. Questo pensatore, il cui nome è Hartley Withers, fa notare il ruolo che riveste nella vita dell’uomo d’oggi, anche in quella economica, quello che lui chiama lusso.
Certo che è facile vederlo, basta richiamare l’attenzione su fenomeni come quello di una signora che si compra un filo di perle. Molti ancor oggi lo considerano un lusso decisamente modesto, ma non si tiene conto dell’effettivo valore di questa collana di perle all’interno dell’attuale struttura economica. Con questo filo di perle, con l’equivalente del suo valore, è possibile mantenere cinque famiglie di operai per sei mesi. Ecco che cosa si mette al collo la signora in questione!
Certo, cari ascoltatori, è possibile rendersene conto ed è possibile cercare un rimedio a partire dallo spirito oggi in voga. Lo stimato pensatore a cui mi riferisco scopre che è necessario che lo Stato – ovviamente oggi sono tutti elettrizzati dallo Stato! – introduca delle imposte elevate sul lusso, così che alla gente passi la voglia di concederselo.
Non accetta l’obiezione sollevata da molti, secondo la quale se si tassa il lusso questo scompare e lo Stato non ne ricava più niente. Egli ribatte: «No, è giusto che il lusso scompaia, perché la tassazione deve avere uno scopo etico. La tassazione deve favorire la moralità umana.»
Vedete, cari ascoltatori, questa è la mentalità di oggi! Si ha talmente poca fede nella forza dell’anima umana, dello spirito umano, che si vuole ottenere mediante la tassazione, vale a dire mediante il diritto, ciò che dovrebbe scaturire liberamente dall’anima e dallo spirito dell’uomo. Non c’è da meravigliarsi se poi non si arriva ad una strutturazione unitaria della vita.
Lo stesso pensatore fa notare come l’acquisizione di proprietà crei un’ingiustizia per via del fatto che nel nostro mondo sono possibili i monopoli, che la vita sociale è tuttora sotto l’influsso del diritto ereditario e via dicendo. Di nuovo propone di regolare tutte queste cose per mezzo della legislazione fiscale. Ritiene infatti che tassando il più possibile i beni ereditati, si otterrà una giustizia per quanto concerne la proprietà. Tramite leggi statali, cioè con misure giudiziarie, si potrebbe agire altrettanto contro i monopoli e molte altre cose analoghe.
La cosa singolare è che questo pensatore dice poi che quello che conta non è per niente che tutto ciò che lui prospetta per mezzo di leggi, di imposte statali o quant’altro venga davvero realizzato, poiché si è visto che l’efficacia di tali leggi statali è assolutamente opinabile, che esse non sempre ottengono quello che dovrebbero ottenere. E afferma: «Quello che conta non è che queste leggi elevino i costumi, facciano scomparire i monopoli e così via, ma l’importante è la mentalità in base alla quale vengono emanate, lo spirito in cui esse si esprimono.»
E con questo, cari ascoltatori, siamo giunti veramente al punto in cui non si fa altro che girare e rigirare in tondo.
Uno stimato pensatore politico contemporaneo sostiene all’incirca quello che vi ho appena detto: mediante la legislazione vuole suscitare dei principi etici, ma l’importante non è tanto che questa legislazione entri in vigore, che sortisca un qualche risultato, quanto che gli uomini abbiano in sé le convinzioni che servono ad emanare quelle leggi. È il classico gatto che si morde la coda. Si tratta di uno strano circolo vizioso, cari ascoltatori, che però incide profondamente nella nostra vita sociale attuale.
Oggigiorno infatti la vita pubblica viene improntata a questo modo di pensare e non ci si accorge che in definitiva tutte queste cose portano proprio a riconoscere che le basi per una vera riorganizzazione della vita sociale devono essere
• la vita culturale autonoma,
• la vita giuridica, anch’essa autonoma, affrancata dall’organismo economico,
• e la libera organizzazione dell’organismo economico in quanto tale.
Oggi queste cose saltano agli occhi con particolare evidenza se si nota come in persone estremamente benintenzionate – come per esempio Robert Wilbrandt, di cui è appena stato pubblicato un libro sulla socializzazione –, persone dotate dello slancio etico necessario alla riorganizzazione della vita sociale, emerga per esempio un lieve accenno all’assoluta necessità di un fondamento spirituale della struttura sociale, ma come ovunque manchi l’idea del modo in cui si possa creare questo fondamento spirituale.
Robert Wilbrandt non è certo uno che parla solo a partire dalla teoria. In primo luogo le sue parole scaturiscono da un cuore ardente di entusiasmo sociale, in secondo luogo ha girato tutto il mondo per farsi un’idea delle condizioni sociali. Nel suo libro che, come ho detto, è uscito poco fa, qualche settimana fa, descrive fedelmente con quale durezza la miseria colpisce ancor oggi l’uomo in tutto il mondo civile.
Fornisce esempi concreti della miseria della classe operaia, della miseria presente nel mondo civile. Ma dal suo punto di vista fa anche notare come nei vari ambiti in cui di questi tempi la questione sociale è diventata attuale la gente abbia cercato di lavorare ad una nuova struttura, ma come abbia fallito o sia destinata al fallimento, come si vede chiaramente per esempio nella Germania odierna.
E Robert Wilbrandt è pienamente convinto che tutti i tentativi fatti in base alle idee odierne sono destinati a fallire. Questa è più o meno la conclusione del suo libro. Dopo aver più volte accennato a questa probabilità nel corso del libro, lo conclude in questo strano modo. Dice: «Tutti questi tentativi che vengono fatti sono destinati a fallire. Non costruiranno niente, perché oggi l’organismo sociale è privo di anima, e finché non se la sarà procurata non sarà in grado di fare nessun lavoro fruttuoso.»
La cosa più interessante è che il libro finisce così, senza parlare del modo in cui la si può trovare, quest’anima. L’impulso all’organismo sociale triarticolato non vuole un discorso teorico sulla necessità dell’anima, per poi aspettare che quest’anima spunti da sola, vuole invece indicare in quale modo l’anima si sviluppa realmente. E quest’anima potrà svilupparsi solo se si separerà la vita culturale da quella statale e da quella economica.
Allora, quando potrà seguire unicamente gli impulsi che l’uomo dà a se stesso in vista dello spirito, questa vita culturale troverà la forza necessaria per intervenire anche nel resto della vita pratica. Allora questa vita culturale si darà una forma come quella che ho cercato di descrivervi ieri, allora avrà un contenuto di realtà. E allora, parlando di questa vita culturale, si potrà dire di poterle assegnare i compiti che le vengono assegnati per esempio nel mio libro I punti essenziali della questione sociale.
Certo, di questi tempi si può far notare – e lo abbiamo fatto nella seconda conferenza – in che modo il capitale agisce nell’odierno processo socio-economico.
Quando però si dice che il capitale dovrebbe essere abolito o trasformato in proprietà collettiva, non si ha nessuna idea di come esso agisca effettivamente nella vita economica, in particolar modo negli attuali processi di produzione, di come sia imprescindibile un accumulo di capitale per far sì che gli uomini dotati di talento possano agire al servizio della collettività amministrando queste masse di capitali.
Per questo nel mio libro I punti essenziali della questione sociale l’amministrazione del capitale viene affidata alla vita culturale, con la partecipazione della vita giuridica autonoma. Mentre oggi vediamo che è il capitale stesso a decidere dell’economia, l’impulso alla triarticolazione dell’organismo sociale richiede che debba sempre essere possibile creare delle capitalizzazioni, ma richiede anche che esse siano amministrate da chi ha sviluppato a partire dalla vita culturale le doti necessarie per una qualche attività aziendale, e che queste capitalizzazioni vengano gestite da chi le ha accumulate solo finché è in grado di amministrarle per il bene di tutti.
Nel momento in cui – o perlomeno subito dopo questo istante, oggi non dobbiamo scendere nei particolari – l’individuo in questione non è più in grado di occuparsi dell’amministrazione del capitale, deve fare in modo che questa attività passi nelle mani di una persona dotata che la possa amministrare al servizio della collettività o, se non se ne sente capace, dev’essere affiancato da una corporazione della vita culturale che lo aiuti o che decida in merito a questo passaggio.
Ciò vuol dire che il passaggio di un’azienda ad una persona o a un gruppo di persone non dev’essere legato ad un acquisto o a un altro tipo di trasferimento di capitali, ma a quanto risulta dai talenti degli individui stessi. Si tratta quindi di un trasferimento da dotati ad altri dotati, da quelli che sono capaci di lavorare al servizio della comunità ad altri che a loro volta sono in grado di dare il loro meglio impegnandosi al servizio della collettività. La salute sociale dell’avvenire dipende tutto da questo tipo di trasferimento.
Questo transito però non sarà, come lo è adesso, esclusivamente di natura economica, ma avrà luogo a partire dagli impulsi che agli uomini verranno dalla vita culturale e da quella giuridica, entrambe autonome. Nella vita culturale ci saranno vere e proprie corporazioni, collegate a tutti gli altri settori della cultura, preposte in un certo senso all’amministrazione del capitale.
Così, cari ascoltatori, al posto del passaggio degli strumenti di produzione alla collettività ho potuto mettere la circolazione dei mezzi di produzione all’interno dell’organismo sociale, il trasferimento dai dotati ai dotati, cioè una vera e propria circolazione. E questa circolazione dipende dall’autonomia della vita culturale, a cui in un certo senso sottostà, da cui è messa in moto.
Si può quindi dire che nel circuito economico agisce in modo sommo la forza presente nella vita culturale e nella vita giuridica. Non ci si può immaginare nella vita economica un’unità più completa di quella prodotta da simili provvedimenti. Però la corrente di forze che sfocia nella vita economica proviene dalla vita culturale e da quella giuridica autonome.
L’uomo non sarà allora più alla mercé del caso che opera attraverso la domanda e l’offerta o attraverso gli altri fattori oggi all’opera nella vita economica, ma in economia agiranno la ragione umana e il rapporto giuridico fra uomo e uomo. Avremo quindi un’interazione di cultura, di diritto e di economia, proprio in quanto vengono amministrati separatamente, poiché l’uomo – che dopotutto fa parte di tutte e tre le sfere – trasferirà dall’una all’altra ciò che è necessario.
Affinché queste cose gradualmente si realizzino, gli uomini dovranno però liberarsi da diversi pregiudizi.
Oggi è per tutti scontato che i mezzi di produzione e la proprietà fondiaria siano elementi propri della vita economica. L’impulso alla triarticolazione dell’organismo sociale esige invece che nella vita economica vengano amministrati solo i valori reciproci delle merci, a cui devono essere approssimati i prezzi, di modo che l’unica occupazione dell’amministrazione dell’economia è la determinazione dei prezzi.
Ma, cari ascoltatori, è impossibile rendere equa la fissazione dei prezzi se il mezzo di produzione e la proprietà fondiaria agiscono in quanto tali all’interno della vita economica. Il poter disporre della proprietà terriera, che oggi si concentra nel diritto di proprietà fondiario, e il poter disporre dei mezzi di produzione ultimati non può essere faccenda dell’economia, ma spetta in parte alla cultura e in parte alla legge.
Significa che il trasferimento da una persona a un’altra, o da un gruppo di persone a un altro, di una proprietà fondiaria o dei mezzi di produzione ultimati, non può avvenire tramite acquisto o eredità, ma deve avvenire mediante un’assegnazione a partire dal terreno giuridico e dai principi della vita culturale.
Il mezzo di produzione mediante il quale nell’industria o in un altro settore analogo ha luogo appunto la produzione, vale a dire il mezzo di produzione che sta alla base della formazione di capitale, può costare qualcosa solo finché non è ultimato. Una volta pronto, lo amministra chi lo ha realizzato, poiché è la persona che meglio se ne intende – e lo fa finché lui stesso è in grado di provvedere con le proprie capacità a questa amministrazione. Non è un bene che può essere venduto, ma può solo essere trasferito da una persona o da un gruppo di persone ad un’altra persona o a un gruppo di persone per via di diritto o con una decisione culturale che viene eseguita in base al diritto.
Così quello che oggi è posto all’interno della vita economica, cioè il diritto di disporre della proprietà fondiaria e dei mezzi di produzione, viene posto sul terreno giuridico autonomo con la cooperazione della vita culturale non meno autonoma.
Agli uomini d’oggi queste idee possono risultare ancora estranee, ma proprio questa è la cosa triste e amara. Infatti è solo se queste idee entreranno davvero nelle teste, nelle anime e nei cuori degli uomini, così che essi si comportino in maniera sociale nella vita, che potrà avverarsi quello che oggi in tanti vogliono ottenere per vie del tutto diverse, ma che in quel modo non potranno mai realizzare.
Di questo ci si deve rendere conto, del fatto che certe cose che oggigiorno sembrano ancora paradossali verranno considerate del tutto ovvie in una vita sociale veramente sana.
Le richieste avanzate dall’impulso per la triarticolazione dell’organismo sociale non nascono da quegli istinti e da quelle emozioni in base ai quali oggi spesso vengono avanzate le rivendicazioni sociali, bensì da uno studio della reale evoluzione dell’umanità, dall’era moderna fino ai giorni nostri.
Esso vede per esempio come, nel corso di molti secoli, una forma sociale sia subentrata all’altra.
Torniamo al tardo Medioevo – si è estesa fino al tardo Medioevo, soprattutto nel mondo civile europeo –, dove troviamo una vita sociale strutturata in modo tale da poter parlare di una società di potere.
Tanto per farvi un esempio, questa società di potere nasceva perché magari un conquistatore qualsiasi si era stanziato da qualche parte con il suo seguito, trasformandolo per così dire nelle sue maestranze. Per il fatto che costui venisse considerato un capo in virtù delle sue qualità individuali, del suo effettivo o presunto valore individuale, si veniva a creare un rapporto sociale fra il suo potere e quello di coloro di cui era stato inizialmente il condottiero e che poi erano diventati i suoi servitori o le sue maestranze.
In un certo senso, per l’organismo sociale era determinante quello che sorgeva in un uomo o in un piccolo gruppo aristocratico, che poi si trasmetteva a tutta la collettività, nella quale continuava a vivere. La volontà che viveva nella totalità della popolazione era per così dire solo la copia, la proiezione di quella volontà singola.
Sotto l’influsso dell’era moderna, della divisione del lavoro, della cultura tecnologica, al posto di quella società di potere, pur portandone avanti gli impulsi fra gli uomini e nella convivenza umana, è subentrata una società di scambio.
Il prodotto del singolo diventava sempre più una merce che lui scambiava con un altro. In fin dei conti anche l’economia monetaria è la stessa cosa, nella misura in cui è commercio con l’altro individuo o con l’altro gruppo. Si tratta di un commercio basato sullo scambio. La società umana è diventata sempre più una società di scambio.
Mentre nella società di potere la collettività ha a che fare con la volontà di un singolo che lei fa sua, la società di scambio, in cui siamo ancora immersi e da cui una gran parte dell’umanità odierna tende ad uscire, ha a che fare con la volontà del singolo che sta di fronte alla volontà dell’altro singolo individuo.
Ed è solo dall’interazione fra individuo e individuo che emerge come un risultato casuale la volontà collettiva. Da ciò che si verifica fra individuo e individuo scaturisce quello che si crea come comunità economica, come ricchezze, quello che si manifesta nella plutocrazia e via dicendo. Ma in tutto questo agisce ciò che ha a che fare con lo scontro di volontà singola con volontà singola.
Non c’è da meravigliarsi che l’antica società basata sul potere non potesse anelare ad una qualsiasi emancipazione della cultura. Chi era il capo infatti, veniva riconosciuto anche come guida della vita culturale e dell’ordinamento giuridico in virtù della sua bravura. È però anche evidente che il principio giuridico, statale e politico, ha preso il sopravvento soprattutto nella società basata sullo scambio, dato che abbiamo visto su cosa vuole basarsi il diritto, anche se nella società odierna questo volere non riesce ad esprimersi correttamente.
In effetti il diritto ha a che vedere con ciò che il singolo uomo deve stabilire da pari a pari con i suoi simili. La società di scambio è una società in cui il singolo ha a che fare con l’altro singolo. Perciò questa società aveva tutto l’interesse a trasformare la propria vita economica, dove il singolo ha a che fare con il singolo, in una vita giuridica, cioè a convertire in norme giuridiche quelli che sono interessi di tipo economico.
Proprio come l’antica società di potere è diventata una società di scambio, così oggi questa società di scambio, muovendo da impulsi profondi dell’evoluzione umana, tende a trasformarsi in un nuovo tipo di società, particolarmente sul terreno giuridico. La società basata sullo scambio infatti, appropriandosi della vita culturale e togliendole la libertà – o rendendola avulsa dalla realtà – è diventata gradualmente una semplice società economica, ed è come tale che viene reclamata da certi socialisti radicali.
Ma a partire da impulsi profondi dell’umanità odierna questa società basata sullo scambio tende soprattutto in ambito economico a convertirsi in una “società organica”, se così la posso chiamare, anche se questo nome zoppica un po’ – ma dopotutto si tratta di qualcosa di nuovo, e di solito per le cose nuove non abbiamo delle denominazioni azzeccate, dato che la lingua deve ancora crearle. Come sarà organizzata questa società organica?
• Come una volta la volontà di un singolo o di un’aristocrazia, che è anch’essa una sorta di volontà individuale, si estendeva in un certo senso alla collettività, così che nelle loro volizioni i singoli rappresentavano solo un prolungamento della volontà del singolo,
• come la società di scambio ha oggi a che fare con lo scontro fra volontà singola e volontà singola,
• così l’ordinamento economico della “società organica” avrà a che fare con una specie di “volontà concertata”, che poi si ripercuote sulla volontà dell’individuo.
Nella seconda conferenza ho infatti mostrato come nel campo della vita economica dovranno sorgere associazioni tra i vari settori di produzione, associazioni fra i rami di produzione e i consumatori, di modo che coloro che commerciano e coloro che consumano a livello economico si debbano consociare fra loro.
Le associazioni stipuleranno fra loro dei contratti. All’interno di gruppi più o meno grandi si formerà così una specie di “volontà concertata”. Molti nostalgici della socializzazione aspirano a una volontà collettiva, solo che spesso si immaginano la faccenda in un modo estremamente confuso, tutt’altro che sensato.
Proprio come la volontà del singolo ha agito nella comunità in seno alla società di conquista, di potere, così nella società organica del futuro dovrà esserci una volontà concertata che diventi operante nel singolo individuo.
Ma come sarà possibile ciò, cari ascoltatori? Che cosa dev’esserci in questa volontà concertata, che deve nascere grazie all’interazione delle singole volontà che devono creare qualcosa che non sia una tirannia, seppur democratica, per il singolo, ma al cui interno l’individuo possa sentirsi libero?
In questa volontà concertata ci dev’essere ciò che la singola anima e il singolo spirito umani possono accogliere in sé, qualcosa con cui si possano dichiarare d’accordo, in cui possano riconoscersi e immedesimarsi.
In altre parole, nella volontà concertata della società organica deve vivere ciò che vive nel singolo individuo, corpo, anima e spirito. E questo è possibile soltanto se quelli che plasmano questa volontà concertata a partire da quella individuale hanno nel loro volere, nel loro sentire e nel loro pensare la piena comprensione per l’essere umano nella sua totalità.
E in questa volontà concertata deve inserirsi ciò che l’uomo sente come il proprio spirito, la propria anima e il proprio corpo – in vista però di mettercelo dentro, di contribuirvi.
• Diversa era la situazione nell’istintiva società di potere, dove un singolo veniva riconosciuto dalla collettività, poiché gli individui che ne facevano parte non erano in grado di far valere la propria volontà singola;
• diversa era anche nella società di scambio, dove la singola volontà si scontra con l’altra volontà singola e si produce una sorta di collettività casuale, caotica;
• e ancora diversa sarà la società organica, se una volontà organizzata per concerto sarà in grado di agire sul singolo individuo. Allora nessuno di quelli che prendono parte alla formazione di questa volontà concertata potrà mostrarsi privo di comprensione per la vera essenza dell’uomo.
Allora non si potrà più studiare la vita con una scienza astratta, con una scienza unicamente orientata alla natura esteriore, incapace di comprendere l’uomo nella sua totalità. Allora ci si dovrà accostare alla concezione della vita con quella scienza dello spirito che, grazie alla sua visione complessiva dell’uomo come corpo, anima e spirito, sarà anche in grado di suscitare una comprensione a livello emotivo e volitivo per questo singolo individuo.
Se quindi si vorrà realizzare un ordinamento economico comunitario, lo si potrà fare solo animandolo a partire da una vita culturale autonoma. Solo così sarà possibile creare un futuro fecondo, se dall’altra parte quanto viene pensato nella libera vita culturale si rifletterà nella vita economica.
E questa vita culturale libera non si rivelerà impratica, al contrario, dimostrerà di essere molto pratica. Solo chi indugia in una vita culturale non libera si limita a speculare sul bene e sul male, sul giusto e sul vero, sul bello e sul brutto – che però vivono solo dentro la sua anima.
Ma colui che, grazie alla scienza dello spirito, vede lo spirito come qualcosa di vivente, colui che lo osserva grazie a una conoscenza spirituale, diventa pratico in ogni sua azione, soprattutto per quanto concerne la vita umana. Ciò che accoglie in sé dalla visione spirituale si infonde immediatamente nelle sue mani, si trasfonde in ogni faccenda pratica, si conforma in modo da inserirsi direttamente nella vita concreta.
Solo una cultura avulsa dalla vita pratica perde il contatto con la realtà. Una cultura a cui è concesso di esercitare la propria influenza sulla vita pratica diventa prassi di vita. Direi che chi conosce davvero la vita culturale sa quanto è vicino alla vita pratica ogni elemento culturale lasciato libero di seguire il proprio impulso.
Vorrei dirvi anche questo: non è un buon filosofo colui che al momento giusto non è anche in grado di spaccare la legna. Chi infatti vuole fondare una filosofia senza aver messo mano alla vita pratica, non fonda una filosofia per la vita, ma una filosofia avulsa dalla realtà. La vera vita culturale è pratica!
Sotto gli influssi sorti nel corso dei secoli si può comprendere quanto oggi proprio delle persone inserite nell’attuale vita culturale, nella vita culturale oggigiorno dominante – come per esempio Robert Wilbrandt, che ha scritto la sua socializzazione prendendo le mosse da un pensare davvero sano, da un’etica realmente sociale – affermano: non si può costruire nulla poiché manca l’anima. Si può capire perché gli uomini non riescano poi a trovare il coraggio di chiedersi come si forma l’anima, perché non sanno decidersi a domandare: quali sono gli effetti di una vita culturale veramente libera sulla vita statale e su quella economica?
Questa vita culturale libera saprà interagire con la vita economica nel modo giusto che vi ho indicato. Ma allora anche la vita economica, che può cooperare con quella statale e con quella culturale, sarà in ogni momento capace di formare uomini che a loro volta diano stimoli alla vita culturale.
La triarticolazione dell’organismo sociale può dare origine ad una convivenza libera e reale. Per questo a coloro che oggi richiedono vagamente un’anima e uno spirito, per istinto ma non per vera forza d’animo, vien voglia di ribattere: imparate a conoscere la realtà dello spirito. Date allo spirito ciò che è dello spirito, date all’anima ciò che è dell’anima, e allora anche nella vita economica emergerà ciò che appartiene all’economia.
Risposte alle domande
(dopo la quinta conferenza)
Signor Bosshardt: Le conferenze del Dr. Steiner sono state un vero piacere. Non ho niente da obiettare alla triarticolazione del socialismo. È lì, solo che prima non le ho prestato grande attenzione. Eppure devo chiedermi: a che pro bisogna parlare così tanto della triarticolazione se essa esiste già e c’è sempre stata? L’ordinamento economico, la vita culturale e il diritto sono sempre esistiti da quando l’uomo è diventato capace di pensare, e sempre esisteranno. Torniamo al singolo individuo. Ogni individuo ha una componente economica, svolge un lavoro economico. Ha anche uno spirito, e dalla combinazione di spirito ed economia risulta il diritto. Lì c’è il collegamento fra singolo individuo e singolo individuo, fra uomo e uomo. Non vale la pena di discuterne ulteriormente. Ma nell’economia odierna, nella legislazione attuale, nell’odierna vita culturale le cose stanno ancora così: un gruppo di persone, i lavoratori, si occupa unicamente dell’ordinamento economico; un altro gruppo, più ristretto, si occupa solo della vita culturale; e un terzo gruppo, i giuristi, ha il controllo della vita giuridica. Ma costoro sanno poco o niente dell’ordinamento economico pratico, sanno solo trarne denaro, profitto. Mi ha fatto molto piacere sentire la frase del relatore in cui ha affermato che solo chi sa anche spaccare la legna può essere un filosofo. Mi fa piacere che anche lui se ne renda conto. Forse il Dr. Steiner sarebbe ancor più ferrato se sperimentasse più praticamente la triarticolazione del socialismo, se anche lui svolgesse del lavoro pratico. Non so in che misura lo faccia. Magari ha in casa della legna. Non è naturalmente come nel caso di un ingegnere – che non è stato prima un meccanico per esempio, o un elettricista, professioni molto più pratiche – che non potrà mai diventare un tecnico pratico se prima non avrà svolto del lavoro pratico in qualità di ingegnere. Ma questa non è la soluzione giusta dell’enigma, ma il vero enigma sarebbe se ogni uomo lavorasse otto ore al giorno intellettualmente e praticamente. Ci sono teorici secondo i quali, se tutti lavorassero svolgendo dei lavori utili e pratici, basterebbe un’ora e mezza di lavoro al giorno. Non dico niente in proposito, ma chiunque può riflettere da solo sul fatto che se per esempio durante la guerra non fossero state prodotte munizioni, non ci fossero stati soldati, come quelli svizzeri, impegnati inutilmente a fare i buffoni, e gli altri non avessero fatto soltanto lavori nocivi per l’umanità, ce la saremmo potuta cavare con la metà delle ore lavorative – sei ore invece delle dodici in media durante la guerra. E allora gli uomini sarebbero per esempio più sani, ci sarebbe meno bisogno di medici. Anche questo non ha senso. Voglio solo dire che sarebbe giusto che ogni uomo avesse un’occupazione sia pratica che intellettuale.
Il Dr. Steiner ha sfiorato l’argomento, ma non ci ha detto come possiamo risolverlo. Quelli che hanno in mano la cultura se ne serviranno per decidere anche sull’economia e sul diritto. Un Napoleone non ha dominato il mondo con la spada, ma con la propria mente. E lo stesso avviene con i capitalisti del giorno d’oggi. Come possiamo uscire da questa situazione? Loro di sicuro non scendono a portarci il futuro sociale, è la classe operaia, sono i lavoratori stessi che devono aiutarsi da soli. Ma non lo possono fare con un colpo di stato per strada, con le loro sole forze fisiche, devono appropriarsi delle forze mentali. Ma come lo vogliamo insegnare al popolo dei lavoratori? Questa è la soluzione dell’enigma, di cui il Dr. Steiner non si è occupato in nessuna delle sue conferenze. Ma si tratta di qualcosa che va delineato chiaramente, allora sì che la gente seguirebbe di più le conferenze. Abbiamo qui in sala persone del ceto medio e anche di classi sociali più alte. Sono venute perché hanno interesse, non certo per risolvere la questione sociale. È qualcosa di cui mi occupo già da molto tempo ancor prima della guerra, ma non sono ancora riuscito a trovare la soluzione. Eppure, assistendo a tutte le conferenze che posso, ho ricavato l’idea che potremo giungere al futuro sociale lavorando con le mani e pensando con la mente, allora i concetti giuridici emergeranno da soli. Ho finito.
Rudolf Steiner: Cari ascoltatori, qui viene dapprima posta la domanda per iscritto:
Temo che attraverso la triarticolazione dell’organismo sociale nasca un eterno schematismo, come quello dell’idealismo tedesco. È stato soprattutto Kant a voler ridurre tutta la ricca vita culturale allo schema della triarticolazione di pensiero, sentimento e volontà.
Cari ascoltatori, perdonatemi se accenno dapprima a qualcosa di personale. Nei vari libri che ho scritto – e ne ho scritta una serie, veramente troppi! – mi sono dato il compito di indicare gli elementi inesatti, sotto un certo aspetto addirittura nocivi, nella concezione kantiana del mondo. Un compito piuttosto impopolare di questi tempi.
E in particolare ho sempre dovuto far notare la caratteristica malsana del pensiero kantiano, anche per motivi soggettivi, per il fatto che sentivo che tale pensiero è diametralmente opposto ad uno che si formi in base alla realtà.
Vedete, si potrebbe dire che il pensiero kantiano è tanto popolare proprio per il fatto che schematizza. Chi ha seguito queste mie conferenze troverà che anch’io devo usare delle parole, ma nelle mie parole, nelle mie descrizioni, lo spirito schematico verrà ravvisato solo da chi ce lo vuol mettere. Nel modo in cui cerco di affrontare la realtà non c’è davvero niente di schematizzante, solo che per parlare è necessario servirsi di parole – si può anche ritenere inutile parlare, ma oggi sono in pochi a farlo. E poi si tratta di essere capiti nel modo giusto. Non parlo come uno che ha in mente un qualche tema filosofico, ma voglio prendere in considerazione la vita nella sua totalità.
Per l’occasione è necessario toccare qualche argomento in un certo senso personale. Sono giunto quasi al termine del mio sesto decennio di vita e ne ho viste tante, il destino mi ha introdotto in diversi ambiti della vita e ho avuto modo di conoscere ciò che vive nelle diverse classi e nei diversi ceti sociali dell’umanità odierna, e ciò senza schematismi di base, ma con la possibilità di prendere la vita nella sua pienezza.
E da questa ricchezza di vita sono sorte delle considerazioni che molti non troveranno subito facilmente comprensibili, proprio perché quello schematismo oggi così in voga non basta per capirle, dato che per comprenderle in maniera corretta occorre un certo intuito per le cose reali della vita.
Ma c’è una cosa che, pur avendo conosciuto uomini di partito dall’estrema destra alla sinistra più radicale e anche del centro, non sono mai stato capace di fare: aderire ad un partito. Forse è proprio a questo fatto che devo una certa spregiudicatezza – perlomeno io credo che sia così.
E quello che adduco a sostegno della triarticolazione dell’organismo sociale non vuole davvero aver nulla a che fare con qualsiasi schematismo, ma ovunque ci si occupi della vita, questa si mostra nella sua triarticolazione. Andate a vedere nel mio libro Enigmi dell’anima: non vi troverete uno schematismo in base al quale voglio suddividere tutto l’organismo naturale, come ha fatto così meticolosamente Kant spartendo la vita culturale nei suoi tre settori, ma vedrete che davvero i tre elementi interagiscono fra loro, che non c’è schematismo nelle descrizioni dei fenomeni della realtà quando si tratta dei tre elementi, quando li si vuole individuare così come sono.
C’è una bella differenza fra il classificare in base ad un punto di vista soggettivo e il cercare di riprodurre oggettivamente la realtà. Ed è proprio questo che sta alla base del modo di pensare che viene affermato qui: il fatto che la realtà viene presa come tale, che non si afferma nulla che non venga desunto dalla realtà stessa. Desidero spiegarvelo con un esempio.
Una volta ho tenuto una conferenza sulla saggezza del cristianesimo in una cittadina del sud della Germania. Erano presenti anche due parroci cattolici e, dato che nella conferenza non è stato detto niente che potessero contestare a livello di contenuto, alla fine sono venuti da me con queste parole: «Senta un po’, non c’è nulla da ridire su quanto Lei ha enunciato oggi, ma l’ha esposto in un modo tale per cui si rivolge solo ad alcuni uomini che sono predestinati ad ascoltare queste cose per via della loro formazione, mentre noi parliamo per tutti.»
Quella volta ho risposto: «Che voi ed io ci mettiamo in testa di parlare a tutti gli uomini, è qualcosa di soggettivo, in fin dei conti chiunque può crederlo. Perché mai si dovrebbe parlare a delle persone se non si credesse che le proprie parole siano valide e comprensibili per tutti? Ma quello che conta non è questo elemento soggettivo, quello che conta è vedere se i fatti oggettivi parlano così e se ci si comporta in base ad essi. E allora vi chiedo: voi sostenete di parlare per tutti – questa è la vostra opinione soggettiva, e sia pure anche la vostra aspirazione soggettiva. Ma vengono poi davvero tutti da voi in chiesa? Perché questa sarebbe la prova che voi parlate a tutti.»
Ovviamente non hanno potuto rispondermi di sì, perché bisognava lasciar parlare i fatti, non le opinioni soggettive. Al che ho aggiunto: «Ora prendiamolo come un dato di fatto, e diciamo che io parlo a quelli che non vengono da voi in chiesa, poiché anche loro hanno il diritto di sentir parlare del Cristo.»
In questo modo si lascia parlare la realtà del nostro tempo, non si schematizza, non ci si attiene alla soggettività ma si cerca di interpretare quelli che sono i reali impulsi del nostro tempo. È in base a questi effettivi impulsi del tempo che si deve parlare.
Secondo Lei la triarticolazione dell’organismo sociale verrà realizzata all’interno degli Stati esistenti o in che modo? Cioè, lo Stato odierno farà da cornice con i suoi confini politici anche nel nuovo ordinamento?
Cari ascoltatori, è possibile organizzare qualcosa in modo proficuo solo se non si vuole sfasciare tutta la realtà che già c’è, ma se si fa attenzione all’evoluzione reale, lavorando in direzione di una trasformazione della realtà che c’è.
Forse avete già potuto notare come proprio nell’idea dell’organismo sociale triarticolato si lavori in direzione di un’organizzazione della vita partendo da basi scientifico-spirituali. Queste basi scientifico-spirituali forniranno anche quello che manca stando anche agli apprezzati pensatori del giorno d’oggi, cioè una vera scienza economica.
Quella che oggi viene chiamata scienza economica non è che una serie di ritagli cuciti insieme a partire da singole osservazioni, e non qualcosa che possa diventare davvero un impulso per un volere sociale. Una vera scienza economica può crescere solo da basi scientifico-spirituali. Allora si verificheranno diverse cose anche per quanto riguarda la demarcazione dei vari organismi sociali.
Così, per esempio, dalla vita economica stessa nasceranno leggi su come delimitare le zone economiche, i territori economici, in modo da poter guardare ad un futuro di cui si dovrebbe parlare nei seguenti termini. Si può dire che una vera scienza economica mostra che se le associazioni di cui ho parlato nella seconda conferenza e in quella odierna diventano troppo grandi non sono più possibili sul piano economico, ma non lo sono più neanche se diventano troppo piccole.
Le dimensioni del territorio sono determinate anche dalle condizioni economiche interne, dalla molteplice produzione, dai molteplici rami, dalle molteplici aree esistenti. Se volessi esprimere la legge che stabilisce l’estensione giusta di un’area economica dovrei dire all’incirca: le aree economiche troppo piccole risultano dannose perché non permettono alle persone in esse associate di prosperare, lasciandole per così dire morire di fame. I territori economici troppo grandi invece nuocciono a quelli che si trovano al loro esterno, facendo morire di fame loro.
È effettivamente possibile stabilire le dimensioni dei territori economici in base a leggi interne, da punti di vista economici sia di maggiore che di minore peso. E, se l’organismo sociale è veramente triarticolato, non è affatto necessario – ne parlerò ancora domani – che i limiti di un territorio culturale coincidano con quelli di uno economico o con quelli di uno giuridico.
Gran parte della sciagura attuale, scatenatasi in questa terribile catastrofe della guerra mondiale – che, come ho illustrato alla fine della conferenza di ieri, non è ancora terminata –, deriva dal fatto che nello stato unitario si sono fatti coincidere ovunque i confini economici con quelli politici e culturali. L’importante è quindi che le dimensioni del territorio risultino da una legge interna, dettata dalla vita stessa.
Occorre però tener conto dell’evoluzione, per questo bisogna cominciare da ciò che c’è. Si può dire allora: emergerà che dapprima saranno le esistenti corporazioni e formazioni storiche a tendere verso questo impulso della triarticolazione dell’organismo sociale. Ma poi, non dico quando l’avranno realizzato ma quando l’avranno dentro di sé, il da farsi risulterà dalla legge della vita quale si manifesterà a quel punto.
Quindi a queste cose non si può dare una risposta teorica, ma solo una adeguata alla vita, che ci fa dire: quello che emergerà domani farà da base per ciò che sorgerà dopodomani. Si tratta allora di richiamare l’attenzione sulla vita, non di inventare dei programmi astratti. Tali programmi sono terribilmente a buon mercato, e ne sono davvero stati inventati a sufficienza.
L’uso dei mezzi di produzione agrari si differenzierà sostanzialmente da quello dei mezzi industriali?
Cari ascoltatori! L’uso degli strumenti di produzione agricoli, quindi soprattutto della proprietà fondiaria – dato che nella misura in cui ce ne sono altri si tratta di mezzi di produzione industriali –, oggi viene trattato in particolar modo sul terreno di quella lotta condotta da coloro che vogliono la riforma agraria.
Potete apprendere facilmente quello di cui si tratta risalendo al più originale riformatore agrario, al testo di Henry George Progresso e povertà (Progress and Poverty) e al suo tentativo di compensare, di eliminare, le ingiustizie dell’ordinamento sociale prodotte dal rincaro dei terreni – che eventualmente possono essere prodotte da chi non ha svolto neanche una quantità minima di lavoro per appropriarsi della terra – mediante la cosiddetta single tax (tassa unica). Se considerate tutto questo, potete vedere come da una certa parte si cerchi di porre in primo luogo i mezzi di produzione agricoli al servizio della collettività, perlomeno in misura limitata.
Parecchi anni fa ebbi una discussione con Damaschke, che in un certo senso si basa su Henry George, e gli dissi che i mezzi di produzione agricoli non vanno confusi con quelli industriali. C’è infatti una notevole differenza fra l’azione che questi due tipi di mezzi produttivi esercitano sull’intero ordinamento sociale.
Il suolo ha determinate dimensioni, non è elastico. Quando due case sono una di fianco all’altra, confinano tra loro, non è possibile estendere il terreno su cui si trovano per costruirne una terza nel mezzo. I mezzi di produzione industriali invece possono essere mantenuti per così dire elastici, possono essere moltiplicati. Questo crea una grossa differenza, e perciò i due tipi vanno gestiti in modo diverso.
La teoria socialdemocratica, che calza soprattutto per i mezzi di produzione industriali, non può essere applicata tale e quale alla proprietà fondiaria. Quello che conta è quanto ho detto oggi nella conferenza: che in realtà sia la proprietà fondiaria che il mezzo di produzione ultimato non devono essere oggetto dell’economia, bensì di un trasferimento di diritto secondo punti di vista culturali-spirituali. Quando le cose staranno così per entrambi, le differenze risulteranno non a livello di teoria ma dalla vita stessa.
Pensate per esempio a quanto segue. I mezzi di produzione industriali sono soggetti ad usura, devono essere costantemente rinnovati. Non così per quanto riguarda i mezzi di produzione agricoli: non solo non sono elastici, ma si consumano in misura molto minore, perlomeno vanno trattati in modo del tutto diverso dai mezzi di produzione industriali.
Ma fra i mezzi di produzione agricoli e quelli industriali c’è un altro importante tipo di rapporto. Si può pensare al fatto che una parte dei proventi dell’industria venga usata per aumentare la produzione, per incrementarla sempre più. Allora vediamo che una parte di ciò che possiamo definire come gestione di capitali industriali viene a sua volta inghiottita dall’industria stessa. Non si può dire invece che con i mezzi di produzione agricoli avvenga la stessa cosa.
I libri contabili, se venissero tenuti come contabilità globale dell’economia, mostrerebbero due poli: uno indicherebbe pressappoco la produzione di carbone, e si avrebbero a partire dalla produzione di carbone tutte quelle voci che finiscono nel settore industriale. L’altro polo è quello del pane: se si registrassero tutte le voci che si riferiscono al pane, in senso lato ovviamente, come agli altri generi alimentari prodotti dalla proprietà terriera, si otterrebbe approssimativamente ciò che viene prodotto dalla proprietà fondiaria.
Ora, molto di quello che ci sarebbe in quel libro contabile, qualora sia la proprietà fondiaria sia i mezzi di produzione venissero estromessi dalla vita economica ed assegnati all’ordinamento giuridico e culturale, rimane oggi celato per il fatto che si confonde l’industria con l’amministrazione della proprietà terriera. Basta essere un industriale, avere delle ipoteche su una proprietà fondiaria, ed ecco che si fa una bella confusione, ma anche per via di molte altre cose.
Se così non fosse, si vedrebbe subito chiaramente che oggi l’economia mondiale, per quanto paradossale la cosa possa sembrare ad alcuni, è in condizioni tali per cui solo la proprietà terriera è veramente produttiva. Tutta l’industria è improduttiva, viene in realtà mantenuta dai proventi della proprietà fondiaria. Per quanto strano possa sembrare, le cose stanno proprio così. In definitiva ogni impresa industriale è quello che in agricoltura viene definito un bene che divora i propri proventi.
Oggi non si presta attenzione all’economia nel suo insieme, anche perché viene mascherata dalle più varie circostanze. Da tutto ciò risulta che nella vita reale si colgono i punti di vista giusti solo se si mette in atto un trasferimento sia dei mezzi di produzione agricoli sia di quelli industriali da un uomo un dotato all’altro.
Vedete, per il trasferimento sul versante industriale viene preso in considerazione soprattutto il talento intellettuale individuale degli uomini, quello che sanno fare, che hanno imparato, per cui sono portati. Nel trasferimento agrario si tiene conto di altri fattori, per esempio del fatto che l’uomo viva in intima comunione con la terra. Va tenuto presente che chi è dotato delle migliori capacità per continuare a lavorare la proprietà fondiaria non può essere scelto in modo astratto in base alla sua predisposizione intellettuale, ma in un certo senso dev’essere cresciuto insieme al suolo.
Se si riuscisse a esporre nel modo giusto il senso della triarticolazione nelle campagne, tutta la popolazione rurale aderirebbe a questa idea. Naturalmente se spuntasse qualcuno che ha la brutta fama di esser dotto, la gente non lo ascolterebbe e lui non avrebbe niente da dire. Ma se la questione viene presentata ai contadini nel modo giusto, non avranno niente in contrario. In effetti in ambito rurale si agisce già secondo questo principio. Non nella grande proprietà fondiaria, ma in ambito contadino, nella misura in cui lo Stato non interviene ancora con la sua azione di disturbo, si pensa e si agisce secondo questo spirito.
Si tratta quindi del fatto che nel concreto i punti di vista scaturiscono dalla vita stessa. Se si vuol rendere qualcosa capace di vivere non si possono fare programmi, ma si tratta di fornire una descrizione in base alla quale la vita possa affermarsi. Allora la vita ha anch’essa qualcosa da fare!
Vedete, è in questo che l’impulso alla triarticolazione sociale qui presentato si differenzia da molti altri programmi, che oggi sono a buon mercato come le more. Questi programmi sociali fissano il primo punto, il secondo, il terzo ecc., in effetti schematizzano tutto. L’idea della triarticolazione dell’organismo sociale non si attribuisce questa onniscienza, vuole invece che l’organismo sociale venga organizzato in modo tale che gli uomini collaborino fra loro così da dargli di volta in volta una forma adeguata. La triarticolazione desidera soltanto mettere gli uomini in condizioni tali per cui da loro stessi possa sorgere un ordinamento sociale sano.
Se solo ci si rendesse conto che questa differenza è davvero fondamentale, quella fra l’impulso alla triarticolazione e l’altro che emerge di questi tempi, si vedrebbe che questa triarticolazione attinge a piene mani dalla realtà. Per questo ho detto spesso alla gente che ciò che conta non è che si faccia questo o quello. Potrei anche dire in modo radicale: si cominci una buona volta, magari risulterà che non resterà una pietra sopra l’altra, ma nascerà sicuramente qualcosa di buono, in quanto si afferra per qualche verso la realtà stessa.
Quando si afferra la realtà, può darsi che si verifichi qualcosa di diverso da quanto si era annunciato nei programmi. Non si tratta allora di formulare un programma, bensì di indicare il modo in cui affrontare la realtà.
Permettetemi ancora una parola su quanto ha detto il signore che ha parlato prima. Egli ha per esempio affermato che la triarticolazione c’è sempre stata. Capisco benissimo come mai l’ha detto, poiché ha confuso le mie affermazioni con qualcos’altro. E ha anche accennato chiaramente di aver fatto confusione, dal momento che, se ho sentito bene, ha sempre parlato della “triarticolazione del socialismo”.
Cari ascoltatori, io non parlerei di certo della triarticolazione del socialismo, cosa che mi sembra del tutto impossibile. In quanto ideologia infatti, il socialismo può essere solo qualcosa di unitario, e se si pensa in modo così astratto si è tentati di dire: ma se la vita è sempre stata triarticolata, che senso ha parlare di questa triarticolazione, di questa divisione della vita in tre parti?
Sì, è proprio di questo che si tratta. Certo, la vita è sempre stata tripartita, non siamo noi a dividerla in tre parti, lo fa da sola. Il punto è che nella gestione della vita non sempre si è indovinato come amministrare, come regolare e orientare nel modo giusto la vita in sé triarticolata. Quindi è dato per scontato che la vita sia triarticolata. È appunto di questo che si sta parlando.
Poiché la vita è già da sempre triarticolata, ci si chiede: cosa bisogna fare perché ne risulti realmente un’unità? Negli ultimi secoli e nel presente questa unità non è emersa, si tratta allora di trovare una nuova via. Pur ritenendosi aderente alla realtà, è un modo di pensare estremamente astratto e avulso dalla realtà quello che vuole liquidare ciò che tiene conto delle cose ovvie della vita e, proprio a partire da esse, ravvisa la necessità che la vita venga plasmata di conseguenza. Nella vita capita fin troppo spesso che si travisa ciò che è ovvio, e da qui nascono le crisi esistenziali. È questo che desidero far notare in particolar modo.
Cari ascoltatori, è un luogo comune affermare che dall’economia insieme alla cultura nasce il diritto. Non dico di no. Quando finalmente ci sarà l’organismo sociale triarticolato, verrà anche il diritto. Ma verrà nel modo in cui si ritiene che debba venire: sono gli uomini che lo devono istituire. È quindi necessario riflettere sul metodo da seguire per istituirlo.
Poi sono state dette diverse cose degne di ascolto sul rapporto fra vita culturale e lavoro pratico. Non desidero entrare nel personale, altrimenti potrei facilmente dimostrare all’egregio signore che ha parlato prima come per tutta la vita mi sia sforzato di coniugare il lavoro pratico alla vita intellettuale. Ma non si può pretendere da me quello che si è preteso in diverse discussioni, vale a dire che la vita pratica debba consistere nel fatto di collaborare all’interno di un qualsiasi partito. È questo che diverse persone hanno inteso con “lavori sociali pratici”. Questo cosiddetto lavoro sociale pratico è talvolta un lavoro molto teorico, decisamente non pratico. Perciò occorre non confondere queste cose con la vera vita concreta.
Poi, cari ascoltatori, è stato detto che se davvero deve subentrare un miglioramento, un risanamento delle condizioni, allora vuol dire che la classe operaia deve realmente occuparsi delle basi culturali della vita sociale. Sono assolutamente d’accordo, ma credo anche di aver già accennato in queste conferenze allo strumento giusto tramite il quale la classe operaia può occuparsi delle questioni culturali.
Ho già accennato al fatto di essere stato per anni insegnante in una scuola di formazione per operai, di aver trovato anche il tono giusto per parlare a livello scientifico al cuore degli operai. Solo che poi i capi mi hanno sbattuto fuori, se posso esprimermi senza giri di parole, perché volevano che si prestasse ascolto solo a loro e che si professasse solo quello che decretavano loro. Ve ne ho già parlato in una conferenza precedente. Quando ho chiesto: «Se neanche qui ci può essere libertà d’insegnamento, dove la si potrà mai trovare?», uno dei capi mi ha risposto: «Libertà d’insegnamento? Qui da noi non può esistere. Qui vogliamo una ragionevole costrizione.»
Vedete, cari ascoltatori, con questo potrei dirvi molto su quale sarebbe un buon strumento che permetterebbe alla classe operaia odierna di impossessarsi realmente delle fondamenta culturali per una riorganizzazione sociale. Tale strumento consisterebbe nel prendere le distanze dalla maggior parte degli attuali capi, che non mirano affatto in maniera onesta ad una ricostruzione del sociale, ma puntano a qualcosa di completamente diverso, e che oggi vengono ascoltati ancora di più di quanto i cattolici non diano retta ai loro arcivescovi – questo è emerso dalla prassi dell’azione per la triarticolazione sociale. Si tratta di qualcosa che andrebbe preso sul serio.
Sono convinto che al giorno d’oggi ci sia talmente tanto buonsenso nelle vaste masse del popolo che nell’istante in cui qualcuno di questi capi sparisse, subentrerebbe una vera e sana comprensione degli eventi sociali.
Oggi abbiamo bisogno che gli uomini si cristallizzino di nuovo intorno a delle idee, intorno ad impulsi ideali a partire dai quali sia possibile plasmare la vita – che i vecchi schemi e programmi di partito vengano superati, poiché sono proprio loro ad impedire una vera comprensione ed un sano agire in questo senso.
Anche in questo caso occorre cercare nella realtà ciò che potrebbe portare a un risanamento. La semplice rivendicazione non basta, come non basta la richiesta di “eliminazione del capitale”, ma bisogna capire come agisce il capitale, perché l’eliminazione è facile – anzi, difatti non lo è, in quanto porta facilmente alla rovina! Ma se si vuole uscire dai danni del capitalismo è necessario qualcos’altro.
Come è necessario osservare la realtà in quest’ambito concreto, così nella vita umana di oggi è necessario esaminare i vari campi e dirsi che i partiti spesso vivono ancora del seguito astratto dei loro programmi, ma che non sono più a contatto con la vita. Ma questo contatto è necessario soprattutto laddove si tratta di una reale ricostruzione nell’ambito della vita sociale.
È questo che vi volevo dire oggi, anche se per chiarire del tutto queste questioni bisognerebbe sfiorare anche altri argomenti.
Sesta conferenza
La vita nazionale
e internazionale nella triarticolazione sociale
Zurigo, 30 ottobre 1919
Cari ascoltatori!
Forse a qualcuno di voi sarà sembrato strano il modo in cui ho affrontato questo tema. Strano per quanto riguarda il taglio che gli è stato dato, così che forse si potrebbe dire: «Sì, abbiamo sentito singole idee, singoli pensieri su una possibile forma della struttura sociale. E in queste conferenze si è notato poco di quello che oggi viene spesso ripetuto come slogan quando ci si occupa della questione sociale.»
Certo, cari ascoltatori, qui abbiamo dovuto occuparci in primo luogo di pensieri e di idee.
Ma ritengo anche di aver fatto notare che questi pensieri e queste idee si differenziano dagli altri che vengono presentati in questo campo, in base ai quali si dice: «Quello che manca è una distribuzione equa dei mezzi di sostentamento. Ciò dipende da questo o quel danno che deve essere perciò eliminato» – e altre affermazioni analoghe. Oggigiorno è facile sentire tali parole.
A me pare importante agire anche in questo campo come nella vita pratica. Quando si ha a che fare con un prodotto di cui l’uomo ha bisogno e che dev’essere realizzato per mezzo di una macchina, non basta elaborare un programma e decretare: «Bene, adesso per realizzare questo prodotto devono mettersi insieme alcuni uomini organizzati in questo e in quel modo.» È più o meno questo il tenore di tanti programmi sociali che vengono formulati di questi tempi.
A me preme invece indicare il modo in cui la macchina, in questo caso l’organismo sociale, debba essere congegnata affinché possa effettivamente produrre quanto viene richiesto dalle attuali rivendicazioni sociali più o meno conscie. E non credo che si dirà che queste conferenze non abbiano trattato di come ci si debba procurare il pane o il carbone o prodotti analoghi, perché a mio parere se ne sono occupate.
Si sono occupate di mostrare quali sono gli effettivi fondamenti dell’organismo sociale, il modo in cui gli uomini devono vivere e lavorare insieme in questo organismo affinché si realizzi quanto è contenuto nelle rivendicazioni sociali. Ho voluto fare questa premessa perché magari alla mia conferenza di oggi, a conclusione di questa serie, si potrebbe muovere un appunto analogo.
Si renderà conto che il problema internazionale è un elemento della questione sociale solo chi capisce che il prezzo del tozzo di pane che arriva sulla tavola di ognuno è in relazione con l’intera economia mondiale, che quanto accade in Australia o in America, ciò che là viene prodotto dagli uomini, non è insignificante rispetto a quello che qui diventa il prezzo di un pezzo di pane o del carbone.
Ma oggi, di fronte ai molti giudizi e pregiudizi esistenti, non è facile parlare della questione internazionale. È appunto questa vita internazionale degli uomini che negli ultimi cinque anni ha assunto tratti a dir poco assurdi.
In vastissime cerchie non era già forse diffusa la convinzione che nella nuova umanità si sia affermata la sensibilità internazionale, una vera comprensione a livello internazionale? E dove ci hanno portati questa sensibilità e questa comprensione tra popolo e popolo? Al dilaniarsi dei popoli in gran parte del mondo civile! E a giudicarle secondo la loro stessa visione hanno fallito perfino quelle idee e quelle correnti culturali che tenevano moltissimo al loro carattere internazionale.
Ci basti pensare a come il cristianesimo internazionale, perché tale dovrebbe in fin dei conti essere, abbia spesso veicolato il linguaggio nazionalsciovinistico nelle sue parole, nelle sue massime, nel suo modo di vedere. E potremmo citare altri impulsi internazionali che negli ultimi tempi sono naufragati. Anche e forse soprattutto quando si parla della vita internazionale dell’umanità in rapporto all’economia, sarà necessario rivedere sotto diversi aspetti il proprio modo di pensare.
Sarà inoltre necessario addentrarsi fino a quelle sorgenti della natura umana che possono essere trovate solo se si prende in considerazione lo spirito e l’anima. E credo che le ultime conferenze abbiano perlomeno cercato di dimostrare che questo deve accadere, che non ci si può semplicemente gettare sugli slogan “spirito” e “anima”, ma che va cercata la realtà operante dello spirito e dell’anima.
In tutto il mondo quello che gli uomini sviluppano nella loro convivenza e nella reciproca collaborazione viene retto da due impulsi, ed è assolutamente necessario che a proposito di tali impulsi regni in noi uomini la verità, una concezione autentica, senza trucco, non deformata da slogan di alcun genere. Due impulsi vivono nell’anima umana, in rapporto fra loro come il polo nord e quello sud di una calamita. Questi due impulsi sono
• l’egoismo e
• l’amore.
È molto diffusa l’opinione che sia etica solo una situazione in cui l’egoismo viene superato con l’amore, che gli uomini si evolvono in modo che l’amore prenda il posto dell’egoismo.
Sì, cari ascoltatori, questa pretesa vive oggi in molti non solo come ideale morale ma anche come rivendicazione sociale. Quello che manca però è una comprensione vera della polarità di forze che c’è fra l’egoismo e l’amore.
Parlando dell’egoismo, dobbiamo innanzitutto sapere che per l’uomo esso ha inizio con i suoi bisogni fisici. Ciò che scaturisce dai bisogni corporei dell’uomo lo possiamo capire solo come una manifestazione dell’egoismo. Ciò di cui l’uomo ha bisogno nasce ovviamente dal suo egoismo.
A questo punto bisogna pensare che questo egoismo può anche essere nobilitato, perciò non è intelligente formarsi le proprie opinioni in questo campo con degli slogan. Affermando che l’egoismo dev’essere “superato” o vinto dall’amore non si è fatto molto in direzione della sua comprensione. Va considerato il fatto che chi per esempio si accosta ai propri simili con sincero interesse e comprensione umana agisce in maniera diversa da colui che ha interessi ristretti, che non si occupa di ciò che vive nelle anime e nei cuori dei suoi simili, che non prova nessun interesse per il proprio ambiente.
Il primo, che ha una vera comprensione per i propri simili, non deve per questo essere privo di egoismo, poiché il mettersi al servizio degli uomini può far parte anch’esso del suo egoismo. Questo atteggiamento può benissimo procurargli una sensazione di godimento interiore, perfino un senso di piacere. E delle manifestazioni che viste dall’esterno sono oggettivamente altruistiche possono senz’altro derivare dall’egoismo – che nella vita emotiva non può che essere valutato come tale.
Ma la questione dell’egoismo va vista in modo ancora molto più vasto. Occorre osservarlo anche in tutta la vita animico-spirituale dell’uomo. Ci si deve rendere conto di come, in certi ambiti, il fattore animico e spirituale nasca dalla natura interiore dell’uomo, allo stesso modo dei suoi bisogni corporei.
Così per esempio è dalla natura dell’uomo che ha origine la creatività nella sua fantasia, ciò che crea in ambito artistico. Se si procede in maniera spassionata e si cerca di capire correttamente queste cose, ci si deve dire: quello che viene creato dalla fantasia dell’uomo, che proviene da substrati indefiniti del suo essere, ha la stessa origine dei bisogni fisici, solo ad un livello più alto.
Da un punto di vista soggettivo, la vita immaginativa, che per esempio si esplica nell’arte, si fonda assolutamente su una soddisfazione interiore dell’uomo, in un appagamento più raffinato e nobile della soddisfazione della fame, ma che per l’uomo non è diverso a livello qualitativo – fermo restando che quanto viene in tal modo prodotto ha per il mondo un significato diverso.
E d’altra parte, tutto l’egoismo dell’uomo ha bisogno che l’uomo si intenda con i propri simili, che viva e collabori con loro. L’egoismo stesso, l’amore di sè, esige la convivenza e la cooperazione con gli altri. Ecco allora che anche gran parte delle cose che sviluppiamo insieme ad altre persone si basa del tutto sull’egoismo, e può perfino far parte delle virtù più nobili dell’essere umano.
Prendiamo in considerazione l’amore di una mamma: esso si fonda decisamente sull’egoismo della madre, ma dà origine alle cose più nobili della convivenza umana.
Così anche quello che in effetti è fondato sull’egoismo, nel senso che l’uomo ha bisogno dell’altro per soddisfare il proprio egoismo, si estende alla convivenza nella famiglia, alla convivenza all’interno della stirpe, della nazione, del popolo.
E il modo in cui l’uomo vive nel suo popolo, nella sua nazione, altro non è che l’immagine riflessa di ciò che vive in lui a livello egoistico. Certo, nell’amore per la patria, nel patriottismo, questo egoismo viene in un certo senso nobilitato, fino ad apparire come un ideale, e a ragione. Ma questo ideale affonda le proprie radici nell’egoismo umano.
Ed è necessario che questo ideale scaturisca dall’egoismo umano e che si appaghi, se si vuol far sì che tutto ciò che nasce dalla produttività di un popolo si trasmetta a tutta l’umanità. E così vediamo che in definitiva tutto ciò che si esprime nel nazionalismo si sviluppa a partire da questo singolo impulso dell’anima umana che è l’egoismo. Il nazionalismo è un egoismo vissuto collettivamente, un egoismo trasposto nella sfera dello spirito.
Il nazionalismo è per esempio intriso e attraversato dal calore della vita immaginativa del popolo in cui esso si esprime. Ma questa vita immaginativa stessa è lo sviluppo spirituale più elevato di quelli che sono i bisogni umani. Bisogna scendere fino a questa radice per poter comprendere nel modo giusto il fenomeno.
Di tutt’altro genere, cari ascoltatori, è quello che si sviluppa nella natura umana sotto forma di internazionalismo.
Diventiamo nazionali per il fatto che il nazionalismo sgorga dalla nostra natura personale, è una fioritura della crescita del singolo individuo, unito alla propria stirpe dai legami di sangue o al proprio popolo da un altro tipo di appartenenza. Il nazionalismo cresce insieme all’uomo, è dentro di lui e fa parte di lui, un po’ come l’uomo cresce in una determinata statura.
L’internazionalismo invece non nasce in questo modo. Lo si può paragonare meglio a un sentimento che proviamo quando abbiamo davanti a noi la bellezza della natura e contemplandola, abbandonandoci in piena libertà all’impressione che essa suscita in noi, veniamo indotti all’amore, alla venerazione, al riconoscimento.
Noi cresciamo all’interno del nostro popolo, siamo un membro al suo interno, ma degli altri popoli facciamo conoscenza dall’esterno. Essi agiscono su di noi indirettamente attraverso la conoscenza, con la comprensione. Impariamo ad amarli e a comprenderli a poco a poco. Il nostro internazionalismo interiore cresce nella misura in cui siamo in grado di comprendere e amare l’umanità nei suoi vari popoli, ognuno con la sua terra.
Nella natura umana esistono due fonti diverse che stanno alla base del nazionalismo e dell’internazionalismo:
• il nazionalismo è il massimo sviluppo dell’egoismo;
• l’internazionalismo è ciò che ci compenetra sempre di più man mano che riusciamo a dedicarci ad una concezione dell’uomo piena di comprensione, piena di amore.
Per comprendere nella maniera giusta quali sono gli elementi che contrastano fra loro nell’internazionalismo e nel nazionalismo, si dovrà considerare sotto questa luce la convivenza umana nel mondo civile. Anche semplicemente per capire l’economia mondiale occorre richiamarsi ai due impulsi presenti nell’anima umana di cui abbiamo or ora parlato.
Quello che in queste conferenze è stato presentato come elemento di vita triarticolato dell’uomo, ci riconduce ai due impulsi dell’anima umana appena descritti.
Osserviamo per esempio la vita economica – lo vedremo in seguito –, in quanto determina tutta la convivenza nazionale e internazionale degli uomini.
Osserviamo questa vita economica in modo da riconoscere il suo punto di partenza nel bisogno umano, nel consumo. In fondo il compito della vita economica non consiste in altro che nella soddisfazione del bisogno umano. La produzione e la circolazione delle merci, l’amministrazione, il traffico di persone ecc. sono preposti ad appagare il bisogno umano. Anche qui possiamo chiederci: qual è il fondamento naturale del bisogno, del consumo?
Alla base del bisogno e del consumo c’è l’egoismo. E la cosa importante è proprio capire questo fatto nel modo giusto. Allora in fatto di economia non si chiederà: «Come si fa a superare l’egoismo?», bensì: «Cosa deve fare l’altruismo per soddisfare il legittimo egoismo?» Cari ascoltatori, questa espressione può forse sembrare meno idealistica, ma è vera.
Quando si prende in esame la produzione che deve rispondere al bisogno di consumo e soddisfarlo, si vede subito che c’è bisogno di qualcos’altro. Colui che deve produrre è ovviamente nello stesso tempo anche un consumatore.
Chi ha il compito di produrre – l’ho esposto nelle conferenze precedenti – deve capire non solo il processo produttivo, ma anche la vita dei propri simili, così da potersi dedicare al processo di produzione in modo tale da rispondere alle loro esigenze. L’uomo dev’essere in grado di individuare i bisogni dei propri simili, direttamente o indirettamente, per mezzo delle istituzioni di cui abbiamo parlato.
Muovendo da questa comprensione caratterizzata da spirito di dedizione, di amore, l’uomo dovrà poi dedicarsi al tipo di produzione per cui è portato. È sufficiente enunciare la cosa, dopo di che, per quanto arido e prosaico possa sembrare in quest’ambito, nell’amore che si dedica alla comunità umana si dovrà vedere l’effettivo motore della produzione.
E non si potrà dire niente di positivo sull’effettivo compito della questione sociale finché non ci si sarà resi conto che la produzione può essere regolata in modo sociale solo creando con la vita culturale e giuridica i fondamenti per cui, grazie all’interessamento per i propri simili e per la vita, fluirà nell’anima umana un amore pieno di dedizione per i rami della produzione.
Fra il consumo egoistico e la produzione intrisa di amore c’è la circolazione delle merci, dei beni, che crea l’equilibrio fra i due – oggi tramite la casualità del mercato, tramite offerta e domanda, in futuro mediante un’associazione umana che al posto del mercato aleatorio ponga la ragione degli uomini.
Ci saranno così uomini che si occupano di organizzare la produzione in base all’osservazione dei bisogni del mercato, e il mercato consisterà in ciò che la ragione delle organizzazioni interessate sarà in grado di produrre per il consumo, per i bisogni, che prima vanno correttamente osservati e compresi. In questo campo bisognerà liberarsi di tutte le frasi fatte e attenersi ai fatti concreti.
Cari ascoltatori, chi non si renderebbe conto che l’epoca moderna ha realizzato sempre più quello che doveva manifestarsi man mano che l’orizzonte degli uomini andava ampliandosi fino ad abbracciare la Terra intera? L’economia mondiale ha preso il posto delle vecchie economie nazionali, dell’economia su territori ristretti.
Però questa economia mondiale esiste a tutta prima solo come una specie di esigenza. Certo, cari ascoltatori, questa esigenza si è sviluppata al punto che quasi in ogni luogo del mondo civile vengono consumati prodotti realizzati in altri posti – non importa se nello stesso paese o in un altro.
Ma anche in quest’ambito la comprensione pensante dell’uomo, lo stato d’animo umano, non ha tenuto il passo con quella che si è manifestata come un’esigenza mondiale. Vediamo ovunque come sia un’esigenza impellente di questi tempi quella di tener conto dell’economia mondiale, di adottare misure per renderla possibile.
E quali condizioni sono necessarie per rendere possibile l’economia mondiale, cari ascoltatori?
Lo si può capire solo dando un’occhiata a come deve organizzarsi – l’ho descritto nella mia conferenza di ieri – l’ordinamento sociale a partire dal presente verso il futuro, se al posto dell’antica economia e società di potere, se al posto dell’attuale economia e società di scambio, sorgerà una società organica e un’economia in cui sono le associazioni, i contratti tra associazioni a decidere della produzione.
E se la si mette veramente in atto, in che cosa consiste la differenza fra una simile società organica e la semplice società basata sullo scambio che oggi è ancora dominante?
La differenza si manifesta nel fatto che nella società di scambio sono per lo più il singolo o i singoli gruppi che hanno a che fare con l’altro singolo o con l’altro gruppo. E quest’altro singolo o questo gruppo di cosa si interessa nel rapporto reciproco? Che si tratti di consumatori o di produttori, fra la loro produzione e il loro consumo c’è per così dire un abisso, i due vengono separati da un mercato a rischio, dove è la circolazione delle merci, il commercio cieco, a fare da mediatore.
Cari ascoltatori! Che si parli in maniera fondata o meno del potere del capitale, del potere del lavoro, dell’importanza che hanno il capitale e il lavoro e via discorrendo, bisogna comunque dire: l’essenziale nella nostra economia basata sullo scambio è che in essa domina la casuale circolazione delle merci. È infatti questa circolazione che fa da tramite fra la produzione e il consumo. Produzione e consumo sono fra loro separati dall’abisso del caotico mercato, così che non è il raziocinio umano a metterli a fronte.
Nella società organica che cosa prenderà il posto del dominio della circolazione delle merci?
Cari ascoltatori, l’intero campo della vita economica verrà fatto rientrare nell’interesse di ogni individuo che partecipa all’economia! Mentre oggi chi commercia si interessa a come procurarsi le merci o vendere i propri prodotti, ma se ne deve occupare in base all’interesse che ha per se stesso, nella società organica ogni persona coinvolta in attività economiche sarà pienamente interessata al consumo, al commercio e alla produzione nel loro insieme, a livello mondiale.
Ciò significa che ogni attività economica si rifletterà nell’interesse economico del singolo – a questo si dovrà mirare nella società organica.
E ora prendiamo in esame il rapporto che deve avere questa società organica, che oggi è ancora un’esigenza del futuro anche nel singolo Stato, con la questione internazionale. Come ci si presenta questo problema internazionale rispetto alla vita economica?
Si può vedere che c’è da un lato a livello internazionale l’esigenza di un’economia mondiale, ma che all’interno dell’intera economia mondiale si stagliano i singoli Stati nazionali. In un primo tempo questi singoli Stati nazionali, indipendentemente dalle condizioni storiche in cui sono sorti, sono tenuti insieme da ciò che emerge dall’egoismo degli uomini che convivono nello stesso territorio. Perfino nelle manifestazioni più nobili dell’elemento nazionale, nella letteratura, nell’arte ecc., i gruppi etnici sono tenuti insieme dalla fantasia che nasce dall’egoismo.
Questi gruppi etnici si sono inseriti con la loro solidarietà di gruppo nel campo dell’economia mondiale, con sempre maggiore intensità nel corso del diciannovesimo secolo, fino a raggiungere il culmine agli inizi del ventesimo secolo.
Volendo descrivere quello che è effettivamente accaduto, dobbiamo dire: mentre prima fra gli Stati regnavano altri interessi, molto più affini all’antica società di potere, il principio della società di scambio è diventato in seguito predominante proprio nelle transazioni economiche della vita internazionale degli Stati, che all’inizio del ventesimo secolo hanno raggiunto il culmine. Cari ascoltatori, il modo in cui nei singoli Stati veniva prodotto e consumato ciò che si vendeva ad altri Stati o si acquistava da loro è stato fatto rientrare completamente nell’egoismo dei singoli Stati.
Per questo si faceva valere solo ciò che interessava al singolo Stato. I rapporti di tipo economico fra gli Stati dipendevano in tutto e per tutto dal principio commerciale, dal principio in vigore nella società di scambio per quanto riguarda la circolazione delle merci. Era soprattutto in questo campo, ma su vasta scala, che si vedeva come la società basata semplicemente sullo scambio dovesse portare a situazioni assurde. E questo ridursi all’assurdo è stata una delle cause principali della catastrofe di questa guerra mondiale.
Gli uomini si rendono sempre più conto che c’era questo profondo conflitto fra l’esigenza di un’economia mondiale e il piazzarsi in questa economia mondiale dei singoli Stati che si chiudevano in se stessi, che invece di favorire all’interno dei loro confini l’economia mondiale, si chiudevano con dogane e altre misure analoghe, rivendicando per sè quello che poteva essere il prodotto dell’economia mondiale.
Ciò ha portato a quella crisi, a quella catastrofe a cui diamo il nome di guerra mondiale. Certo, vi sono anche altre cause, ma questa è una delle principali. E così, cari ascoltatori, occorrerà rendersi conto di come proprio riguardo alla vita internazionale sia innanzitutto necessario creare la possibilità di commerciare oltre le frontiere nazionali, in base a principi diversi da quelli dell’economia di scambio.
Proprio come nella società organica, se vuole collaborare, il singolo deve provare interesse sia per la produzione che per il consumo, ovunque essi abbiano luogo, come il singolo deve interessarsi all’intero processo economico – produzione, consumo e circolazione delle merci –, così dev’essere possibile trovare degli impulsi per mezzo dei quali ogni struttura statale al mondo provi un vero e autentico interesse per ogni altra struttura statale, di modo che fra i popoli non si formi ancora qualcosa di analogo al mercato incontrollabile, ma regni fra essi una vera e intima comprensione.
E così arriviamo alle origini più profonde di quello che oggi viene cercato a livello astratto nella cosiddetta Società delle nazioni, che mira a correggere determinati danni che sorgono nella convivenza fra i popoli. Solo che anch’essa deriva dallo stesso principio da cui oggi derivano tante altre cose.
Chi al giorno d’oggi riflette sui danni della vita, pensa sovente alle più immediate correzioni che permettano di realizzare questa o quella cosa. Uno vede che c’è molto lusso e allora lo vuole tassare, e via dicendo. Non gli viene in mente di andare all’origine del problema, di individuare quella struttura della convivenza sociale tramite la quale un lusso assurdo non possa sorgere. Ma è proprio questo che conta anche nella vita dei popoli: risalire alle origini, alle radici dei fenomeni.
Quindi non si giungerà ad una intima convivenza internazionale mediante delle misure volte a correggere singoli sintomi, ma andando alle fonti che consentono ai popoli di comprendersi reciprocamente.
Ora, cari ascoltatori, non può nascere nessuna comprensione dei popoli fra loro se ci si ferma a quello che risulta per così dire dalla crescita stessa dell’uomo, se ci si limita a considerare quello che, come vi ho mostrato a proposito dell’egoismo, porta necessariamente al nazionalismo, alla chiusura all’interno della propria nazionalità.
Cosa abbiamo oggigiorno nella vita culturale? Qualcosa che in fondo non ha perso il suo carattere internazionale durante la guerra solo perché gli uomini non erano in grado di portarglielo via. Se infatti gliel’avessero tolto avrebbero dovuto annientare la sua realtà stessa.
E cos’è che oggi è davvero internazionale su tutta la Terra? Nient’altro che il campo delle scienze naturali che si occupano del mondo sensibile esteriore. La scienza intellettualistica – vi ho mostrato in queste conferenze come la scienza debba essere definita intellettualistica – ha assunto un carattere internazionale.
E di questi tempi, in cui nel mondo sono sorte tante cose non vere, era facile notare una cosa: quando qualcuno faceva alla scienza il torto di usarla in senso nazionalistico, in un certo senso la snaturava. D’altra parte non è forse evidente, proprio per il fatto a cui ho appena dovuto accennare, che questo genere di vita culturale che si esprime in forma intellettualistica non era in condizione di fondare una vita internazionale?
Penso che l’impotenza delle idee e della cultura che ho descritto dai più svariati punti di vista, si sia manifestata con particolare evidenza nel rapporto fra la vita culturale e l’internazionalismo. La scienza non è stata in grado di instillare nelle anime umane impulsi internazionali così forti da renderle capaci di tener testa ai terribili eventi degli ultimi anni.
E laddove questa scienza ha voluto entrare in campo per formare degli impulsi sociali, come nell’internazionalismo socialista, si è visto che anche questo tipo di internazionalismo non era in grado di reggere, ma che prima o poi si è ripiegato, è riscivolato anch’esso nel nazionalismo. Per quale motivo? Perché dell’antico patrimonio culturale dell’umanità il socialismo ha assorbito solo l’intellettualismo della scienza, che non ha forza a sufficienza per agire nella vita così da formarla.
È questo che da un lato testimonia che il recente orientamento scientifico, sorto in contemporanea con il capitalismo e con la cultura tecnocratica, contiene effettivamente un elemento internazionale, ma nello stesso tempo ne dimostra l’impotenza rispetto alla fondazione di una vera vita internazionale dell’umanità.
Di fronte a tutto ciò bisogna far valere quello che ho illustrato nella quarta conferenza a proposito dell’orientamento scientifico-spirituale, basato sulla visione e sulla conoscenza dello spirito, quale ve l’ho descritto. Questa visione spirituale non si fonda sulla percezione sensibile esteriore, ma nasce da un’ulteriore trasformazione della natura umana. Scaturisce dalle stesse profondità della natura umana dalle quali ha origine anche la fantasia.
Però non si limita ad elevarsi alle creazioni individualistiche della fantasia, ma giunge alla conoscenza oggettiva della realtà spirituale del mondo. È proprio sotto questo aspetto che al giorno d’oggi questa visione spirituale viene spesso fraintesa. Chi non la conosce dice: «Quello che si trova in questo modo con la visione spirituale è solo soggettivo, nessuno lo può dimostrare.»
Anche le conoscenze matematiche sono soggettive, non dimostrabili, e mai sarà possibile convalidare delle verità matematiche in base all’accordo delle opinioni degli uomini. Chi conosce il teorema di Pitagora sa che è giusto, anche se milioni di persone fossero in disaccordo con lui. Così anche quello che si intende con scienza dello spirito arriva a conseguire un’oggettività interiore.
Prende la stessa strada della fantasia, e sale ancora più in alto. Questa visione ha le proprie radici nelle profondità oggettive della natura umana e raggiunge vette altrettanto oggettive; ragion per cui si eleva anche al di sopra di tutto quello che di solito infiamma i popoli sotto forma di fantasia popolare. Questa visione spirituale viene cercata contemporaneamente in questo o quel popolo, in questa o quella lingua; se la si indaga abbastanza a fondo, si scopre che è la stessa per tutti gli uomini della Terra.
Per questo, cari ascoltatori, questa visione spirituale, la cui capacità di intervenire creativamente nella vita pratica e sociale ho potuto dimostrarvi, crea nel contempo la possibilità di costituire un legame fra popolo e popolo.
Ogni popolo produrrà in modo individuale la propria lirica e anche i tratti particolari dei suoi altri campi artistici. Dall’individualismo del popolo sorgerà per la visione spirituale qualcosa di assolutamente uguale a quello che sorge in ogni altro luogo. I fondamenti da cui le cose hanno origine sono in luoghi diversi – ma ciò in cui alla fine sfociano le loro esperienze è lo stesso su tutta la Terra.
Oggi sono in molti a parlare dello spirito, solo che non sanno che esso dev’essere realmente vissuto. Quando lo si sperimenta, si vede che non è qualcosa che divide gli uomini, bensì qualcosa che li unisce, poiché risale all’essenza più intima dell’uomo, in cui un uomo produce lo stesso che produce l’altro ed è in grado di comprenderlo pienamente.
Ma allora, cari ascoltatori, se davvero si approfondisce fino alla visione spirituale quello che di solito si esprime solo a livello individuale nella singola fantasia popolare, allora le singole manifestazioni popolari diventano molteplici espressioni di ciò che nella visione spirituale è un’unità. Allora si potrà lasciare che su tutta la Terra esistano le varie individualità di popoli, poiché non è necessario avere un’unità astratta. Si permetterà all’unità concreta, trovata grazie alla visione spirituale, di esprimersi nei modi più diversi.
E così i molti potranno comprendersi nella realtà unitaria dello spirito. Allora, muovendo dalla loro composita comprensione dell’unità, creeranno degli statuti per un’alleanza fra le nazioni, allora dalle condizioni culturali potrà nascere uno statuto giuridico in grado di unire i popoli.
Così nei singoli popoli si affermerà quello che può esistere in ogni popolo: l’interesse per la produzione e il consumo di altri popoli. Allora quella che è la vita culturale e giuridica dei popoli potrà veramente far sorgere una comprensione per tutti i popoli della Terra.
Così, cari ascoltatori, o si passerà anche in questo campo allo spirito o bisognerà rinunciare a realizzare qualcosa di migliore di quanto è stato fatto finora, pur con statuti stilati con le migliori intenzioni. Certo, cari ascoltatori, oggi moltissime persone parlano in maniera comprensibile del loro scetticismo nei confronti di una realtà spirituale di questo tipo, ma lo fanno perché non hanno il coraggio di accostarsi veramente a questo spirito.
Gli si rende la vita davvero difficile, ma laddove esso può svilupparsi se pur in una cerchia ristretta di persone riesce già ora a mostrare che le cose stanno così come ve le ho appena descritte, nonostante gli si renda la vita difficile.
Cari ascoltatori, se in uno degli Stati che hanno condotto la guerra si ha avuto modo di conoscere lo stato d’animo degli uomini, ciò che essi pensavano dei cittadini degli Stati nemici, come li hanno odiati, quanto poco di internazionale vi era in un tale territorio in stato di guerra, allora ci si può formare un giudizio come quello di chi vi sta parlando, che ha continuato a recarsi in quel luogo a cui vi ho già accennato in queste conferenze, nella Svizzera nord-occidentale, dove si trova il Goetheanum, l’università della scienza dello spirito di cui parliamo in questa sede.
Che luogo è stato questo durante tutti gli anni della guerra? In quel luogo, per tutti gli anni della guerra, hanno collaborato persone di tutte le nazioni, senza che l’accordo fra di loro venisse meno in alcun modo, anche quando hanno avuto discussioni inutili o pure necessarie. Questa armonia, nella misura in cui è sorta dal comune interessamento per una visione spirituale, è diventata realtà, sebbene in una cerchia ristretta di persone.
Si può dire: in questo territorio abbiamo potuto fare l’esperimento, abbiamo potuto dimostrare che coloro che in certi periodi hanno voluto venire lì erano in grado di capire le altre persone. Ma questa comprensione non va cercata facendo riferimento allo spirito in maniera astratta, bensì in una seria ed effettiva elaborazione esperienziale dello spirito.
Del fatto che lo spirito debba essere indagato, sperimentato, l’umanità odierna non vuole quasi saperne. Oggi si parla molto dello spirito, della necessità della sua venuta – ve l’ho accennato ieri – e di come debba pervadere quelle che sono le semplici rivendicazioni sociali materialistiche; ma al massimo si sente dire che bisogna “far appello” allo spirito.
Sì, cari ascoltatori, se tali uomini, di solito benintenzionati e anche ragionevoli, nonché pervasi da un’etica sociale, riuscissero a pensare solo a questo, a dirsi: «Sì, l’abbiamo avuto lo spirito, ma possiamo oggi appellarci a quello stesso spirito? Dopotutto è lui che ci ha condotti nella situazione in cui ci troviamo. Quindi non è con il vecchio spirito che possiamo ottenere una nuova situazione, l’abbiamo visto. È di uno spirito nuovo che abbiamo bisogno.»
Ma questo spirito nuovo va elaborato, va vissuto, e questo è possibile solo in una vita culturale autonoma.
Allora, cari ascoltatori, immaginiamoci quanto segue: come si realizza dappertutto l’esigenza di un’economia mondiale – perché lo deve fare di necessità, per via della sua natura –, così all’interno di questa economia mondiale ci sarà una struttura sociale accanto all’altra, così dappertutto la cultura e il diritto verranno creati in modo individuale dagli uomini che convivono in queste strutture. Ma quello che verrà creato a livello individuale diventerà lo strumento per capire le altre strutture sociali e quindi anche per realizzare un’economia veramente mondiale.
Ma se non verrà prodotto un simile strumento, nell’economia mondiale s’imporranno di nuovo i cosiddetti interessi nazionali che approfitteranno di tutto ciò che da essa si può ricavare. Dato che ciascuno lo vuole senza comprensione per l’altro, riapparirà di nuovo la disarmonia.
Come potrà essere allora gestita una vera economia mondiale? Non lo si potrà fare se l’organizzazione culturale e giuridica si impossessano delle singole strutture di questa economia – poiché devono avere una forma individuale: all’universale, a ciò che è unitario, arrivano solo nella comprensione spirituale, solo attraverso quella che su tutta la Terra è l’altra unità. L’altra unità, quella culturale-spirituale, consiste nel fatto che questa Terra si liberi da tutti i nazionalismi.
Bene, cari ascoltatori, com’è vero che chi si addentra abbastanza a fondo nella natura umana può salire con un’evoluzione interiore ad un’altezza oggettiva – così che nella visione spirituale si ritrovi ciò che vi trova ogni altro uomo di ogni altra nazione –, così bisogna dire che anche i bisogni di consumo umani in tutto il mondo non vengono toccati dai singoli nazionalismi.
I bisogni umani sono internazionali, solo che sono polarmente opposti a quello che è la realtà internazionale dello spirito.
L’elemento internazionale dello spirito deve portare alla comprensione, deve saper intridere di amore la comprensione per l’altra nazionalità, deve far espandere l’amore fino all’internazionalità nel senso di quanto ho detto prima.
Ma anche l’egoismo è altrettanto internazionale: potrà gettare un ponte verso la produzione mondiale solo se essa proverrà da una comprensione spirituale comune, da una visione spirituale unitaria. Dagli egoismi dei popoli non potrà mai venire la comprensione per il consumo comune che si basa sull’egoismo che tutti gli uomini hanno in comune. Solo da una visione spirituale unitaria può scaturire quello che non proviene dall’egoismo, ma esclusivamente dall’amore, come vi ho spiegato, e che quindi può padroneggiare la produzione mondiale.
Da dove nasce l’esigenza di una economia mondiale? Data la crescente complessità delle condizioni di vita in tutto il mondo civile, le esigenze di consumo degli uomini si sono andate via via uniformando, si vede come gli uomini sempre più abbiano bisogno delle medesime cose.
Come può da questo bisogno uniforme derivare un principio di produzione omogeneo che sia valido in tutto il mondo per l’economia mondiale? Ciò avviene elevandosi alla vita dello spirito, come l’abbiamo inteso in questa sede, ad una vera visione spirituale sufficientemente forte da poter creare una produzione a livello mondiale corrispondente al consumo mondiale divenuto anch’esso unitario.
Allora sarà possibile creare un vero equilibrio: quando l’unità spirituale favorirà quella del consumo, quella materiale. Allora si potrà ottenere l’equità della circolazione delle merci grazie alla mediazione fra produzione e consumo a livello mondiale.
Per capire come dai molti organismi di popolo debba sorgere nel mondo civile un organismo unitario, occorre guardare nell’interiorità dell’uomo. Non c’è altro modo che questo per costruire l’organismo unitario dell’umanità, che ha in sè le condizioni per stabilire su tutta la Terra un rapporto organico fra produzione e consumo in base alle esigenze sociali, così che il pezzo di pane o il carbone di cui si ha bisogno per il singolo uomo o per la singola casa corrisponda realmente alle esigenze sociali oggi attive nel subconscio degli uomini.
Cari ascoltatori, so molto bene che quando queste cose vengono innalzate a una sfera di osservazione di questo tipo molti dicono: «Sì, ma si tratta di idealismo, di qualcosa che si eleva ad altezze ideali.»
Ma solo così si trova quello che è il motore trainante per la molteplicità esteriore. E proprio per il fatto che gli uomini non hanno cercato questo motore, che può essere trovato solo in questo modo, tutto il mondo civile è finito nelle condizioni sociali e politiche del presente.
La questione sociale potrà mettersi su un terreno saldo solo quando ci si dirà: coloro che si occupano di creare le forze motrici interiori per l’organismo sociale singolo e per l’organismo sociale dell’umanità sono i veri pragmatici, mentre quelli che si definiscono pragmatici spesso hanno solo una conoscenza rudimentale del proprio campo ristretto e per questo sono astratti.
Uno di quelli che parecchio tempo fa prendevano sul serio la questione, parlando di un certo campo della vita umana ha fatto notare che i cosiddetti idealisti non sono persone che non sanno qual è il rapporto che intercorre fra gli ideali e la vita reale. Si è reso conto dell’assurdità del comportamento dei cosiddetti pragmatici, che vengono a dire all’idealista: «Sì, i tuoi ideali sono molto belli, ma la pratica richiede ben altro.»
Lo stato di fatto è che la prassi, se vuole diventare davvero pratica, ha bisogno di questi ideali. E sono proprio i presunti pragmatici che non ne consentono la realizzazione, o perché sono troppo pigri o perché hanno qualche interesse a impedirne la realizzazione.
E lo stesso uomo ha detto: «Che gli ideali non sono immediatamente applicabili nella vita, lo sappiamo anche noi come gli altri. Solo che noi sappiamo anche che la vita dev’essere sempre plasmata secondo questi ideali. Ma quelli che non riescono a convincersene, non fanno altro che mostrare che nel proprio formarsi la vita non ha più contato sulla loro collaborazione. A costoro si augura quindi di ricevere il sole e la pioggia al momento giusto e, se possibile, di fare una buona digestione.»
È questo, cari ascoltatori, che deve caratterizzare il rapporto fra l’idealismo spesso bollato come balordo e la vera vita concreta, necessario anche per la semplice costruzione di un ponte. Come l’ingegnere padroneggia la propria arte in base a idee non materiali, e come l’intero ponte deve prima essere ideale e solo in un secondo tempo, dopo essere stato calcolato a livello ideale, può diventare un ponte realmente pratico, così quello che si forma come idealismo a partire da un senso pratico interiore dev’essere un’idea pratica.
E bisogna avere l’istinto e la sensibilità necessari per introdurre nella vita concreta reale una simile legge oggettiva. Allora non si chiederà più: «Come si fa a realizzare queste cose nella vita concreta?», ma si saprà che se c’è un numero sufficiente di persone che capiscono le cose, costoro e le loro azioni rendono la faccenda immediatamente pratica.
Oggigiorno si sente spesso dire: «Sì, queste idee sono bellissime, e anche se le si pensa realizzate sarebbero molto belle, ma gli uomini non sono ancora maturi.» Si ritiene che gli uomini a livello di massa non siano ancora maturi per queste cose.
Sì, cari ascoltatori, cosa significa effettivamente l’affermazione secondo la quale gli uomini a livello di “massa” non sono ancora maturi? Chi conosce il rapporto fra l’idea e la realtà, chi vede la vita concreta in base al suo carattere reale, la pensa in modo diverso riguardo a questi uomini. Egli sa infatti che al giorno d’oggi c’è un numero sufficiente di uomini che, se si immergono abbastanza profondamente nella loro interiorità, possono avere una piena comprensione per ciò di cui stiamo parlando.
Quello che blocca è perlopiù la pusillanimità, la mancanza di coraggio. Manca l’energia di spingersi davvero fin dove si potrebbe arrivare, se solo si riuscisse a sviluppare una piena coscienza di sé.
Quello di cui abbiamo soprattutto bisogno, cari ascoltatori, è qualcosa che in linea di massima oggi ogni uomo può conquistare se solo osserva bene la realtà. Ma, mentre da un lato si cade nel materialismo, arrivando perfino a compiacersene, dall’altro ci si innamora dell’astrattezza, di tutti i principi astratti e intellettuali, e non si vuole affatto immergersi nella realtà.
Oggi nella vita esteriore si è convinti di essere già pratici, ma non ci si sforza di vedere le cose in modo tale da coglierne il carattere di realtà. Chi oggi per esempio sente una qualsiasi affermazione, la fa sua cogliendone solo il contenuto astratto. Ma così si allontana ancora di più dalla vita, invece di avvicinarcisi sempre di più.
Se oggi uno legge un bell’articolo di fondo, c’è solo da dire che di questi tempi non è particolarmente difficile scrivere un bell’editoriale. Nella moderna civiltà si è pensato così tanto che basta impratichirsi un po’ per mettere una frase fatta accanto all’altra. Oggi quello che conta non è l’essere d’accordo con il contenuto letterale di qualche cosa, ma farsi un giudizio sul modo in cui questo contenuto è in relazione con la realtà.
Ma allora ai nostri tempi ci sono molte cose da correggere nel senso che bisogna dirsi: oggi gli uomini dovrebbero più di tutto tendere a quella verità che permette loro di affrontare con coraggio la realtà.
Eccovi due esempi in proposito, cari ascoltatori.
Vedete, in certe statistiche si può leggere qualcosa sugli Stati balcanici. Oggi gli uomini si informano sulle condizioni del mondo esterno, giudicano le varie situazioni politiche e via dicendo. In base al modo in cui si informano, si potrà leggere in una qualsiasi statistica sugli Stati balcanici quanto segue: là vivono tot greci, tot serbi e tot bulgari, e allora si può calcolare quali sono le aspirazioni legittime dell’elemento greco, di quello bulgaro e di quello serbo.
Se però si osserva la questione da vicino, cioè se si collega quanto si è appreso in astratto sul numero dei bulgari, dei serbi e dei greci in Macedonia, a volte si scopre che il padre è registrato come greco, un figlio come bulgaro e il secondo figlio come serbo. A quel punto si vorrebbe sapere cosa c’entra la statistica con la realtà. È realmente possibile che una famiglia sia costituita in maniera tale per cui il padre è greco, il primo figlio è bulgaro e il secondo è serbo? Si viene davvero a sapere qualcosa sulla realtà quando si hanno davanti statistiche fatte a partire da simili premesse?
Cari ascoltatori, la maggior parte di quello che oggi è racchiuso nelle statistiche si basa su compilazioni analoghe, con particolare frequenza nella vita d’affari. Dato che gli uomini non hanno l’esigenza di spingersi da ciò che vien loro detto letteralmente fino al contenuto della verità, della realtà, oggi si giudica a vanvera, poiché non ci si occupa a fondo delle cose.
Gli uomini si accontentano di quello che, come un semplice strato superficiale della vita, cela le effettive realtà. Ma la prima necessità nella vita del nostro tempo è quella di affrontare le vere realtà, non di stare a cianciare sul fatto che gli uomini siano o meno maturi, ma di additare quelli che sono i danni principali. Gli uomini se ne renderanno conto solo se ci saranno altri uomini che si danno da fare per scoprire questi danni principali e per farli notare in maniera sufficientemente energica.
L’altro esempio, cari ascoltatori, è che ai primi di giugno del 1917, il mondo ha letto – una parte del mondo se ne è ancora interessata – il discorso della corona dell’allora imperatore austriaco Carlo I. In quel discorso della corona, cari ascoltatori, si parla continuamente di “democrazia”, secondo lo spirito del tempo. Orbene, cari ascoltatori, a proposito di questo discorso ho letto di come la gente si sia entusiasmata del fatto che proprio da quella cattedra sia stata annunciata al mondo la democrazia, che da lì sia stato detto al mondo qualcosa sulla democrazia.
Bene, se si esamina questo discorso della corona dall’inizio alla fine solo in base al suo contenuto letterale, si vede che si è trattato di una bella prestazione da terza pagina – se si vuol godere solo dello stile, della struttura delle frasi, per come suscitano piacere in chi le ascolta. Bello. Ma si guardi la verità. Allora quello che è stato letteralmente detto va inserito nel proprio ambiente, allora bisogna chiedersi: chi fa questo discorso? E in quale contesto?
E allora nell’antichissima veste da incoronazione, sontuosa e pomposa, si vede il sovrano medievale, che non nasconde affatto quello che c’è nel suo discorso, circondato dai suoi splendenti paladini, rilucenti d’oro: tutto il Medioevo, che in verità non ha nulla a che fare con la democrazia. Che cos’è allora il parlare di democrazia, pur con bellissime parole, in un simile discorso? Una menzogna storica di portata mondiale!
Dal significato letterale delle cose odierne bisogna tornare alla visione della realtà. Non basta comprendere le cose con l’intelletto, ma bisogna interessarsi degli stati d’animo. Ed è proprio questo che richiede la scienza dello spirito.
Non si resta impuniti quando si valuta erroneamente la realtà esteriore. Chi vuole conoscere la realtà spirituale in senso scientifico-spirituale, come abbiamo inteso fare in questi giorni, chi vuole vedere il mondo spirituale, deve in primo luogo abituarsi alla più assoluta veracità nel mondo sensibile, non abbandonarsi ad illusioni su quello che accade intorno a lui secondo i suoi cinque sensi.
Così, proprio colui che vuole entrare nella realtà dello spirito deve usare i suoi cinque sensi sani in spirito di verità, non cullarsi nelle fantasticherie a cui si abbandonano tanti cosiddetti “pragmatici”, tanti uomini d’affari molto apprezzati, nelle cui mani si mette quasi il mondo intero. Quello di cui abbiamo bisogno non è un lamentio piagnucoloso per l’immaturità degli uomini, bensì un’indicazione su come dobbiamo diventare veri, intimamente veraci.
Allora, cari ascoltatori, nel mondo smetteranno di risuonare le chiacchiere sullo spirito, allora non si sentiranno più le menzogne sulla differenza fra diritto e morale, ma
• allora si sentirà parlare di un lavoro interiore che deve conquistarsi lo spirito, la cultura;
• allora si sentirà qualcosa su come gli uomini, una volta conseguita la realtà dello spirito, vivranno in un contesto tale per cui saranno anche in grado di trovare un uguale diritto fra di loro. E
• allora soltanto si potrà parlare di come fondare una vera società organica per mezzo di un’economia pervasa di cultura e di diritto.
Questo, cari ascoltatori, è necessario: che ci si renda conto del fatto che c’è un numero sufficiente di persone che, se solo fanno uno sforzo interiore, possono comprendere queste indicazioni. Non bisogna stancarsi di continuare a sottolineare queste cose. L’importante è non credere che basti dire che deve regnare lo spirito perché questo spirito compaia come per magìa.
No, questo spirito può fare ingresso nel nostro mondo solo attraverso il lavoro spirituale dell’uomo. Anche sotto questo aspetto si tratta di diventare veri, di non lasciar risuonare nel mondo la falsità che continua a declamare che ci vuole lo spirito, ma dar voce alla verità che dice: ci sarà lo spirito solo quando ci saranno luoghi in cui non si lavora solo sulla natura esteriore, nel senso del materialismo, ma in cui viene elaborata una visione spirituale.
Da questa visione spirituale – e credo di avervelo mostrato in queste conferenze, che vanno intese come un tentativo, un debole tentativo – deve nascere anche una reale comprensione sociale delle necessità vitali dell’umanità del presente e del prossimo futuro. L’importante è che gli uomini diventino autentici per quanto riguarda lo spirito e il cammino spirituale.
Lo spirito infatti può essere trovato solo sulla via della verità. Cari ascoltatori, dire: «Sì, gli uomini non lo sanno» non è una scusa, o è solo una scusa. Nel cammino spirituale, seguire inconsciamente la menzogna fa sì che essa produca effetti negativi nel mondo non meno che quando viene seguita consapevolmente. L’uomo d’oggi ha infatti il dovere di portare a coscienza il subconscio per estirpare definitivamente la falsità da tutti i campi, compreso quello del subconscio.
Per questo, cari ascoltatori, desidero concludere con parole intese davvero sinceramente. Posso immaginarmi che, anche dopo aver cercato di descrivere dai più svariati punti di vista l’organismo sociale nella sua struttura come lo deve vedere la scienza dello spirito in riferimento alla triarticolazione dell’organismo sociale, ci siano ancora persone che dicono: «Sì, queste idee sono davvero nobili. Ma oggi come fanno gli uomini ad elevarsi fino a queste idee? C’è però un abisso fra ciò che gli uomini possono oggi capire e queste idee.»
Cari ascoltatori, desidero solo dirvi che in proposito si può avere anche questa opinione – e chi vi ha parlato desidera vederla in questo modo: non c’è bisogno di stare a sindacare quanto maturi o immaturi siano gli uomini, ma occorre dire sempre di nuovo ad alta voce ciò che si ritiene vero e fruttuoso, e poi stare a vedere che gli uomini maturino. Se si fa così, se non ci si stanca di continuare a ripeterlo, gli uomini matureranno prima di quanto farebbero se si continua a rinfacciargli la loro immaturità.
Cari ascoltatori, io credo che allora gli uomini potranno maturare in fretta. Per questo non mi stancherò mai di ripetere sempre di nuovo quelle cose che a mio parere fanno parte del cammino di maturazione degli uomini.
Risposte alle domande
(dopo la sesta conferenza)
Signor Ballmann: Dopo aver assistito a queste sei conferenze del Dr. Steiner e a quelle tenute qui a Zurigo dal Dr. Boos, dalla mia posizione neutrale ho da dire qualcosa di assolutamente neutrale. Tutte queste conferenze sono, se così posso dire, tratte dalla vita pratica per la soluzione di tali questioni, proposte ed esempi che devono risultare direttamente a chi occupa una posizione pratica. Mi è sembrato che le conferenze siano state fatte in modo da indurre alla riflessione personale, così che si debba trovare la soluzione da soli. È facilmente comprensibile che proprio per questo si sentano sollevare obiezioni da quelli che sono abituati a ricevere sul piatto qualcosa di pronto, di già confezionato. Ma allora bisogna dire che queste persone non sanno digerire, hanno uno stomaco, ma una digestione che non funziona, poiché non sono in grado di digerire essi stessi quello che gli viene servito. E devo dire che questo fa parte delle situazioni e delle istituzioni che ci riguardano nella vita e che ci causano quei dolori di stomaco che ci spingono anche ad affrontare in modo libero e imparziale le questioni che sorgono in forme nuove. Questo è il ringraziamento che, dalla mia posizione neutrale, desidero esprimere al Dr. Steiner e al Dr. Boos, e credo di aver interpretato il loro pensiero.
Signora...: Mi sembra che altruismo, amore ed egoismo dovrebbero essere la stessa cosa. E secondo me non è affatto necessario superare l’egoismo elevato alla massima potenza, perché è qualcosa di bello.
Rudolf Steiner: Cari ascoltatori, innanzitutto è stata posta per iscritto la domanda:
Qual è la posizione del Dr. Steiner rispetto all’economia degli interessi e al reddito senza lavoro?
Cari ascoltatori! Me ne sono occupato nel mio libro I punti essenziali della questione sociale, in maniera non polemica ma costruttiva. Mi è stato più volte rimproverato il fatto che il tasso di interesse non sia ancora scomparso dal mio progetto di assetto sociale per una convivenza umana.
Cari ascoltatori, mi sembra più onesto porsi sul terreno della realtà e sottolineare ciò che è veramente possibile e necessario, anziché mettersi su un terreno nebuloso limitandosi ad avanzare rivendicazioni campate per aria.
Nel mio libro I punti essenziali della questione sociale ho cercato di mostrare che è assolutamente necessario lavorare con il capitale. Senza accumulare capitali non è possibile creare grosse aziende, e tantomeno realizzare un’economia di tipo moderno. Se poi questo capitale viene concepito sotto forma di denaro o in un’altra forma, è una questione a parte.
Quando affronta la questione sociale, la maggior parte delle persone fa molto spesso l’errore di prendere in considerazione solo il momento presente, come se si trattasse di un unico istante, e riflette solo su questo momento chiedendosi: come dev’essere organizzata qui e ora la vita economica? Ma fare economia significa anche usare ciò che si è conseguito fino al momento presente per creare le basi in vista dell’economia del futuro. Senza creare una base per il futuro, sarebbe impossibile salvaguardare la continuità della vita economica, che si interromperebbe in continuazione.
Questo però non giustifica l’interesse dai proventi finanziari, cioè il tasso composto, ma solo la maturazione di interessi, cioè il tasso semplice, dato che deve esistere la possibilità che in ogni punto nel tempo si lavori abbastanza da far sì che da questo lavoro derivino delle prestazioni che servano anche ad un lavoro nel futuro. Questo è impensabile senza che l’interessato riceva una sorta di equivalente per ciò che deve produrre in futuro, vale a dire una specie di tasso di interesse.
Avrei anche potuto chiamarlo diversamente se avessi voluto lusingare quelli che oggi inveiscono contro l’interesse nel reddito, ma mi è sembrato più onesto dire le cose come stanno realmente. È necessario che coloro che contribuiscono in qualche modo alla possibilità di accumulo e utilizzo del capitale – questa è forse la maniera più semplice di esprimere dei processi complessi –, ricevano in base al lavoro svolto nel passato e nel presente una retribuzione in vista del futuro. L’interesse nella forma da me descritta nel mio libro I punti essenziali della questione sociale non è nient’altro che la retribuzione, in vista del futuro, di ciò che è stato prodotto nel presente.
Bene, cari ascoltatori, parlando di queste cose va naturalmente sempre preso in considerazione tutto quello che costituisce un elemento necessario dell’organismo sociale. Per esempio nell’uomo quello che conta è che il suo corpo abbia tutte le membra, perchè devono agire insieme. Si può capire un arto solo a partire dall’uomo nel suo insieme. Lo stesso vale per l’organismo sociale, dove il singolo elemento può essere compreso solo partendo dal tutto.
Se ricordate quanto ho spiegato riguardo a come va interpretato il rapporto nel trattamento dei mezzi di produzione, vedrete che si tratta del fatto che i mezzi di produzione costano qualcosa, sono vendibili, solo finché non sono ultimati. Se non sono ultimati rimangono presso chi ha la capacità di ultimarli, dopo di che però vengono trasferiti in base a rapporti giuridici, ragion per cui non sono più vendibili.
Questo comporterà un effetto ben preciso anche sul patrimonio monetario. L’importante non è tanto fare delle leggi per cui il denaro non debba fruttare interessi, quanto il creare dei processi adeguati all’organismo sociale.
Quello che esiste sotto forma di patrimonio monetario assumerà un carattere analogo a quello di altri beni. Oggi gli altri beni si distinguono dal denaro perché deperiscono o si consumano. Il denaro non è costretto a deteriorarsi. Questo avviene su lunghi periodi di tempo, ma non a breve scadenza, il che fa credere a certe persone che il denaro si conservi anche a lungo andare. Ci sono state addirittura persone che hanno fatto testamenti in cui lasciavano in eredità questo o quello a una città. Poi ne hanno calcolato l’ammontare risultante un paio di secoli dopo, somme talmente ingenti che si sarebbero potuti pagare i debiti pubblici di un intero Stato fortemente indebitato.
Ma il bello è che poi non rimane più niente, perché è impossibile continuare così a lungo una corresponsione di interessi per del denaro, come è possibile attuarla per periodi brevi. Ma se nel processo economico i mezzi di produzione cessassero di costare nel momento in cui sono ultimati e se la proprietà terriera diventasse veramente un oggetto giuridico – non un oggetto d’acquisto o economico –, allora il patrimonio monetario, come ho ripetutamente detto, dopo un certo periodo di tempo comincerebbe ad emanare un cattivo odore, come fanno i cibi andati a male, che non sono più commestibili. Semplicemente dal processo economico stesso risulta che il denaro dopo un determinato periodo di tempo perde il proprio valore, periodo che non è affatto ingiustamente breve. Ma le cose stanno appunto così.
Da ciò vedete come questo impulso per l’organismo sociale triarticolato sia concepito a partire dalle realtà. Quando emanate delle leggi, non fate che sfornare delle astrazioni con cui volete dominare la realtà. Se invece riflettete sulla realtà, allora vi verrà di plasmarla in modo che salti fuori ciò che corrisponde alla più profonda coscienza dell’uomo.
In un organismo come quello che ho in mente non c’è posto per il reddito da disoccupazione o in assenza di lavoro in quanto tale. L’importante è avere le idee chiare su queste cose. Che cos’è in fondo un reddito da disoccupazione? In questo concetto di “reddito da disoccupazione” ci sono moltissimi punti oscuri, e con i concetti confusi non è possibile effettuare delle riforme. Vedete, per chi pensa che solo lo spaccar legna sia un lavoro, quello che per esempio un individuo riceve per un quadro che ha dipinto è senz’altro un reddito da disoccupazione. È detto solo in maniera un po’ radicale, ma è così che spesso viene giudicato il cosiddetto reddito da disoccupazione.
Vedete, ciò che costituisce dei valori economici si compone di vari fattori presenti nella vita. In primo luogo è costituito dai talenti degli uomini, in secondo luogo dal lavoro e in terzo anche da costellazioni di rapporti. E affermare che un bene inserito nella circolazione economica non è altro che lavoro cristallizzato è uno degli errori più madornali che si possano fare, perchè non è affatto così.
In queste conferenze mi sono espresso a proposito del lavoro. L’importante è che il concetto di lavoro non venga in qualche modo messo in relazione, come accade spesso oggigiorno, con quello di reddito. In realtà un uomo ottiene il proprio reddito non solo per mangiare e bere o per soddisfare altri bisogni fisici o psichici, ma anche per lavorare per gli altri uomini. Il processo economico è quindi molto più complesso dei semplici concetti con cui di solito lo si vorrebbe afferrare.
Il relatore fa derivare dall’egoismo anche la sovracoscienza, gli stati di trance, l’illuminazione e così via?
Cari ascoltatori, ho già fatto notare chiaramente che quelle che io cito come fonti della visione spirituale si conseguono percorrendo la stessa via delle cose che provengono dall’egoismo. Ma se due percorrono la medesima strada, non per questo devono necessariamente provenire dallo stesso punto di partenza. Entrambi passano per l’interiorità dell’uomo, ma uno sorge da profondità oggettive, come ho già detto, e si eleva ad altezze oggettive. Non vorrei però essere frainteso.
Cari ascoltatori, gli stati di trance non hanno niente a che vedere con la sovracoscienza, ma vengono dal subconscio, più ancora delle emozioni e cose simili. E alcuni fenomeni che vengono chiamati “illuminazione”, che vengono da soli, il più delle volte hanno molto a che fare con il subconscio. La mia idea di sovracoscienza la trovate descritta nel mio libro L’iniziazione: come si consegue la conoscenza dei mondi superiori?
Quale motivazione dà il relatore all’opinione espressa nella discussione di ieri, divergente dalla concezione della moderna economia nazionale, in base alla quale solo la proprietà fondiaria è produttiva? Alla base di questa affermazione c’è forse solo un’altra definizione del concetto di produzione, di produttività?
Ritengo di non aver minimamente dato motivo di credere che io sia del parere che solo la proprietà fondiaria sia produttiva. Cari ascoltatori, non è produttivo occuparsi eccessivamente di concetti come “produttivo”, “improduttivo” e simili. È importante non fermarsi troppo a concetti fissi, già bell’e fatti. Oggi gli uomini usano troppo spesso parole vuote. Ciò che conta non è definire qualcosa come produttivo o improduttivo – dato che dipende sempre dal significato che diamo a questi due aggettivi –, ma descrivere le situazioni concrete in base ai loro contesti reali.
Ieri ho cercato di descrivere come la proprietà fondiaria si inserisca nel processo economico in modo diverso per esempio dalla produzione. E ciò che conta è questo tipo di descrizione, questo modo di caratterizzare.
Se ci si volesse una buona volta rendere conto di quanti danni si provocano oggi, soprattutto nelle scienze, fissandosi su pure definizioni di termini! Non occorrono definizioni per qualcosa che si descrive. Oggi è diffusa la brutta abitudine di dichiararsi a proposito di una cosa o di un’altra di questa o di quella “opinione”. Prima bisogna mettersi d’accordo su quello che si intende col termine di “opinione”, ed è probabile che, dopo aver speso molto tempo per raggiungere un’intesa, ci si accorga di pensarla tutti allo stesso modo.
Quando parlo di produzione economica – se intendo chiamare produzione ciò che porta ad un effettivo consumo –, devo prendere in considerazione tutti i singoli fattori in causa, dai più elementari ai più complessi
Vedete, allora per esempio diventa molto difficile elevarsi al di sopra di quella che in senso lato potrebbe essere definita “l’economia degli animali”. Anche gli animali mangiano e bevono, quindi anche loro, finché non vengono addomesticati, hanno una specie di vita economica. Ma di solito si godono quello che non ha bisogno di molta preparazione. La maggior parte degli animali prende in natura quello che per loro già esiste; nel loro caso è quindi la natura a essere “produttiva”, se vogliamo usare questo termine.
Molte cose che l’uomo consuma sono prodotte dal suolo. Se si nutre esclusivamente di frutta, non è molto distante dal tipo di economia degli animali, differisce solo nei rapporti di circolazione e di proprietà, fermo restando che anche negli animali si potrebbero scorgere degli accenni di rapporti di “proprietà”.
Ma ora si tratta di continuare a seguire il processo, per vedere come l’uomo comincia dapprima a lavorare ciò che la natura gli fornisce, per poi metterlo in circolazione ecc. ecc. Allora si segue l’evoluzione di un concetto che ha inizio in natura. E si arriva fino a quella che è la produzione per il lusso eccessivo, che non corrisponde più a bisogni reali o ragionevoli.
Delimitare il concetto di produttivo o improduttivo è dunque qualcosa che in fin dei conti porta a un risultato nebuloso. Ovviamente, se a uno piace muoversi in questi concetti nebulosi, può discutere a lungo, nel senso dei fisiocrati, sul fatto che solo la lavorazione del terreno è produttiva. Si può però obiettare: anche la pratica di scambi commerciali è produttiva, e lo si può dimostrare altrettanto bene. Ma proprio qui sta l’errore: ciò che serve non è il formulare la definizione di cosa è produttivo e cosa no, ma avere davvero uno sguardo d’insieme e coerente dell’intero processo dell’economia.
Per questo vi prego di non pensare che anche ciò che vi ho presentato possa essere incasellato in una sorta di definizione, ma di intenderlo come una descrizione fedele di quanto avviene realmente nella vita economica. Credo di avervi fatto notare una differenza oggettiva che esiste fra il modo di inserirsi nel processo economico della proprietà terriera da un lato e degli altri mezzi di produzione – per esempio le macchine – dall’altro. Ma la proprietà fondiaria, cioè ciò che le sta alla base, si inserisce nel processo economico in modo diverso, per esempio, anche dal commercio.
Bisogna essere né unilaterali mercantilisti né unilaterali fisiocrati per rendersi conto che è proprio nel momento in cui ci si fissa con concetti come “produttivo” e “improduttivo” che sorgono opinioni unilaterali, come nel caso del mercantilismo, del fisiocratismo ecc. Proprio in questa sede si dovrebbe sostenere che non ci si schiera dalla parte dell’unilateralità, ma dell’universalità.
Poi è stata fatta un’altra domanda: è stato detto che in fondo, dal punto di vista psicologico, altruismo, egoismo e amore sono la stessa cosa e quindi nessuno di questi dev’essere superato.
Sì, io stesso ho esposto nella conferenza in che misura il concetto di superamento dell’egoismo è sbagliato. Ma, cari ascoltatori, è molto problematico trasferire questo concetto dell’unità dal concreto all’astratto per poi riferirlo a tutto il possibile. Di nuovo dipende dal tipo di astrazione che si ha in mente. Vedete, occorre rendersi conto che quando si rimane nell’astrattezza – e alla base di questa domanda c’è un un modo di pensare molto astratto – in linea di massima si ha ragione a fare una certa affermazione e non meno ad affermarne il contrario.
Chi pensa in modo concreto sa apprezzare la celebre massima di Goethe che dice: non si può esprimere la verità direttamente in una parola o in una frase, ma si dice una cosa, poi se ne dice un’altra e la verità sta nel mezzo. Quello che conta è riuscire ad avere un rapporto dinamico con la verità.
Vedete, cari ascoltatori, ci sono persone che, in qualità di mistici, vanno pazze per poter dire che portano Dio dentro di loro, che Dio è nell’interiorità dell’uomo, come pure tutto il divino. Trovano che questa sia l’unica definizione possibile. Altri la trovano del tutto sbagliata, e dicono: No, Dio pervade tutto e noi uomini siamo in Dio.
Sì, cari ascoltatori, ci sono buone prove a sostegno sia dell’una che dell’altra tesi. Ma qui vale la frase di Goethe: la verità sta nel mezzo, fra le due affermazioni contrapposte, proprio come il vero albero sta fra le due fotografie che io gli scatto una da un lato e una dall’altro.
Sotto questo aspetto bisogna mettere in risalto i rischi del pensiero unilaterale. L’importante non è che qualcuno dica che altruismo, egoismo e amore sono una cosa sola e pertanto non devono essere superati. Come dicevo, ho già spiegato nella conferenza la questione del superamento. Ma si tratta di cercare veramente di formulare le frasi con precisione quando bisogna spiegare qualcosa – come mi sforzo sempre di fare – e poi prendere la formulazione così come l’ha espressa l’interessato.
Non ho affatto sostenuto che quando si tende ad una certa unità non si possa giungere ad un’unificazione di egoismo e amore o di egoismo e altruismo. Basta salire fino al grado di astrazione necessario per giungere a questo. Ma nella vita concreta, cari ascoltatori, l’egoismo e l’altruismo si differenziano in modo tale per cui si può affermare, come ho detto di proposito nella conferenza: sono due impulsi polarmente opposti a partire dai quali l’uomo agisce.
Cari ascoltatori, quando dico che su questa o quella montagna c’è una sorgente e a due ore di cammino ce n’è un’altra, e che quelle due sorgenti alimentano la rete idrica di una località, lo si può paragonare a quello che ho detto oggi a proposito dell’egoismo e dell’amore. Ho indicato due fonti. Nessuno ha il diritto di dire: «Sì, guarda un po’, in una delle sorgenti c’è acqua, e nell’altra pure, quindi sono la stessa cosa.» Il fatto è che quando ci si fissa pedantemente sull’astratto, si può vedere la stessa cosa dappertutto.
Ma proprio nella ricerca dell’unità è importante capire per esempio cose come la metamorfosi di Goethe. Se si osserva la metamorfosi goethiana, si vede come Goethe mostri che la foglia verde e il petalo rosso della pianta sono la stessa cosa, l’una trasformatasi dall’altra. Ma nello stesso tempo si sa che entrambi, pur essendo la stessa cosa, sono anche qualcosa di molteplice, di diverso, dalle innumerevoli forme. L’importante nella ricerca dell’unità è diventare sempre più consapevoli di come nella vita concreta l’unità si trasformi sempre in una molteplicità e del fatto che nell’anelito all’unità, cari ascoltatori, non bisogna ignorare la pluralità.
Vedete, cari ascoltatori, esiste una società chiamata “Società Teosofica” che sostiene di cercare l’unità in tutte le confessioni religiose, dato che tutte hanno origine dalla medesima fonte e in sostanza sono la stessa cosa. Questa società insegna che tutte le professioni di fede hanno il medesimo contenuto. Questa affermazione mi ha sempre fatto l’effetto di qualcuno che pretende di descrivere ciò che c’è sulla tavola solo in base alla sua unità. Basta scegliere un’astrazione, per esempio “condimento”. Condimento può essere lo zucchero, il sale, il pepe, anche la paprica: tutto è condimento.
Certo, cari ascoltatori, sono tutti la stessa cosa, cioè condimenti, ma se invece di salare la minestra ci mettete lo zucchero, perchè tanto anche quello è un condimento, non sarete molto soddisfatti. È quindi importante non accontentarsi di un’unità come quella che viene tramandata dogmaticamente dalla Società Teosofica che dice: «Tutte le confessioni religiose sono identiche.» Questa unità delle religioni sostenuta dalla Società Teosofica mi è sempre sembrata appunto simile all’affermazione in base alla quale pepe, sale e paprica sono la stessa cosa. Come dicevo, riconosco pienamente il legittimo anelito all’unità, che però non deve finire in un’astrazione che ci allontana dalla realtà.
Cari ascoltatori, c’è ancora una domanda:
Costruzione della torre di Baden. L’elemento nazionale fa parte delle cose significative sul piano culturale. Tutte le religioni sono adeguate alle razze. Ogni nazione ha una diversa propensione per l’arte e la scienza. La lingua e tutte le esteriorità dell’ambiente costringono ad una determinata forma espressiva. L’essenza è sempre internazionale, la forma è sempre arte nazionale. La musica è l’espressione artistica più internazionale. Ama il prossimo tuo come te stesso.
Non so bene come prendere questa domanda, perchè so di una torre di Babele, ma di una torre di Baden non ho mai sentito parlare. Non so se anche qui a Baden ci sia una torre.
«L’elemento nazionale appartiene alle cose significative sul piano culturale.»
Sì, cari ascoltatori, certo, lo si può dire, ma non so come si inserisca nella conferenza odierna.
«Tutte le religioni sono adeguate alle razze. La predisposizione delle varie nazioni e razze» – sono due cose diverse! – «per l’arte e la scienza è diversa.» Certo. «La lingua e tutte le esteriorità dell’ambiente costringono ad una determinata forma espressiva. L’essenza è sempre internazionale…» –
Sì, cari ascoltatori, l’essenza dell’elemento internazionale va dapprima cercata, poiché se davvero avessimo qui l’essenziale, non ci sarebbero così tanti atteggiamenti antinternazionali fra gli uomini. Questa è una cosa che va assolutamente presa in considerazione.
«…la forma è sempre arte nazionale. La musica è l’espressione artistica più internazionale.»
Cari ascoltatori, a ciò che sta alla base di questo discorso avevo già accennato lievemente nella conferenza, quando ho detto che la fantasia si esprime a livello nazionale, ma solo in certi settori dell’arte e in determinate sfumature. Ma, cari ascoltatori, chi se ne intende troverà queste sfumature anche nella musica. Si accorgerà della presenza di elementi nazionali anche laddove sembra esserci qualcosa di assolutamente internazionale – anche se dovesse solo consistere nel fatto che un popolo è semplicemente più musicale di un altro e che può essere capito a livello internazionale ciò che è in grado di produrre un popolo solo.
Ma ciò che conta è trovare un contenuto nell’uomo stesso, un elemento spiritualmente osservabile che è presente in ogni uomo e che è in grado di agire sul piano internazionale nel modo che ho descritto nella conferenza.
E con ciò, cari ascoltatori, credo di aver risposto a tutte le domande di oggi. E credo anche che ormai la sera sia progredita al punto che non intendo tenere un discorso conclusivo esauriente.
Ma c’è ancora una cosa che desidero sottolineare in due parole: ci terrei molto che si verificasse in che misura queste conferenze non sono qualcosa di inventato, di programmatico, ma solo il tentativo, per quanto ancora al suo inizio, di ricavare dalla vita stessa un’idea sociale o una somma di idee sociali.
Sì, cari ascoltatori, simili idee, desunte dalla vita come forze efficaci nella pratica, rappresentano quello che in ogni campo può nascere dalla visione spirituale che vi ho descritto. So che al giorno d’oggi, come vi ho accennato in queste conferenze, si fa spesso confusione fra quanto viene descritto da altri come visione spirituale e quella che intendo io per visione spirituale. Ma forse è valsa la pena di farsi un’idea di quanto tale visione sia aderente alla realtà.
Vedete, quando nel corso di questa terribile catastrofe della guerra è arrivato il momento in cui si poteva credere che, per via della situazione di emergenza in cui ci si trovava, si riuscisse a capire qualcosa di ciò che urge nel profondo e vuole affiorare in superficie, ho fatto notare ad alcuni personaggi di responsabilità le esigenze del tempo – e l’ho fatto anni fa, prima di presentarmi in pubblico. Ho parlato ad alcuni di questa triarticolazione, nella piena coscienza dell’effetto che avrebbe dovuto avere il tentativo fatto a partire da questo spirito volto a venire a capo di questo terribile sterminio, mitigandolo o dandogli un termine.
E all’epoca ho detto: in questo impulso c’è perlomeno lo sforzo di fornire non un’idea programmatica qualunque, ma di descrivere ciò che vuol realizzarsi nei prossimi trenta o venti o quindici anni, magari addirittura nei prossimi dieci.
E ad alcuni ho detto: «Se lo si vuole, oggi è possibile negare queste cose, si può essere troppo pigri per affrontarle. Ma chi prende sul serio la vita dovrebbe dirsi che ci troviamo di fronte alla scelta: o usare la ragione o andare incontro a tempi tristi, pieni di rivoluzioni e cataclismi sociali.»
Ho fatto queste affermazioni in un’epoca in cui queste recenti rivoluzioni erano ancora di là da venire, anche quella russa.
E si tratta sempre del fatto che all’uomo è stato dato il dovere di non vivere dormendo, ma di farsi delle idee su come devono andare avanti le cose. L’uomo infatti ha il vantaggio rispetto alle altre creature della Terra di essere chiamato ad agire con una certa capacità di previsione, ma si può intervenire nell’azione con una certa capacità di previsione solo se si è dotati di intuito per ciò che è realmente possibile.
E nella prima metà del 1914 nel mondo civile si ha forse avuto intuito per ciò che è realmente possibile? In una delle discussioni precedenti ho accennato ad alcuni esempi di quello che ha detto la gente a proposito di ciò che sarebbe successo. Poi è arrivato il grande sterminio. Non dovrebbero gli uomini imparare dai fatti?
Bene, cari ascoltatori, è proprio questo l’attuale compito degli uomini: imparare dagli eventi. Date le dimensioni e la rapidità con cui si svolgono, gli eventi dimostrano che gli uomini devono imparare da loro, che li devono interpretare come segni dei tempi. Altrimenti potrebbe verificarsi qualcosa di simile a ciò che è accaduto negli ultimi anni a proposito di molte cose.
Cari ascoltatori, diverse cose hanno colpito le persone al punto da far loro dire: «Se l’avessimo saputo prima, ma adesso è troppo tardi.» Cari ascoltatori, non è necessario aspettare sempre che sia troppo tardi.
È in questa visuale che vengono presentate le idee della triarticolazione dell’organismo sociale. Lo si tenta nella nostra rivista Soziale Zukunft pubblicata qui in Svizzera. Nel mio libro I punti essenziali della questione sociale queste idee vengono presentate per essere comprese e adottate nell’azione pratica prima che sia troppo tardi – affinché in seguito non si debba dire a proposito di cose importanti della vita che ormai è troppo tardi.
Per questo ci si deve riscuotere e sforzarsi di capire se in quello che vi ho esposto qui ci sono solo pensieri o se si tratta di qualcosa di ricavato dalla realtà. È un debole tentativo il mio, come sottolineo sempre, ma se verrà fatto suo da un numero sufficiente di persone, allora forse, come credo, potrà produrre qualcosa di più assennato di quanto ne potrebbe ricavare un singolo individuo. Ma ognuno lo dovrebbe far suo, perché è preso dalla realtà e può essere messo alla prova solo nella realtà.
Volevo ancora aggiungere queste poche parole a quanto ho già detto.
Indice dei nomi
August, duca Karl 112 Nietzsche, Friedrich 182, 183,
Blanc, Louis 28, 29, 35 184, 185, 186
Bruno, Giordano 30 Raffaello154, 168
Carlo I, imperatore d’Austria Ricardo, David 28, 52
262 Roscher, Wilhelm 28
Czernin, Ottokar conte 180 Saint Simon, Henri de 28, 29,
Damaschke, Adolf 229 35
During, Eugen 185 Schaffle, A. E. F. 146
Emerson, Ralf Waldo 185 Schelling, F.W.J. von 186
Engels, Friedrich 28, 42, 44 Schiller, Friedrich von 190
Fichte, Johann Gottlieb 259 Schopenhauer, Arthur 183
Fourier, Charles 28, 29, 35
George, Henry 229 Smith, Adam 28
Goethe J.W. 99, 100, 101, 102 Trotskij, Leo 39
152, 163, 164, 169, Unruh, Hans Victor von 52
186, 190, 274, 275 Vischer, Friedrich Theodor
Guyau, Jeanne-Marie, 185 101
Kant, Immanuel 224, 226 Wagner, Adolph 28
Kuhlmann, Richard von 98 Wagner, Richard 183, 211
Lenin 39, 93, 94, 95, 96, 98 Wilbrandt, Robert 211, 221
99 Wilson, Woodrow 37, 38, 39,
Leonardo da Vinci 169 40, 41, 42, 110, 160
Marx, Karl 28, 42, 44, 78 162
Maray-Horvath, Carl von 146 Withers, Hartley 27, 58, 208
Michelangelo 169
Napoleone III 76