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Leggi del cammino interiore dello stesso autore

Redazione a cura di Stefania Carosi

www.liberaconoscenza.it

ISBN 978-88-96193-22-8

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Pietro Archiati

Cammini dell’anima

La realtà dello spirito nella vita di oggi

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Indice

Prefazione alla seconda edizione

Primo Capitolo

spiritualità orientale e materialismo occidentale: verso un incontro o verso uno scontro?

L’individuo diseredato

L’uovo di Colombo

Materialismo e spiritualità: il nuovo parallelismo

La falsa tolleranza

Il cuore dell’umanità

Dibattito

Secondo Capitolo

il giusto equilibrio tra vita interiore e vita sociale

La droga e il consumismo delle percezioni

Il processo conoscitivo ordinario e quello scientifico-spirituale

L’immaginazione: la magia dell’estraneità

L’ispirazione: il dialogo delle anime

L’intuizione: il riposo nello spirito dell’altro

L’interiorizzazione del cosmo

Dibattito 59

Terzo Capitolo

evoluzione del pensiero, della volontà e del sentimento: attenzione, intenzione, distensione

Guardarsi con gli occhi degli altri 75

La forza dell’interessamento

La passività iniziale del pensare, del sentire e del volere

Sei esercizi per sei qualità morali

1. Evoluzione del pensare: l’esercizio della concentrazione

2. Rafforzamento del volere: l’esercizio dell’azione amata

3. L’equilibrio dei sentimenti: l’esercizio del cielo sereno

4. La positività 5. La spregiudicatezza 6. L’armonia interiore

Dibattito

Quarto Capitolo.

vita meditativa per i nostri tempi

Tecniche nuove per uomini nuovi

La meditazione, un capolavoro d’arte tutto individuale

Momenti privilegiati per la meditazione quotidiana

Il maestro

I mantram, ovvero i testi su cui meditare

La riservatezza

La smania di “vedere”

Dibattito

Quinto Capitolo.

l’ottuplice sentiero del buddha:

che ne pensa il Buddha oggi?

Le quattro grandi verità

Rudolf Steiner e l’ottuplice sentiero

Cosa fa e cosa dice, oggi, il Buddha?

I tre grandi eventi dopo la morte del Buddha

L’«ottuplice giusto» dei nostri tempi

Dibattito

Sesto Capitolo

il rapporto personale con l’essere dell’amore, sorgente ideale del cammino interiore

Ci sono Esseri spirituali con una coscienza più vasta della nostra?

Da un mondo pieno di saggezza a un mondo pieno d’amore

La morte di un bambino: un dono d’amore per tutti

Migrazione dei popoli dal basso verso l’alto all’inizio del terzo millennio

Io sono la Via, Io sono la Verità, Io sono la Vita

A proposito di Pietro Archiati

Prefazione alla seconda edizione

Anche per questa nuova edizione vorrei riportare le mie parole d’apertura in occasione di un convegno tenuto a Roma nel 1997, dal cui tema trae origine il libro stesso:

«Io mi trovo di nuovo a una svolta della vita in cui cerco di interpretare il linguaggio del mio karma: voglio dirlo già all’inizio di questo nostro incontro così che possiate capire anche il mio modo di sviluppare le cose, in questi giorni. Mi pare che il karma mi stia dicendo: deciditi ancora più chiaramente a portare la scienza dello spirito a chi è per la strada, cioè a tutti.

In questi giorni ho sentito da alcune persone che i miei libri e le conferenze sono difficili: viene presupposto troppo. Quindi chiedo a voi di avere comprensione per questo mio dilemma interiore: so che qui molti già conoscono gli elementi basilari della scienza dello spirito di Rudolf Steiner e che sarebbero contenti di poterli approfondire; ma so anche che ci sono altri per i quali bisognerebbe parlare in modo ancora più semplice. E forse possiamo desiderare insieme che questi ultimi diventino sempre più numerosi.

Per me è veramente un dilemma interiore, perché non si possono contemporaneamente accontentare gli uni e gli altri. La mia decisione è perciò questa: fare appello alla capacità di solidarietà di coloro che ritengono di conoscere già la scienza dello spirito in un modo avanzato. Solidarietà con l’essere umano semplice di oggi che sempre più ha bisogno di pane per lo spirito.

Può darsi, allora, che ci sarà qui qualcuno che, pur coltivando da anni la scienza dello spirito, troverà qualche spunto in modo da imparare – anche dai miei sbagli, per esempio – come si possa oggi praticare un’arte molto difficile: quella di portare la scienza dello spirito con un linguaggio accessibile a tutti, così che venga a ristorare la vita di ogni essere umano».

Pietro Archiati estate 2004

Primo Capitolo

SPIRITUALITÀ ORIENTALE

E MATERIALISMO OCCIDENTALE:
verso un incontro o verso uno scontro?

L’individuo diseredato

Volgendo uno sguardo alla situazione dell’umanità in generale, capita di osservare che proprio le cose più ovvie si rinvigoriscono di nuovi significati quando si riesce a recuperarle a nuovi livelli di coscienza.

In una prospettiva davvero pratica, per esempio, più che la domanda: qual è la situazione del mondo moderno? diviene importante quest’altro interrogativo: come interpella me la condizione generale dell’umanità? Un quesito che va posto ogni giorno in modo nuovo.

Anche per il cammino interiore vedremo l’importanza dell’esercizio metodico, costante, dove non si pone tanto in primo piano ciò che si sa, quanto il concreto impulso operativo che quel sapere comporta in noi. Cercar di descrivere i tratti più significativi della realtà contemporanea diventa allora un’occasione perché poi ciascuno possa chiedersi: come reagisco, io? come mi pongo di fronte a questi fatti?

Uno degli elementi fondamentali che caratterizza bene la moderna condizione umana è l’impotenza del singolo di fronte alla potenza dell’anonimato collettivo.

I processi della vita diventano sempre più impersonali, complicati, meccanizzati. Millenni fa gli uomini erano orientati verso lo spirito e verso i mondi sovrasensibili: oggi noi guardiamo sempre di più al materiale e al visibile. La nostra vita quotidiana è assorbita e scandita da tanti meccanismi che si sono resi necessari per procurare le basi a questo tipo di civiltà, per organizzarla e per mantenerla così com’è: e quando l’individuo vuol far valere i suoi momenti individuali e personali resta schiacciato da granitiche ragioni collettive.

In sintesi, i fattori di necessità sono diventati così prepotenti e ineludibili da far dilagare questo ritornello: figlio mio, se vuoi che le cose funzionino devi fare così, così e così. Quando però la vita viene ridotta al ferreo determinismo delle leggi materiali, che cosa resta alla dimensione spirituale e libera dell’uomo? Non le rimane quasi più nessuno spazio.

L’uomo è inserito profondamente in queste rigide strutture e si ritrova asservito alle cose che dovrebbero essere a sua disposizione – senza la cattiva volontà di nessuno, magari. Molto spesso è reso schiavo dei sistemi d’automatismo che sono invalsi e vengono dati per ineluttabili. Questo carattere di fatalità lo vorrei sottolineare perché ho intenzione di metterlo in discussione.

Prendiamo l’esempio dell’ingegneria genetica: si argomenta, per lo più, in base all’inevitabile dicendo che non c’è nessun’altra alternativa per liberare l’uomo da specifiche sofferenze, che non si può procedere in nessun altro modo. A chi si batte contro la manipolazione genetica la voce della politica, inquinata dall’economia, risponde: sì sì, è bello questo idealismo, molto bello, però in pratica non si può attuare. È fuori tempo.

Una spinta enorme che viene dall’Occidente, soprattutto dall’America, sta caricando l’umanità degli effetti pratici di un processo che sembra irreversibile; quella stessa umanità che nei millenni trascorsi è passata da un primigenio orientamento verso lo spirituale, a un altrettanto forte interessamento verso la sfera giuridica – con la grande questione dei diritti e dei doveri –, e si è infine dedicata alla conoscenza della realtà fisica materiale. Di essa, soprattutto negli ultimi decenni, ha messo in evidenza il pesantissimo risvolto economico: Karl Marx ne ha analizzato i processi in modo inesorabile, arrivando alla conclusione che l’unico criterio per discernere ciò che va bene o non va bene per l’uomo è quello inerente alle necessità della vita economica.

L’uomo d’oggi, potremmo dire, àncora il suo vivere agli strumenti e alle conquiste della scienza e della tecnica, subendo così l’innescarsi di fattori economici disumani. Ormai, senza scienza e senza tecnica non potremmo e non vorremmo vivere; però questo deciso orientarci verso la materia finisce per ignorare e soffocare la tensione verso lo spirito, verso la creatività del pensare, verso l’arte, verso tutti quei talenti che sono l’espressione più genuina dell’umano.

Abbiamo imparato nel corso della storia che uno dei diritti fondamentali della persona umana è quello di poter esprimere i propri pensieri, la propria opinione. Io penso che oggi ci troviamo a una soglia del divenire dove diventa fondamentale qualcosa che sta più a monte: l’avere un’opinione.

Possiamo dire che nei nostri Paesi democratici, quando un individuo s’è formato un’opinione, bene o male gli viene concesso di esprimerla. Ma i tempi a venire saranno una prova enorme per l’umanità: dovrà accorgersi che si sta sempre di più negando all’individuo il diritto stesso di formarsi il pensiero, la possibilità e la capacità di arrivare ad avere un giudizio.

In qualsiasi campo (medicina, fisica, ingegneria…), se qualcuno vuol dire la sua per prima cosa gli si chiede: sei un addetto ai lavori? Sei un esperto? Sì? Allora puoi parlare. Altrimenti sta’ zitto, perché non riconosciamo alcun valore al tuo parere.

Formulo una tesi che potrà sembrare un po’ idealistica e radicale, ma secondo me è basilare: ogni essere umano ha il diritto di formarsi un giudizio su tutti i fenomeni della vita e del mondo senza il bisogno di essere un esperto. Certamente, per sapere come va trattata l’energia atomica e come si costruisce una centrale nucleare bisogna avere conoscenze e abilità specifiche: ma non è necessario possederle per formulare un giudizio pienamente autonomo sul modo in cui le decisioni degli esperti agiscono sull’umanità. Per giudicare sulla bontà o non bontà umana delle proposte operative in fatto di energia nucleare basta essere uomini.

Il problema dei nostri tempi è che vien fatto di tutto per diseredare l’individuo, per non dargli la possibilità di pensare: in tutti i campi si creano linguaggi così complicati e inaccessibili che l’individuo dovrebbe avere a disposizione una cinquantina d’incarnazioni simultanee per impararli tutti e farsene un’idea propria!

Ho una convinzione che mi sembra importantissima per il cammino spirituale e per la dignità di ogni uomo: penso che anche nei più complessi contesti conoscitivi e pratici esista la possibilità, se si vuole, di presentare le cose in un linguaggio che vada all’essenziale e miri decisamente a favorire il giudizio di ognuno. Se si vuole è possibile: il problema è che non lo si vuole.

La grande sfida spirituale e anche di maturazione morale che oggi bussa alle porte della coscienza umana è innanzi tutto quella di accorgersi che stiamo negando ai non-esperti il diritto di aver voce in capitolo nelle questioni di maggior rilievo sociale. Poi, attraverso un serio e appassionante lavoro di trasformazione interiore, ognuno può dire a se stesso: nel mio campo di specializzazione, dove io so bene che per raggiungere un giudizio corretto bisogna avere una seria preparazione specifica, prendo la decisione libera e amante di adoperarmi giorno dopo giorno a tradurre la complessità delle cose che io conosco in un modo che ogni essere umano possa capire.

La riprova della positività del mio sforzo è nel contatto, nel dialogo: parlando con l’altro mi rendo conto se capisce o non. Quando l’esperto comunica qualcosa al non esperto e quest’ultimo non capisce, la responsabilità è dell’esperto. Vuol dire che non è ancora esperto abbastanza, visto che gli manca una parte fondamentale dell’esperienza: la capacità di rendere accessibile a tutti la complessità dei fenomeni che ha studiato.

Per poter mettere a disposizione il proprio sapere, la cosa più importante non è la sagacia o l’acume del pensiero: è la forza del cuore, è la volontà di farlo. La grande disumanità del nostro tempo sta nel fatto che ci sono troppe persone che non hanno alcun interesse a che l’altro possa partecipare ai processi delle cose attraverso il suo autonomo giudizio. La stessa conoscenza diventa così strumento di potere.

Anche riguardo alla moderna scienza dello spirito che Rudolf Steiner ha inaugurato per tutta l’umanità – e da cui prende l’avvio questo mio lavoro – vale la stessa riflessione: se qualcuno sa cosa significa conoscerla ai più ardui livelli di complessità che essa presenta, sa anche che l’elemento imprescindibile per metterla a disposizione della persona più semplice è la decisione sincera del cuore di voler creare la comunicazione, arrivando a gioire del giudizio dell’altro. Qualunque esso sia.

L’uovo di Colombo

Alla domanda: come reagisce l’individuo di fronte alla preminenza del dato materiale che rende il singolo sempre più impotente?, direi che ci sono due reazioni fondamentali:

– una è la rassegnazione, cosciente o non cosciente, che porta ad accettare le cose come sono abbandonandosi alla corrente che dice: eh, non si può far altro! sì, è bello avere dei valori, degli ideali, ma poi la realtà è quella che è;

– l’altra è quella di dire: io non voglio essere trascinato dalla corrente, voglio prendere ogni decisione in modo conscio, libero, individuale. In questa presa di posizione, che sembra così semplice, è racchiuso il mistero della libertà dell’individuo umano.

Se noi fossimo animali non ci interrogheremmo su questi argomenti; il singolo leone non dice a se stesso: perché devo comportarmi come tutti gli altri leoni? Voglio essere diverso, voglio rendermi conto di questi miei istinti… Se il leone cominciasse a fare questi ragionamenti, non sarebbe più un leone.

Il fatto stesso di dar vita a questi pensieri mentre scorre la fiumana ineluttabile delle cose che rischia di travolgerci, mostra che l’uomo non è un essere di natura, fatto solo per soggiacere ai fattori ferrei del determinismo, ma che è capace di prendere posizione – dapprima con le forze del pensiero.

Forse quel che dico fa l’effetto dell’uovo di Colombo, o forse sto inventando il sole e l’acqua calda: ma la povertà nostra, oggi, sta proprio nel fatto che diamo tutto per scontato e perciò non viviamo più nulla. Che desolazione mostrare un’apatica indifferenza verso la capacità di pensare e di decidere che c’è in ognuno di noi! È una facoltà enorme, ma noi ci permettiamo di considerarla un’ovvia attitudine umana, per la quale non c’è motivo di entusiasmarsi e scaldarsi più di tanto.

Come si può vivere nella rassegnazione e nella depressione se ci rendiamo veramente conto di che cosa significhi potersi porre di fronte ai fenomeni dell’esistenza e pensarci sopra? Chiunque sia stato a inventare l’essere umano, certo ha manifestato del genio! Come ci si può disamorare nei confronti del pensiero, come non provare gioia per l’attività più straordinaria che abbiamo a disposizione? È che siamo così frastornati, così incagliati nelle ruote della vita, che ci dimentichiamo di pensare. Ecco la nostra povertà.

Essere capaci di pensiero significa avere a disposizione una facoltà che ci consente di entrare in tutti i fenomeni: nulla è inaccessibile al pensiero umano. Anche se ci stiamo abituando a non pensare più, anche se potrebbe addirittura sorgere il dubbio che abbiamo perso la capacità di pensare, rimane il dato di fatto che per affermare queste cose è pur sempre necessario pensare.

Il fenomeno strabiliante di Marx, per esempio, sta nel fatto che egli ha afferrato intimamente e profondamente le masse proletarie nella seconda metà del secolo scorso con un pensiero che diceva: il pensiero non serve a nulla. L’unica cosa che è reale e muove le ruote del divenire è la tasca piena o vuota, la pancia piena o vuota. I fattori economici sono la realtà che muove la storia: non l’ideologia, perché l’ideologia stessa si orienta secondo la pancia. Marx, con questo pensiero fondamentale che afferma l’inutilità del pensiero, ha trasformato la storia. Dunque è un pensiero che ha trasformato la storia. E qual è il contenuto di questo pensiero? Che il pensiero non opera nulla!

Il punto di partenza del cammino interiore è una grande scoperta che ciascuno può fare: è vero che ci sono meccanicismi e ineluttabilità, è vero che l’umanità è pressata da tanti ingranaggi; però è altrettanto vero che io, in quanto essere umano singolo, porto dentro di me la realtà più importante del mondo: la capacità di pensare e di decidere in libertà. Questa forza in grado di essere libera e creatrice non me la può togliere nessuno, perché è l’essenza del mio stesso essere.

Materialismo e spiritualità: il nuovo parallelismo

In questa costellazione generale dell’umanità dove l’individuo ha una duplice possibilità di reagire – lasciandosi trascinare oppure prendendo posizione – va fatta un’altra considerazione: nella cultura mondiale esistono una matrice orientale e una occidentale, profondamente diverse.

Vedremo che anche riguardo al cammino interiore, alle tecniche di meditazione, agli esercizi per venire alle prese con se stessi, c’è veramente un tipo di spiritualità tutta orientale, invalsa da secoli e millenni e c’è, ancora più a Occidente di noi, soprattutto in America, il mondo del materialismo.

Quel che mi preme sottolineare è che l’Occidente, proprio perché è preso nella tenaglia degli ingranaggi del mondo materiale, si rivolge all’Oriente per trovare una vera spiritualità. Abbiamo quindi una cultura fatta da un lato di materialismo e dall’altro lato di una spiritualità sempre più decisamente importata dall’Oriente.

La scorsa estate sono ritornato per un paio di mesi negli USA e ho constatato che, con apice in California, c’è una straordinaria abbondanza di centri di aggregazione orientaleggianti dove si praticano la tolleranza e il sincretismo. Prima di entrare nel merito, va rilevato che lo zen, l’induismo, il buddhismo, il confucianesimo, il taoismo ecc. ignorano l’evento del Cristo; in Europa invece (riassumo qui cose molto complesse) il fattore cristiano, chiamiamolo così, ha giocato un ruolo fondamentale. Questi sono fatti culturali di enorme importanza, e ciascuno può approfondirli.

Un altro tratto fondamentale della spiritualità orientale, comune a tutte le sue forme, è la mancanza di due fenomeni culturali che hanno invece arricchito e forgiato l’Europa quale Centro e cuore tra Oriente e Occidente: il goetheanismo e l’idealismo.

L’Italia, per esempio, è un Paese nel quale l’idealismo tedesco ha giocato un ruolo importante: sui banchi del liceo molti hanno passato mesi e mesi sui tre grandi idealisti Fichte, Schelling e Hegel per arrivare poi a Rosmini, a Croce, a Gentile. In altre nazioni non c’è stato lo stesso intenso riferimento alla corrente idealista. Ciò significa, per esempio, che in Oriente manca l’immane lavoro del pensiero di Fichte, completamente incentrato sull’emergenza e la sovranità dell’Io, dell’individualità spirituale di ogni essere umano.

C’è infine un altro fattore culturale d’immensa portata che, sorto in Europa, non entra in un rapporto d’affinità con la cultura orientale importata; è un fattore nuovo e poco accolto nella stessa Europa: mi riferisco alla scienza dello spirito di Rudolf Steiner. È chiaro che nel contesto di questo lavoro a me interessa sottolineare cosa non è presente nella spiritualità di tipo orientale.

Provenendo dall’India, dalla Cina, dal Giappone, lo spiritualismo asiatico approda in America e dall’America rimbalza in Europa; certo, a volte arriva qui direttamente (non tutto deve passare per l’America!), ma il mercato, il modo di far propaganda e i canali di diffusione vengono filtrati dai grandi poteri che, in fondo, sono in America e per lo più rimangono a noi sconosciuti.

Venendo agli effetti che la spiritualità orientale ingenera nell’uomo occidentale, dovrò riassumere cose molto complesse dando forse l’impressione di trascurare le tante sfumature che pur ci sono. È però interessante e significativo presentare proprio in modo marcato il parallelismo che viene a crearsi tra la vita quotidiana normale, che in Occidente è di tipo materialistico, e la vita spirituale e meditativa di stampo orientale, che ha un carattere polare, opposto.

L’uomo occidentale rischia di entrare in una sorta di schizofrenia culturale: da una parte vive le cose ragionate della scienza e della tecnica, dell’industria e della finanza, dove l’inesorabilità del materialismo è la legge fondamentale; da un’altra parte, accanto a questa realtà che non osa e non vuole mettere in discussione, pone e vive in parallelo il mondo della spiritualità. Un direttore d’azienda (e ce ne sono veramente tanti in America), che un’ora prima era immerso nelle tecniche implacabili delle transazioni di denaro, un’ora dopo si distende con venti, trenta minuti di meditazione yoga. Tanto per fare un solo esempio.

La domanda che ora pongo è questa: la mezz’ora di meditazione di quell’imprenditore che cosa ha a che fare con l’altra porzione della sua vita? Le sta accanto, come i binari che non si incontrano mai, oppure è in grado di trasformarla, di rendere sempre meno inflessibili, e dunque sempre più umani, quei meccanismi finanziari che vengono presentati come inevitabili?

La mia tesi di fondo, espressa in modo radicale, è allora questa: siamo di fronte, oggi, a una nuova forma di parallelismo che vede viaggiare l’uno accanto all’altra materialismo e spiritualità.

Altri vecchi parallelismi li conosciamo bene: il primo, quello tradizionale, è tra scienza e fede. La scienza appartiene a un mondo, la fede a un altro mondo, e così la stessa persona passa ore di qua e ore di là senza che le due esperienze s’incontrino né si fecondino a vicenda. Questo è il motivo per cui la fede tradizionale ha perso sempre di più ogni incidenza reale e concreta nella vita.

Un secondo noto parallelismo, anch’esso di lunga data perché va indietro fino a Cartesio, è la visione laica della realtà psico-fisica. Esso dice: parallelamente a funzioni naturali e corporee ci sono nell’uomo le cosiddette funzioni dell’anima. Cosa hanno a che fare le une con le altre? In che modo oggettivamente scientifico il corpo influisce sull’anima e viceversa? Non si sa! Si continua a dire semplicemente che accanto ai fenomeni fisiologici ci sono i fenomeni psichici. In questo caso il parallelismo è una comodità del pensiero. Ci si libera dal dover spiegare in che modo concreto la cosiddetta anima (se c’è) influisce sul corpo, e ci si dispensa dal dover spiegare in che modo concreto il corpo influenza la cosiddetta anima (se c’è).

S’intuisce subito che stiamo parlando di fenomeni molto complessi. Non a caso la scienza della realtà spirituale cerca di spiegare, a livelli sempre più profondi e articolati, attraverso quali multiformi processi l’anima operi sulle diverse parti del corpo (non si limita al corpo in generale!), e viceversa.

Come parallelismo di terza generazione propongo quello oggi dominante tra materialismo e spiritualismo, cui prima facevo cenno. L’uomo moderno, soprattutto se si ritiene intelligente e al passo coi tempi, vuole avere tutte e due le esperienze: quella del materialismo (esigenza giustissima, peraltro, visto che su questa terra, non si scappa, dobbiamo fare i conti con la materia), e quella della spiritualità.

Problematico per l’uomo, però, non è il volere ambedue le esperienze, ma il viverle una accanto all’altra, impermeabili l’un l’altra. La schizofrenia tipica dell’Occidente sta nel fatto che si viene alle prese da una parte con uno spiritualismo disincarnato e avulso dalla vita, e dall’altra col materialismo della vita quotidiana, privo di spirito.

Io penso che sia questa la lacerazione interiore sempre più minacciosa: usando i termini tecnici della scienza dello spirito, potremmo vedere nel materialismo un puro fenomeno arimanico[1] e nello spiritualismo d’importazione orientale il grande rischio di un puro fenomeno luciferico, cioè di una goduria animica, tutta egoistica.

Si ricerca il piacere del corpo nel materialismo; si ricerca il piacere dell’anima nello spiritualismo. Questi sono i due estremi. Eppure ci dev’essere un modo di vincere il parallelismo, ci dev’essere una terza forza capace di portare questi due mondi l’uno dentro l’altro, mediando l’oscillazione tra i poli, trovando una sintesi armonica, dove spirito e materia si possano incontrare e vengano vissuti insieme!

La falsa tolleranza

Prima di ricercare la realtà di queste forze di mediazione per ora solo ipotizzate, consideriamo ancora un altro fenomeno di estrema importanza culturale, strettamente connesso con quanto abbiamo esposto fin qui: la falsa tolleranza.

La falsa tolleranza è quel processo interiore per cui si diventa tolleranti proprio là dove la tolleranza è nociva e fuori luogo, mentre ci si erge a intransigenti proprio là dove la tolleranza dovrebbe essere sacra.

L’uomo occidentale moderno è tollerante al massimo in fatto di verità. Siccome i meccanismi del potere, inesorabili nella vita economica, finanziaria e industriale, non gli permettono nessuna tolleranza, egli pensa di salvarsi e di riequilibrare il suo disagio interiore diventando tollerante nelle questioni che riguardano la verità.

La tolleranza, la flessibilità interiore più generosa, è invece negata proprio là dove dovrebbe fiorire: dalla parte della volontà. Dove si tratta delle azioni, dell’operare umano, lì dovremmo essere tolleranti e sospendere ogni giudizio, perché ciascuno di noi è sceso dal mondo spirituale per realizzare qualcosa di diverso dagli altri, un frammento d’umanità unico e irripetibile.

Dovremmo allora imparare ad essere sanamente rigorosi in fatto di verità, perché qui la tolleranza diventa povertà spirituale. La verità non è questione di tolleranza! L’uomo sa bene quanta fatica costi conquistare anche solo squarci di verità oggettiva, e perciò capitola di fronte a questo compito bollando in aggiunta come fanatico e dogmatico chi ancora ha il coraggio di sostenere che una verità oggettiva esiste.

Questo atteggiamento è la somma del disumano perché la verità è oggettiva. Che tutti noi siamo in cammino per raggiungerla e conquistarla, senz’altro; che ognuno di noi abbia soltanto frammenti di verità, senz’altro; ma questi frammenti devono essere oggettivi!

Il relativismo in fatto di verità è contrario alla natura umana più profonda. Come possiamo vivere la dignità e la gioia di esistere se ci viene portato via quel cardine della vita che è la capacità umana di cogliere il vero oggettivo, la capacità, cioè, di sapere come stanno le cose? Peccato che sia soltanto la matematica a non essere questione di opinione… Una grande fonte di salute interiore è poter dire: la verità oggettiva c’è. E lo spirito umano è fatto per cercarla e per conquistarla passo dopo passo.

Non stiamo certo inneggiando a un individuo esaltato che pretenda di averla conquistata tutta, la verità: perché per fortuna un tale individuo non esiste. Ma fra il dire che nessuno di noi ha conquistato tutta la verità e il sentenziare che la verità oggettiva non esiste, ce ne corre!

Il materialismo occidentale ha creato un concetto culturale di tolleranza del tutto falso: poiché la tolleranza è difficile da applicare nel regno delle azioni, dove ognuno ha il suo modo particolare di fare le cose, dove ci si scontra giornalmente con la volontà di autorealizzazione dei nostri simili, spesso opposta alla nostra, e dove i meccanismi ricattatori dei più vari poteri costituiti mortificano le nostre libere iniziative incombendo come una spada di Damocle; per tutti questi motivi noi andiamo a cercare la tolleranza, quale sostituto spurio, nel regno della verità. Quel regno dove il cosmo intero si offre alla nostra conoscenza, mostrando il significato oggettivo, cristallino e universale delle leggi spirituali che reggono l’evoluzione.

Questo fenomeno della falsa tolleranza ha gravissime conseguenze sul cammino interiore del singolo.

Il cuore dell’umanità

Se c’è una mediazione tra il materialismo occidentale (che ha la sua legittimità perché l’attenzione alla materia è più che dovuta) e la spiritualità orientale (altrettanto legittima, in quanto da sempre considera sacra e assoluta la realtà del mondo dello spirito), quest’azione mediatrice sarà un Centro, che possiamo chiamare Europa, oppure goetheanismo, o vero cristianesimo o scienza dello spirito. Il suo compito sarà quello di armonizzare in modi sempre nuovi questi due mondi, così da vincere la lacerazione che non è più solo quella tra religione e scienza o tra psiche e corpo, ma che si è tragicamente estesa al nuovo parallelismo fra pubblico e privato.

Nel pubblico siamo tutti bravi materialisti e nel privato ci ritagliamo spazi di santità: tutti a meditare! Sono due mondi che rischiano di coesistere senza avere nulla a che fare l’uno con l’altro. Io penso che ci siano poteri di questo mondo ben consapevoli di un tale funesto parallelismo, e che anzi facciano di tutto perché permanga così com’è. Se infatti sorgesse una spiritualità nuova, capace di entrare dentro la vita reale coniugando spirito e materia, sarebbe la fine per chi trae vantaggio dalla spaccatura interiore che indebolisce l’umanità. Gli uomini si accorgerebbero di essere continuamente defraudati sia dello spirito sia della materia, e costretti a un violento moto oscillatorio che li sbatte ora nei cieli e ora sottoterra.

Perciò dobbiamo essere svegli e accorgerci che nel nostro mondo non c’è materia senza spirito e non c’è spirito senza materia, e che l’uomo stesso è il luogo d’incontro vivente fra cielo e terra. Il tempo dedicato alla materia (alle cose quotidiane) non ha bisogno di essere redento da un altro tempo che, separatamente, provi a incamerare un po’ di spirito. Tutto il nostro cosmo vede lo spirito cercare sempre la materia e la materia cercare sempre lo spirito.

Quando parlo di poteri occulti non mi riferisco alla chiesa: non penso che vengano più da lì i grossi pericoli per il futuro dell’umanità. Li vedo invece muovere dalla vita economica e politica, e perciò dobbiamo avere il coraggio di approfondire la lettura degli avvenimenti del nostro tempo, mettendo in azione gli strumenti conoscitivi adatti – quelli della scienza della realtà spirituale, che ha tutt’altre leggi rispetto a quelle che regolano le concatenazioni visibili delle cose[2].

Questo sforzo verso la verità non vuol essere di certo un dito puntato a smascherare qualcuno. Il nostro compito sarà infatti di vedere in che modo può sorgere quella mediazione culturale che abbiamo chiamato il Centro dell’umanità: questo centro c’è in ogni essere umano ed è il cuore, sono le forze dell’amore, del sentimento, le più umane che conosciamo. Nel mezzo, fra la testa che si stordisce di pensieri astratti ed esangui, e le membra che agiscono nella materialità, mosse dall’immediatezza degli istinti, c’è il nostro cuore: questo è il mistero del centro. È la vita della sfera mediana che porta forze d’armonia quando apre le porte alla materia perché possa amare lo spirito e allo spirito perché possa amare la materia.

Sarà proprio questa la chiave del cammino interiore che cercherò di descrivere. Anticipo un paio di pensieri importanti, da sviluppare in seguito, sul carattere metodico del cammino interiore. Esso vede due modalità fondamentalmente diverse:

• una è quella tradizionale, di stampo maggiormente orientale, che procede dando agli esseri umani indicazioni precise e circostanziate su ciò che essi debbono fare;

• l’altra, che sorge dalla scienza della realtà spirituale avviata da Rudolf Steiner, conduce al cammino interiore in modo scientifico, mostrandone cioè in chiave conoscitiva le leggi di funzionamento. La novità qui sta nel fatto che a nessuno vien detto che cosa deve fare, ma ciascuno è posto nella condizione di capire quel che avviene sulla via verso lo spirito quando decide, in piena libertà, di cominciare a trattare in modo diverso i suoi pensieri, i suoi sentimenti e i suoi impulsi volitivi.

Le leggi del cammino interiore vengono scientificamente dichiarate e scandagliate, proprio per evitare ogni ingerenza nella libertà di chi voglia cominciare a tener conto di come l’invisibile s’intesse col visibile. Il cammino spirituale moderno descrive, in modo accessibile al pensiero di ognuno, come l’uomo partecipi attivamente sia al mondo dello spirito sia a quello della natura sensibile, ampliando così, smisuratamente, l’orizzonte, il senso e la responsabilità della vita sulla Terra.

Questo cammino interiore nato in Europa, suscita subito una domanda: come si fa a trasformare in forze reali ciò che la scienza dello spirito pone sul piano della conoscenza, del convincimento ideale?

La risposta a questa domanda ci riporta ancora una volta alla storia dell’uovo di Colombo. Colombo e i suoi marinai veleggiavano ormai da tanto tempo quando un giorno, per divertirsi un po’, si sfidarono a porre un uovo in posizione verticale. A turno ci provarono tutti, senza riuscirci. Colombo si avvicinò per ultimo, prese l’uovo e, battendolo leggermente, appiattì un poco la base del guscio e lo mise dritto. Beh, ma così ero capace anch’io! disse qualcuno. Certo, rispose Colombo, ma perché non l’hai fatto?

L’uovo di Colombo del cammino interiore è che ideali bellissimi e magnifiche teorie si trasformano in forze reali nella pratica dell’esercizio metodico, quotidiano, costante.

DIBATTITO

Intervento: Sono una studentessa presso la facoltà di Lettere all’università «La Sapienza» di Roma. Lei ha detto che la tolleranza in fatto di verità è povertà di spirito: io credo nella verità oggettiva, ma credo anche che essere tolleranti in campo di verità sia una ricchezza. Viviamo in un mondo dove ogni nazione si è data costituzioni diverse e ha la sua tradizione spirituale; noi siamo cresciuti in Europa, in una cultura cattolica o comunque fondata sui principi del cristianesimo, sia visibili che invisibili. Io mi sono convertita al buddhismo e prima della mia vocazione, intraprendendo dei viaggi in Cina e poi in Giappone, mi sono resa conto che la verità è relativa, dipende dalla storia e da tanti altri fattori.

Penso perciò che bisogna essere tolleranti perché il fine comune a tutti – buddhisti, cattolici, musulmani – è quello di vivere una vita sana e avere anche un buono status economico: bisogna allora coltivare entrambi gli aspetti, quello dello spirito e quello dell’economia. Dal punto di vista spirituale, l’unico modo per mantenere la verità oggettiva è quello di attenersi ai precetti religiosi indicati in ogni tradizione. Io ho notato che una persona, sia che abbia studiato sia che non abbia studiato, se si attiene ai principi religiosi (al Vangelo, alla Bibbia, all’Ottuplice Sentiero, al Corano…) dal punto di vista spirituale è sicura di non cadere. Questa è una verità oggettiva che ci viene trasmessa dalle generazioni che ci hanno preceduto. Quindi, senza fare grandi esperienze di scuole o di situazioni spirituali esotiche, come diceva lei, attraverso la fede si può realizzare la tolleranza verso un’altra spiritualità diversa dalla nostra.

Archiati: Lei ha prima messo in relazione la verità con la cultura e poi con il cammino spirituale. Quando lei riferisce la verità al cammino spirituale buddhista, parla più di fattori volitivi, morali, di comportamento, che non di fattori di verità. E lì ci vuole la tolleranza: l’ho detto anch’io. Lei stessa, poi, nella sua riflessione ha allargato il concetto di verità alla cultura, alla religione.

Cultura e religione, però, non hanno nulla a che fare con la tolleranza, strettamente parlando. Se io affermo, supponiamo, che l’essere umano continua ad esistere anche dopo la sua morte, questo convincimento o è vero o non è vero. Questa verità, o non verità, dipende forse da una qualsiasi cultura o religione? No! O è vero o non è vero. Se un uomo (o una cultura) dice che dopo la morte c’è il nulla e un altro uomo (o un’altra cultura) dice che c’è l’esistenza celeste, uno dei due è sicuramente in errore e l’altro è oggettivamente nel vero. Non si scappa!

Io mi sono riferito al carattere di realtà della verità. È un ben preciso compito dell’uomo moderno il non lasciarsi portar via la ricchezza della realtà oggettiva in nome di un’ingannevole e impropria tolleranza. La tolleranza in fatto di verità ingenera il dogma del relativismo, il peggiore che ci sia, il quale sentenzia: la verità oggettiva non esiste.

Intervento: Come faccio a verificare la verità oggettiva? Lo so semplicemente, così come so che due più due fanno oggettivamente quattro? Ma come lo so?

Archiati: Come verifica che due più due fanno quattro?

Intervento: Contando.

Archiati: Contando? No!

Intervento: Studiando. O forse inventando… Insomma, io ho posto una domanda perché mi aspetto una risposta!

Archiati: Ma guardi che la risposta più bella l’ha già data lei. Ha detto: lo so che è vero. Ed è l’unica risposta: il pensare umano è l’organo intuitivo della verità.

Intervento: Ma non siamo tutti matematici! C’è chi di matematica non capisce niente e invece sa di letteratura o di arte…

Archiati: Sono tutti campi diversi della verità. E io non ho detto che tutti hanno la capacità di raggiungere gli stessi livelli in ogni campo: ho detto che l’organo della verità è il pensare, lo stesso che ci dà la certezza evidente sia riguardo al semplice due più due fanno quattro, sia riguardo al più complesso calcolo algebrico.

Secondo Capitolo

Il GIUSTO EQUILIBRIO

tra vita interiore e vita sociale

La droga e il consumismo delle percezioni

Cerchiamo ora di osservare la relazione che vive in ogni essere umano tra il suo mondo interiore e il mondo esteriore.

Una prima riflessione va rivolta alla percezione dei sensi: potremmo dire che regna oggi una specie di ipnosi della percezione sensibile, soprattutto nelle nazioni cosiddette evolute. Veniamo talmente bombardati da miliardi di sollecitazioni sensorie, che siamo quasi costretti ad assecondarle.

Dei dodici sensi che l’uomo possiede (e di cui scientificamente parla soltanto Steiner[3]) viene privilegiata quasi esclusivamente la vista: c’è una malia, una magia del vedere. Pensiamo a tutti gli stimoli visivi che ci vengono incontro attraversando una qualunque piazza: migliaia! C’è poi un raddoppiamento di questa fascinazione dell’occhio dovuta allo schermo: sempre più persone vivono la maggior parte della giornata davanti a uno schermo, passando dal computer alla televisione, al cinema, ai video games, in continuo rapporto con le stimolazioni visive.

Questo incantesimo del visibile, del guardare tutto, esteriorizza l’uomo in modo efficacissimo: lo costringe dall’inizio alla fine della giornata a proiettarsi fuori di sé in una valanga di percezioni così inarrestabile da sottrargli anche il tempo di rientrare nella sua interiorità, per gestire la propria reazione. L’essere umano si ritrova così a reagire tramite automatismi.

Consideriamo il mondo della pubblicità: qual è l’intento tacito del reclamizzare? È quello di togliere a chi guarda e ascolta ogni possibilità di decidere quale posizione prendere di fronte al messaggio che gli viene propinato. In altre parole, il messaggio stesso stabilisce quale dovrà essere la reazione dello spettatore. Si tratta proprio di un mondo disumano perché fa di tutto per togliere alla persona la capacità di praticare la propria libertà.

La fissazione sulla percezione sensibile trapassa anche nel rapporto col mondo spirituale sovrasensibile. L’uso delle droghe, per esempio, nasconde in molte persone (in America lo si nota in modo lampante) l’intento di riuscire a «vedere» qualcosa che non sia più materiale, ma spirituale. E così si raddoppia il mondo della visione pervenendo in modo improprio al primo gradino del cammino interiore, chiamato da Rudolf Steiner immaginazione, o percezione del sovrasensibile[4]. Col termine tecnico «immaginazione» viene indicata la prima conquista che si fa quando si comincia a sperimentare lo spirituale: è la percezione dell’invisibile, di ciò che normalmente non cade sotto gli occhi fisici.

Accedere a questo primo gradino servendosi di strumenti fisici è lo specifico della droga: essa infatti attiva processi corporei che provocano stati particolari di carattere allucinatorio, confermando la tendenza psicologica di fondo dell’uomo moderno ad essere soddisfatto del «comunque vedere». Come se il vedere fosse già di per sé un evento importante e significativo.

A questo punto dobbiamo chiederci: che cosa ho io quando, oltre a vedere ciò che vedono tutti gli esseri umani dotati di occhi funzionanti, comincio a vedere qualcosa che non è fisicamente visibile? La risposta della scienza dello spirito, tanto straordinaria quanto vera, è: nulla. Io non ho nulla di più se mi fermo soltanto alla percezione del sovrasensibile, perché non so se si tratta di realtà o di non realtà.

Di visionari, nell’umanità, ce ne sono sempre stati; non solo: ancora cinquemila anni fa tutti noi eravamo per natura dei meravigliosi visionari, perché potevamo ancora servirci delle forze naturali dell’atavica veggenza. Eravamo così congiunti con il mondo spirituale che lo vedevamo, oltre il mondo visibile. Da molti secoli abbiamo perso questa facoltà ancestrale, ed è stato un bene evolutivo l’averla persa: infatti ora abbiamo la possibilità, grazie al cammino interiore, di riconquistare individualmente, coscientemente e liberamente l’accesso ai mondi spirituali.

Ecco perché è importante conoscere le leggi scientifiche moderne dei tanti passi che vanno compiuti per riafferrare l’esperienza dello spirituale senza ricadere in antiche forme, che oggi avrebbero carattere involutivo. E il primo passo sta proprio nel capire che quando arrivo alla percezione del sovrasensibile non devo fermarmi lì, perché questa è soltanto la prima tappa.

Spesso ho portato questo esempio: un bambino di un anno, un anno e mezzo, sale su una collina con i genitori. Dalla cima si vede che nella valle sottostante è in corso una terribile battaglia: sangue, morti, violenza, pericoli. Gli adulti sanno che bisogna scappar via subito, ma il bambino piccolo che cosa vede? Tutto e nulla. Dal punto di vista dell’integrità dell’occhio fisico il bambino vede tutto ciò che vedono gli adulti, ma non sa interpretare. Non capisce il pericolo, la tragedia, l’orrore.

La capacità di aggiungere alla pura percezione il suo significato non ha più nulla a che fare con la percezione stessa: è l’ulteriore facoltà umana di penetrare col pensiero i dati percepiti. Questa attitudine il bambino non ce l’ha ancora, e ciò dimostra che è una facoltà del tutto diversa dal percepire, e dunque non insita nel percepire stesso.

Torniamo al fenomeno della droga: non ci interessano, qui, condanne di alcun genere, quanto piuttosto i profondissimi risvolti di bontà umana e di nostalgia che spesso spingono molti giovani a cercare l’esperienza di qualcosa che non sia la prigione del mondo fisico e dei suoi meccanismi. La tragedia che poi precipita su questi aneliti è dovuta al fatto che ci troviamo a un livello evolutivo dove le cose possono essere veramente conquistate solo attraverso uno sforzo di volontà consapevole. Non bastano più le buone intenzioni che giustificano i mezzi.

Riguardo all’assunzione di droghe ci sono leggi spirituali che dicono: no, questa non è una vera strada. Se tu procedi in questo modo e con questi strumenti, ti troverai di fronte a un mondo d’immagini senza nessuna capacità di comprenderle. Vedrai mille cose, farai come quel bambino sulla collina che è tutto contento perché vede i colori, vede le bandiere, fa festa al rosso del sangue e non sa nemmeno cosa sia, il sangue…

La droga è funesta perché, diventandone schiavi, gli esseri umani vengono non solo rapinati da chi muove le fila del mercato, ma anche tremendamente ingannati. Non si rendono conto d’immergersi in un raddoppiamento dell’ipnosi e della cattivazione che sorgono come spettri quando si perde la capacità di reagire e di prendere posizione, sia davanti al visibile sia davanti all’invisibile.

La droga conduce l’uomo a una doppia disumanizzazione perché lo fa capitolare di fronte all’assalto della percezione sensibile e di quella sovrasensibile. La scienza dello spirito è seria: non è fatta per condannare, ma per dirci la verità. Quando si tirano le somme di un cammino di droga, spesso ci si ritrova da un lato una corporeità compromessa a livelli irrecuperabili, perché alcuni processi di degenerazione del corpo sono irreversibili, e dall’altro lato una dipendenza totale rispetto alle immagini sovrasensibili e al bisogno di consumarle. Non se ne può fare a meno. Il consumismo, emblema del materialismo, si duplica. Questa è una condizione massima di non-libertà.

Il processo conoscitivo ordinario
e quello scientifico-spirituale

Nel campo del cammino interiore il «fenomeno Rudolf Steiner» può essere fonte di infiniti spunti di riflessione. Chi è Rudolf Steiner[5]? È un uomo, vissuto a cavallo fra l’ottocento e il novecento (1861-1925), che dichiara non solo di aver trascorso tutta una vita nella percezione dell’invisibile (immaginazione) – e questo, l’abbiamo già detto, di per sé non è così importante –, ma anche di essere passato a un secondo livello, che chiama ispirazione, dove è possibile l’interpretazione pensante di ciò che si vede; e infine dichiara di aver raggiunto il terzo livello, l’intuizione, che mette insieme i primi due ed è la conoscenza spirituale vera e propria.

C’è un’analogia tra questo cammino che porta alla conoscenza spirituale e il normale cammino conoscitivo[6] che tutti noi percorriamo nel mondo visibile.

1. Nel mondo fisico noi siamo esposti dapprima alla percezione degli oggetti e dei fenomeni fisici: essa corrisponde all’immaginazione che, come dicevo, è la percezione degli esseri e dei fenomeni sovrasensibili. Nel mondo fisico il primo passo per conoscere la realtà sta nel percepirla tramite i sensi: la stessa legge si presenta nei mondi spirituali. Ciò significa che gli uomini possiedono organi di percezione non fisici, che possono essere attivati. Ne riparleremo in seguito, a proposito delle tecniche per il cammino interiore.

2. Il nostro pensiero ordinario crea poi i concetti relativi alle percezioni. Quando io dico: questa è una «rosa», compio un processo di enorme portata, che gli animali non sanno fare. Io penso. E dico che quella che vedo, che ho percepito, è una rosa.

Una volta a Monaco, seduto su una panchina, osservavo un cane che correva verso alcuni falchi posati sulla parte opposta di un grande prato: quando stava per raggiungerli, i falchi si alzavano in volo e andavano a posarsi dove prima era il cane. Il cane, di nuovo, tornava indietro e i falchi, di nuovo, si alzavano in volo e si spostavano. Il cane, con la lingua di fuori, avrà fatto una ventina di volte su e giù finché ha desistito; ma solo perché era stremato, mica perché s’era detto: quelli volano, è meglio che lascio perdere! No! Se dopo quelle corse forsennate la compagine fisiologica di quel cane fosse rimasta vitale come all’inizio, l’animale avrebbe continuato in eterno a caracollare di qua e di là.

«Quelli volano» è un pensiero: e un animale non sa pensare. Una persona adulta, al posto del cane, non avrebbe nemmeno cominciato a rincorrere i falchi. Il suo pensare avrebbe detto: quelli volano, perciò non potrò mai afferrarli solo correndo.

Il pensare che interagisce con la percezione esterna è il lato interiore del processo conoscitivo umano. Il lato esteriore l’ho riassunto nel concetto di «mondo della percezione», che viene verso di noi dal di fuori. La mia interiorità è la mia presa di posizione pensante di fronte al mondo fisico, in base alla quale posso poi passare alla mia libera azione in questo stesso mondo che ho percepito e capito.

A me sembra, e lo ribadisco, che viviamo in un tempo di disumana esteriorizzazione perché gli stimoli che vengono dal di fuori sono così prepotenti e virulenti che riescono a determinare la nostra reazione. Perché? Perché una reazione e un’azione che provenissero dall’interiorità umana avrebbero carattere pensante e individuale, cioè proprio quelle caratteristiche in grado d’impedire ogni tipo di manipolazione dall’esterno.

La manipolazione dell’uomo è però un’attività chiaramente organizzata e perseguita, oggi. Viviamo in una cultura sociale dove c’è sempre un enorme squilibrio tra la potenza del mondo esterno e la possibilità di incidere in esso restando ancorati alle forze della propria interiorità.

Il corrispettivo del concetto ordinario, che è l’interpretazione pensante di tutta la realtà già percepita tramite i sensi, nel campo della conoscenza spirituale si chiama ispirazione.

3. Infine, nel processo conoscitivo ordinario, dopo aver aggiunto il concetto (prodotto dalla nostra interiorità) alla percezione che ci viene dall’esterno, perveniamo alla conoscenza vera e propria. Essa avrà ampiezza e profondità diverse in base al rapporto che ognuno sarà in grado d’instaurare tra percezione e concetto pensante. Analogamente, nel processo conoscitivo spirituale all’immaginazione (percezione) si aggiunge l’ispirazione (concetto) e queste due esperienze insieme – ecco di nuovo l’interagire tra esteriorità e interiorità! – danno la conoscenza spirituale vera e propria, cioè l’intuizione.

L’immaginazione: la magia dell’estraneità

L’immaginazione è dunque il primo gradino della conoscenza spirituale. Per maggior chiarezza dobbiamo premettere alcune diversità qualitative che sono riferibili al termine «immagine». Nel quotidiano, noi usiamo indifferentemente la parola «immagine» sia per indicare l’apparire fisico della realtà esterna, sia per indicare esperienze che non hanno a che fare con la percezione diretta di oggetti o di esseri materiali.

Sulle immagini fisiche (la forma delle cose, la fisionomia delle persone, un’illustrazione, una fotografia…) non abbiamo bisogno di soffermarci, perché stiamo riferendoci al campo della ben nota percezione sensoria. Abbiamo però a che fare anche con altri tipi d’immagini che sorgono in modo diverso a seconda che provengano dal corpo, dall’anima o dallo spirito.

La differenza tra corpo, anima e spirito richiederebbe una trattazione diffusa[7]: però, in linea generale, possiamo dire che il corpo è il nostro elemento costitutivo dove la libertà è minima; lo spirito è l’elemento dove la libertà è massima; l’anima è la nostra coscienza ordinaria che oscilla tra l’uno e l’altro, tra determinismo e libertà. Quando l’anima scivola dalla parte del corpo perde la sua libertà, quando si apre alla dimensione dello spirito diventa sempre più libera. Essa è dunque l’elemento della potenzialità, della possibilità, perché può volgersi sia al corporeo (che è così com’è), sia allo spirituale (che è tutta creatività individuale).

A queste tre dimensioni fondamentali dell’umano corrisponde una triplice possibilità di proiettare immagini:

a) L’anima proietta le immagini della fantasia e le rappresentazioni mnemoniche. Se io dico «rosa», nessuno ha bisogno di vedersela davanti per capirmi: ci intendiamo, perché ne abbiamo una proiezione d’immagine a un livello non più fisico. Nella nostra interiorità che cosa abbiamo, noi, della rosa? Abbiamo una rappresentazione animica mnemonica, di tipo retrospettivo. È un processo molto misterioso. Anche le immagini di sogno sono di questo tipo.

In chiave prospettiva, invece, il mondo animico genera le immagini della fantasia: la fantasia crea immagini in modo artistico. Mentre l’immagine mnemonica mi riporta le cose che già esistono e che ho percepito nel passato (e me le riporta più o meno come sono), la fantasia inventa immagini, è proprio l’arte di muoversi nel futuro, e la sua ricchezza differisce da uomo a uomo, a seconda della creatività. Scrittori, pittori sono artisti nella misura in cui sono capaci d’inventare e realizzare immagini che non ci sono mai state. Prima che Michelangelo progettasse la Pietà, o il David, o i Prigioni, o la Sistina, queste forme d’immagini non c’erano.

b) Quando l’immagine viene costruita e proiettata non più dall’anima ma dal corpo, abbiamo ciò che in termini tecnici si chiama allucinazione. L’allucinazione è un fenomeno specifico di proiezione d’immagini dove l’elemento causale è il corpo. L’assunzione di droga, in fondo, è una specie di preparazione a questo fenomeno: sollecitando certi organi vitali, la sostanza stupefacente ne altera le normali funzioni ed essi cominciano a proiettare immagini. Queste immagini non sono altro che l’espressione visiva delle leggi formanti degli organi stessi che sorge quando questi vengono sottoposti a processi di degenerazione.

Che cosa c’è di non giusto nelle allucinazioni? Il rapporto con la libertà. Se l’allucinazione ci lasciasse altrettanto liberi quanto l’immagine di fantasia, andrebbe benissimo. Quel che è intrinsecamente non umano nel fenomeno dell’allucinazione (un fenomeno molto più complesso dei pochi tratti, pur fondamentali, in cui io lo sto riassumendo) è il suo carattere di cogenza, così forte da imprigionare l’essere umano. A volte l’allucinato s’innamora talmente di questo tipo d’immaginazioni che pensa di avere davanti a sé tutto il mondo spirituale squadernato, e si crede più avanti di tutti nell’evoluzione.

Un altro risvolto disumano di queste esperienze è l’impossibilità della comunicazione. Il mondo dell’immagine animica, mnemonica o di fantasia, resta nell’umano proprio perché è comunicabile: gli artisti sono in grado di porgere le loro immagini e noi stabiliamo un vivace rapporto con esse.

Invece il mondo dell’allucinazione frantuma, singolarizza e personalizza talmente ciò che si può rendere in immagini, che finisce per rinserrare la persona in un mondo tutto suo. Nell’esperienza dell’allucinazione scompare il linguaggio comune, e appare il carattere della non-libertà.

Solo in base alla constatazione oggettiva che l’uomo diventa meno libero, abbiamo allora il diritto di avere delle remore riguardo alle droghe; mai in base a comandamenti morali che dicano: la droga è un male. L’unico comandamento morale che esiste è l’interpretazione dell’umano: se un fenomeno favorisce l’umano è buono; se rende l’uomo meno umano, meno comunicativo, meno capace di libertà, allora non è buono. Questo deve essere il criterio, non una norma esteriore codificata.

c) Come l’anima, in casi estremi, quando è satura fino alla nausea esistenziale delle immagini percettive, o mnemoniche, o di fantasia, ha la possibilità di rivolgersi al corpo per spremere e comprimere organi fino a far schizzare fuori da essi le immagini allucinatorie, così l’anima può rivolgersi allo spirito per chiedere l’accesso alle immagini dei mondi spirituali. Questo è il livello dell’immaginazione spirituale.

Si tratta di visioni spirituali vere e proprie, visioni di Esseri spirituali. Se è lo spirito dell’uomo a proiettarle, esse avranno un carattere opposto a quello delle allucinazioni: lasceranno all’uomo la massima libertà.

Chi procede lungo un sano cammino spirituale si rende conto di avere immaginazioni vere per il fatto che non se ne bea, non ne rimane ipnotizzato o insuperbito, ma dice a se stesso: so di essere di fronte a immagini dello spirito proprio perché ho la libertà di non fermarmi a goderle egoisticamente. Ho la libertà di dire a me stesso: adesso sono come un piccolo bambino nei confronti del mondo spirituale; sono arrivato soltanto al punto di cominciare a vedere, ma ancora mi manca la capacità d’interpretare, di prendere posizione a livello pensante.

Si potrebbe dire che se una persona veramente comincia ad avere immaginazioni dello spirituale, lo dimostra in duplice modo: prima di tutto non le racconta a nessuno perché sa di essere soltanto all’inizio; si preoccupa di continuare il lavoro sulla sua compagine interiore (pensiero, sentimento e volontà), del quale lavoro conosce l’importanza proprio in merito al sorgere di queste immagini. In secondo luogo si guarda bene dal cominciare a dare agli altri consigli di percorso.

Il gradino dell’immaginazione sta soltanto a dirci: adesso hai mosso il primo passo e devi continuare. Se ti fermassi qui, alla pura percezione del soprasensibile, sarebbe meglio per te non esserci mai arrivato: perché quel bambino in cima alla collina che vede tutto e non capisce niente, e che magari vuol correre là dove c’è massimo pericolo, è peggio di un bambino che non vede nulla.

Quando si comincia a percepire qualcosa nel mondo spirituale, è forte e pericolosa la tentazione di credersi più avanti degli altri e di cominciare a dare istruzioni. E allora, o si ha la chiara consapevolezza che bisogna salire altri due gradini, oppure è meglio augurarsi di restare nella normale ragionevolezza della comunità umana.

Una piccola riflessione etimologica dice molto sulla natura dell’immaginazione. In latino la parola imaginatio ha in sé la parola magus, mago, dal greco μαγος (màgos), mago, e μαγευω (maghèuo), incanto.

In-maginatio è l’azione magica della percezione a tutti i livelli: al livello dell’allucinazione, a quello della percezione d’immagini fisiche esterne, a quello animico (rappresentazione mnemonica e fantasiosa) e al livello della percezione di Esseri spirituali. L’immaginazione indica l’incontro fra due esseri di cui l’uno imprime un sigillo sull’altro. Come un incantesimo.

Gli scolastici hanno parlato della «specie impressa»: quando io vedo una rosa, essa imprime su di me la sua immagine. Siamo dunque soltanto in una situazione di contatto fra due esseri: la rosa imprime l’immagine nella mia sostanza animica.

Ma perché è un’azione «magica»? Perché questo primo contatto è totalmente esterno, subìto, è un incontro fra estranei, non c’è ancora nessuno scambio tra le due interiorità. Come un timbro lascia sulla carta soltanto l’impronta di sé e nulla della sua sostanza, così quando la rosa lascia nella mia anima il suo calco, la sua forma esteriore (cioè la sua immagine), non c’è ancora nessun rapporto attivo tra la mia interiorità di pensiero, o di volontà, e l’interiorità dell’«anima di gruppo» della rosa. Quest’anima condivisa da tutte le rose fisiche del mondo corrisponde a ciò che gli antichi chiamavano «la specie», la rosa in ogni rosa, la rosa non materiale che ad ogni primavera mostra di aver plasmato ancora una volta la materia in forma di rosa.

Quando vedo una persona, cosa mi viene incontro di lei se non parla e io ne ho soltanto la percezione, l’immagine fisica? Mi viene incontro la sua fisionomia e mi s’imprime dentro: io ho dentro di me la forma del suo naso, dei suoi occhi, della sua statura, della sua testa… Anche i gesti: i gesti non sono ancora parole, e ci vengono incontro come immagini. La parola invece, lo vedremo, opera già al livello ispirativo.

In-maginatio è la magia dell’incontro, del suggello: ciascuno di noi porta dentro di sé un’infinità di immagini impresse, uno stuolo di orme.

L’ispirazione: il dialogo delle anime

Il gradino successivo del cammino spirituale è l’ispirazione: in-spiratio è uno spirare, è un respirare. Adesso succede una cosa del tutto nuova: i due esseri che si sono incontrati a livello d’immagine cominciano a sprigionare la propria interiorità. Parlano. Anche la comune esperienza mi dice che quando l’altro comincia a parlare io non ho più soltanto l’immagine del suo essere, della sua fisionomia che lascia un’impronta in me, ma trapasso da un processo d’impressione a un processo di espressione. Exprimere, comprimere fuori ciò che è dentro. Io comincio ad accogliere i pensieri dell’altro, forse le sue preoccupazioni, la sua gioia.

La fisionomia può darmi della gioia e del dolore un annuncio limitato, a volte addirittura nullo: ci sono persone che non lasciano trapelare niente di ciò che hanno dentro. Nei popoli latini questo fatto è meno frequente: ma se si va al nord bisogna che la persona parli per poter sapere se le va bene o male.

Al livello della percezione sovrasensibile, dell’immaginazione, quando per esempio vedo un Essere di luce davanti a me, come faccio a sapere se è un angelo o un demonio? Dall’immaginazione non lo posso sapere, perché tutti i diavoli di questo mondo fanno del tutto per farsi scambiare per angeli: altrimenti non sarebbero bravi diavoli! Sono bravi diavoli proprio perché s’ingegnano, e ci riescono quasi sempre, a sembrare angeli.

Qual è la differenza fondamentale tra un diavolo e un angelo? Che l’angelo è tale perché vuole il mio bene, vuole la mia crescita, la mia pienezza: vuole essere al mio servizio; invece il concetto scientifico-spirituale di diavolo è quello di un Essere spirituale che vuol servirsi di me per i suoi interessi[8].

Ma come faccio io a sapere se questo Essere bellissimo di luce mi vuole abbindolare per disporre di me, oppure vuol favorire la mia evoluzione? Il livello immaginativo non mi basta, perché è un livello ingannevole come quello della pubblicità, che è fatta per dire: questo prodotto qui è il migliore che ci sia. L’apparenza inganna, dice la lingua italiana. E questo vale a tutti i livelli della percezione: sia sensibile (vedo un uomo che sembra tutto tranquillo e invece dentro di lui c’è la tempesta), sia sovrasensibile (chi mi dice quali intenzioni ha nei miei confronti questo Essere di luce?). Bisogna andare oltre.

Poniamo allora una domanda: visto che ci stiamo occupando di stabilire il giusto rapporto tra il cammino interiore e la vita quotidiana esteriore, qual è il significato che noi diamo alle parole interiore ed esteriore? Nella nostra interiorità, noi abbiamo soltanto il mondo esterno: ciò che normalmente chiamiamo «l’interno», l’interiorità della nostra anima, è in realtà la somma delle rappresentazioni che ci sono venute dal mondo esterno, grazie alla percezione.

Se ciascuno di noi si chiedesse: che cosa porto io nella mia interiorità? e ne facesse l’inventario, si renderebbe conto di avere in sé solo una replica animica del cosiddetto mondo esterno. Il contenuto della nostra interiorità l’abbiamo ricevuto dal mondo esterno, e perciò quest’ultimo è rappresentato nella coscienza di ognuno di noi.

Ora, il problema della mistica, e anche di tanta spiritualità che si rifà all’Oriente, ruota proprio intorno a questo: partendo dall’assunto che si vive all’esterno quando si è immersi nella percezione sensibile, sorge il desiderio di appartarsi e di vivere nella propria interiorità attraverso la meditazione. L’inganno, l’illusione che subito s’ingenera, è quella di credere che penetrando nella propria interiorità vi si troverà il divino. No, se m’immergo nella mia interiorità trovo dapprima unicamente il mio passato, cioè la somma di ciò che l’esterno mi ha consentito di portare dentro.

Più io scivolo dentro di me e più mi allontano, in fondo, dal divino vero e proprio perché mi esteriorizzo sempre di più. Queste cose si possono dire soltanto tramite para dossi, e spero perciò che sia chiara l’importanza del carattere paradossal-provocatorio di ciò che sto dicendo. Se il divino vero e proprio, il divino oggettivo e spirituale, non lo trovo rimuginando dentro di me, dove lo trovo, allora? Il divino lo trovo proprio nel mondo esterno. Questa è la risposta che dà una scienza dello spirito che sia davvero forgiata per i nostri tempi.

La mia dimensione divina non è dentro la mia cassa toracica e, paradossalmente, neanche il mio Io è dentro di me: l’Io sostanzialmente spirituale, le mie vere forze spirituali, sono squadernati là dove mi chiama il mio destino, il mio karma.

In altre parole, le categorie di interno ed esterno sono di tipo spaziale, valgono solo per il mondo materiale e non servono a nulla per ciò che ha sostanza spirituale. Nello spirituale non ci sono esteriorità e interiorità. Soltanto riguardo a un luogo fisico noi possiamo dire: ci sono persone dentro e altre sono fuori. Le categorie di interno ed esterno sono diventate popolari ad ogni livello nella nostra epoca, ma stanno proprio a dirci che viviamo in un materialismo da superare (non da condannare!); l’importante è riuscire a rendersi conto che in fatto di realtà spirituali l’esterno e l’interno sono concetti falsi.

Facciamo un’osservazione semplice per verificare quel che sto dicendo: la fantasia un po’ bambina immagina che in questa sala sia interno a ciascuno di noi quel che avviene dentro la nostra pelle, e che voi ed io siamo invece reciprocamente esterni.

Invece è vero l’opposto. Lo scambio di riflessioni che avviene in questa sala è massimamente interiore per tutti, poiché tutti siamo in contatto diretto. I pensieri e le parole che ora sto esprimendo sono per me e per voi molto più interni dei processi fisici che avvengono nel nostro cervello fisico, o nello stomaco, e di cui non abbiamo la minima idea ed esperienza. Quel che avviene nel nostro corpo ci è del tutto esterno perché non possiamo entrarvi dentro con la chiarezza della nostra coscienza.

In sintesi, interno al mio essere è tutto ciò col quale io acquisisco un rapporto reale di percezione e di pensiero. Dove non ho né la percezione sensoria né l’attività pensante che le conferisce significato, sono all’esterno, sono fuori di me. Del tutto esterni sono i processi della digestione, per esempio: è vero che si svolgono dentro il mio corpo, ma io non ho né la percezione né la minima coscienza di come essi avvengano.

Paradossalmente dovremmo dire: ciò che gli esseri umani, in questa fase di materialismo, chiamano l’esterno è di fatto ciò che è interiorizzabile al massimo, proprio perché è percepibile e dunque afferrabile dalle forze del pensare; il cosiddetto interno è invece minimamente interiorizzabile, perché non è né percepibile, né pensabile.

Però i reni, i polmoni, i vari organi si possono percepire…

È vero, ma soltanto se li tiriamo fuori e quindi li esteriorizziamo: dopo averli posti su un tavolo anatomico sono passibili di interiorizzazione. Oppure posso visualizzare e interpretare lo stato degli organi con strumenti come le radiografie, le ecografie, le TAC, e simili. Anche quando mi fa male lo stomaco accade la stessa cosa: il dolore fisico mi aiuta a rivolgere l’attenzione verso processi che normalmente ignoro.

Queste riflessioni sono dei tentativi per mostrare quanto profondamente abbia attecchito nella nostra cultura il materialismo che stravolge la natura delle cose. Noi viviamo in grandi illusioni: chiamiamo mondo esterno quello che più d’ogni altro siamo in grado di portare in noi grazie alla percezione e alla penetrazione pensante; chiamiamo invece interno un mondo che resta del tutto inaccessibile ed esterno a noi che siamo esseri spirituali capaci di conoscenza.

Il problema, quindi, dell’esteriorizzazione e della conseguente alienazione dell’uomo moderno non sta nel fatto che il mondo è fuori di lui, ma nel fatto che egli lavora troppo poco a interiorizzarlo. Pensa troppo poco. Riflette troppo poco. Il mondo cosiddetto esterno è una potenzialità infinita di interiorizzazione: però, se io, quale essere spirituale pensante, tralascio di conoscerlo, di renderlo dicibile, di capirne il senso e la positività, non posso poi incolpare le cose di essermi estranee, ostiche e ostili.

Vedremo come uno degli esercizi fondamentali del cammino interiore è proprio quello della «positività»: che non è l’atteggiamento dell’oca giuliva, ma è lo sguardo, la posizione pensante nei confronti del cosmo che conferisce qualità evolutiva a tutto ciò che esiste.

Seppure i dati della percezione mi vengono dal mondo cosiddetto esterno, il pensiero che li interpreta non è tuttavia insito in essi: non posso pretendere che il mondo pensi al posto mio e mi offra la conoscenza bell’e pronta, perché allora sarei davvero come la ruota di scorta del divenire e non avrebbe senso il mio stesso esistere. Io vivo la mia dignità di essere spirituale e lo spessore sommo della mia interiorità quando riservo a me stesso il pensare. Così interpreto il cosmo e sono libero, senza automatismi conoscitivi.

Se io sono un essere di libertà[9], tutto ciò che avviene in me per automatismi è spurio, non ha a che fare col mio vero essere, mi è esterno e di fronte ad esso io mi perdo, non attuo il mio spirito. Quando invece vivo nella libertà, quando sono io a gestire i pensieri sul cosmo, allora sono nel mio essere, sono all’interno della realtà ed esercito la mia libertà.

Quando sono dentro la creatività libera dello spirito io sono centrato, sono ancorato in me stesso e al contempo vivo in comunione col cosmo; sono sommamente esteriorizzato quando tralascio di essere attivo nei confronti del cosmo e non esercito la mia dimensione spirituale, creativa e libera.

L’attività spirituale è il gradino sommo dell’interiorità; la passività è il gradino sommo dell’esteriorità. I concetti di interno e di esterno sono suscettibili di ampliamenti e non vanno lasciati al livello dello spazio fisico: dobbiamo imparare a riferirli allo spirito umano, al suo grado di libertà o di non libertà. Sono nel sacrario più interno di me stesso quando mi muovo nella sovranità della libertà; mi lascio profanare, esco fuori dal tempio del mio Io (profano è tutto ciò che è fuori dal tempio) quando perdo la libertà creatrice e la vita mi spinge, mi trascina, mi fa.

L’accesso all’interiorità dell’altro comincia nel dialogo perché l’interiorità per natura sua si sprigiona e si comunica.

L’intuizione: il riposo nello spirito dell’altro

C’è un gradino ancora più alto e completo di interiorizzazione, ancora più profondo: è l’intuizione. Lì avviene non soltanto l’espressione dell’interiorità di due esseri che, pur comunicando, restano sempre due esseri diversi, ma si vive la comunione. La comunione è la perfezione della comunicazione.

Nella comunicazione (che corrisponde all’ispirazione sovrasensibile), c’è il superamento della percezione (cui corrisponde l’immaginazione), nel senso che non soltanto percepisco l’essere dell’altro, ma accolgo nella mia interiorità la comunicazione della sua interiorità. Il terzo gradino, la comunione (che corrisponde all’intuizione) è la capacità d’immedesimarmi talmente nell’altro da coglierne il centro reale e puro, così che tutti gli elementi di comunicazione diventano per me vie che vanno sempre diritte al suo nucleo spirituale.

È la stessa differenza che noi facciamo tra i tanti amici che conoscono molte cose di noi e quella persona – normalmente è una o forse sono due, non di più – di cui diciamo: lei non è soltanto una persona amica, non conosce soltanto tante cose di me; lei conosce me. La diversità è abissale. Molti conoscono numerosissime manifestazioni del mio essere, ma quella persona mi conosce nel centro, nel fondamento del mio essere, nella sorgente che dà il significato vero a tutte le mie più varie manifestazioni.

La persona che è in comunione con me ha trovato la spiegazione unitaria di tutte le mie espressioni; gli altri, anche se li chiamo amici, devono interpretare, devono stabilire un rapporto tra quello che comprendono e quello che si manifesta, devono cercare sempre di nuovo una chiave di lettura per le mie comunicazioni che possono apparire contraddittorie. Perciò di fronte all’esperienza della comunione noi diciamo: questa persona conosce me, mi conosce nel più profondo dell’essere.

La parola comunione, comune unione, cosa sta a dire? Che l’unione di due esseri è reciproca: io sono uno con lui, ma anche lui è uno con me. Ecco la «comune unione». Quando io faccio l’esperienza di incontrare un Essere spirituale (un uomo, un angelo, un arcangelo…) che coglie il mio essere e si mette in sintonia col mio nucleo più profondo in modo da non trovare più incongruente nessuna mia manifestazione, e io, dal canto mio, sono in grado di entrare nell’intimo del suo essere, allora diventiamo uno.

A questo livello cessa la parola perché, in fondo, non c’è più nulla da dire; il dire è ancora un livello di realtà che poggia sul susseguirsi delle cose una dopo l’altra: non c’è mai il «tutto insieme». Quando questo c’è, si tace. Anche nella vita comune, quando due persone fanno l’esperienza privilegiata e profondissima della comunione assoluta, in quei momenti tacciono. Perché la parola sarebbe di nuovo un tentativo di esteriorizzare. Nella comunione l’interiorizzazione è totale. Nella comunione il tacere è ben diverso da altri silenzi: il più delle volte oggi si tace perché non si ha nulla da dire. Quel tipo specifico di tacere è così raro che facciamo una gran fatica a capire ciò che Steiner intende quando parla di comunione, di intuizione.

La parola intuizione non deriva, come potrebbe sembrare, da intus-ire, andare dentro. Come in-maginatio è l’imprimere magico, ancora senza libertà, dell’immagine mia sull’essere dell’altro; come in-spiratio è il comunicare all’altro, lo spirare, il manifestarsi del mio essere; così intuizione viene da tueor, che vuol dire proteggere. Tutus vuol dire sicuro, protetto.

È il riposare dentro l’essere dell’altro e sentirmi al sicuro, perché anche l’altro si sente accolto e tutelato dentro il mio essere. Tutus intus - in tutus, ciò che nella tradizione esoterica si chiama il riposare in Dio. Mi sento protetto, mi sento del tutto a casa nell’essere dell’altro, perché l’altro non solo mi comprende nell’intimo del mio essere, ma mi conferma e mi accetta senza condizioni. In-tueri: diventare l’uno per l’altro il luogo di albergo sicuro, il luogo di riposo.

Per questo c’è nel cosmo il livello delle stelle fisse, il cielo del riposo. Lì si è oltre la sfera planetaria, che è il livello dell’ispirazione, del dialogo cioè, del movimento, della comunicazione: πλανητος (planetòs) in greco significa errante, che si muove. Ma c’è una sfera ancora più remota, abissale e profonda del cosmo dove gli Esseri sono a casa propria e riposano gli uni dentro gli altri: quelle sono le stelle «fisse», cioè a riposo. Io sono la tua casa, tu sei la mia casa: per sempre.

Le stelle sono un’immagine di eternità così come i pianeti sono l’immagine del tempo, delle cose che vengono una dopo l’altra, delle parole che si pronunciano una dopo l’altra – la musica celeste del dialogo cosmico che ha sempre nuove cose da dire. Al livello delle stelle fisse tutto è già stato detto e benedetto, cioè detto bene. È il luogo della pace interiore, del grande Padre cosmico che tace, perché nel momento in cui esprime il suo Logos fa sprigionare il livello dei pianeti, che sono le sue parole e i suoi gesti euritmici: si scende al livello dell’ispirazione. Ancora più giù abbiamo la sfera degli elementi, il mondo fisico percepibile: sorge l’esteriorità, sorge l’immagine. È come scendere tre gradini: eternità siderea, ritmo e tempo planetari, frantumazione terrestre.

Ma perché è stata rotta la grande pace cosmica della comunione? Se ci fosse solo comunione, senza alcuna possibilità di esteriorità, non ci sarebbe autonomia nel cosmo. Il significato evolutivo dell’esteriorità è l’acquisizione dell’individualità libera e autonoma: se noi non avessimo mai avuto la possibilità di sentirci esterni, indipendenti, staccati gli uni dagli altri, non avremmo mai potuto acquisire la dimensione della creatività, della libertà. E nemmeno potremmo, ora, avviarci liberamente verso la comunione vera, quella che non annulla mai l’individualità perché gli esseri, l’uno dentro l’altro, restano individuali, uniti e liberi.

Il terzo gradino, allora, quello della Terra, degli elementi, dell’esteriorità, il gradino della percezione dove è possibile l’esperienza dell’impingere l’uno sull’altro, dell’imprimere immagini e rappresentazioni, questo terzo livello del cosmo è sorto per far acquisire a ciascuno di noi l’esperienza della singolarità autonoma.

Noi abbiamo così a disposizione tutti e tre i gradini del cosmo e in essi siamo immersi:

• viviamo nella percezione, nell’immaginazione, cioè nell’incontro dapprima esterno con gli altri esseri;

• poi instauriamo un dialogo, proprio come fanno i pianeti al loro livello ispirativo, e avviene la reciproca espressione delle interiorità, la condivisione conoscitiva, la comprensione delle infinite manifestazioni degli esseri che vanno narrandosi, all’infinito;

• infine, abbiamo il riverbero delle stelle fisse in quei momenti privilegiati di pace e di riposo non nella solitudine, ma nel cuore di un altro essere, nella sorgente d’irraggiamento del suo spirito dove più che mai può vivere la nostra individualità perché l’altro la ama così com’è.

L’interiorizzazione del cosmo

Per noi è un ideale evolutivo e finale l’interiorizzazione di tutto il cosmo: per questo è importante stabilire il giusto rapporto tra il cammino interiore e la cosiddetta vita esteriore quotidiana e sociale. Così facendo per prima cosa ci accorgeremo di quanto siamo superficiali nei nostri concetti di interno e di esterno: esterno, l’abbiamo detto, è in realtà solo ciò che io non ho ancora amato e non ho ancora capito. Io interiorizzo gli esseri e le cose nella misura in cui li comprendo e li amo.

Perciò la vita sociale quotidiana rappresenta il compito evolutivo di ogni uomo: cogliere il significato del cammino dell’umanità e amarlo. È un cammino che parte da questa lacuna dell’universo in cui ci troviamo ora, dove l’esteriorizzazione è massima, dove gli esseri si sentono estranei fra loro, dove ognuno ha l’impressione di non essere capito da nessuno, ma anche dove ogni essere attende di riposare nello spirito dell’altro.

Se tutto il mondo non fosse diventato esterno non avremmo nulla da interiorizzare, non avremmo nulla da fare; il carattere bello e positivo di tutto quello che ancora ci è estraneo sta nel fatto che portiamo dentro di noi le forze per interiorizzarlo. Queste forze sono duplici, se ricondotte al loro carattere fondamentale: ho la possibilità di interiorizzare in chiave di pensiero tutto ciò che mi è esterno, e allora ho la conoscenza; e ho la possibilità di interiorizzarlo con le forze del cuore, e allora ho l’amore. Di sicuro scoprirò che la vera conoscenza vuole amare quel che conosce, e il vero amore vuole conoscere quel che ama.

L’interiorità degli esseri è il loro significato nel cosmo e io entro nell’interiorità degli esseri tanto quanto riesco ad amare questo significato. Se una persona, per via del suo carattere difficile, è per me una massima provocazione allo scontro, posso realmente incontrarla e interiorizzarla nella misura in cui trovo la forza di amarla, proprio perché è difficile. Le cose più difficili meritano di essere amate di più perché ci provocano a gesta più grandi, sia della conoscenza sia dell’amore.

Il cosmo è allora la cosa più difficile che ci sia perché è una passibilità, una potenzialità infinita di interiorizzazione.Il cosmo è un grandioso ventaglio di esteriorità, ma è fuori di me soltanto perché non l’ho ancora capito e amato. La mia potenzialità evolutiva coincide allora con la potenzialità d’amore e di conoscenza che vive in me.

Questo cammino di interiorizzazione che va dall’attenzione percettiva, alla comunicazione dell’interiorità e alla comunione, questo arduo cammino dell’assunzione di tutto il cosmo da parte dell’uomo, si compie sempre.

Anche quando voglio concentrarmi e il traffico della città mi stordisce, per esempio. Come reagisco, io? Se mi arrabbio, il caos mi resta esterno perché lo rifiuto. Esterno è tutto ciò che io rifiuto. Se invece dico: «Ah, è nel mio karma che adesso, con tutta questa confusione, ci sia il rischio di perdere una buona metà delle mie forze d’attenzione», cosa diventa il rumore delle macchine? Una provocazione alla concentrazione.

Nel momento in cui io accolgo positivamente il rumore delle macchine, lo interiorizzo: e se noi stiamo studiando le cose più profonde di questo mondo e in strada c’è un tripudio di clacson… è il nostro karma, e va bene così. Se una persona medita veramente concentrata non soltanto qualunque tipo di confusione non la disturba, ma potrebbero sparare un colpo di cannone accanto a lei e non lo sentirebbe.

La differenza tra l’essere fuori e l’essere dentro è tutta nel pensiero e nell’amore. È fondamentale la capacità di accogliere ciò che accade con l’atteggiamento di capirne tutta la positività evolutiva: questa è l’interiorizzazione del mondo. Io sono dentro le cose quando ne comprendo il senso evolutivo. L’unica estraneità che io posso vivere è sempre dovuta a me: non è mai il mondo a tagliarmi fuori, questo non è possibile. Isolarmi può essere solo faccenda del mio pensiero e del mio cuore.

Soltanto io posso tirarmi fuori dal mondo quando tralascio di rituffarmi nella sua interiorità, comprendendone il senso e amandone il significato. E quando comprendo le cose, nessuna mi appare mai banale. Banale è soltanto ciò che non capisco, proprio perché non lo capisco. Anche il frastuono delle macchine cessa di essere banale, oltre che fastidioso, quando lo accolgo come una provocazione non leggera, come una prova non insignificante. Di poco conto, allora, è soltanto ciò che io non comprendo.

Questo processo di interiorizzazione è un cammino, è proprio l’esercizio quotidiano della nostra umanità e dunque della nostra libertà. Il travaglio della vita, la bellezza della vita, l’esercizio di essere uomini, consiste nell’eterna interiorizzazione di ciò che ci si presenta come se fosse esterno. Come se.

DIBATTITO

Intervento: Come si pone la scienza dello spirito e come si pone lei, in particolare, di fronte a forme di disagio che dalla psichiatria vengono classificate come malattie mentali e che comportano anche fenomeni allucinatori?

Archiati: Ritorniamo all’affermazione che ho già espresso e che possiamo verificare nella vita quotidiana. Ci sono tre realtà fondamentali capaci di architettare immagini: il corpo, l’anima e lo spirito. Il corpo è da noi minimamente conosciuto perché la cosiddetta materia è un elemento di massima impenetrabilità: ci vuole la forza dello spirito più alta e profonda per penetrare la materia – la forza del Padre.

Quindi nel corporeo ci sono misteri molto più profondi che non nell’animico: l’animico ci è più noto, lo viviamo direttamente. Eppure, abbiamo detto, la realtà corporea ha una sua capacità di proiettare immagini se è sollecitata tramite droghe, per esempio, o alcool, o farmaci: e queste immagini accattivano l’anima fino a imprigionarla. Anche i fenomeni di «droghe animiche» cui lei si riferisce (le idee ossessive, per esempio, le fobie, gli attacchi di panico o vari altri tipi di disturbi psichici) possono agire in modo simile sugli organi fisici.

La sua domanda, però, posta in chiave terapeutica, mi pare chieda: cosa si può fare?

Ci sono tre livelli di terapia[10] – sul corpo sull’anima e sullo spirito – e ognuno dei tre si riversa, naturalmente, sugli altri; corpo anima e spirito non sono compartimenti stagni, c’è osmosi tra l’uno e l’altro pur trattandosi di tre campi ben specifici, dotati di leggi proprie.

C’è un tipo d’intervento terapeutico sul corpo che ha la sua importanza ed è il più difficile, proprio perché ci si trova di fronte ai misteri sondati dall’uomo solo in modo iniziale; c’è poi il livello d’intervento sull’anima, che è già più praticabile; infine c’è un tipo d’intervento sullo spirito, che sarebbe il più semplice e diretto di tutti se solo noi avessimo una cultura abituata a coltivare lo spirito.

Il veicolo fondamentale d’intervento sullo spirito è il pensiero, il convincimento: in base al libero convincimento una persona che viva nella prigionia di queste immagini allucinatorie può uscirne. Ma, sia chiaro: il lavoro sullo spirito è a lunga scadenza, e proprio per questo avrà più successo se gli si concede il tempo lungo; il lavoro sull’anima è a media scadenza; il lavoro sul corpo è sempre a breve scadenza e ha anche risultati più limitati. Però, quando un’operazione chirurgica va fatta, va fatta. L’intervento sul corpo è fondamentale nella misura in cui la base corporea è compromessa a un punto tale da impedire il lavoro sull’anima e sullo spirito.

L’intervento sul corporeo ha il significato di mettere l’anima e lo spirito in condizione di funzionare nuovamente. Se manca la salute fisica, il corporeo assume la massima importanza: se il corpo non va, è inutile che io mi appelli a un’anima che non è in grado di ricevere, o a uno spirito che forse non è nemmeno presente. Però, quando ho ripristinato le basi corporee cosa ho raggiunto? Niente. In fondo, ancora niente. Ho soltanto ristabilito le condizioni necessarie per avere la possibilità d’interpellare l’anima e lo spirito: questo è il lavoro ulteriore che va fatto.

In che modo avvengano l’intervento sul corporeo, l’interazione con l’animico e la guarigione tramite lo spirito non si può dire in una parola: ritorniamo, però, al carattere di specificità e differenza fra le tre sfere umane.

Il corpo, la materia in senso lato, è condizione basilare per l’esercizio delle attività dell’anima e dello spirito, ed è il luogo dove si manifestano gli effetti di ciò che l’anima e lo spirito conquistano oppure omettono. Lo spirito è la causa prima di ogni manifestazione, e poiché causa a lunghe scadenze bisogna andare molto indietro nel tempo.

La psicologia, che indaga la sfera mediana dell’anima, ci ha abituato a non restare miopi nell’osservare il nesso tra causa ed effetto: cento, duecento anni fa, nessuno avrebbe pensato che la causa di un fenomeno animico del presente (una paura, per esempio) potesse risalire a decenni prima. Oggi sappiamo che la causa di certe disfunzioni dell’anima in un adulto vanno ricercate addirittura nell’infanzia. A questo punto potrebbe sorgere la domanda: perché fermarsi all’infanzia? Perché non andare oltre la nascita e risalire a vite terrene precedenti? Ma non è questo il contesto giusto per procedere in questa direzione conoscitiva[11].

Limitiamoci perciò a dire che la struttura di causazione è sempre la stessa, in ogni fenomeno: l’origine è sempre nello spirito, perché l’uomo è un essere spirituale. Col passare del tempo l’effetto si trasfonde nell’anima e ancora col passare del tempo si manifesta nel corpo. Quindi il corporeo è il terzo gradino di effetto.

Il materialismo, in fondo, è una specie di miopia culturale che si fissa sul corporeo, disattende, per lo meno in parte, la sfera dell’anima e ignora lo spirito: tant’è vero che addirittura nei corifei culturali della spiritualità occidentale la differenza tra anima e spirito è andata persa. Invece nella scienza dello spirito la differenza tra spirito e anima è molto più portante e indagata che non la differenza tra corpo e anima.

Si tratta, allora, di avere il coraggio di ricomplessificare le cose e di non sperare in comode semplificazioni: un fenomeno di allucinazione è un enorme fenomeno, è un precipitato a livello corporeo di un lungo cammino animico e di un ancor più lungo cammino spirituale. Le cose non vanno prese alla leggera.

L’intervento sul corporeo sarà di estrema difficoltà perché è ingenuo pensare a terapie generalizzabili: del resto, il futuro della terapia, in tutti i campi, è l’individualizzazione. L’origine delle allucinazioni in un individuo sarà sicuramente di diverso tipo rispetto a un altro individuo: porgere all’uno e all’altro la terapia adatta significa allora, per il terapeuta, far crescere l’intento di entrare non solo in comunicazione, ma in comunione con l’essere del paziente per poter pervenire all’intuizione terapeutica, puro atto d’amore e di conoscenza.

La fantasia morale dell’amore richiede un livello di evoluzione di millenni: e ce li abbiamo tutti davanti. Si diventa molto modesti quando si è di fronte a problemi come quelli delle allucinazioni: ci si rende conto che affrontarli richiede cammini conoscitivi dei quali siamo solo all’inizio, e lungo i quali la scienza dello spirito, per esempio, ci consente di avviarci con strumenti validi e rinnovati.

Intervento: Vorrei ritornare sulle caratterizzazioni che prima sono state date dell’immaginazione, dell’ispirazione e dell’intuizione, su cui non ho nulla da eccepire: volevo solo fare alcune considerazioni sul fatto che queste sono pur sempre schematizzazioni. Nella realtà questo universo di immaginazioni, ispirazioni e intuizioni, e la nostra possibilità di combinarle, presuppone il fatto che non sempre le possiamo dividere con l’accetta e dire: questa è un’esperienza unicamente ispirativa, questa è immaginativa e quest’altra è intuitiva.

Vorrei fare un esempio nel campo artistico: guardando questo quadro appeso alla parete, per esempio, possiamo avere un primo impatto superficiale e immediato con l’immagine, e lo poniamo alla stregua della percezione di altri oggetti presenti in questa sala. Distogliendo l’attenzione visiva, avremo in seguito una rappresentazione mnemonica di questo stesso quadro.

Se però noi lo osserviamo con maggiore attenzione e partecipazione, possiamo anche notare il movimento che le varie figure suggeriscono nella loro interazione, entrando così in una dimensione ispirativa.

Possiamo poi fare un ulteriore sforzo e vedere se c’è una sintesi, un’unitarietà, un’armonia complessiva in questo quadro e avvicinarci così all’elemento intuitivo.

Anche questa può essere naturalmente una schematizzazione che porta giudizi limitativi sulla realtà. Ma proviamo a movimentare la cosa. Se guardiamo quell’altro quadro, a tutta prima dà un’immagine meno armoniosa dell’altro, e dal punto di vista immaginativo potrebbe essere anche meno bello: se però cerchiamo di avvicinarci al livello intuitivo, vediamo una serie di elementi di contrasto e lotta in cui non c’è un compiacimento del brutto, ma anzi nasce una tensione verso l’unità. Possiamo allora dare un giudizio più completo e attivo perché la nostra volontà entra maggiormente in gioco, e noi siamo più liberi di quanto non ci accada dicendo: questo quadro mi piace e quest’altro non mi piace.

Quando noi cerchiamo di arrivare all’elemento intuitivo in campo artistico, supposto che questo elemento intuito sia anche bello in se stesso, possiamo sperimentare il sublime. Per esempio nell’Inno alla gioia di Beethoven possiamo vivere non solo la perfezione formale, ma anche una grande orchestrazione, e l’elemento di volontà proiettato verso il futuro: il tutto dà una sintesi intuitiva eccezionale per cui siamo veramente di fronte al sublime.

Archiati: Un breve commento a questo intervento: gli schemi sono canovacci che da soli, certamente, non servono a nulla. Sono punti di orientamento. L’importante è quel che io faccio di uno schema, il modo in cui me ne servo. Questi tre gradini sono punti di riferimento: i passaggi, i modi di andare dall’uno all’altro sono complessissimi e infiniti. Quindi hai ragione quando dici: lo schema in sé e per sé non dice nulla.

Però, se io non ho cardini di riferimento sono del tutto disorientato. L’importanza di questi punti di orientamento è fondamentale perché è altrettanto fondamentale che io sappia distinguere un rapporto di pura esteriorità, che mi permette di essere autonomo e staccato, da un rapporto di interazione, che è medio tra interiorità e esteriorità, e un rapporto di massima inclusione reciproca. È quindi importante che io sappia individuare i tre livelli di base. Ma è chiaro che i passaggi sono molteplici e sfumati.

Mentre tu ci descrivevi quel quadro, sai cosa pensavo io? Dicevo: chi sta parlando dei tre livelli rispetto al quadro non vuole che io mi fermi alla percezione del suo essere (fisionomia, gesti ecc.), che è visiva, percettiva, ma vuole che io ascolti quello che ha da dire. Tu ti attendevi da noi attenzione a ciò che facevi sprigionare dal tuo essere, ai pensieri che venivano fuori da te. Ci chiedevi il livello ispirativo. E se poi ci fosse stato qualcuno, qui, in grado di cogliere attraverso le manifestazioni dei tuoi pensieri il nucleo unico e irripetibile del tuo essere, l’ispirazione sarebbe stata l’ala per entrare, almeno di un soffio, nel gradino intuitivo: perché tu non volevi che noi capissimo soltanto le tue parole. Avresti desiderato che noi capissimo te.

Intervento: Vorrei un chiarimento per evitare confusioni: l’esempio che l’amico ci ha or ora portato riguardo al quadro, secondo me era relativo al processo conoscitivo ordinario di percezione, concetto e conoscenza, che tutti conosciamo, e non ai fenomeni spirituali di immaginazione, ispirazione e intuizione. Questi ultimi non hanno nulla a che vedere con il fatto che io ho una realtà sensibile davanti, me ne faccio un’immagine, ci rifletto e infine cerco il nucleo unitario. Sono realtà diverse, sono esperienze separate.

Archiati: Certo che sono esperienze diverse perché le une sorgono per percezione di realtà sensibili e le altre per percezione di realtà spirituali. Ciò che mi premeva chiarire tramite il confronto fatto con i gradini di conoscenza noti a tutti noi è che, pur parlando di percezione, ispirazione e intuizione spirituali, noi parliamo pur sempre della modalità operativo-conoscitiva dell’essere spirituale chiamato «uomo». Quando l’uomo è incarnato non muta natura: è sempre un essere spirituale, sia che se ne renda conto, sia che non se ne renda conto.

L’attività immaginativa, ispirativa e intuitiva in lui rimangono le stesse e sono ordinate dalle stesse leggi che vigono nel mondo spirituale; ciò che cambia è lo stato di coscienza dell’incarnazione che, a questo livello evolutivo, è ancorato alla materia con tutte le conseguenti illusioni alle quali abbiamo fatto cenno, soprattutto rispetto ai concetti di interno ed esterno.

Il passaggio dalle immagini dell’anima a quelle puramente spirituali è dato dalla nostra capacità di formare concetti – e di questo passaggio tutti possiamo avere esperienza. Il concetto è il livello ultimo dell’immagine che poi sfocia nell’immaginazione sovrasensibile. Nel nostro pensiero ordinario, quando abbiamo cura che il concetto enunci la verità delle cose che stiamo significando, siamo già nello spirito, siamo oltre la mera rappresentazione animica che riproduce le cose, siamo già in una dimensione creativa incarnata. Pur tuttavia un concetto non è un’immaginazione.

Per questo quando, nello stato incarnato, sorgono spontaneamente immagini spirituali l’individuo dice: qui è successo il finimondo! Mi trovo di fronte a un fenomeno del tutto nuovo che prima non ho mai vissuto. Lo sa bene, questo. Una persona che soggiace ad allucinazioni descrive immagini in modo tale che chi ascolta può provare paura, oppure può pensare che siano tutte invenzioni. Chi non ha mai avuto allucinazioni non sa cosa siano.

Parecchi anni fa, quando per la prima volta mi sono trovato di fronte a una persona che aveva allucinazioni, io non capivo assolutamente di cosa stesse parlando. E dicevo tra me: ma che inventa? Mi ci è voluto del tempo per rendermi conto che le allucinazioni sono realtà: mancandomi un’esperienza diretta ho dovuto prendere sul serio l’altro perché, in base al suo comportamento, lo vedevo alle prese con un fenomeno reale che io non conoscevo.

La percezione della pura spiritualità è un gradino del tutto nuovo che noi normalmente non conosciamo e ci viene detto, come precauzione: stai attento! non arrivare a questo gradino con la presunzione interiore di credere di essere più avanti degli altri. Dovresti sapere già in partenza che è un’ingiunzione a camminare oltre. Questo è il motivo per cui l’immaginazione spirituale non viene data spontaneamente all’uomo d’oggi: nel suo egoismo rischierebbe di prenderla come lo stadio definitivo anziché come l’indicazione di un cammino ulteriore.

Intervento: Lei ha parlato prevalentemente della comunione fra due esseri: ma è possibile una comunione all’interno di una comunità di esseri? L’esperienza del comunismo che è stata fatta in alcuni Paesi, penso all’Unione Sovietica, non può essere una confusione di livelli, una sorta di arimanizzazione della comunione sul piano della comunità di cose? I beni vengono forzosamente tolti all’individuo per ammassarli al servizio di un sociale al quale manca il livello della comunione animica, e perciò la soggettività finisce per cozzare contro questa realtà.

Archiati: Prendiamo di nuovo due estremi come due immagini di unilateralità: un estremo è l’egoismo, dove ognuno vuole affermarsi nella sua autonomia, nella sua indipendenza, nel suo essere diverso ed esterno agli altri; l’altro estremo è quello della comunanza dovuta alla perdita dell’individualità. Questi sono i due estremi da evitare: la falsa comunione che annulla l’individualità, e la falsa individualizzazione che perde la comunicabilità.

L’arte della vita consiste nel far la sintesi fra questi due poli: essere massimamente individuali nella comunione, ed essere massimamente in comunione nell’esercizio della propria individualità.

Allo stadio attuale dell’evoluzione, la percezione coglie l’essere umano a un livello di somma esteriorizzazione: noi siamo nel massimo disgregamento, e la percezione è l’esperienza dell’essere gli uni fuori degli altri. La prima metà dell’evoluzione ha avuto lo scopo di estrometterci dal grembo divino – dal paradiso terrestre, dove c’era un’unità originaria senza individualizzazione – in modo che potessimo acquisire l’autonomia. I miti esprimono questo mistero evolutivo nello smembramento di Dioniso, di Osiride, di Ymir (l’uomo originario nella mitologia nordica germanica): l’atomizzazione dell’umanità che cade nella materia, luogo della frammentazione[12].

Quindi da una prima fase di comunione primigenia, senza individualità, siamo passati all’odierna fase media di estrema individualizzazione, senza comunione: è un periodo evolutivo di grandi egoismi, ma indispensabile. Il compito che ci sta davanti è quello di sintetizzare l’una dentro l’altra queste due fasi che abbiamo vissuto l’una dopo l’altra. La sintesi sarà quella di vivere al contempo la massima individualità e la massima comunione.

In che modo vivo la comunione nell’individualizzazione? Quando amo e voglio l’unicità dell’altro: quando questo accade io ho la duplice esperienza della comunione profondissima col suo essere e dell’affermazione assoluta della sua e della mia individualità. Però, dicevo, questo è un compito evolutivo di millenni, e la tendenza all’unilateralità è ancora fortissima. In fondo, il mondo cosiddetto capitalistico che cos’è? È l’affermazione dell’individualismo a scapito della comunione. Cos’è il cosiddetto comunismo? È un fenomeno culturale di enorme portata che vuole privilegiare la comunione a svantaggio dell’autonomia individuale di ciascuno[13]. Ho semplificato molto, ma spero che mi intendiate.

Il compito della sintesi, infine, non riguarda il solo pensiero: non basta capire. La sintesi è un infinito compito di trasformazione di forze: l’armonia, l’amore reciproco, la comunione tra individualità non sono mai acquisibili una volta per sempre. Sono la conquista libera di ogni momento, rinnovata nella presenza di spirito.

Intervento: Vorrei un chiarimento sul caso particolare di Anna Catharina Emmerich, una suora vissuta nel 1800, che ha avuto per lungo tempo visioni sulla vita e la passione del Cristo, con innumerevoli particolari. A me sembra, però, che quelle visioni non siano giuste: io ho l’impressione che la vita di Gesù Cristo non sia come la racconta la Emmerich. Allora mi chiedo: questo è un caso di allucinazione, d’immaginazione o d’ispirazione? Si possono avere immaginazioni o ispirazioni non giuste?

Archiati: Torniamo al paragone con la percezione sensibile: non avendo noi normalmente la percezione sovrasensibile (o immaginazione), basiamoci sulla percezione sensibile. Sono possibili errori nella percezione sensibile? No! Goethe, nei suoi Detti in prosa, dice delle parole auree: «I sensi non ingannano mai. Il giudizio inganna». Quando io mi attengo a ciò che mi dice la percezione sensibile, la descrizione di quel che vedo non è né giusta né sbagliata: è così com’è. Il cosiddetto sbaglio avviene quando interpreto la mia percezione: nel far ciò posso sbagliare perché l’interpretazione tende sempre ad assolutizzare un punto di vista.

I punti di vista sono tutti giusti: però, quando io dico che il mio punto di vista è più giusto del tuo, sbaglio del tutto. Supponiamo che ci sia un albero enorme e noi tutti siamo attorno: ognuno ne ha una percezione diversa. C’è una qualsiasi percezione di qualcuno che possa essere in sé sbagliata? No. Lo sbaglio si ha quando uno dice: l’albero è così, semplicemente perché lui lo vede così e allora generalizza. Se invece dice: io lo vedo così, va bene. Infatti «l’albero è così» non è un’affermazione dell’occhio, ma un giudizio del pensiero. E se un altro dicesse: no! l’albero è cosà, farebbe ugualmente uno sbaglio. Perché le angolazioni dell’albero che gli occhi dell’una e dell’altra persona hanno percepito, vanno bene tutte e due: sono due frammenti di realtà, oggettivi tutti e due ma ben diversi l’uno dall’altro.

Facciamo un altro esempio: cosa mi dice l’occhio di una persona che è a 500 metri di distanza da me? Mi dice che è grande o che è piccola? Mi dice che è piccola. È vero o no che è piccola? Sì che è vero! Nella realtà è piccola! È il mio cervello che dice: no, in realtà è grande come se fosse qui. E questo è uno sbaglio, perché nella realtà quella persona non è qui! Quando io la penso con le dimensioni che avrebbe se mi fosse accanto, mi metto fuori dalla realtà: nella realtà questa persona è laggiù. Quindi nella mia astrazione è più grossa di quanto vedono i miei occhi, ma non nella realtà.

I sensi non ingannano. Il giudizio inganna.

Può darsi che adesso voi mi prendiate per matto e diciate: ma se quella persona si avvicina e abolisce la distanza dei 500 metri che ci separa, io vedo bene che in realtà è molto più grande di come la vedevo prima! E allora io insisto: non è molto più grande; è diventata molto più grande! Da piccola che era è diventata grossa, e quindi resta il fatto che prima era piccola e adesso è grossa: e che deve essere qui perché io possa dire oggettivamente che è grossa.

Adesso attenti: proviamo a dimostrare che nella realtà umana oggettiva quella persona che dista cinquecento metri da me è oggettivamente piccola.

Cosa ho di quella persona, io, nella mia realtà? E, innanzi tutto, qual è la mia realtà? La mia realtà è il mio spirito, cioè l’Io (adesso presuppongo un po’ di conoscenza della scienza dello spirito), la mia realtà è il mio corpo astrale o anima (tutto il mondo dei miei pensieri, sentimenti e atti volitivi), la mia realtà è il corpo vitale o eterico (tutte le forze di nascita, crescita, conservazione, riproduzione, ecc.); e infine completa la mia realtà il mio corpo fisico. Un essere umano che dista 500 metri da me è realmente e oggettivamente così piccolo dentro di me che non sento neanche la voce, forse non riesco neanche a distinguere chi sia… In altre parole, fosse anche mio padre, la possibilità reale di quell’uomo di entrare qui e ora nella mia realtà karmica è di misura minima. Mi condiziona e mi cambia in misura minima.

Se questo è vero, nella realtà del mio essere quell’uomo è piccolo: nella realtà, nella realtà oggettiva è piccolo nel mio essere! E dire che è altrettanto grosso come se fosse qui è un inganno, una menzogna. Non sento quello che dice e dunque non ho bisogno di occuparmi dei suoi pensieri: nel mio vissuto, nella mia realtà, è piccolo. Ma quando mi viene vicino, allora sì che sono costretto a fare i conti con lui. Adesso vedo chi è, adesso è grande nella realtà e prima era piccolo, nella realtà.

In altre parole, un carattere fondamentale del materialismo è l’astrazione. Il materialismo è l’abitudine non consapevole di astrarre, di allontanarsi dall’oggettività delle cose e di creare realtà alternative. Nel momento in cui io sono convinto che quell’essere che sta là sia altrettanto grosso come lo sarebbe se fosse qui, tutto diventa arbitrario. Se questi 500 metri di distanza non fanno nessuna differenza, io sono uscito dalla realtà. E l’uomo d’oggi vive fuori dalla realtà, cioè astrae dal karma.

Un individuo che dista da me 500 metri è molto molto piccolo nel mio essere. E questa è la realtà. Il fatto che io crei un mondo alternativo dove lo vedo e lo penso altrettanto grosso come se fosse qui è pura astrazione, perché lui non è qui: è là. Quando è là, la sua realtà nel mio karma è piccola, il suo influsso su di me (perché la realtà è il suo influsso su di me) è minimo.

Terzo Capitolo

EVOLUZIONE DEL PENSIERO,

DELLA VOLONTÀ E DEL SENTIMENTO:

attenzione, intenzione, distensione

Guardarsi con gli occhi degli altri

L’interiorità dell’uomo è costituita da un triplice mondo: il mondo del pensiero, del sentimento e della volontà.

Abbiamo già considerato la polarità della vita che chiamiamo mondo esterno-mondo interno e abbiamo visto che questa immagine spaziale, in fondo, fa parte dell’illusione, dell’astrazione materialistica. L’uomo da un lato si lascia afferrare e condizionare dalla realtà cosiddetta esterna e dall’altro lato crea nella sua interiorità un mondo alternativo, astratto e parallelo rispetto alla realtà.

Riprendo l’ultimo esercizio di riflessione che ho appena proposto: l’affermazione paradossale che una persona lontana da me 500 metri sia nella realtà e verità oggettiva molto più piccola di quando è accanto a me. L’oggettività, la realtà, è sempre il vissuto e non l’astrazione che io mi faccio delle situazioni. Una persona che l’occhio vede piccola perché è distante, dove è grande? Nell’astrazione, perché non può essere simultaneamente distante e piccola e vicina e grande.

Nessuno di noi ha a disposizione, contemporaneamente, due serie di karma. Se è nel mio karma[14], nel mio destino, che questa persona sia così piccola che io non la distinguo neanche, non sento la sua voce e dunque non ne sono in alcun modo influenzato, non può occupare simultaneamente nel mio karma una posizione opposta. Non può avere un influsso su di me come se mi fosse accanto.

Il modo reale di interagire – forte, se mi è vicina, oppure lievissimo, se mi è lontana – è la realtà del karma. Quando dico: quella persona che io vedo così piccola di fatto è grande perché è solo questione di prospettiva, faccio un’astrazione; ma, attenzione!, non ho detto che l’astrazione non sia legittima. L’astrazione serve a renderci indipendenti dalla realtà e soltanto perché abbiamo questa capacità di tirarci fuori siamo liberi. Quindi la cosiddetta libertà è, in un certo senso, una libertà di arbitrio mentre la realtà del destino, del karma, non è mai libera: è sempre oggettiva. Ha sempre delle richieste ben concrete.

Abbiamo anche detto che se superiamo la dicotomia tra fuori e dentro, questa specie di contrapposizione, di presunta incompatibilità tra il mondo esterno e il mondo interno, e se ci rendiamo conto che è solo un’immagine spaziale astratta, sorge l’intento di rendere sempre più interno il cosiddetto esterno e di rendere sempre più oggettivo il cosiddetto interno.

Rudolf Steiner una volta ha descritto così la tensione umana verso la sintesi e la pacificazione tra il mondo esterno e il mondo interno: fa parte delle leggi del cammino interiore rendere l’interno esterno e l’esterno interno. Come si fa?

Il primo passo è oggettivare noi stessi. Uno degli esercizi fondamentali per l’auto-oggettivazione, in chiave moderna, è la capacità introspettiva di guardare alla giornata trascorsa osservandoci come se fossimo un’altra persona: ecco il primo modo di rendere esterno, e oggettivo, l’interno. L’esercizio del guardarsi come ci guarda un altro, del guardarsi dal di fuori, è molto importante perché in questa scissione dell’essere sorge a poco a poco l’esperienza dell’Io vero, dell’Io superiore.

Alla sera, volgo uno sguardo retrospettivo alla mia giornata e vedo un Tizio (che poi sono io) che ha fatto questo e quest’altro e quest’altro… in quella situazione si è arrabbiato, in quell’altra ha gioito, poi ha sofferto ecc. Durante questo esercizio, chi è l’osservatore? Sono io stesso. Però, nell’impegno di essere spassionato, nello sforzo amante di cercare l’oggettività di me stesso, comincio ad avere la prima esperienza del mio Io superiore. L’Io superiore è pura spassionatezza, fedele oggettività, veritiero amore alla realtà così com’è.

Il nostro Io spirituale guarda al nostro io animico (cioè alla coscienza ridotta che abbiamo ordinariamente di noi stessi durante l’incarnazione) con grande amore e saggezza e dice: lì c’è da purificare. Non cerca scuse. Mentre l’io piccolo, il nostro ego quotidiano, trova giustificazioni a non finire, l’Io spirituale guarda alla verità oggettiva e dice: è inutile cercare scusanti, hai compiuto quell’azione perché sei egoista. E va bene: basta che adesso te ne rendi conto, che osservi la tua condizione, ci rifletti sopra e poi decidi come comportarti per il futuro.

Cosa avviene quando io mi guardo dal di fuori, oggettivamente? Accade che mi vedo con gli occhi degli altri: e questa è una formidabile esperienza perché comincio a essere d’accordo con loro, sul mio conto. Sì, hanno ragione: sono proprio così!

Questo sforzo crea comunione: finché io resto nel mio interno vivo nella soggettività, mi vedo con tutti i miei costrutti, mi percepisco nelle molte astrazioni che mi sono necessarie per convivere con me stesso. Gli altri che mi guardano non conoscono queste dande e mi vedono oggettivamente: per gli altri io sono sempre oggettivo. Molte delle difficoltà nei rapporti stanno proprio nella grande incapacità di ciascuno di noi di vedersi oggettivamente.

La forza dell’interessamento

Se la prima metà del cammino interiore è l’oggettivazione di ciò che è interno, l’altra metà è il tirare nell’interno il mondo esterno.

Il mondo non è esterno al mio essere per forza propria: soltanto io posso tirarmi fuori dal mondo. Il mondo non è mai fuori di me. E allora cos’è che mi rende esterno al mondo circostante? È il mio disinteresse.

L’interessamento è la forza che rende interno il mondo esterno e supera ogni dicotomia e alienazione: se quel che succede intorno a me, le sorti dell’umanità e dei regni di natura, quello che le persone vivono, i loro problemi, il loro travaglio quotidiano… se tutto questo comincia a interessarmi, se io comincio a entusiasmarmi per tutte le cose che riguardano l’uomo, allora accolgo in me il cosiddetto mondo esterno e cade ogni separazione.

Giorno dopo giorno mi accorgo che non era il mondo ad essere esterno a me, ma che io stesso ero uscito fuori dalla porta, spinto dal disinteresse e dalla cura degli affari miei: e adesso provo a rimettermi dentro con la forza amante dell’interessamento. È un processo molto bello, questo, espresso nel modo scientifico adatto all’uomo d’oggi: ma è sapienza di sempre.

Non c’è nessuna cosa al mondo che non sia interessante. Nessuna. Se io trovo il punto di vista giusto, il punto di osservazione più favorevole, tutto può diventare interessantissimo. Se un oratore è così noioso da farmi addormentare, posso decidere di osservare il fenomeno di come sia possibile parlare in un modo che induce al letargo: un fenomeno molto interessante! E allora succede che non mi addormento più, perché ho trovato il punto d’osservazione che mi permette d’imparare qualcosa!

Il processo del sapersi interessare a tutto è il cammino interiore. Su questa strada non si fanno passi veloci dall’oggi al domani: è questione di esercizio. Il cammino interiore, che la scienza dello spirito apre, presenta due dimensioni, tutt’e due da curare: una privata e una pubblica.

Quella privata consiste negli esercizi, nella meditazione soprattutto: è un momento privilegiato della giornata, nettamente separato dallo scorrere consueto delle cose. La dimensione pubblica e sociale è invece più inerente alla vita quotidiana e riguarda il coltivare atteggiamenti di natura maggiormente morale.

Cominciamo con l’approfondire questo secondo aspetto del cammino interiore.

La passività iniziale del pensare, del sentire e del volere

Le qualità morali si riferiscono tutte alla triplice realtà interiore dell’essere umano (il pensare, il sentire e il volere) che l’immaginazione spirituale dei greci vedeva nella lira a tre corde di Apollo, il dio solare. I miti sono il precipitato delle grandi immaginazioni, delle grandi visioni spirituali che l’umanità antica ha avuto; e possiamo ben dire che sono state le nostre immaginazioni, perché nella prospettiva della reincarnazione eravamo noi stessi i greci, i romani, i persiani, gli egiziani…

Le mitologie sono la grande anamnesi dell’umanità, sono l’archeologia delle profonde esperienze animiche riposte in ciascuno di noi, vita dopo vita. L’essere solare è l’Io, è l’uomo: egli suona su questo strumento tricorde. L’Io è il nucleo immortale e sovrano di ogni uomo che fa esperienza della propria umanità attraverso il suo specifico modo di trattare il pensiero, il sentimento e la volontà.

Il pensiero è l’organo del vero e del falso, è la capacità meravigliosa di discernere e sceverare il vero dal non vero; la volontà è l’organo del bene e del male, è la forza d’individuare il buono e il cattivo e al contempo il desiderio di compiere il bene e di rifiutare il male; il sentimento, infine, è l’organo del bello e del brutto, è l’organo estetico. Il pensiero fa sviluppare l’Io intellettivo; il sentimento fa fiorire l’Io estetico e la volontà fa maturare l’Io morale, l’Io religioso. Nessuno può vivere la propria evoluzione umana senza sentirsi in cammino, un cammino tutto interiore, verso la conquista della verità, che dà gioia al cuore e accende l’unico amore che permette di entrare in comunione col reale. Nessuno di noi può sentirsi umano senza aspirare al bello e senza sentire repulsa di fronte al brutto, come un artista. E nessuno di noi può dirsi uomo se non entra nella dimensione morale del bene e del male, dimensione che è anche religiosa perché in essa ognuno celebra la responsabilità e la creatività del suo spirito.

Qual è la nostra reazione interiore quando vediamo una persona ledere la libertà di un’altra, che è inerme e non si può difendere? Qualcosa dentro di noi si ribella sempre, magari in modo muto e sordo. Giustamente. E fortunatamente: perché forse uno dei pericoli che incombe più direttamente in questa fase del materialismo è il radicarsi nell’anima umana di un’insensibilità sempre crescente rispetto al fatto morale. Parlavo prima dell’importanza di provare interessamento per ciò che è buono e umano: perdere questo interessamento è perdere l’umanità.

Con questo io non voglio dire che sia facile, oggi, raggiungere un consenso sul bene e sul male oggettivi: è tutt’altro che facile. A me qui preme dire che è intrinseco all’uomo, se è davvero uomo, il desiderio irrinunciabile di cogliere conoscitivamente il buono, ciò che lo rende più umano, e di tradurlo in atto, di avverarlo. E c’è nell’uomo, altrettanto forte, il desiderio di evitare il male, ciò che lo sminuisce nella sua umanità.

L’indifferenza morale è quindi una delle più grandi povertà: chi diventa insensibile di fronte al mistero del bene e del male perde l’esperienza centrale del suo essere. È fondamentale per il cammino evolutivo di ogni uomo che gli interessi partecipare alla creazione di ciò che è umano, che gli interessi adoperarsi per evitare il disumano.

L’uomo moderno non sa più che il pensare, il sentire e il volere non soltanto sono realtà, ma sono le realtà più vere e più profonde della vita: è convinto che un tavolo o una sedia siano più reali di un pensiero. E invece no, no. Un pensiero ha una sostanza di realtà infinitamente più incisiva e consistente che non una sedia: una sedia è morta, non è capace di fare nulla, mentre il pensiero può creare mondi! Il pensiero è capace di creare un orologio, ma un orologio non ha mai creato un solo pensiero! Ecco la differenza! Perciò non mi si venga a dire che il pensiero è meno reale di un orologio.

I pensieri sono molto più reali di qualsiasi oggetto. Per certi versi questa è una verità lapalissiana, è ancora un uovo di Colombo: ma il fatto è che oggi non abbiamo bisogno di dire cose sensazionali, ma di recuperare nella coscienza verità così scontate da non contare più. Il cammino interiore non consiste nello scoprire cose eclatanti, ma sta tutto nella decisione morale di prendere sul serio il proprio pensiero, il proprio sentimento e la propria volontà. E la prima decisione è proprio quella di rendersi conto che sono assolute realtà.

Ciascuno di noi innalza il mondo o lo abbassa con i suoi pensieri, con i suoi sentimenti, con i suoi impulsi volitivi. Ciascuno di noi rende il mondo migliore o peggiore in base ai valori e agli ideali che sorgono nella sua mente. Pensate alla differenza tra una giornata senza scopo, piena di rassegnazione e disperazione, e un’altra dove si hanno le ali, forse perché si è innamorati… E la differenza non è nelle cose esterne: sta nei pensieri. Dai pensieri sorgono i sentimenti, e dai pensieri e dai sentimenti muovono gli impulsi volitivi.

L’interiorità dell’essere umano è la realtà più forte e prorompente, più reale e creante che ci sia: tutto il resto è effetto. Il mondo delle cause, il luogo dove si crea è la nostra interiorità: tutto ciò che è esterno è il creato dei pensieri, dei sentimenti, degli atti di volontà umani. Il materialismo è proprio l’aver disimparato a prendere sul serio queste tre sfere che fanno l’uomo intero.

Se il cammino spirituale inizia dicendo che i pensieri, i sentimenti e la volontà sono le realtà più sostanziali e più vere, il secondo passo afferma che essi vanno coltivati giorno dopo giorno. Il rapporto dell’Io con le tre forze della sua anima si può paragonare al rapporto del giardiniere con le sue pianticelle, che da sole non crescono bene e hanno bisogno di essere curate. Pensiero, sentimento e volontà non sono fatti di natura: sono fatti di libertà. Possiamo essere grati che lo siano, ma ciò comporta che non possono procedere per automatismi. L’esercizio della libertà, la gioia infinita della libertà, è la decisione di lavorare costantemente e giornalmente alla qualità del proprio pensiero, del proprio sentimento e della propria volontà.

L’uomo ha la possibilità di stupirsi, di strabiliarsi di fronte a quel che son capaci di creare il suo pensiero, il suo sentimento e la sua volontà, se li coltiva veramente! Oserei dire che noi trascuriamo questo lavoro perché abbiamo un’innata, abissale paura di fronte alle sconfinate possibilità creatrici del pensiero, del sentimento e della volontà. E poiché è ben magro il risarcimento per questo spavento, è nostro compito vincere la paura di fronte al cammino che porta all’Uomo vero, di fronte alla grandezza vertiginosa dell’Uomo quale esso è nell’interezza delle sue tante potenzialità ancora da realizzare.

Osserviamo, ora, le facoltà del pensiero, del sentimento e della volontà come sono ordinariamente, come ce le ritroviamo dentro per il fatto stesso che siamo nati uomini. Se è vero che queste capacità sono il campo d’esercizio della libertà, dovremmo aspettarci che al loro punto di partenza non siano ancora libere.

E infatti il pensare ordinario è passivo, il sentimento ordinario è passivo, la volontà ordinaria è passiva. Questo forse lo sappiamo già, ma è importante rilevarlo con chiarezza perché è l’unico modo per vedere da dove partiamo e in quale direzione dobbiamo andare.

Prima che sopravvenga la mia attenzione al processo pensante, il pensare normalmente inteso è condizionato dal nostro ego, è passivo: patisce la qualità ristretta della nostra coscienza che non vede più in là dei propri immediati interessi. È un pensare soggettivo, e il grande compito della libertà è di renderlo sempre più oggettivo e universale, cioè partecipabile a sempre più individui. Ho già detto che troveremo subito qualcuno pronto a dire: ma no, non c’è la verità oggettiva! Siamo tolleranti, ognuno ha le proprie idee! Certo, ma così stiamo solo difendendo il nostro orticello soggettivo che ci pare la dimostrazione vivente della verità, e ci sentiamo così magnanimi da consentire all’altro, poveretto, di restare nel suo errore.

Un pilastro del cammino interiore sta proprio nello sforzo di trasformare un pensiero soggettivo-passivo in un pensiero sempre più attivo e oggettivo. La domanda importante è: come si crea oggettività nel pensiero senza diventare dogmatici o fanatici?

Cominciamo con l’osservare la tendenza dell’uomo moderno alla «dimostrazione», al voler convincere tutti che le cose stanno proprio come le vede lui: in questo processo egli trae soddisfazione dalla sua capacità di pensiero poiché riesce a dimostrare qualunque cosa, visto che tutto è dimostrabile.

Chi conosce la Critica della ragion pura di Kant, ricorderà che una delle tante cose esposte in questo tomo sono le «antinomie della ragione». Nelle edizioni tedesche le troviamo pagina a fronte: a sinistra viene dimostrata una cosa in modo apodittico, assoluto (l’eternità del mondo, per esempio) e a destra viene altrettanto assolutamente dimostrato il contrario (la caducità del mondo). Dimostrare una cosa significa mostrare che dal punto di vista che sto facendo mio essa è giustificata.

Ma ci sarà mai un punto d’osservazione ingiustificato? No che non c’è! Se io assumo un punto di vista, vuol dire che c’è. Ritorniamo al nostro immenso albero con varie persone attorno. Una dice: quest’albero ha il fogliame folto e verde; un’altra dice: quest’albero ha il fogliame secco e rado. Saranno in grado di dimostrarlo? Certo, perché dai due punti di vista l’albero appare davvero così diverso: nel nostro caso, può darsi che solo alcuni degli osservatori possono vedere la parte dell’albero bruciata da un fulmine.

I punti di vista dai quali guardare e sperimentare la realtà sono infiniti, ma la bellezza della vita nostra non sta nel dimostrarli, sta nel viverli, nell’assumerli. La ricchezza del mio rapporto con quest’albero non sta nella dimostrazione astratta che il mio punto di vista è assolutamente giusto come se fosse l’unico, ma sta nella capacità di guardare da tanti punti di vista e di farmene qualcosa, di questi punti di vista. Se ci basta di aver ragione, tutti abbiamo ragione.

È semplicissima la cosa. Dar ragione a una persona significa dire: certo, se io sperimentassi il mondo dal tuo punto di vista, con la costellazione di fattori della tua vita, lo descriverei con le tue stesse parole. So bene che non stai dicendo bugie, tu. Quindi è chiarissimo che ognuno ha ragione e che voler dimostrare qualcosa non serve a nulla. Tutto è dimostrabile. Ma proprio qui sta la povertà del pensiero! Nel voler sostituire la capacità di contemplare il mondo secondo orizzonti sempre nuovi, con la fissità di un punto di vista che si vuole assolutizzare e difendere, pur di non muoversi.

Quando io voglio dimostrare il mio punto di vista, cosa faccio? Pretendo che tutti gli altri lo assumano. È una cosa intelligente? Finché la faccio io, mi può sembrare intelligente, ma quando la fanno gli altri, quando gli altri pretendono d’impormi il loro punto di vista e si arrabbiano perché non gli do ragione, la cosa quanto meno m’infastidisce.

Questa ossessione del dimostrare ci fa capire che il dato di partenza del pensiero, in questa fase del materialismo, è di estrema soggettività. Io resto incapsulato nella mia angolatura e invece di spostarmi, invece di camminare e assumere posizioni di pensiero sempre nuove, voglio conferire stabilità dittatoriale al mio posto fisso. Esigo che l’altro sposi la mia prospettiva. Ma l’altro non può, perché dovrebbe diventare me.

Il punto di partenza della volontà, l’abbiamo già visto, è di una passività ancora più grande rispetto a quella del pensiero. Esiste una prepotenza che noi viviamo quotidianamente e che promana soprattutto dai meccanismi e dalle necessità del progresso tecnico-scientifico. Essi s’impongono e si ampliano ai grandi livelli delle corporazioni dove vengono respinti gli impulsi volitivi dell’individuo. Quello che tu vorresti fare è bello, ma non si può.

Questa argomentazione, che giustifica ferocemente gli ingranaggi impersonali, è il sistematico indebolimento della forza di volontà umana che diventa sempre più fiacca e fievole. La volontà rimane passiva com’era quando, da piccoli, ubbidivamo a mamma e papà, e ci sentiamo sempre più impotenti di fronte a un mondo che ci sfugge perché assume andamenti, leggi e connotati talmente disumani da non riuscire più a controllarli. In altre parole, l’uomo moderno vive la sua giornata, dalla mattina alla sera, quasi sempre in uno stato di capitolazione interiore.

Vorrebbe far valere questo o quell’altro impulso volitivo, questa innovazione, questa intuizione…, ma gli tocca continuamente tirarsi indietro di fronte a fattori di ineluttabilità.

Se mettiamo insieme la fissità soggettiva del pensiero e l’inerzia della volontà, cosa sorge nel sentimento? L’epidemia della depressione, dell’insoddisfazione, della rassegnazione. Nel sentimento si riverberano sia la prigione soggettiva del pensiero, sia la rinuncia della volontà. E allora il cuore cade in balia delle simpatie e delle antipatie soggettive e spontanee, dove non c’è da fare nessuno sforzo se non quello di subirle. Il cuore non ha più la forza di cercare e amare il vero e il buono.

Si potrebbe dire, allora, che la soggettività e la passività crescenti del pensare, del sentire e del volere sono tre modi d’irretire l’essere umano dentro se stesso, togliendogli la capacità di entrare nel mondo per trasformarlo.

Sei esercizi per sei qualità morali

Per percorrere le tre strade maestre che consentono l’evoluzione del pensare, del sentire e del volere, Rudolf Steiner porge una sequenza tecnica, una metodica scientifica che s’incentra su sei esercizi. Sono sei condizioni fondamentali per coltivare sei qualità morali dalle quali non può prescindere nessuna via esoterica che voglia essere seria.

Potremmo anche chiamare questi percorsi «cammini di purificazione»: la parola «purificazione» è un termine consacrato della tradizione religioso-esoterica, che significa ricondurre qualcosa o qualcuno alla purezza originaria, alla sua genuina essenza e funzione. In tempi di materialismo e di spiritualismi campati per aria, questo vocabolo riferito alle facoltà umane può suonare bigotto o moralistico alle orecchie di qualcuno: è allora possibile sostituire «purificazione» con le parole «oggettivazione», oppure «umanizzazione», o anche «attivazione». L’importante è intendersi sul contenuto.

Abbiamo già accennato che le possibilità di proiettare immagini astrali, cioè animiche, sono infinite: pensiamo soltanto alla straordinaria quantità delle immagini di sogno. Nell’astralità umana può proiettarsi una serie d’immagini inesauribile: quindi mai dovremmo pensare che quando tali immagini si presentano nell’anima ci si trovi di fronte a realtà oggettive, o addirittura al cospetto di Esseri spirituali. Tutto è passibile di essere tradotto in immagine astrale. Tutto.

Ho già sottolineato che la cosa più importante non è il vedere qualcosa astralmente, ma è la capacità sobria, pensante, di interpretare ciò che si vede, di sapere che cos’è. Questa capacità è una qualità morale, che si può coltivare attraverso questi sei cammini maestri che vanno percorsi, quando si prende la decisione di intraprenderli, ognuno per un mese intero e in questa sequenza:

1. esercizio del pensiero o dell’attenzione;

2. esercizio della volontà o dell’intenzione;

3. esercizio del sentimento, o della distensione, o della spassionatezza, o dell’equanimità;

4. esercizio della positività che investe pensiero e sentimento insieme;

5. esercizio dell’apertura, della spregiudicatezza che investe pensiero e volontà insieme;

6. esercizio di sintesi, cioè i cinque precedenti esercizi praticati insieme.

Alla fine del sesto mese si ricomincia da capo: questo è importantissimo per un cammino metodico-scientifico.

Descriverò di questi esercizi gli aspetti fondamentali e «universalmente umani», cioè valevoli per ogni essere umano, lasciando all’interesse di ciascuno l’approfondimento della parte tecnica[15].

1. Evoluzione del pensare: l’esercizio della concentrazione

Ho chiamato l’esercizio del pensiero attenzione: intendo dire che ciò che impoverisce il pensiero nel mondo d’oggi è la distrazione, la disattenzione. Noi non siamo quasi mai vigili nel nostro pensiero. Il pensare è invece il più grande amico dell’uomo, e ognuno di noi fa un gran torto a se stesso quando disattende il suo processo conoscitivo. Per questo il cammino interiore comincia proprio dal pensiero.

Il pensare ci apre le porte sui più grandi misteri: fu un’intuizione pensante quella che permise ad Archimede di scoprire le leggi di galleggiamento, che poi sarebbero state alla base di molta tecnica moderna. Fu una conquista del suo pensiero, ma la gioia che scoppiò in lui tanto da farlo correre nudo e sgocciolante per la città gridando eureka!!, ho trovato! ho scoperto!… ci emoziona ancora oggi. Il pensare è la realtà più grande che noi abbiamo in mano, e la decisione morale di porvi attenzione è al contempo la decisione di diventare amici del nostro più grande amico.

Ogni essere umano che si prenda sul serio può entrare in confidenza con la sua capacità pensante fino a comprendere che questa attitudine a trovare il senso delle cose, questo Verbo cosmico, è la sua stessa forza primigenia. Le conquiste più grandi sono gioie del pensiero, e possono trasfondersi nella volontà soltanto se sorgono nel pensiero: unicamente ciò che comprendo davvero può accendere gioia e forza volitiva dentro di me.

L’attenzione al processo pensante si coltiva cercando di rendere il proprio pensiero sempre più oggettivo. Qual è la differenza tra la soggettività e l’oggettività del pensiero? Il pensiero è soggettivo quando io mi lascio andare, quando seguo una concatenazione di rappresentazioni, un’associazione automatica tra le percezioni che mi vengono incontro da sole dal mondo cosiddetto esterno, e il significato che sono abituato a collegarvi. Sempre lo stesso. Così non ho bisogno di metterci la volontà. Questo non è pensare: è, appunto, una sequenza preordinata di rappresentazioni, dotate di forza d’inerzia.

Veri pensieri sono quelli che penso io, quelli a cui decido io di dar vita sviluppandoli dai concetti che ho afferrato. Il primo esercizio del cammino interiore è la presenza di spirito, è l’attenzione al mio pensiero stesso. È un esercizio di concentrazione, essenziale per rendere sempre più reale il proprio pensiero. Si tratta di proporsi cinque minuti al giorno (non di più: anzi, all’inizio possono essere anche solo tre minuti) durante i quali si prende un oggetto di uso quotidiano, il più semplice possibile, e per quei pochissimi minuti ci si sforza di pensare soltanto pensieri inerenti a quest’oggetto. Ecco la concentrazione. L’essenzialità dell’oggetto (un bicchiere, un chiodo, una matita…) fa sì che i pensieri non sorgano automaticamente dall’importanza e dalla complessità dell’oggetto stesso.

Si sviluppa così una forza dello spirito umano che ci sorprende, una forza che non conosciamo perché non siamo abituati a indirizzare volitivamente una serie di pensieri. Quanti movimenti delle dita compie un pianista per eseguire un brano di musica? Milioni. Una persona che non sappia suonare il pianoforte quanto ci metterebbe a coordinare agilmente tutti quei movimenti senza che ce ne sia uno sbagliato? Avrebbe bisogno di un lungo e costante esercizio. Analogamente: quanti pensieri vengono pensati ogni giorno da ciascuno di noi? Milioni. Sono ordinati e sensati? Questa è la domanda importante.

Ordinare i propri pensieri in modo che siano oggettivi, nitidi e non vadano a vanvera, richiede un costante allenamento. In altre parole, noi dissolviamo le forze dello spirito perché i nostri pensieri si disperdono, si sperperano continuamente. Non ci esercitiamo quasi mai a concentrare la forza pensante attorno a un oggetto.

L’essenziale in questo esercizio del pensiero è la forza spirituale volitiva che si riesce a tirar fuori, la forza di essere così attivi nel proprio processo pensante da poter decidere in autonomia quali pensieri pensare. Ogni volta che ci si sorprende ad essere distratti, si ritorna sull’oggetto. Non importa se all’inizio in un minuto ci si distrae cento volte. Non importa. Ciò che conta è la forza della volontà che decide di ritornare sull’oggetto.

Ricordo l’episodio interessante di un missionario che aveva un aiutante appassionato del suo cavallo: di fronte a tanto insistente desiderio, alla fine aveva deciso di regalarglielo.

– A una condizione: te lo regalo se sarai capace di dire un Padre Nostro senza distrazioni.

– È tutto quello che devo fare?

– Sì.

L’aiutante pensava che fosse una cosa facile. Si raccolse anche fisicamente per meglio concentrarsi e attaccò:

– Padre Nostro… ma mi regala anche la sella, vero?

Neanche due parole e il suo pensiero era già volato via dal Padre Nostro!

Nell’esercizio della concentrazione, soprattutto nei primi tempi, si fa l’esperienza di quanto sia difficile generare dal di dentro la forza di coesione del nostro spirito, quella capace di decidere da quale pensiero a quale pensiero andare. È la consequenzialità dei pensieri. È riuscire ad essere talmente presente al mio spirito da decidere io stesso quali pensieri devono essere pensati.

2. Rafforzamento del volere: l’esercizio dell’azione amata

Il secondo grande esercizio è quello della volontà, della volontà che vuol trasformarsi da organo passivo a organo sempre più attivo. Grazie alla forza d’iniziativa della mia volontà io non «mi lascio fare» dalle cose e dagli eventi, ma li prendo in mano.

Quante volte diciamo: vorrei tanto, ma non ce la faccio, non ci posso far nulla! Ma è vero? Sì e no. Forse è vero adesso, ma finisce di esser vero se io mi adopero sistematicamente e quotidianamente a coltivare le mie forze di volontà. Grande sarà allora la mia meraviglia nello sperimentare quale e quanto vigore volitivo posso generare dentro di me. Ma è sempre questione di esercizio. Nessuno di noi può avere una volontà forte dall’oggi al domani. Così come nessuno può improvvisare una sonata al pianoforte.

L’interiorità umana è la grande Cenerentola, la grande trascurata. Questa è la nostra disumanità: non ci accorgiamo proprio di ciò che di più umano è dentro di noi. I mondi immensi del pensiero, i mondi forti e coraggiosi della volontà, i mondi di bellezza e d’incantesimo del sentimento.

L’esercizio quotidiano della volontà, nel secondo mese, consiste in questo: ogni giorno, sempre alla stessa ora e per qualche secondo o minuto (la durata qui non è importante) decido di compiere un’azione, la più insignificante possibile, o meglio la più inutile che si possa immaginare. Inutile, perché se quest’azione ha a che fare col contesto della mia giornata, possono esserci altri motivi che mi spingono a farla (e soprattutto a ricordarmi di farla!), non la pura e sola forza della mia volontà. L’unico motivo che io devo avere per fare questa azione è la mia volontà. La faccio solo perché voglio farla. Qui sta il bello.

Chi vuol fare questo esercizio deve sapere che è importante scegliere un’azione che altrimenti non farebbe. Dare esempi in proposito è sempre un’arma a doppio taglio, perché seppure in chi li dà c’è solo l’intento esplicativo di mostrare meglio la tipologia dell’esercizio, spesso in chi li annota viene favorito l’automatismo di mettere in pratica subito subito proprio il gesto suggerito. Questo impoverisce la forza di volontà di chi vuol iniziare il cammino, perché già nella scelta dell’azione da compiere c’è la volontà di qualcun altro.

Importante per questo esercizio della volontà è che lo si faccia sempre alla stessa ora, esattamente alla stessa ora: quindi ognuno deve considerare bene la propria giornata per ben collocare questo appuntamento con la volontà. Deve poter dire: adesso mancano dieci minuti, adesso manca un minuto, dieci secondi… ecco, adesso si parte! Ci vuole l’inesorabilità della precisione, che è tutta forza di volontà. E, ovviamente, dev’essere un’azione che io posso compiere senza creare disturbo a niente e a nessuno.

Supponiamo che io decida (per esempio!!) di darmi per dieci volte con la mano destra tre colpetti al ginocchio destro e lo stesso al sinistro, ovunque io sia, esattamente alle undici di sera e per tutto un mese. È una cosa sensata? No. E allora vale la pena di farla! Perché io mi do per dieci volte tre colpetti alle ginocchia? Proprio perché non c’è nessuna ragione al mondo per farlo. L’unica ragione è che io lo voglio. E questo è l’importante. Il cammino interiore è fatto di cose semplici, ma di un’importanza morale estrema perché qui si gioca sulla forza di volontà.

Immaginiamo la differenza tra un cosiddetto «sociale», di cui tanto parliamo, costituito da una massa di abulici, di smidollati, e un sociale dove ciascuno sia sovrano sulla sua forza di volontà. A che servono tutti gli ideali bellissimi della socialità, tutte le teorie del convivere, quando poi c’è un coro di: non ce la faccio… sì, sarebbe bello ma non posso… ho le mani legate… mi fa male qua e mi fa male là…

Non esistono uomini senza forza di volontà: esistono esclusivamente uomini che non la coltivano. Dire: io non ho forza di volontà, è sempre una menzogna. Quel che dovrei dire, se fossi onesto con me stesso, è che non avendo mai coltivato, per anni, la mia forza di volontà, oggi mi ritrovo a dire: non ce la faccio!, di fronte a troppe cose. Che è ben diverso dall’affermare: io non ho forza di volontà.

La volontà c’è sempre, ma va curata e rafforzata. La volontà c’è per tutti, e se per qualcuno non ci fosse vorrebbe dire che non è un essere umano. Questa è un’affermazione di assoluta positività sulla natura umana: un ottimismo che non è campato in aria perché nell’esercizio costante è possibile la verifica.

E non sono, questi, esercizi patibolari, da baciapile: ci si può sorprendere, dopo poco tempo, a provare una gioia tale nel farli, da non volerne più abbandonare la pratica. Il cammino interiore diventa interessante dal momento in cui non ne posso più fare a meno: e non per assuefazione, ma per pura gioia della volontà. Forse non ci esercitiamo ogni giorno a mangiare, diverse volte? Chi si è stufato di mangiare alzi la mano. Lo ripetiamo ogni giorno, questo esercizio, eppure non diciamo: che noia, che schiavitù! sono anni che mangio!

In fondo si potrebbe anche dire, paradossalmente, che ciascuno di noi diventa maturo per il cammino spirituale (e perciò è un fatto di libertà assoluta, mai di dovere) quando comincia a sentire gioia per questi esercizi, fin nel loro aspetto tecnico.

Anche la meditazione quotidiana, lo vedremo, diventa interessante quando non ne so più fare a meno: e allora non ne parlerò mai come di un peso o di un obbligo. Così come non parlo mai di un peso o di un dovere quando devo mangiare. Finché non entro nello stato festoso delle ali che mi portano, devo considerare i miei esercizi come propedeutici. Non dovrei però restare a lungo nella fase dell’impormi, dell’impormi, dell’impormi… La morale della costrizione, del ferreo dovere, è vecchia di millenni e oggi non dà più risultati. Per il futuro sarà feconda soltanto una morale di libertà. E la libertà dà gioia.

Il discorso sul cammino interiore, proprio perché è serio, parla il linguaggio dell’assoluta libertà. A nessuno viene detto: tu devi. Viene detto: se vuoi vivere nella pienezza, nella felicità dei mondi infiniti che si dischiudono grazie al pensiero, al sentimento e alla volontà, sappi che ci sono vie, strumenti e tecniche moderne per arrivarci. E non credere di poter restare troppo a lungo nell’atteggiamento dell’autoimposizione, perché se ti devi costringere all’azione significa che stai facendo qualcosa che non vuoi.

Fare qualcosa che non si vuole è distruggere le forze di volontà. Le cose o le voglio o non le voglio. Se non le voglio, prima o poi le devo lasciare; e se le voglio, prima o poi le devo amare. Così sono e resto libero.

Per caratterizzare la purificazione della volontà – cioè il suo essere puramente affidata all’uomo che la esercita, il suo diventare del tutto umana – ho usato la parola intenzione. Fare attenzione all’intenzione. L’impoverimento e l’indebolimento della volontà stanno nel fatto che noi vogliamo sempre dei risultati, vogliamo raggiungere qualcosa invece di godere il processo che ci conduce verso quel qualcosa. Pensate all’artista: di che cosa è felice? Dell’oggetto terminato o del produrre l’oggetto? Del produrre, se è un vero artista! Se invece dipinge o compone o scalpella per il prodotto finale, o per i soldi, non è un artista.

Coltivare la volontà significa ritornare indietro a ciò che vivo dentro di me nell’intenzione. L’intenzione è ancora tutta interiore. È la gioia del compiere qualcosa in base a ciò che io divento nel compierla, e indipendentemente da quel che produce esteriormente. Ecco l’amore all’azione e non al risultato dell’azione.[16]

Potremmo fare una riflessione molto lunga sul mito del successo: il successo è in fondo un’enorme alienazione nella vita dell’uomo perché nel rappresentarselo egli vive sempre fuori del presente. Il successo (da subcedere, accadere dopo) indica ciò che è successivo. Significa che io vivo sempre nell’aspettativa di quel che succederà e che non ha niente a che fare col presente. La mentalità del successo è una delle forme più macroscopiche e subdole di smarrimento di sé.

Vinco questa cessione di me stesso nel momento in cui dico: non m’importa nulla del successo delle mie azioni, m’importa ciò che vivo mentre le compio. Non m’importa nulla dell’apprezzamento che riscuoterà questo quadro quando sarà nel mondo, né di ciò che gli uomini ne faranno: per me ha valore quel che io divengo mentre lo creo.

Noi abbiamo la mentalità del prodotto, del risultato che non può mai essere qui e ora, e perciò viviamo nell’astrazione e nell’ansia di eventi futuri, tutti rimessi all’eventuale successo. È un inganno infinito questa mentalità. Porre intenzione nella volontà significa allora ritornare nella nostra interiorità ed essere consapevoli dei nostri atti volitivi mentre li originiamo.

A quella persona è caduto il fazzoletto: io adesso lo raccolgo e glielo porgo. È insignificante questa azione? Se io dedico attenzione alla decisione della volontà di compiere un gesto gentile verso l’altro, posso sentire una grande gioia nell’inchinarmi a raccogliere un fazzoletto. Ma nella mentalità del risultato io sono già proteso al compimento dell’azione, che perciò ha senso solo quando l’altro avrà di nuovo il fazzoletto in tasca. La mia azione, insomma, serve a qualcos’altro, non è amabile di per sé. Che cosa ho disatteso? Ho disatteso tutto ciò che è avvenuto dentro di me nel processo, pur breve, di un atto di cortesia. L’intenzione, il coltivare la volontà alla sua stessa sorgente, è la capacità di vivere nel presente essendo in comunione con ciò che io divengo, qui e ora, tramite l’esercizio della mia volontà, indipendentemente dai risultati esterni.

Due sono gli aspetti fondamentali dell’impoverimento della volontà: essa s’immiserisce quando l’uomo desidera e brama molte cose senza chiedersene il valore, e quando ne brama altrettante senza considerare la possibilità reale di conseguirle, di attuarle. Noi distruggiamo forze enormi di volontà quando ci proponiamo teoricamente delle cose impossibili, senza ponderare oggettivamente la fattibilità di tutti gli atti volitivi necessari per conseguirle. Finisce che poi troviamo una scusa dopo l’altra per non fare quel che ci eravamo prefissi.

Quando mi propongo di far qualcosa che poi non porto a compimento, distruggo direttamente la forza della mia volontà: prima voglio qualcosa e poi non la voglio più. E allora sarebbe stato meglio non averla voluta. Un esempio banale: devo pigliare il treno alla stazione e manca ancora un’ora alla partenza. Mi dico: faccio in tempo ad andare in cartoleria, compro i quaderni che servono a Mario e glieli porto di corsa a casa, poi faccio quella telefonata che rimando da stamattina, poi mangio un boccone… Sì e no riuscirò a farne una metà di queste cose. E l’altra metà? È diventata tutta una distruzione di forze volitive.

Fa parte essenziale del coltivare la forza di volontà l’attenzione all’eseguibilità reale, e non soltanto teorica, delle cose stesse: è importante che io mi abitui a volere soltanto ciò che è realmente fattibile. Oppure è meglio non volerlo, proibirmi di volerlo. E non va dimenticato che le forze volitive possono naufragare sia di fronte a un progetto troppo ambizioso, sia di fronte alla decisione revocata di cucinare un piatto di spaghetti.

L’importante è fare attenzione alla forza dell’intenzione. Quando qui sarà finita la conferenza, farà una grande differenza se io uscirò dalla sala perché tutti escono o se uscirò perché ho intenzione di uscire. Se io esco senza intenzione esco senza volontà, senza individualità: e noi facciamo troppe azioni in questo modo, uccidendo le nostre forze volitive. La persona volitiva è capace di volere con gioia e amore le più piccole cose. Se io per esempio porto il pane alla bocca, perché devo volerlo? Non è che devo: posso volerlo. Il pane arriva in bocca perché io lo voglio… È vertiginosa questa attenzione all’intenzione della volontà!

Dalla scienza della realtà spirituale possiamo apprendere una delle grandi differenze tra il livello angelico (che è successivo all’umano, nell’evoluzione) e il livello umano.

La volontà degli angeli è così pura che hanno soltanto intenzioni veraci e reali e lasciano aperto, libero, il modo di eseguirle. L’essere umano, invece, vive nel pericolo continuo di disattendere l’intenzione nelle sue azioni; ancora non capisce che «avere un’intenzione» significa percepire una qualità del proprio essere che vuole manifestarsi, che vuole esprimersi. Noi ci sentiamo realizzati nel risultato e quindi non viviamo un’intenzione svaporata come fosse un rinnegamento del nostro essere e della nostra umanità ma, semmai, come la perdita di quel preciso risultato tangibile, esterno a noi, che sarebbe stato possibile ottenere.

In altre parole, noi viviamo nella concretezza del «come», mentre l’angelo vive nel «che cosa». Facciamo un esempio radicale: un conto è se io ho intenzione di amare una persona e lascio aperto il «come», tutt’altra cosa è se io mi faccio una rappresentazione assolutamente concreta del «come» deve essere questo amore.

Perché il primo modo è più angelico del secondo? Perché se io voglio amare una persona ma voglio anche determinare il modo in cui lei debba lasciarsi amare, chi amo, in realtà? Amo me stesso. Se invece mi dico: a me interessa soltanto amare questa persona e il «come» mi verrà incontro da lei, allora sono nella concretezza dell’amore oggettivo. Sono nella sostanza, nel «che cosa» dell’amore. Può darsi che il «come», adesso, sia quello di bere insieme un bicchiere di birra: io ho la pura intenzione volitiva di dedicare le mie forze d’amore a questa persona, e non m’interessa né pretendo uno specifico «co me». Ecco il vivere nella purezza dell’intenzione lasciando che il «come» me lo porga la realtà, il karma.

In altre parole, io non faccio dipendere la mia intenzione da nessun «come» e da nessun «modo» privilegiati: e così la realizzo nella sua purezza e nella sua piena intensità. Ha la volontà più forte colui che è capace di amare in tutte le situazioni, che non ha mai bisogno di cambiare nulla al di fuori perché è sempre in grado di cambiare se stesso.

Questo è lo stadio massimo di libertà interiore e quindi è anche lo stadio massimo della forza di volontà: è la capacità di orientarmi sempre secondo la realtà, così come essa è, è la capacità di non volere mai che la situazione sia diversa perché sono in grado di volere me sempre diverso, a seconda della situazione. Così sono sempre libero. Se l’esplicazione del mio essere dipendesse da un modo specifico che la realtà dovrebbe assumere per favorirmi e farmi funzionare bene, allora io non sarei mai libero: la realtà, nei fatti, non si orienta secondo me, ma chiede a me, proprio perché sono un essere umano, di muovermi e trasformarmi di circostanza in circostanza.

Le cose della vita non sono mai grandi nella loro esteriorità: sono grandi quando è grande il cuore che le compie. Soltanto il cuore può essere grande: mai le cose. E il cuore diventa grande in base alla forza volitiva dell’amore che non ha mai bisogno di cambiare gli altri perché è sempre capace di cambiare sé.

Qualcuno può dire: sì, va bene, ma intanto gli altri se ne approfittano! Problemi loro! Se io sto lì a sottolineare che una persona approfitta della mia perseveranza nell’intenzione, vuol dire che sotto sotto invidio la sua capacità di approfittarsi e vorrei averla anch’io. E allora non ci siamo! L’approfittarsene è povertà interiore e io sono libero nella mia intenzione pura soltanto quando mi sta bene anche che l’altro se ne approfitti. Se non è capace di altro…

3. L’equilibrio dei sentimenti: l’esercizio del cielo sereno

Un paio di pensieri sul sentimento: cosa sono la distensione, l’equanimità, la pacatezza, l’imperturbabilità, l’atarassia, la spassionatezza, la serenità? Sono l’attenzione alle proprie forze del cuore. Quando siamo trascinati da un’euforia estrema o quando siamo depressi da un dolore enorme, siamo totalmente incapaci sia di pensiero oggettivo, sia di forza volitiva. Quindi è importante coltivare anche i propri sentimenti.

È fondamentale capire, però, che per il cammino interiore non ci è chiesto di imparare a decidere quali sentimenti debbano nascere dentro di noi: non è questo che ci si chiede. I sentimenti che nascono dentro di me li fa sorgere il karma, non io. Se io incontro una persona e noto che mi ispira antipatia, questo sentimento non è un fatto di libertà. Non mi si chiede di fare in modo che questa antipatia venga rintuzzata: essa deve manifestarsi, perché è il risultato di forze che vanno avanti e indietro tra me e questa persona, e che insieme abbiamo costruito nel corso di diverse vite terrene[17].

L’esercizio del coltivare il proprio sentimento non si riferisce dunque al nascere dei sentimenti, ma al modo di esprimerli: lì possiamo esercitare la nostra libertà. Il cammino interiore consiste nel prendere nelle proprie mani il modo di esprimere i sentimenti così che essi stessi possano diventare organi di conoscenza. Se io sono capace di controllare un’antipatia guardandola come una realtà oggettiva, essa a poco a poco mi dirà quale costellazione di forze karmiche vivono tra me e questa persona. L’antipatia mi dice: stai attento, qui hai a che fare con un rapporto più difficile di quell’altro, dove tutto è simpatia.

Un rapporto più difficile è più brutto? No, può essere anzi più bello proprio perché chiede di più. Le persone che vorrebbero essere simpatiche a tutti sono quelle che non vorrebbero far nulla. E per fortuna non c’è nessuno che sia simpatico a tutti! Dicono che l’unico essere simpatico a tutti sia stato il Padreterno, perché non si è mai fatto vedere. Il Figlio suo, che si è fatto vedere, è stato subito simpatico a qualcuno e antipatico a qualcun altro…

Non si tratta di condannare certi sentimenti o di santificarne altri: no. Si tratta di coglierli nella loro oggettività karmica. Un rapporto di simpatia mi impegna in modo ben diverso che non uno di antipatia: ma tutti e due vanno bene, se io svolgo il compito che di volta in volta mi viene chiesto.

La serenità, l’equanimità, la distensione del sentimento, non hanno nulla a che fare con l’indifferenza: sono la capacità di dominare l’espressione del sentimento, sono l’imparare a non subirne manifestazioni incontrollate. Questo è possibile: è questione di esercizio. «Serenità» è una bella parola italiana che è stata presa dalla meteorologia. Quand’è che il tempo è sereno? È sereno quando il sole splende. Ma il sole in realtà splende sempre! Dunque il problema del tempo nuvoloso non sta nel fatto che io non capisco che il sole splende lo stesso, ma nel fatto che, essendoci le nuvole davanti, io non vedo il sole, non lo vivo. Quando torna il sereno non è che cambi la mia intelligenza e io mi renda improvvisamente conto che il sole c’è sempre stato: quel che cambia è il fatto che ora io sento direttamente il calore del sole e ne vedo la luce.

L’analogia è bellissima: la serenità animica non è il convincimento intellettuale che dentro la mia anima c’è sempre il sole dell’Io. Il problema delle nuvole interiori sta nel fatto che l’Io c’è, ma non lo vivo! Quindi la serenità interiore è l’esperienza reale del calore e della luce dell’Io superiore. Ciò significa che quando sono sereno io non soltanto so nella teoria che esiste un Io superiore, ma ne sento il calore direttamente e costantemente nel mio cuore. Ecco il sole della serenità interiore.

Un rapporto di simpatia è bello perché il sole del mio Io superiore caldamente e luminosamente lo ha voluto, proprio per le forze che questo sentimento di attrazione mi dà; un rapporto di antipatia va bene lo stesso perché il sole del mio Io superiore l’ha scelto non meno dell’altro, proprio per il compito evolutivo più difficile che mi offre. Quindi il mio sole interiore è sempre sereno! Splende sempre! Perché trova calore e luce, significato, positività e possibilità evolutive in tutte le cose e in tutti gli eventi.

La serenità, la distensione interiore, è la grande forza del sentimento capace di vibrare in sintonia con la creatività dell’Io-sole, che non patisce mai nulla e tutto sceglie.

4. La positività 5. La spregiudicatezza 6. L’armonia interiore

Il quarto esercizio si rivolge al pensiero e al sentimento presi insieme. Ho un atteggiamento di positività quando il mio pensiero, pur vedendo bene i lati negativi di tante situazioni, non omette di cogliere i lati positivi, e il mio cuore se ne rallegra. Se in una data circostanza una cosa non mi è possibile e un’altra sì, quale delle due è concretamente più importante? Di sicuro quella che mi è possibile. E allora perché mettere l’accento su quella impossibile? Per poltrire.

La positività è l’atteggiamento interiore che sottolinea sempre le porte che si aprono, non quelle che si chiudono. Certo che nella vita ci sono anche le porte serrate, ma se insistiamo su quelle finiamo per sbatterci il naso contro! Sono chiuse! L’atteggiamento interiore della positività non è la miopia che non vede il negativo, o l’arte di consolarsi come faceva la volpe con l’uva: la positività è la capacità di comprendere che la forza portante dell’evoluzione di ogni essere umano sta sempre in ciò che gli è possibile. E il possibile c’è sempre, in ogni situazione.

Il quinto atteggiamento fondamentale riguarda il pensiero e la volontà presi insieme. È la cosiddetta apertura mentale o spregiudicatezza, è il dinamismo evolutivo interiore grazie al quale dico a me stesso: nonostante tutti i miei ritardi, nonostante tutte le mie omissioni, mi è sempre possibile imparare cose nuove, fare cose nuove. È la capacità di rinnovamento.

Ho sempre pensato così? E adesso cambio idea. Essere capaci di pensieri e comportamenti sempre nuovi è apertura. Dalla mia casa al posto di lavoro ho sempre fatto questa strada qui: oggi me ne vado di qua… Per molti è inconcepibile! Invece l’apertura si esercita proprio così, in tante, piccole, quotidiane cose. Altrimenti ci si sclerotizza subissati dalla routine. Anche la vita economica ci sta presentando tanti problemi perché molte persone sono incapaci di comportamenti nuovi, di professioni nuove: hanno fatto lo stesso mestiere per tanti anni e sanno fare solo quello. Questo è disumano perché l’uomo è versatile. Ma la versatilità va esercitata! Questa è l’apertura: la capacità di orientamenti sempre nuovi nel cosmo.

Il sesto esercizio consiste nel praticare insieme tutti i cinque esercizi che abbiamo descritto, affinché la nostra interiorità possa sperimentare le sue leggi d’armonia e di movimento, affinché ognuno di noi possa trarre dalla sua lira le melodie complete dello spirito.

Forse ci saremmo aspettati un esercizio sul sentimento e la volontà presi insieme. E invece, quello, non c’è. Perché se manca il pensiero manca l’essere umano. Se qualcuno ci indicasse esercizi che contemplassero una pura spinta volitiva accompagnata dall’accensione delle forze del sentimento starebbe operando nei nostri confronti pura manipolazione.

DIBATTITO

Intervento: Lei ha detto che gli altri mi vedono in modo oggettivo. Nel momento in cui io prendo il punto di vista degli altri in qualche modo percepisco me stesso in maniera più vera. Ma siamo sicuri che sia proprio così? È un’affermazione talmente forte e sconvolgente! E quando due persone hanno di me opinioni opposte? Una mi ritiene insopportabile e un’altra, invece, approva tutto di me?

Archiati: Questa è una domanda molto importante. L’oggettività del mio essere è la somma di ciò che, a contatto con me, vivono tutti gli esseri umani karmicamente connessi con me. Il modo per oggettivarmi non è soltanto quello d’immedesimarmi in ciò che una persona vive in base a me, ma anche in quel che vive una seconda, una terza, una quarta… tutte, possibilmente, e diventare così spregiudicato da vedere l’oggettività dell’operare del mio essere in tutti i miei rapporti karmici.

Lei portava l’esempio di una persona che mi ritiene insopportabile. Qual è l’oggettività del mio essere? Ciò che io causo in questa persona. Se io mi dico: eh, in effetti, per questa persona io sono assolutamente insopportabile, mica è niente di male. Vedo un frammento di oggettività del mio essere. Oltre al fatto che questa affermazione sulla mia insopportabilità dice tante cose anche sulla persona che la vive: questo non va ignorato. Ma noi stiamo considerando le cose dal punto di vista di ciò che l’altro dice sul mio essere: io, comunque sia, opero su questa persona in modo insopportabile. Non sto dicendo che è lì tutta l’oggettività del mio essere: ma una parte di certo lo è.

Bisogna imparare ad essere spassionati e ad accettare le cose così come sono sia tramite l’esercizio del pensiero, che vuole conoscerle oggettivamente, sia tramite l’esercizio della volontà, che vuole sapersi orientare in base a quel che è oggettivo e non in base a ciò che farebbe comodo a me. Io devo avere la forza di volontà per impostare un rapporto di antipatia in tutt’altro modo che un rapporto di simpatia. Si tratta di volontà.

Se una persona sopporta a malapena che io le dica buongiorno e io invece ho una gran voglia di parlare con lei per mezz’ora, le cose non possono funzionare. Devo avere abbastanza forza di volontà da dirle buongiorno e poi lasciarla in pace.

Intervento: A me sorge un altro problema in relazione alla domanda che è stata posta e alla risposta che lei ha dato. Fa parte della via evolutiva questa necessità di oggettivarci e quindi distanziarci, vederci nei nostri difetti e comportamenti anche sbagliati…

Archiati: Non ho mai usato la parola «sbagliati».

Intervento: Allora diciamo comportamenti «non giusti».

Archiati: Non esistono i comportamenti «non giusti»: sono tutti giusti perché sono tutti così come sono! Un comportamento che mi rende antipatico ad altri è un comportamento non giusto? No. Qual è la differenza tra il constatare che sono antipatico a qualcuno, e dire che il mio comportamento non è giusto? Se io sono antipatico a un altro può darsi che sia un problema suo, perché deve essere necessariamente un problema mio ? Io non posso dire già in partenza che se suscito antipatia vuol dire che il mio è un comportamento non giusto. Non sarebbe un buon modo di oggettivarmi.

Intervento: Forse ho capito male, ma lei ieri ha parlato della necessità di fare alla fine della giornata una sorta di esame retrospettivo per osservare le nostre azioni dal di fuori, per conoscerci più spassionatamente in questa sorta di distanziamento. Ora apprendo che molti dei miei rapporti con gli altri non dipendono dal mio comportamento, ma da situazioni karmiche relative alle vite trascorse (che però io ignoro nella mia coscienza attuale). Perciò io posso essere insopportabile a una persona cui mi pare di non aver fatto assolutamente niente: quella appena mi vede s’innervosisce. Che cosa devo fare? Come posso includere nella mia interiorità questa somma di atteggiamenti che gli altri hanno nei miei confronti, assumerli per quelli che sono e tesaurizzarli per la mia evoluzione?

Archiati: Consideriamo le possibilità una alla volta. Partiamo dal quesito: come sarebbe ragionevole comportarmi in un rapporto dove mi rendo conto di essere insopportabile per l’altro? Raccogliamo un paio di contributi: questo è un compito conoscitivo e va svolto, non esiste una ricetta sul da farsi. Per questo è importante l’agilità del pensiero: una persona sottolinea questo aspetto, una quest’altro e ci rendiamo conto della complessità delle cose. Gestire un rapporto di insopportabilità non è una cosa facile.

Intervento: Un esempio potrebbe essere questo: se io sono un insegnante e mi rendo conto che uno dei miei studenti ha un’antipatia forte nei miei confronti, questo, come è stato detto, non necessariamente mi parla di un mio difetto. Quindi non credo che sia una soluzione quella di voler diventare a tutti i costi simpatico. Una possibilità potrebbe essere quella di cercar di capire dov’è l’origine di questa antipatia.

Archiati: In altre parole, qualsiasi cosa io voglia intraprendere a livello operativo, essa richiede a monte uno sforzo conoscitivo che mi metta in grado di comprendere perché c’è questa incompatibilità. Ma noi parlavamo di insopportabilità, che è molto più forte dell’antipatia.

Intervento: Io credo che in questo caso la cosa migliore sarebbe cercare di sviluppare le forze per poter sopportare di essere insopportabile!

Archiati: Questo è fondamentale. Se io non sopporto il fatto reale di essere insopportabile, ho due problemi, ho rad doppiato la difficoltà. Lei ha espresso un pensiero di estrema importanza: certo un conto è dirlo e un conto è farlo.

Intervento: Io invece mi chiedo che necessità io abbia di stare con una persona che non mi sopporta…

Archiati: Vedete quanti aspetti saltano fuori? Esistono due possibilità fondamentali nei rapporti, due poli con all’interno tutte le sfumature: ci sono dei rapporti ineluttabili e ce ne sono altri fondati sulla libertà. I rapporti ineluttabili per natura sono quelli di sangue: se io mi rendo conto, come figlia di quindici anni, di essere insopportabile a mia madre, o viceversa, non posso cambiare il dato di fatto che siamo madre e figlia. Lì il karma mi dice: questa situazione d’insopportabilità non la puoi eludere, ma la devi risolvere e ci devi restare dentro.

Dove si tratta di un rapporto sorto non in base alla necessità karmica del sangue, ma in base alla libertà, la sua osservazione è legittima: devo chiedermi se questa insopportabilità è di natura tale da rendere necessario un allontanamento da questa persona, oppure se è una provocazione a non eluderla. Che sia così o cosà non lo può dire nessuna teoria: lo possono sapere unicamente le persone che sono nella situazione.

Ecco dove sorge la tolleranza: nella realtà dell’individualismo etico, nessuno che sia al di fuori di una situazione ha il diritto di dire in quale modo vada gestita, perché per lui, quella situazione, è un’astrazione. Essa è una realtà soltanto per le persone che ci sono dentro e loro devono trovare la soluzione; non è possibile sentenziare dal di fuori e dire: devi fare così. È assurdo: soltanto chi sente il peso dei vari fattori e chi vive il travaglio di cercare faticosamente una risposta sa in che modo si può muovere, quali cose ha già provato, ecc. Non c’è da sindacare: qui ognuno si trova di fronte al mistero della sua libertà.

Le norme morali generali appartengono al passato e non esistono per le persone libere. Esistono per i bambini e per l’anima di gruppo, cioè per le persone che si appoggiano alle consuetudini convenute, al comportamento della maggioranza o della comunità di riferimento. Le persone libere sono in grado di risolvere i quesiti morali di ogni situazione in modo assolutamente individuale. Nessuna situazione karmica si può generalizzare perché è assolutamente unica. Il grande futuro della moralità umana è la forza interiore di individualizzare sempre di più i comportamenti. Però subentra una grande paura quando si scopre che non esistono più norme valide per tutti. È la paura di fronte alla libertà[18].

A me capita almeno venti volte al giorno di incontrare persone che mi chiedono: come devo fare? E mi capita venticinque volte al giorno di rispondere: lo devi sapere tu. Venticinque volte, perché spesso lo devo ripetere due volte! Nei tempi antichi c’era l’autorità religiosa che dava normative in fatto di etica: questo si fa, quest’altro non si fa. Adesso non serve più. Le soluzioni devono essere individuali, come sono individuali le situazioni karmiche. La sfida è più bella perché è più difficile.

Intervento: Stavo riflettendo sull’importanza dell’aver vissuto l’insopportabilità, la totale non accettazione da parte di un altro. Penso che in una tale situazione il primo passo di un cammino evolutivo cominci innanzi tutto dal rispettare proprio questo modo di porsi dell’altro nei miei confronti. Il secondo passo potrebbe essere quello di cercare di conoscere cosa significa per l’altro vivermi come insopportabile, cercare di entrare insieme in un tentativo di oggettivazione di noi stessi. Poi potrei (o potremmo insieme) provare a leggere e forse capire il messaggio che ne risulta, e passare a trascendere il limite del karma. E poi cambiare, se la libertà dell’altro lo vuole.

Archiati: Lei ha detto cose molto importanti: aggiungo quanto sia evidente la difficoltà del metterle in pratica.

Intervento: Vorrei mettermi nei panni di chi vive una forte antipatia nei confronti di un’altra persona: in questo caso sono io che vivo l’altro come insopportabile. Ho letto da qualche parte che questo succede perché nell’altro vediamo qualcosa di noi stessi che non ci piace. Può approfondire questo aspetto?

Archiati: È un’affermazione carica di significato, questa. Approfondirla richiederebbe la creazione di un contesto conoscitivo relativo alle leggi del karma, e adesso non abbiamo il tempo di farlo. Però, come indicazione generale, possiamo dire che spesso quel che ci repelle in un altro essere è proprio quello che noi stessi abbiamo manifestato in vite precedenti e che ci siamo riproposti, nel nostro karma attuale, di trasformare. Pensiamo a quali orizzonti di comprensione e di collaborazione fra gli uomini potrebbero nascere dal meditare su questi temi.

Intervento: Volevo fare un cenno alla figura del padre spirituale che nella cultura cattolica è ancora molto valorizzata. Io personalmente non sento questo impulso a cercar consigli, però penso che nel corso della vita s’incontrino persone alle quali riconosciamo una maturità e una saggezza maggiori delle nostre. In quale misura questa constatazione si può collocare accanto a ciò che lei diceva prima, a proposito dell’individualismo etico, per cui in ogni situazione chi deve decidere e agire è solo chi ci sta dentro? Perché non dobbiamo tener conto di un apporto umano saggio e riconoscere con umiltà che qualcuno ci può insegnare qualcosa?

Archiati: Ecco un altro quesito molto importante. Del rapporto col cosiddetto maestro nel cammino esoterico interiore parlerò domani. Ma la domanda qui è un’altra: si tratta del rapporto col maestro spirituale in qualità di «consigliere». Prima di aggiungere io stesso qualcosa a questo proposito, penso sia importante sentire un paio di voci su un punto così fondamentale. Il maestro spirituale che è più saggio di me, è più avanti di me, è più maturo di me e quindi può dirmi cosa devo fare: che ne pensate?

Intervento: Voglio raccontare un episodio: una persona ha ereditato dal nonno tutti gli scritti di Rudolf Steiner. Un’intera biblioteca. Si è rivolta a un padre spirituale cattolico per chiedergli cosa ne pensasse dell’Antroposofia: il padre gli ha consigliato di non leggerli, quei libri, anzi, di buttarli via. Questo è un esempio per dire come questi consigli, a volte, possono essere nocivi…

Intervento: Riallacciandomi al discorso sulla sofferenza per l’antipatia di cui a volte si è oggetto, posso dire che per me è stata maestra. Quindi la vita è diventata, nella sofferenza, un padre spirituale.

Archiati: Lei sta dicendo che del padre spirituale non c’è bisogno.

Intervento: C’è bisogno del dialogo con tutti: come accetto i libri del dottor Steiner e li vaglio. Devono passare giocoforza attraverso di me.

Archiati: Torniamo, però, al quesito specifico del rivolgersi al padre spirituale per chiedere consiglio: lei, padre, ha più esperienza di me e mi dica ciò che devo fare…

Intervento: Significa mettere nelle mani di un altro la nostra personalità. E questo non va bene.

Intervento: È pur vero che incontrare certe persone «speciali», diciamo così, può anche essere un’occasione per ricevere una sintesi di un percorso evolutivo. Io stesso, ad esempio, ascoltando lei attivo in me qualcosa di positivo. In qualche modo lei mi agevola un cammino, me lo accorcia, rendendolo ora più semplice ora più complesso, ma sempre fornendomi elementi sui quali io posso individualmente attivare risorse mie.

Archiati: Quel che lei ha appena detto ha qualcosa a che fare con l’andare dal padre spirituale per farmi dire cosa devo fare? No! Non ha nulla a che vedere. Un contributo conoscitivo si rivolge al pensiero: e questo va sempre bene, perché lascia liberi. Ciascuno di noi è grato per ogni aiuto conoscitivo: vado dall’esperto perché lui sa delle cose che io non so, e me le comunica. Quando ci arricchiamo a vicenda in campo conoscitivo non viene lesa la libertà di nessuno, perché tutti diventiamo più liberi nella misura in cui conosciamo sempre meglio la complessità del reale. Il quesito che è stato posto prima era tutt’altro: andare dal padre spirituale per avere una risposta non in chiave di conoscenza, ma di operatività morale (cosa devo fare?).

Intervento: A una parte di me farebbe molto comodo che qualcuno mi indicasse quello che devo fare: così gli darei la responsabilità delle mie azioni e dei miei sbagli. Mi rendo conto, però, che questo procedere sarebbe non solo pericoloso per me, ma anche per quel poveraccio che capitas se a farmi da maestro! Perché magari io lo tradirei, questo maestro. Col mio poco d’esperienza posso dire che per me il vero maestro è quello che mi dà il permesso di fare cose che poi spetta a me decidere di fare o non fare.

Archiati: C’è bisogno di questo permesso?

Intervento: Per un certo periodo io ne ho avuto bisogno, fino a che questo permesso ho imparato a darmelo da solo. È come il bambino che ha bisogno dell’approvazione della mamma e poi crescendo capisce che può fare da sé. Io l’ho vissuto in questa maniera.

Intervento: Se io vado da un padre spirituale e chiedo un consiglio e il padre spirituale me lo dà, io non credo che sia un vero padre spirituale. Proprio perché me lo dà.

Archiati: Ma perché lei glielo va a chiedere?

Intervento: Appunto! Se io faccio così gli conferisco un’autorità e se lui l’accetta, dandomi il consiglio, dimostra di non meritare questa autorità. Dare un consiglio è quasi un esercizio di potere. Se vado a chiedere un consiglio, innanzi tutto sbaglio io, ma poi sbaglia pure il cosiddetto padre spirituale che mi asseconda.

Archiati: Ma se non glielo vado a chiedere per niente, non facciamo prima?

Intervento: Ma se io glielo vado a chiedere e lui è realmente un padre spirituale, non dovrebbe farmi capire che è la mia libertà a rimetterci?

Archiati: Bisogna vedere se io sono già in grado di non aver bisogno di consigli. Per dare un apporto conclusivo al tema direi questo: nella misura in cui l’umanità, quindi anche i singoli uomini, diventano sempre più responsabili, maturi e liberi, si rendono conto che il compito karmico, cioè le intenzioni incarnatorie del loro Io superiore, sono di natura assolutamente individuale. Quindi ciò che è bene per una persona non è mai bene per un’altra. Perché se quel che è bene per l’una fosse bene anche per l’altra, queste due persone non sarebbero due, ma una sola.

In altre parole, la generalizzazione delle norme morali è l’annullamento dell’unicità di ciascuno. Quel che è bene per me è unico, non è bene per nessun altro, e perciò devo essere io a trovarlo, questo bene. Il padre spirituale, in ultima analisi, se siamo adulti sia lui sia io, può sapere soltanto ciò che è bene per sé, perché lui non è me. È già fortunato abbastanza se sa quel che è bene per sé. Quel che è bene nella precisa posizione nel cosmo che è la mia, lo devo sapere io: nessuno è in grado di dirmelo dal di fuori.

Però, l’ho già detto, c’è uno stadio infantile, che in sé è legittimo (non è però legittimo prolungarlo oltre il dovuto) e in questo stadio ha senso una guida, perché non si è ancora individualizzati. Si è ancora avvolti e condotti da quel che è comune a un gruppo: famiglia, chiesa, usi e costumi locali, normative, ecc. Quando sopravviene la maturità individuale, essa non abolisce il comune: si aggiunge al comune. In altre parole, in una società di esseri umani adulti le regole generali, che tutti accettano, sono la condizione animica di cornice nella quale immergere l’individuale.

Andare a chiedere a un altro che cosa sia giusto e buono per me in chiave individuale, quindi spirituale, è assurdo, perché l’altro mi può indicare soltanto il bene che abbiamo in comune, cioè le condizioni basilari di convivenza che hanno a che fare con il livello dell’anima. Ma il bene convenuto per tutti non può essere il contenuto della vita di un singolo individuo: il contenuto della mia vita è unico e soltanto io posso inserirlo nella comunità, come mio contributo assolutamente individuale. Nel bambino questa dimensione individuale dell’irripetibile e unico non c’è ancora: ecco perché per il bambino basta la forma di comportamento comune; per l’adulto, invece, il modo di fare comune diventa base per aggiungerci il suo individuale.[19]

Intervento: proposito dei sei esercizi, mentre mi sono chiari quelli relativi al pensiero e alla volontà, non ho capito quelli sul sentimento.

Archiati: Lei forse si riferisce al fatto che per la coltivazione del pensiero e della volontà abbiamo individuato e descritto degli esercizi specifici: la breve concentrazione su un oggetto, e la ripetizione giornaliera e puntuale di un’azione insignificante, motivata dalla pura volontà di farla. Mi par di capire che lei chieda: c’è un esercizio specifico per il sentimento? No. Perché io non posso creare per il sentimento una situazione privilegiata, di arrabbiatura o di euforia, di gioia o di dolore, a meno che non provenga dal karma, cioè dal contesto degli eventi che riguardano il mio vissuto e dei quali il sentimento è come un’eco.

Il sentimento lo devo acchiappare quando c’è: per questo ho sottolineato che noi non siamo responsabili per il sorgere dei sentimenti, mentre lo siamo (o potremmo esserlo) per il sorgere sia dei pensieri sia degli impulsi volitivi. I sentimenti li dobbiamo prendere così come sono: ciò che possiamo coltivare è il modo di esprimerli e gestirli. Non è nella mia libertà poter decidere che incontrando questa persona sorga in me simpatia: se il portato del karma vuol far sorgere antipatia, antipatia sarà.

La mia libertà consiste nel gestirla, questa antipatia. Ma l’antipatia va bene, non è un problema. Il problema ce l’ha soltanto chi vuole essere simpatico a tutti. Ma è un problema suo.

Quarto Capitolo

VITA MEDITATIVA
per i nostri tempi

Tecniche nuove per uomini nuovi

Come si imposta, oggi, la meditazione? Quali sono le leggi e le tecniche da rispettare per un cammino interiore adatto all’uomo moderno, che dia ragione allo spirito scientifico contemporaneo?

Nella scienza dello spirito di Rudolf Steiner la prospettiva dell’evoluzione è di estrema importanza: io non conosco nessun impulso culturale nel quale sia così basilare la consapevolezza di tutti i gradini evolutivi e delle enormi trasformazioni che si sono susseguiti nella compagine dell’anima umana nel corso dei secoli e dei millenni.

In altre parole, qui si pone come cardine fondamentale metodologico per tutte le ricerche e le osservazioni il fatto innegabile che cinquemila anni fa, mille anni fa, cinquecento anni fa, l’animo umano, per quanto si possa generalizzare, albergava in sé possibilità e facoltà d’esperienza del tutto diverse dall’uomo d’oggi.

Porre attenzione a questi stadi d’evoluzione dell’interiorità umana comporta conseguenze conoscitive smisurate, una delle quali possiamo formulare così: esercizi di meditazione o esercizi yoga, per esempio, che erano adat ti e favorevoli per il corpo, l’anima e lo spirito degli esseri umani al tempo del Buddha (500 a.C.), non possono in alcun modo andar bene per l’uomo d’oggi che, proprio in base a questi 2500 anni trascorsi, è diventato del tutto diverso.

È chiaro che con ciò non si afferma che il Buddha, 2500 anni fa, abbia detto cose non giuste: è l’esatto contrario. Anzi, nella prospettiva delle ripetute vite terrene siamo stati noi stessi a ricevere l’immensa bontà del Buddha e quegli impulsi evolutivi specifici che, anche tramite l’indicazione degli esercizi, egli ha immesso nell’umanità perché desiderava che operassero nell’umanità.

Risulta subito il pensiero che, se noi abbiamo veramente fatto quel che la saggezza del Buddha suggeriva, ci troviamo, oggi, a gradini evolutivi nuovi: non può che esistere in noi una compagine interiore totalmente diversa.

Il concetto di evoluzione e il conseguente mutamento di ciò che di tempo in tempo è consono all’evoluzione stessa, sono fondamentali nella scienza dello spirito: ciò non vuol dire che la verità diventi relativa, l’abbiamo già detto. La verità è un fattore di oggettività, mentre sono il bene e la moralità a diventare relativi. Per l’individuo il bene è relativo alle stagioni della sua vita; per l’umanità generalmente intesa è relativo ai secoli e ai millenni che passano. Cambia quel che aiuta a crescere.

L’esempio del nostro modo di allevare ed educare un bambino piccolo chiarisce molto: per un bambino piccolo va bene che l’adulto lo sostituisca nelle decisioni, perché non ha ancora la capacità di prenderle in autonomia. La mamma non chiede al figlioletto se è d’accordo sul da farsi: fa lei direttamente. E va bene così. Lo stesso comportamento vent’anni dopo non solo non è più un bene, ma diventa una cosa terribile! Eppure è lo stesso comportamento!

Gli esercizi di meditazione adatti a uno stadio evolutivo dell’umanità non vanno più bene in un altro stadio evolutivo. Perciò la domanda fondamentale alla quale dobbiamo rispondere per individuare le tecniche del cammino interiore è questa: quali tecniche vanno bene per me, oggi?

Uno degli aspetti della modernità è proprio il sopravvenire dell’individualità: noi ci accontentiamo sempre di meno di risposte generali. Ciascuno di noi vuole specificare: ci sono aspetti della spiritualità dell’uomo moderno che certamente valgono per tutti noi, ma tanti altri chiedono di essere individualizzati. Uno di questi è il modo di meditare.

Abbiamo già visto che ci sono due dimensioni fondamentali del cammino interiore:

• una riguarda il coltivare le sei virtù morali fondamentali relative al pensare, sentire e volere (attenzione, intenzione, distensione o equanimità, positività, spregiudicatezza e la virtù di saperle esercitare tutte insieme, armonizzandole) che contengono affermazioni di carattere universale.

Valgono per tutti, sono come un faro comune per il cammino interiore. Ma abbiamo anche visto che la modalità pratica degli esercizi è rimessa all’individuo;

• l’altra dimensione riguarda gli aspetti tecnici della meditazione, dove non esistono regole generali perché il modo concreto di meditare diventa oggi sempre più individuale. Come le sei virtù sono di carattere universale perché per tutti noi vale il fatto che è proficuo coltivare il pensiero, la volontà, il sentimento ecc., così dobbiamo dirci che riguardo al meditare l’unica affermazione generale valida per tutti è che ogni essere umano può senz’altro trarne giovamento. La meditazione non è dannosa per nessuno ed è giovevole per tutti. Ma quando ci chiediamo: come si medita? non è più consono ai tempi dare risposte generali. Ecco la differenza.

Il Buddha 2500 anni fa è stato in grado di dirci: figlioli, si medita così, così e così. Oggi viviamo in una temperie spirituale di individualizzazione tale (e questa individualizzazione è bella, giusta e necessaria) per cui diciamo: ognuno deve trovare il modo che va bene per sé. Sicuramente ci vorrà un po’ di tempo, si dovranno provare diverse modalità per quanto riguarda la durata, per esempio: si può fare l’esperienza di provare a meditare dieci minuti, un quarto d’ora, poi si vede che è troppo e si riduce; oppure si comincia con tempi brevi e poi si allungano…

Il modo di gestire il tempo della meditazione è un mistero della libertà di ognuno. La cosa importante è arrivare o no al punto di decidere di provare a meditare. La meditazione è il tempo che io prendo per me stesso, nella solitudine della mia stanza, e pongo davanti alla mia anima un mantram o un’immaginazione (poi entrerò più nel dettaglio) e mi dedico ad essi. E le regole del «come meditare» le stabilisco io. Sono un artista. Il mio modo di agire, il mio modo di venire alle prese con la mia interiorità sarà senz’altro diverso da quello di un altro.

Pensiamo soltanto al fatto che ai tempi del Buddha non c’era la cosiddetta scienza, non c’erano la tecnica, la tecnologia e le conseguenti trasformazioni interiori che l’uomo ha operato in se stesso confrontandosi con queste nuove conquiste della conoscenza. La storia non va mai indietro: va sempre avanti.

Uno dei criteri fondamentali per seguire questi mutamenti umani nel tempo è il passaggio da uno stadio evolutivo dove l’umanità incentrava nel corpo il proprio cammino, a uno stadio dove privilegiava l’anima e infine, oggi, a uno stadio che pone al centro lo spirito.

Aiutiamoci ancora con l’esempio del bambino: dapprima in lui si manifesta essenzialmente il fatto corporeo, sono primarie tutte le funzioni biologiche e fisiologiche; l’intero suo essere è come un organo di percezione aperto. Più tardi si emancipa sempre di più l’anima con le facoltà del pensare, del sentire e del volere: dai sette ai quattordici anni, nella fase scolastica di base, il bambino è un puro essere animico e perciò guai a interpellare il suo spirito prematuramente, guai a presentargli sforzi concettuali e critici che presuppongono già l’intervento dello spirito. In lui tutto è sentimento che chiede di vivere nell’elemento artistico. Soltanto a partire dai quattordici anni possiamo cominciare a rivolgerci veramente alle forze del suo spirito.

Ugualmente, in fatto di meditazione, più andiamo indietro nei tempi e più le indicazioni tecniche riguardavano il corpo: la posizione del corpo e la respirazione erano fondamentali nella cultura indiana. Poi, andando avanti nell’evoluzione, sono subentrate le regole dell’anima, quelle date dalla chiesa, per esempio, che è stata una buona mamma finché gli esseri umani vivevano maggiormente nelle forze animiche della fede e del sentimento. Oggi siamo tutti nel trapasso, nell’ardua transizione evolutiva che conduce ad avere di sé l’esperienza di un essere incentrato nello spirito, capace cioè di pensiero oggettivo e di decisioni autonome. Ciò spiega perché il tipo di spiritualità che la chiesa proponeva e propone tutt’oggi diventa sempre meno adatto.

Viversi nel registro dell’anima significa porre al centro il sentimento, il vissuto: i pensieri sono allora soltanto un riflesso del vissuto, un’inevitabile e automatica conseguenza. Questo stato interiore significa che se, per esempio, sento in me angoscia per una grave malattia che mi ha colpito, ne deriva subito il pensiero che ogni malattia sia una brutta disgrazia.

Quando invece l’essere umano si vive in chiave di spirito, avviene l’opposto: prima si appella all’elemento fondamentale dello spirito, cioè al pensare, alla conoscenza, e solo dopo i sentimenti s’ingenerano come riflesso del pensiero, della forza dello spirito. Restando nell’esempio di prima, se penso che il mio Io vede la malattia come un’occasione per generare forze di guarigione e di crescita, nel mio animo nasce una serena fiducia e non lo spavento. Occorre allora che sia il pensiero a determinare sempre di più quel che avviene nell’anima, e c’è quindi bisogno di un cammino interiore, con corrispondenti tecniche, che interpelli lo spirito dell’uomo.

Uno dei caratteri fondamentali del cammino interiore nei tempi passati era la presenza di scuole e di maestri che avevano il compito di dire ai discepoli ciò che dovevano fare. La stessa metodica, oggi, è anacronistica perché nessuno che viva in consonanza con i tempi moderni vuol sentirsi dire quel che deve fare. Il carattere fondamentale dello spirito è l’autonomia. L’anima non è ancora autonoma: per natura sua l’anima cerca contesti di gruppo e vi si adegua. Perciò, se nel passato aveva un senso dare all’uomo giudizi e indicazioni morali, l’unica cosa che può essere oggi veramente attuale è dare contributi conoscitivi.

Quando un altro mi aiuta a capire meglio le cose, forse perché le ha scandagliate più a lungo di me, interpella il mio pensiero e mi fornisce elementi di giudizio che io stesso, poi, posso gestire in proprio e in libertà. Per questo in chiave moderna esistono unicamente indicazioni conoscitive rispetto al cammino interiore: viene scientificamente descritto ciò che avviene in seguito ad un processo meditativo, o di concentrazione, ecc. Non si aggiunge nessun «devi fare questo e quest’altro».

Nella scienza dello spirito moderna le indicazioni sul cammino interiore sono come le istruzioni per l’uso di una macchina, senza nessuna raccomandazione ad usare la macchina stessa.

La differenza netta, assoluta, tra un giudizio conoscitivo e un giudizio morale è che il giudizio conoscitivo (sia per chi lo formula, sia per chi lo ascolta) amplia gli aspetti della verità oggettiva e comune a tutti. Il giudizio morale (sia per chi lo emette sia per chi lo riceve) limita, debilita e mortifica la forza dello spirito umano nella sua capacità di orientarsi nel mondo: una capacità individuale e unica, che solo nell’agire autonomo del singolo trova la sua realtà oggettiva.

Gli emanatori di giudizi morali (che vanno dai predicatori sui pulpiti delle chiese, ai rigidi conservatori di consuetudini sociali, ai portavoce degli interessi economici che inducono comportamenti tramite la pubblicità fino ad arrivare, più semplicemente, alle persone che si arrogano il diritto di dire la loro sulle azioni altrui) e i fruitori di questi giudizi (cioè le persone non libere che vanno cercando in questi giudizi esterni indicazioni su quel che debbono o non debbono fare) sono il moderno esempio della non libertà, e cioè dell’immoralità.

Il giudizio morale è fecondo soltanto se ognuno lo emette nei suoi stessi confronti e lo fa nascere dalla sua libertà interiore.

Riprendiamo la triade corpo-anima-spirito. Abbiamo detto che più andiamo indietro nel tempo e più c’erano alla base del cammino interiore indicazioni relative al corpo: perfino la dieta era importante, mentre oggi, per esempio, atteggiarsi a vegetariani soltanto perché qualcun altro dice che va fatto è quanto mai deleterio. Poi, andando avanti nel tempo, sono sopraggiunte indicazioni animiche – vedi tutta la mistica medioevale relativa al mondo dei sentimenti. Man mano che ci avviciniamo ai tempi moderni, è sempre più necessario offrire allo spirito elementi conoscitivi che lascino libero ciascuno di farne quello che vuole.

In un certo senso c’è una struttura moderna trinitaria del cammino interiore che corrisponde alla struttura dell’Io: poiché in ognuno di noi vive un Io intellettivo che cerca il vero, un Io estetico che cerca il bello e un Io morale che cerca il buono, possiamo dire che nel cammino interiore esistono tre livelli relativi a queste tre dimensioni dell’Io.

1. Lo studio è fondamentale per l’Io intellettivo: come nessuno di noi oggi può prescindere dalle basilari conoscenze scientifiche del mondo visibile perché ogni professione le richiede, così l’apprendimento delle verità fondamentali sulle realtà soprasensibili è indispensabile per il cammino interiore. Se io voglio intraprenderlo senza studiare una scienza dello spirito perché non ne sento l’esigenza, o perché non mi va, vuol dire che vado ancora in cerca di sensazioni e di regole di comportamento che mi vengano dall’esterno.

Lo studio è proprio la base intellettiva che ci rende liberi: studio significa lettura e responsabilità morale nei confronti della lettura. È importante che io comprenda sempre meglio le realtà e le leggi del mondo sovrasensibile in modo che, avvicinandomi ad esso attraverso la meditazione, io mi diriga verso realtà alla cui conoscenza ho dedicato il mio pensiero. Questa conoscenza è oggi accessibile alla libertà di ognuno di noi, perché ci sono testi che descrivono il sovrasensibile in modo adatto ai tempi moderni.

Studiare non significa leggere e credere a ciò che Steiner ha da dire: studiare significa confrontarsi con descrizioni che per esempio riguardano le Gerarchie degli Esseri spirituali, oppure la vita dopo la morte, riservandosi di esprimere il proprio giudizio in merito, in base al proprio pensiero. Rudolf Steiner si opponeva in modo veemente al fatto che qualcuno prendesse in mano un suo libro con l’intento d’ingoiare nuove credenze. La sua reazione era questa: se vai ancora in cerca di qualcosa a cui credere, resta pure nei dogmi del cattolicesimo che sono fatti apposta per essere creduti. La scienza dello spirito è fatta per venir pensata. Non ti si chiede di credere: ti si chiede di pensare sulle cose con le tue forze di giudizio.

«Il dottore ha detto…»: si sente spesso pronunciare questa magica frase per dire che, avendo fatto Rudolf Steiner la tale o la talaltra affermazione, è inutile stare a discutere. Ma già tutto il medioevo diceva ipse dixit per riferirsi ad Aristotele! Il grande passo in avanti è che il cimento sulla scienza dello spirito non va fatto per diventare di nuovo passivi e credere a Steiner crogiolandosi nei nuovi dogmi steineriani. No! La scienza dello spirito è fatta per attivare e incentivare la libertà pensante di ogni uomo. È il cammino più profondo della libertà.

Che poi, sudando sudore proprio, si arrivi a constatare che un’individualità come quella di Steiner è davvero conoscitivamente affidabile perché i conti tornano sempre su quel che ha comunicato, questo è un motivo in più per aver fiducia nel lavoro di ampliamento e rafforzamento delle proprie forze pensanti.

2. L’Io morale, l’Io religioso cresce con le sei virtù fondamentali di cui abbiamo parlato: si espone a molti pericoli chi medita, medita, medita senza coltivare le dimensioni morali della positività, dell’equanimità, dell’attenzione nel suo pensare, della purezza della forza volitiva ecc.

3. Per l’Io artistico, per l’Io estetico, che è intermedio tra l’Io intellettivo e l’Io morale, c’è la meditazione vera e propria, di cui ora parleremo.

La meditazione, un capolavoro d’arte tutto individuale

Propongo di vedere l’esercizio di meditazione in chiave artistica, proprio perché è una prospettiva inconsueta. Prima sottolineavo che il carattere fondamentale della meditazione è quello di non avere regole generalizzabili. L’Io di ognuno è chiamato ad essere artista: se noi stessimo tutti dipingendo e ci fosse un maestro ad assegnarci un tema – un tramonto per esempio –, pensate che ci potrebbero mai essere due tramonti uguali? No, perché la composizione dei colori, tutti i movimenti del pennello, la pressione della mano ecc. non potranno mai essere identici in due persone.

Ogni meditazione è un capolavoro artistico. Oppure non è una meditazione. A me sembra un fatto bellissimo: nel nostro mondo così rigido e regolamentato, dov’è che abbiamo libertà? Nella scienza ci sono regole, regole, regole; nella religione tradizionale ci sono regole morali, regole morali, regole morali… ogni pover’uomo si deve dare una regolata dall’inizio alla fine della sua vita! Almeno quando medita gli si dice: finiscila di regolarti! Ma allora comincia la paura: perché l’uomo moderno non è abituato alla libertà. Nel suo profondo, però, sa di averla cercata da sempre, sa di aver percorso millenni proprio per afferrare la libertà. E la meditazione è fatta per questo. La meditazione è fatta di momenti di libertà interiore assoluta.

E se io chiedo: come si fa a meditare?, non ho ancora capito di che si tratta. Io devo decidere cosa voglio fare di questi cinque minuti. Nella meditazione sperimentiamo pura arte, pura creatività, pura individualità. Siamo liberi da tutte le regole del passato e siamo liberi per tutto quello che vogliamo suscitare dentro di noi: siamo confrontati con la nostra pura capacità di creare. E la potenzialità creativa c’è in tutti perché la natura umana stessa è potenzialità di creazione. Solo che viene vissuta troppo poco.

Eppure dalla scienza dello spirito ci viene detto come meditare. Allora c’è una contraddizione? No. Vedremo che le regole del meditare sono fatte apposta per far sparire tutte le regole.

Esistono due forme fondamentali di meditazione:

1. una pone alla base un testo che anticamente veniva chiamato mantram o mantra. La parola mantram ha lo stesso significato della parola greca μετρον (mètron), che vuol dire «misura»: infatti i testi mantrici erano tutti dati secondo la metrica ed erano, e sono, testi assolutamente tecnici.

Bisognerebbe meditare unicamente su testi dati all’umanità da iniziati, perché allora possiamo esser certi che nel testo, tramite il linguaggio e i suoni stessi delle parole, viene riflesso in modo fedelissimo un qualche processo che avviene nel mondo spirituale. Con questo voglio dire che i testi per la meditazione non sono mai invenzioni letterarie: un iniziato non inventa ma percepisce e osserva i processi spirituali, così come essi sono – rapporti tra le Gerarchie spirituali, aspetti del divenire cosmico ecc. Poi, nel modo più fedele possibile, li traduce nel linguaggio umano.

Naturalmente, nella disamina di questi testi di meditazione, dobbiamo anche inserire il fattore tempo. E allora io penso che se è vero che Steiner è l’iniziato dei tempi moderni a un livello che non ha trovato paragone nell’umanità attuale, allora i testi di meditazione da lui dati debbono avere un posto assolutamente privilegiato. Ma questa non è un’indicazione morale: sto esprimendo il pensiero che i testi della moderna scienza dello spirituale mi sembrano di gran lunga i più confacenti all’uomo d’oggi, rispetto ai tanti altri testi antichi.

C’è una grande differenza tra un mantram dato dal Buddha, dove vive l’intento di condurre l’uomo sempre di più nel mondo spirituale tirandolo fuori dalle illusioni e dalle pene del mondo visibile, e un mantram dato da Steiner che, nello spirito cristico di amore all’incarnazione, è adatto a generare in chi medita un amore sempre più profondo per la Terra e per tutte le sue creature.

E la domanda non è: quale dei due testi è migliore? La domanda è: quale dei due testi è più in accordo con il compito evolutivo moderno?

2. La seconda forma di meditazione è il vivere in un’immagine. Molti di voi conosceranno la meditazione fondamentale sulla «rosacroce» che Steiner descrive nel suo libro La scienza occulta. Qui non siamo di fronte a parole che vanno meditate, ma ad immagini: si inizia paragonando la pianta della rosa con l’essere umano, si guarda alla linfa purissima che scorre dalla radice ai petali e la si confronta con il sangue umano, caldo fiume che fluisce rosso, pieno di gorghi e vortici di passione e desiderio. La pianta non ha raggiunto il gradino umano, infinitamente più evoluto: però l’uomo l’ha conseguito al costo altissimo della caduta, del peccato originale.

La pianta è un essere di purezza: l’essere umano è pieno di ombre. Allora, continuando a elaborare e costruire immagini, l’anima si pone davanti al gradino evolutivo successivo che attende l’uomo: qui il sangue, rosso come i petali della rosa, non sarà più un flusso di brame e d’istinti ma porterà in sé correnti d’amore e d’armonia. E allora sarà puro succo rosso di rosa. La linfa della pianta troverà nell’uomo il suo livello perfetto.

Questo processo interiore di raffronto tra l’uomo e la rosa non va fatto per mezzo di elucubrazioni mentali, ma deve scaturire dalla sfera dei sentimenti: si deve sentire nel cuore la tragedia della caduta umana, l’abisso delle tenebre che lo percuotono e flagellano e poi l’anelito, l’anelito tutto umano a rialzarsi e andare oltre, portando con sé il carico di quelle pene che, via via, da rocciosa zavorra diventano ala, ormai rese lievi da tutto il dolore vissuto.

L’immagine allora si trasforma nell’anima di chi medita in una croce nera con sette rose rosse che la avvolgono nel punto d’incrocio dei bracci. La croce nera rappresenta, nella meditazione, tutto quel che c’è da far morire dentro di noi, tutte le brame, gli egoismi, le disarmonie, le opposizioni tra gli esseri, le illusioni…: tanto deve bruciare dentro di noi per far sorgere questa croce nera che è come un carbone, una sacra orma morta della nostra natura inferiore.

L’egoismo è consumato e nascono sette rose vive, purissime. Esse sono il settenario umano del corpo fisico, del corpo eterico, del corpo astrale, dell’Io, del Sé spirituale, dello Spirito vitale e dell’Uomo spirito[20]. Sono il compimento dell’umano, sono l’Uomo nell’espressione piena e realizzata del suo essere. Questo settenario porta in sé le leggi caste del vegetale, ma è rosso come il sangue perché è fatto d’amore consapevole.

È importante nella meditazione la forza dei sentimenti, sia che si mediti su un testo, sia che si mediti su un’immagine: è importante che l’attività del pensare venga sempre accompagnata dal calore del cuore. Sempre. Così si trasforma profondamente l’anima.

Momenti privilegiati per la meditazione quotidiana

Quando è meglio meditare? Nel segno della libertà individuale si può rispondere: medita quando vuoi. Però ci sono dei momenti oggettivamente privilegiati per il meditare. Se è vero che la meditazione è il cammino che ci ricongiunge con lo spirituale, il cammino che va indietro fino alla caduta e la risolleva nell’esperienza dello spirito, è altrettanto vero che ci sono due momenti particolari della giornata dove gettiamo ponti tra Terra e Cielo: il risveglio e l’addormentarsi. Quando al mattino lasciamo il mondo spirituale e ritorniamo dentro il corpo, e quando alla sera usciamo dal corpo e ritorniamo nel mondo celeste. Così è, da sempre.

Questo vale anche per l’uomo moderno perché anche lui si sveglia e si addormenta, e questi processi dureranno ancora per un bel po’. Per questo anche nell’antica meditazione si riconosceva che i momenti più fecondi sono quelli che viviamo subito dopo il risveglio e subito prima di addormentarci.

Fatta al risveglio, la meditazione aiuta a tirar dentro, nella coscienza desta, il più possibile di ciò che abbiamo vissuto nell’anima e nello spirito durante il sonno: essa è un esercizio di rammemorazione. La meditazione serale aiuta invece a portare incontro all’Angelo custode e a tutti gli Angeli, gli Arcangeli, i Principati, Le Potestà, le Virtù, le Dominazioni, i Troni, i Cherubini e i Serafini le tante domande, magari anche tragiche e assillanti, che noi custodiamo nell’anima.

Così si potrebbe dire che la meditazione della sera è come una domanda che rivolgiamo al mondo spirituale nel quale entriamo con il sonno, e che la meditazione del mattino è un modo per stare attenti alle risposte che portiamo con noi ritornando alla coscienza diurna.

L’umanità di oggi è abituata a profanare tutto, e ha profanato anche il sonno e il risveglio: spesso ci addormentiamo senza fare un minimo di ordine dentro l’anima. Non sappiamo più che il sonno è una realtà sacra della vita e allora dobbiamo imparare, coscientemente e in modo nuovo, a venerare questo arco di ponte che ci porta nei mondi spirituali, proponendoci di attraversarlo col meglio di noi stessi.

Qualcuno ricorderà il vecchio detto: non ti addormentare sulla tua ira. Se sei adirato con qualcuno, riconciliati prima di addormentarti. Ciò si riferisce al fatto che se io mi addormento con la compagine interiore intrisa di egoismo virulento, questa io porto nell’aldilà. Non porto pace ed armonia. Così è anche per il risveglio: quando il nostro spirito e la nostra anima riprendono possesso della vita terrena, noi dovremmo avvertire che in quel momento il cosmo intero rinnova il suo amore per la Terra.

Detto questo, ognuno è poi libero di meditare quando vuole.

Il maestro

Il cammino interiore moderno ha bisogno del maestro spirituale, del guru? Poche parole, su questo interrogativo che è già stato proposto ieri, durante il dibattito. Se è vero che ci sono maestri – e ci sono –, se sono convinto che Rudolf Steiner sia più avanti di me nell’esperienza dei mondi sensibili e sovrasensibili, allora lo posso considerare come un maestro. Il fatto stesso che studio la sua scienza dello spirito lo testimonia. Ma l’affermazione fondamentale resta oggi questa: il rapporto col maestro deve diventare sempre più libero, perché questa è la direzione del cammino dell’umanità.

Dire più di questo, dare indicazioni più precise, secondo me diventa subito soverchio perché questo orientamento è già sufficiente. Come il bambino che cresce va nella direzione di aggiungere alla sfera corporea biologica sempre di più la sfera animica e poi quella spirituale della libertà, del pensiero, dell’autonomia ecc., così il rapporto col maestro va dagli antichi stadi in cui il maestro diceva in tutto e per tutto al discepolo ciò che doveva fare, a un tipo di maestro che oggi fornisce unicamente elementi conoscitivi e mai ingiunzioni sul da farsi. Il maestro moderno aiuta sempre a fecondare il pensiero.

Quale punto, poi, ogni singolo abbia raggiunto nel suo cammino verso l’autonomia non è individuabile tramite qualche regola, o qualche esercizio. Però è sufficiente sapere che la direzione generale dell’evoluzione va verso una sempre maggiore autonomia. Il maestro spirituale migliore è perciò quello che vuole al più presto rendersi superfluo. È così anche per i maestri della scuola, no? Un maestro che si rendesse necessario per tutta una vita, sarebbe una catastrofe, perché non avrebbe fatto nulla per favorire l’indipendenza del discepolo.

La chiesa è stata una maestra buona o cattiva? La risposta vera è quella di vedere se ha fatto di tutto per rendersi superflua: se lo ha fatto, è stata una maestra buona, se invece intende rendersi eternamente indispensabile è una maestrucola.

Dobbiamo tenere l’occhio bene aperto a questo grande trapasso dell’evoluzione riguardo al maestro. Vedremo che una delle differenze fondamentali tra il maestro Buddha e il maestro Cristo, per esempio, consiste proprio in questa svolta evolutiva: Buddha porge l’ultimo grande insegnamento morale prima del passaggio all’insegnamento conoscitivo. È il passaggio dall’anima allo spirito. Il Buddha dava ancora ingiunzioni morali sul da farsi; invece il Cristo, avverando la svolta dei tempi, come primo maestro moderno per tutta la seconda metà dell’evoluzione, fornisce unicamente elementi conoscitivi.

Che poi il Cristo sia stato in questi duemila anni profondamente frainteso e buddhizzato, cioè interpretato ancora in senso antico, questo è comprensibile ed umano; non corrisponde però al modo di operare del Cristo, che è stato tutto volto a suscitare in ogni uomo l’autonomia e la responsabilità individuale.

In questo senso potremmo dire che siamo appena agli inizi di un cristianesimo vero, e ciò rientra nei passi evolutivi dell’umanità: non si tratta di condannare vecchie tradizioni, ma di capire che il cammino evolutivo umano va verso la dimensione spirituale dell’autonomia interiore.

I mantram, ovvero i testi su cui meditare

Coltivare la libertà è questione di esercizio interiore quotidiano: la libertà non viene da sé, non spunta come un fungo.

Il verbo «meditare», meditor in latino, è un verbo frequentativo, iterativo: come crepitare, strepitare, sbraitare, avvitare…; quando in un verbo compare la sequenza «it» si indica sempre la ripetitività dell’azione. Meditor è un verbo di forma media deponente ed indica che l’azione ritorna su di me. È medio deponente anche metior, misurare: l’azione del misurare ritorna su di me. Medio, «divido », è invece un verbo transitivo attivo: l’azione del separare, che viene prima del misurare, ricade sull’oggetto. Quando il dividere diventa un misurare, un passare metro per metro ricomponendo l’armonia delle parti, io ricevo su di me l’effetto dell’azione; e quando il misurare diventa frequentativo, e quindi c’è una sua intensificazione, diventa un meditare, un misurare intenso che ritorna su di me.

Meditor è una bellissima parola: è la forza del ponderare interiore che passa in rassegna parola per parola il mantram della meditazione; oppure edifica, passaggio per passaggio, l’immagine bellissima della rosacroce. La parola «meditazione» viene da meditor, ed è un vero poema: è proprio il crepitare, il martellare dell’essere intensamente e continuamente presenti.

Meditor. Coloro che hanno inventato questa parola sono stati sommamente ispirati dalle Gerarchie spirituali. Non potrei immaginare una parola più bella per l’esercizio di intensificazione dell’interiorità, dell’attenzione, dell’amore: ciò che ho diviso (medio) diventa un misurare che ritorna e influisce su di me, e cambia e trasforma la mia anima (metior). Nella misura in cui si intensifica e si ripete diventa frequentativo, iterativo (meditor), diventa una specie di crepitio interiore dell’amore che non molla, che è così concentrato che martella, martella, martella, cesella, cesella, cesella… Tutto questo è compreso nella parola meditazione!

Quali testi, allora, vanno presi per la meditazione? Tutti i detti del Cristo presenti nei vangeli sono naturalmente testi di meditazione: il problema è la traduzione. Per i testi di meditazione una cosa fondamentale è infatti che siano in lingua originale. I mantram di Steiner sono stati dati in tedesco: è karma dell’umanità che la scienza dello spirito sia stata data in tedesco. Steiner infinite volte ha sottolineato il fatto che, nel forgiare in lingua tedesca i processi, le realtà, i dialoghi dei mondi spirituali, ha fatto di tutto per rendere nel modo più fedele possibile la sua esperienza. Quindi la successione stessa delle vocali e delle consonanti è di estrema importanza.

Il Padre Nostro in latino è ancora un mantram occulto (naturalmente in greco e in ebraico è ancora più forte): in italiano, o in tedesco, perde quasi tutto.

Pater noster qui es in coelis…

Πατερ ημων ο εν τοις ουρανοις… (Patèr emòn o en tòis uranòis).

Ci sono leggi fondamentali di sequenza di suoni che operano in chi medita: perciò il fatto di meditare il Padre Nostro in greco non è la stessa cosa che meditarlo in italiano o in latino. Ecco l’elemento artistico: la meditazione non è un fatto intellettivo. Quando io medito un mantram la cosa meno importante è il contenuto teorico. Ciò che genera forze è l’elemento artistico dentro il quale vive l’anima; e l’anima, poi, sale allo spirito. Quando studio io sono direttamente nello spirito: quando medito vivo nell’anima e attraverso l’anima entro nello spirito.

L’uomo d’oggi conosce poco lo spirito, ne pratica quasi soltanto il riflesso astratto; conosce uno spirito intellettuale, che non è vero spirito. Lo spirito vero è sempre quello che si accende a partire dalle forze dell’amore, e la meditazione ci fa tuffare nell’elemento artistico dell’anima, che è un fattore d’amore. Per l’amore non è secondario come le vocali e le consonanti forgino le parole.

Chi medita su mantram di Steiner tradotti in italiano, deve essere consapevole del fatto importante di avere fra le mani una traduzione. Una soluzione intermedia sarebbe quella di avere il testo tedesco a fronte di una traduzione italiana, la più fedele possibile, in modo che si possa, anche se non si capiscono tutte le parole, almeno pronunciarne i suoni.

Il quesito del perché la scienza dello spirito sia stata data in tedesco riguarda il karma dell’umanità e ci porterebbe troppo lontano volerlo esaminare in modo approfondito. Però è un dato di fatto, di sicuro non aleatorio e casuale, che questo impulso spirituale della nostra epoca sia stato dato in lingua tedesca.

La scienza dello spirito calza fino in fondo soltanto in tedesco: ne ho avuto diverse volte l’esperienza. Una volta venivo in aereo dalla Germania a Roma, dove dovevo tenere una conferenza sull’evoluzione della coscienza morale. Non mi ero reso conto che la conferenza me l’ero tutta pensata e preparata in tedesco: arrivo a Roma e, dopo appena un’ora di automobile, sono già nella sala, davanti ai convenuti, senza nemmeno il tempo di rientrare nel genio della lingua italiana.

Comincio a parlare: cari amici, oh che bello siamo di nuovo insieme… da quanto tempo non ci vediamo… come sono contento di essere qui… convenevoli, convenevoli, convenevoli. Alcuni amici, dopo la conferenza, mi hanno chiesto: ma senti un po’, come mai stavolta non la finivi più di omaggiarci mentre di solito vai subito al sodo? Ho risposto: mentre mi sperticavo in tutte quelle cerimonie, pensavo disperatamente: ma come diavolo si dice Gewissen in italiano?

In tedesco, infatti, ci sono due parole distinte per «coscienza»: Bewußtsein è la coscienza conoscitiva, intellettiva; Gewissen, è la coscienza morale. Io avevo preparato una conferenza sull’evoluzione del Gewissen e mi mancava la parola corrispondente in italiano! Ho sudato, ho sudato fisicamente finché la liberazione interiore è venuta quando mi sono detto: devi aggiungere ogni volta alla parola coscienza l’aggettivo «morale». Questo come piccolo esempio per dirvi cosa succede quando si traduce la scienza dello spirito dalla sua lingua materna in un’altra lingua: non è cosa da poco.

La riservatezza

Quanto deve durare la meditazione? Quanto uno ce la fa. È una cosa del tutto individuale. L’importante è aver chiaro che la meditazione, come esercizio specifico, deve essere un momento assolutamente distinto dal resto della giornata: è un grave sbaglio mantenere e trasfondere a tutta la giornata l’atteggiamento interiore che si ha durante la meditazione. Una persona che all’ufficio, per esempio, portasse la compagine interiore che aveva in quei cinque minuti di meditazione, sarebbe un disastro nelle sue funzioni lavorative.

Veniamo messi in guardia dal confondere la sfera dello scorrere quotidiano e normale della nostra coscienza, e la sfera del tutto diversa e privilegiata dei momenti di meditazione. Che col tempo, col passare degli anni, la meditazione quotidiana e soprattutto l’esercizio serio delle sei virtù morali possano trasformare la vita intera, è vero: ma la cambiano gradualmente, in modo che nessuno se ne debba accorgere come se si trattasse di una stranezza. Una delle grandi leggi tecniche del cammino interiore è far di tutto perché dal di fuori nessuno possa dire: quello ha cominciato a meditare. Se nessuno se ne avvede, le cose vanno bene.

Dapprima il fatto che io comincio a meditare è faccenda mia: se tutto il mondo se ne dovesse rendere conto, i contraccolpi, le forze di opposizione a questa mia decisione sarebbero tali e tanti che mi toccherebbe capitolare. Il meditare riguarda inizialmente soltanto la mia sfera interiore e privata. Non so se a voi è mai capitato di incontrare persone vogliose di raccontarvi tutte le esperienze «occulte» che hanno avuto durante la meditazione: non è una situazione simpatica.

La smania di «vedere»

Un altro grande scoglio della meditazione è l’impazienza interiore: essa sorge quando si medita per avere un successo. E qui è lo sbaglio. La meditazione non è fatta per conseguire qualcosa: è fatta per meditare.

Un artista che dipinge, cosa vuole? Vuole dipingere, punto e basta. Se è un vero artista. Nell’attività del dipingere trova la sua beatitudine: se oltre al dipingere vuole il successo è già un artista meno grande. Lo scopo del meditare non è quello di andare a vedere mezza ala d’angelo o mezza coda di diavolo: lo scopo del meditare è il meditare. È di godersi una bella meditata!

Se io faccio la meditazione per ottenere qualcosa d’altro non sono libero. L’essenza della non libertà consiste nel fare qualcosa in vista di qualcos’altro. Se io agisco esclusivamente perché ho uno scopo esterno, vuol dire che non voglio ciò che faccio, ma voglio il risultato per cui lo faccio. Io voglio vedere l’angioletto e perciò medito: ma allora io non voglio meditare, voglio vedere l’angioletto! E allora non sono libero perché faccio ciò che non voglio. A me infatti non interessa la meditazione, ma il vedere nel mondo spirituale.

Perché non è libero un uomo che si ubriaca? Perché fa quello che non vuole: beve. Ma come?, si dirà, lui vuole bere! Ma neanche per sogno: vuole il risultato del bere, vuole l’ebbrezza. Se potesse avere l’ebbrezza senza bere, sarebbe ben contento: non dovrebbe comprarsi il vino e si risparmierebbe pure il mal di testa successivo, e le coliche di fegato. Quindi non è il bere che vuole, ma il risultato del bere. Perciò non è libero.

È un’analisi psicologica interessantissima: la struttura interiore della non libertà consiste nel fare qualcosa in vista di qualcos’altro. Quando io medito per anni e anni e anni al fine di arrivare finalmente a vedere lo spirituale, per anni e anni e anni sono non libero perché per anni e anni e anni faccio ciò che non voglio.

La legge fondamentale del cammino interiore è che lo scopo del meditare sia il meditare stesso: senza secondi fini. Voi direte: ma se medito da tanti anni… ma almeno qualcosina, santa pace! Un’amorevole «sberla» conoscitiva di Steiner è questa: per quanto riguarda l’evoluzione effettiva di un essere umano, del suo spirito cioè, è del tutto uguale se le percezioni sovrasensibili siano di uno Steiner o siano le sue.

In altre parole dice: io, Rudolf Steiner, che per l’umanità ho ricevuto il compito di penetrare il mondo spirituale secondo percezione e pensiero per poi tradurlo in un linguaggio accessibile all’uomo, io stesso non traggo alcun vantaggio che non sia quello della conoscenza dei contenuti stessi. Una volta che le verità spirituali sono tirate giù dai mondi spirituali e descritte nelle conferenze o nei libri (ci sono oltre 350 testi nell’Opera Omnia di Steiner, quindi non c’è modo di restare disoccupati nella vita!), chi ascolta o legge non si trova svantaggiato minimamente nei confronti di chi questo compito lo ha svolto. Che le percezioni siano di Steiner non cambia nulla: importante è il modo di porsi dello spirito di fronte a questi contenuti. Lì avvengono i fatti.

Il passo evolutivo, reale ed autonomo di una qualunque persona comincia quando, posta di fronte a questi contenuti, li fa oggetto del suo pensiero. Là si compie il vero cammino dell’essere umano. È una grande consolazione capire che è del tutto secondario chi sia ad avere queste percezioni spirituali, perché l’averle non porta di per sé avanti di un solo passo nel cammino evolutivo. La presa di posizione pensante e libera, quella sì, ci porta avanti. Il fatto che io sia un artista nella meditazione, il fatto che io mi eserciti a essere creatore: questo mi fa crescere.

Se la meditazione in sé e per sé non mi basta vuol dire che è poverella. Se la meditazione è una vera meditazione, basta, eccome se basta: non è fatta per raggiungere qualcos’altro. Durante la meditazione sono non nel terzo, non nel quarto, non nel quinto, ma nel settimo cielo! La meditazione è puro esercizio di beatitudine spirituale. È un inquinamento assoluto della meditazione usarla come un mezzo per un fine.

Il meditare è l’esercizio della nostra libertà: aprire gli occhi sul mondo spirituale è invece un fatto di grazia, di karma. Gli Esseri spirituali sanno a chi e quando affidare la responsabilità di guardare nei mondi spirituali. Compito nostro è quello di meditare, è quello di venire alle prese con la nostra compagine interiore, di creare armonia, di plasmare artisticamente le forze interiori del nostro essere e provarne somma beatitudine. Meditare per conseguire la visione spirituale è un meditare egoistico, intriso di brame.

Ma allora… se noi lasciamo da parte l’aspettativa di riuscire a vedere, arriveremo prima a vedere…(!). La meditazione è un fatto di onestà con se stessi: ognuno deve rendersi conto se vive l’impazienza di vedere lo spirituale, o se veramente la meditazione è per lui un esercizio d’immanente beatitudine, fine a se stesso. E il resto si lascia alla grazia, al karma.

Chi riceve dalle Gerarchie spirituali l’enorme compito di afferrare nuovi contenuti nei mondi dello spirito, costui deve al contempo rinunciare a pensare sulle verità che già vivono sulla Terra. È una rinuncia immane! La maggior parte delle persone credono che si vada in un brodo di giuggiole quando si percepiscono cose nuove nei mondi spirituali: no, significa dover rinunciare alla cosa più bella che c’è, che è quella di pensare sulla realtà che è già presente.

L’iniziato non vive un privilegio, ma un sacrificio, una rinuncia che si riversa sul resto dell’umanità come un infinito dono.

DIBATTITO

Archiati: Le domande scritte sono molte e hanno tutte un carattere un po’ specialistico: siccome non è neanche possibile raggrupparle per temi, cercherò di dare risposte brevi una dopo l’altra, anche se sicuramente non potranno essere esaurienti.

Intervento: Riguardo al primo esercizio del cosiddetto controllo dei propri pensieri, dov’è che si trova la libertà, nel pensiero puro o in quello impuro? Mettiamo che l’enunciato «due più due fanno quattro» sia un pensiero puro: tutti la pensiamo così, ci troviamo d’accordo. C’è un elemento di uguaglianza. Se è un fatto così positivo, allora è positivo che i mass media si diano da fare per farci pensare tutti la stessa cosa?

Archiati: Su questa domanda si potrebbero dire moltissime cose. Lo scopo dei mass media non è quello di farci pensare la stessa cosa, ma di farci fare la stessa cosa: comprare un prodotto reclamizzato, per esempio, oppure votare il tal candidato alle elezioni politiche. L’intento dei mass media non è la verità, è il comportamento. I mass media non fanno appello alla nostra capacità pensante, anche se può sembrare così: mirano a uniformare il modo di agire. E questa è tutt’altra cosa: va compresa nel contesto della differenza che io ho posto tra giudizio conoscitivo e giudizio morale.

Il giudizio conoscitivo esamina la realtà così com’è, vuole conoscerla così com’è; il giudizio morale, invece, dice ciò che va fatto. Evolutivamente, in fatto di giudizi morali si tratta di individualizzarsi sempre di più: sia perché io ho il diritto di emettere giudizi morali soltanto sulle mie azioni, sia perché ciò che è bene per una persona non è bene per un’altra. I giudizi conoscitivi, invece, mirano alla consonanza, all’oggettività, all’unità; nel giudizio conoscitivo si può lottare, discutere, evidenziare l’errore dell’altro perché l’intento umano è l’accordo sull’oggettivo vero e reale, valido per tutti.

Sono due poli del tutto opposti: l’essere umano si universalizza nella ricerca della verità e si individualizza nel comportamento morale. Tutte e due le dimensioni sono fondamentali per l’esercizio e l’esperienza della propria umanità, perché ciascuno è universalmente umano nella sua capacità di pensiero ed è individualmente unico e irripetibile, in quanto Io, nelle sue intuizioni morali. Il contributo morale che un individuo immette nell’umanità è diverso dal contributo morale di un altro.

Se il bene fosse lo stesso per tutti, dovremmo fare tutti la stessa cosa. E ciò è assurdo perché contraddice il vero: se tutti facessimo la stessa cosa avremmo il cimitero, la noia infinita, la non-evoluzione, il dissolvimento delle individualità. L’Io spirituale di ciascuno di noi è venuto sulla Terra con intenti di opere del tutto diverse da quelle di un altro: l’umanità è come un organismo unitario che risulta dall’unicità e diversità delle funzioni di ogni organo. Per lo stomaco è bene accogliere il cibo, per i polmoni è veleno.

Intervento: Lei ha affermato che ci sono potenze determinate a tenere separate la sfera materiale e la sfera spirituale: nella separazione esse sono rispettivamente il regno di Arimane e il regno di Lucifero. Ma qual è la potenza che tende a tenerle separate?

Archiati: Il mio pensiero voleva caratterizzare da un lato il materialismo occidentale, che soggiace alla materia, dall’altro lo spiritualismo orientale che tende a rimanere disincarnato. Il parallelismo di cui ho parlato è l’oscillare da un estremo all’altro senza trovare mai la sintesi. Se è vero che l’esperienza unilaterale del mondo materiale come realtà assoluta e da idolatrare è retta dalla potenza del menzognero Arimane, e se è vero che l’altra unilateralità, quella della spiritualità disincarnata che scaraventa lo spirito per aria, lontano dal mondo materiale, è favorita dal superbo Lucifero, la schizofrenia dell’uomo moderno consiste nel fatto di passare alternativamente dalle braccia di Arimane a quelle di Lucifero. Le due esperienze continuano a rimanere parallele e inconciliabili: un po’ di qua, un po’ di là.

La forza cristica è una forza di mediazione, di sintesi: il male consiste nell’illusione di poter avere un polo senza l’altro. La prima forma del male è la materia senza lo spirito, la seconda è lo spirito senza la materia. L’essere umano vive la sua umanità nell’amore reciproco, nell’incontro tra spirito e materia: quando la materia ama lo spirito e lo fa risuonare e manifestare, e quando lo spirito ama tutte le creature per redimerle, per rianimarle, per riempirle di significato. Dove la materia ama lo spirito e lo spirito ama la materia lì si vive l’umano.

Disumano è lo spirito senza materia (astrazione, spiritualismi), disumana è la materia senza spirito (materialismo): lì va perduto l’elemento artistico del dialogo e della fecondazione reciproca. Il luogo dell’umano è l’eterna interazione tra spirito e materia, e le due forme del maligno, del disumano, consistono nel volere un tipo di spirito che disdegni la materia e una specie di materia che sia nemica dello spirito.

Intervento: L’energia cosmica è infinita o limitata nel tempo? Potrebbe esaurirsi attraverso le pratiche della pranoterapia, della medianità e della materializzazione di oggetti? E col tempo questo uso eccessivo di energia potrà anche impedire la lettura nella Cronaca dell’Akasha?

Archiati: Cronaca dell’Akasha significa «cronaca dell’incancellabile»: a-kasha è una parola sanscrita che significa appunto«non cancellabile». Il termine tecnico evangelico per indicare la stessa cosa è: il Libro della Vita, in greco βιβλος της ζωης (bìblos tes zoès). Ogni linguaggio antico ha avuto un’espressione tecnica per indicare questa possibilità di lettura. È chiaro che stiamo parlando di cronache e libri sovrasensibili, scritti a caratteri viventi nel mondo spirituale-eterico: in essi sono impresse tutte le cose che sono avvenute, che sono state fatte e dette nel nostro cosmo.

Quando si legge nel Libro della Vita? Al gradino dell’immaginazione. O meglio, lì si compita, perché le cose avvenute si vedono soltanto. Per leggere bisogna almeno pervenire al gradino dell’ispirazione.

La domanda chiede se l’energia cosmica che sostanzia tutte le immagini viventi della Cronaca dell’Akasha possa esaurirsi. Soltanto l’energia materiale è esauribile. Materiale è tutto ciò che è passibile di deperimento. Prendiamo come esempio di energia non materiale l’energia del pensiero: si può esaurire? Si esaurisce soltanto quando sono pigro nel pensare! È per natura inesauribile l’energia pensante: per natura! Un essere pensante può mai arrivare alla fine dei suoi pensieri? Non c’è mai la fine dei pensieri: c’è semmai la fine dei miei pensieri. Ma questo è un problema mio, non del cosmo.

In altre parole, il concetto di spirito è il concetto puro di illimitatezza assoluta, di realtà senza confini. Avere un limite, arrivare a un termine, è invece il carattere essenziale di tutto ciò che è materiale.

Intervento: Sentiamo parlare di clonazione: eventuali cloni umani sarebbero dotati di anima e spirito come noi, oppure sarebbero strumenti di incorporazione per esseri demoniaci o anche non necessariamente tali?

Archiati: Questa domanda è molto importante e nei prossimi anni occuperà l’umanità in modi che noi non sospettiamo nemmeno. Ultimamente è stata clonata una pecora ed è stato subito detto: nel giro di due anni saremo in grado di clonare l’uomo (siamo nel 1997, NdR). Sul «The Guardian», uno dei giornali inglesi più noti, c’era in prima pagina un articolo su questa pecora clonata e accanto c’era una vignetta, che era l’unica cosa interessante, visto che l’articolo era pieno di baggianate. Nella vignetta un tizio in macchina ha investito un uomo, che sta lì disteso e morto. Accanto c’è la moglie del morto che dice all’investitore: guardi, non c’è problema, ce n’ho un’altra copia a casa! Se noi cloniamo un uomo (che per definirsi tale dev’essere costituito di corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale e Io) e ne facciamo una copia fisica, come possiamo ripetere il processo evolutivo per corredarlo di Io, di corpo astrale e di corpo eterico? Cloniamo pure quelli? Saltano fuori due Io, due corpi astrali e due corpi eterici? E se l’Io non si può raddoppiare perché è un essere spirituale per il cui sorgere e costruirsi sono stati necessari millenni, è assurdo pensare che dato un pezzo di materia geneticamente uguale sorga automaticamente un Io di riferimento.

Rimarrà soltanto un corpo fisico umano, perfetto in tutte le sue funzioni. Sarà allora interessante ricordare che la scienza dello spirito afferma che ci sono infiniti Esseri spirituali, di stampo arimanico e luciferico, che agognano di potersi servire di un corpo umano, il più perfetto che ci sia nel mondo materiale. Moltissimi Esseri cosmici ci invidiano questa corporeità che loro non hanno.

La soglia della manipolazione genetica sulla quale oggi si trova l’umanità, si apre su un abisso: mai prima di questi anni in cui ora ci troviamo era stato possibile alla tecnica di raddoppiare il corpo fisico di un essere umano. Quale essere spirituale si servirà di questo corpo fisico? Non dimentichiamo che il corpo fisico è uno strumento: tutti i nostri corpi fisici sarebbero cadaveri se non fossero inabitati da un corpo eterico, da un corpo astrale e da un Io. Questo è un dato di fatto. Ora, se questo corpo viene raddoppiato la domanda è terribile: quale spirito si servirà di questo corpo?

Intervento: La simpatia e l’antipatia si collocano al livello dell’ispirazione? In che modo questi sentimenti ci possono aiutare?

Archiati: Ho detto che il livello immaginativo è quello della percezione di realtà spirituali; l’ispirazione è invece un colloquio, un dialogo fra essere ed essere. La comunicazione, l’osmosi di forze tra essere ed essere ha tantissimi livelli: uno dei più importanti è quello della simpatia e dell’antipatia che sono il sostrato, il portato di tutto il rapporto ispirativo trascorso fra due persone. Quindi tutto quel che c’è stato fra loro nelle incarnazioni precedenti, in chiave di ispirazione, comunicazione e scambio, emerge nel presente come simpatia o antipatia.

È ben altra cosa cogliere spiritualmente ciò che avviene tra un Angelo e il suo Arcangelo: l’Angelo custode di Dante, per esempio, mentre chiede all’Arcangelo di popolo italiano (quell’Essere spirituale in grado di abbracciare l’intera realtà di un popolo e di forgiarne la lingua) quale sia il compito del suo custodito Dante! Cogliere spiritualmente un dialogo del genere è un tutt’altro livello di ispirazione che non quello di vivere l’emergere delle simpatie e delle antipatie: però ambedue le esperienze si riferiscono all’interazione fra esseri.

La realtà è complessa, come vedete. E perché no? Nel mondo materiale operano centinaia di scienze e discipline, abbiamo sceverato e indagato il sensibile nei minimi particolari: se il mondo materiale è passibile di tanto scibile, il mondo spirituale sarà meno ricco? Il mondo spirituale è infinitamente più ricco, e noi siamo appena agli inizi di un vastissimo cammino di conoscenza dello spirituale che ci porterà nel futuro.

Intervento: Che cos’è che nel ricordare ci fa distinguere il sogno dalla realtà?

Archiati: La capacità di distinguere le due esperienze. Cosa mi fa distinguere un ferro incandescente reale da un ferro incandescente immaginato? Il buon giudizio. So la differenza: perché un ferro incandescente reale lo vivo in un modo diverso da uno immaginario. Qual è la differenza tra un piatto di spaghetti immaginato e uno vero? Coraggio, tra un quarto d’ora la scopriremo tutti la differenza! Qualcuno qui ha già l’acquolina in bocca: l’acquolina in bocca non sono gli spaghetti. L’acquolina c’è quando non ci sono gli spaghetti.

Intervento: A proposito dell’individualizzarsi, qual è il confine, visto che si può cadere nell’ego, nell’egoismo?

Archiati: Io capisco questa domanda così: qual è la differenza tra l’individualità vera, positiva, buona, e l’egoismo soggettivo? L’individualità vera del polmone rispetto al cuore, alla milza ecc. è il buon funzionamento del polmone per tutto l’organismo. L’egoismo del polmone si ha quando quest’organo si ammala e vuole attivare tutto l’organismo per sé. Io faccio l’esperienza dell’individualità vera quando mi sento armonicamente intessuto e inserito nel contesto di tutta l’umanità, nell’osmosi di forze dove c’è l’equilibrio: ama il prossimo tuo come te stesso. Vivo invece in chiave di egoità, di egoismo, quando vorrei che tutti gli altri fossero per me, quando manca l’equilibrio tra «io per gli altri» e «gli altri per me». Vedete, però, quanto è vasto questo mistero e come non si possa esaurire in poche considerazioni.

Basta con le domande scritte. C’è qualcuno che vuole dire qualcosa?

Intervento: Una domanda circa lo studio dei testi di Steiner: dicevamo che non bisogna credere per fede, ma cercare di sviluppare un giudizio pensante sul testo. Ora io mi chiedo: in base a quali organi posso elaborare un giudizio pensante autonomo su cose come quelle descritte, per esempio, ne La scienza occulta riguardo all’evoluzione terrestre, se non ho ancora gli organi spirituali che mi permettono di conoscere direttamente queste cose?

Archiati: Sicuramente ci sono delle comunicazioni nella scienza dello spirito che non si possono verificare subito in chiave pensante. Per restare al suo esempio, ne La scienza occulta leggo che c’è stata un’evoluzione saturnia della Terra, poi un’evoluzione solare della Terra, poi un’evoluzione lunare della Terra, fino ad arrivare all’attuale Terra propriamente detta. È chiaro che il mio pensare non può subito dire: sì, è senz’altro così. È importante, all’inizio, rivolgersi alle cose verificabili.

L’affermazione che non va creduto nulla non significa che io devo subito essere capace di verificare tutto: significa, invece, che devo leggere con l’intento di capire e non di credere. Io posso capire ciò che Steiner dice sull’evoluzione saturnia, solare e lunare della Terra: ed è il primo passo per arrivare a poter fare affermazioni a ragion veduta.

Come ci arrivo? Passando per altre cose che sono più direttamente verificabili. Prendiamo per esempio l’affermazione che esistono ripetute vite terrene: sarà vero? Steiner lo dichiara, le religioni orientali l’hanno sempre detto, da millenni si parla di reincarnazione… Come faccio a verificare? Io non sto dicendo che in quattro e quattr’otto si possa arrivare a una fondatezza conoscitiva delle ripetute vite terrene, ma la forza del pensiero di ciascuno di noi è in grado di maneggiare questo quesito.

Io sono stato cinque anni in Sudafrica negli anni dell’apartheid, e insegnavo in un seminario della chiesa cattolica dove c’erano studenti di tutte le razze di questo mondo: bianchi, neri, boeri, inglesi, tedeschi, indiani e tutti i mulatti possibili… proprio una rappresentanza dell’umanità. Io ero entusiasta di Steiner e perciò proponevo teologia e filosofia sulla base della scienza dello spirito, traducendo naturalmente il tutto in un linguaggio comune: invece di «corpo eterico» dicevo «forze vitali», e così via. A questi studenti non interessava Steiner e tanto meno interessavano i 350 volumi dell’Opera Omnia che avevo in stanza: li prendeva molto di più la situazione politica, e come porre fine all’apartheid.

Un giorno, però, mi chiesero: cosa pensi tu della reincarnazione? Finalmente una domanda intelligente! L’avevo aspettata da mesi! Sapevo che non avevano posto la domanda perché io facessi una lezione sulla reincarnazione: volevano soltanto saltare la lezione. Allora mi venne un’idea: proposi di rappresentare in chiave teatrale l’arrivo di Giuda, appena morto, di fronte al Padreterno[21]. Sapevo che fare una lezione cattedratica sulla reincarnazione non sarebbe servito a nulla, perché la reincarnazione o c’è o non c’è: c’è poco da arzigogolare. Secondo il dogma cattolico – che non afferma la reincarnazione, ma nemmeno la nega – Giuda deve naturalmente andare nell’inferno eterno, perché se non ci va lui chi altro mai ci potrà andare?

Gli studenti furono subito d’accordo e decisero loro stessi i ruoli: il Padreterno, il Cristo, la Madonna col compito di difendere Giuda, l’arcangelo Michele… e Giuda. Per la parte di Giuda si fece avanti proprio un nero che io immaginavo come il più adatto alla parte: infatti cominciò subito a dire al Padreterno:

– Ma come? Gli esseri umani sulla Terra dicono che io ho tradito tuo Figlio, ma tu dovresti sapere come stanno le cose. Io sono stato tre anni con Lui, sapevo cos’era capace di fare, conoscevo i suoi poteri occulti: e allora volevo costringerlo a mostrare la sua potenza ai romani. E Lui cosa ha fatto? Si è arreso! Bella figura, e ci ha lasciato nei guai. E sarei io il traditore?

– Sì, però i soldi te li sei pigliati!

– È vero, ma sai anche che li ho ributtati nel tempio.

E va bene, supponiamo pure che io sia stato un vero farabutto… in aggiunta mi sono pure impiccato… però adesso mi rendo conto che ho sbagliato, che ho rovinato tutto nella mia vita, me ne rendo conto adesso che faccio un bilancio serio: e tu? Mi hanno detto che sei il Dio dell’amore e allora? Non me la dai la possibilità di riparare? E poi, diciamola tutta: ho sentito parlare dei Caldei, degli Egizi, delle meraviglie di Persia…: e tu, di tutta questa po’ po’ d’evoluzione mi hai dato solo una trentina d’anni? Perché sei così tirchio? Dammi almeno una seconda possibilità per fare le cose un po’ meglio!

Andando avanti nell’arringa questo studente, che tra l’altro era un attore nato, si ricordò che in teologia aveva studiato che l’uomo è un essere finito, un «ente finito» (ens finitum), mentre Dio è un ente infinito (ens infinitum): l’essere umano è una creatura e Dio è il creatore. E allora riattaccò:

– L’uomo non è un essere infinito perché è creatura e tu sei creatore. E cosa fai adesso? Alle azioni di un essere finito come io, Giuda, sono, appiccichi conseguenze infinite? Mi mandi all’inferno eterno? E no! Se io sono un essere finito, le conseguenze delle mie azioni devono essere altrettanto finite!

Il Padreterno non sapeva cosa rispondere… Poi è suonata la campana di fine lezione. Io non ho dovuto aggiungere niente: qualunque mia parola sarebbe stata una profanazione di quella scena bellissima dove la coscienza, la forza pensante di tutti quegli studenti aveva nei fatti argomentato attorno a un quesito fondamentale: come evolve Giuda, dopo la morte? Ce l’ha o non ce l’ha la possibilità di continuare il cammino umano? Nei giorni successivi un paio di studenti vennero da me e mi dissero: ci siamo resi conto per la prima volta dell’importanza fondamentale del quesito della reincarnazione.

Io ho studiato filosofia e teologia all’università Gregoriana, qui a Roma: non c’è stata una sola lezione che abbia tematizzato questa questione fondamentale. Certo, se se ne fosse parlato sarebbero stati portati argomenti contro la reincarnazione, visto che l’ambiente era esclusivamente cattolico; ma non è questo il punto: è significativo il fatto che il tema di pensiero non esistesse proprio. Ecco la differenza tra l’occuparsi di qualcosa con le forze attive del pensiero, oppure il crederla o il darla per scontata.

Ma, cari amici, è evidente che narrandovi questo episodio non ho dimostrato l’esistenza della reincarnazione: ho solo mostrato in che modo il processo pensante è in grado di occuparsi di ogni questione. Se ciascuno lo fa, a quali conclusioni arriva è cosa sua: ma l’importante non sono le conclusioni! L’importante è l’esercizio del pensiero. E a questo serve la scienza dello spirito.

Quinto Capitolo

L’OTTUPLICE SENTIERO DEL BUDDHA:

che ne pensa il Buddha oggi?

Le quattro grandi verità

Il Buddha, figura sublime del sesto secolo avanti Cristo, dopo l’evento dell’illuminazione sotto l’albero del bodhi avvenuta intorno al ventinovesimo anno della sua vita, comunicò all’umanità, nella predica di Benares, il contenuto di sapienza che gli era stato affidato: le quattro grandi verità. Una di esse è l’ottuplice sentiero, il cammino di purificazione a otto gradini.

Le quattro grandi verità, sulle quali non si finisce mai di meditare, sono verità eterne che in questo contesto considereremo nella prospettiva dell’evoluzione, propria della scienza dello spirito. La visione evolutiva ci aiuterà a comprendere da un lato il senso della validità imperitura delle quattro grandi verità del Buddha, e dall’altro lato le fondamentali trasformazioni che riguardano sia il modo di comprenderle sia il modo di praticare, in particolare, l’ottuplice sentiero.

• La prima grande verità del buddhismo è che la vita è dolore: dalla nascita, alla vecchiaia, alla malattia e fino alla morte, soprattutto.

• La seconda grande verità dice: l’origine del dolore è la brama di incarnazione; il corrispettivo occidentale di questa affermazione relativa all’attaccamento all’incarnazione è il cosiddetto «peccato originale». La brama (samsara, in sanscrito), la cupidigia verso il sensibile, verso il mondo fisico visibile, induce l’essere umano a restare nel mondo spirituale soltanto per un periodo di tempo, dopo la morte; poi torna a volersi assolutamente rituffare (reincarnare) in questa vita terrena che, sola, consente il soddisfacimento delle brame. All’origine globale del dolore il Buddha vede dunque il potentissimo desiderio d’esistenza incarnata.

Se un uomo, per esempio, porta nell’anima la brama per certi squisiti vini, questa brama non la può soddisfare nel mondo spirituale: deve incarnarsi, perché il senso del gusto abbisogna di un palato fisico per potersi esplicare. Inabitare un corpo fisico consente di potersi godere tante di quelle cose che sarebbe impossibile elencarle tutte.

• La terza grande verità dice: l’essere umano si libera dal dolore della vita purificandosi a un punto tale da non aver più bisogno di incarnazioni. Tirandosi fuori dalla ruota eterna delle nascite. È evidente che nella religiosità orientale il pensiero della reincarnazione è dato per scontato: è la coscienza occidentale ad averlo perso di vista, da lungo tempo e per necessità evolutiva.

• La quarta grande verità è l’ottuplice sentiero, cioè il modo pratico per vincere la brama di esistenza, purificandosi talmente da tutte le passioni terrene da poter restare sempre nello stato spirituale disincarnato. L’ottuplice sentiero indica otto movimenti interiori che sono la metodologia della liberazione:

1. la giusta percezione e la giusta rappresentazione;

2. il giusto giudizio di pensiero, cioè i giusti concetti sulle cose;

3. la giusta parola, cioè l’esprimersi in modo corretto;

4. la giusta azione;

5. la giusta posizione nel mondo, cioè il giusto karma;

6. le giuste abitudini;

7. la giusta memoria;

8. la giusta meditazione.

Dal primo al quarto gradino si fa riferimento all’espressione delle facoltà umane considerate, di volta in volta, nelle molteplici diversità delle situazioni: come di volta in volta sia giusto percepire la realtà e farsene un’immagine; come unire alla percezione il giusto concetto; come proferire le giuste parole comunicando con gli altri; cosa fare perché la nostra azione sia quella giusta in ogni situazione.

Dal quinto all’ottavo gradino ci si riferisce invece alle dimensioni costanti della vita, all’habitus, al sistema dei concetti, delle azioni e delle parole che sottostà, come una base durevole, a ciò che muta. Si tratta cioè di far sì che le virtù enunciate dal primo al quarto punto diventino un’abitudine spontanea, e non un continuo sforzo per superare se stessi. Perciò il quinto sentiero è sapere, una volta per tutte, qual è il nostro posto nel mondo; il sesto è sapere quali debbano essere le abitudini di vita da coltivare sempre; il settimo è curare una giusta memoria, cioè stabilire il giusto rapporto tra il proprio passato e il proprio presente, riallacciandosi alla continuità della tradizione senza cadere nell’illusione di poter stravolgere le cose; l’ottavo sentiero, infine, è la giusta meditazione, la giusta introspezione, la giusta contemplazione.

Non è mio intendimento passare in rassegna l’ottuplice sentiero commentandone i passi da un punto di vista esplicativo: ciò che mi interessa è evidenziare il carattere dell’insegnamento del Buddha. Gli otto sentieri, prima della descrizione di ogni atto, sono definiti «giusti». Giusto è l’opposto di sbagliato, e sbagliato non significa «cattivo» e neppure «falso». Il giusto è una sorta di dimensione sociale (nel senso che va bene per tutti) sia del vero che del buono. Non è né un comandamento morale, né una legge scientifica.

Nella pratica (non dobbiamo dimenticare che l’ottuplice sentiero è una prassi) viene stabilito per tutti qual è il modo migliore per vivere senza urtarsi reciprocamente, così che il karma di ognuno si possa sistemare accanto al karma degli altri, nella quieta armonia di un «karma allargato». Il Buddha, nella sua grandiosa saggezza (non dobbiamo neppure dimenticare che l’ottuplice sentiero è una delle grandi verità), riusciva ad abbracciare la convivenza umana come un unico grande destino, e a questa unitarietà senza individualità rivolgeva il suo insegnamento.

Rudolf Steiner e l’ottuplice sentiero

Nella prospettiva evolutiva, l’ottuplice sentiero è ancora valido per i tempi nostri? È come chiedersi: i dieci comandamenti di Mosè hanno ancora importanza? Non si può rispondere sì o no, ma sì e no: sì, sono ancora validi, ma non nello stesso modo in cui lo erano ai tempi di Mosè. Certo non possiamo dire che «non uccidere» non valga più, ma forse noi, oggi, siamo chiamati a non uccidere l’altro non solo fisicamente, ma anche a livelli ben diversi, molto più profondi; la nostra coscienza è in grado di capire che ci sono mille modi di uccidere e di venire uccisi nel proprio essere, modi che forse ai tempi di Mosè non esistevano.

Una risposta analoga possiamo darla in merito all’ottuplice sentiero del Buddha: in quanto sintesi delle norme fondamentali del divenire, esso è ancora valido, ma in modo diverso. È interessante il fatto che Rudolf Steiner, nel suo libro L’iniziazione. Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori?, un manuale del cammino interiore moderno, inserisca, tra le tante cose, gli otto gradini dell’ottuplice sentiero del Buddha, tali e quali, quando parla dello sviluppo «del fiore di loto»[22] connesso con la laringe.

È un fiore di loto a sedici petali: otto dobbiamo svilupparli noi e gli altri otto (che erano attivi per dono naturale quando l’umanità aveva un livello di coscienza ottuso e trasognato, e che nel corso dell’evoluzione si sono oscurati) si risvegliano poi, spontaneamente.

Del fiore di loto del cuore, che ha dodici petali, abbiamo già parlato a proposito delle sei virtù fondamentali: come per questo organo astrale sei petali li dobbiamo sviluppare da soli, tramite l’esercizio delle sei virtù, così anche per l’organo astrale della laringe, a sedici petali, otto li sviluppiamo noi, proprio attraverso gli otto esercizi proposti dal Buddha.

Leggendo questo capitolo del libro di Steiner ci si potrebbe chiedere: ma qui ho a che fare col buddhismo? Inoltre, è interessante notare che, sempre in Iniziazione. Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori?, non si parla mai esplicitamente del Cristo, mentre nei decenni successivi l’Essere solare è di un’assoluta centralità in tutti gli scritti e le conferenze di Rudolf Steiner.

All’inizio del nostro secolo Steiner parlava essenzialmente a teosofi, che avevano un’affinità del cuore profondissima con la spiritualità orientale ed erano per lo più persone che non ne volevano sentire di cristianesimo.

Così come accade oggi: la reazione al cristianesimo tradizionale porta in sé una certa disaffezione che promuove svolte verso la spiritualità orientale. Perciò possiamo comprendere come anche Steiner dovette cominciare rivolgendosi a persone interessate alla spiritualità del Buddha e poco simpatizzanti per il cristianesimo.

Resta il fatto che ci troviamo di fronte all’ottuplice sentiero anche nel cammino della scienza dello spirito attuale. E vedremo che non sono gli otto sentieri che cambiano, ma il modo di praticarli in chiave moderna. L’evoluzione è fatta per conseguire dimensioni dell’umano sempre nuove. Ho già detto che se gli esseri umani hanno veramente preso sul serio il cammino del Buddha, e se hanno adoperato questi 2500 anni per generare in loro ciò che l’ottuplice cammino indicava, dovrebbero oggi trovarsi a un tutt’altro livello evolutivo.

Prendiamo l’esempio del rapporto col maestro che abbiamo già osservato: il Buddha insegnava ai discepoli come si trova il giusto. Ciò significa che 2500 anni fa era conforme ai tempi una profonda dipendenza del discepolo dal maestro, e non poteva essere diversamente. Oggi, proprio perché la coscienza umana è diventata più adulta e autonoma, diventa giusto qualcosa d’altro: l’indipendenza sempre maggiore del discepolo nei confronti del maestro. È nella dinamica di ogni insegnamento e di ogni pedagogia veramente moderni il portare il discepolo alla propria autonomia, alla propria dignità e sovranità.

Queste sono cose che non si possono dimostrare: o le si comprendono a partire dalla propria autoesperienza, oppure non si colgono certo tramite le argomentazioni intellettuali o le esperienze altrui. O comprendo me stesso in quanto uomo e mi vivo come un essere proteso verso l’esplicazione delle sue facoltà spirituali per diventare sempre più responsabile e creatore, oppure ho ancora l’esperienza di stadi preparatori, infantili.

Il Buddha, proprio perché appartiene alla rosa delle individualità somme dell’evoluzione umana, non poteva intendere il suo contributo che in chiave evolutiva: sapeva, allora, di dover operare in un’umanità ancora bambina ma volta a una crescita sempre maggiore delle forze di autonomia.

Un altro tratto fondamentale è il rapporto con il corpo nella meditazione buddhista, al quale abbiamo già accennato: il Buddha dava indicazioni sulla postura da prendere, sul come respirare... Il riferimento al corpo (e qui devo fare attenzione a non venir frainteso) è diventato nel corso del tempo sempre meno importante: nella meditazione moderna il corpo è la dimensione meno significativa che ci sia, e sarebbe un anacronismo voler spremere fuori dal corpo le esperienze che oggi vanno fatte a partire dallo spirito.

Il corpo oggi svolge la sua funzione migliore quando il meditante non lo nota. È come uno strumento musicale: quando è perfetto? Quando nessuno lo nota, perché noi godiamo la musica: siamo costretti a porre attenzione al violino, all’arpa, all’oboe quando qualcosa non va – si rompe una corda, sfugge un tasto, stona...

Se durante la meditazione siamo in una posizione troppo confortevole, notiamo il corpo perché, completamente rilassato e comodo, esso prende il sopravvento e noi ci addormentiamo. Se invece la posizione è troppo scomoda, il corpo si fa sentire e ne siamo infastiditi. Quindi bisogna trovare il giusto equilibrio: allora il corpo sarà uno strumento docile e saldo per quel che l’anima e lo spirito hanno da compiere.

La prospettiva evolutiva ci fa prendere molto sul serio il fatto che la corporeità umana, prima del Cristo (riassumo per grandi capi cose ben complesse) era di una sanità e di una vitalità che noi neanche ci sogniamo. Basta pensare ai Greci.

Il carattere di svolta dell’evoluzione, avvenuta 2000 anni fa, consiste anche nel fatto che il corpo ha cominciato a diventare sempre più decadente. Sempre più debole, fragile, friabile e sempre più meccanizzabile, cioè intriso di forze di morte. Ma questo non è negativo! Come nell’antichità si aspettava con gioia la vecchiaia sapendo che un corpo vecchio donava esperienze che un corpo giovane non poteva dare, così, dopo la svolta evolutiva, siamo in grado di guardare con gioia all’invecchiare proprio in base a ciò che il corpo non dà più. Anche questo è un risvolto del cammino interiore.

La meditazione antica si fondava su ciò che ci si poteva aspettare dalla saggezza del corpo, la meditazione moderna si fonda su ciò che il corpo non può più dare. Il senso positivo di questo mutamento evolutivo sta nel fatto che oggi possiamo generare forze a partire direttamente dall’anima e dallo spirito, proprio perché non possiamo più contare sul corpo. Ogni tipo di meditazione che ancora si basa su processi fisiologici di tipo vario è un dannoso anacronismo, perché continuare a evincere dal corpo esperienze spirituali diventa oggi un’enorme omissione al livello dell’attività animica e spirituale.

La grande verità evolutiva del cristianesimo è l’amore per la morte in quanto luogo di resurrezione dello spirito umano: è la gioia di non poter più contare sul corpo e il conseguente diritto di poter cominciare a contare sullo spirito. E finché un essere umano non ha compreso questa verità fondamentale, non ha nemmeno compreso il cristianesimo e la svolta evolutiva.

Come era bello e giusto che al tempo del Buddha fosse ancora il corpo a offrire tante possibilità di esperienze spirituali, così è giusto oggi che il corpo non le conceda più, e che noi sentiamo gioia e gratitudine per il fatto che le cose stiano così. Il venir meno del corpo è una provocazione infinita alla creatività dello spirito. L’uomo moderno ha la possibilità di amare l’invecchiamento e lo sgretolamento della materia in vista di ciò che diventa possibile raggiungere attraverso le forze dell’anima e dello spirito.

Cosa fa e cosa dice, oggi, il Buddha?

Uno degli aspetti più originali della scienza dello spirito è che ci parla del Buddha vivente oggi, ci descrive quel che il Buddha sente, vive e dice oggi all’umanità.

Il portato della dottrina buddhista di 2500 anni fa è storicamente importante: ma se il Buddha vivente ora dicesse all’umanità che bisogna fare passi evolutivi del tutto diversi, proprio perché ci sono nuovi compiti da svolgere, in che posizione si verrebbe a trovare il buddhista che voglia essere veramente fedele al Buddha?

Sto ponendo le cose in termini ipotetici: se fosse vero che il Buddha ha cose del tutto nuove da ispirare spiritualmente, sia per il buddhista orientale che per il buddhista occidentale la fedeltà ortodossa al Buddha tradizionale diventerebbe una tragica infedeltà al Buddha di oggi.

Io conosco soltanto la scienza dello spirito che sia in grado di porsi in rapporto spirituale col Buddha oggi vivente: il Buddha non è una teoria, il Buddha non è una dottrina. È un essere spirituale ben vivo che nel sesto secolo a.C. ha concluso il ciclo delle sue incarnazioni terrene, ma che dai mondi spirituali accompagna amorevolmente e con infinita sapienza l’umanità, alla quale continua ad inviare sempre nuove ispirazioni.

O forse pensiamo che il Buddha sia sparito nell’universo? O pensiamo che il Buddha non abbia assunto nel suo essere, con tutte le sue forze d’amore, l’evento del Cristo? Se l’Essere centrale del sistema solare, l’Essere dell’Amore, 2000 anni fa ha veramente compenetrato tutte le forze della Terra, possiamo mai pensare che il Buddha non abbia partecipato a quell’evento? Il sacrificio del Cristo sarebbe stato impossibile senza l’apporto essenziale del Buddha. Il Buddha stesso, spiritualmente, ha fatto passi evolutivi giganteschi e il suo stesso insegnamento andrebbe capito come l’ultima grande preparazione all’incarnazione del Verbo.[23]

Sorge nella scienza dello spirito moderna un tutt’altro modo di paragonare le religioni[24]. All’Università esiste la disciplina delle «Religioni comparate», che pone a confronto le religioni: si prendono le affermazioni fondamentali delle varie tradizioni religiose, i loro dati dottrinali salienti, per dimostrare che, in fondo, per quanto riguarda le verità di base tutte le religioni dicono la stessa cosa. S’intende provare che il Buddha non contraddice ciò che afferma il Cristo, e il Cristo non contraddice quel che dicono Confucio, Zarathustra, Maometto…

Il riferimento al contenuto comune di tutte le religioni è invece la cosa più marginale che si possa immaginare: non ha nulla a che fare con l’essenza di una religione. L’essenza del buddhismo non è la teoria del Buddha ma la trasformazione reale degli esseri umani avvenuta grazie al buddhismo. Ciò che gli uomini sono divenuti nel loro essere: questo è il buddhismo! Non la teoria.

Qual è la realtà del cristianesimo? Non certo le teorie o gli assunti dogmatici della teologia, che tanti nemmeno conoscono: la realtà del cristianesimo è ciò che gli uomini sono diventati nell’intera compagine del loro essere attraverso questi duemila anni di cosiddetto cristianesimo. Questa è la realtà.

Se possiamo considerare il Buddha come uno dei grandi inviati dell’Essere solare dell’Amore (dico cose da prendere come ipotesi di lavoro, di sicuro non da credere), con un compito evolutivo ben specifico, allora l’essenza della sua missione non sarà consistita nel dire qualcosa, ma nel fare qualcosa. L’evoluzione è la trasformazione degli esseri umani, non un accumulo di dottrine.

L’essenza dell’ottuplice sentiero, allora, non sta nei suoi enunciati, ma in ciò che noi siamo divenuti grazie a questi esercizi. Se è vero che abbiamo alle spalle ripetute vite terrene, questi esercizi li abbiamo fatti noi prima ancora dell’avvento del Cristo, e proprio perché li abbiamo già fatti ci siamo trasformati. E adesso altri inviati dell’Essere cosmico del sistema solare in cui siamo ci portano altre forze, altri gradini evolutivi.

L’interessante delle religioni non sono i tratti comuni ma ciò che presentano di diverso. Le religioni sono la grande pedagogia dell’umanità e hanno sempre fatto appello a dimensioni ogni volta diverse dell’essere umano in divenire. Le similitudini dottrinali sono una pura astrazione, un distillato intellettuale moderno: la vera essenza del buddhismo sono le facoltà, le forze che noi portiamo adesso nella struttura più profonda della nostra anima, e che sono il risultato dell’aver a suo tempo praticato gli esercizi dell’ottuplice sentiero.

Col buddhismo abbiamo attraversato tutt’altre esperienze rispetto a quelle che ci hanno portato Zarathustra o Confucio o Mosè… Se non comprendiamo questo, nella comparazione delle religioni ci comportiamo come uno scienziato che osservasse quel che l’essere umano fa a tre anni, a dieci, a vent’anni, poi a trenta e a sessanta, e si mettesse a far comparazioni nella ricerca dei punti in comune. Cosa troverebbe mai di comune? Che era sempre lo stesso essere umano ad agire, oppure che ogni sua azione significativa è da considerarsi come una crescita… Ma se ritenesse interessante che a tre anni l’essere umano vuole bene alla mamma e a cinquant’anni pure, non avrebbe certo colto l’essenza del fenomeno amore: sarebbe rimasto alla superficie.

Colgo l’essenza di un fenomeno quando guardo alla diversità delle sue manifestazioni: e la diversità non è contraddizione. Le religioni sono gradini di crescita dell’umanità, diversi ma non contraddittori. La dinamica evolutiva è unitaria, ma sempre differente. L’umanità ai tempi del Buddha era una tutt’altra umanità.

È una sfida per l’uomo moderno riuscire a capire che il Buddha vivente è molto triste quando vede uomini rimasti fermi a ciò che lui ha detto 2500 anni fa. La sua tristezza proviene dal fatto che deve accettare che molti non si rendono conto del dinamismo dell’evoluzione, e non comprendono che lui stesso, il Buddha, ha da dirci oggi tutt’altre cose. Soprattutto in relazione a una triplice costellazione di eventi legata al sacrificio dell’Essere dell’Amore.

I tre grandi eventi dopo la morte del Buddha

Soffermiamoci a considerare i tre grandi fatti evolutivi che hanno forgiato gli uomini dopo la morte del Buddha:

• il primo evento è la nascita dell’Io, che ai tempi del Buddha non manifestava ancora nell’umanità le sue forze;

• il secondo evento è la consapevolezza, che si affaccia alla coscienza umana, dell’impossibilità della salvazione singola: le sorti del singolo non sono private ma riguardano l’umanità nella sua interezza;

• il terzo evento è il sorgere nell’umanità della responsabilità evolutiva e morale nei confronti della Terra e dei suoi regni di natura.

Tutto ciò mancava, e non poteva che mancare, nel buddhismo tradizionale, cinquecento anni prima del Cristo.

1. Mancava l’esperienza dell’Io, perché l’esperienza e la realizzazione dell’Io nella sua pienezza sono il portato cumulativo di tutta l’evoluzione, passata e futura, e l’evento del Cristo ne è il fulcro.

Qui occorre una piccola parentesi: quando io parlo di buddhismo, mi riferisco sempre a quello ortodosso, a ciò che il Buddha stesso ha comunicato all’umanità nel VI secolo prima di Cristo. Il problema che sorge molto spesso, soprattutto in Occidente, riguardo all’oggettiva comprensione del buddhismo, è che nel corso di questi 2500 anni sono entrati in esso moltissimi elementi conoscitivi propri dell’evoluzione successiva. Contagi del cristianesimo, per esempio, molto belli perché contengono le forze conseguenti alla discesa dell’Io Sono nell’umanità, ma che non hanno nulla a che fare col buddhismo del Buddha.

Nel sacrificio del Golgota l’Io Sono[25] entra nella Terra per portare tutte le condizioni necessarie all’acquisizione dell’Io. Quindi il Buddha, secoli prima, non poteva che affermare: l’Io è un’illusione. E lo era, a quei tempi. Forse ricorderete quel bellissimo dialogo tra il re Milinda, che pone la domanda sull’immortalità dell’Io, e il saggio Nagashena che s’impegna a dimostrargli che l’Io è un’illusione.

Il saggio Nagashena dice: tu, o re, sei venuto qui con un carro. Cosa è vero del carro? Qual è la realtà del carro? Le ruote, le stanghe, la cassetta, i pianali… i singoli elementi sono reali. Quando tu usi la parola «carro» e fai la somma di tutti questi elementi per non elencarli tutti, intendi forse un’altra realtà che sia oltre le parti? No. La realtà sono tutti i pezzi messi insieme. Così è l’essere umano: ha il corpo, ha le passioni dell’anima, i pensieri, i sentimenti, gli impulsi volitivi, ecc.: siccome tu non vuoi, ed è comprensibile, nominare ogni volta questa lista infinita, dici: «io». Ma dicendo «io» non ti riferisci a nulla di reale. L’io è un’illusione. La realtà sono i pezzi: la rabbia, c’è; la gioia, c’è; l’impulso volitivo, c’è; il mal di pancia, c’è. Ma l’io non c’è.

L’enorme passo evolutivo che abbiamo compiuto da duemila anni a questa parte è stato proprio il sorgere delle forze reali dell’Io. Non andate a dire a Fichte che l’Io è un’illusione! Vi risponderebbe: forse lo è per te, ma non per me. La filosofia degli idealisti è tutta fondata sull’esperienza sostanziale e reale dell’Io in quanto unità di tutta la compagine infinita delle realtà umane.

Ma l’esperienza dell’Io è anche la forza morale di attribuire a sé la molteplicità infinita delle proprie manifestazioni. L’umanità ha dovuto camminare a lungo prima di pervenire a questa consapevolezza.

I Greci, con il loro politeismo, vivevano al livello dell’anima, e nelle loro divinità vedevano effuse ed operanti all’esterno tutte le molteplici forze dell’anima. Per il greco la propria ira era suscitata da Marte che agiva nell’anima sua; e così la sua saggezza era faccenda di Atena e l’inventiva lo era di Mercurio…

L’ebraismo, preparando il cristianesimo, ha fatto sorgere l’esperienza del monoteismo che è l’annuncio dell’esperienza dell’Io. Dice l’ebreo: è vero che in me ci sono gli impulsi di Atena, di Zeus, di Marte e di Plutone; però c’è anche una forza unitaria che riunisce e governa tutti questi impulsi. Essendo ancora l’ebraismo una religione pre-cristica, l’esperienza interiore del nucleo unico e spirituale non è stata riferita all’Io del singolo uomo, ma al Dio, all’unico Dio Padre (Jahvè significa «Io Sono»).

Chi ha ragione? Il politeismo o il monoteismo? Tutti e due! Però io vivo in tutt’altro modo quando mi sento soltanto una somma d’impulsi e di fattori che, movendomi dall’esterno, sono responsabili del mio essere, rispetto al modo in cui vivo quando attribuisco al mio Io la creazione di tutto ciò che vive dentro di me. Tutte e due le posizioni sono possibili: si può vivere come essere dell’anima, disperdendo se stesso in tanti impulsi, o vivere come spirito, come essere unitario e individuale.

Il linguaggio stesso dà conto di tutte e due le esperienze. Se io dico: quello lì mi ha fatto arrabbiare!, sono nell’anima e affermo che l’altro è la causa e io sono l’effetto; è l’altro a decidere ciò che avviene dentro di me. Ma posso anche dire: io mi sono arrabbiato, e allora mi esprimo come un essere maggiormente evoluto, perché rendo responsabile me stesso. L’ottuplice sentiero viene allora percorso in un modo tutto nuovo se io cerco la giusta rappresentazione, la giusta parola, la giusta azione, ecc., a partire dalla forza dell’Io – e quindi sono io che devo trovarle con le forze della libertà e dell’amore –, oppure se vado dal padre spirituale a domandare: cosa devo dire in questa situazione? qual è la professione giusta per me?…

Dove sorge la forza dell’Io resta vero che la giusta posizione, la giusta parola, la giusta abitudine vanno trovate, ma le devo trovare io: questa è la differenza. Quindi non è l’ottuplice sentiero che cambia, ma cambia profondamente il modo di compiere questi atti fondamentali dell’umano: diventano otto gesti dell’Io.

È l’Io che vuol trovare la giusta rappresentazione attraverso l’attenzione alla percezione; è l’Io che lavora a farsi i giusti concetti; è l’Io che trova le giuste parole, le giuste azioni, il giusto posto nella società, le giuste abitudini, la giusta consequenzialità tra passato presente e futuro, la giusta introspezione meditativa. Tutti compiti dell’Io, della libertà dell’Io.

2. L’altra dimensione, che ai tempi del Buddha non si era ancora avverata nell’umanità, è la consapevolezza che, evolutivamente, o ci salviamo tutti o non si salva nessuno. Il buddhismo ortodosso si rivolgeva ad uomini la cui coscienza non era ancora al punto di assumere in sé il senso unitario e organico dell’umanità. Chi conosce il buddhismo ortodosso mi darà ragione quando dico: la salvezza che il Buddha ha presentato allora è una salvezza del tutto personale, privata. Il singolo cercava di purificarsi sempre di più (anche se la metodica per farlo era uguale per tutti) in modo da tirarsi fuori dalla ruota delle incarnazioni senza mai porre la domanda: e che cosa avverrà di tutti gli altri esseri umani? Mi riguarda la loro sorte?

Dopo la grande svolta del Cristo, l’uomo è chiamato a capire che una redenzione privata non esiste. Ci si può redimere solo amando e facendo avanzare tutta l’umanità: nessuno può raggiungere la pienezza dell’umano senza volere la pienezza di tutti gli esseri umani. Non è più concesso un cammino spirituale che permette di disattendere l’amore per tutta l’umanità.

Se avessimo più tempo potrei raccontarvi il modo in cui Steiner descrive gli incontri spirituali fra il Buddha e Gesù di Nazareth[26], sei secoli dopo la morte del Buddha. Il Buddha, pervaso dall’amore universale del Cristo, dell’Essere dell’Amore, comprende cosa a lui stesso mancava e cosa di conseguenza mancava nel suo insegnamento di cinquecento anni prima: la dimensione dell’amore universale.

3. Infine, cosa non meno importante, il Buddha, cinquecento anni prima del Cristo dice: compito del cammino spirituale è superare ogni brama che si rivolge al mondo visibile in modo da non aver più bisogno di incarnazioni. Cosa manca? Manca l’amore volto alla natura. Come se l’essere umano potesse entrare nel nirvana, nella beatitudine, nella perfezione del suo essere lasciando indietro e dimenticando gli animali, le piante, le pietre.

Il Buddha oggi spiritualmente dice: o essere umano, come tu ora hai e puoi liberamente incarnare le forze dell’amore verso i tuoi fratelli, così ora devi capire che non esiste redenzione dell’uomo senza una co-redenzione di tutte le creature dei regni di natura. Ognuno di noi assurge all’umano unicamente portando in sé e con sé tutta la Terra. Non c’è altra redenzione che la trasformazione amante di tutta la Terra.

Questa prospettiva di responsabilità cosmica e tellurica dell’essere umano non poteva essere presente nel VI secolo prima del Cristo. Ecco la realtà tangibile dell’evoluzione: oggi noi abbiamo la possibilità e la responsabilità di aggiungere al nostro cammino dimensioni realissime, profondissime ed essenziali che allora non erano accessibili alla nostra coscienza.

Immaginiamo, perciò, la pena infinita del Buddha, oggi, di fronte a persone che credono di essergli fedeli arrestando l’evoluzione al punto in cui si trovava 2500 anni fa, e che non intuiscono come lui stesso, il Buddha, abbia compiuto enormi passi evolutivi, accompagnando l’umanità.

È un anacronismo tragico quello di voler conservare un buddhismo che era bello e in armonia con l’uomo tanto e tanto tempo fa: così il Buddha diventa una teoria. Una teoria morta, immobile: l’attuale scienza dello spirito, voglio ripeterlo, è invece in grado di comprendere il Buddha quale essere vivente, volto ad aiutare tutti gli uomini là dove la sua forza d’amore realmente li trova, adesso, a camminare.

L’«ottuplice giusto» dei nostri tempi

Nella scienza dello spirito ci sono grandi tesori che conquistano il cuore, convincono la mente, e aggiungono al cristianesimo tradizionale un enorme ampliamento di orizzonti. C’è però sempre qualche cattolico che continua a chiedersi che cosa possa mai esserci di più in una qualunque scienza (seppure si definisca scienza dello spirito), di quanto non sia già presente nei vangeli e in tutto il patrimonio della tradizione cristiana. Chi fa queste domande, però, non ha la minima idea di questa nuova via di ricerca aperta all’umanità che, al di là dei sincretismi religiosi, arriva a porsi la domanda fondamentale: dov’è il Buddha, oggi? Cosa fa? Egli è vivente, è una realtà, o stiamo parlando di letteratura sclerotizzata? Purtroppo non esiste, questa domanda, nel cristianesimo della tradizione.

I sono stato nel Laos e i missionari più vecchi di me si aspettavano che io illuminassi i bravi buddhisti sugli errori della loro religione e li convertissi alla verità del cattolicesimo: questo è il cristianesimo tradizionale. Non c’è nessuna intenzione polemica in quello che dico, veramente non c’è: ma dobbiamo pur farci le idee un po’ più chiare.

Che il cristianesimo tradizionale faccia fatica a tener conto di questo nuovo impulso conoscitivo scientifico-spirituale, passi; però, nella nostra più profonda individualità, dobbiamo essere onesti e vedere come nella scienza dello spirito nasca la possibilità reale di amare il Buddha, di essergli grati e di apprezzare quel che ci ha permesso di divenire, 2500 anni fa, e di essere aperti a ciò che ha da dirci oggi. Non si tratta di esercitare la buona tolleranza verso altre credenze: si tratta di vita, della nostra vita, si tratta di riconoscere quanto più vasti e arditi siano i livelli di reciproca appartenenza fra gli esseri umani.

Come il Buddha di allora diceva: cerca di tirarti fuori il più presto possibile da questo mondo fisico!, così noi oggi diciamo: certo che la prospettiva evolutiva resta quella del Buddha – redimere e spiritualizzare – però, per spiritualizzare tutta la materia, per operare la resurrezione della carne (che è l’espressione cristiana per indicare la stessa cosa) e pervenire al termine delle incarnazioni, ci vuole tanto tempo.

La forza del Cristo annuncia che non si tratta di tirarsi fuori di corsa dalla vicenda terrena: si tratta, invece, di portare con sé tutta la Terra, tutta la natura, umanizzandola. E ci vorranno millenni. Ma l’affermazione fondamentale resta la stessa: abbiamo il compito di sollevare dalla pesantezza della gravità materiale tutto il creato. Perciò il Buddha aggiunge oggi: ci vogliono tante incarnazioni, e queste incarnazioni vanno volute e vanno amate. Che l’essere umano senta gioia, e si rallegri di avere il privilegio di poter ritornare sempre di nuovo sulla Terra, finché l’ultima creatura sia stata redenta, l’ultimo animale, l’ultima pianta, l’ultima pietra![27]

La Terra è la nostra madre, e il sacrificio immenso delle sue creature è la condizione prima della vita e dell’evoluzione nostra. Il creato si aspetta da noi di essere trasformato e transustanziato nella resurrezione della carne, operata dal nostro spirito. L’ottuplice giusto viene trovato in tutt’altro modo quando ci poniamo la domanda di cosa sia giusto nei confronti di tutta l’umanità e di tutta la natura.

Il Buddha del VI secolo a.C. aveva inteso tutti e otto i gesti dell’ottuplice sentiero in una dimensione di acquiescenza, di lieve rassegnazione. Prendiamo ad esempio la giusta posizione, il giusto posto nel mondo, il giusto karma. Il Buddha non diceva: con le forze della tua libertà devi ribellarti di fronte al fatto che la società, la nascita, l’eredità ti abbiano assegnato un posto, perché questo posto te lo devi scegliere autonomamente. Il Buddha diceva l’opposto: se ti trovi in una determinata casta, se ti trovi in un determinato karma, in una posizione sociale che è quella della tua famiglia, accettala e restaci. Quindi la giusta posizione voleva dire per il Buddha: accetta il tuo karma, perché là dove il karma ti pone lì stai bene.

Come reagisce l’uomo d’oggi di fronte a queste affermazioni? Va bene accettare il karma, va bene accettare i punti di partenza che sono quelli che sono; ma poi intervengo io, e al mio karma rispondo liberamente! Oggi ci sono perfino donne che non sono contente di essere donne: il Buddha di 2500 anni fa ne sarebbe orripilato! Ecco le differenze enormi: questi atti interiori erano visti, e lo dovevano, dal lato della sottomissione. Il karma è saggio e ti conduce.

Io non dico che oggi sia giusto l’opposto, che cioè non si debba accettare nulla e tutto vada cambiato: no. Oggi il compito è di ritrovare sempre di nuovo il giusto equilibrio tra la necessità – il destino, il karma appunto – e la libertà. Prendiamo ancora il giusto posto nella società, nella vita: come faccio a trovarlo? Ci sono due sbagli fondamentali, due estremi nei quali posso cadere: uno è quello di rassegnarmi ed essere del tutto passivo, come se fossero gli altri (lo Stato, la famiglia, il padre spirituale…) a dovermelo assegnare, questo posto; l’altro estremo è dire: io non ascolto nessuno, non devo niente a nessuno e la vita me la faccio come mi pare. Queste sono non verità perché ambedue disattendono la realtà: sono due forme di schiavitù.

Certo che oggi è ben più arduo trovare il giusto collocamento nel mondo di quanto non lo fosse ai tempi del Buddha: ma la libertà dell’Io, la forza dell’Io, si mostra proprio nella capacità di muoversi vivacemente tra questi due estremi, compresa la capacità di fare sbagli e d’imparare dagli sbagli (gli animali non sanno né sbagliare né imparare: sono in tutto e per tutto guidati dall’istinto).

Ciò presuppone che io debba tener conto, in armonia, di tutte e due le dimensioni del reale: da un lato c’è la vita, con i suoi accadimenti, i suoi incontri, i suoi scenari materiali e sociali, e dall’altro lato ci sono io che devo dire al mondo che cosa sono venuto a fare.

Chi mi dice quali sono i miei talenti? Il karma? La condizione sociale? Lo Stato? No, me lo dicono gli esseri umani che incontro. Se non c’è nessuno che mi riconosce un talento, posso dire di averlo davvero? Io mi ritengo il pittore più talentato di questo mondo… però nessuno apprezza i miei quadri. Beh, è colpa dell’umanità insensibile e ignorante. No, la forza dell’Io trova il proprio posto nel mondo in un modo tutto nuovo e si adopera a ristabilire sempre l’equilibrio reale tra il mondo esterno e il mondo interno, tra l’umanità e l’Io, tra la natura e l’Io. In questo dialogo infinito c’è l’esercizio della libertà.

Però, resta il dato fondamentale che la vita è fatta di questo ottuplice movimento:

• si tratta sempre di trovare l’attenta percezione in modo da avere le giuste rappresentazioni, le giuste immagini;

• in secondo luogo si tratta ancor oggi di farsi i giusti concetti, i giusti giudizi interiori sulle cose, di trovare la verità delle cose;

• si tratta sempre di esercitare la libertà dell’Io ponendo attenzione alla parola che si usa: amare la parola, non parlare a vanvera. Avere una responsabilità morale nei confronti della parola.

• Trovare la parola giusta che sia ferma quando l’altro ha bisogno di verità e sia dolce quando l’altro ha bisogno di incoraggiamento. E ci vuole l’una e ci vuole anche l’altra parola: e quando sia giusta l’una o l’altra lo devo sapere io; trovare le giuste azioni non è facile, oggi, in un mondo così complesso: ci vuole presenza di spirito per afferrare, di volta in volta, ciò che in quella situazione e in quel momento è giusto fare. Il giusto modo di agire non è uno schema mentale o comportamentale, ma è l’intervento sempre libero e attivo nella fantasia morale della vita;

• si tratta ancora di trovare la giusta posizione facendo il meglio in quella dove la vita ci ha già posti, ma con il cuore e la mente attenti e aperti: perché può darsi che si debba avere il coraggio di cambiare e ricominciare da capo. Ed è questo travaglio interiore che fa crescere la forza dell’Io;

• la giusta abitudine è l’arte di non di agire a casaccio, frastornati dal nuovo, ma di aderire costantemente col cuore, la mente e le mani a ciò che è bello, vero e buono;

• e poi dobbiamo adoperarci a costruire l’armonia giusta tra il nostro passato, il nostro presente e l’avvenire, perché siamo esseri espansi nel tempo e in ogni gesto presente abbiamo la responsabilità di testimoniare un passato e di annunciare un futuro;

• infine, l’ottavo sentiero dell’Io è il giusto modo di meditare, il giusto cammino introspettivo, il modo moderno di contemplare se stessi e il mondo.

DIBATTITO

Intervento: Provo a pensare a voce alta sul dialogo tra il re Milinda e il saggio Nagashena. Se il re, invece di nominare la parola «carro», avesse fatto l’elenco di tutte le parti, Nagashena o non avrebbe capito, oppure avrebbe lui stesso dovuto concludere dicendo: sei venuto con un carro. Tutte le parti sono infatti scindibili, e finché esiste un’unità visibile esiste anche la possibilità di dividerla: anche una parte del carro, per esempio la ruota, che è a sua volta un’unità reale, è suscettibile di essere ulteriormente scissa. Milinda non avrebbe potuto mai finire di elencare le parti.

Il carro è tale solo nella sua unità perché se io tolgo le ruote già non è più un carro, e lo stesso vale per il contrario: se io voglio enunciare tutte le parti del carro, o le enuncio all’infinito, fin quando le posso scindere, o devo trovare un modo per indicare come sono collegate tra loro e allora devo dire per forza «carro». Questo vale anche per l’Io.

Archiati: Questa è la questione fondamentale nel dialogo fra Oriente e Occidente: tutti i colloqui che io ho avuto, numerosissimi, con monaci buddhisti in Oriente gravitavano attorno al quesito dell’Io. Mi sembra che lei volesse dire che l’unità non è solo una somma di parti (peraltro somma dagli infiniti addendi), ma è anche oltre la somma delle parti perché conferisce loro il senso unitario, il significato unico del modo in cui esse interagiscono. E dunque solo sulla realtà dell’Io si fonda l’armonia delle parti che costituiscono l’uomo.

Ciò che il Buddha ha detto 2500 anni fa – che l’Io è un’illusione – è vero, perché l’autoesperienza degli esseri umani era allora del tutto diversa. Non si tratta di dire se aveva ragione il Buddha o se abbiamo ragione noi, oggi. 2500 anni fa le cose stavano per tutti noi così come ha detto il Buddha. Il nostro quesito è se l’esperienza dell’Io sia tale che l’uomo di allora potesse averla come la possiamo avere noi, oggi.

Intervento: In questo la devo contraddire, perché il Buddha era un principe e quindi non possiamo dire che non avesse idea dell’Io, soprattutto nella società induista del suo tempo, dove proprio i principi avevano un forte senso dell’Io. La saggezza del Buddha è stata tale da dare anche agli altri, che principi non erano, la possibilità di coltivare il proprio Io, la propria soggettività, e di trasmettere questi insegnamenti che prima erano accessibili soltanto alle più alte caste. Buddha ha operato nella stessa direzione in cui hanno poi lavorato, nelle scuole democratiche dell’antica Grecia, i Sofisti, Socrate…

Archiati: Il quesito dell’Io non è di carattere puramente intellettuale, perché a questo livello possiamo dimostrare sia che l’Io esiste, sia che non esiste (come l’esempio di Milinda e il primo intervento del nostro dibattito hanno evidenziato). La questione dell’Io riguarda il vissuto, riguarda l’esperienza. La domanda è: fino a che punto questa persona, o quest’altra o quest’altra fanno l’esperienza e hanno coscienza di essere un Io?

Fichte non è importante nell’umanità perché ha dimostrato teoricamente l’esistenza dell’Io: è importante perché in lui si è compiuta in modo esemplare l’esperienza dell’Io. Fiche si è vissuto e si è comportato come un Io individualmente responsabile.

A mano a mano che passano i secoli, sorge la possibilità reale di fare sempre di più l’esperienza dell’Io. Le condizioni evolutive oggi sono molto più favorevoli di una volta, anche perché gli ostacoli sono molto più forti. Non stiamo chiedendoci se l’Io sia sempre esistito o no: stiamo parlando dell’esperienza reale dell’Io, cioè della coscienza di essere un Io. Se una persona non si comporta da Io, a che cosa mi serve dimostrargli che l’Io c’è? Non lo vive!

Intervento: Come si passa da una possibilità di redenzione individuale alla possibilità, o alla necessità, della redenzione di tutta l’umanità? Vorrei comprendere attraverso quali fatti, quali eventi evolutivi si passa a questo livello di responsabilità.

Archiati: La prima cosa è capire: poi l’operare segue. Il passo fondamentale per afferrare con le forze del pensare ciò che lei ha detto, sta nel rendersi conto che il concetto di salvazione singola è un’assoluta illusione, perché io sono un membro dentro quell’organismo vivente che è l’umanità intera. Come non basta avere uno stomaco sano se il nostro cuore cede a un infarto e tutto l’organismo è compromesso, così è illusorio pensare di potersi salvare ignorando il resto dell’umanità. La qualità di questo pensiero non è astratta: se lo si percorre e lo si edifica con forze proprie, investe anche le forze del cuore e ci cambia la vita. O tutti insieme, o nessuno: questa è l’umanità.

Intervento: Il Buddha aveva dato importanza al corpo tanto che anche nella meditazione richiedeva una certa postura; attraverso l’ascolto e la percezione del corpo si arrivava alla distinzione fra ciò che è coscienza e ciò che è maya. Se ho capito bene lei ha detto che, con l’avvento del Cristo e il cammino evolutivo dell’umanità, a un certo punto il corpo non è più stato così importante. Il corpo deve decadere per non «disturbare» l’attività dello spirito. Vorrei un chiarimento, visto che non solo la psicosomatica, ma anche l’esperienza clinica e la psicologia ci dicono l’importanza fondamentale di riconoscere che in alcuni luoghi del corpo si sono annidate le nostre sofferenze e le nostre memorie, e che solo attraverso un’armonizzazione, uno scioglimento reale di queste tensioni noi possiamo veramente giungere a una piena coscienza e a una vera crescita interiore.

Archiati: Quando si dice che, col sopravvenire della dimensione dell’anima e dello spirito, lo spirito diventa sempre più determinante, si rischia di venire fraintesi, come se il corpo non avesse più nessuna importanza. Il corpo è invece di estrema importanza! La mia affermazione non sminuisce l’importanza del corpo, ma constata l’enorme crescita dell’importanza dello spirito: sono due cose ben diverse.

È saggio e giusto innanzi tutto venerare la realtà sacra del corpo, e anche rendersi conto che nel corporeo è sedimentato tutto il nostro passato. È altrettanto giusto, però, considerare un atavismo, cioè una metodica ormai vecchia, il voler trarre oggi direttamente dal corpo tutte le esperienze specifiche dello spirito – come facevano gli antichi orientali. Il problema non è la consapevolezza del valore del corpo: il problema è che manca spesso la consapevolezza dell’enorme importanza dello spirito. Si tratta di aggiungere una dimensione, non di svilirne un’altra.

Lo spirito non è direttamente dipendente dal corpo nelle sue funzioni, così come l’artista non dipende dal violino, ma se ne serve: noi non diciamo che la musica è creata dal violino. La qualità artistica della musica viene dal musicista. Stiamo attenti a non sottovalutare l’importanza dello spirito: questo volevo dire.

Se c’è un rapporto di causa ed effetto tra spirito e corpo, la forza causante è dalla parte dello spirito, non dalla parte del corpo. Dove non è possibile l’espressione autonoma della dimensione spirituale, come accade nel bambino piccolo, certamente è il corpo che causa tutto: se ha fame, strilla, se sta scomodo nella culla, si agita, se lo prendo in braccio e lo accarezzo, si calma…; ma dove la dimensione spirituale sorge, è lo spirito che decide.

L’umanità materialistica di oggi dovrà ancora imparare che non sono le malattie del corpo a creare stati psichici o addirittura spirituali di smarrimento, disagio ecc., ma è l’ignorare lo spirito che, come effetto, fa sorgere una serie infinita di malattie. È proprio l’opposto.

Ho anche detto che nella prima metà dell’evoluzione la corporeità era vitale, molto più vitale di oggi: noi non possiamo dire di vivere in corpi sani e vigorosi come erano ancora quelli dei greci, per esempio. Se, però, la corporeità diventa di secolo in secolo sempre più precaria, questo fatto avrà o no un significato evolutivo? E nell’arco della vita avrà o no un significato la vecchiaia? È una disgrazia invecchiare? È una crudeltà del Padreterno? Sta di fatto che s’invecchia!

Gli aspetti brutti e negativi della corporeità che decade li conosciamo tutti: ma è molto più interessante e intelligente trovare anche quelli positivi. La positività del declino corporeo sta nel fatto che la forza pura dello spirito si può manifestare soltanto nella distruzione della materia, cioè nella spiritualizzazione della materia. Non si può rendere la materia più vitale e contemporaneamente spiritualizzarla. O l’una o l’altra cosa. È bello vedere il giovane pieno di vita, perché in quella fase si gode la vitalità del corpo: ma non andrò a pretendere da lui le punte massime della saggezza. Quelle le troverò sempre in un’individualità che inabita una corporeità che sta tramontando: lì c’è la resurrezione.

Un’umanità che soltanto subisca il morire del corpo senza conoscere la resurrezione, è un’umanità povera. Ma allora non si disperi perché il corpo muore: se la prenda con lo spirito che non risorge. E lo faccia risorgere! Lì troverà la positività del corpo che muore. Questo afferma il cristianesimo vero: che la resurrezione avviene là dove il sostrato materiale del cosmo muore. Là risorge lo spirito. Il materialismo è la povertà spirituale e l’anacronismo evolutivo di voler perpetuare la materia. Ma i conti non tornano.

Sesto Capitolo

IL RAPPORTO PERSONALE
CON L’ESSERE DELL’AMORE,

sorgente ideale del cammino interiore

Ci sono Esseri spirituali con una coscienza
più vasta della nostra?

Innalzare i pensieri all’Essere dell’Amore è l’attività più ardita e più bella che sia concessa allo spirito umano. Ho scelto di chiamare «Essere dell’Amore» l’Entità centrale del nostro cosmo, e sono certo che avrete già capito di chi si tratta. La necessità di un’espressione nuova, di un nome inconsueto, è dovuta al fatto che il rapporto personale con questo Essere, ben noto in tutto l’Occidente cristiano che ne parla da due millenni, è per la maggior parte degli uomini problematico o addirittura inesistente.

Una domanda fondamentale che in chiave di scienza dello spirito si può porre alla tradizione cristiana è questa: se c’è un’evoluzione della Terra, se la Terra è un pianeta unitario che si evolve in un divenire cosmico che per il nostro livello attuale di coscienza è in gran parte misterioso, ci sono forse degli Esseri il cui ambito di coscienza sia tale da abbracciare tutto il percorso evolutivo della Terra, o dell’intero sistema solare, o addirittura del cosmo sconfinato nel quale noi viviamo?

L’alternativa all’esistenza di tali Esseri spirituali, con livelli di coscienza così ampi e sublimi, sarebbe il caso. Ma il caso, se vi riflettiamo spassionatamente, è proprio la povertà ultima del pensiero umano, è una capitolazione delle forze di conoscenza. Quando l’uomo non è capace di trovare il senso delle cose, si illude volentieri che non ci sia: ha paura, forse, di ammettere con se stesso che ancora non comprende tanti misteri e che questi misteri, però, sono indagabili e comprensibili. Così la paura gli offusca la coscienza, ed egli inventa «il caso».

La prima liberazione interiore consiste allora proprio nell’accettare con sincerità che il caso è sempre una lacuna nel nostro pensiero, è una carenza di forze conoscitive che ancora non sanno scandagliare fino in fondo il perché delle cose. Ignorare un perché non autorizza a dire che questo perché non ci sia.

In un procedere scientifico, nessuna negazione di possibile esistenza è lecita: il metodo scientifico moderno consiste proprio nella decisione consapevole e responsabile di fare affermazioni unicamente su ciò che si constata, e mai affermazioni di principio su ciò che non si è constatato. A ognuno è concesso di dire: questo per me non esiste, io non l’ho ancora sperimentato. A nessuno è lecito dire: ciò di cui tu parli non può esistere.

Prendiamo il quesito della libertà, per esempio: c’è o non c’è la libertà nell’essere umano? Siamo in tutto e per tutto condizionati e determinati, oppure esiste questa inafferrabile cosiddetta libertà? C’è veramente quella creatività dello spirito umano di cui tanti vagheggiano?

Dato di sicuro per esistente un mondo di natura che procede spinto da ferree leggi di causa-effetto, è possibile sospendere queste stesse leggi dentro lo spirito dell’uomo? È possibile fare di questo mondo fisso di natura (minerale, vegetale e animale) una condizione di base, di sola partenza per le creazioni dello spirito individuale che pone in essere, lui sì!, qualcosa che prima non c’era, qualcosa che non è determinato da fattori già esistenti?

Posso davvero creare qualcosa che si sprigioni in modo primigenio dal mio spirito libero? Ha fondatezza il concetto di creazione dal nulla? Esso dice: creare dal nulla non significa che il tutto debba sparire cosicché io possa far sorgere ex novo tutto l’universo; significa invece che tutto l’esistente viene nullificato quanto alla sua forza causante. Il mondo cosiddetto esterno cessa di causare quel che avviene nel mio spirito, io lo rendo impotente dentro di me, cioè lo rendo un nulla di causazione. Questo vuol dire che il mio Io termina di «lasciarsi fare», di lasciarsi condizionare dalle cose esistenti e crea qualcosa di assolutamente originale e individuale. La forza di creazione del mio spirito pensante porta ad esistenza qualcosa che prima era un nulla.

Detto altrimenti: tutto ciò che già esiste permane nelle sue leggi deterministiche, ma io aggiungo qualcosa del tutto nuovo facendolo sprigionare creativamente dal mio essere stesso, senza che sia esso pure un effetto necessario e determinato del mondo già esistente.

Allora, c’è o non c’è questa libertà che or ora abbiamo descritto? Dicevo che ogni affermazione categorica d’impossibilità è sempre non scientifica. Una persona può soltanto dire: ciò di cui tu parli con tanta convinzione, questo creare dal nulla che tu chiami libertà, io, in me stesso, non l’ho mai vissuto. L’esperienza interiore di cui tu parli non mi risulta di averla mai fatta.

Ciò però non autorizza a dire che una tale esperienza non esiste o che sia impossibile. Non si vada a dire a un Hegel che la libertà non esiste, o a un Fichte, o a un Dante, a un Raffaello, a un Michelangelo! Non esisterebbero essi stessi se non fosse possibile la creatività dello spirito umano.

Ritorniamo ora alla domanda di prima: esistono Esseri spirituali la cui coscienza sia in grado di abbracciare l’arco intero dell’evoluzione di un pianeta come la Terra, a partire dai primordi fino al suo compimento, con tutto il travaglio umano compreso in questo immane cammino?

Esiste un livello di coscienza cosmica incentrato in un Essere (che allora andrebbe chiamato Essere della Saggezza), dove l’infinita frammentazione del divenire umano trovi il suo significato unitario, di reciproco aiuto e appartenenza? Esiste questo Essere, che sarà allora anche l’Essere dell’Amore, un Essere fatto tutto d’amore, se in Lui la vicenda della Terra e dell’Uomo si unificano e trovano il loro senso vero e la loro pienezza?

Questa domanda richiama l’altra: che cosa potrebbe indurmi a dire che questo Essere non c’è? Se sono sincero con me stesso devo rispondermi: se questo Essere esiste, io forse non sono ancora stato davvero toccato da Lui, nella mia interiorità.

La scienza dello spirito non solo afferma l’esistenza di questo Essere dell’Amore, ma dice anche che il senso di tutto il cammino interiore umano è proprio pervenire alla conoscenza e all’amore di Lui. Ma per conoscere lo Spirito della Terra (ecco un altro nome!) bisogna assurgere conoscitivamente a un livello di coscienza che abbracci tutto il divenire umano.

Riprendo un esempio che ho citato tante volte: due genitori pianificano un fine settimana per i loro bambini piccoli e non hanno certo bisogno di aspettare che arrivi la domenica per decidere il da farsi. Essi, da adulti, hanno già prima compresente nella coscienza tutta la giornata festiva perché il loro arco di consapevolezza è più vasto di quello dei loro figlioletti. I bambini vivono infatti un attimo dopo l’altro: al sabato, per loro, la domenica ancora non esiste; per i genitori, invece, seppur futura, essa è già «presente» nella coscienza.

Il concetto di «eternità» è quello del massimo ampliamento di coscienza. Eternità è quello stato sublime di coscienza dove tutto è presente e perciò compresente. Come la domenica, nei suoi tratti fondamentali, è presente alla coscienza dei genitori già dal mercoledì o dal lunedì che la precedono, così l’evoluzione futura della Terra e dell’Umanità è già presente nella coscienza dell’Essere dell’Amore che per noi l’ha ideata – come i genitori il fine settimana per i bambini. E in questo calcolo infinitesimale dell’amore cosmico è inclusa anche la nostra libertà, così come i genitori si riservano di modificare entro certi limiti i loro piani a seconda delle reazioni spontanee dei bambini.

L’indagine scientifica dello spirito è una metodologia che consente di compiere infiniti passi lungo quel cammino interiore che mira ad ampliare sempre più gli orizzonti della coscienza e della conoscenza. Essa non è tanto importante per i contenuti specifici che offre, quanto per essere intrisa d’anelito umano, volto ad abbracciare con la forza pensante e amante dello spirito ambiti evolutivi sempre più vasti.

Il rapporto personale con l’Essere cosmico della Saggezza e dell’Amore sorge proprio grazie a una ricerca del tutto personale, e appassionata, di una conoscenza scientifica di tutto ciò che è spirituale. Per fugare ogni equivoco, è forse opportuno specificare che occuparsi di una scienza dello spirituale non significa indagare un vago aldilà: significa osservare l’aldiqua nella sua interezza, scoprendone cioè tutte le dimensioni, senza accontentarsi del solo livello fisico. Noi siamo abituati a ritenere scientifiche tout court solo le discipline che si occupano del visibile, che ci sembra, a sua volta, la realtà tout court. Invece il visibile è solo un aspetto (il più modesto, per giunta) in cui lo spirito, invisibile, si manifesta. Uno spirito che solo il nostro materialismo ha relegato nel rarefatto e imperscrutabile aldilà. L’aldilà, invece, è qua, è appena dietro il velo dell’apparenza fisica.

La scienza dello spirito è dunque in grado di conferire alla coscienza e alla conoscenza umane un respiro ampio quanto il cosmo intero, e cadenze così longanimi da abbracciare tutta l’evoluzione umana verso la libertà.

Che cosa avviene quando noi riusciamo ad irraggiare coscienza oltre limiti che scopriamo valicabili? Succede che diventiamo più pacati, che vinciamo in noi l’impazienza e diventiamo pieni di gratitudine perché ci si apre il senso delle cose.

Se noi considerassimo una singola giornata come una realtà isolata, che ha un primo inizio al mattino e si conclude alla sera, avremmo in quelle ventiquattrore un mare di eventi incomprensibili; se noi invece prendiamo questa giornata e la inseriamo nel contesto di un intero anno, spieghiamo già molte più cose. Oggi mi sono ammazzato di lavoro, ho dovuto spostare mari e monti per sistemare le ultime cose per la festa di domani…: se astraessi il presente dal passato e dall’avvenire, la realtà di questa giornata convulsa perderebbe ogni significato. Se invece considero tutti gli ieri e i domani, ogni cosa ritrova la sua ragione.

Un giorno singolo della nostra vita, preso da solo, non ha alcun senso, è del tutto inspiegabile: in esso ogni cosa sembra essere, appunto, «a caso». Le cose si illuminano di significato unicamente in base al loro contesto: come la mano ha un senso soltanto nell’insieme dell’organismo, così una giornata ha un senso soltanto nel contesto di tutta la vita.

E se considerassimo la vita che va dalla nascita alla morte come se fosse un’unica giornata, in che cosa consisterebbe l’ampliamento di coscienza al quale la cultura occidentale fa tanta fatica ad abituarsi? Consisterebbe nel dire: la vita intera è priva di senso se io non conosco il suo ieri e il suo domani, cioè le vite che ci sono state prima e quelle che seguiranno.

L’evoluzione intera della Terra è essa pure priva di senso se io non conosco l’evoluzione lunare che l’ha preceduta, e prima ancora quella solare e quella saturnia: le tre precedenti incarnazioni planetarie della Terra, le tre grandi giornate cosmiche percorse dalla Terra prima di diventare il pianeta che è oggi. Sembra un romanzo di fantascienza! Questo romanzo s’intitola La scienza occulta, e Rudolf Steiner vi descrive l’evoluzione del nostro cosmo.

A queste quattro fasi di evoluzione della Terra (Saturno, Sole, Luna e Terra propriamente detta) seguirà ciò che i testi cristiani chiamano la Nuova Terra, dunque una successiva e nuova manifestazione della Terra chiamata Terra-Giove; e poi ancora Terra-Venere seguita dalla Terra-Vulcano. Pigliamo pure queste descrizioni come un romanzo di fantascienza e chiediamoci: ma come è arrivato questo Rudolf Steiner a inventarsi cose del genere? Possiamo anche supporre che le abbia davvero percepite nella realtà spirituale, come lui dice. Sta di fatto che, se è vero quello che descrive, ci troviamo di fronte a un infinito ampliamento della coscienza e della conoscenza. Ed è il cuore umano che deve dapprima dire se si tratta di verità oppure di fantascienza. Leggendo, può accaderci proprio che non soltanto si allarghino gli orizzonti della mente, ma che il cuore celebri una festa senza fine.

Se poi la reazione, onesta, è quella di dire: ma che baggianate!, allora il libro è meglio lasciarlo da parte. In questo consiste il carattere individuale dell’evoluzione: ci sono infiniti gradini di coscienza diversi e ognuno deve sapere dove si trova. Come sarebbe un peccato per una persona che aneli ai contenuti della scienza dello spirito (perché è pronta a riceverli) non avere occasione di incontrarli, oppure incappare in poteri di questo mondo che gliene impediscono l’accesso, così sarebbe altrettanto rovinoso voler imporre a qualcuno mete che ancora non cerca.

La legge fondamentale del divenire, a maggior ragione in una società pluralistica come la nostra, è proprio il rispetto della varietà infinita che c’è nei cammini degli esseri umani.

La scienza dello spirito è proprio quell’impulso che rispetta nel modo più assoluto la libertà interiore di ciascuno. Pur aprendo orizzonti sconfinati, lo fa senza clamore, come dicendo a chi legge o ascolta: vedi un po’ tu, l’importante è che ci pensi sopra. Le idee che ti fai nel tuo spirito, quelle contano. E soprattutto, non fare mai nulla senza che ci sia un convincimento vero alla base, perché soltanto ciò che fai nella libertà e nell’amore è reale ed umano. E se qualcosa non ti è ancora affine, lasciala da parte, ma non condannarla. Potrebbe essere che ancora non la capisci.

Da un mondo pieno di saggezza a un mondo pieno d’amore

La nostra Terra è un mondo d’infinita saggezza, e noi vi siamo immersi. Basta guardare al modo in cui è costituito l’organismo umano; oppure prendiamo una semplice foglia: ci sono sempre stati grandi biologi o fisici che hanno avuto la grandezza di spirito di restare meravigliati di fronte alla straordinaria saggezza di cui è intessuta e imbevuta tutta la realtà in cui viviamo. Le vespe già da millenni fanno la carta: noi oggi la fabbrichiamo secondo gli stessi principi scientifici che questi animaletti hanno applicato da sempre. Ma quale sapienza cosmica porta le vespe a fare la carta?

L’evoluzione della conoscenza comincia per l’uomo proprio col rendersi conto, pieno di stupore, di vivere in un cosmo intriso di significato. Per i greci la filosofia, l’amore alla sapienza, iniziava con la capacità di meraviglia.

Ma non basta, perché questo cosmo di saggezza lo ereditiamo dal passato, non è frutto della creazione del nostro spirito. Bisogna allora compiere un altro grande passo che, pur non essendo in teoria una novità (le grandi religioni ne hanno già parlato), chiede di diventare una nostra esperienza vivente. Noi abbiamo ricevuto dalle mani degli Esseri cosmici divini, guidati dall’Essere dell’Amore, un cosmo di sapienza con il compito di collaborare a trasformarlo, mediante la nostra libertà e nel corso dei millenni, in un cosmo di amore. Questo è il significato dell’evoluzione intera della Terra e dell’Umanità.

L’Essere dell’Amore, l’Essere che incentra in sé le forze di aiuto reciproco, di coesione e comunione fra gli Esseri del nostro cosmo – Uomini, Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini – è Colui che la nostra tradizione ha chiamato il Cristo. Ma ho mostrato come si possano usare altri nomi: ognuno di noi ha il diritto di scegliere per questo Essere la parola che più parla al suo cuore, perché gli attributi possibili sono infiniti come è infinito il suo Essere.

Per molti uomini d’oggi l’unico vero problema nel rapporto personale col Cristo è proprio il nome tradizionale. Esso evoca moltissimi ricordi della propria infanzia, soprattutto se legata al cattolicesimo, contro il quale oggi si ribellano tante menti e tanti cuori. Ma questa disaffezione nei confronti del cristianesimo tradizionale non dovrebbe di per sé ingenerare difficoltà nei confronti dell’Essere di cui stiamo parlando. La maggior parte degli uomini che rifiutano il cristianesimo non conoscono affatto il Cristo, e quindi non sono neppure in grado di rifiutarlo. Al contrario, lo ricercano nel più profondo di sé senza neppure saperlo.

In altre parole, il rapporto personale con l’Essere dell’Amore s’instaura grazie alla forza interiore di rispettare e comprendere la tradizione, e di attivare tutte le proprie forze di pensiero per approfondire la responsabilità del proprio amore, fino a renderlo capace di abbracciare tutta l’evoluzione dell’umanità e della Terra. L’Essere dell’A more è amore per tutti gli esseri e per tutto il loro cammino evolutivo. In Lui, con Lui, mediante Lui l’umanità intera e tutte le creature diventano un unico Corpo mistico fatto di amore reciproco, il Corpo risorto dell’amore universale.

Le qualificazioni di questo Essere sono infinite, e proprio per questo nasce la tolleranza. Lo si può chiamare Essere del Sole: prima d’incarnarsi nella Terra il suo corpo di luce era il corpo del Sole. Lo si può chiamare Spirito della Terra, perché da duemila anni ha intriso il nostro pianeta di forze d’amore e lo inabita concorrendo al crescere d’ogni foglia d’erba. Egli ha fatto della Terra il suo corpo, in modo reale.

Quando il Cristo pronuncia le parole «Questo è il mio corpo», non fa un’affermazione pia, o allegorica, ma un’affermazione scientifico-naturale. L’Essere cosmico che dapprima aleggiava intorno alla Terra si è davvero incarnato, è penetrato dentro l’elemento della carne a partire dal Battesimo nel Giordano fino alla morte e alla resurrezione, in un cammino di amore infinito che gli ha concesso di compenetrare di sé tutte le forze terrestri.

Come possiamo immaginare questa divina trasformazione? Guardiamo al bambino appena nato: ha ancora i movimenti non coordinati, e non perché il suo spirito sia bambino (ha già millenni di evoluzione dietro a sé!), ma perché è ancora più fuori che dentro il corpo. Sta ancora costruendosi il corpo, per così dire, dal di fuori. Il processo incarnatorio consiste proprio nel fatto che lo spirito compenetra a poco a poco la materia, in modo da potersi esprimere sempre meglio dall’interno di essa. Da adulto, infine, il suo spirito perviene all’unione diretta con la materia, e la muove dal di dentro.

Così l’Essere dell’Amore inabita la totalità degli esseri terrestri – le pietre, le piante, gli animali, gli uomini – e ci accompagna in ogni gesto d’incarnazione, quale Spirito della Terra, quale Spirito Planetario che riconduce all’unità tutto il nostro cammino. Perché ogni frammento di saggezza si trasformi in un frammento d’amore.

Prendiamo l’esempio dei fiori, che ci vengono offerti dall’infinita saggezza del creato: i colori belli, le forme fantasiose, i profumi… soltanto perché noi siamo ormai disincantati non ci rendiamo conto di quale grandiosa saggezza artistica sia fluita nel mondo in cui viviamo. E come si fa a trasformarla tutta in amore?

Tutte le creature hanno compiuto il sacrificio cosmico di lasciarsi incantare nella forma fissa – quante fiabe ci parlano di questo incantesimo! – in modo che l’uomo le potesse contemplare. Si sono irrigidite sempre più fino a diventare natura morta. I fiori, quelli veri, non sono però fatti di materia, ma sono le forme sovrasensibili concepite dalla mente degli Esseri spirituali che li hanno creati. Lì sono nati i fiori. Dove, altrimenti?

Dove nasce il quadro di un artista? Nella sua soffitta? Ma no, nasce nei suoi fantasiosi pensieri. I fiori che noi vediamo sono nati dai pensieri di Esseri cosmici creatori. Tutti i loro pensieri si sono condensati, cristallizzati in modo da poter essere percepiti da noi. La natura è lo stato d’incantesimo cosmico dei pensieri divini, che si sono rivestiti di materia.

La singola rosa è costretta a nascere e a morire, a perdere i suoi petali rossi e a rinsecchirsi sullo stelo, perché noi saremmo a tutta prima incapaci, né ci si confà in quanto spiriti incarnati, di dialogare con l’idea divina e immortale della rosa. Qui torniamo, da un altro punto di vista, a quanto dicevamo all’inizio sulla realtà dei pensieri: per noi uomini, che al nostro livello evolutivo diamo valore di realtà solo a ciò che si vede e che si tocca, i pensieri sono spesso vaghezze che volano via.

L’incantesimo che avvolge tutte le creature della nostra madre Terra è in realtà un sacrificio di amore immenso, che attende di essere ripagato da noi con altrettante forze d’amore. Solo la meraviglia, solo l’incanto pieno d’amore e di comprensione dello spirito umano di fronte a ogni creatura può sciogliere l’incantesimo.

Quando avremo ripensato artisticamente tutti i pensieri divini inchiodati magicamente nelle cose, provandone gioia e gratitudine infinite (questo è l’amore), quei pensieri risorgeranno tutti dentro il nostro spirito, intrisi di amore umano. Allora la forma effimera delle cose, quella fissa e regolata da una saggezza compiuta, esaurita e quindi morta, sparirà, e il cosmo intero risorgerà dentro lo spirito umano, come cosmo dell’amore.

Ogni fiore compirà la sua evoluzione quando sarà stato del tutto compreso (compreso, non incasellato in una classificazione botanica) e amato da tutti i cuori umani. E così dovrà essere per ogni altro fiore, per ogni pianta, per ogni animale, per ogni minerale e per ogni essere umano. Ecco il mistero cristiano della transustanziazione: il tra vaglio evolutivo che trasforma tutto un cosmo di saggezza in un cosmo d’amore. Non è forse questo che vive un Francesco d’Assisi, per il quale tutte le creature sono fratelli e sorelle? È fondamentale rendersi conto che qui non c’è ombra di sentimentalismi.

Colui che ci guida in questa liturgia cosmica che tutti celebriamo è l’Essere dell’Amore. La resurrezione della carne del Verbo avviene nella conoscenza e nell’amore che gli uomini hanno per la Terra e per tutte le sue creature.

Quale ampliamento di orizzonti conoscitivi! L’uomo d’oggi, che rischia di perdersi sempre più nel particolare, aggirandosi tra i frantumi e smarrendosi nel non senso, sente il desiderio quanto mai lacerante dello sguardo d’insieme. Ma proprio questo è il profondo desiderio di costruire un rapporto privilegiato e personalissimo con l’Essere dell’Amore universale. Il cammino interiore è l’arte dello sguardo d’insieme che si posa con amore sui frammenti infiniti della vita. È l’arte di esseri liberi e di essere amanti.

La morte di un bambino: un dono d’amore per tutti

Ecco un esempio concreto che palesa misteri cosmici del divenire, e travalica le facoltà conoscitive della nostra attuale coscienza: una madre e un padre hanno un bambino, e questo bambino muore. L’evento coinvolge e sconvolge non solo la famiglia, ma gli amici, i conoscenti, perfino gli estranei; la domanda è una: ma che senso ha? Noi spesso pensiamo che la morte di una creatura piccola sia un fenomeno assurdo, ma potrebbe anche essere che siamo noi a non coglierne ancora il senso.

Finora abbiamo detto che c’è una regia del divenire molto più saggia di quella che noi sappiamo comprendere al nostro livello attuale di coscienza. Questa regia trova la sua unità nell’Essere dell’Amore, alla cui consapevolezza amante sono compresenti il passato, il presente e il futuro della Terra e dell’Uomo. Egli sa che la nostra evoluzione non sarebbe possibile senza l’incarnarsi di esseri umani che muoiono molto giovani, e di altri che muoiono molto vecchi.

Se si abolissero tutte le malattie, bisognerebbe al contempo rinunciare alla perfezione stessa dell’organismo: esso è perfetto proprio perché può ammalarsi, e rendere così possibile l’esercizio della liberà umana. La libertà umana può strapazzare il corpo, cosa che gli animali non possono fare: malattie vere e proprie negli animali non esistono, in loro vigono solo processi di natura. La possibilità della malattia è proprio la prova che la libertà esiste: se vogliamo la libertà dobbiamo dare all’uomo la possibilità di trattare il suo corpo in un modo non consono al corpo.

Torniamo al morire da piccoli e al morire da molto vecchi: quest’ultima eventualità la accettiamo maggiormente – anche se l’esser vecchio è ciò che tutti vorrebbero diventare e nessuno vorrebbe essere! – ma più impenetrabile ci pare il mistero dei bambini piccoli che muoiono.

Steiner afferma che un bambino che muore compie un sacrificio, anche se i genitori e le persone circostanti non sanno il perché, al livello della coscienza ordinaria. Questo sacrificio ha senso solo nel contesto dell’umanità intera, considerata come un organismo spirituale unitario di cui ogni essere umano è un membro vivente.

L’Io spirituale del bambino che muore ha deciso, ancor prima di nascere, di morire da piccolo. Uno dei motivi per cui è assolutamente necessario per l’umanità intera che ci siano bambini a morire è che soltanto così vengono immesse nel cosmo umano libere forze di volontà necessarie all’evoluzione. Queste forze sono costituite da tutti gli ideali di vita che i morti prematuramente avrebbero esplicato sulla Terra se fossero vissuti fino a sessanta, settanta, ottant’anni.

Il compimento di questa rinuncia sacrificale avviene spesso in base ad un lungo processo di cristificazione che l’essere umano che muore da piccolo ha attuato in vite precedenti. Rinunciando ora, liberamente, ad esplicare tutte le forze di volontà presenti nel suo corpo eterico, nel suo corpo astrale e nel suo Io spirituale, le mette a disposizione di altri esseri umani. Gli ideali di vita terrena presenti in lui a livello di potenzialità non si annientano con la morte, bensì vengono rimessi nelle mani degli Angeli che in nome dell’Essere dell’Amore li distribuiscono nell’umanità a chi ne ha più bisogno.

La scienza dello spirito descrive la vicenda terribile di molti esseri umani che ai nostri tempi hanno grande difficoltà ad incarnarsi perché, posti di fronte allo sguardo prospettico della vita che sta per cominciare, vorrebbero ritrarsene. Molti dei fenomeni di idiozia, di malattie mentali, sono dovuti al fatto che molti esseri umani non riescono ad afferrare totalmente la corporeità, a incarnarsi fino in fondo, proprio perché al momento di nascere cadono preda della paura guardando al modo di vivere degli uomini d’oggi,.

Per aiutare tutti questi nascituri che non riescono a desiderare con vera gioia l’incarnazione, e sentono repulsa di fronte a un mondo sempre più disumano, ci sono altre individualità che nel loro Io, intriso di forze d’amore grazie a una profondissima comunione con l’Essere dell’Amore, decidono di morire da piccoli per portare incontro ai loro fratelli, dalla Terra stessa, forze volitive che amano con immensa dedizione la condizione incarnata. Sono forze giovanili che per natura affermano e confermano la bellezza e la preziosità della vita sulla Terra.

L’amore alla vita sulla Terra, come un canto sacro e struggente sale nei cieli con i nostri bambini che muoiono, e coloro che malvolentieri stanno avviandosi all’incarnazione imparano così che la Terra è infinitamente degna d’amore. Questi piccoli – piccoli solo allo sguardo fisico! –, carichi d’amore, portano incontro a chi lotta per poter nascere una «gravità» terrestre purissima, fatta di ideali e progetti ai quali dedicare cuore e mani per edificare una vita terrena intensa. Solo individualità che nel corso della loro evoluzione hanno imparato la fedeltà alla Terra, l’amore incondizionato al nostro pianeta materno, possono donare in questo modo il coraggio e la gioia dell’esistenza terrena ai fratelli umani che ancora non ce l’hanno.

Se i genitori di un tale bambino non hanno la minima idea di questo possibile significato della morte del loro piccolo – sconvolgente, ma pur sublime –, possono vivere solo la tragedia di una perdita immensa. Più umano è il dolore se i genitori hanno modo di accompagnare con questi pensieri il loro figlioletto, lungo la strada misteriosa e per noi ancora sconosciuta che l’Essere dell’Amore traccia affinché l’umanità non si perda, smarrendo l’amore per la Terra. Il loro bambino la conosce, quella strada, e ha scelto di percorrerla sulle orme di Colui che da sempre vi cammina per tutti noi.

L’Essere dell’Amore racchiude nel suo cuore il cammino terreno di tutta l’umanità, che porta all’edificazione consapevole di quell’organismo vivente e unico che è destinata a diventare. Questo organismo è il Corpo stesso dell’Essere dell’Amore, è il Corpo mistico del Cristo. Noi siamo le sue membra e il Cristo è la nostra armonia, la nostra comunione. Noi siamo la sua infinita molteplicità, Lui la nostra amorevolissima unità. Egli è nel cosmo Colui che lava i piedi degli esseri destinati a camminare sulla Terra, sul suo Corpo d’amore che fa dell’umanità intera e della Terra un nuovo Sole d’amore.

La mamma del piccolino che è morto può allora dirsi: l’Essere dell’Amore, che nella sua fantasia morale crea l’osmosi delle forze d’amore di tutta l’umanità, ha ispirato mio figlio a compiere un sacrificio. Il mio bambino ha infuso forze d’amore per la Terra agli altri membri di quell’organismo unico che è l’umanità, e che tutti ci affratella. Chi non trova il coraggio di nascere viene fatto «rinascere» da chi è morto giovane per lui.

È possibile che una mamma viva la morte del suo bambino in questo modo? Sì, è possibile in base a un rapporto personale con l’Essere dell’Amore, che forse prima non c’era e che ora può sorgere, perché il sacrificio del proprio figlioletto è stato compiuto non solo per i nascituri, ma anche per i viventi, soprattutto per i genitori: affinché il loro dolore venga lenito dall’incontro reale con l’Essere dell’Amore. E quando questo incontro avviene, gioisce doppiamente colui che è morto precocemente.

Io penso che anche la mamma più semplice del mondo sia in grado di comprendere per esperienza propria che vi è un Essere fatto d’Amore, in grado di abbracciare in sé l’intreccio unitario di tutti i cammini umani, e che amministra e celebra la liturgia cosmica dello scambio di quelle forze sacrificali che sono necessarie per vivere. Non è forse ogni mamma iniziata al mistero dei sacrifici infiniti che ci sono da fare, e si vogliono fare!, per la vita di un altro essere? Proprio in base a questa consapevolezza d’amore lei ha fatto nascere il suo bambino. Ora si trova di fronte allo stesso mistero sacro, quello del sacrificio amante della sua creatura per tutta l’umanità.

La morte di un bambino piccolo diviene sacra se si riesce a viverla attraverso un ampliamento di coscienza, che conduca all’esperienza di cogliere l’umanità quale organismo unitario, dove tutti siamo membri gli uni degli altri. Nel crogiolo dell’Amore veniamo affinati e resi capaci di contemplare il volto dell’Essere dell’Amore.

Tutto ciò non tollera sentimentalismi, perché la scienza dello spirito non mortifica mai il cuore indorandogli le cose: le cose o sono vere, o sono non vere. L’affermazione tradizionale cristiana che l’umanità è un’unica famiglia, che siamo tutti fratelli, è diventata forse un po’ stantia, un po’ stonata, perché rivolta troppo direttamente al sentimento. O la ripensiamo in chiave di conoscenza scientifica oggettiva, questa affermazione, oppure sparisce la consapevolezza della solidarietà umana, e siamo perduti.

L’organismo spirituale unitario dell’umanità si manifesta ora smembrato sulla Terra, perché ogni essere umano, nel mondo della materia, è separato dall’altro. Il rimembramento dell’umanità diviene così il compito sommo della coscienza, dell’amore, del libero cammino interiore di ognuno. È il compito della vita. La frammentazione e l’isolamento della solitudine sono il campo di lavoro della libertà e dell’amore affinché i cuori ricordino la reciproca appartenenza.

Il cammino scientifico spirituale che ci permette un rapporto tutto nuovo con l’Essere dell’Amore – con l’Essere della Terra, con l’Essere dell’Umanità, con il Cristo… i nomi sono tanti quanti sono i modi d’incontrarlo – ci porta incontro anche il mistero dell’unità dell’umanità che abbraccia in sé la Terra, la natura, tutto il cosmo visibile.

Di questa così sostanziale realtà hanno sempre parlato, attraverso tante immagini del mito, le tradizioni di tutti i popoli della Terra: ma il problema torna ad essere quello della consapevolezza, dei livelli di consapevolezza. Nell’umanità c’è un profondo desiderio, spesso inconscio, di recuperare tante credenze, tante cosmogonie, tante mitologie, tante leggende, al livello della chiara conoscenza spirituale. Se delle affermazioni sono sorte nel passato avranno pure la loro legittimità: importante è tutto ciò che si conquista nell’eros conoscitivo dello spirito, nella spinta del cuore umano ad abbracciare sempre più esseri, a sentirli parte di sé e a sentirsi parte di loro.

Migrazione dei popoli dal basso verso l’alto
all’inizio del terzo millennio

Nei primi secoli dopo Cristo l’impulso del cristianesimo si mosse dal sud, dalla Palestina, passando per la Grecia e per Roma, verso il nord, incontro ai cosiddetti popoli barbari, che ne sarebbero poi stati i veri portatori. Non furono i grandi pensatori greci o romani a far proprio questo nuovo impulso evolutivo: anzi, inizialmente essi lo disprezzarono, relegando i cristiani nelle catacombe o facendoli oggetto di crudele trastullo a Roma, durante gli spettacoli del circo.

Il cristianesimo nascente non si rivolse a popoli già illustri per sapienza, come i greci e i romani, ma a popoli culturalmente molto più primitivi, però esuberanti di forze volitive giovanili, e pieni di dinamismo, come fossero ancora dei bambini. Il cristianesimo si è fecondato nell’incontro con i popoli del nord, con i Vandali, i Visigoti, i Longobardi, gli Ostrogoti ecc. perché in essi viveva una forza primigenia capace di afferrare l’impulso cristico e farlo crescere nell’umanità.

Come il Cristo stesso si rivolse non ai dotti o ai potenti, ma ai piccoli e ai diseredati, così il cristianesimo non cercò i dotti greci o i potenti romani, ma i cuori rozzi e semplici degli uomini del nord. Lo stesso Dante invoca la salvezza del cristianesimo non da Roma, ma dal nord.

Osservando la storia con i nuovi strumenti della scienza dello spirito possiamo dire: oggi è in atto una nuova migrazione di popoli. Essa non riveste più quel carattere di spostamento geografico che andava solcando in orizzontale la superficie della Terra, ma sale dal basso verso l’alto. Questa nuova migrazione «verticale» è stata originata nel secolo scorso dal proletariato: la massa reietta e diseredata dell’umanità ha cominciato a scuotersi, si è destata con l’intento di sollevarsi dal basso verso l’alto in una gigantesca prova di forza con il ceto cosiddetto «alto» della borghesia.

Queste categorie – proletariato e borghesia – certamente oggi suonano in modo diverso alle nostre orecchie. Ciò che s’intende dire è che nell’umanità si va manifestando la grande e irreversibile aspirazione degli uomini ad abolire ogni tipo di strato sociale. È nato per sempre nell’umanità il convincimento che il vero essere e la dignità della persona umana non hanno nulla a che fare con una divisa o una posizione esteriori. Non dice nulla sul valore intrinseco della persona il fatto che abbia molti soldi o pochi, che porti la cravatta o vada in maniche di camicia, che diriga un’azienda o lavori in cantiere, che sia un papa o un semplice papà… Tutti questi status hanno la loro legittimità per ciò che riguarda le cose di questa Terra, che costituiscono semplicemente il fondamento materiale per l’umano vero.

E l’umano vero è nell’interiorità di ognuno di noi, è tutto in tutti. I veri «poveri» sono coloro che non hanno sufficiente coscienza della pari dignità di tutti gli esseri umani. Il dono del ceto povero al ceto ricco, il dono che sale dal basso verso l’alto, è la consapevolezza della fratellanza universale nell’uguaglianza assoluta della natura e della dignità umane. È il profondo convincimento della pari dignità degli uomini in quanto esseri spirituali, e porta con sé il coraggio dell’amore cristico che si ribella di fronte a chi vorrebbe stratificare tutti in base alle divise e alle divisioni esteriori.

Alle orde dei popoli barbarici che dall’Oriente avanzavano verso Occidente e dal settentrione verso il meridione venne incontro dal sud geografico l’onda nuova del cristianesimo, ad ammansire il loro impeto e a plasmare i loro cuori. Ugualmente, oggi, all’aspirazione umana, che emerge dal basso, a una vera uguaglianza nella dignità dello spirito, a questa difficile migrazione sociale macrocosmica, a questo anelito di fratellanza vera dove nel sociale l’Io incontra l’altro Io, a questa forza primigenia ascendente viene incontro, dall’alto verso il basso, una moderna scienza dello spirito quale impulso di rinnovamento profondo dell’umanità.

Questo è il senso vero delle nuove forze di conoscenza che sono oggi a disposizione di chiunque voglia conoscere la dimensione spirituale di sé e del mondo, non solo quella fisico-esteriore. La coscienza della grande migrazione verticale in atto fa paura a molti esseri umani, quando ne colgono la portata e il significato.

Considero una grande tragedia per l’umanità il fatto che la via scientifica allo spirito abbia finora suscitato l’interessamento di un ristretto numero di persone appartenenti soprattutto al ceto medio alto. Il tormento interiore che io porto in me da tanti anni si esprime in questa domanda, che pongo a me e a voi: cosa possiamo fare perché la scienza dello spirito trovi la sua via congeniale e maestra, che va dall’alto verso il basso, perché raggiunga e tocchi il cuore dei piccoli e dei poveri d’oggi, di ogni essere umano semplice che lotta per la propria umanità? Io vedo in questo immane travaglio della scienza dello spirito, che migra dai più alti mondi spirituali fino all’ultimo degli esseri umani, il compimento della missione del cristianesimo.

Il Vangelo sottolinea ad ogni pagina che il Cristo andava dai poveri, dai peccatori, dagli ammalati, dagli stranieri, dagli emarginati. La scienza dello spirito è fatta per ogni uomo che sa di essere povero, che cerca l’esperienza dello spirituale perché gli manca; non è per coloro che pensano di avere già tutto. Beati i poveri di spirito, beati coloro che si sono accorti di essere manchevoli della dimensione più alta del proprio essere e che vorrebbero portarla nella concretezza dell’esistenza.

Tutto ciò che avrete fatto a uno dei più piccoli lo avrete fatto a me. Come l’Essere dell’Amore si china verso il basso a lavare i piedi a noi piccoli, così la scienza dello spirito scende verso il basso per innalzare ogni mente e ogni cuore umano.

Il significato del cammino interiore è la decisione sempre nuova di mettersi per strada, di cercare. Vuol dire essere in cammino, e non essere già arrivati. Ritenersi arrivati è la grande tentazione, simile a quella di non voler partire perché ci si è seduti, stabiliti, organizzati, e si sta bene dove si è. Il superamento di entrambe le tentazioni consiste nel rimettersi sempre di nuovo per strada: ecco il cammino interiore. La scienza dello spirito è un cammino di conoscenza e di amore così infinito che non consente mai di arrestarsi. Perciò parla così soavemente e irresistibilmente al cuore di ogni uomo, che non cessa mai di battere.

Io sono la Via, Io sono la Verità, Io sono la Vita

Vivere un rapporto personale con l’Essere dell’Amore, che è al contempo sorgente e meta ideale del cammino interiore, è incontrare Colui che ha detto di sé: Io sono la Via, la Verità e la Vita. In questa triade è racchiuso tutto un cosmo.

Io sono la Verità: creo un rapporto personale con l’Essere dell’Amore non con il misticismo delle emozioni, ma quando ricerco la verità, quando mi apro alla verità, quando m’innamoro della verità e ascolto quel che hanno da dirmi un essere umano o un fiore o una pietra.

Troppo spesso noi immaginiamo il Cristo come una qualsiasi persona, come un essere umano molto, molto buono: dobbiamo invece allargare i nostri concetti. Quando io amo il Cristo, l’Essere della Verità, io amo la verità. Ma la verità è infinita perché è la realtà totale di tutti gli Esseri spirituali e dei loro rapporti reciproci. Il mio rapporto personale con il Cristo è dunque il mio rapporto con la verità: ma la cerco o non la cerco, io, la verità? Provo gioia o non provo gioia nell’allargare i miei orizzonti conoscitivi sempre di più?

Io sono la Vita: la verità è il cammino del pensiero, la vita è il cammino della volontà, delle azioni, degli impulsi volitivi. La vita viene uccisa ogni volta che agiamo e ci comportiamo in base al conformismo, ogni volta che veniamo condizionati e non siamo noi a vivere.

Cosa significa vivere? Significa far sorgere dentro di me impulsi di vita nuovi e tutti miei: significa diventare creatore. Questa è la vita. Far sprigionare dalla propria interiorità mondi nuovi. Se il Cristo dice «Io sono la Vita», il mio rapporto personale e reale con l’Essere della Vita dev’essere la mia stessa esperienza della vitalità pensante, della creatività spirituale, della fantasia morale. Quando non mi identifico con ciò che è morto, con quel che si perpetua e si ripete, ma faccio zampillare dalla mia interiorità pensieri e gesti sempre nuovi, e li dedico al mondo, allora faccio l’esperienza di Colui che dentro di me è la vita.

L’Essere dell’Amore è la Verità dentro di noi, è la Vita dentro di noi: ma siamo noi a vivere nella verità e nella vita! La compenetrazione spirituale reciproca degli esseri è un grande mistero: due persone che si amano sono al livello corporeo due persone diverse, però l’osmosi spirituale che avviene tra loro è realissima e misteriosa. Il Cristo è come un’aura d’amore universale che avvolge gli esseri nella comunanza della verità e della vita.

Il Cristo in me è la somma della verità che ci è comune; il Cristo in me è la somma della vita che scorre in tutti noi. Io sono la Verità, Io sono la Vita. Ma devo farla l’esperienza di essere vivo, devo farla l’esperienza di essere amante e capace di verità!

Io sono la Via: nella misura in cui abbiamo esperienza del camminare nella verità e dell’essere vivaci nella vita del cosmo, instauriamo anche un vero rapporto con l’Essere dell’Amore in un perenne cammino interiore, lungo il quale sempre ci è compagno Colui che di sé dice: Io sono la Via.

Questa è la triade del pensiero, della testa – Io sono la Verità –; degli impulsi volitivi, degli arti, della creatività – Io sono la Vita –; e del loro ritrovarsi insieme nei battiti ritmici del cuore che pulsa tra il pensiero e la volontà, che rende vita la verità e dà verità alla vita, trasformando il ritmo dell’amore nei passi infiniti del cammino umano, sempre capace di nuove metamorfosi – Io sono la Via.

Il rapporto personale con l’Essere dell’Amore è allora l’esperienza stessa della Via, del cammino, della via verso la Verità e della via verso la Vita. È l’esperienza d’essere viandante, di essere un eterno pellegrino verso mondi sempre nuovi, con un cuore che vive ogni giorno nel dinamismo infinito dell’umano e fa del cammino interiore stesso la propria verità e la propria vita. Solo come viandante è vero, solo come viandante è vivo ogni essere umano.

[1] Già Zarathustra, cinquemila anni avanti Cristo, aveva chiamato Arimane il signore delle tenebre e Aura Mazda il signore della luce. Per maggiori approfondimenti su questo tema vedi anche: P. Archiati, L’uomo e il male un mistero di libertà – Ed. Archiati

[2] P. Archiati, La forza della positività – Ed. Archiati

[3] V. R. Steiner, Arte dell’educazione I. Antropologia; L’enigma dell’uomo – Ed. Antroposofica.

[4] V. R. Steiner, L’iniziazione – Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori? Ed. Antroposofica.

[5] A questo proposito, V. il piccolo saggio introduttivo di P. Archiati: Rudolf Steiner, chi è costui? pubblicato in: R. Steiner: L’eterno femminile – Ed Archiati

[6] V. R. Steiner, La filosofia della libertà – Ed. Antroposofica

[7] V. R. Steiner, Teosofia – Un’introduzione alla conoscenza soprasensibile – Ed. Antroposofica

[8] V. P. Archiati, Angeli e morti ci parlano – Ed. Archiati.

[9] Per approfondire il rapporto fra l’uomo e il Cristo quale Essere cosmico di Libertà e di Amore, V. P. Archiati, Commento al Vangelo di Giovanni, 11 voll. – Ed. Archiati

[10] R. Steiner, Le manifestazioni del karma – Ed. Antroposofica

P. Archiati, Guarire ogni giorno – Ed. Archiati.

[11] Per un’introduzione a questo tema vedi: Pietro Archiati Arrivederci alla prossima vita – Archiati Verlag, Monaco di Baviera 2003 (NdR).

[12] Sul tema della «caduta», o peccato originale, V. P. Archiati, Equilibrio interiore – Ed. Archiati

[13] Sulla questione sociale, V. R. Steiner I punti essenziali della questione sociale – Ed. Antroposofica

P. Archiati, Uomo e denaro – Ed. Archiati.

[14] Sul tema del destino, V. R. Steiner, Teosofia – Ed. Antroposofica

P. Archiati, Nati per diventare liberi – Ed. Archiati

[15] R. Steiner, La scienza occulta; L’iniziazione. Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori?; I sei esercizi – Ed. Antroposofica

[16] V. R. Steiner, La filosofia della libertà op. cit.

[17] Un ampio svolgimento del tema dei rapporti umani si trova in: P. Archiati, L’arte dell’incontro – Ed. Archiati

[18] R. Steiner, La filosofia della libertà, op. cit.

[19]P. Archiati, Voi siete dèi L’uomo in cammino, vol 3– Ed. Archiati.

[20] V. R. Steiner Teosofia, op. cit.

[21] Da questo fatto biografico è nato poi il testo di Pietro Archiati Le speranze di un’umanità suicida (riedizione ampliata del Giuda in paradiso) Il Ternario, Roma 2003.

[22] Fiori di loto, (o «ruote» = chakrams) è un’espressione tecnica dell’occultismo per indicare gli organi sensori dell’anima che il chiaroveggente percepisce nelle vicinanze di particolari organi fisici: occhi, laringe, cuore, stomaco, addome. Sono così denominati perché assomigliano a corolle di fiori. Nell’uomo non evoluto sono di «colore» scuro e non si muovono; quando si intraprende il cammino spirituale questi «fiori» si schiariscono; se poi cominciano a roteare vuol dire che si hanno percezioni sovrasensibili.

[23] V. R. Steiner, Buddha e Cristo – Ed. Archiati

[24] V. P. Archiati Maschere di Dio, volti dell’uomo – Ed. Archiati

[25] Nel Vangelo di Giovanni il Cristo ha due nomi: Io Sono (Εγω Ειμι, egò eimì) e Logos (Λογος).

[26] V. R. Steiner, Il quinto vangelo – Ed. Antroposofica.

[27] P. Archiati: L’Uomo e La Terra – Ed. Archiati.

A proposito di Pietro Archiati

Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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