Questo testo è una nuova edizione riveduta di L’arte dell’incontro
dello stesso autore
In copertina: immagine di Marinella Boffelli
www.liberaconoscenza.it
ISBN 978-88-96193-36-5
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Pietro Archiati
l’arte dell’incontro
Ascoltare per capire, capire per amare
Indice
Primo Capitolo
l’esperienza primaria del destino e della vita
• Capire la vita, ovvero l’arte di non lasciar nulla al “caso”
• Capire il destino, ovvero l’arte di allungarsi la vita
• L’incontro come sfida al pensiero
• Si incontra soltanto chi si è cercato
• L’incontro che mi fa pensare e quello che mi fa agire
Secondo Capitolo
ascoltare con i sensi, col cuore
• L’incontro come esperienza del sacro
• Muovo forse io la mano di chi mi dà uno schiaffo?
• Di ogni cosa ciascuno è in debito verso gli altri
• Ascoltare il corpo, l’anima e lo spirito dell’altro
• È possibile ascoltare anche gli animali, le piante e le pietre?
• Morire a se stessi per risorgere nell’altro: che cosa vuol dire?
• Quanto vogliamo che duri il nostro rapporto?
Terzo Capitolo
una polarità antica e sempre attuale
• Come riconciliare il maschile e il femminile
• L’uomo e la donna tra il fisico e l’invisibile
• L’uomo e la donna nel mondo dell’anima
• Corpo, anima e spirito nella vita di coppia
• La fedeltà è dovuta a una persona sola?
• I destini s’ingarbugliano e la morale s’individualizza
• La gelosia e il controllo: due figlie gemelle della paura
Quarto Capitolo
l’incontro come esperienza di positività
• La simpatia e l’antipatia: i due nemici di ogni incontro
• Il disinteresse non fa nascere l’incontro, il dar consigli lo fa morire
• Se fossi in te…: l’incontro umano tra giudizio e pregiudizio
• Accettare i diversi gradi di profondità negli incontri
• I rapporti possibili e quelli impossibili
• L’arte del litigio costruttivo e della riconciliazione
• Chi mi viene incontro cerca una restituzione
• Stadi evolutivi dell’accettazione dell’altro
Quinto Capitolo
incontrarsi negli ideali comuni
camminare insieme verso la meta
• I legami di sangue: rapporti che aprono o che chiudono
• L’essere insieme “contro”: una brutta trappola
• La pace del cuore: l’arte di trovare sempre un accordo
• Incontri poveri, incontri ricchi
A proposito di Pietro Archiati
Primo Capitolo
INCONTRARE L’ALTRO
l’esperienza primaria del destino e della vita
Capire la vita, ovvero l’arte di non lasciar nulla al caso
Gli incontri della vita sono un grande mistero. Con alcune persone condividiamo la buona e la cattiva sorte, altre non le conosciamo nemmeno. Contemporaneamente abbiamo il sentimento di vivere in compagnia di tutto il resto dell’umanità, e perciò non siamo mai del tutto soli.
È straordinaria la varietà delle relazioni umane, così dinamica nelle sue forme, che ci fa attori del grande teatro della vita. E per di più i rapporti umani mutano di epoca in epoca, proprio perché l’evoluzione umana va avanti e trasforma, nel suo procedere, tutti i suoi scenari.
Oggi, per esempio, i rapporti fra gli esseri umani sono meno spontanei e meno armonici: è come se tutti avessimo perso le capacità innate d’orientamento che una volta guidavano gli incontri. Diventa sempre più difficile stabilire rapporti autentici, intensi e anche duraturi, basandosi sulla pura naturalezza. Sembra d’essere di fronte ad una grande sfida, in questo inizio di millennio: quella d’imparare a decidere liberamente la qualità dei rapporti, e farne così un esercizio di creatività e un’opera d’arte. Ciò che prima faceva la natura, ora lo dobbiamo fare noi, in libertà.
Stando ai documenti tramandatici, millenni fa gli uomini sentivano le relazioni tra loro come governate dalla volontà divina che agiva dentro la natura, una volontà ascoltata e seguita senza esitazioni. L’andamento del sociale era stabile e sicuro per il fatto che nell’animo di ognuno sorgevano come guida delle forze istintive. Basti pensare a quello che dovrebbe essere il più spontaneo dei rapporti: quello tra madre e figlio. Fino a non molto tempo fa nessuna mamma sentiva il bisogno di comprarsi un libro per informarsi su come tirar su il proprio bambino. Tutto veniva da sé.
Questi mutamenti non sono necessariamente negativi. Notare che le cose siano diventate più difficili non vuol dire affermare che vadano peggio. Se tante realtà nel passato erano semplici e ora sono complesse, vuol dire che nel futuro lo diventeranno ancora di più, perché sempre meno si affideranno alla saggezza della natura, o alla provvidenza divina, o a qualunque altra guida che si proponga dall’esterno. Alla mano divina va sempre più aggiunto l’intervento consapevole e libero della propria coscienza.
È ormai evidente che i rapporti tra le persone si sfasciano se mancano l’inventiva, la creatività e soprattutto la libertà propria di ogni singolo individuo. Nel nostro intimo sta emergendo il desiderio di impostare in modo nuovo i rapporti con gli altri. Gira per il mondo una gran voglia di essere i geniali tessitori di tutti quegli intrecci di persone cui siamo congiunti.
Tutto nasce da un sentimento di fondo del nostro animo che non ce la fa più ad accettare che le cose vadano “a caso”. Si avverte, magari inconsciamente, che in quest’idea del “caso” c’è qualcosa d’insopportabile. È inaccettabile sapere che gli insetti a primavera sciameranno di sicuro portando il polline da un fiore all’altro, che a giugno, possiamo giurarci, maturerà il grano, e che il ghiro se ne andrà in letargo, puntualissimo, all’inizio dell’inverno – immensa saggezza dell’universo!–, mentre le vicende di chi corona la natura, quelle dell’uomo, continueranno ad essere rimesse all’insulso, imprevedibile CASO! C’è sapienza e ordine dappertutto e solo io, col mio destino e la mia vita, io che sono l’essere supremo della creazione, dovrei ritrovarmi in balìa delle fatalità, delle circostanze più inattese e aleatorie?
E non basta dire: l’uomo è libero, per questo non è regolato come gli esseri di natura. Se c’è davvero, questa libertà, non può essere a vanvera, o comunque sempre stravolta da quelle mille situazioni che ci fanno dire: volevo incontrare questa e quest’altra persona ma poi, come per caso, mi sono ritrovato a dover fare i conti con tutt’altra gente.
Capire il destino, ovvero l’arte di allungarsi la vita
Nei secoli passati dev’essere stato più facile accettare le proprie condizioni di vita: bene o male ci si rassegnava alla povertà, oppure allo svantaggio di una salute malferma. È invece tipico dei nostri tempi che pochi siano disposti ad accogliere il destino nei suoi aspetti più sfavorevoli.
Aumenta l’esigenza di trovare un filo coerente che spieghi l’andamento degli eventi, e in proporzione diminuisce la capacità di rassegnazione. Le forze della ribellione contro i decreti del destino o del cieco caso diventano sempre più vigorose e cresce, di conseguenza, l’aggressività.
Anche questo non è un fatto da condannare di per sé. Una volta arrivati a questo punto di estrema irrequietezza, forse si tratta di cercare le ragioni su cui si fondano le grandi differenze di salute, ricchezza e fortuna, esistenti fra gli uomini.
Bisogna, insomma, vedere se siamo in grado di trovare delle motivazioni più profonde e convincenti che riescano ad eliminare la passiva e assai sgradita sottomissione all’ineluttabile. Tra l’altro è in gioco la stessa salute sociale, perché l’aggressività, se s’incattivisce, può trasformare la convivenza umana in un luogo di tensioni e scontri carichi di distruzione.
Perché, nonostante si parli tanto di civiltà e di progresso, aumentano gli uomini disposti a uccidere, a prevaricare, a sfruttare il proprio simile al punto che ovunque nel mondo – persino nelle nostre case e dentro di noi – proliferano guerre, violenze e terrorismi? Forse perché mancano pensieri nuovi, uno dei quali potrebbe essere questo: nella vita di un uomo nulla avviene per caso, ma ogni esistenza è curata e ordinata da una legge che ancora non conosciamo. Questa legge potrebbe essere chiamata appunto legge del destino (o karma, come dicono in oriente) e farebbe sì che le conseguenze di tutto ciò che un essere umano compie, col passar del tempo ritornino su di lui[1]. Un’ipotesi di pensiero nuova, in occidente. Ma è sempre meglio di quel nulla di pensiero, incapace di fornire risposte, che è il caso. Anche solo per questo vale la pena di dedicarci un po’ d’attenzione.
Se questa ipotesi fosse vera, però, come mai non ce ne accorgiamo? Anzi, la realtà spesso mostra proprio il contrario: la crudeltà è vincente e la sopraffazione porta concreti vantaggi. E poi, di quale azione dovrebbe mai essere conseguenza una malattia che uno si ritrova già al momento della nascita? Oppure, cosa possono aver fatto le migliaia di vittime dell’attentato alle Twin Towers perché abbia una giustificazione la loro morte così tragica? E i bambini uccisi barbaramente in Ossezia?
Dal lato dell’esperienza, – dove quello che conta è ciò che ognuno di noi vive, dove non si rischia di produrre astrazioni o dogmi – non c’è quasi più nessuno disposto ad accettare l’ingiustizia che si manifesta nel fatto che a un farabutto vada sempre tutto bene e a un brav’uomo accadano un guaio dopo l’altro. Come mai?
La scienza, finora, si è occupata solo dei fenomeni di natura, ma l’atteggiamento scientifico – l’esigenza di verità –, non è un’esclusiva degli scienziati di professione. Vive diffusa nell’animo di tanti una nuova aspirazione profonda, spesso inconscia: quella di conseguire una conoscenza altrettanto scientifica anche dei “fenomeni umani”, nell’accezione più vasta della parola. Una scienza che riesca a capire anche quelle dimensioni di vita che non rientrano nello stretto ambito della natura[2].
La grande soglia del divenire, in questo inizio del terzo millennio, sembra proprio consistere nel desiderio di valicare il vuoto della fatalità per quanto riguarda i rapporti umani, basandosi sulle capacità di una coscienza più forte e più matura. Di questo possiamo renderci conto osservando un fenomeno assai singolare, ma che passa per lo più inosservato. Quando un uomo ragiona sugli eventi della propria vita e non ne trova il senso, quale tipo di pensiero, seppur nascosto, sta alla base delle sue riflessioni? Quale tipo di ragionamento usa per arrivare a protestare contro le assurdità del destino?
È lo stesso con il quale considera un singolo giorno della propria vita. Quando, magari prima di addormentarci, diamo un’occhiata alla giornata appena trascorsa, essa ci appare costellata di azioni che trovano il loro senso in ciò che avevamo impostato ieri e in quello che intendiamo fare domani. Se oggi sono andato a comprare un regalo per un amico è perché ieri avevo saputo del suo arrivo in città e domani ho intenzione d’incontrarlo. Cause ed effetti sono chiari, per quel che riguarda le mie decisioni.
Noi guardiamo all’interezza della nostra vita in questa stessa ottica, anche se non ce ne accorgiamo. Ecco perché non sopportiamo che di molti eventi “che ci capitano” non sia possibile risalire alla causa, e che di molte nostre azioni non si possano rintracciare gli effetti concreti e coerenti.
Poniamo che io abbia sessant’anni e che per tutta la vita mi sia dovuto occupare di mio padre paralitico; che questa sua malattia abbia risucchiato non solo le mie forze fisiche ma anche quelle economiche, tanto che non mi sia potuto creare, a mia volta, una famiglia… Perché m’è toccata questa vita? – che è come dire: qual è per me la sua causa? E che fine faranno tutti questi miei sforzi? – che è come dire: quali saranno per me gli effetti di tutta una vita vissuta così?
Una risposta non c’è, ci è sempre stato detto. Abbiamo appena cominciato a pensare, e già siamo in un vicolo cieco. Due sono le possibilità: o mi fermo e rinuncio, oppure invento un pensiero finora mai pensato. Provo a sviluppare quel ragionare nascosto – ma efficace e attivo! – che ho appena intravisto, e che tratta l’intera esistenza come un singolo giorno della vita.
Non potrebbe la mia stessa vita essere il risultato di quello che ho fatto prima della mia nascita, e una preparazione di altri eventi che si manifesteranno dopo la morte? A questo punto, inevitabilmente, emerge dentro di me un’altra domanda: è proprio vero che si vive una volta sola?
È una domanda legittima, questa, perché la nostra cultura occidentale non s’è data da fare più di tanto per “dimostrare” che la vita sia una sola: lo dà per scontato, e noi le andiamo appresso in modo automatico. Non viene quasi mai messo in discussione il tipo di pensiero che afferma “si vive una volta sola”, come fosse un dogma da credere e basta. Né, d’altra parte, – se si è spregiudicati in modo sano e si vuole mantenere una vera apertura mentale – si può semplicemente sostituire una vecchia fede con una nuova, seppure di contenuto diverso. “Credere” nella reincarnazione, se resta un puro dogma, non rende la vita migliore di come la renda la credenza opposta.
Nel caso della reincarnazione, i conti tornano meglio solo attraverso l’esperienza della mia vita, soprattutto se aggiungo un’altra osservazione. È la mia coscienza – cioè sono “io” – a sapere che una giornata di arduo lavoro trova il suo senso in ciò che ho fatto ieri, e che dovrò aspettare domani per cogliere i frutti della mia fatica.
Allora, perché possa essere vero quel sommesso pensiero che anche una singola vita sia come un grande giorno in una serie di tanti grandi giorni, arrivo a pensare che deve esserci una mia coscienza più ampia. Che esista un mio “Io più saggio”, più consapevole di me, in grado di vedere liberamente il grande giorno, il “grande oggi” della vita presente, come conseguenza del suo “grande ieri” e come premessa per ciò che avverrà nel suo “grande domani”.
Forse i nostri tempi chiedono proprio che l’uomo ponga attenzione a questi pensieri così singolari, perché nuovi, e che decida di far emergere a tutto tondo l’idea che la vita sia paragonabile ad una giornata, cominciando ad osservare le trasformazioni reali che quest’idea comporta soprattutto nel modo di vivere gli incontri e i rapporti che stabiliamo con gli altri.
Un grande aiuto nel ricercare questo tipo di nuove conoscenze lo possiamo trovare nella più completa scienza dell’uomo che sia rintracciabile oggi in occidente, avviata da Rudolf Steiner agli inizi del secolo scorso. Essa attende di essere compresa e sviluppata nella sua rivoluzionaria visione evolutiva del mondo, non meno di quanto accadde ad un’altra scienza, la fisica, dopo l’impulso di Copernico e di Galileo.
In questa direzione e con questi nuovi strumenti, proviamo ad avvicinare il tema avvincente dei rapporti fra le persone.
L’incontro come sfida al pensiero
Ci sono due modi fondamentali di vivere un incontro. Il primo è quello antico dell’abbandonarsi alla spontaneità naturale e alle emozioni. Il secondo è quello di prendere liberamente in mano il rapporto e, considerandolo come un compito del destino, adoperarsi a comprenderlo sempre meglio. Così facendo, si smette di seguire la girandola dell’emotività immediata e ci si sforza di capire quale specifica provocazione ogni incontro presenti, e come induca a crescere ulteriormente.
Un esempio concreto è dato dalla differenza fondamentale tra com’era vissuto l’incontro al tempo dei Greci, rispetto a come vuol essere impostato oggi. In quell’epoca, quando una persona appariva sulla scena della vita di un’altra, s’imponeva l’immediatezza del rapporto. Basta aprire l’Iliade e l’Odissea per rendersene conto: Ettore, Achille, Penelope, Ulisse, tutti i personaggi di quei poemi straordinari, al primo vedere l’immagine fisica dell’altro intuivano subito la qualità del rapporto, andavano a colpo sicuro. Quello è un nemico, quello è un saggio da ascoltare, quello è un eroe, quella sarà la madre dei miei figli… Oggi, invece, in situazioni analoghe, il senso del destino non è subito chiaro.
Il motivo fondamentale per cui l’incontro era allora così facile e oggi è così difficile, va ricercato nel fatto che ognuno ha ora alle spalle un’evoluzione più lunga e robusta delle sue forze di coscienza. Quando l’altro mi viene incontro, non è il mio istinto ad attivarsi, ma la riflessione, anche se dapprima inconscia. Posto di fronte a una persona, io devo prima tornare in me stesso per farla poi riemergere dalla mia interiorità. È come se l’altro fosse lì non per impormi da fuori e immediatamente la sua realtà, ma per far risalire dal profondo del mio stesso essere ciò che lui vi ha provocato nel corso di un lungo passato.
Nell’incontro dei nostri tempi è fondamentale lo sforzo conoscitivo e interpretativo che ognuno aggiunge alla percezione dell’altro, come a saggiare gli impulsi reciproci che si sono scambiati nel corso di una lunga storia. Oggi, anche se non ce ne rendiamo conto, ci incontriamo chiedendoci: «Chi sei, tu, dentro di me? E chi sono diventato, io, dentro di te?».
Ognuno avverte in sé una specie di invito a pensare, a muoversi con maggior cautela di fronte all’altro. Abbiamo bisogno di più tempo per impostare il rapporto giusto, non ci basta più abbandonarci alla spontaneità immediata. L’incontro autentico nasce in proporzione alla possibilità che ci diamo di far affiorare alla luce della coscienza ciò che siamo diventati l’uno dentro l’altro.
È evidente, allora, che le cose diventano molto più complesse e difficili: i tempi della conoscenza si allungano e comportano anche molti più errori.
S’incontra soltanto chi si è cercato
Se gli eventi della vita non si susseguono a caso, ma si fondano sul progetto voluto da un Io in noi, che è più saggio di noi – e sono perciò regolati da leggi spirituali non meno valide e affidabili di quelle di natura –, allora sarà anche vero che ognuno può incontrare soltanto chi ha cercato. La frase del Vangelo «Chi cerca trova», non è altro che una conferma di questa legge fondamentale degli incontri fra gli uomini.
È bello pensare che quando incontro una persona non è mai a caso, ma che nell’incontro si manifesta la volontà del mio e del suo Io migliore. È questo Io più vasto che decide a quali persone noi andiamo incontro e a quali no. Per interpretare sempre meglio il mio destino, devo volgere la mia coscienza ordinaria (quella normale di tutti i giorni, per capirci) verso il pensiero e la volontà della mia “sovracoscienza” (l’Io spirituale), dove tutto viene scelto, pianificato e deciso liberamente. “Sovraconscia” perché ancora non la conosco bene, dato che ne sto appena supponendo l’esistenza.
Il senso della vita comincia allora a delinearsi in modo nuovo. Capisco che due persone, ad esempio, possono nascere in continenti diversi e vivere trent’anni senza conoscersi; poi un bel giorno s’incontrano, s’innamorano e magari condividono tutti gli anni che restano. E se è vero che si sono incontrate per la prima volta a trent’anni, può essere altrettanto vero che, pur senza saperlo al livello della coscienza ordinaria, ogni passo è stato mosso dal loro Io più saggio in modo tale da portarle l’una di fronte all’altra esattamente in quel giorno, in quel luogo, in quell’ora.
Ma perché dobbiamo cercarci e incontrarci? Forse perché il nostro destino è un cammino sempre aperto, durante il quale molto è avvenuto, ma molto deve ancora avvenire. Tutto ciò che due persone si sono scambiate in pensieri, sentimenti, desideri, torti, amicizia, delusioni, tutto quello che hanno vissuto l’una a causa dell’altra nel passato, ha creato un mondo comune di forze reali che avvolge i loro Io, paragonabili a forze magnetiche che le conducono, passo dopo passo, a riallacciare in questa vita il loro rapporto per continuarlo.
Nella prospettiva di vite molteplici, di tanti “grandi giorni” da vivere, i desideri e gli ideali sorti grazie alle relazioni già intercorse in un lungo passato sono il filo d’Arianna che in questa vita ci riconduce l’uno di fronte all’altro. Il nostro essere più profondo lo sa, e progetta il nuovo appuntamento per continuare, insieme con l’altro, un percorso di crescita, di evoluzione. La somma dei desideri generati l’uno nell’altro, delle tensioni relative ai campi più disparati dell’umano, è l’attrattiva irresistibile che ci fa incontrare di nuovo: nella famiglia, a scuola, sul posto di lavoro, durante un viaggio…
Pensiamo all’innamoramento: è un fatto reale, un insieme di forze realissime, travolgenti, non è una teoria. Ma da dove vengono queste forze? In che modo e quando mai sono sorte? E perché ci afferrano così all’improvviso? Non è facile recuperare in chiave di pensiero lucido e di pacata conoscenza questo mistero d’irresistibile attrazione che s’instaura fra due persone, se ci si limita a considerare solo quel pezzo di vita – di questa vita – in cui i due non si conoscevano nemmeno.
L’incontro che mi fa pensare e quello che mi fa agire
C’è un esperimento interessante e alla portata di tutti che richiede l’intervento attivo sia del pensiero che della volontà, e che si traduce poi in una trasformazione graduale della propria vita e del modo di vivere i rapporti. Ognuno di noi può verificare le seguenti osservazioni, facendole a sua volta: ci sono due tipi fondamentali di incontri, uno opposto all’altro. Non è difficile individuarli ma finora, forse, non vi abbiamo posto sufficiente attenzione.
C’è un modo di vivere l’incontro (parliamo qui in particolare della prima volta in cui ci s’incontra) in cui l’altro agisce suscitando in me una reazione pacata e spassionata nei suoi confronti. Io resto concentrato sul suo essere così come si presenta alla mia osservazione. Non mi coinvolge emotivamente più di tanto, io faccio le mie considerazioni, metto insieme i vari dati, valuto, giudico al livello di puro pensiero. Non reagisco nei suoi confronti con particolare simpatia o antipatia, la sua presenza mi lascia libero e resto concentrato su di lui.
C’è invece un altro tipo d’incontro, del tutto diverso. Quando l’altro mi si presenta davanti, la sua immagine fisica, quello che dice, il suo modo di comportarsi, io non posso farli oggetto di pacata osservazione, ma vivo quasi unicamente l’esperienza delle mie vivaci reazioni interiori verso di lui. Niente di ciò che fa o dice giustifica oggettivamente quello che avviene in me: eppure suscita subito la mia attrazione o repulsione. In altre parole, agisce sui miei impulsi volitivi, mi afferra nel mio essere più profondo. Io non sono affatto concentrato sulla sua persona, bensì sono costretto ad occuparmi delle mie intense reazioni interiori nei suoi confronti.
Il primo tipo d’incontro mi porta di più a conoscere l’altro, il secondo mi aiuta a conoscere meglio me stesso.
Sviluppare in sé “l’occhio karmico”, l’occhiata capace di cogliere il messaggio del destino, è una vera e propria ginnastica interiore, nonché uno dei grandi compiti culturali che si affacciano nella coscienza umana. Si tratta di distinguere sempre meglio il tipo d’incontro che mi lascia libero, perché parla particolarmente al mio pensiero, da quello che mi coinvolge con reazioni del tutto sproporzionate, e mi vincola nella volontà.
Una caratteristica del primo tipo d’incontro è che la persona c’interessa e desta la nostra attenzione conoscitiva: in seguito ne parliamo con altri, la descriviamo, possiamo riferire nei minimi particolari le sue parole, i suoi gesti. Avvertiamo che il rapporto con lei è tutto da costruire perché questa persona non è ancora presente nelle nostre forze volitive.
Nella seconda situazione, invece, prendono il sopravvento i nostri sentimenti, l’attrattiva o il rifiuto, come se ci conoscessimo da sempre. Sembra quasi che la sua sola presenza ci riporti a coscienza un lungo passato e di fronte a questo reagiamo al livello della volontà, perché quel passato vissuto insieme lo portiamo vivo e fattivo in noi.
La qualità polare di questi due tipi di incontri è indagabile anche attraverso alcuni fenomeni collaterali. Quando una persona smuove inizialmente solo la mia spassionata conoscenza, non mi succederà di sognarla. Può darsi che avrò a che fare con lei per lungo tempo, magari lavoreremo insieme per anni nello stesso ufficio, eppure non comparirà nei miei sogni. Nell’altro tipo d’incontro, invece, che può essere anche fugace, proprio perché quella persona suscita in me una forte reazione di sentimento e di volontà, la sua immagine comparirà senz’altro, prima o poi, nei miei sogni.
Il fenomeno dell’addormentarsi è, nella sua essenza, un temporaneo allontanarsi della coscienza diurna, quella più superficiale. Il corpo fisico, con le sue forze e funzioni vitali, se ne sta nel letto, mentre tutto ciò che è di natura animica e spirituale – i pensieri, le emozioni, le volizioni – se ne va. Se una persona mi suscita forti reazioni emotive vuol dire che vive già nella mia anima, e perciò compare nei miei sogni, che sono il modo più consueto di sperimentare ciò che vive nell’anima durante il sonno. Quella che invece è entrata in relazione con me attraverso l’osservazione dei miei sensi fisici, quando il sonno me li ottunde cessa di agire su di me.
Secondo Capitolo
L’ARTE DELL’ASCOLTO
ascoltare con i sensi, con il cuore
L’incontro come esperienza del sacro
Ascoltare è un’arte. Una delle più belle della vita, ma anche una delle più complesse. C’è molto più da ascoltare di quanto inizialmente possa sembrare perché, in ogni incontro, a esprimersi è l’intero essere dell’altro.
Cominciamo col considerare come parla il suo aspetto fisico. Vista nella prospettiva del karma, del destino, la fisionomia di una persona è l’immagine cristallizzata di tutto il suo passato. Ogni passo, ogni pensiero, ogni azione del suo lungo cammino trascorso si sono sedimentati, grazie all’azione del suo Io spirituale ed eterno, nelle forme degli occhi, della fronte, del mento, degli zigomi. È per questo che non ci sono due volti nell’umanità che siano del tutto uguali. La fisionomia di un uomo, la sua immagine unica, è come una fotografia del suo trascorso destino: in essa si racchiude tutto il suo passato.
Già Aristotele sviluppò una fisiognomica cercando di applicare al visibile tutto quel patrimonio di ataviche conoscenze che ancora collegavano l’umanità ancora giovane ad un istintivo sentimento di appartenenza al divino. Allora il singolo uomo viveva fortemente inserito nel popolo, nella razza, nella linea di sangue, e non era possibile parlare di individualità del tutto autonome nella loro coscienza, com’è oggi. Perciò si poteva generalizzare anche la lettura somatica degli uomini. Ma oggi, epoca in cui l’individualità emerge sempre più dal gruppo, ogni eventuale prontuario di decifrazione del corporeo sarebbe un’inutile e impropria applicazione di principi generali, perché ogni singolo porta impressa in sé la sua storia individuale, più che quella del popolo o della famiglia.
L’arte di ascoltare comincia allora col porsi in una contemplazione piena di meraviglia di fronte a quella specie di carta d’identità fisica che l’altro ci porta incontro e con la quale comincia a parlarci.
La percezione ci fornisce immagini che vengono dal di fuori, e perciò ci lascia liberi. Noi possiamo scandagliare i misteri profondi celati nella fisionomia di una persona, ma possiamo anche non interessarcene affatto. Tra l’indifferenza e il desiderio di comprendere l’altro attraverso la sua apparenza esterna, tra il minimo e il massimo d’interessamento, c’è una serie infinita di gradini intermedi che costituiscono i livelli d’intensità dell’ascolto. L’immagine fisica dell’altro, che spesso oggi è la sola cui diamo valore, si rivela a mano a mano come un tempio che ci parla dell’essere divino-spirituale che lo abita. L’incontro diventa allora il luogo privilegiato dell’esperienza del sacro.
Chiese e luoghi specifici di culto potrebbero nel tempo essere sostituiti dall’esperienza diretta del sacro, celebrato e vissuto nello svolgersi degli incontri quotidiani. I rapporti fra gli uomini possono diventare l’atto sacramentale più autentico della vita, se vissuti come incontro fra esseri divini, capaci di amore e di creazione.
Muovo forse io la mano di chi mi dà uno schiaffo?
Se nel corso dell’evoluzione gli uomini hanno sempre operato in reciprocità, allora le azioni di ognuno sono correlate e dipendenti da quelle degli altri. Nulla che mi provenga da un altro può agire su di me senza che io abbia partecipato a porne i presupposti. In questo senso vengono ribaltati molti luoghi comuni che tendono ad interpretare le situazioni di scontro fra gli esseri umani nei termini della ragione e del torto, del colpevole e della vittima.
Nel Vangelo si leggono queste parole: “Quando uno ti dà uno schiaffo su una guancia, porgigli anche l’altra”. I commenti vanno da un generico invito al perdono, al fastidio di chi trova in questa frase una sorta di masochismo. I più svegli si limitano ad osservare: “Come posso porgere anche l’altra, se non mi sono mai sognato di porgere la prima?” E, infatti, è proprio qui il nocciolo del problema.
Questa frase del Vangelo vuole dire che quella mano non sarebbe venuta a toccare, fra tutte le guance possibili, proprio la mia, se questa non avesse da parte sua cercato e attirato proprio quella mano. E che sia stata la mia guancia ad attirare la mano che mi dà uno schiaffo, più che viceversa, posso capirlo porgendo consapevolmente anche l’altra. Cioè dichiarando a me stesso e all’altro che questo sgradito gesto mi riguarda, che non lo ritengo un sopruso immotivato e che intendo osservare la situazione più a fondo.
Si potrebbe obiettare: “Ma l’impulso ad aggredire ce l’ha l’altro, la cattiveria è in lui!” Bene, possiamo supporre che lo faccia per cattiveria. Ma la domanda del destino non chiede se l’altro sia cattivo o no, se sia adirato o no, se sia nel giusto oppure no. Quelli sono affari suoi, questioni della sua libertà. Essa chiede invece: perché questo schiaffo colpisce me anziché un’altra persona? La cattiveria dell’altro, ammesso che ci sia, si sfogherebbe altrove se non ci fossi io a calamitarla verso di me. È allora la mia guancia che attira la mano dell’altro.
Questo calamitare si riferisce alle forze reali del karma: in base a quel che c’è stato tra noi in passato, è sorto in me l’impulso ad espormi alla tua rabbia per ricevere proprio da te uno schiaffo. È un’occasione per la mia coscienza di risvegliarsi alla nostra vicenda, nel cui svolgersi, e chissà quando, io ho compiuto nei tuoi confronti qualcosa che ti ha così profondamente segnato da ritornarmi ora incontro sotto forma di schiaffo.
Qual è, allora, l’esito positivo dello schiaffo che l’Io spirituale si aspetta? Quello di riuscire, attraverso le forze della coscienza ordinaria, a sospendere la reazione istintiva di restituire subito lo schiaffo, avviando – in quella frazione di secondo che basta per decidere di fermarsi – un processo attivo-conoscitivo anziché reattivo-passivo. E questo rende l’uomo più umano, perché perdonando l’altro impara a perdonare anche se stesso.
Perdonare significa, implicitamente, accettare lo schiaffo. In questo modo si scioglie l’altro e se stessi da un nodo, da un intoppo evolutivo. È una specie di reciproco perdono, è un “donarsi” rinnovato.
Sul verbo “perdonare” si possono rilevare in molte lingue giochi semantici molto interessanti. Il prefisso “per” ha valore rafforzativo quando precede un verbo. Per-donare è un donare rafforzato; per-cepire (da capio, prendo) è un prendere rafforzato (infatti l’uomo quando percepisce afferra due volte la realtà: la prima volta con i sensi e la seconda col pensiero); allo stesso modo per-manere è un rimanere protratto, per-orare è un parlare rinforzato…
Di solito il perdonare è concepito nel senso del condonare, che è una specie di assoluzione data all’altro per il torto che mi ha fatto. L’altra ipotesi mi dice che sono proprio io a donarmi l’occasione di ringraziare l’altro per quello schiaffo. Faccio questo quando gli porgo anche l’altra guancia: la prima guancia era quella del dono karmico – cioè dell’occasione di vita che si concretizza nello schiaffo –, la seconda è quella che esprime il per-dono, il mio dono ricambiato, un dono in esubero perché colgo l’occasione, non la spreco.
Di ogni cosa ciascuno è in debito verso gli altri
Ma allora, se tutto è occasione di nuova crescita, sparisce forse il perdono come l’abbiamo sempre inteso? Cosa rimane da perdonarci l’un l’altro? Tutto. Perfino la coscienza di me è il frutto di una serie infinita di egoismi che ho dovuto generare per rendermi autonomo e giungere all’esperienza dell’io. È questo il senso del cosiddetto peccato originale[3].
Se non si vogliono fare considerazioni evolutive a così lungo raggio, basta osservare le nostre più comuni giornate. Che cosa facciamo, continuamente, per respingere ogni ingerenza esterna e difendere la nostra autonomia? Combattiamo e sgomitiamo. Pensiamo a tutti i consigli che riceviamo senza averli cercati: è un continuo lottare per respingerli. Spesso non ce ne accorgiamo, ma la realtà di tanti incontri risiede nel tentativo dell’uno di manovrare l’altro provocando, così, l’inevitabile contraccolpo.
Ognuno dà spintoni perché gli altri si tolgano di mezzo dal suo campo d’azione, e gli altri gliele suonano di rimando. In questa ottica tutti abbiamo da chiedere perdono a tutti. Ma non ha senso pensare che ognuno di noi sia in lista nel libro nero della giustizia per ricevere castighi all’infinito, così da scontare tutte le botte che ha dato. Ognuno di noi ne ha date tante quante ne ha ricevute, perché l’altro ha sempre reagito a modo suo!
I conti rimangono allora aperti in positivo, nella direzione di quanto abbiamo ancora da scambiarci. Per il passato devo agli altri l’interezza di ciò che sono diventato. È questo il significato reale della parola dovere che, da azione di sottomissione più o meno scomoda, diventa gratitudine e piena volontà di restituzione.
In questa prospettiva anche l’antico concetto di colpa appare sotto un’altra luce. I famosi “sensi di colpa”, i rimorsi e i rimpianti, rovinano e imbruttiscono un’infinità di rapporti, perché portano a vivere gli eventi in modo negativo. Esistono, invece, modi più belli per affrontare le relazioni.
Goethe riteneva “il bello” l’argomento migliore per convincere l’uomo di qualcosa: se gli si dice «così è più buono», evochiamo subito in lui l’odor di muffa delle norme morali; se gli si dice “è più vero”, cala la cappa del rigore logico. Se invece gli diciamo “così è più bello”, l’animo si apre, respira e si dispone meglio all’ascolto. Il bello, insomma, disarma tutti e convince davvero.
È di certo molto più bello vivere l’incontro ponendo l’accento su ciò che è positivo, e c’è del positivo anche nel sentirsi debitori. Invece di rammaricarsi al pensiero di dover ricambiare tutto l’amore che Tizio e Caio ci hanno profuso, è molto più bello guardare all’intera umanità come fosse un organismo che continuamente offre e riceve. Il sangue porta ossigeno a tutto il corpo, ma lo riceve dai polmoni; e i polmoni, a loro volta, sono irrorati dal nutrimento che il sangue offre, ricevendolo dagli organi preposti al metabolismo…
La consapevolezza di avere un debito ben più vasto di quel poco che credevamo di avere nei confronti di Tizio e Caio – e che già bastava a tormentarci – non rincara la dose, ma la trasforma in un’ampia gratitudine liberatrice. Nessuno estorce niente a nessuno: tutto, nel divenire umano, ha il senso del darsi vita a vicenda. Prima o poi ognuno ha l’occasione di restituire tutti i doni ricevuti, dando quel meglio di sé che gli altri gli hanno consentito di raggiungere.
E questo vale anche negli ambiti molto più vasti delle relazioni fra i popoli: l’enorme e secolare debito che l’occidente, per esempio, ha nei confronti del cosiddetto terzo o quarto mondo è già nel suo momento di restituzione, anche se in questo caso i rimorsi e i sensi di colpa non sembrano proprio essere in gioco. E questo perché non è “l’occidente” che sente, che pensa e che vuole: sono gli individui. In questo senso è fondamentale che la coscienza del singolo si ampli per capire sempre più chiaramente l’interdipendenza che c’è fra uomo e uomo, su tutta la faccia della Terra.
Ascoltare il corpo, l’anima e lo spirito dell’altro
Quando due persone s’incontrano non accade soltanto ciò che si vede esteriormente, ma s’intrecciano due vasti mondi, entrambi in evoluzione. La natura profonda di un incontro emerge quando ci si concede il tempo necessario affinché si mostrino le qualità della relazione e, soprattutto, gli intenti evolutivi dell’Io più profondo di ognuno.
Il destino relativo al corpo si manifesta nelle sue forze vitali: nella robustezza o debolezza, nel benessere o malessere in generale. Le vicende della corporeità incidono profondissimamente non solo sulla vita del singolo, ma anche sulla natura degli incontri. Vivere un incontro a vent’anni è tutt’altra cosa che viverne uno a ottanta. Il rapporto con una persona sana è diverso da quello con una persona bisognosa di assistenza.
È molto interessante osservare le nostre relazioni anche da questo punto di vista. Appaiono un’infinità di incomprensioni legate proprio alla diversa percezione che ognuno ha del proprio stato fisico. Una persona, anche giovane, che si trascini dietro un corpo sempre diffusamente affaticato, sotto tono, bisognoso di cure e riposi, facilmente si troverà attorno qualcuno che invece è una specie di vulcano, inesauribile nelle sue forze e in grado di sopportare grandi strapazzi.
E se per destino si ritrovano nello stesso ambiente di lavoro possono far scintille per vent’anni, se non si sforzano di mettersi l’uno nei panni dell’altro. Quello in preda al malessere si sentirà sempre con una marcia in meno e godrà con soddisfazione del pur minimo raffreddore dell’altro. E in quell’occasione si prodigherà – finalmente! – in consigli da esperto. L’altro, al contrario, mal sopporterà i continui acciacchi del collega che gli faranno l’effetto di una zavorra, e sbotterà spesso con qualche: ma lavora, vedrai come ti passa tutto!
Altro accadrebbe se i due cominciassero a sentirsi a vicenda corresponsabili del loro stato fisico, e attivassero un intento conoscitivo reciproco per vedere che cosa l’uno sia sollecitato dal destino a offrire all’altro, proprio a partire dalla sua corporeità.
L’arte dell’incontro, in questo caso, sta nel trovare in pratica un modo per equilibrare la differenza che c’è fra i due. Probabilmente quello che scoppia di salute potrà caricarsi anche di una parte delle incombenze dell’altro, ma volentieri però, senza far pesare il suo sovraccarico (tanto ha forze in avanzo). L’altro, sollevato proprio quantitativamente da ciò che non riesce a sostenere, potrà dare il meglio di sé, magari nella qualità affettiva del rapporto, ricambiando in questo modo.
L’arte dei rapporti è sempre l’arte del possibile. Il nostro Io più autentico non progetta un solo incontro che non possa essere realizzato in positivo. Chi meglio della nostra sovracoscienza spirituale conosce le forze effettive – del fisico e dell’anima – che avrà a disposizione nell’arco della vita sulla Terra?
L’esperienza continua del proprio stato fisico di benessere o malessere, si riflette profondamente sull’anima e sullo spirito. Mi posso allora chiedere: in che modo ho contribuito alla costruzione del corpo fragile dell’amico che mi viene incontro? Certo, non posso esserne io la causa principale, che è e rimane lui stesso, trattandosi del suo, di corpo. Ma il destino comune è un’orchestrazione d’infinite concause e in ogni corporeità risuona l’azione di tutta l’umanità. E figuriamoci io, visto che gli sono congiunto così direttamente da essere per anni suo collega di lavoro, o suo parente.
Il secondo mondo karmico che l’altro mi induce ad incontrare è quello della sua anima. Ognuno porta in sé un’infinità di simpatie e antipatie, di speranze e paure, di brame e desideri con cui reagisce in modo del tutto singolare e soggettivo agli eventi della vita. Incontrare davvero tutta questa vita interiore dell’altro è un compito mai concluso perché io, a mia volta, ho a che fare col mondo sconfinato di rappresentazioni e di sentimenti della mia, di anima, che s’impone in modo molto perentorio e fa spesso da velo alla conoscenza dell’altro.
La soggettività è il modo in cui l’anima sperimenta quella stessa separazione che tutti viviamo, tangibilmente, al livello del corpo fisico. Ma, mentre è evidente a tutti che lo stato fisico di un altro non è direttamente condivisibile e sperimentabile, si ritiene invece di facile accesso il suo stato d’animo. E qui è la trappola. Quando l’altro mi dice: mi sento triste, oppure: ti amo, che cosa mi dice, in realtà? Tutto e niente.
Tutto, perché riassume in quelle parole il suo vissuto; e niente, perché il significato che io do alla parola “tristezza” o alla parola “amore” dipende dal mio modo del tutto soggettivo e singolare di vivere la tristezza e l’amore.
È fare un enorme passo avanti il rendersi conto di quanto sia illusorio pensare di ascoltare l’animo dell’altro rimanendo nella dimensione stessa dell’animo. Paragonare le emozioni altrui alle proprie è l’anticamera di ogni fraintendimento e di ogni falsa aspettativa. Nell’anima di ciascuno risuona la vita del proprio corpo e del proprio spirito. L’anima sta in mezzo ed è, come dire?, una specie di polso reale della propria condizione di vita, inafferrabile per gli altri.
Uno potrebbe essere gravemente ammalato nel corpo, ma vivere una grande serenità nell’anima. Com’è possibile? È possibile perché nell’anima si imprime anche l’attività dello spirito che, in questo caso, scopre il senso tutto positivo della malattia, cogliendola come un’occasione di crescita. E allora tutto va bene.
Oppure, io potrei essere un insegnante che dice continuamente ai suoi ragazzi: il mondo è tutto da conoscere, la vita è un impegno morale, siamo tutti responsabili gli uni degli altri, ecc., e poi, nell’anima, vivere l’insofferenza, la brama per mille cose che non ho e la voglia di sfasciare tutto. Cosa significa? Che la mia esperienza reale, il mio vissuto, fa a calci e pugni con le mie teorie, che io in realtà mi sento prigioniero di mille legacci e le mie parole esprimono astrazioni, sono campate per aria. E allora, in un certo senso, tutto va male.
È davvero possibile ascoltare l’anima dell’altro quando diventa il punto di partenza per interessarsi al suo spirito, perché è lui che vi risuona insieme al corpo, ed è l’unico col quale possiamo incontrarci direttamente, da pari a pari.
L’anima dell’altro parla un linguaggio che è comprensibile solo a lui: invece il linguaggio dello spirito è universale, è comunicabile per sua stessa natura. L’anima è un luogo ombroso dai colorati segreti, e la sua più grande aspirazione è quella di essere capita e illuminata dallo spirito.
Mettersi in ascolto dell’anima dell’altro vuol dire allora affinare la propria capacità di attenzione al suo spirito, al suo nucleo vero. L’anima, come dicono le fiabe, è la principessa bella, ma inquieta, incantata e sempre in pericolo. Da una parte aspetta e cerca la salvezza dal suo principe, e dall’altra sta sempre lì lì per cadere definitivamente nelle grinfie di qualche strega, o di qualche drago.
Incontro l’anima dell’altro se cerco di orientarmi interiormente secondo le sue direzioni di ricerca: devo capire se è più vicina al principe o al drago. Senz’altro la nostra anima è anche lei in qualche affanno, ma la qualità dell’affanno di un altro non la possiamo sperimentare direttamente, come non potremmo far nostro il suo mal di pancia.
Ogni anima parla la sua lingua, in fondo sconosciuta ad ogni altra anima. Perciò ha sempre bisogno dell’interprete, che è il suo stesso spirito (l’Io, il principe) e quello di chiunque altro voglia conoscerla. Solo lo spirito sa dove cercarla: se già sulla strada della libertà – quella che conduce a lui –, oppure fra le spire del drago – cioè in mezzo ai determinismi di natura, a tutte le prigionie che ci sopraffanno quando ci lasciamo andare ai più svariati istinti che provengono dalla sfera del corporeo.
Tradurre in concetti l’immagine immediata del drago delle fiabe, non è facile. La fame è un drago, per esempio, perché non ci lascia in pace finché non l’abbiamo saziata. Ma è un drago che si vince facilmente: basta mangiare qualcosa. Ma se per me “fame” significa la voglia indistinta di possedere mille cose – denaro, potere, persone, salute, case, automobili, giovinezza, bellezza, felicità, riconoscimenti… – ecco che il drago si fa feroce e m’imprigiona. È lui, in realtà, che mi possiede, che possiede la mia anima, perché la mia è una fame insaziabile.
Ma dov’è il principe, lo spirito dell’altro? Questa terza dimensione del destino, la più importante in ogni incontro, la trovo negli eventi della vita dell’altro, nella sua stessa biografia. Lì parla il suo spirito, in tutta la serie ben precisa di accadimenti e di esperienze che costituiscono lo scenario vivente per i passi che si propone di fare. E poiché gli eventi più importanti della vita sono proprio gli incontri, capisco che lo spirito dell’altro muove verso il mio per fare dell’incontro stesso il luogo delle più significative esperienze.
La vita è l’arte del possibile, e il possibile non sta mai dietro le cose, ma bene in vista, ci sta proprio davanti e parla con la realtà intera dell’altro. Ascoltare lo spirito dell’altro significa per prima cosa rendersi conto che siamo due spiriti che si muovono l’uno verso l’altro. E non è poco. Perché molte più volte di quante immaginiamo noi neghiamo l’incontro pur standoci dentro. Volendolo diverso da quello che è.
Ciò avviene quando dico all’altro, mosso dalla simpatia dell’anima: vieni qui, che ho bisogno di te. Mi servi perché vicino a te sto meglio, perché con te riesco a procurarmi molte cose che soddisfano la mia fame. Oppure, mosso dall’antipatia, gli dico: levati dai piedi, che m’intralci. Sei un ostacolo al mio cammino, è un errore che tu stia qui, nella mia vita.
L’anima ha tutto il suo diritto di essere soggettiva. Ma lo spirito non conosce egoismi o altruismi: lo spirito ha solo progetti di crescita oggettivi che intersecano in perfetta armonia quelli degli altri. E questi gli interessano. Non ha bisogno, lo spirito, di una felicità di ritorno, che gli venga dall’aver conseguito qualcosa all’esterno: lo spirito è nella sua pienezza quando può vivere le vicende che si è preparato – incontri compresi.
È possibile ascoltare anche
gli animali, le piante e le pietre?
La sacralità specifica degli incontri fra gli uomini si comprende meglio guardando al modo in cui ci poniamo di fronte agli animali, alle piante e ai minerali. Il linguaggio riserva la parola “incontro” alle relazioni fra uomini, che non è paragonabile a quel che si vive a contatto con gli esseri dei regni di natura. Solo l’uomo è il mio pari ed è per questo che l’incontro con lui rappresenta per me la somma di tutte le sfide evolutive. Egli soltanto mi può far entrare in contatto con un mondo di pensieri, sentimenti e volizioni nel quale anch’io, seppure in modo diverso, vivo.
L’animale non ha sentimenti, né volizioni, né pensieri. Il sentire dell’animale – che spesso viene confuso col sentimento umano –, quel che l’animale vive seguendo i saggi istinti della sua specie, non viene accompagnato dalla consapevolezza di essere un “io”. L’animale sente e basta; l’uomo sa del suo sentimento. L’animale sente il dolore ma non è cosciente di sentirlo; lo subisce senza chiedersi il perché. Non è libero di agire e nemmeno di reagire. Ogni movimento dell’animale è indotto dall’istinto, mai scelto liberamente.
Poiché agli animali non è data alcuna capacità di difendersi dai nostri intenti, la responsabilità morale di ciò che intercorre tra noi e l’animale ricade interamente su di noi. Se, invece, io arreco dolore a un altro essere umano, la responsabilità morale viene condivisa perché tutti e due siamo in grado di gestirne le conseguenze.
Anche il termine “agire” è riservato agli esseri umani. L’agens, colui che concepisce l’impulso all’azione, nell’animale è rappresentato dalla specie, non dal singolo animale. La specie è una sorta di anima di gruppo, cioè l’essere spirituale unico del cane agisce in modo uguale in tutti i cani visibili.
Ogni uomo, invece, accoglie la specie umana completamente dentro di sé, imprimendole un carattere del tutto individuale. Infatti dice “io” a se stesso, cosa che l’animale non sa fare. Aristotele e gli Scolastici medievali dicevano: “Ogni essere umano è una specie a sé”. Il mio essere spirituale è una specie, pur sempre umana, distinta dalla tua, e conseguentemente differenziata anche in ogni sua azione.
Nessun gatto singolo, invece, è in grado di far sua la specie-gatto, la sua legge di comportamento, per gestirla in proprio, a modo suo e individualmente. L’anima di gruppo del gatto muove dieci gatti diversi in modo analogo a come l’io di un uomo muove le dieci dita delle sue mani.
La differenza fondamentale tra “l’incontro” con una pianta e quello con un altro essere umano, consiste nel fatto che nel primo caso l’immedesimazione è quanto mai limitata, mentre nel secondo caso chi mi viene incontro desidera proprio che io mi immedesimi in lui, che lo capisca fino in fondo, che sappia vedere le cose dal suo punto di vista. Vorrebbe che io sentissi come si vive l’esistenza quando si ha un corpo fatto come il suo, quando si provano le sue simpatie e antipatie, quando si ha alle spalle la sua storia specifica, fatta di esperienze e di eventi tutti individuali. L’altro è a mia immagine perché è uomo come me e so che, entrando in lui, non potrò perdermi, ma saprò ritrovarmi e riconoscermi. Come un tema musicale ritorna sempre a sé attraverso le sue mille variazioni.
Questo non accade quando contemplo una pianta, perché per farlo dovrei rinunciare alla mia specifica condizione umana. E lo stesso vale per gli animali e per la natura inorganica. Ma allora, qual è il destino degli esseri di natura, se è impossibile una cosciente reciprocità di scambi con l’uomo e anche fra loro stessi?
E se una risposta davvero ecologica ci venisse proprio da una scienza integrale dell’uomo, capace di riconoscere tutta la natura come un’estensione della stessa corporeità umana, delle sue forze vitali, delle sue pulsioni istintive? Anche in questo caso ci troveremmo di fronte ad una specie di rivoluzione copernicana che ci fa dire: non è l’uomo che fa parte del regno di natura, ma è la natura che fa parte dell’uomo[4].
E allora tutti gli Io umani, presi insieme, potrebbero costituire lo Spirito, l’Io della natura, ed essere tutti responsabili della sua evoluzione. Se così fosse, la natura sarebbe il corpo complessivo dell’Umanità, e perciò dove vanno gli uomini andrebbe anche la natura.
Nel singolo corpo umano operano concentrate tutte le leggi che troviamo nel minerale, nel vegetale e nell’animale. Senza gli Io umani non esisterebbe la natura, né più né meno di come non esiste nessun corpo specificamente umano se non c’è uno spirito ad abitarlo.
Tutte le creature dei regni della natura – il mare, gli alberi, i cavalli… – sembrano venirci incontro con il desiderio di essere reintegrate nella nostra umanità. E noi le incontriamo veramente solo se il nostro spirito le avvicina con la stessa gratitudine e cura che rivolge al proprio corpo, intriso di forze vitali e mosso da un’anima.
Morire a se stessi per risorgere nell’altro:
che cosa vuol dire?
Sensi, mente e cuore fanno l’uomo intero, e dunque non dovrebbero mai mancare in un incontro. Con i sensi posso percepire l’altro, con la mente posso capirlo e col cuore amarlo. È questa la via maestra per la comprensione di ogni intreccio di destino, il cui significato è tutto proiettato nel futuro.
Ma per incontrare davvero l’interezza dell’altro devo mettere me stesso in secondo piano. Soprattutto quando mi trovo di fronte ad una persona che, come abbiamo descritto più sopra, mi coinvolge fin nel profondo. Se m’interesso soltanto a ciò che la sua presenza mi fa vivere, resto chiuso nelle pure reazioni automatiche della mia anima. Faccio un’esperienza di separazione.
Incontro invece l’altro per davvero quando dico: ora voglio dedicare tutta la mia attenzione a ciò che vive in lui. Da passivo divento attivo, immetto nella relazione l’elemento della volontà che fa recedere l’imperiosità tutta inconscia del passato, si rivolge al presente e si apre al futuro.
Se, ad esempio, il rapporto con qualcuno è pieno di contrasti e di scontri, vuol dire che vivo costantemente il prepotente bisogno di contrapporre le mie posizioni alle sue, in ogni situazione della vita. Non è detto che l’altro faccia lo stesso: magari lui si limiterebbe a rispondere alle mie argomentazioni senza particolare aggressività, ma io, non c’è verso!, vivo ogni suo pensiero e ogni suo gesto come un attacco, e spesso e volentieri lo costringo a difendersi.
Posso decidere di sospendere questi riflessi condizionati e mettermi ad osservare l’altro in modo spassionato e spregiudicato. Piano piano, potrebbe accadere che non solo io cominci a interessarmi oggettivamente a quello che dice e fa, ma che riesca talmente a immedesimarmi da provare il suo stesso gusto nel sostenere quello che sostiene. E potrei accorgermi che non solo il suo modo d’essere non mi è estraneo, ma che addirittura esiste una mia recondita stima nei suoi confronti che emerge sempre di più. Vedo me stesso riaffiorare dalla sua interiorità con un atteggiamento molto diverso: come uno che ha una gran voglia di collaborare proprio con lui.
Solo così può succedere di cogliere nell’altro, magari con grande sorpresa, ciò che io stesso sono divenuto dentro di lui; mi ritorna incontro ciò che io ho operato nel suo essere durante il corso del tempo. L’incontro diviene allora una vera esperienza di morte e di resurrezione. Poco importano i perché e i percome evolutivi di questa apparente situazione di conflittualità che ne nasconde un’altra: interessante per il presente della relazione è trovare un nuovo modo d’incontrarsi da Io a Io.
Si tratta di rendere importante l’altro per quello che è in se stesso, e non per come risuona in me. Quando rinuncio alla prepotenza di godere me stesso tramite lui, quella che mi rafforza sempre nell’illusione di essere all’esterno degli altri, in realtà prendo la decisione cosciente di morire a quel me stesso che si sente separato. Faccio spazio in me all’anima e allo spirito dell’altro e lui vi entra portandosi dietro me, me come oggettivamente ho agito e agisco nel destino che ci unisce.
Nella parola “in-contro” è compresa anche una certa componente di opposizione. Nel gioco, se non c’è un altro contro di me, non si può giocare, manca il dinamismo della polarità. Proprio perché l’altro mi sta di fronte richiede la mia attenzione. È lui che devo guardare per comprendere sempre meglio le sue mosse. Se l’altro sesso, per esempio, non fosse “contro” il mio, nel senso di “opposto”, non ci sarebbe alcuna attrazione reciproca. Se il ruolo del genitore non fosse in qualche modo opposto a quello del figlio, non ci sarebbe incontro. Se il mio amico fosse la mia fotocopia, non potremmo offrirci a vicenda i doni che sono propri di ognuno.
Nei dialoghi di Platone, quando la conversazione arriva a un punto morto perché i contendenti si sono accordati, chi è che riaccende la dinamica del sano incontro, nonché “scontro”, di opinioni? è Socrate, che comincia a mettersi contro tutti riprendendo il tema in questione da una nuova angolazione. Ma il suo argomentare “contro” è inteso tutto a favore dell’altro. L’intento è di aiutarlo a usare sempre più intensamente le sue forze di pensiero.
Quanto vogliamo che duri il nostro rapporto?
Nessuno può sapere quanto durerà un rapporto in corso, né servono da indicatori oggettivi i desideri della nostra coscienza ordinaria. Come ogni ingegnere ben sa, non è possibile costruire un nuovo piano di un palazzo se le fondamenta non sono robuste per sostenerlo: lì stanno le forze reali dell’edificio. Il proprietario potrà premere quanto vuole per realizzare l’attico che gli piacerebbe tanto, ma non sarà possibile, se le fondamenta non reggono.
Lo stesso vale per i rapporti umani. Il nostro Io vero dalla coscienza più vasta sa bene, e lo sa anche l’Io vero dell’altro, quali sono i presupposti reali e comuni dell’incontro: in base a questi progetta l’ulteriore cammino. La coscienza ordinaria, se ha un orecchio allenato per ascoltare le ispirazioni della sorella maggiore, può muoversi in modo armonico nella relazione. Ma può anche pretendere di più, o realizzare molto di meno di ciò che il destino prevede.
Realizzare di meno, cioè omettere in parte o del tutto le occasioni di crescita di un rapporto, è nella nostra libertà che va ancora a tentoni. Far violenza al rapporto volendo di più di quello che può sostenere è vivere d’illusioni. La volontà dell’Io vero può essere disattesa dalla nostra coscienza ordinaria, ma mai quest’ultima potrebbe imporre all’Io la sua volontà.
Sia che io collabori con un collega fino al termine di un progetto; sia che rimanga incastrato, con un’altra persona, nell’ascensore di un grande magazzino al momento della chiusura e trascorriamo insieme la notte ad ingegnarci per uscirne fuori; o che passi dieci anni con una persona malata accudendola fino alla sua guarigione, o alla sua morte; o che io sia un ragazzino e col mio amico del cuore trascorra l’infanzia a combinare scherzi, a giocare, a litigare e far pace; sia che abbia in odio una persona e lei odi me, e spendiamo intelligenza e volontà per danneggiarci a vicenda; o che io sia un genitore che provvede con amore a tirar su il figlio finché non sarà in grado di andarsene per la sua strada…; tutte queste situazioni che cosa rappresentano?
Forze comuni, di varia intensità. Magari minori di quelle che sono intercorse fra Platone e il suo discepolo Aristotele, o maggiori di quelle che intercorrono fra due anonimi vicini di casa. Ma sono pur sempre forze di vita condivisa che operano in noi perché hanno creato come una coincidenza, una confluenza dell’essere nostro nell’essere dell’altro, e viceversa.
L’arte di non sprecarle, di non gestirle arbitrariamente è una delle più difficili della vita. Anche le forze che si sviluppano fra “nemici” sono preziose: ci si è prestati la massima attenzione, ci si è studiati talmente a fondo tra un attacco e l’altro, che se riuscissimo a togliere la benda del pregiudizio – della “cattiva intenzione” – ci scopriremmo forse più intimi di due parenti!
Quando in un incontro si evidenziano forze comuni notevoli, non è detto che senz’altro le useremo per il meglio. Potrebbero perfino servire a ricattarci l’un l’altro per tutta la vita. O potrebbero rendere l’uno schiavo dell’altro. Quante situazioni ci sono che, viste dal di fuori, ci fanno dire: ma mandalo al diavolo, quello lì!
Però, chi è dentro la relazione, strozzato anziché rinvigorito dalla reciproca appartenenza, è nella stessa condizione di chi dovesse decidere di amputarsi una gamba per non rischiare la cancrena. E non è una decisione facile perché, anche tagliando, rimarrà per tutta la vita privato di quella parte di sé che un’infezione – una cattiva relazione – gli ha portato via. E tanto più è difficile quanto più la persona avverte che sarebbe possibile trasformare tutta quella distruzione in qualcosa di costruttivo.
Se invece la reciproca appartenenza è esile, vuol dire che c’è tutto un futuro per rafforzarla, ed è senz’altro questo il senso del rapporto. Non ci si rincontra per vietare la conoscenza reciproca, ma per approfondirla. La strada che porta nel profondo delle cose, però, come quella che conduce alle altezze, non si percorre d’un botto: negli strapiombi e sulle vette si scende e si sale a corda doppia.
Pretendere acrobazie da un rapporto che è appena agli inizi, o che ha sprecato tante occasioni offerte, è l’estremo opposto della gamba da amputare: uno dei due, o tutt’e due, scapperanno via a gambe levate! E le forze comuni, che già erano poche, si affievoliranno ulteriormente.
Cogliere la natura di un legame e le sue possibilità di durata è farsi ricettivi verso quella meravigliosa euritmia delle vite che s’intrecciano giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi, e si richiamano a vicenda. Vite che si sfiorano appena, vite che vanno all’unisono, vite che s’infrangono, vite che emergono… tutte inserite in un unico movimento di mare.
Terzo capitolo
L’INCONTRO DONNA-UOMO
una polarità antica e sempre attuale
Come riconciliare il maschile e il femminile
Nella Bibbia si legge che Dio creò l’essere umano a sua immagine, maschile e femminile. La traduzione solita, invece, fa pensare che Dio creò a sua immagine due esseri distinti: l’uomo e la donna. Il testo sacro parte dalla pienezza del Divino, che comprende tutti gli attributi sia del maschile che del femminile, la cui immagine viene conferita anche all’essere umano. Così inteso, l’Adamo iniziale non è un maschio, bensì l’essere umano dei primordi che non si è ancora scisso nei due sessi fisici. Le mitologie, e ancora i dialoghi di Platone, parlano di questa scissione – sexus viene da segare, cioè tagliare in due – come di qualcosa avvenuto più tardi. Eva, come essere fisicamente solo femminile, compare anche nel testo biblico in un secondo tempo, tirata fuori dalla costola di Adamo[5].
Ciò mette in rilievo che per la pienezza dell’umano in ogni singolo uomo sono necessari sia il maschile che il femminile. Non solo la nostra cultura ha perso questa prospettiva straordinariamente più ampia, ma ci ha pure abituati a pensare che si nasca maschi o femmine per caso. Per caso i cromosomi x e y si combinano tra loro e così nasce Mario oppure Maria. Certo, si potrebbe osservare che un maschio può comunque avere esperienza del femminile dal di fuori, e viceversa. Ma è altrettanto evidente che un conto è tendere verso l’altro sesso, guardarlo e conoscerlo dal di fuori, tutt’altra cosa è viverlo dal di dentro.
L’incontro fra il maschile e il femminile diventa molto diverso se ci pensiamo immersi in una lunga evoluzione che concede ad ognuno l’esperienza diretta, e successiva nel tempo, di entrambe le dimensioni fondamentali dell’umano. Una grande giornata evolutiva – una vita – al maschile, un’altra al femminile. L’atteggiamento interiore reciproco fra l’uomo e la donna sarebbe molto più aperto se potessero dirsi: così ero io nel passato e così sarò di nuovo nel futuro.
Vista così, la transessualità sembra la proclamazione a livello fisico di un disagio estremo proprio in questa direzione. Il senso d’incompiutezza si manifesta in una ribellione contro la natura dove, più che il desiderio di far parte dell’altro sesso, si mostra l’aspirazione ad averli in sé tutti e due, a vivere appunto la pienezza dell’umano. L’impossibilità reale di riuscire per tutta una vita a raggiungere questo scopo al livello corporeo, stende un velo di tragicità su queste vite, che in realtà s’impediscono l’esperienza sia dell’uno che dell’altro sesso.
Eterosessuali e non, sono poi accomunati – e questo è fondamentale – dal fatto che la tensione verso l’altro va ben oltre il puro desiderio della corporeità. È tutto il mondo dell’anima e dello spirito dell’altro che ci attrae. Se così non fosse, nessuno si innamorerebbe.
Vivere un’intera vita al femminile, o al maschile, con la tensione che si crea sempre fra questi due poli, ad ogni livello, non potrebbe allora costituire proprio il presupposto perché il nostro Io decida di prepararsi una corporeità di sesso diverso per la successiva esperienza di vita?
Sarebbe saggia un’evoluzione che ci permettesse di vivere, in alternanza, sia come uomini che come donne. La tensione di una vita verso quello che non siamo troverebbe davvero il suo compimento, e si mostrerebbe capace di effetti costruttivi.
L’uomo e la donna tra il fisico e l’invisibile
Che tra il corpo e lo spirito ci sia una bella differenza, è evidente anche a chi di spirito dichiara di non intendersi o di non interessarsi. La grande attenzione di cui gode il fisico nella nostra epoca, ci mette in condizioni di evidenziarne le leggi fondamentali; se poi ci chiedono di fare lo stesso per lo spirito, tutt’al più capovolgiamo le leggi del corporeo, le mandiamo a passeggio fra le nuvole, ed ecco fatto. Lo spirito, insomma, sembra stare a casa sua dove non c’è la Terra e dove non ci sono uomini vivi. Ma è proprio così?
Tutti i corpi occupano uno spazio ben preciso, dove ce n’è uno non può essercene contemporaneamente un altro. Sono incompenetrabili, si dice in fisica. Poi, altra legge fondamentale, se un corpo sta qui non può nello stesso tempo stare anche da un’altra parte. Nello stesso spazio fisico dove cresce una robinia non può crescere un ciliegio, e la banconota che ho in tasca io, non può contemporaneamente stare anche nella tua.
È questa la legge dell’esclusività di ciò che è fisico e corporeo. Se proviamo a estenderla a tutto ciò che attiene al fisico nel rapporto di coppia fra l’uomo e la donna, ne vedremo dei riverberi interessanti.
Se hanno dei figli, essi saranno figli esclusivamente per loro, così come per quei figli non potranno mai esserci altri genitori. La loro casa, il denaro, le proprietà fisiche in generale, tenderanno a riferirsi esclusivamente al loro nucleo. Ugualmente, tutte le cure relative al corpo – alimentazione, assistenza reciproca nei bisogni di ogni genere, sussistenza – avranno lo stesso carattere di esclusività. Nell’ambito del corporeo s’instaura, inevitabilmente, una certa necessità di riferimento. Tant’è che è vastissimo il repertorio delle liti a causa delle ingerenze di altri – suoceri, amici, amanti o chicchessia – in ambiti di questo tipo.
Nello specifico della sessualità impressa nei corpi, questa esclusività si manifesta – o comunque tende a manifestarsi – anche quando venga vissuta senza l’intento procreativo. Parlare di fedeltà di coppia, anche prescindendo dalla convivenza e dai figli, non è che un confermare questa esclusività di riferimento.
Al polo opposto mettiamo adesso tutto ciò che è di natura spirituale: vedremo subito che ogni esclusività sparisce e lo spirito si mostra a suo agio anche sulla Terra, nella vita quotidiana. Una gioia si può intensificare quando più persone ne partecipano e non c’è limite alcuno alla comunione delle conoscenze, dei pensieri e degli ideali. La libertà è qui massima: di relazione, di scelta, di cambiamento. Nulla mi impedisce di occuparmi di ciò che accade nel mondo, di progettare, di intervenire nella realtà esterna portando ovunque quello che so fare. A nessuno devo la mia presenza costante, per nessuno sono obbligato ad essere un punto di riferimento. Un libro scritto bene lo possono comprare e leggere tante persone.
Se sono un maestro di scuola e ho trenta allievi, contemporaneamente i miei insegnamenti saranno a disposizione di trenta persone diverse, e gireranno per trenta diversi luoghi della città dopo la campanella di fine lezione, raggiungendo così tante altre persone. Chi lavora all’Ufficio Informazioni di un qualunque aeroporto, offre quotidianamente indicazioni a centinaia di persone che provengono da tutto il mondo. Per non parlare di chi guida le sorti politiche di un Paese, di chi è artista in qualsiasi ramo dell’arte, di chi si adopera per l’intera umanità… Lo spirito di Raffaello o di Buddha o di Pericle ancora oggi s’incontrano e parlano con la voce di milioni e milioni di individui.
La legge fondamentale di ciò che è spirituale, insomma, è l’opposto dell’esclusività: è l’onnicomprensività, l’inclusività. Al livello dello spirito la comunione fra gli uomini tende ad essere sempre più vasta, a non escludere nessuno.
Messi a confronto con i legami spirituali, c’è da chiedersi se quelli corporei siano allora una specie di galera. Ma dispiace pensarlo, soprattutto in relazione al rapporto genitori figli. Seppure sono davvero tante le incombenze e le limitazioni reciproche – i figli crescono, i genitori invecchiano e negli anni le responsabilità in parte si invertono – nel profondo dell’animo genitori e figli sanno che proprio in questi rapporti così esclusivi c’è, in qualche modo, anche una grandiosa esperienza di libertà tutta spirituale.
Possiamo perfino chiederci: un uomo e una donna che finiranno per avere figli sono forse mossi ad incontrarsi non solo dal loro destino individuale, ma anche dalla volontà degli spiriti dei loro futuri figli? Grazie a un lungo passato condiviso, non sarà che i figli hanno tanto in comune con i futuri genitori da scegliere, liberamente, di volgersi verso di loro per incarnarsi?
I genitori sono due, non possono mai essere in numero maggiore. E se proprio in questo si manifesta l’aspetto di esclusività, di non-libertà del corporeo, la risposta altrettanto libera dei genitori verso i figli è l’intento sincero di generare nel loro proprio spirito la forza morale capace di rispettare questa esclusività. E lo stesso vale per i figli, quando saranno adulti.
Tutto, negli eventi della vita, se non siamo noi stessi a porre dei limiti pregiudiziali, parla di un’estrema diversità fra gli uomini già al momento della nascita. A cominciare proprio dal corporeo, che è il primo a manifestarsi: le diversità dell’anima e dello spirito – qualità, talenti, capacità specifiche – si delineano più tardi.
Profondamente diverso è però vedere in questo processo dell’esistenza il graduale lavoro dello spirito di ognuno che comincia col costruirsi lo strumento corporeo adatto per poi manifestare il suo genio, oppure pensare che per tutta la vita non siamo altro che embrioni giunti a maturazione, diventati grossi e semoventi, capaci di riprodursi.
In questo secondo modo la scienza materialistica interpreta l’uomo. Proprio perché il corporeo si manifesta visibilmente, la cultura materialistica gli assegna ogni potere, lo fa causa di tutto ciò che avviene nell’uomo. I cromosomi, si pensa, col loro corredo genetico determinano tutto del nascituro: corpo, temperamento, carattere, sensibilità, capacità intellettive, artistiche e morali. L’ambiente – cioè la fisicità ampliata della natura e degli uomini attorno al nuovo nato – lo improntano a loro volta dall’esterno. E così via, per tutta la vita. La materia dentro di me e fuori di me “mi fa” quello che sono dalla nascita fino alla morte.
Per la scienza moderna di stampo materialistico, l’incontro fra le persone si svolge esclusivamente sul piano fisico. I pensieri dominanti nelle nostre teste interpretano l’esistenza proprio in questa chiave di assoluta necessità e limitatezza. Niente di strano, allora, che quando preme in noi la tensione verso la libertà – che si fa sentire, eccome! – la si vada a cercare, ancora una volta, sul piano fisico. Ma per quanto vogliamo strizzarla, questa materia, non vedremo mai uscirne fuori la libertà.
In cerca di una soluzione, si va allora all’estremo opposto, ci si dà al pensiero astratto, al pensiero logico-intellettuale che viene applicato a tutti i campi della vita. Questo pensiero è pur sempre un’attività dello spirito umano[6], ma completamente avulsa dalla realtà. Esso ci consente di rappresentarci il mondo e la vita come ci pare, in nome della libertà di pensiero. Teorie su teorie viaggiano per il mondo, e parlano di Dio, di nichilismi e di utopie, di amori e di speranze, di doveri e di felicità, di storia e di progresso, come venticelli che solleticano la grande regina: la potentissima materia. E lei ci lascia giocare. Tanto, tutto rimane tale e quale.
A conferma di ciò, gli unici pensieri che effettivamente servono a qualcosa e fanno andare avanti il mondo – dice il materialismo – sono quelli che ripercorrono, scoprono e riproducono le leggi sovrane del fisico-corporeo e vi si adeguano, le mettono a frutto. E così la tecnica ha fatto sorgere una seconda natura, essa pure materiale e, a differenza della prima, del tutto morta. I pensieri della scienza naturale, insomma, vogliono essere rigorosi e sempre verificabili, bravi figli della materia e nulla concedono a quanto non abbia un riscontro fisicamente percepibile.
Il corporeo e lo spirituale sono così vissuti in parallelo, come in un’inconciliabile separatezza: incombente e determinante il primo, astratto e avulso dalla realtà, cittadino di un mondo evanescente, il secondo. E, a guardar bene, essi sono espressione non solo del materialismo, ma anche del tratto specificamente maschile dell’umano. Materialismo e patriarcato legano ottimamente fra loro.
L’uomo e la donna nel mondo dell’anima
C’è però un’altra dimensione dell’umano che serve a mediare fra le due polarità del corpo e dello spirito, ed è l’anima. L’anima è il luogo interiore nel quale in ogni essere umano risuonano sia le esperienze che vengono dal mondo corporeo sia quelle che provengono dallo spirituale: in lei s’incontrano e convivono.
Presi di per sé, infatti, spirito astratto e raziocino scientifico da una parte, e cieca materia intrisa di determinismi dall’altra, sono condizioni dell’essere in cui l’anima è assente. Il maschio tende ad oscillare come un pendolo dall’uno all’altra, e conosce meno della donna il mondo intermedio, il mondo dell’anima.
Quando si proietta nello spirito, ignorando l’anima, la condizione del suo vivere è quella di una logica stringente e sospesa, capace di edificare i massimi sistemi filosofici di cui però non c’è riscontro nella realtà concreta. Quando si proietta verso la materia, sempre evitando di sostare nell’anima, ha esperienze del corporeo che sono poco connesse al calore del cuore e alle emozioni, e la condizione del suo vivere è quella del materialismo.
Il maschio privilegia, insomma, l’esperienza sia della materia sia dello spirito in quanto fatta in modo “oggettivo” – come spesso sottolinea con un certo compiacimento – senza le interferenze tutte soggettive dell’anima, che creano secondo lui solo pasticci e confusioni. In questo modo però, senza rendersene conto, perde il nucleo vitale della sua stessa vita in quanto uomo perché, non esercitandolo, ha reso ottuso quell’organo di percezione della vita, del sentire, che è l’anima per eccellenza.
Per la donna questa doppia dominanza culturale del maschio ha sempre rappresentato un duplice dramma, proprio perché il tratto fondamentale del femminile è di essere ancorato alle esperienze interiori dell’animo e alle sue risonanze nel mondo circostante. Il mondo improntato al maschile oscilla di continuo tra il raziocinio esangue e il dominio sul mondo materiale. Non ha tempo né spazio per una ricca vita interiore. Il bisogno dell’animo femminile di vivere un’eco interiore profonda sia del mondo esterno sia delle realtà spirituali, spesso non trova nel rapporto col maschio un sufficiente appagamento.
Per la donna sia lo spirito che la materia sono disumani se vissuti senz’anima. Il femminile, quando incontra il mondo e gli altri, va in cerca del vissuto personale, del tutto soggettivo. E riversa il proprio mondo interiore su tutto ciò che le giunge dall’esterno.
L’unilateralità propria del femminile sta nell’autocompiacimento, che impedisce non meno l’espressione intera dell’umano. È la tendenza a limitarsi al godimento interiore e passivo di tutta la realtà del mondo, ad assaporarne gioie e dolori, come se questi bastassero a riempire di senso l’esistenza.
Ecco allora che appare necessario per l’evoluzione di ognuno il ricongiungimento di tutt’e due queste creazioni dell’umano, la loro riconciliazione e integrazione proprio nella direzione delle parole della Bibbia: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, maschio e femmina ad un tempo”.
Oggi non pochi testi di psicologia parlano di una “caduta del maschio” e dell’emergenza del femminile. Se per un verso questo indica che le donne stanno sempre più scegliendo la via della competizione e si cimentano in tutti i campi con la grinta di chi deve recuperare millenni di sottomissione, per un altro verso si evidenzia un fenomeno che viene riassunto in questi termini: gli uomini cominciano ad aver “paura delle donne”.
Quest’ultimo aspetto è molto più interessante perché mette in luce una dinamica nuovissima: la donna sta piano piano “costringendo” l’uomo a fare i conti col mondo interiore dell’anima, ed è di quella che lui ha paura, non della donna in sé. La donna gliela porta davanti, quest’anima, proprio negli ambiti in cui finora egli aveva agito indisturbato: lavoro, attività scientifica, organizzazione sociale – che va dall’impostazione dei ruoli familiari, alla politica, all’economia, alla relazione di coppia. Con il risultato di scardinare molti punti di riferimento che c’erano per l’uomo più o meno fino a pochi decenni fa.
Mentre le donne, per secoli, hanno sempre osservato con attenzione e spesso con dedizione la vita dei loro uomini – pur rimanendone escluse –, e l’hanno vissuta di riflesso, gli uomini generalmente hanno ignorato il mondo femminile, ritenendolo non più vasto di ciò che avveniva tra le mura domestiche.
Ciò ha comportato che le donne, oggi, riescano ad inserirsi nel mondo maschile, e a condividerlo, più di quanto non riesca agli uomini di inserirsi in quello femminile, per condividerlo. Il mondo dei sentimenti e delle emozioni continua ad essere per molti maschi una terra sconosciuta, piena di insidie da cui bisogna difendersi, mentre il mondo della scienza naturale e dell’intelletto astratto non sono impenetrabili alla malleabilità del pensiero femminile.
È come se tanti maschi avvertissero che la donna ha una marcia in più e, essendo abituati al potere in tutti i campi, si sentissero minacciati nella loro identità, più che invogliati ad evolversi ulteriormente.
Se escludiamo i casi in cui vede la donna come una sua stessa caricatura – e di donne mascolinizzate ce ne sono tante –, l’uomo nota che l’animo femminile non si accontenta della conoscenza astratta, ma ne cerca una che sia del tutto pratica. Solo che per il maschio sono pratiche “le cose” – macchine e macchinari, per esempio – mentre la donna vuol render pratica la vita: piena di calore, di bellezza, di slanci, di emozioni, di conquiste. Una vita interiormente ricca è per la donna la cosa più pratica di questo mondo, ma quando ne parla con l’uomo ha l’impressione che lui non sappia di che cosa stia parlando.
Quella donna che nei secoli ha assistito al profluvio tutto maschile di teorie sulla vita – partorendo, nel frattempo, un figlio dietro l’altro – oggi che la cultura non le è più interdetta si accorge di quanti aborti, mummie e cadaveri vi si aggirino. E lo dichiara a viso aperto. E l’uomo, poveretto, ci rimane male.
La storia è piena di maschi che hanno dedicato una vita allo studio dei fenomeni dello spirito, senza mai riconoscerlo in chi gli stava vicino, soprattutto se donna. E la storia è non meno piena di donne che hanno vissuto lo spirito in ogni evento quotidiano, nei loro simili e in se stesse, senza bisogno di dimostrazioni logiche. Ciò le ha rese più capaci di pietà, di sentimento religioso, di compassione e anche di dignità al cospetto della quasi totale mancanza di riconoscimenti sociali.
La donna avvicina con la carica interiore dell’esperienza vissuta tutto ciò che è spirituale, e perciò non ne può fare un esercizio astratto di pensiero. Essendo l’anima umana un mare di sentimenti, la donna sente lo spirito, e lo sente vivo. Non ha bisogno di analizzarlo o liofilizzarlo come fosse un oggetto esterno: la dimensione del religioso, come l’ha vissuto la donna, è un mondo di esseri spirituali cui rivolgersi e con cui dialogare. Perciò è più affine al femminile riconoscere in ogni essere umano la realtà dello spirito: proprio perché vuole viverlo incarnato in ogni evento della vita.
In sintesi, ciò che spaventa l’uomo maschio è sentirsi preso per il bavero dalla donna che gli dice: sei vero o sei finto? sei morto o sei vivo? Il mondo fatto di spirito astratto e di materia morta che ancora mi proponi e difendi a denti stretti non mi piace, non c’è gusto a viverci, perché ci fa morire in ciò che è il meglio di noi.
Corpo, anima e spirito nella vita di coppia
La preminenza della vita interiore nella donna ha i suoi effetti sul suo modo di vivere il rapporto fisico con l’uomo. Ma anche in questo campo si sono verificati negli ultimi decenni notevoli cambiamenti.
In passato la donna ha spesso vissuto come una degradazione del suo essere, come una profanazione del suo animo, l’abbandonarsi al puro corporeo senza redimerlo nell’emotività, nel calore dell’amore che umanizza gli istinti della natura. La sensibilità femminile ha sempre avvertito che la sacralità del corporeo sta proprio nella sua esclusività, e perciò è stato sempre forte in lei il desiderio di reciproca fedeltà. Di qui la proverbiale ma spesso fraintesa gelosia delle donne.
Il maschio, per natura, veste molto meno di emotività il rapporto sessuale, e non lega al corporeo l’intensità della memoria vissuta. Egli vive nell’attimo presente quando compie l’atto sessuale (quando fa sprigionare violentemente dal suo corpo il seme della vita); la donna riveste questo incontro misterioso di tutta la sua storia passata, presente e futura. Ciò spiega la tendenza del maschio ad annoiarsi di un solo corpo femminile e a cercare nella quantità numerica un rimedio alla povertà del suo mondo interiore.
Per l’uomo “fedeltà” sul piano fisico significava e spesso ancora significa: non far mancare niente a mia moglie e ai miei figli. Lì lui vive il senso esclusivo dell’interdipendenza corporea. Ma mentre ha sempre minimizzato e perdonato a se stesso i “tradimenti” legati al sesso, non ha mai concesso la stessa “libertà” alla donna sia per il suo innato senso di potere e di possesso, sia perché intuiva che per l’animo femminile un tradimento è un’esperienza con conseguenze più durature e profonde.
Ma ciò vuol dire che l’uomo è geloso, più che del corpo, dell’animo della donna. Perché? Perché la donna per natura cerca e gode tanti e tanti rapporti che mettono in primo piano non uno sfogo di energie corporee, ma uno scambio fra anima e anima, tra spirito e spirito, fatto di infinite sorprese e sfumature. L’animo femminile è molto più aperto al nuovo che c’è in ogni incontro, è più spregiudicato e curioso, con tutte le gamme che vanno dall’invadenza alla confidenza, dal pettegolezzo al dialogo vero. Le donne sono capaci di incontri diversi, nel senso che non amano ripetere o generalizzare le dinamiche dei rapporti. Di ciascuno apprezzano l’unicità e l’antica storia. Per loro ogni relazione è unica e tuttavia inserita nel telaio della vita, annunciatrice di una comunione che si fa sempre più universale, perché tende ad abbracciare tutti. Come l’uomo si annoia di un solo corpo di donna, così la donna soffoca se costretta ad un solo rapporto di natura animica e spirituale.
La donna tende a condividere, a mettere in comune le conquiste del suo spirito perché ha meno bisogno del maschio di farne strumento di lustro e di potere. Il potere presuppone conoscenze tenute esclusivamente per sé. L’uomo è più “riservato” della donna, si dice, ma a guardar bene questo non è affatto un complimento per chi mira a una vita piena e bella.
Per l’uomo i rapporti con l’interiorità dell’altro tendono ad essere sbrigativi, visti in funzione di ciò che sta facendo al momento; si riducono, il più delle volte, al bisogno di ricevere informazioni o aiuti specifici, da gestire poi nel modo più vantaggioso per sé. A lui basta e avanza la vita interiore che condivide – o non condivide! – con la “sua” donna, preso com’è dalla complessità del mondo esterno, al quale dedica le sue energie, sempre alla ricerca di un qualche successo. Nel rapporto di coppia gli è facile essere fedele nella dimensione dell’anima, proprio perché la vive ben poco e a quel poco si affeziona, quasi si abitua. Può avere più relazioni fisiche che non gli entrano nell’animo, perché nel suo cuore la “sua” donna mantiene un posto privilegiato, esclusivo. E vorrebbe che per lei fosse lo stesso nei suoi confronti.
Questa profonda diversità fra il maschile e il femminile evidenzia però che i conti della vita tornano meglio nella prospettiva femminile, perché lo spirituale è per natura universale e onnicomprensivo, mentre il corporeo è esclusivo.
Ma non è tutto. A questa situazione generale va aggiunto quanto, con velocità esponenziale, è già mutato e sta mutando negli ultimi tempi. Da quando le donne hanno cominciato ad inserirsi nella cosiddetta vita produttiva, ampliando il raggio delle relazioni sociali e della loro autonomia, inevitabilmente hanno avuto occasione di tirar fuori il loro lato maschile, o di inventarselo snaturando il proprio essere.
Nel suo riflesso sul rapporto di coppia ciò ha comportato anche un aumento notevole di “tradimenti” da parte di lei. La molteplicità delle relazioni fisiche non è più una prerogativa del maschio. Per lui è diventato meno complicato e rischioso avere diversi rapporti sessuali. Però comincia a serpeggiare in lui, anche in questo campo, la “paura” cui si accennava prima. Non solo ha sperimentato che la “sua” donna può condividere la sfera corporea con altri, ma che può anche andarsene via, lasciandolo a gestirsi sentimenti che finora aveva ignorato. Anche dal lato del corporeo, così, l’uomo comincia a fare i conti col mondo dell’anima, cioè col femminile che porta in sé.
Il rapporto di coppia si fa sempre più complesso. Le donne, che hanno sempre avuto più risorse vitali, continuano a cavarsela meglio perché sono interiormente più ricche e autonome. Hanno meno bisogno dell’uomo e assaporano a tutto campo – anche nelle forme meno costruttive – l’aria della libertà. L’uomo, abituato per secoli a poter contare sulla presenza fedele della donna al suo fianco e da lui dipendente, può andare incontro a periodi di intensa depressione e confusione.
Le statistiche – per quello che possono valere – registrano un forte aumento di uomini che ricorrono alla psicoterapia e non pochi che soffrono dei cosiddetti “attacchi di panico”. I divorzi aumentano e aumentano anche le coppie che decidono di non contrarre matrimonio.
Ma poiché tutti, uomini e donne, siamo immersi in una visione materialistica della vita, sono evidentissime anche le degenerazioni, le nuove prigionie, che i segni dei tempi comportano. Il loro denominatore comune è il potere. Le donne lo radicalizzano nell’arrivismo e in vari status symbol mutuati dal mondo maschile e, polarmente, ripropongono su scala imprenditoriale l’antica arma della seduzione (pubblicità, spettacolo, ecc.).
Gli uomini rispondono con impennate di vecchio stampo, che li vedono sempre più attivi in politica e in Borsa – lasciando alle donne ambiti di lavoro che appaiono di minor prestigio –, oppure si cimentano anch’essi con la seduzione curando il proprio corpo e il proprio abbigliamento come mai s’era visto prima. Tutto sembra indicare che va inventato un modo di stare insieme che consenta una nuova profondità nella comunicazione. Un modo d’incontrarsi in cui ognuno, uomo o donna che sia, possa esprimere il proprio essere più autentico.
La fedeltà è dovuta a una persona sola?
Fino a ieri tanti matrimoni rimanevano in piedi per tutta la vita, senza grosse difficoltà. Anche quando veniva meno la fedeltà alla persona, restava la fedeltà all’istituzione. Oggi si è indebolita “l’indissolubilità” impressa al rapporto dall’esterno tramite il vincolo giuridico-religioso, e perciò possono subentrare sia l’arbitrio – che cerca il vantaggio immediato e ama le scorciatoie –, sia un salto qualitativo che consente di decidere muovendo da orizzonti più vasti.
Molta sofferenza e insofferenza nel rapporto di coppia provengono dal fatto che lo si assolutizza, aspettandosi da esso e solo da esso la soddisfazione di tutti i bisogni dell’animo. Sull’onda dell’innamoramento, si parte con la certezza che l’altro ci basti, che in lui ci sia tutto quello che abbiamo sempre cercato e che non avremo mai bisogno di nessun altro. Questo stato interiore, però, è per natura passeggero. Per quanto travolgente ed esclusivo sia, l’innamoramento si trasforma in una prigione a due se non lo si apre col passar del tempo a tanti altri rapporti.
Ciò spiega perché si può finire, prima o poi, per innamorarsi di qualcun altro. Come parla, il destino, in questo caso? Quale intreccio ingarbugliato si mostra quando tra due persone già legate fra loro, magari con figli piccoli, se ne inserisce una terza? Come si fa ad ignorare, in nome della fedeltà, un incontro che ci coinvolge in tutta la persona e afferma con veemenza il suo diritto all’esistenza? La fedeltà a una persona giustifica forse l’infedeltà all’altra?
Il bellissimo poema medievale Tristano e Isotta – soprattutto nella versione di Goffredo di Strasburgo – presenta proprio questo tema da una prospettiva nuova e tutta da scoprire. È la storia di Isotta, moglie del re Marco, che s’innamora, ricambiata, del fedele cavaliere e nipote del re, Tristano. I due giovani si struggono l’uno per l’altra, ma Isotta non vuole abbandonare il marito e Tristano non vuole abbandonare il suo re. S’incontrano di nascosto perché non possono non rispondere all’autenticità del loro amore, ma al contempo riconoscono l’indissolubilità del matrimonio di lei.
Tra molte vicissitudini, si arriva al momento in cui il sospetto dell’infedeltà della moglie giunge all’orecchio di Marco. Il concilio dei vescovi si appella allora al giudizio divino: Isotta dovrà, dopo aver dichiarato la sua innocenza, afferrare un ferro rovente e, se non si brucerà, sarà provata la sua innocenza. Iddio consente a Isotta di superare la prova. Enigmaticamente la Divinità prende le parti di coloro che la società considera colpevoli e “peccatori”, e il poema pare si chiuda senza dare una soluzione all’enigma che ha proposto. Tristano viene ferito a morte da una freccia avvelenata durante un’impresa, e Isotta muore di dolore.
In quest’opera che risale a otto secoli fa, si annunciano, anche se non esplicitate, tutte le tematiche nuove che il pensiero moderno si trova ad affrontare riguardo ai rapporti umani. La mente e il cuore di chi legge, infatti, rimangono come sospesi di fronte al senso d’incompiutezza che la vicenda comunica: la preclusione di ogni futuro per tutti questi legami è interiormente inaccettabile. Tant’è vero che la critica letteraria tende a vedere nel Tristano e Isotta un poema incompiuto.
Nel destino, intende in fondo dire l’autore del Tristano e Isotta, ogni incontro ha la sua legittimità. Rimane oscuro – sospeso – “come” sia possibile onorare il karma che ci lega profondamente a più persone senza distruggersi a vicenda in una società che non tollera una pluralità di rapporti fisici. L’amore fra Tristano e Isotta non recede di fronte al legame indissolubile fra lei e il re protetto dalla società e dalla legge; eppure Isotta vuole essere fedele anche a Marco, e Tristano vuole esserlo al suo re. Nell’impossibilità di conciliare tutte queste fedeltà, muoiono, come a indicare un’altra indissolubilità che travalica la morte.
Proprio qui trova spazio la domanda sulle ripetute vite terrene che, lungi dal voler essere “dimostrata”, si trasforma in un cammino interiore se la si applica all’esperienza della propria vita. Ancora oggi, in situazioni simili, abbiamo tradizionalmente tre indicazioni di base: una viene dalla chiesa e due dalla società laica. La religione dice: “Male! Fai un peccato! Ignora!”. La società dice: “Buttati, vivi anche l’altro incontro, finché dura”, oppure: “Divorzia, lascia la prima persona e unisciti all’altra”.
Nessuna di queste soluzioni è però convincente fino in fondo: quella religiosa vorrebbe negare la realtà e la legittimità di un rapporto soltanto perché sorge dopo il matrimonio; quelle laiche tendono invece a ragionare nei termini di una certa libertà che vuole affermarsi a qualunque costo, senza tener conto della legittimità della dimensione esclusiva del fisico soprattutto quando ci sono figli piccoli, o anche quando una delle persone è comunque costretta a soffrire.
Esiste allora un criterio che consenta di scegliere senza far torto al destino? Dov’è la legittimità morale di privilegiare un rapporto rispetto ad un altro? Dovunque la si cerchi, nella prospettiva di una vita sola i conti non tornano fino in fondo: essere infedele a Tristano sarebbe per Isotta un male morale non meno dell’essere infedele a Marco. Però la società, che fa pur parte del loro karma, li costringe a scegliere.
La coscienza moderna tende ad allargarsi in ogni direzione, il cuore aspira alla totalità delle esperienze dell’umano: questo cozza profondamente con la struttura interiore di sapersi vivi una volta sola. Potrebbe nascere, allora, il coraggio di cominciare a considerare come possibile l’idea di avere a disposizione l’intera durata dell’evoluzione umana.
Tutti ci rendiamo conto che in pochi decenni di vita è impossibile dar conto, nella pienezza che vorremmo, ai tanti rapporti che viviamo. E allora, non potrebbe essere che in una vita futura avremo la possibilità di porre in primo piano i rapporti che in questa vita non possiamo privilegiare? Né più né meno di come siamo soliti distribuire nell’arco di diverse giornate quello che non potremmo mai fare in un giorno solo.
Il bambino impara ad aspettare anche diversi giorni per ottenere qualcosa; l’adulto trova la forza di aspettare per anni e per decenni…; non sarà forse che una coscienza moralmente ancora più matura sia capace di aspettare anche secoli e millenni per poter esprimere a tutti i livelli dell’esistenza un’infinità di rapporti che porta in sé come ideali che non tramontano mai e che richiedono fedeltà assoluta?
Rimandare la soluzione del dilemma di Tristano e Isotta ad una vita successiva, è oggi per la maggior parte delle persone una pura astrazione che sembra non cambiare nulla. Non diversa dal rimandare la felicità a un paradiso che compare solo dopo la morte, al termine di una vita che ha più il sapore dell’inferno. Eppure è importante fermarsi a riflettere: se la realtà corporea impone esclusività nello spazio e un limite nella successione del tempo, diventa sempre più importante sapere quanto tempo ognuno ha davvero a disposizione per vivere magari uno dopo l’altro i rapporti cui pensa di non dover rinunciare e che non consentono contemporaneità qualora non ci si voglia far del male. Il pensiero delle molteplici vite può diventare, anche se solo un po’ alla volta, già in questa vita, così forte da placare e poi ridurre nell’animo quell’avidità che vorrebbe tutto contemporaneamente, oppure tutto in una vita.
E se per l’anima diventa fonte di lacerazioni voler vivere contemporaneamente troppi rapporti intensi, soprattutto quando si hanno dei figli piccoli, può essere di grande aiuto portare in sé la forte convinzione – e non una credenza puramente astratta – che in ognuno di noi c’è un essere spirituale, un Io spirituale ed eterno, che sceglie di volta in volta i rapporti ai quali dare precedenza, nel rispetto delle leggi di ciò che è corporeo e di ciò che è animico. È un Io che sa di avere a disposizione tutto il tempo necessario per approfondire successivamente tutti i rapporti che fanno parte del suo destino. Proprio perché ciò che è corporeo chiede esclusività e impone limiti, proprio perché l’anima con le sue brame non controllate può creare dei brutti pasticci, proprio per questo la soluzione vera è quella di aprirsi sempre più alla realtà vissuta dello spirito, che non conosce né esclusività né limiti. Però dev’essere uno spirito che diventa vita reale, che dà beatitudine qui e ora e che fa realmente scomparire tutto ciò che è negativo nel corporeo e nell’animico, quelle unilateralità e carenze che viviamo proprio nella misura in cui ci manca l’esperienza reale dello spirito. Va da sé che questo cammino interiore non può essere che graduale, oltre che lento. Motivo in più per non aspettare a mettersi in cammino.
I destini s’ingarbugliano e la morale s’individualizza
Il “limite” che la dimensione corporea impone a ogni rapporto non va inteso primariamente in senso di esclusività numerica. Non si tratta di osservare un’astratta legge morale imposta da un’autorità esterna, ma di rispettare, anche a proprio vantaggio, le leggi della propria natura umana nella sua interezza – che abbraccia corpo, anima e spirito – analogamente a come ognuno rispetta volentieri le leggi della nutrizione.
Se uno – chiamiamolo A – vuole avere un rapporto che coinvolge direttamente anche la sua sfera corporea non solo con B ma anche con C, non è detto che ciò sia necessariamente un male morale per lui. Solo lui potrà, magari in base all’esperienza, saperlo. L’esclusività che fa parte della natura del corporeo viene infranta quando A (uomo o donna che sia) rende C compartecipe di cose che ha vissuto con B e delle quali B si aspetta che restino “proprietà esclusiva” di A e B. In questo caso B deve sentirsi “tradito” perché l’altro gioca a un doppio gioco: da un lato gode con lui ciò che è per natura esclusivo, dall’altro gli toglie proprio l’esclusività. L’esclusività, e l’esclusione, nascono nell’animo quando si vuol proibire al proprio compagno fisico di aver contatti fisici con altri. Questa “proibizione” non proviene di solito dal volere il bene dell’altro – non facile a stabilirsi – ma dalla propria gelosia, che è tutt’altro che un bene per sé e per l’altro. Ed è proprio la gelosia a rendere necessaria la contromisura della “segretezza”. La cosa migliore di tutte sarebbe forse che ciò che riguarda tre persone venisse costantemente valutato e deliberato da tutte e tre in uno spirito di amore vicendevole che va in tutte e sei le direzioni.
Ciò presuppone, se si vuol essere ancora più specifici, che sia A, sia B che C, abbiano ognuno un profondo interesse al vero bene degli altri due – di tutti e due – e siano immuni dall’egoismo e dalla gelosia che tendono a considerare un’altra persona come proprietà privata ed esclusiva. Siccome però, raramente gli esseri umani sono già così perfetti, bisogna prenderli di volta in volta come sono e fare quel che di volta in volta è possibile. Anche il più piccolo passo sarà un bene nella misura in cui venga compiuto nella direzione giusta, che è quella di non rafforzare ulteriormente, ma di vincere un po’ alla volta ogni esclusività propria dell’egoismo, aprendosi tutti sempre più alla dimensione dello spirito.
C’è però anche un altro fatto che rende complessi i rapporti. In linea di massima, per il maschio è più facile non dir nulla a C di ciò che vive a livello corporeo esclusivo con B (in questo caso una donna). Ciò per il semplice motivo che la sfera corporea lo coinvolge nell’animo molto di meno di quanto accada per lo più alla donna. Per la donna è più difficile, nel rapporto corporeo con un secondo maschio, tenere per sé tutto ciò che ha vissuto con il primo. Lei vive più fortemente il “limite” di natura che viene imposto dal condividere con un altro la sfera corporea. Se vive diversi rapporti fisici, finisce per farsi violenza nell’anima, e questo non è certo un bene per lei. Ciò facendo, più che trasgredire un’astratta legge morale, agisce contro la natura della sua anima, che esige il rispetto dell’esclusività nell’ambito corporeo.
Questa profonda differenza fra il maschile e il femminile, se colta anch’essa con amore da tutte e “tre” le persone in questione, nel desiderio di fare ciò che è bene sia per l’uomo sia per la donna, porta ad una ulteriore diversificazione sia nel giudizio, sia nel comportamento. La donna imparerà a non attribuire lo stesso peso “morale” a ciò che lei chiama infedeltà del maschio, ma che per il maschio non ha lo stesso peso che per la donna – anche se il risvolto morale non va sottovalutato. E l’uomo dovrà imparare che la gravità morale di un suo rapporto con una donna che non sia la “sua”, se non risiede in ciò che fa egli stesso, può senz’altro risiedere in ciò che fa lei – e che fa con lui, forse per lui, forse “sedotta” da lui, che si rende così corresponsabile della violenza che viene fatta all’animo femminile.
Tutto ciò che è stato detto fin qui vale per rapporti nei quali non ci sono “di mezzo” dei figli. La situazione cambia del tutto a partire dal momento in cui si stabilisce con certezza una gravidanza in corso, o quando i due adulti hanno in comune bambini piccoli. In questo caso la legge deve fissare quali sono i doveri insindacabili sia della madre sia del padre nei confronti di un essere che ha tutti i diritti di una persona umana, senza possibilità di farli valere qualora vengano infranti. Questa legislazione non ha il compito di fissare tutto ciò che il bambino ha il diritto di ricevere – ciò sarebbe impossibile, anche perché un tale diritto è del tutto individualizzato e varia da bambino a bambino –, bensì tutto ciò che a nessun bambino deve mancare.
Un esempio concreto: la legge non può costringere i due genitori a continuare a convivere se si vogliono separare, né si può sostenere che ogni bambino abbia per natura il diritto alla convivenza fisica dei genitori o che essa costituisca in ogni caso il meglio per lui. Ci sono casi in cui una convivenza non voluta – e protratta magari per rispetto umano – crea al bambino più danni che vantaggi. Però la legge può, e deve stabilire: nel caso in cui padre e madre si separino, questi sono gli imprescindibili doveri di lui e questi quelli di lei nei confronti del bambino comune, e di riflesso nei confronti l’uno dell’altro.
Anche se consideriamo la convivenza fisica dei due genitori come l’ideale per la crescita di ogni bambino, la vita resta pur sempre l’arte del possibile, e il possibile non è mai l’ideale puro, ma un compromesso tra l’ideale e il gradino evolutivo reale al quale ognuno si trova. Ogni ideale è un orientamento morale a validità generale, ma la sua attuazione concreta – il “come” qui e ora e nel caso mio – è sempre del tutto individuale. Stabilendo ciò che al bambino non deve in alcun modo mancare – quello a cui ha assoluto diritto – la legge lascia aperto tutto ciò che non fa parte di questo minimo “di dovere”, perché questo è da un lato inesauribile e dall’altro varia da bambino a bambino, da genitore a genitore.
Il fatto che una persona “sposata con bambini piccoli” entri in un rapporto a livello corporeo con chi non è la madre o il padre dei suoi figli – un esempio della persona C di poc’anzi – è una cosa che riguarda solo lui e C, nella misura in cui né all’altro coniuge né ai figli vengano sottratte prestazioni a cui hanno diritto. È chiaro che si entra qui in un campo complesso, ma proprio per questo non ci possono essere al riguardo delle leggi generali valide per tutti. Il giudizio morale – lo stabilire cioè che sia un bene o un male – sul fatto che qualcuno abbia figli con più persone tocca unicamente a lui: solo lui può sapere se e fino a che punto ciò che fa è moralmente bene per lui e per le persone coinvolte. Il bene e il male morali vanno individualizzandosi sempre di più nel corso dell’evoluzione umana.
Solitamente nessuno si augura, o progetta, di metter su due o tre famiglie con la consapevolezza di dover poi esporre i propri figli alla privazione di un genitore, e al dover sopportare – inevitabilmente – il dolore, le rabbie, le lotte e i disagi che in varia misura ne derivano. È la vita, si dice, che piglia una piega inaspettata e, dunque, si è costretti a fare scelte che non avremmo voluto.
Ugualmente, nell’arco di una giornata, nessuno darebbe appuntamento, alla stessa ora, a quattro persone diverse se con ognuna ha da risolvere questioni specifiche e importanti. Se lo facesse, tutte si presenterebbero all’ora stabilita pretendendo l’esclusiva, non un’attività di gruppo; scontentandole tutte, dovrebbe costringerle a condividere un incontro dove, probabilmente, le cose anziché risolversi, s’ingarbuglierebbero ancora di più.
Un orientamento in questo labirinto intricato può essere la riflessione: ciò che è importante nella vita non è tanto la quantità di incontri che si hanno, quanto la qualità dei rapporti che si riesce a stabilire. Per quanto ingarbugliata la mia situazione attuale possa sembrare, posso sempre lavorare a migliorarla. Si tratta per me di capire sempre meglio le cause di quanto è accaduto nelle mie vicende familiari. Esse non sono da ricondurre a colpe da scaricarsi vicendevolmente sulle spalle, ma alla libertà di tutte le persone coinvolte – figli compresi. Questa ha contribuito, forse nel corso di una lunga evoluzione, a rendere la costellazione dei rapporti così com’è al presente. Niente potrà impedire di lavorare costantemente a un’armonia sempre maggiore, e di volta in volta più cosciente.
Portare in sé pensieri di questo genere aiuta a trasformare le relazioni già adesso, aiuta a guardarsi l’un l’altro con occhi diversi, deponendo quel sentimento terribile che almeno una volta in occasioni simili ci avrà fatto dire: ah!, non t’avessi mai incontrato! Il desiderio di cancellare pezzi del proprio e dell’altrui destino non fa che uccidere forze in sé e negli altri.
L’Io dei figli nati in famiglie “allargate” non considera certo la sua condizione come “un’ingiustizia” del destino: si propone invece, come se lo possono proporre i genitori, di trarre il meglio per la propria evoluzione a partire dalle condizioni di base che derivano da quanto la libertà di tutti, quale è stata esercitata nel passato, ha reso possibile. Ed è chiaro che quando si parla della coscienza più vasta, dell’Io spirituale di ogni essere umano, non si ha a che fare con “Io bambini”. Gli Io dei figli hanno essi pure una lunga evoluzione alle spalle, non meno degli Io dei genitori.
Ciò non toglie che, sul piano fisico, i doveri del genitore nei confronti dei figli piccoli, siano ben definiti perché questi ancora non sono in grado di esprimere la propria autonomia di pensiero e di azione e pertanto inizialmente “subiscono” le scelte e le decisioni dei genitori.
Un’altra domanda importante chiede: se il mio Io vero sa di avere a disposizione tutto il tempo dell’evoluzione per vivere in modo armonico ogni incontro, perché ha architettato la vita così da esporre la mia coscienza ordinaria a un innamoramento che non sono in grado di vivere in armonia con gli altri rapporti della mia esistenza? Non sarrebbe stato meglio, per esempio, incontrare quella persona nella bella forma dell’amicizia, che lascia interiormente più liberi? La causa dell’innamoramento – pur avendo un marito, o una moglie, e dei figli piccoli – è forse la mia anima che è troppo in balìa dei desideri e delle brame? è un bene riuscire a padroneggiare questi desideri? è vero che un innamoramento non avviene se uno decisamente non lo vuole? E come si fa a non volerlo senza far violenza a se stessi? Tutte domande a cui solo la vita – e la propria vita – può dare una risposta.
L’io ordinario (l’ego) ha una visione delle cose tipica del materialismo: privilegia dell’uomo la dimensione corporea, e in essa quasi lo identifica. Equivale a dire che se con la persona amata non posso condividere la fisicità – corpo, casa, presenza fisica continua… – di tutto il resto non me ne importa nulla. È come se non esistesse nessun altro ambito dove esprimere la profondità di un incontro.
Uno dei motivi per cui accade raramente che un innamoramento fra due persone già impegnate in una relazione riesca a trasformarsi in un valido rapporto di altra natura, risiede spesso in un fattore a loro esterno: la gelosia del coniuge che condivide il lato corporeo dell’esistenza, e in nome di questo pretende l’esclusiva anche sull’anima e sullo spirito.
La gelosia e il controllo: due figlie gemelle della paura
In un rapporto di coppia è comprensibile la difficoltà di accettare che nella vita dell’altro esistano altre persone importanti. È possibile considerare questa difficoltà – anziché come qualcosa di scontato, inevitabile, o addirittura come un segno d’amore – come un invito a crescere interiormente. Sentire gelosia è umano, eppure fa un torto a sé chi crede di aver ragione a provare questo sentimento. Vincere la gelosia può consentirci di fare grandi passi verso un amore sempre più profondo.
È illusorio pensare di poter essere tutto per l’altra persona. Se la amo veramente, gioisco quando vedo che trova in altri ciò che io non sono in grado di darle. Se invece ho paura di perderla, in fondo io l’ho già persa, perché la paura è l’inizio della fine di un rapporto. È una dichiarazione di sfiducia, che segna la fine dell’amore, perché l’amore è fatto tutto di fiducia.
Quando ho paura che l’altro non sia più interessato a me, quando non mi sento abbastanza interessante per lui, comincio a dirgli: tu non mi ami, e questo è un reale incoraggiamento ad andare via. Invece di accogliere i doni che mi sa dare, gli prescrivo quelli che mi dovrebbe dare, cioè quelli che voglio io. Comincio, così, a minare la sua libertà, che è il bene più prezioso che ogni essere umano custodisce in sé, il fondamento di ogni rapporto duraturo.
E allora sto lì a controllare tutti i suoi spostamenti, e le telefonate, e gli eventuali appuntamenti – che debbono essere tutti rigorosamente “di lavoro”. Guai se gli viene in mente di andare da qualche parte con gli amici suoi, mi preoccupo se vedo che una persona gli è affine e condivide con lei esperienze e progetti che invece non mi riguardano… Ogni rapporto che l’altro ha, soprattutto se con persone dell’altro sesso, è vissuto come una minaccia alla stabilità della coppia.
La paura di rimanere senza l’altro si vince, paradossalmente, quando non si ha bisogno di lui. Sembra un controsenso, eppure l’amore vero comincia proprio quando non si ha bisogno dell’altro. Finché ho l’esperienza interiore di non poter vivere senza di lui – e all’inizio va bene anche così, nessuno può pretendere subito la perfezione –, che cosa amo? Amo il mio bisogno e pretendo di essere amato secondo la mia misura.
Ama invece davvero chi riesce a dire: la porta è sempre aperta, se vuoi andare, vai7[7]. Vivo volentieri con te non perché non so vivere senza, ma perché è bello contribuire al tuo bene. La cosa più importante è per me, oltre alla mia, la tua libertà. Se una persona ci dice con sincerità queste parole, non la vogliamo più lasciare. Sentirsi obbligati a restare insieme non fa piacere a nessuno, ma restare quando si è liberi di andare è la condizione migliore per ogni convivenza.
Oltre alla paura c’è un’altra grande pulsione dell’animo che può inquinare i rapporti: la brama. La paura e la brama hanno in comune di essere per lo più indistinte: non si sa bene di che cosa si abbia paura e non si sa esattamente che cosa si voglia.
La brama indistinta sorge in chi cerca “la” felicità, in chi nell’incontro con una persona vuole a ogni costo essere felice. È come se andando in vacanza dicessimo: cara vacanza, è tuo compito e dovere rendermi felice. Guai a te se non lo fai. Io ne ho tutto il diritto perché ho tribolato tutto l’anno.
Una persona che conti di sentirsi appagata in questo modo, non sa che cosa vuole in concreto e, non volendo nulla dal di dentro, pretende il tutto – la felicità! – dal di fuori. La felicità, invece, sta nel saper scegliere di volta in volta una cosa e godersela, lasciando perdere tutto il resto. Se nell’incontro domina in noi il desiderio indistinto di felicità, in fondo incarichiamo l’altro d’indorarci la vita, lo rendiamo responsabile di un vago nostro sogno da realizzare. E verremo puntualmente delusi perché la felicità non può mai venire dal di fuori. Non è mai ciò che l’altro è per me che mi rende felice – questo, semmai, può rendere felice lui. A rendermi felice è quel che io riesco ad essere per lui, quando mi riempio di attenzione e di amore per gli altri.
Paura e brama indistinte vengono suscitate anche dall’estraneità dell’altro che, proprio per questo, è “altro” da me. Io vivo allora, nello stesso tempo, il mistero insondabile della separazione fra gli esseri e quella tensione verso il ricongiungimento, che sembra non essere mai così intimo e pieno da sanare la profonda ferita dell’essere gli uni fuori dagli altri.
Un modo per vincere i due sentimenti più destabilizzanti che esistano – paura e brama –, è riconoscere che ogni rapporto umano è affidabile in senso assoluto. Quando due esseri umani s’incontrano non manca nulla, non hanno bisogno di puntelli o convalide esteriori, proprio come nessuno si sognerebbe di dover proteggere o rassicurare la relazione che c’è fra un lampo e un tuono.
Quarto capitolo
ACCETTARE Sè E L’ALTRO
l’incontro come esperienza di positività
La simpatia e l’antipatia: i due nemici di ogni incontro
Alcuni incontri ci lasciano liberi interiormente e altri, invece, ci costringono a prendere posizione nei confronti dell’altro. Questi ultimi evocano in noi simpatia o antipatia. Diamo alla realtà dell’altro una colorazione soggettiva con la nebbia tutta rosa della simpatia o con quella grigio-nera dell’antipatia. Abbiamo allora paura che il rapporto non ci dia ciò che la simpatia desidera, e timore che ci porti incontro quel che l’antipatia respinge.
Il rapporto vissuto nella sua pura spontaneità non è fondato sull’amore perché è dipendente da ben precise esigenze soggettive. Tocca alla libertà renderlo sempre più amorevole. La simpatia mi fa vedere l’altro – e me stesso in lui – migliore di quello che è, e mi illude, così, sulla facilità dell’incontro e sul compito che comporta. L’antipatia mi fa vedere solo i lati negativi e m’induce ad allontanarmi, a sbarazzarmi dell’incontro stesso, rinunciando alla sfida evolutiva tutta positiva che rappresenta.
Così viste, la simpatia e l’antipatia sono i primi ostacoli ad un vero incontro, su cui inciampiamo sempre; eppure, proprio gli ostacoli rappresentano, nell’ambito delle relazioni umane, la nostra fortuna. Se non ci fossero mille difficoltà da superare, l’incontro non sarebbe un’opera d’arte tutta da creare ma un evento da subire passivamente.
Risolti i problemi di ieri, se ne presentano di nuovi oggi: l’altro è lì sempre pronto a propormi nuove difficoltà, nuovi compiti. Un rapporto senza difficoltà è come una bistecca senza carne, un nulla di fatto. Gli ostacoli sono fatti per consentire quel lavoro su di sé che è la fortuna della vita. Gode l’atleta che vede rafforzarsi i muscoli grazie alle sudate sugli attrezzi; contento è l’uomo che allena il suo animo con quei fantastici attrezzi che la palestra degli incontri gli mette a disposizione[8].
Sciogliere un nodo nel nostro rapporto con un’altra persona – trarre il meglio da un ostacolo – presuppone un’attenzione all’ostacolo stesso, per poterlo vedere dal lato positivo. Ogni difficoltà che incontro nel rapporto con qualcuno è una faccenda mia, e la devo risolvere dentro di me. Se uno dice: ma anche l’altro fa errori e pone ostacoli, non solo io!, gli si può rispondere: è vero, ma i suoi errori e i suoi ostacoli riguardano lui. Se punti il dito, trascuri di occuparti dei tuoi, che sono i soli a cui realmente puoi porre mano. Esiste una sorta di vigliacco “quieto vivere” che fa di tutto per nascondere, aggirare o camuffare le difficoltà che sorgono nei rapporti, a scapito della ricchezza che tali provocazioni ci offrono, accendendo in noi una rinnovata fantasia e creatività del vivere.
Il disinteresse non fa nascere l’incontro, il dar consigli lo fa morire
Ogni incontro è bello se vive dello slancio che sentiamo quando giochiamo. Nel tennis, ad esempio, ci si rimanda a vicenda la palla con angolazioni di tiro sempre nuove. Uno non sa mai su quale traiettoria l’altro gliela rilancerà, e proprio questa tensione piena di sorprese procura godimento. C’è un modo per non entrare affatto nel gioco delle relazioni umane, così come ce n’è uno per uscirne durante lo svolgimento. Sono due modalità tese ad ostacolare il godimento dell’incontro. Come un gioco che non vuol cominciare o uno che venga sospeso.
Il disinteresse sbarra la via d’accesso al rapporto; viceversa, a spalancarla è l’interessamento all’altro. Ciascuno di noi avverte intuitivamente se l’altro gli viene incontro con un interesse sincero, oppure se sta lì controvoglia, distratto, assente. Dietro a forme che possono essere correttissime, a volte si cela l’indifferenza che preclude l’incontro perché ci fa restare l’uno fuori dell’altro. L’incontro fra due persone avviene solo nel cuore di chi s’interessa davvero all’essere e alla vita dell’altro.
Come il disinteresse impedisce al rapporto di cominciare, così c’è un modo sicuro per farlo finire, per separare i percorsi: basta cominciare a dare all’altro consigli e ricette di comportamento. Sicuro come la morte, la porta dell’incontro si chiude. Dire all’altro che cosa deve fare o non fare è come dirgli che non ci fidiamo di lui, che non ci piace com’è fatto, è tentare di sovrapporsi al suo essere per sostituirlo. Lui si sente annullato e se ne va.
A volte è proprio l’altro che ci viene incontro chiedendo: che cosa devo fare? Amarlo significa allora aiutarlo a recuperare la fiducia in sé, convinti che nessuno meglio di lui possa decidere sul suo da farsi. Rifiutarsi di diventare “consiglieri” è il miglior modo di restare amici. Si possono rileggere insieme gli eventi cercando di interpretarli nella loro oggettività. Ma riguardo alle scelte di vita che l’altro deve fare dobbiamo aver cura che rimangano libere, rimesse totalmente a lui, nemmeno interiormente da noi sperate o indotte.
Se fossi in te…:
l’incontro umano tra giudizio e pregiudizio
I pregiudizi di cui tutti siamo pieni ci rendono difficile l’accesso al cuore dell’altro. Nascono dal fatto che non facciamo distinzioni tra le azioni che l’altro compie e il suo essere, tra ciò che lui fa e ciò che lui è. Una mamma di solito distingue spontaneamente queste due realtà: poiché conosce il suo bambino e vuole il suo bene, reagisce in modo giusto di fronte a ogni suo comportamento e va dritta verso quel che gli fa bene. L’intuizione del cuore la porta non solo a escludere ogni pregiudizio, ma anche a volgere in positivo ogni manifestazione del figlio, continuando in ogni caso a sostenere e promuovere il suo essere.
Il pregiudizio si vince convincendosi che ogni essere umano è “buono” proprio in quanto è uomo, anche se il suo operare a volte può essere un po’ (o tanto) stonato, fuori luogo o fuori posto. Chi vede la bontà intrinseca di ogni essere umano saprà comprendere ogni comportamento e non avrà bisogno di prevenzione alcuna.
Vincere il pregiudizio nei confronti dell’altro significa mettersi nei suoi panni, guardare le cose coi suoi occhi, viverle come le vive lui. Spesso diciamo: “Se fossi in te…”, ma quali pensieri seguono, di solito, quando ci esprimiamo così? Noi intendiamo dire: se fossi in te farei diversamente da come fai tu, prenderei tutt’altre decisioni. Ma a pensarci bene, se io fossi te avrei avuto i tuoi genitori, la tua educazione, le tue esperienze di vita, la tua costituzione fisica, il tuo temperamento; avrei tutto ciò che tu hai e sarei tutto ciò che tu sei… e dunque mi comporterei esattamente come te, penserei, farei e sentirei esattamente come te.
Solo la conoscenza spassionata dell’altro ci dà la possibilità di entrare nell’intimo del suo essere per rafforzarlo, nello scambio libero dei pensieri, nella disponibilità del cuore e nella dedizione della volontà.
Un altro pregiudizio è quello del “s’è sempre fatto così…”, cioè la tendenza ad attenersi alle consuetudini tradizionali, volendole imporre anche agli altri. Norme morali generali, prescritte dall’esterno, diventano ogni giorno più inattuali nella nostra coscienza; il dettato morale tende in ognuno ad essere sempre più individuale. È bello lasciarmi sorprendere da ciò che l’altro produce in modo originale nel pensiero, nell’arte, nella vita sociale, nella religione… Da tutto ciò che nasce dal suo essere creativo. È bello godere della sua imparagonabile unicità che m’impedisce di volerlo diverso da com’è, o addirittura simile a me.
Accettare l’altro è non proporgli mai modelli, è sentire intollerabile l’idea che possa imitare qualcuno, che possa uniformarsi alle norme morali di qualcun altro a tutto detrimento del suo essere singolare.
Nella logica del destino le leggi valide per tutti diventano il fondamento sul quale viene vissuta la vita vera e propria. La comunità ha il diritto di esigere dall’individuo solo il pieno rispetto della libertà di tutti, e la legge può solo fissare il male comune che va evitato da tutti. Il bene della vita non lo si può né stabilire né comandare con leggi generali, perché è del tutto diverso per ognuno e dipende dai talenti che variano da persona a persona. Dedicare la vita ad allevare figli può essere un bene per me, ma non altrettanto per un Garibaldi che aveva altro da fare in giro per l’Italia e per il mondo.
Di ogni evento vissuto in comune sono sempre più importanti gli echi interiori individuali, le singole reazioni, i pensieri originali che lo accompagnano. Anche nell’incontro è così: due persone si possono davvero incontrare solo se i due modi di vivere l’incontro sono del tutto diversi l’uno dall’altro. Se si uniformassero, l’incontro si trasformerebbe in un monologo, vorrebbe dire che uno dei due si sta annullando nell’altro.
«Io ti cambierò»!
Una delle maggiori pestilenze che ingenerano morìe nei rapporti è la tendenza a volere a tutti i costi “cambiare” l’altro. In questo modo non ascoltiamo né il suo corpo, né la sua anima, né il suo spirito. Animati dalle migliori intenzioni – quelle, per intenderci, di cui pare sia lastricata l’anticamera dell’inferno – arriva il momento in cui stabiliamo che il nostro amico, o il parente, o chiunque sia, così com’è non va proprio bene e, dunque, deve cambiare. Il tribunale apre le porte, entra il giudice in toga e tocco, si siede sullo scranno, il martelletto batte sulla cattedra e si dà inizio al processo.
Quando giudichiamo l’altro, invece di un incontro viviamo uno scontro. Uno accusa, l’altro si difende. Quando sindachiamo su quello che l’altro fa lediamo la sua libertà. Non c’è l’intento di capirlo, o magari di aiutarlo a correggere un’impostazione di pensiero: si vuole cancellare una sua espressione di vita.
Essere spregiudicati, invece, significa eliminare la via del giudizio morale e intraprendere quella che porta a ripercorrere la genesi dell’altro, la sua creazione di sé, abbracciandone il passato per capirlo oggi, e incontrare il suo essere veramente. È un’arte.
Ognuno ha il diritto di essere com’è per il semplice fatto che è così e non altrimenti. E quando deciderà lui stesso di cambiare, diverrà diverso perché lo vorrà e lo potrà. Dire ad un altro come “dovrebbe” essere, implicitamente significa dirgli: tu, così come sei, non sei.
Se guardiamo all’umanità intera, ci viviamo immersi in un cammino evolutivo che ci raccorda tutti nell’andamento lineare del tempo, ma ci vede sparsi nelle mille e diverse strade che ognuno percorre nello spazio delle sue esperienze. Ogni posizione è legittima, e per ogni posizione ognuno, prima o poi, deve passare, per percorrere e far sua l’interezza dell’umano.
La posizione che l’altro mi porta incontro, posso pensare allora di averla già vissuta io stesso o di doverla vivere in futuro. Di fronte all’altro posso provare a dirmi: ecco, così sono stato anch’io. Oppure: ecco, così sarò io stesso, nel futuro. Nulla dell’umano mi è estraneo, ed ogni passo evolutivo è ciò che l’Io di ognuno vuole per sé.
Certo, può ben succedere che l’altro ci diventi insopportabile, così com’è; mica siamo santi. Ma allora gli si può sempre dire: senti, amico, vai ad essere come sei da un’altra parte, e io rimango come sono, da quest’altra parte. Quando io sarò cambiato e mi sentirò in grado di pigliarti come sei, tornerò. E ti dirò: non solo ti capisco, ma ti voglio nella mia vita così come sei.
Nel proprio destino ognuno è ciò che è, con il compito di andare sempre avanti. Ma può farlo solo cogliendo la bontà assoluta del suo punto di partenza e di quello degli altri. Nessuno ha mai bisogno di essere diverso o migliore, perché ognuno vuol godere di diventare diverso, e migliore.
Chi vuol “migliorarmi” secondo il suo criterio mi costringe a difendermi per quel che sono, e ottiene l’effetto opposto: mi irrigidisco nelle mie posizioni, e proprio per ribadirle, mi fermo. Chi invece mi accetta così come sono, m’invoglia a non restare così, ma a diventare sempre migliore.
Non è possibile accogliere l’altro a pezzi: da qui a qui mi vai bene, il resto puoi pure buttarlo. L’accoglienza o è incondizionata, o non c’è.
Paradossalmente, ogni decurtazione dell’essere dell’altro è il risultato di un piccolo suicidio che prima abbiamo perpetrato contro noi stessi. Chi non ama la totalità del proprio essere, porta in sé le ferite dell’autonegazione e tende a ripetere con gli altri il rapporto negativo che ha con se stesso.
Non c’è persona più intollerante di chi non accetta se stesso, di chi non sa che il destino è sempre il meglio che a ognuno possa capitare. Se amiamo ciò che ci capita, quando incontriamo una persona impossibile, ce la godiamo non meno di ogni altra. E come si fa? Lasciandola essere così com’è.
C’è chi obietta: “Ma questa persona non mi lascia in pace, mi condiziona terribilmente, invade il campo della mia libertà!”. Supponiamo che sia vero: però, se io dipendo dal fatto che l’altro cambi, non faccio che raddoppiare il mio condizionamento. Oltre ad essere condizionato da me stesso, lo sarò anche da lui. Se invece considero benvenuti gli ostacoli che lui mi pone, non ho che da dedicarmi al loro superamento. Non è detto che sia facile, ma si sa che le imprese ardue sono quelle che danno più soddisfazioni.
Che l’altro stia vivendo una malattia, che passi un periodo di gioia o di depressione, che sia nervoso o tranquillo, io non ho che da prenderlo così com’è. Se sono capace di adattarmi, non ho più bisogno che lui sia diverso. L’accettazione senza riserve nasce insieme alla consapevolezza che non si ha mai bisogno di cambiare l’altro. Se si ragiona con spregiudicatezza si può constatare che non c’è mai nulla che non vada bene così com’è, qualora si sia in grado di farne il meglio. Il problema è forse che preferiremmo non aver nulla da fare.
Accettare i diversi gradi di profondità negli incontri
Ci sono diversi gradi di profondità nei rapporti umani e l’arte dell’incontro consiste anche nel capire e nell’accettare il livello che è connaturale ad ogni relazione. La prima cosa da osservare con spirito di oggettività è ciò che risulta dall’intenzione delle due persone. Mettendo in secondo piano le proprie aspettative, ci si lascia dire dall’incontro stesso che cosa esso permette e che cosa no, fino a che punto quella persona, in questa precisa situazione e in questo tempo, può o vuole arrivare nella comunicazione di sé.
Mi apro all’incontro quando in me non c’è nessun preconcetto, nessuna rappresentazione precostituita che voglia stabilire a priori come il rapporto deve essere, ma vive l’intento sincero di coglierlo in ciò che veramente è.
L’importanza di un incontro non si esprime nella quantità del tempo fisicamente condiviso. Altrimenti, facendo il computo delle ore, dovrei dire che il collega di lavoro che siede alla scrivania di fronte alla mia, tutti i giorni per otto ore di fila, è più importante di mio figlio che studia all’estero e che vedo tre volte all’anno.
Eppure, anche questi risvolti esteriori hanno la loro importanza. Se è vero che la profondità di un rapporto dipende dal cuore e dalla conoscenza reciproca, la sua intensità dipende però anche dal grado di completezza che si ha nella percezione dell’altro. Quando ho davanti a me l’altro in carne ed ossa, tutto di lui mi è percepibile, non mi manca nulla del suo essere. Quando l’interazione avviene per mezzo del telefono, la mia percezione è già ridotta al minimo. Se due persone entrano in contatto fra loro e s’innamorano via e-mail, ci si può chiedere che cosa l’uno percepisca dell’altro. Nei così diversi livelli d’intensità di rapporti che questi tre esempi propongono, possiamo inserire tutte le altre gradazioni immaginabili.
Quando l’altro è presente visibilmente con la sua persona, il mio essere viene esposto non solo alla percezione tramite i sensi fisici, ma viene anche avvolto da tutte le forze psichiche e spirituali che sono in lui. Quando lo sento al telefono, di lui non percepisco neppure il vibrare reale della voce, perché viene tradotta in impulsi elettromagnetici e poi artificialmente ricostruita. Però deduco ugualmente il suo stato d’animo, e posso ragionare direttamente con lui anche su questioni di grande importanza.
E quando comunico con l’altro solo via e-mail, o con lettere battute a macchina? Non ho di lui alcuna percezione fisica: nemmeno quella della grafia che, in una lettera scritta a mano, dice molto della persona che scrive. Quando leggo qualcosa scritto di pugno da un altro, posso intessere una relazione con i movimenti grafici che traggono origine dalla sua volontà, il cui carattere del tutto individuale si rende visibile nella scrittura. Nessuna grafia è infatti uguale ad un’altra. Posso percepire il tremolio della mano di una persona anziana, la scrittura sicura e veloce di un collerico che ben conosco…
La parola a caratteri di stampa, tutti uniformi e meccanizzati, abolisce ogni traccia di ciò che è personale e pone al centro il contenuto oggettivo, il significato astratto. Dell’altro in quanto persona vivente e unica non percepisco più nulla: congiungo magari ciò che leggo con delle rappresentazioni, delle immagini, che sono sedimentate nella mia memoria, sorte in base a incontri avuti nel passato, ma che non sono in grado di dirmi chi egli sia, e come stia adesso.
Continuo ad avere a che fare con l’identità del suo io, che ovviamente è sempre lo stesso, ma non sono più in relazione col mondo della sua anima, che per natura è in continuo mutamento. Essere esposto all’animo dell’altro quale era ieri e sentirlo quale è oggi, potrebbe somigliare all’enorme differenza che c’è tra il cielo sereno e un tempestoso temporale.
L’arte dell’incontro è l’arte delle sfumature. La musica e la pittura non sono solo i sette colori e le sette note, di per sé sempre uguali; l’esperienza artistica sta tutta nei loro infiniti modi di combinarsi e unirsi, che dà vita a mondi tutti diversi l’uno dall’altro.
In che modo incontro l’altro quando leggo un libro che ha scritto? L’autore, con i suoi pensieri, può certo influire sui miei, forse anche profondamente, ma mi lascia libero nelle mie reazioni più che in ogni altro tipo d’incontro. Decido io quando e come espormi ai contenuti del libro, posso rileggere più volte un passo per me significativo, come posso lasciare il libro a metà. Non ho a che fare direttamente con la persona dell’autore – che di solito non conosco – ma con una sua manifestazione del tutto oggettivata, ormai separata dalla sua origine.
E che tipo d’incontro avviene quando guardo la foto di una persona cara, o quando vedo qualcuno alla televisione o al cinema? Può dirsi incontro quello con una persona di cui vedo l’immagine? E le ulteriori immagini che dentro di me prendono corpo – immagini di ricordo, di desiderio, di fantasia, di sogno – provengono realmente dalla persona che vedo sullo schermo o sulla foto?
Oppure capita che un amico ci parli di una persona che non conosciamo. L’amico ce l’abbiamo davanti in carne ed ossa mentre l’altro ci viene presentato con una descrizione: è un vero incontro anche col terzo? Oppure, mentre siamo seduti tranquilli in poltrona, una persona cara, magari già morta, riemerge nella nostra memoria: incontriamo così i ricordi che abbiamo di lei. E lei, la incontriamo[9]?
Se una persona entra nella nostra vita delicatamente, come un lieve soffio, perché volere che sia una presenza incisiva, se non ne esistono i presupposti? E perché, invece, trascurare il fatto altrettanto oggettivo che quel collega di cui parlavamo prima stia seduto davanti a me per otto ore al giorno? La sua presenza continua e a pieno campo avrà pure un senso nella mia vita, se ne ho un’esperienza così intensa. A nulla vale che io stia lì (sempre per restare nello stesso esempio) a lamentare l’assenza di mio figlio ignorando il valore della presenza di chi mi sta davanti. È come se in nome dell’impossibile sottovalutassi il possibile. Il destino mi pone lontano un rapporto profondo e me ne mette sotto il naso uno intenso: l’attenzione serve ad accoglierli entrambi, evitando di chiedere all’uno quello che può dare l’altro.
I rapporti possibili e quelli impossibili
Quando vorremmo frequentare delle persone che “non ci vogliono”, quando vorremmo essere presenti in qualche attività che altri conducono senza chiederci nulla, quando sognamo una moglie o un marito che non abbiamo…, noi stiamo dando voce alla madre delle due sorelle gemelle che abbiamo già incontrato (la brama e la paura): è la pigrizia.
Può sembrare strano chiamare in causa la pigrizia in un mondo come il nostro, così frenetico e convulso. Ma è proprio lei a farci desiderare l’impossibile: l’impossibile, infatti, è comodo, perché in esso troviamo la scusa per non fare nulla. Viviamo in un mondo illusorio dove ci sistemiamo al riparo da ogni responsabilità reale. Ci pare di essere pienamente occupati nel tendere all’impossibile, e perciò molto attivi. Nel mondo dell’impossibile accadono vicende fasulle, inutili acrobazie della mente, sprechi debilitanti della volontà.
Il possibile, invece, è la nostra palestra vera dove bisogna star svegli: c’è il rischio, nulla è sicuro, è un continuo banco di prova. Però rafforza l’ingegno, scalda il cuore, e quando diciamo: «Voglio far questo e quest’altro», nel mondo del possibile lo facciamo davvero.
Se mi dedico veramente ad un incontro che mi riguarda, pur tra mille difficoltà arriverò al successo, cioè al positivo dell’incontro, perché quel positivo voglio raggiungerlo. L’impossibile, invece, è destinato all’insuccesso perché non si lascia raggiungere mai. Il mondo attorno a me, infatti, si oppone al mio impossibile, mentre al possibile fa festa.
Nei rapporti, l’impossibile ci fa dire menzogne, il possibile parla il linguaggio della verità. L’impossibile è avaro e improduttivo, paralizza e desertifica. Il possibile, invece, è generoso e annuncia sempre altre possibilità.
Tendere ad una relazione impossibile – che sia affettiva o di lavoro o d’altro genere ha poca importanza – ci rende invidiosi, perché il nostro impossibile è il possibile di qualcun altro. I rapporti che invece sono realmente nel nostro destino sono tutti sicuramente propizi e ci arricchiscono. In fondo, non accettare gli incontri della propria vita e cercarne altri “migliori” è come volere l’estate in autunno, è come trascurare la semina quando è possibile, sperando in un impossibile raccolto. Viviamo fuori luogo e fuori tempo, mentre il possibile compare sempre al posto giusto e nel momento giusto.
L’arte del litigio costruttivo e della riconciliazione
Ogni litigio ha il suo significato in un rapporto e perciò ne possono, anzi, ne dovrebbero derivare sempre dei risvolti positivi. Una relazione è sana, è una palestra di crescita, quando sorgono sempre nuove difficoltà che, prima di trovare la loro risoluzione, ogni tanto possono dar luogo anche a qualche bufera.
Il litigio diventa un problema quando lo riteniamo negativo in partenza, quando pensiamo che sarebbe meglio se non ci fosse. Invece può essere una spinta a crescere non meno importante di altre. Quando si tratta di fare una scelta di rilievo e non riusciamo proprio a metterci d’accordo sulla direzione da prendere, che cosa avviene? Non sempre si può evitare una litigata, né in ogni caso è meglio evitarla.
Se uno dei due, specialmente in un rapporto di coppia, assume il ruolo di chi per amor di pace cede sempre e si adegua, col passare del tempo la situazione diventerà del tutto insopportabile. Ciò costringerà a una rottura radicale che si poteva forse evitare avendo il coraggio di litigare più risolutamente.
Si litiga quando non c’è da entrambe le parti la capacità di essere sufficientemente oggettivi e imparziali nel giudizio, equanimi e spassionati nel sentimento, amorevoli e solidali nelle decisioni della volontà. Ma chi di noi è così bravo su tutta la linea? Perciò ogni lite può trasformarsi in una provocazione a lavorare ulteriormente su di sé. Più ognuno fa questo tipo di ragionamento e più il rapporto diventa agile, con meno bisogno di scontri.
Una lite non si risolve fintantoché ognuno intima all’altro di guardare ai suoi torti, con il risultato che nessuno si muove. Si lavora alla risoluzione di una lite quando ognuno si sforza di guardare se stesso.
La riconciliazione è l’approdo positivo di ogni diverbio. Ma non è detto che il desiderio di riconciliarsi sorga in entrambi nello stesso momento. Supponiamo che io mi sia adirato con l’altro e che la collera mi sia ormai sbollita: ho riconosciuto le mie rigidità, gli errori, eccetera, eccetera. Sono desideroso di rappacificarmi con lui, ho una gran voglia di raggiungerlo per dirgli: ma su, dai, non ci pensare più, non l’ho fatto apposta, ho un po’ esagerato…
Parto deciso alla riconciliazione, che voglio qui e ora. Ma siccome per una vera rappacificazione ci vogliono due persone, incasso un bel no secco. Pur avendo voglia di far pace subito, se l’altro desidera “godersi” la sua collera ancora per un po’, devo saper aspettare.
Ognuno ha bisogno delle sue arrabbiature e ha i suoi tempi per smaltirle. Un’eventuale forzatura può rendere il rapporto notevolmente più difficile. La conoscenza dell’altro serve proprio per sapere quando è giunto il momento giusto per lui. Ma dev’essere una conoscenza reciproca perché, se tira troppo la corda, quando lo vedrò desideroso di riconciliarsi, potrebbe ritornarmi la voglia di farlo attendere ancora!
Chi mi viene incontro cerca una restituzione
Quando vedo l’altro manchevole in qualcosa posso chiedermi: non sarà che a lui manca questo aspetto dell’umano per il fatto che è stata data a me anziché a lui l’occasione di conquistarlo? Se vogliamo essere gli uni diversi dagli altri, dobbiamo anche accettare che le possibilità evolutive non siano contemporaneamente le stesse per tutti, ma che esista una differenziazione distributiva operata dal destino individuale.
E posso ancora chiedermi: per quale motivo quella data mancanza del mio amico si evidenzia nel rapporto con me, anziché con qualcun altro? Forse, se mi viene incontro con la sua lacuna, è perché spera di ottenere da me quel che cerca. Visto così, ogni incontro diventa uno scambio di doni, è come un’incessante restituzione che si compie nella gratitudine verso ciò che manca all’altro. Ogni mancanza è stata a suo tempo una rinuncia a favore di qualcun altro, operata dalla coscienza più vasta del suo Io, capace di tener conto dell’intero organismo dell’umanità.
Supponiamo che esista al mondo una maestra che sia oggettivamente la migliore di tutti, un genio assoluto in fatto di pedagogia. Quanti bambini si possono avvalere del suo insegnamento? Duecento, forse trecento nell’arco della vita lavorativa di questa maestra. E tutti gli altri miliardi? Devono rinunciarci. Ma verrà forse un tempo in cui ognuno di questi allievi privilegiati si sentirà dire dagli altri: “Tu hai goduto di grandi vantaggi grazie alla bravura di quella maestra. Perché l’avessi tu, ho dovuto rinunciarci io. Adesso restituiscimi qualcuno dei doni che hai ricevuto, rendimi partecipe della tua ricchezza!”
Ogni incontro umano è uno scambio di doni è un’occasione per far rifluire negli uni e negli altri tutte le forze di crescita che appartengono all’organismo dell’umanità. Ciò vale anche per i difetti. Nella lingua italiana un sinonimo della parola “difetti” è mancanze (“difetti”, del resto, viene dal latino deficere, che significa mancare); essi rappresentano l’assenza di qualcosa, per cui basta colmare quel vuoto e tutto va bene. Posso addirittura dirmi: meno male che tante cose mi mancano, altrimenti non avrei nulla da fare. I talenti che ho già conquistato sono il mio debito verso gli altri; i miei difetti sono tutti talenti da conquistare, costituiscono la somma delle mie possibilità evolutive, sono il mio credito nei confronti degli altri.
L’accettazione incondizionata nell’incontro fra persone è lo sguardo dell’amore che vede le mancanze come tante sfide a crescere oltre. L’altro cerca da me ciò che gli manca; quel che manca a me lo ricevo incontrando lui.
Stadi evolutivi dell’accettazione dell’altro
Rudolf Steiner descrive quattro livelli di profondità dei rapporti, che rappresentano altrettante conquiste aperte alla libertà umana. Il primo consiste in un’osservazione approfondita della realtà esteriore dell’altro, un esercizio percettivo teso a vedere nella fisionomia l’immagine fedele del suo essere spirituale. L’apparenza fisica, resa trasparente come un negativo, rimanda allo spirito che ha plasmato quel corpo a immagine di sé. La fisionomia dell’altro viene allora vissuta come l’opera d’arte suprema del suo Io eterno.
Quando la visione della fisionomia dell’altro si fa contemplazione del suo spirito, questo evento tutto interiore si riversa nella corporeità di chi contempla facendo sorgere un’esperienza di calore. Anche al livello spontaneo, del resto, quando vogliamo descrivere un incontro, tendiamo a definirlo “caldo” oppure “freddo”; se ci lascia indifferenti diciamo: non mi fa né caldo né freddo.
Il calore che compenetra la nostra corporeità di fronte all’Io dell’altro è espressione dell’amore spirituale. Quando si fa un’esperienza di freddo, vuol dire che ci si è fermati in superficie, che l’anima è arretrata di fronte a una prova difficile e la fisionomia esterna fa da muro impenetrabile all’incontro dello spirito dell’altro.
Il rapporto forse più arduo di tutti è quello che non ci fa né caldo né freddo, perché lì vuol dire che si sono scambiati pochi doni nel passato e non c’è né particolare amore né vero odio. L’odio, si sa, è una gran brutta esperienza, ma sicuramente l’altro non passa in questo caso inosservato, esiste, eccome!, nella nostra interiorità. L’indifferenza indica invece un rapporto ancora tutto da costruire, senza nessuna spinta emotiva che faccia da supporto. È più facile che la coscienza ordinaria ometta ogni sforzo proprio quando l’Io dell’altro sta chiedendo una particolare generosità.
Il secondo ideale lungo la via che conduce a una sempre maggiore intensificazione dei rapporti, viene vissuto attraverso il linguaggio. L’attenzione si sposta dalla fisionomia dell’altro al suo modo del tutto unico di riversare all’esterno la sua interiorità tramite la parola. Non è tanto importante il contenuto oggettivo di ciò che l’altro dice, quanto come lo dice, perché lì si manifesta la fisionomia vibratile, in continua metamorfosi, della sua anima. Il corpo è l’immagine costante dell’Io che resta uguale a se stesso nel tempo; la parola è la fisionomia dell’anima, e questa vive di sfumature sempre nuove, di ritmi, d’incessante movimento.
Il contenuto intellettuale e oggettivo di ciò che l’altro dice è l’elemento meno importante per capire il suo animo nella sua unicità. Il significato astratto delle parole è lo stesso per tutti; invece, quando durante il dialogo poniamo particolare attenzione alle sfumature dell’anima quali si effondono sulle ali delle parole, incontriamo l’altro entrando nel sacrario del suo cuore.
Due persone possono dirmi la stessa cosa, ma l’esperienza che faccio è del tutto diversa. Le stesse parole una le fa sgorgare dalla sua libertà, l’altra le dice automaticamente. Nella prima persona vive forse il genio della lingua, e lo si percepisce dalla creatività che immette nella scelta delle parole, nell’intonazione, nel discorso che ha un andamento organico, simile a quello di una pianta che cresce, foglia dopo foglia. C’è armonia e fecondità, e i frutti di questo parlare sono nutrienti: è un parlare che germina di volta in volta in nuove e originali specie.
L’automatismo proviene invece dal demone del linguaggio, che lascia parlare la lingua come vuole, senza che l’uomo ci metta niente di suo. Procede per concetti sistemati l’uno dopo l’altro come mattoni prefabbricati. Chi parla senza creatività viene posseduto dal linguaggio stesso con tutte le sue frasi fatte, i modi di dire, le meccaniche associazioni di idee. Si avverte che quel parlare non ha in sé forze di sviluppo proprie, ma consente solo aggiunte, giustapposizioni, anche intrusioni del tutto estranee alla natura del discorso – né più né meno di come posso accatastare uno sull’altro oggetti inorganici, anche senza alcun rapporto fra loro. Dal modo di parlare di una persona mi accorgo se mi viene incontro quale artista del linguaggio, oppure se il linguaggio stereotipato fa di lui una specie di medium.
Come la fisionomia dell’altro può suscitare in chi la percepisce un’esperienza di calore, così il suo parlare può generare in chi ascolta con attenzione un’esperienza paragonabile al colore. Vivendo il modo in cui l’altro parla, sentendo l’animo che vibra nelle parole, possono sorgere in chi ascolta esperienze cromatiche: la qualità del rosso, il timbro del blu, la tonalità del giallo… Sono il colorito della sua anima.
Il terzo gradino di approfondimento dei rapporti, continua Steiner, rappresenta l’ideale di un lontano futuro. C’è in ogni uomo la chiamata a vivere in sé i sentimenti reali dell’altro fino al punto di sentirne l’influsso fisiologico sul proprio sistema respiratorio. Ciò significa che in futuro una data persona potrà provocare in noi un’accelerazione del respiro, un’altra lo rallenterà, una terza ci farà respirare armonicamente. La comunicazione e la comunione fra due persone potranno diventare così intime e così profonde da agire sull’organismo fisico dell’altro, a suo danno o a suo beneficio.
I primi annunci di questa possibile intensificazione dei rapporti sono già alla portata della nostra esperienza. In fondo molte volte diciamo: quella persona mi asfissia, mi toglie il respiro, mi mette ansia… con te respiro invece aria buona. Sono tutte espressioni relative a stati d’animo, a sensazioni che oggi hanno poco a che fare con la coscienza; ma possiamo farci un’idea di dove ci portano questi scambi fra uomo e uomo lungo il cammino che fa sempre più dell’umanità un unico organismo.
Il quarto grado di intensità dei rapporti umani riguarda gli impulsi volitivi, gli intenti e i progetti di vita che vivono in ogni uomo. Nell’incontro, essi agiranno direttamente sul metabolismo dell’altro. Mi troverò a vivere dentro di me, come fosse un nutrimento fisico, quel che l’altro vuole realizzare insieme a me. Le sue intenzioni opereranno in modo analogo al cibo che mangio e digerisco. L’altro uomo, l’incontro con lui, diventa a lungo andare la cura ricostituente più salutare che ci sia.
Anche qui il linguaggio ha già delle espressioni che accennano a queste mete evolutive: il mio capufficio non lo posso proprio digerire, m’è rimasto sullo stomaco fin dal primo giorno… lavorare con te, invece, mi fa bene, mi sento rinvigorito. S’intende dire che c’è un tipo di rapporto dove io assimilo l’altro veramente – a livelli ora del tutto inconsci ma fisiologicamente reali e destinati a diventare sempre più coscienti – e ce n’è un altro dove faccio fatica a digerirlo perché tutto il mio essere lo rifiuta.
Nel futuro, quel che ci proponiamo di realizzare insieme, ciò che l’incontro fa sorgere nelle nostre forze di volontà, deciderà del nostro benessere o malessere fisico, della robustezza o debolezza della nostra corporeità. La volontà di ogni uomo potrà influire direttamente sulle forze vitali dell’altro, come un nuovo tipo di nutrimento, materiale e spirituale ad un tempo.
Quinto capitolo
INCONTRARSI
negli ideali comuni
I legami di sangue: rapporti che aprono o che chiudono?
L’ipnosi del sensibile, tipica del modo di vivere materialistico contemporaneo, fa da padrona anche negli incontri. Spesso ci impedisce di andare oltre l’esteriorità dell’altro per cogliere la sua dimensione spirituale, che è l’origine e la spiegazione di tutto ciò che di lui diventa visibile. E per esteriorità non s’intende solo il corpo fisico, ma anche ciò che una persona possiede economicamente, le sue realizzazioni tangibili, traducibili in termini di successo, posizione sociale, potere; anche i rapporti di parentela che, appunto, vengono chiamati “legami di sangue”. Appartenere ad una data famiglia può essere discriminante in positivo o in negativo nel vivere le relazioni. Lo stesso vale per il popolo o la razza.
Naturalmente ogni tipo d’incontro può rischiare la chiusura: l’abbiamo visto in relazione alla vita di coppia. Ma potremmo osservare anche un altro ambito interessantissimo, quello dei rapporti di sangue, o di nascita. Genitori e figli, fratelli e sorelle, nonni e parentela varia.
Sono i primi ad accoglierci quando veniamo al mondo e ci accompagnano per tutta la vita. Un’amicizia si può sciogliere, un matrimonio pure, le collaborazioni di lavoro possono sorgere e dissolversi, ma i parenti saranno sempre quelli e niente potrà cambiare questo stato delle cose. In aggiunta, la scienza vede nella famiglia il luogo di eredità genetica che trasmette la vita, e la legge, attraverso la codificazione della successione ereditaria dei beni materiali, perpetua, rafforza e tramanda il vincolo di generazione in generazione.
I legami di sangue rappresentano anch’essi un tipo di rapporto, ma la nostra coscienza ordinaria non può fare l’esperienza di sceglierli: se li ritrova tutti intorno, già belli pronti e definiti. Ancora oggi il nucleo familiare può costituire per i singoli componenti come un’unica corporeità allargata; una specie di clan, di gruppo unito dal sangue che pone il sigillo della reciproca appartenenza.
Andando indietro nel tempo, il sangue determinava addirittura tutti gli incontri, al punto che ci si sposava solo fra consanguinei. I cosiddetti rapporti scelti liberamente sono un’acquisizione piuttosto recente dell’umanità.
Insomma, i legami di sangue presentano a tutta prima un certo carattere di chiusura, di non libertà. Sembra quasi una contraddizione cominciare così questa vita che poi per ciascuno di noi acquista senso proprio facendo perno sulla libertà. A guardare meglio, il compito della famiglia è proprio quello di porre le basi idonee – ben determinate da chiare leggi – su cui poggiare i piedi per poi camminare verso l’autonomia.
La famiglia, oggi, non costituisce più una contiguità vincolante come una volta e si tende, nel tempo, a trasformare i rapporti immettendo in essi, come conquista, la dimensione della libertà. Ma dove compare la libertà, compaiono (e per fortuna!) anche gli squilibri, le unilateralità, gli eccessi. Frasi come: “Io sono il miglior amico di mio figlio” – e magari il figlio ha dodici anni – erano impensabili e impronunciabili fino a cinquant’anni fa, e la dicono lunga sulla grande difficoltà che incontra il genitore moderno.
Essere amici dei figli è una gran bella cosa quando abbiano ormai raggiunto la maturità: è davvero una conquista dei nostri tempi il dialogo da Io a Io. Ma è un disastro proporsi come “amici” se sono adolescenti o ancora più piccoli. Spesso questo rapporto che vorrebbe scavalcare la responsabilità dell’autorità, è un’implicita dichiarazione di sfiducia nella propria capacità di guidare e indirizzare, ed è anche un improprio appello alla libertà del figlio che, anagraficamente, ancora non può esserci.
È paragonabile al padreterno che cominciasse a chiederci: a che ora preferite che io faccia sorgere il sole, domani? L’Everest lo gradite un po’ più basso? E che ne dite di un’acceleratina ai processi metabolici, così vi sentirete tutti più in forma?…
Non avendo noi alcuna conoscenza della grandiosa saggezza che occorre per tenere in salute il nostro corpo e quello del mondo, da una parte scombineremmo subito i ritmi di natura con le nostre richieste e dall’altra vivremmo un sentimento diffuso di incertezza, d’inaffidabilità del mondo intero.
Parlare, ragionare su tutto il ragionabile, ascoltare e dedicare tempo alle espressioni dell’anima dei figli[10], e manifestare le proprie, è sacrosanto. Ma fare di questa intimità un’occasione per condividere col figlio piccolo, o adolescente, le proprie decisioni, le debolezze, le incertezze, le insoddisfazioni, le faccende e le preoccupazioni di famiglia, è un venir meno alla qualità specifica del rapporto che deve saper proporre affidabilità e fiducia a pieno campo.
Il rapporto genitore-figlio è quello più adatto per offrire all’essere umano sia l’esperienza reale del limite, dell’obbedienza, della guida dall’esterno, sia, successivamente, l’esperienza del loro superamento. Ma è bello viverli tutt’e due questi stadi, uno dopo l’altro.
Privare il proprio figlio della percezione forte e formativa di una cura amorevole ma anche salda, che decide e indica il da farsi senza tentennamenti, senza trattative e sollecitazioni di amichevoli pareri, è privarlo dell’esperienza fondamentale dell’aver fiducia assoluta in qualcuno. La forza della fiducia incondizionata vissuta da piccoli nei confronti del proprio genitore o del maestro è la stessa forza che potrà rivolgere verso se stesso per essere autonomo e libero, domani.
I figli hanno bisogno di affidarsi, di sentirsi protetti e contenuti, di fare i bambini quando sono bambini e gli adolescenti quando sono adolescenti, accanto a due adulti che siano veri adulti. Da questo dipende il futuro della loro saldezza interiore.
Chi collega più, oggi, il vecchio modo di fasciare i neonati con il rafforzamento delle forze volitive, che alla nascita si manifestano esclusivamente nel movimento? Quel tenero eppur reale contrasto che le fasce offrivano, prima delicata palestra dell’umano, oggi è scomparso e ci fa piacere vedere i piccolini sgambettare tra un pannolone e l’altro, come se li avessimo liberati da qualche tortura. Ma ne siamo proprio sicuri?
La volontà debole, la mancanza di fiducia in sé, l’intolleranza e l’atteggiamento critico di molti giovani, hanno non poca relazione con le più svariate ansie e paure che i loro genitori hanno cercato di vincere in se stessi spianando loro ogni strada, annunciando un mondo facile, che invece facile non è.
I fenomeni diffusissimi di dipendenza dei figli dalla famiglia anche in età adulta, accompagnano molto spesso queste premesse educative. Figli che “rimangono a casa” ancora a trenta, quarant’anni, o, all’opposto, figli che se ne vanno giovanissimi allo sbaraglio, in nome di una libertà mal costruita e sollecitata troppo presto: rimangono dipendenti seppure a distanza, e la famiglia è costretta a intervenire, economicamente e non solo, per riparare i danni.
Ogni rapporto è bello se invece di legare libera. Ciò vale anche per i rapporti familiari, che sono i legami indissolubili per antonomasia. La famiglia, che più d’ogni altra comunità porta in sé un elemento intrinseco di chiusura e di non-libertà legato alla “carne”, proprio per questo è anche il luogo primario dove nasce l’aspirazione alla libertà.
L’adulto è adulto quando capisce, vuole ed ama la condizione di dipendenza del figlio piccolo, affinché questo stesso figlio raggiunga al tempo giusto libertà e indipendenza. Sarà allora la libertà stessa a costituire il vero legame indissolubile – nella famiglia e altrove –, proprio perché la libertà non lega affatto e ciò che vive lo vuole.
Allevare ed educare figli era la cosa più naturale di questo mondo, fino a pochi decenni fa. Niente di strano, allora, che oggi, epoca in cui la voglia di libertà fa irruzione nelle consuetudini umane più radicate, proprio la famiglia presenti nel suo seno le più interessanti disfunzioni e destabilizzazioni. La libertà sta facendo lì i suoi più disparati “esperimenti”. Ciò significa che anche gli incontri di sangue vogliono essere riconquistati con una coscienza che non si affida più alla tradizione, ma cerca nuove consapevolezze su cui rifondare la realtà e il senso oggettivo di questi legami.
L’essere insieme “contro”: una brutta trappola
La grande tentazione di tanti rapporti è quella di vivere insieme estraniandosi dal mondo. Ciò avviene sia quando si vive l’esperienza dell’essere “soltanto noi due”, del “quanto siamo importanti noi due”, sia in più ampi contesti di gruppo, ugualmente animati da un senso di forte appartenenza – che può essere culturale, religiosa, sportiva, di setta…
Questo comportamento “stretto” conduce inevitabilmente ad escludere il resto del mondo, cioè tutti coloro che non partecipano alla stessa comunanza. Quando si escludono gli altri, però, un po’ alla volta e senza accorgersene, ci si trova ad allearsi contro di loro. “L’essere insieme contro” diventa una vera e propria prigione comune perché, in questo caso, l’egoismo dell’uno viene rafforzato in modo esponenziale da quello dell’altro.
Ritrovarsi concordi contro gli altri – tanti, pochi o tutti – non può mai veramente unire, perché in un simile caso la forza di coesione non è quella su cui si fonda la vera comunione, e cioè l’amore, bensì l’avversione o il disprezzo, se non addirittura l’odio. E allora succede che quando scompare “il nemico comune” si sfascia il rapporto, che in realtà non è mai esistito, come non esistono i nemici comuni.
Le guerre sono sempre dichiarate dalle coscienze ristrette – ma politicamente ed economicamente potenti – di singole individualità al comando. E sono le coscienze altrettanto ristrette dei cittadini di una nazione ad andare poi in guerra, accettando il tragico ritornello che bisogna pur difendersi da chi ci odia o ci vuol fare del male. La forza dell’Io spirituale, in questi casi, agisce nel fondo delle coscienze perché gli eserciti marciano (o volano), ma il singolo soldato ne farebbe volentieri a meno.
L’essere solidali con qualcuno, nel nostro quotidiano, non si può fondare sulla componente emotiva dello schierarsi contro altri. La salute dei rapporti dipende moltissimo dall’essere erosi o no dalla malattia sotterranea del coalizzarsi a scopo di difesa. Noi viviamo troppo spesso con la tacita supposizione che gli altri siano contro di noi.
Se anche un essere umano fosse contro di me, io resto tuttavia libero di non essere contro di lui. Se l’altro addirittura mi odia, il suo odio non cambia me: cambia lui, diminuisce l’umano in lui, non in me. Il potere dell’odio di un altro su di me trova spazio solo se io glielo concedo. Certo che non sto lì a subire, ma quel che conta è il modo in cui reagisco: posso considerare le sue provocazioni come fossero un qualunque pericolo o a una malattia, senza odiare a mia volta.
Posso addirittura decidere di amare in modo particolare le persone che mi odiano, e questa è una posizione che non è affatto riservata ai cosiddetti santi, come fossero esseri umani diversi da noi. Quelli che noi chiamiamo sbrigativamente “santi”, sono solo persone che dei rapporti umani se ne intendevano molto.
Amare il nemico significa godersi quell’apertura della mente e del cuore che sa trarre i migliori frutti dai rapporti difficili. Significa mettersi nei suoi panni e guardare il mondo esattamente dalla parte opposta, che è proprio quella che vede lui. È il massimo dell’arricchimento, è il massimo dell’apertura. Non solo: se decido di non essere contro nessuno ma di vivere per favorire tutti, mi godo anche un cuore che resta libero da ogni minaccia.
La pace del cuore: l’arte di trovare sempre un accordo
Se considero una cosa da un certo punto di vista, non posso contemporaneamente guardarla anche da un’altra angolatura. Devo passare successivamente dall’una all’altra prospettiva, e la loro contemporaneità nella coscienza è dovuta alla memoria, al ricordo di ciò che ho considerato prima, ai pensieri che ho già pensato.
Le angolature dalle quali si può guardare la realtà sono infinite. È questo l’assunto del sano relativismo che non rende tutti i punti di vista falsi, bensì tutti parzialmente veri. Per essere d’accordo con un altro basta che io vada ad incontrarlo là dove lui è. L’arte ingegnosa d’incontrarsi con tutti consiste proprio in questo: nell’essere interiormente così flessibili da saper assumere l’ottica delle persone che di volta in volta incontriamo.
I disaccordi che sorgono negli incontri fra gli uomini provengono dalla parzialità della nostra coscienza, che ha ancora molta strada da fare. Ciò che io non vedo lo vede sicuramente un altro. Tutte le carte geografiche del mondo – prima dell’avvento dei satelliti – sono state compilate mettendo insieme ciò che migliaia e migliaia di persone avevano visto muovendosi nelle più disparate direzioni.
Ogni disaccordo nasce dal rimanere abbarbicati alla propria postazione di vita. Ma potremmo stupirci di quanto si possa far presto a mettersi d’accordo. L’espressione “concordare” o “essere d’accordo” rimanda al cuore – ad corda – che vuol dire “essere un cuore solo”. Il segreto nascosto in questa parola è che basta “prendere a cuore” l’altro per incontrarlo in ciò che gli sta a cuore e si è subito “d’accordo” con lui.
Per mettersi d’accordo è necessario che s’incontrino i cuori. Pensare che esistano questioni sulle quali non si possa mai arrivare ad un accordo è un errore è sempre possibile dire sinceramente, senza mentire, e in vera consonanza con l’essere dell’altro: sono d’accordo con te, nella misura in cui mi sforzo di entrare nell’orizzonte del tuo cuore.
Se qualcuno mi dice: “Ma prima tu eri d’accordo con me e adesso sei d’accordo con quell’altro!”, gli posso rispondere: “E perché no? Siamo tutti in cammino, e la meta finale è quella di accordarci tutti nel superamento di ogni conflitto e di ogni contraddizione”. Accordandoci con gli uomini uno dopo l’altro, li unifichiamo nel nostro cuore, finché col passar del tempo non mancherà più nessuno.
Incontri poveri, incontri ricchi
Più ci si addentra nelle varie specie di incontri e rapporti che esistono fra gli uomini, più appare evidente che non si esauriscono in se stessi, ma ricevono il loro valore reale in proporzione al grado di beneficio che apportano all’intero organismo umano. Nella prospettiva delle infinite ripercussioni che ogni azione umana avvia, possiamo ben dire che un buon rapporto favorisce anche il contesto sociale in cui si esprime e perciò, di onda in onda, porta beneficio all’intera umanità.
Ugualmente, danneggiarsi a vicenda non rimane un gesto morale isolato, ma di esso risente il resto dell’umanità, anche se lì per lì non ci pensiamo o ci sembra impossibile. Nel bene e nel male continuiamo a ragionare con la logica del materialismo che interpreta le realtà dell’anima e dello spirito come se fossero fisiche. E dunque ci pare che un’azione, buona o malvagia che sia, mantenga la sua forza fin dove ne è rintracciabile l’effetto diretto sulle persone fisicamente coinvolte; poi pensiamo che si esaurisca, né più né meno del moto impresso a una palla da biliardo.
Se invece prestassimo maggiore attenzione all’esperienza reale della vita, troveremmo mille esempi che ci dicono che la realtà morale di un’azione è tutta al livello dello spirito, vive nell’intenzione di chi la compie e non nella sua veste esterna. E le intenzioni non conoscono i limiti del fisico e tanto meno ne seguono le leggi: riverberano poi anche sul fisico (e meno male, altrimenti rimarrebbe tutto un’astrazione). Che io dedichi a un rapporto le mie forze migliori di creatività e benevolenza, non avvantaggia solo me e l’altro, ma per le vie dello spirito arricchisce il patrimonio di tutta l’umanità.
Un omicidio è perpetrato contro tutta l’umanità, non solo contro la singola vittima: l’atteggiamento interiore capace di cancellare l’umano che vive in una persona, è una dichiarazione globale di anti-umanità. Ma la mentalità materialistica si fissa sulla quantità, e parla di “crimini contro l’umanità” solo quando i numeri sono quelli spettacolari dell’11 settembre o dei genocidi.
Compiamo un ulteriore passo nella comprensione degli incontri e dei rapporti del nostro destino, quando cominciamo a sentirci responsabili in quanto “uomini”, non solo in quanto persone limitate nell’ambito della nostra specifica vita. “L’economia morale” dell’umanità è da sempre globalizzata, e la sua ricchezza o povertà proviene da tutti e riguarda tutti.
Chi incontro, io, in te? Se incontrassi soltanto te sarebbe un incontro povero, ma se attraverso te incontro l’umanità che hai dentro, allora è un evento di tutt’altra natura. Che cosa porti nella tua mente e nel tuo cuore venendo incontro a me? Se porti chiusure mi offri povertà, ma se hai in te un cuore che abbraccia tutti gli uomini, allora rendi ricco anche me. Nessun uomo è povero, perché lo spirito è pura ricchezza, però ogni uomo è libero di vivere da povero, se non sa che farsene di quella ricchezza.
L’amicizia
L’amicizia vera è la via d’accesso al ricongiungimento di tutti gli esseri umani gli uni dentro gli altri. Essere amici è riconoscersi fratelli senza il vincolo di sangue. L’amico lo incontro in un qualunque contesto sociale, ma da questo contesto ci emancipiamo tutti e due. È (o diventa) una persona verso la quale non ho interessi economici, politici o di settore, che non “mi serve” per le mie faccende di lavoro o di svago, non mi suscita pulsioni sessuali, non è funzionale a un qualsiasi mio fine particolare, ma accende in me l’autentica bellezza dello stare insieme. L’amicizia vera è pura condivisione dell’umano, com’è in sé e come poi si manifesta nei mille rivoli che diversificano un uomo dall’altro.
Non è amicizia quella esclusiva, che vive di gelose priorità, di ricatti e di privilegi. Non è amicizia quella fondata solo sulle reciproche confidenze, sul conforto, sul consiglio e sull’acquisizione di diritti. Non è amicizia, l’abbiamo visto, quella che si regge sull’isolamento e sul far fronte comune contro il resto del mondo.
L’amico vero non solo mi accetta così come sono nella mia unicità – e anche nell’esteriorità e unilateralità inevitabile delle mie vicende – ma incontra in me l’ideale stesso dell’uomo, quello che procede ed evolve nella sua veste terrena. E può farlo perché, nella relazione con me, al contempo vive se stesso nella medesima dimensione ideale. La parola “idea” – che in tempi come i nostri è quanto di più astratto si possa immaginare – viene dal greco èidomai (il video latino) che significa “sono visto”, “mi mostro”. Quindi l’idea e l’ideale indicano proprio l’essere, la concretezza piena e manifesta di ciò cui si riferiscono. Mio amico è colui che riesce a vedere l’ideale dell’umano quale si specifica in me.
È di enorme portata questo fatto: perché quando se ne fa l’esperienza – che non viene da sé, ma è rimessa alle nostre forze di libertà – trasforma profondamente chi la vive. Incontrare un vero amico significa avere l’occasione preziosa di unirsi nell’ideale umano che si scopre insieme, e questo evento produce una reale espansione dell’anima, che è la vera comunione. E caratteristica della comunione non è quella di essere a due, a tre o a quattro, ma di essere universalmente umana.
Ciò significa che seppure la vita, ovviamente, non mi permetterà d’incontrare tutti gli uomini del mondo, io li ho comunque e realmente raccolti in me nel sentimento dell’amicizia, e verso di loro volgo ed opero coi miei pensieri e con la mia volontà. Fare l’esperienza dell’amicizia è contemporaneamente capire e vivere l’amore disinteressato e incondizionato, nella sua sostanza effusiva. La stessa parola “amico” è imparentata con la parola “amore”. E l’amore vero non trattiene nulla per sé: vive nella gioia stessa di donarsi.
Gli amici si ritrovano fianco a fianco e scoprono che il mondo visto con occhi amici è diverso, ed è quello vero. Non solo gli uomini appaiono diversi, ma anche gli animali, le piante, le pietre, le stelle. Tutto diventa riconducibile all’umano, si avverte che il proprio essere si estende fin dove arriva questo amicale sentire, pensare e volere. E poiché per natura sua lo sguardo dell’amicizia non ha confini, sa cogliere in tutte le creature l’aspirazione a vivere le une per le altre, senza più contrapporsi.
L’amicizia vera è il rapporto più difficile fra gli uomini, il più importante, proprio perché è quello eminentemente libero. Tutti coloro che nella storia del mondo hanno operato e operano insieme a favore dell’umanità si chiamano l’un l’altro col nome di “amico”.
Gli amici uniti da ideali comuni sono in realtà uniti dagli uomini e agli uomini in carne ed ossa. Hanno trovato il senso della propria vita (l’ideale di sé), e l’hanno visto inscindibilmente unito alla vita degli altri e della Terra, e cioè a tutti gli ideali umani.
Se alla parola ideale sostituissimo la parola “uomo”, uomo in senso pieno, scopriremmo che “l’ideale sociale” sono io e i miei colleghi che cerchiamo di lavorare nel migliore dei modi in azienda, io e i miei concittadini che cerchiamo di convivere nel migliore dei modi in città…; io che cerco di risolvere nel migliore dei modi una controversia con qualcun altro; che “l’ideale della libertà” siamo tutti noi quando ci incontriamo nel migliore dei modi.
E nel migliore dei modi significa: da amici.
In uno dei passi più significativi del Vangelo di Giovanni (cap. 15, 12-15) il Cristo dice ai discepoli, e attraverso loro a tutti gli uomini: «Amatevi l’un l’altro come Io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di colui che offre la propria vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se vi amerete l’un l’altro. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quel che fa il signore; vi ho chiamato amici perché vi ho fatto conoscere tutto quello che ho udito dal Padre mio».
Il senso dell’evoluzione umana, la meta ultima verso cui tendono tutti i nostri incontri e tutti i nostri rapporti, è un mondo in cui non esistono più nemici e dove ogni uomo incontra nell’altro un suo vecchio amico.
[1] R. Steiner Tra destino e libertà, Archiati Edizioni 2008
P. Archiati Arrivederci alla prossima vita, Archiati Edizioni
[2] P. Archiati, Creare e vivere una nuova vita, Ed. Archiati
R. Steiner Introduzione alla scienza dello spirito, Ed. Archiati
[3] Sul tema del peccato originale, V. P. Archiati La tua biografia. Un capolavoro in cerca del suo autore – Ed. Archiati
[4] Su questo argomento, V. P. Archiati, L’Uomo e la Terra – Ed. Archiati
[5] A proposito delle tante scissioni della vita, V. P. Archiati, Equilibrio interiore – Ed. Archiati
[6] Molti scienziati attribuiscono origine fisica anche all’attività del pensare, astratto o concreto che sia. Considerando i pensieri più o meno come una secrezione del cervello, dunque come un fenomeno della materia. Però, in pratica, nessuno di noi sta lì ad interrogarsi più di tanto sull’origine del pensare. Usiamo il pensiero con soddisfazione, e questo ci piace. Sarà pure un “fenomeno che pensa”, certo è che ci sentiamo più liberi che in qualunque altra attività! Sul pensare vedi l’elenco testi a pag. 119
[7] Vedi: P. Archiati Il mistero dell’amore, Archiati Edizioni 2008
[8] P. Archiati, Il grande gioco della vita – Ed. Archiati
[9] P. Archiati, Angeli e morti ci parlano – Ed. Archiati
[10] R. Steiner, Che cosa ne sarà di mio figlio? e L’educazione per l’uomo; Arte dell’educare, arte del vivere – Ed. Archiati
A proposito di Pietro Archiati
Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).
Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.
Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.
Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.
Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.
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