Arrivederci alla prossima vita - Pietro Archiati - copertina

Titolo Originale del testo tedesco:

Auf Wiederleben

Traduzione di Silvia Nerini

in collaborazione con l’autore

www.liberaconoscenza.it

ISBN 978-88-96193-09-9

Gli autori difendono la gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a norme o direttive che, monetizzando tale servizio, limitino l’accesso alla cultura.

Gli autori e l’editore rinunciano a riscuotere eventuali royalties derivanti dal prestito bibliotecario di quest’opera. Tale opera è pubblicata sotto Licenza Creative Commons, che recita: si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, pubblicazione su diversi formati, esecuzione o modifica, purché non a scopi commerciali o di lucro e a condizione che vengano indicati gli autori e che questa dicitura sia riprodotta.

Ogni licenza relativa a un’opera deve essere identica alla licenza relativa all’opera originaria.

by-nc-sa_eu.png
CC.TIF

Pietro Archiati

Arrivederci

Alla prossima vita

La questione della reincarnazione

nella cultura occidentale

Logo_A.psd

Indice

Prefazione

La reincarnazione, una questione attuale

Perché sono fatto così?

Le risposte insoddisfacenti della religione
e della scienza

La disumanità come conseguenza
della convinzione che la vita sia una sola

Nascita e morte: i due limiti della coscienza occidentale

Il Cristo e l’idea della reincarnazione

La vita come una lunga giornata: non c’è oggi senza ieri e domani

Il mio destino: il migliore amico della mia libertà

Un pensiero che scardina il mondo

Può l’uomo diventare donna, e viceversa?

L’Occidente materialista ama la Terra,
però una volta sola

«Ah, in tempi remoti che vivemmo
tu fosti mia sorella o la mia sposa

Un’idea cristiana: l’uomo diventa divino
attraverso molte vite

La reincarnazione è fedeltà alla Terra e all’umanità

Una cultura umana per tutti i popoli
e per tutte le religioni

A proposito di Pietro Archiati

Prefazione

Le riflessioni che seguono contengono essenzialmente i pensieri che ho esposto nel corso di una conferenza pubblica a Vienna sulla questione delle ripetute vite terrene. Descrivevo in quell’occasione l’attualità e l’importanza di questa prospettiva evolutiva, la sua forza dirompente sul futuro dell’umanità e le conseguenze che comporta nella vita quotidiana e nei rapporti sociali.

Diverse persone hanno poi manifestato il desiderio di poter ritrovare anche in un libretto quelle sintetiche argomentazioni, e gli svariati accenni ai molti pensieri che è possibile sviluppare. Scopo di questo testo è allora di fungere da stimolo alle ulteriori riflessioni del lettore, meglio ancora al dialogo con altre persone, perché di certo la reincarnazione non è un’opinione e nemmeno un dogma: è un’idea che aspetta di essere unita alla vita.

A me non interessa tanto convincere qualcuno, quanto poter esprimere apertamente il mio pensiero in modo che chiunque lo desideri possa confrontarsi con esso a modo suo. Ritengo importante sottolineare questa scelta, dal momento che il testo è tutto incentrato su una domanda che fino a oggi il mondo occidentale non si è quasi mai posto: l’uomo vive una volta sola o torna a incarnarsi diverse volte?

Pietro Archiati

Pietro Archiati

Arrivederci

Alla prossima vita

La questione della reincarnazione

nella cultura occidentale

La reincarnazione,
una questione attuale

Finora il mondo occidentale ha dato per scontato che si viva una volta sola. Sono in molti a sostenere che una vita basta e avanza, ma poi, tutto sommato, sono gli stessi che se la augurano bella lunga. C’è da chiedersi se sia proprio giusta quest’affermazione così spontanea e mai messa in discussione, questo modo di pensare che ha permeato anche la cultura cristiana. Non potrebbe essere che a ogni uomo è data l’opportunità d’incarnarsi più e più volte per vivere tutto quanto è possibile sperimentare sulla Terra?

Negli ultimi tempi, grazie alla globalizzazione, gli uomini tendono sempre più a fondersi in unità. Il dialogo fra oriente e occidente s’è fatto più intenso, e così la convinzione che l’uomo torni più volte a incarnarsi – del tutto ovvia e indiscussa in oriente – viene presa sempre più in considerazione anche in occidente. È in costante aumento il numero delle persone che si pongono seriamente domande sulla reincarnazione, mentre fino a cinquanta o cent’anni fa era una questione quasi del tutto assente nella cultura occidentale.

È facile essere convinti della reincarnazione se ci si limita a crederci – e del resto, nella sua storia l’uomo ha creduto sempre a tante cose. La vera novità, invece, è che aumentano le persone che vogliono affrontare la questione a ragion veduta. Desiderano occuparsene scientificamente per pervenire a una conoscenza fondata.

Ecco quindi che un’affermazione come quella della reincarnazione può essere dapprima considerata come un’ipotesi possibile che poi, in base a esperimenti eseguiti scrupolosamente, potrà essere confermata o confutata. Una conferma può risiedere nel fatto che alcuni fenomeni dell’esistenza, prima inspiegabili, si chiariscono in modo convincente mediante questa ipotesi.

Anche la fede cristiana tradizionale – quella che non pretende il sostegno della scienza – a molti non basta più e si trova perciò sulla soglia di un necessario rinnovamento. Molti provano il desiderio di fornire alla fede un supporto mediante una conoscenza condivisibile, per non sentirsi più relegati alle rivelazioni sovrumane di questa o quella confessione religiosa.

Non è stato solo l’incontro con le religioni orientali ad accendere i riflettori sul tema della reincarnazione, ma anche un altro fenomeno del nostro tempo: ovunque spuntano persone che sostengono di ricordarsi delle loro esistenze passate. Esistono parecchi libri in cui raccontano i ricordi precisi di dove e quando sono vissute nella vita precedente. C’è da credergli?

In aggiunta, sono sorte anche delle vere e proprie terapie che intendono riportare a coscienza le vite già trascorse. Senza voler esprimere giudizi sull’obiettività delle conoscenze così acquisite e sull’ineccepibilità di questi metodi regressivi, è importante rilevare l’affacciarsi del reale bisogno di risalire alle vite precedenti per orientarsi meglio nei percorsi della vita attuale.

Un altro passo in questa direzione ci viene offerto dalla psicologia: la sua più grande conquista è l’aver introdotto nella coscienza comune la consapevolezza di quanto siano complesse le cause dei fenomeni psichici. Se una persona di quarant’anni ha una psiche disturbata, non si può più credere ingenuamente che tutte le cause risiedano in ciò che le è accaduto nel trentanovesimo anno d’età.

Da tempo la psicologia ha reso evidente che le cause e gli effetti non sono così contigui e automatici, ma che occorre risalire il più possibile alla prima infanzia per individuare l’origine profonda di ciò che si manifesta nella maturità. Ciò perché è proprio all’inizio della vita che il dado è tratto, è lì che si riceve l’impronta decisiva, quella che continuerà ad agire negli anni successivi.

Ci si potrebbe chiedere: ma perché limitare la ricerca delle cause al periodo infantile? Perché la psicologia non va ancora più indietro e non s’interessa di ciò che può essere successo prima della nascita? Sta di fatto che la psicologia moderna ha adottato, senza metterlo in discussione, il credo dell’antica teologia cristiana secondo il quale la vita dell’anima ha inizio solo al momento del concepimento. Prima l’uomo proprio non esiste. L’anima viene creata da Dio nel momento in cui i genitori compiono l’atto procreativo.

Come dire: il Padreterno è tenuto a sfornare anime ogni volta che in terra uno spermatozoo arriva a fecondare un ovulo. Per secoli la cultura cristiana non ha avuto alcun dubbio che le cose stessero così – e fino ad oggi essenzialmente non è cambiato nulla.

Perché sono fatto così?

Contribuiscono a incrementare l’interesse verso la reincarnazione tutti coloro che cominciano a prendere posizione nei confronti del loro passato e del loro futuro. Sempre meno persone sono disposte ad accettare passivamente le situazioni di svantaggio legate alla nascita, e perciò si ribellano a queste sgradevoli penalizzazioni – la povertà, la salute cagionevole, i colpi duri e ingiusti del destino...

Chi è fortunato forse non si sofferma a interrogarsi, ma chi non lo è si domanda: perché la vita mi punisce? Perché devo star sempre male per via del mio patrimonio genetico male assortito, mentre quell’altro lì è nato sano e ricco sfondato? Accettare i propri guai per quello che sono, oppure imputarli al caso, non gli sembra una risposta risolutiva. Vorrebbe conoscere le cause delle mille diversità che esistono fra gli uomini, giacché non può essere il cieco arbitrio a decidere che a uno sia dato tanto e tanto e a un altro così poco, troppo poco.

La ricerca delle cause profonde della sofferenza personale porta dunque a domande che scavano a fondo: perché ho avuto proprio questi genitori e non altri? Perché ho ricevuto questa educazione e non una migliore? Perché sono nato in questo popolo, in queste condizioni sociali e non in altre? Perché mi ritrovo questo corpo e non un altro? Solo chi arriva a porsi questi interrogativi fondamentali si sente in diritto di ottenere una risposta plausibile. E se questa risposta non si trova, aumentano la violenza o la depressione.

Le risposte insoddisfacenti
della religione e della scienza

La risposta della religione ai perché sul destino è ben nota: tutto ti accade per volontà di Dio. O meglio, per imperscrutabile volontà di Dio: solo Lui sa e può sapere perché ti ha assegnato questi genitori, questa patria, questo stato fisico e sociale.

Ma oggi anche a molte persone religiose una risposta come questa non basta più. Dicono: sono convinto dell’esistenza di un Dio che ha creato il mondo e nelle cui mani è il destino dell’uomo. Ma se osservo la natura – dagli animali, alle piante, all’aria, all’acqua...– vedo ovunque all’opera una profonda saggezza. E io sono in grado d’indagarla e di comprenderla, questa saggezza, perché Dio m’ha dato la capacità di pensare. E allora io penso. E penso anche che deve aver avuto un motivo ragionevole per fare me così come sono. E che non c’è ragione per cui questo motivo debba essere un mistero proprio per me. C’è qualcosa che non va in una religione che non m’incoraggia a capire, ad adempiere il compito conoscitivo che Dio stesso m’ha assegnato dandomi il lume della mente.

Così ragionando ogni uomo si vive come uno spirito creato a immagine e somiglianza di Dio, chiamato a comprendere sempre di più il senso di tutta la creazione. E la vivacità spirituale non si limita alla formulazione delle sole domande – oltretutto così urgenti –, ma cerca anche risposte che siano convincenti.

Le scienze naturali, a loro volta, danno una risposta completamente diversa alla questione del destino. Escludendo l’elemento sovrasensibile e occupandosi unicamente della realtà fisica, dicono: ogni avvenimento che si ripete regolarmente è riconducibile a una legge naturale. Poiché il destino di ogni individuo rappresenta sempre un caso singolo e unico, non è possibile individuare una legge generale. Perciò è un puro caso che la tua corporeità sia questa e non un’altra, dato che avresti avuto altrettante possibilità di nascere diverso. O meglio: il modo specifico in cui si sono combinati i tuoi geni al momento del concepimento ha di necessità determinato il tuo modo di essere. I tuoi geni però avrebbero anche potuto combinarsi diversamente, ed è un caso che si siano strutturati proprio così.

Le scienze naturali si comportano più modestamente della religione, giacché hanno scambiato il Dio onnipotente dei teologi con l’insignificante caso. Ma il caso è una specie di buco nel pensiero dell’uomo, dato che quando lo si chiama in causa in pratica si sta dicendo: non capisco come, non so perché.

Allora si può replicare allo scienziato: se dappertutto trovi delle leggi, per quale motivo solo lo scorrere delle vicende umane dovrebbe essere del tutto sregolato e aleatorio? Non ti sembra logico, e scientifico, che anche il destino umano debba svolgersi secondo un ordine, certo diverso da quello di natura, anche se noi ancora non lo conosciamo o abbiamo appena appena cominciato a ipotizzarlo? Il “cieco caso” non mi sembra una risposta degna per chi cerca di conoscere oggettivamente i motivi di tutto ciò che dalla nascita viene a determinargli la vita in un modo anziché in un altro.

Anche per quanto riguarda il futuro l’uomo moderno cerca un ampliamento della propria coscienza. Se è possibile che le cause del suo destino siano antecedenti alla nascita, altrettanto è possibile che dopo la morte le sue azioni si ripercuotano su di lui. È infatti solo l’ignoranza riguardo alle conseguenze a lungo termine delle proprie azioni che può condurre a un agire irresponsabile.

Noi facciamo molte cose che non mostrano le loro giuste conseguenze nel corso dell’esistenza – Tizio ha sfruttato per tutta la vita quei poveracci dei suoi operai, e guarda lì come gli vanno bene gli affari! –, e ne facciamo molte altre che al contrario sembrano avere conseguenze ingiuste – Caio ha dedicato anni e anni a tirar su i figli di suo fratello, e ora che è vecchio l’hanno lasciato solo...

Questa prospettiva futura che sembra negare conseguenze sensate al proprio agire, provoca il pericoloso aumento della violenza e della disumana brutalità. Si arriva a pensare che tanto vale lasciarsi prendere dalla sete di denaro, dalla prevaricazione, dal reciproco sfruttamento – almeno se ne ricava qualche vantaggio immediato.

Anche nel carattere dei bambini si nota l’incalzare dell’irrequietezza se non addirittura dell’aggressività. Persino in religioni dedite per tradizione alla non violenza – come l’induismo – assistiamo al verificarsi dello stesso fenomeno. Io, per esempio, da studente ho vissuto nello Sri Lanka senza problemi sia presso i singalesi che i tamil: oggi non potrei più farlo per via dell’annoso conflitto armato fra le due etnie.

La disumanità come conseguenza
della convinzione che la vita sia una sola

La domanda è quindi questa: perché oggi un numero sempre crescente di esseri umani agisce in modo violento, arrivando pure a uccidere, senza che la coscienza si faccia sentire? Una delle ragioni potrebbe essere che nei tempi antichi le persone erano molto più inserite nella comunità. La loro volontà individuale era meno spiccata e molto più orientata dai precetti e dai divieti sociali.

Oggi in tutto il mondo la parola “Individualità” viene scritta con la “i” maiuscola. Gli antichi comandamenti a validità generale, come “non uccidere”, per molti non contano più, e nemmeno fa impressione la minaccia dell’inferno. Le stesse sanzioni di tipo sociale – come le lunghe pene detentive, la custodia cautelare o, in certi paesi, la pena di morte – sembrano aver perso il loro effetto deterrente. Per molti è importante godersi liberamente la vita, e poi cercare in tutti i modi di evitare il boomerang delle conseguenze.

E allora che cosa potrebbe far desistere dalla sua disumanità un individuo disposto a ricorrere alla violenza? Soltanto la certezza che tutto ciò che oggi fa agli altri ricadrà su di lui in futuro. In un futuro lontano, magari, forse in un’altra vita: ma di sicuro dovrà fare su di sé la piena esperienza di ciò che ha inflitto ad altre persone. Solo un uomo che abbia interiorizzato questa profonda convinzione potrà trovare la forza di non compiere azioni disumane.

Indubbiamente sarà necessario un lungo periodo di tempo per arrivare a queste nuove consapevolezze, ma proprio per questo è urgente che riescano a entrare in molti cuori, affinché si agisca di conseguenza. E ci rendiamo conto di quanto sia di vitale importanza la questione della reincarnazione e del karma (o destino)[1].

Naturalmente a questo punto si potrebbe obiettare che è da egoisti voler migliorare solo per risparmiarsi le gravi conseguenze delle proprie azioni disumane. Certo che è un motivo egoistico, ma non ce n’è uno migliore! In fondo, anche l’amore materno è egoistico, perché la madre vive il neonato come parte di sé e gli augura il meglio proprio perché se il bambino sta male sta male pure lei. Nell’amore per il proprio bambino la madre ama il figlio non meno di se stessa.

È egoismo o altruismo? Entrambe le cose, nella stessa misura. Perciò non è importante la parola con cui indichiamo qualcosa, ma lo è l’effetto buono o cattivo di questo qualcosa. Il modo in cui una madre amorevole si rapporta al proprio bambino è comunque buono, poiché entrambi crescono grazie a questo amore. Il fatto che una madre venga definita egoista o altruista è irrilevante – ciò che conta nella vita è il risultato delle sue azioni, per lei e per il figlio.

Possiamo anche citare la parabola evangelica del figliol prodigo: costui dilapida tutto ciò che il padre gli ha dato e per sopravvivere si riduce a fare il guardiano dei porci, cibandosi delle loro ghiande. All’improvviso gli si accende una luce e dice: i servi che lavorano per mio padre stanno meglio di me che sono suo figlio. Peggio di così non mi potrebbe andare, perciò è meglio che io me ne ritorni a casa e chieda perdono. Questo figlio ritorna mosso da un motivo egoistico, ma non ce n’è uno migliore: l’amore di sé è infatti la condizione necessaria per poi amare anche il prossimo.

L’egoismo unilaterale con cui l’uomo dapprima ama solo se stesso può estendersi, col tempo. Si può imparare ad amare anche altri come si ama sé. In tutte le religioni si è sempre detto: ama il prossimo tuo come te stesso. Se l’amore di sé viene dato come modello per l’amore verso il prossimo, significa che quest’amore è buono. Il male non è la presenza dell’amore di sé, ma l’assenza dell’amore per il prossimo.

Se l’uomo riflette sul destino, riesce a farsi pensieri sempre più chiari sulla questione delle ripetute esistenze e si convince che ogni azione che fa avrà per lui, presto o tardi, delle conseguenze. E allora imparerà a rapportarsi con gli altri in modo sempre più umano. Dirà a se stesso: quel che faccio a te ricadrà prima o poi su di me. Se agisco in maniera disumana distruggo me stesso, proprio la parte migliore di me, e dovrò viverne le conseguenze direttamente sulla mia pelle: solo così potrò capire quello che gli altri hanno provato a causa mia, solo così potrò progredire nella mia evoluzione.

Nascita e morte:
i due limiti della coscienza occidentale

Fissandosi sull’elemento puramente fisico, la cultura occidentale ha posto due limiti alla coscienza umana: quello della nascita e quello della morte. Da un lato, scienza e religione partono dal presupposto che nulla dell’uomo esista prima della nascita. Dall’altro, la religione parla di una vita oltre la morte – mentre la scienza rimanda alla fede questa non sperimentabile probabilità.

Bisogna riconoscere che in proposito anche la teologia sa molto poco e il cristianesimo tradizionale resta vago, limitandosi ad affermare che l’uomo è immortale, senza spiegare concretamente in che cosa consista la sua esistenza nei mondi spirituali. L’incertezza tutta occidentale sulla seconda soglia – quella della morte – è il risultato problematico della prima soglia – quella della vita – sulla quale l’uomo compare solo quando il suo corpo materiale inizia a formarsi nel grembo materno.

Già i Greci presumevano che dopo la morte l’uomo, ormai privo del suo meraviglioso corpo, potesse condurre solo un’esistenza d’ombra, legata alla memoria di quand’era in vita. Ciò ha fatto sì che nel corso dei secoli la dimensione fisica diventasse sempre più determinante per l’esperienza cosciente di sé, tanto che per noi oggi, come dicevamo, l’uomo non esiste prima della nascita e dopo la morte forse, chissà, va a finire in un altro mondo di cui la religione racconta in modo nebbioso.

Su questo punto le scienze naturali sono un po’ più oneste, perché mettono in dubbio in linea di principio l’immortalità. L’uomo deve l’interezza del suo essere al corpo: una volta che questo cessa di esistere, scompaiono nel nulla anche tutti i pensieri, i sentimenti e gli ideali che hanno fatto di lui quell’individualità unica che è stato.

L’idea che l’uomo cominci a esistere al formarsi della sua corporeità risale al filosofo greco Aristotele. Non è dunque un’idea cristiana. Per Platone (il maestro di Aristotele) era ancora ovvio che l’uomo vivesse come anima già prima del concepimento. Per lui conoscere significava ricordarsi delle cose che si sapevano prima della nascita, e questo concetto può ancora costituire un ponte per la riconquista della coscienza della reincarnazione. Non per niente ancora un Rosmini ha dedicato tutto un trattato alle idee innate.

Tuttavia Platone non ha approfondito quel suo pensiero: si è limitato a insistere chiaramente sulla preesistenza, sulla vita prima della nascita. Le ripetute incarnazioni di cui parlava venivano chiamate “metempsicosi”: trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro. A quei tempi si parlava solo di anima poiché non era ancora possibile l’esperienza dello spirito individuale. L’uomo non si viveva ancora come un Io autonomo.

Aristotele è stato il primo grande filosofo dell’occidente a non parlare più di preesistenza. In questa sede possiamo solo accennare al motivo per cui ciò avvenne. Il suo maestro Platone sapeva che l’anima preesisteva al corpo in quanto si atteneva alla tradizione delle scuole misteriche; le sue affermazioni non si basavano su percezioni dirette. Aristotele ha avuto il coraggio di lasciar cadere quest’antica conoscenza alla quale non si poteva più giungere per esperienza personale. Non ha negato la preesistenza, semplicemente non ne ha parlato. Ha parlato solo delle esperienze psichiche che l’uomo fa grazie al proprio corpo, perché di queste aveva chiara coscienza.

Ciò vale ancor oggi: l’uomo normale conosce solamente quello che gli è possibile sperimentare grazie al fatto che la sua coscienza – la sua anima – interagisce col corpo. La convinzione di Aristotele è stata quindi adottata anche dal cristianesimo storico, pur non avendo nulla a che fare con lo spirito originario del cristianesimo.

Il Cristo e l’idea della reincarnazione

Per molte persone è di grande importanza sapere in che misura i vangeli contengano affermazioni pro o contro le ripetute esistenze. In sintesi possiamo dire che nei vangeli non si trovano dichiarazioni esplicite né a favore né contro la reincarnazione. Nelle parole del Cristo, in effetti, è presente la realtà delle tante esistenze concesse all’uomo, ma in modo velato.

La scoperta del significato più profondo di certi passi del Vangelo è lasciata al singolo individuo. Per poterlo fare è necessario che chi legge, nella sua lotta per la conoscenza, si sia confrontato abbastanza a lungo con quella domanda, e perciò affronti il testo partendo da specifiche premesse. È anche necessario che i tempi siano maturi al livello culturale generale, che l’umanità abbia cioè complessivamente raggiunto il livello evolutivo necessario per accorgersi di questa nuova prospettiva.

Porto in proposito un esempio di vita vissuta: in ambito cattolico mi è capitato sovente di richiamare l’attenzione di teologi e sacerdoti sulla guarigione del cieco nato – capitolo 9 del Vangelo di Giovanni. Si narra che in presenza di un uomo nato cieco gli apostoli chiedessero al Cristo: «Perché costui sia nato cieco, chi ha peccato? lui o i suoi genitori?». A quel punto io domandavo se in quelle parole non ci fosse da rilevare qualcosa di strano. La risposta era sempre la stessa: «No, non ci trovo niente di strano». Solo quando io sottolineavo la paroletta “lui” – chi ha peccato? “lui” o i suoi genitori? –, il mio interlocutore aveva un attimo di esitazione. Lui? Ma come avrebbe mai potuto peccare il cieco se secondo il dogma cattolico non esisteva affatto prima di nascere? È cieco dalla nascita! La domanda degli apostoli presuppone invece che il cieco sia esistito già prima della nascita: perciò chiedono se è lui stesso ad aver peccato e se la cecità ne è la conseguenza. Se davvero l’uomo non esistesse prima della nascita, il Cristo avrebbe dovuto far notare agli apostoli la loro falsa supposizione riguardo a una questione di così grande importanza.

E alla domanda degli apostoli il Cristo fornisce una risposta enigmatica. Dice infatti: «Non è lui che ha peccato (non in questa vita, dato che è venuto al mondo già cieco) e neppure i suoi genitori (altrimenti dovevano nascere ciechi loro), ma è nato così affinché in lui si manifestino le opere di Dio». La versione riveduta nella Bibbia di Lutero traduce: «…perché le opere di Dio devono manifestarsi su di lui». Un’affermazione decisamente inquietante: può un Dio far nascere cieco un uomo per mostrare sulla sua pelle la potenza delle sue opere? Come se tutto il creato non fosse già abbastanza e ci mancassero giusto un paio d’occhi riusciti male per mostrare altri miracoli della natura!

Ma nel testo greco originale quelle parole fatidiche dicono quanto segue: «...è nato cieco affinché si mostrino le opere del Dio in lui». La trasformazione da “del” a “di” e da “in” a “su” cambia completamente il senso. La risposta del Cristo può essere riportata fedelmente così: «È nato cieco affinché divenissero esteriormente visibili le opere del Dio che è in lui». L’essere divino presente in lui è lo spirito eterno e individuale dell’uomo, l’Io, che passa di vita in vita.

Non si è certo obbligati a interpretare così questo passo, ma il testo originale si presta a questa lettura. Il Cristo fa notare che a chi nasce cieco non viene imposto dall’esterno nulla di arbitrario o di estraneo al suo essere. Sarebbe così se Dio volesse compiere qualcosa “su di lui” dal di fuori. Invece il modo in cui quest’uomo ha strutturato il proprio corpo in questa vita è in sintonia con l’evoluzione passata del suo spirito – dell’essere divino che lui stesso è –, un’evoluzione in cui è determinante la sua stessa libertà.

Nella risposta del Cristo vedo un accenno lieve ma chiaro alla legge fondamentale della reincarnazione e del karma. Questa legge dice: ciò che un essere umano diventa in una delle sue vite, nel segreto della sua interiorità e della sua evoluzione morale, si manifesta esteriormente e diviene palese nella struttura del suo corpo in una delle vite successive. E questa non è altro che la legge di ogni atto creativo, divino o umano che sia: prima è un pensiero, un progetto interiore sotto forma di idea, in seguito diventa esteriore e fisico mediante l’esecuzione.

Due possono essere i motivi per cui il Cristo annuncia in modo solo velato questa importante verità: in primo luogo doveva evitare che le sue parole venissero dogmaticamente a sostituire il processo conoscitivo autonomo dell’uomo evocando in lui una fede cieca nella sua autorità. In secondo luogo l’elemento enigmatico della sua risposta serve proprio a mettere in moto nel singolo la lotta per la conoscenza.

Si spiega quindi come mai le Sacre Scritture possano contenere orientamenti o affermazioni che non si notano immediatamente, nemmeno in ambito teologico. Ci si accorge della loro presenza solo quando si diviene consapevoli dell’ipotesi della reincarnazione e ci si lavora a lungo per sviscerarne premesse e conseguenze. Decisivo è dunque lasciare aperta l’idea che ogni essere umano esista come spirito individuale ancor prima di nascere, e che abbia alle spalle un’evoluzione che ha conferito un’impronta unica e inconfondibile al suo Io.

A livello interiore ogni uomo può compiere infiniti passi in avanti durante il corso di ogni vita: nella capacità di plasmare i suoi pensieri, nella generosità delle forze del cuore, nella responsabilità dei suoi impulsi volitivi, e poi nelle sue virtù, nelle abitudini... Il mondo interiore di ogni uomo cambia di giorno in giorno; non ha limiti l’evoluzione spirituale che gli è possibile compiere nel corso di un’esistenza. Il corpo è contrassegnato invece da una certa inerzia, in quanto sottostà all’impronta delle leggi di natura; per tutta la vita non è possibile modificarne la struttura fondamentale.

Se lo spirito cela in sé un’infinita capacità di evoluzione mentre il corpo può essere trasformato solo in misura minima, necessariamente nel corso della vita fra i due si creerà una sproporzione, una discrepanza sempre più profonda. Come estrema conseguenza ciò significa anche che prima o poi verrà il momento in cui il corpo non sarà più adeguato allo spirito, e allora l’uomo avrà bisogno di un corpo nuovo.

Proprio in questo senso molte grandi personalità – Socrate, per esempio, o Francesco d’Assisi –considerarono la morte come un’amica. E la reincarnazione rappresenta la possibilità reale di abbandonare un corpo non più adeguato per procurarsene uno che corrisponda all’evoluzione che il proprio spirito ha compiuto.

Questa constatazione dapprima puramente esteriore – il corpo che invecchia e lo spirito che ringiovanisce – può essere provata anche scientificamente. Un’osservazione imparziale può ben constatare come ogni progresso della coscienza comporti il consumarsi delle forze vitali corporee: coscienza e vita si escludono a vicenda. Durante il sonno la coscienza si stacca dal corpo proprio per permettere il ripristino delle forze vitali. Fino ai trentacinque anni, più o meno, prevale la vita. Poi il corpo comincia a invecchiare e le energie che il sonno ristabilisce sono via via sempre di meno. La morte è allora la conseguenza necessaria e finale dello sviluppo della coscienza di tutta una vita. Le forze dello strumento corporeo sono state completamente consumate.

Oltre al nulla che propone la scienza naturale, oltre all’inferno, al purgatorio e al paradiso che la religione nebulosamente offre, c’è una possibile descrizione della vita dopo la morte, quale conseguenza delle prospettive che abbiamo ipotizzato finora. L’uomo trascorre un lungo periodo nel mondo spirituale e tira le somme dell’esistenza appena conclusa. Poi progetta – non da solo, ma in collaborazione con Esseri spirituali superiori – una nuova vita che in tutti i suoi avvenimenti racchiuda gli effetti delle azioni della vita trascorsa. E progetta anche un nuovo corpo che corrisponda al grado evolutivo raggiunto dalla sua interiorità. Queste saranno le condizioni di partenza della sua nuova vita, quando l’Io comincerà a realizzare il suo disegno costruendo nel seno materno un corpo fatto a propria immagine e somiglianza. Durante il corso della nuova incarnazione terrena, le conquiste evolutive dello spirito genereranno ancora una volta, col passare degli anni, il divario fra spirito e corpo – finché giungerà, liberatrice, una nuova morte.

Progredire per l’uomo significa diventare sempre più libero nei confronti dei limiti che la materia impone, e dunque solo sulla Terra è possibile l’evoluzione umana. Karma e reincarnazione significano allora che ogni volta l’essere umano riparte da dove era arrivato nella vita precedente, in vista di nuovi progressi.

Anche all’inizio di ogni nuovo giorno riprendiamo le cose da dove l’avevamo lasciate la sera prima, e raccogliamo le conseguenze di quel che abbiamo realizzato liberamente nei giorni precedenti. Se qualcuno si sveglia la mattina con dei dolori muscolari, non pensiamo che sia di costituzione gracile, ma che abbia fatto degli sforzi nei giorni precedenti. Così se la vita ci porta incontro situazioni difficili e pesanti, piuttosto che pensare d’essere dei poveri disgraziati è molto più sensato vedersi come spiriti in cammino che in vite trascorse hanno posto liberamente le premesse per le prove di oggi.

La vita come una lunga giornata:
non c’è oggi senza ieri e domani

Non sappiamo quasi nulla di ciò che avviene al di là dei due confini, nel periodo che precede la nascita e in quello che segue la morte. Ma se consideriamo la vita come una lunga giornata, cominciamo ad allargare la nostra coscienza e a superare queste due barriere. Il paragone con le numerose giornate della vita attuale è di grande aiuto per comprendere meglio l’idea della reincarnazione.

Sappiamo bene come sono concatenati fra loro i singoli giorni della vita. La giornata odierna ha senso solo se tengo conto di ciò che è successo ieri e di ciò che ho in programma per domani. Un oggi senza ieri e senza domani sarebbe del tutto privo di senso. Nel corso della nostra vita viviamo molti giorni, separati l’uno dall’altro dal sonno in cui la nostra coscienza s’interrompe.

Possiamo immaginare il periodo che intercorre fra la morte e la rinascita come la separazione fra due “lunghe giornate”. Anche nel primo caso la nostra coscienza si trova in uno stato completamente diverso: come durante il sonno siamo “privi di sensi” perché non usiamo i nostri sensi corporei, così dopo la morte veniamo sottratti per un certo tempo alla corporeità fisica e viviamo in un mondo immateriale, puramente spirituale.

La nostra cultura occidentale vive nell’illusione di poter comprendere la vita come un’unica lunga giornata, senza avere la più pallida idea che c’è stato un lungo ieri e che ci sarà un lungo domani. È un assurdo. Basta pensare a una persona handicappata a livello fisico o psichico, o a qualcuno che muore da piccolo o che addirittura nasce morto. Se siamo onesti dobbiamo ammettere che, pur con tutta la buona volontà, non siamo in grado di rispondere alla domanda: che senso ha la vita in questi casi? Se però nelle nostre riflessioni includiamo il pensiero delle ripetute vite terrene, la situazione appare di colpo diversa.

Poco prima dei trentacinque anni, mentre lottavo con queste questioni di vitale importanza, “ho scoperto” la scienza dello spirito di Rudolf Steiner, a cui sono infinitamente grato. Per me è stato particolarmente importante sperimentare un ampliamento e un approfondimento del cristianesimo grazie all’idea della reincarnazione e del destino[2]. Steiner sostiene che le sue affermazioni sull’Io spirituale e tuttora sovracosciente di ogni uomo – quello che passa di vita in vita senza che la nostra coscienza normale ne abbia memoria – non derivano da speculazioni, ma da osservazioni oggettive effettuate in ambito sovrasensibile.

Chi non è ancora in grado di percepire a livello spirituale, può in un primo tempo prendere le indicazioni di Steiner come ipotesi di lavoro, per vedere se con esse gli riesce di spiegarsi meglio la realtà che già conosce.

Rudolf Steiner descrive in questo modo un uomo che era stato un handicappato psichico per tutta una vita. Dal punto di vista del suo Io superiore, quello stato grave di malattia era un vero e proprio sacrificio voluto ancor prima di nascere, e grazie a questo anche le persone che lo accudivano si erano trovate a dover impiegare notevoli forze di abnegazione. La lotta con l’enorme quantità di sofferenze gli ha reso possibile – così afferma Steiner in base alla sua indagine spirituale – di diventare nella vita successiva una persona geniale nella capacità di compassione.

Se avesse condotto un’esistenza normale e comoda, non avrebbe potuto acquisire quelle intense forze di benevolenza, di attenzione e d’inventiva che si sono poi riversate nel suo operare generoso in una nuova vita. Tutte forze nate da una vita di sofferenze, in cui quest’individuo aveva provato direttamente su di sé che cosa vuol dire la dedizione amorevole degli altri, ma anche che cosa significa essere sballottato qua e là nell’indifferenza, nel fastidio, nel disamore.

Questo esempio ci mostra quanto sia diversa la situazione a seconda che diciamo: a questa persona è toccato di vivere una vita da handicappato e poi basta; oppure diciamo: grazie a una vita da handicappato, scelta consapevolmente e volontariamente dal suo Io eterno, questa individualità ha posto le premesse per una vita successiva incentrata tutta sulla forza creativa e geniale dell’amore.

Il mio destino: il migliore amico della mia libertà

Nella vita non ho un giorno solo a disposizione, e le mie giornate dipendono le une dalle altre. Ieri e l’altro ieri ho fatto questo e quello, e oggi ne vivo le conseguenze, vivo l’effetto delle mie stesse azioni. Ma non considero un’ingiustizia il fatto che ora mi tocchi “scontare” ciò che ieri ho compiuto con imperizia – e con chi me la dovrei prendere, poi? Trovo non di meno ovvio e giustissimo godere le conseguenze vantaggiose di ciò che m’è riuscito bene.

Via via che imparo a commettere meno errori e a indirizzare in maniera più sensata la mia vita, mi rendo conto che le cose mi vanno sempre “meglio”. E so anche che quanto più grandi e cariche di sviluppi futuri sono le conquiste a cui tendo, tanto più faticoso e doloroso sarà il cammino per raggiungerle. Ma non vivrò mai i miei sforzi o le sofferenze che essi comportano come una “punizione” ingiusta. Li ho infatti scelti liberamente, dal momento che sono indispensabili per il conseguimento di ciò che desidero.

Visto in questo modo, il collegamento fra passato, presente e futuro è opera della nostra libertà: tutto ciò che ci capita proviene dal nostro passato, e noi lo affrontiamo al fine di trarne fuori il meglio per il futuro. Ogni situazione è allora un’occasione per evolversi ulteriormente.

Ciò che è buono per me non sempre mi piace. Ma se capisco che è proprio quello che ci vuole per il mio cammino riesco senz’altro a trovarne anche i lati positivi. Cos’è infatti che decide ciò che io devo vivere adesso? Lo decide quel che sono già diventato e quello che ancora mi manca, cioè gli obiettivi che mi riprometto per il futuro.

La mia libera evoluzione passata stabilisce ciò che il mio essere profondo, il mio Io spirituale, si prefigge e vuole per il futuro. Basta solo che io, nella mia coscienza normale e più ristretta – quella che mi ritrovo quando vivo nel corpo – mi dichiari d’accordo. Ed è proprio quello che faccio quando tiro fuori il meglio da tutto ciò che mi capita, e riesco a non maledire le avversità come se fossero un’ingiusta prepotenza della vita che mi piomba addosso senza alcun motivo.

Un individuo comincia una nuova vita. Con quali intenzioni il suo Io spirituale sceglie esattamente quei genitori e non altri? In base a quale punto di vista seleziona tutti i dettagli del patrimonio genetico e il tipo di cultura e l’ambiente sociale in cui nascere?

L’intento dell’Io di ognuno di noi è di prepararsi, al momento dell’incarnazione, tutte quelle condizioni esteriori che gli permetteranno di portare avanti la propria evoluzione interiore nel migliore dei modi. Questo è il karma: offre ad ogni individuo tutto ciò che lo favorisce, affinché in libertà possa trarre il meglio da ogni situazione, da ogni evento, da ogni incontro.

Dopo tutto non sarebbe una buona idea ritornare sulla Terra per fare della propria vita qualcosa di mediocre e di raffazzonato. Gli esseri umani, proprio perché sono liberi nella loro coscienza ordinaria – cioè non sanno di aver pianificato il proprio destino ancor prima di nascere – hanno anche la possibilità di omettere la realizzazione del proprio meglio. E senz’altro lo fanno ogni volta che preferirebbero avere una vita diversa da quella che hanno a disposizione.

Di tutto questo c’è una descrizione lapidaria nel Vangelo: quando nel cosiddetto Giudizio Universale il Cristo separa i “buoni” dai “cattivi”, gli unici peccati che elenca sono quelli di omissione. Non si fa il minimo accenno ai peccati di “commissione”. Non dice: avete sbagliato a fare questo e quello. Dice solo: avevo fame e non mi avete dato da mangiare, avevo sete e non mi avete dato da bere... – tutti peccati di omissione. Sono il bene che il singolo avrebbe potuto compiere liberamente, e non ha compiuto.

Riparare a un’omissione significa allora colmare il vuoto quando in una nuova vita se ne presenterà l’occasione. Questa compensazione, che probabilmente non sarà leggera come una passeggiata, non dev’essere paragonata a un castigo: al contrario, è una nuova opportunità per fare qualcosa di buono e progredire nella propria evoluzione.

Persino una malattia non viene per punirmi o intralciarmi perché ogni prova ha lo scopo di farmi tirar fuori le forze più profonde e autentiche. Ogni uomo progredisce più intensamente nei periodi difficili della sua vita che in quelli facili. Possiamo immaginare che Garibaldi o Dante avrebbero preferito una vita liscia liscia? In quel caso non avremmo avuto né Garibaldi né Dante. Non esistono un Garibaldi e un Dante dalla vita comoda.

Solo nella pigrizia, nella mortificazione di sé, l’uomo tende a evitare le migliori occasioni della vita. Invece di individuare in esse una sfida stimolante, preferisce parlare di disgrazia e di castigo. Eppure è innegabile che attraverso la guarigione da una malattia si sviluppano energie nuove, che mai avremmo avuto se fossimo stati sempre sani.

Può darsi addirittura che una persona possa aspettarsi più malattie di un’altra, per il fatto che dispone delle forze necessarie per ricavarne il meglio. E con questo non sto dicendo che bisogna andarsi a cercare più sofferenze di quelle che la vita ci porta incontro. Ognuno ne riceve a sufficienza, proprio la giusta dose che lo riguarda: sta a lui non rifiutarla e volgerla al meglio.

Un pensiero che scardina il mondo

Come potrebbe essere la convivenza sociale in una cultura in cui gli uomini fossero profondamente convinti della saggezza della reincarnazione e del karma? Come sarebbe la vita di ogni giorno?

Un flemmatico, per esempio, cioè uno che desidera agire sempre con calma e lentezza, potrebbe fare la seguente riflessione: in un passato remoto io devo essere stato senza dubbio un sanguigno, uno che amava saltare da una cosa all’altra, e devo aver imprecato contro i flemmatici per la loro indolenza. Dopo la mia morte mi sono chiesto: ma perché sono stato così intollerante? E mi son dovuto rispondere: perché non sapevo che cosa si prova a vivere con un temperamento flemmatico. Proprio per questo ho deciso di ritornare sulla Terra nascendo flemmatico. E ora, da ex sanguigno, sperimento - non in teoria, ma in pratica! – cosa significa vivere con la costituzione di un flemmatico. E sono circondato da sanguigni che mi dicono: su, su, datti una mossa! Ora sì che capisco questa polarità così marcata nel modo di affrontare la vita!

La persona il cui rapporto con gli altri è determinato da riflessioni di questo tipo potrà essere veramente tollerante con tutti. E la tolleranza reciproca è quanto di più importante occorra per la convivenza quotidiana.

Anche la grande questione della giustizia può assumere un aspetto completamente diverso. Non c’è dubbio che molte cose che avvengono nella vita sembrano ingiuste. Uno magari è un farabutto, eppure tutto gli va bene; l’altro è onesto, ma tutto gli va storto. Se si presume che ci sia una sola vita, l’ingiustizia può far sì che una persona diventi aggressiva o depressa.

Ma come è giusto che il mio amico oggi mi mandi a quel paese se ieri gli ho giocato un brutto tiro, e come so di certo che domani andrò a chiedergli scusa, così è possibile convincersi che la giustizia di una vita possa manifestarsi solo in relazione a quelle passate e a quelle future.

E come le gioie più grandi sono quelle che vengono dopo aver lavorato a lungo e con perseveranza per gli ideali più elevati, così le gioie più profonde e durature saranno provate da chi saprà considerare tutta l’esistenza come una tappa, con la certezza di raccogliere i frutti più belli nella vita successiva. Solo in questo modo ogni singolo individuo può ricevere piena giustizia. Solo così “i malvagi” non la faranno franca in eterno e “i buoni” non saranno penalizzati all’infinito.

A chi obietta che non può essere così solo per il fatto che allora tutto nella vita diventerebbe bello e interessante, si può replicare: che c’è che non va nella vita bella? E a chi invece sostiene che questo tipo di giustizia a lunga scadenza è solo una magra consolazione, è possibile rispondere: è comunque meglio vivere così piuttosto che nello sconforto o nella rabbia, convinti che l’esistenza sia un cumulo d’ingiustizie.

Ma si può anche dire: il potente che mi opprime e il bruto che mi tormenta non si lasceranno certo impressionare da questa bella teoria secondo la quale, forse tra qualche secolo, la loro crudeltà finirà per ritornargli addosso. Ma non è di questo che si tratta. Non è certamente una gran consolazione il dover aspettare, per stare meglio, che chi mi tratta con disumanità paghi e si ricreda.

Vero è invece che le cose mi appaiono d’un tratto completamente diverse se sono io stesso a convincermi del fatto che nell’evoluzione tutti vengono trattati giustamente. In quel momento smetto di provare odio per l’aggressore. E non invidio più il potente, non desidero affatto essere al suo posto – cosa che inconsciamente volevo, quando ancora non sapevo che la disumanità non paga. Di colpo mi riconcilio in modo del tutto diverso con la mia situazione.

È evidente che la questione delle ripetute vite e della giustizia del karma valgono poco se restano a livello puramente teorico. Ma se prendo la decisione di vivere in base a questi convincimenti, ne percepisco la reale efficacia nella mia vita. Reincarnazione e karma sono realtà che non possono restare campate in aria.

Ognuno può fare per conto proprio l’esperimento di vita di come radicalmente cambino le cose vivendo in base a queste conoscenze. Solo grazie all’esperienza personale possiamo sapere se questo nuovo modo di vivere ci è più congeniale di quello a cui eravamo abituati fino a ieri. Ed è una scelta che solo il singolo individuo può compiere in piena libertà.

Può un uomo diventare donna, e viceversa?

Un’altra impronta decisiva fin dalla nascita è il sesso. Nella Bibbia sta scritto che Dio creò l’essere umano maschile e femminile, a sua immagine e somiglianza. A somiglianza di Dio, dunque, ognuno di noi ha in sé questi due aspetti. Ma nella vita, se vivo una volta sola, potrò fare l’esperienza di una sola metà dell’umano. Come maschio posso appropriarmi della parte femminile al massimo osservando le donne, come a sua volta può fare una donna osservando l’universo maschile. Se vivessimo una sola volta, insomma, Dio ci darebbe la possibilità di essere una sola metà della sua immagine, mai la sua immagine piena. Ma per quale motivo, nel suo immenso amore, non dovrebbe concederci anche l’altra metà?

Al termine della sua Educazione del genere umano Lessing si chiede: «Non mi appartiene forse tutta l’eternità?». Egli conclude la sua osservazione della storia con l’idea della reincarnazione: perché ogni uomo non dovrebbe prender parte a tutta l’evoluzione, a tutto il processo di umanizzazione dall’inizio alla fine? Solo mediante ripetute vite terrene può far sue tutte le potenzialità della natura umana, e diventare così completamente uomo.

Si può formulare la domanda di Lessing anche in questo modo: non mi appartiene forse tutta l’umanità? Ognuno di noi non è stato creato per prendere parte sempre più responsabilmente a tutta l’evoluzione del genere umano? Ogni uomo non potrebbe sperimentare da sé tutto ciò che è umanamente sperimentabile: tutte le religioni, le razze, le lingue, le culture, tutte le condizioni geografiche e climatiche?

Tornando al rapporto uomo-donna, potrebbe sorgere una cultura della massima tolleranza reciproca se invece di sentirsi estranei per natura i due potessero dirsi: anch’io sono stato così e lo sarò ancora. Questo atteggiamento avrebbe delle ripercussioni anche sulle nostre relazioni più intime e profonde. Nel poema epico medievale Tristano e Isotta, un filtro d’amore bevuto “per caso” provoca un’irresistibile attrazione fra Isotta, moglie di Re Marco, e il cavaliere Tristano. Che cosa fanno? Le convenzioni sociali non consentono a Isotta di essere fedele a entrambi contemporaneamente. A Marco deve essere fedele, e tuttavia non può fare a meno di esserlo anche a Tristano. In un’unica vita dunque non è possibile dar soddisfazione a entrambi gli incontri.

Nelle Affinità elettive di Goethe troviamo lo stesso enigma, stavolta senza la magia del filtro, ma con quella del semplice innamoramento: un uomo e una donna sono sposati, e l’uno s’innamora di una terza persona. Con la tragica morte della giovane Ottilia, Goethe ammette di non riuscire a trovare una risposta soddisfacente a queste tensioni del cuore.

Generalizzando, possiamo domandare: chi può in una vita vivere in modo completo tutte le relazioni che si mostrano importanti? Magari una persona è sposata, ha dei bambini piccoli e incontra un’altra persona: sa che sta nascendo un profondo legame e ha la sensazione di non avere il diritto di ignorarlo. Come deve comportarsi?

La società in pratica conosce solo due risposte. La religione dice: lascia perdere. Ma ciò spesso fa sì che intimamente si reprima qualcosa che in seguito esploderà con un’intensità ancora maggiore. La repressione non è mai una soluzione, come la psicologia ha dimostrato in maniera convincente.

L’altra risposta è quella della società cosiddetta libera e illuminata: fallo, vivi pienamente! Ma anche questo comportamento può condurre in un vicolo cieco, poiché anche se venissero a cadere tutti i divieti morali, nessuno disporrebbe d’infinite energie fisiche e psichiche per soddisfare pienamente tutti i rapporti significativi in un’unica vita[3].

L’occidente materialista ama la Terra,
però una volta sola

L’occidente apprezza e gode soprattutto il mondo della materia. Lo ritiene l’unica vera realtà, il luogo in cui l’uomo può vivere la libera creatività del suo spirito di ricerca e tutte le conquiste del suo ingegno tecnico.

D’altro lato, però, è scontato che ognuno abbia la possibilità di vivere una sola volta – per qualche decennio, se gli va bene – in questo mondo che esiste già da milioni di anni.

Vedo qui una contraddizione culturale che in molti genera una profonda e dolorosa lacerazione interiore. Proprio una civiltà per la quale la vita sulla Terra significa tutto, afferma tassativamente che ogni uomo ha a disposizione un’unica e breve vita.

La cultura orientale, per la quale è ancora il mondo spirituale e non quello terreno a rivestire la massima importanza, sostiene al contrario che ognuno trascorre ripetute vite sulla Terra. In occidente, pur senza rendersene conto, l’uomo è costretto ad arraffare il più possibile in un’unica vita, spasmodicamente e disperatamente.

Le cose diventerebbero diverse anche in occidente se in un numero sufficiente di persone l’idea della reincarnazione e del karma si trasformasse in una convinzione capace di trasformare la vita. Quest’idea genererebbe una tale forza interiore nell’uomo, da fargli decidere di compiere e tralasciare molte cose con pazienza e tenacia per ottenerne altre che riguarderebbero una vita seguente. Smetterebbe di voler raggiungere tutto in una sola vita – cosa impossibile –, e impiegherebbe tempo, pensieri e volontà per adempiere il possibile. Ma questo nuovo modo di vivere non appare per incanto dall’oggi al domani. Presuppone invece un lavoro serio e costante su di sé.

Se il numero di persone che pongono mano a questo lavoro è insufficiente, il materialismo che spinge a possedere il massimo il più in fretta possibile cagionerà sempre più sofferenze fra gli uomini. La coscienza della reincarnazione e del karma mi sembra l’unico modo possibile per superare la miopia del materialismo. Grazie ad essa l’uomo può viversi come un essere spirituale, come un Io che passa di vita in vita per progredire sempre di più. E ognuno ha a disposizione tutto il tempo necessario – non c’è nessun motivo d’essere impazienti.

Dobbiamo il nostro vivere all’insegna del rendimento e della smania interiore sostanzialmente all’idea che di vita ce ne sia una sola. Ma persino la persona più dotata e laboriosa alla fine della vita deve ammettere: sono appena agli inizi della mia evoluzione, in me sono assopite ancora infinite capacità che non ho potuto sviluppare ed esprimere. Ogni uomo muore ancora incompiuto e bisogna porsi la domanda: che ne sarà di tutto quello che sarebbe potuto diventare?

Vedo solo due possibilità per la nostra epoca: o aumenterà l’interessamento attivo per la realtà della reincarnazione e del karma, o si accrescerà la mania di distruzione in alcuni, e la depressione in altri. Questi fenomeni hanno già raggiunto dimensioni preoccupanti, senza che se ne sia compresa chiaramente la causa.

L’idea di essere sulla Terra solo per una volta e per un breve periodo diviene sempre più insopportabile a livello inconscio per molti, dal momento che non è conciliabile con l’illimitata spinta evolutiva dell’uomo.

«Ah, in tempi remoti che vivemmo
tu fosti mia sorella o la mia sposa»

Chi sa di avere a disposizione più di una vita può sentirsi corresponsabile di tutta l’evoluzione della Terra e dell’umanità, può capire e vivere il proprio contributo agli avvenimenti mondiali. E allora più del successo esteriore per lui conteranno le conquiste interiori: nella tensione verso la conoscenza, nelle creazioni artistiche, nell’esercizio della religione. Tutto ciò che fa parte della natura umana diventa esperienza vissuta.

Costui parte dal presupposto di poter fare alternativamente la conoscenza diretta di entrambi i sessi – una volta nascerà uomo e l’altra donna. Si aspetta di rincontrare nella vita come amici e anime affini le persone che in un’altra esistenza sono state sue consanguinee. È questa una meravigliosa alternanza perché la consanguineità ha qualcosa di unilaterale, non permette la libertà di scelta, non dà vie di scampo. Per una vita intera non posso scambiare mia madre con un’altra, i genitori non possono sostituire i propri figli.

Proprio perché per tutta la vita devo rapportarmi con i miei parenti per un legame di sangue ineluttabile, nasce in me il forte desiderio inconscio di poter entrare in relazione con loro per libera scelta, in un’altra vita. Tutti vorrebbero vivere un rapporto di amicizia con i propri parenti più stretti, un legame scelto e costruito in assoluta libertà.

C’è una poesia di Goethe che comincia con le parole: «Perché ci desti sguardi profondi...». Nei versi descrive la perfetta sintonia d’anima che vive con una donna, la bellezza dell’accordo interiore che li unisce. E nel mezzo della poesia esclama: «Ah, in tempi remoti che vivemmo tu fosti mia sorella o la mia sposa!».

Un’idea cristiana:
l’uomo diventa divino attraverso molte vite

La prospettiva della reincarnazione può far vivere anche al cristianesimo un profondo rinnovamento. L’affermazione fondamentale del cristianesimo è che Dio si è fatto uomo nel Cristo. Se Dio può diventare uomo, allora natura divina e natura umana non si escludono a vicenda. E significa anche che l’uomo può diventare sempre più simile a Dio.

Nel Vangelo di Giovanni il Cristo afferma in modo inequivocabile: «Voi siete dèi» (Gv 10,34). E a questo punto per molti la faccenda si fa problematica. Per la chiesa cattolica, ad esempio, che a chiunque sostenga che l’uomo è chiamato da Dio a diventare divino, sia pure gradualmente, risponde: Presuntuoso! Solo la Chiesa è collegata direttamente a Dio, non tu!

Sono tuttavia sempre più numerosi i credenti che rifiutano questo rapporto privilegiato tra la chiesa e il Padreterno, dal momento che anche i più alti prelati sono esseri umani, non sovrumani. E quando questi uomini asseriscono di poter creare un rapporto con Dio, affermano al contempo che è possibile alla natura umana trovare l’accesso al divino. E allora perché mai quest’apertura dovrebbe essere riservata a pochi con l’esclusione di tutti gli altri? Se Dio si è fatto uomo e se l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, allora fra Dio e l’uomo non può esserci un abisso eternamente incolmabile. Dio stesso lo ha attraversato creando un ponte col suo divenire uomo.

Però, se all’uomo fosse concesso di vivere davvero una sola volta, la sua divinizzazione sarebbe impossibile, sarebbe realmente presunzione allo stato puro, giacché anche il migliore degli uomini alla fine della sua vita attuale è ben lontano dall’aver raggiunto il livello divino dell’esistenza. Se l’uomo ha a disposizione una sola vita, la distanza fra lui e Dio resta davvero incolmabile. Se invece l’amore divino gli offre svariate vite, a poco a poco l’uomo può raggiungere la pienezza, può percorrere l’intera evoluzione che nel Figlio di Dio, nel Cristo, si è mostrata nella sua compiuta realizzazione.

E gettiamo così una luce completamente diversa sulle azioni del Cristo – sui cosiddetti miracoli. Finché si presume che l’uomo viva una volta sola, si è costretti a dire: i miracoli sono azioni che solo un Dio può compiere. L’uomo non ne sarà mai capace. Ma allora ci si dovrebbe anche chiedere: che amore è quello del Cristo se è venuto nel nostro mondo per mostrarci quello che ci è impossibile fare? Proprio Lui ci mortifica così, Lui che il cristianesimo chiama l’Essere dell’Amore perfetto?

Se invece consideriamo le azioni del Cristo nell’ottica delle molteplici vite, allora la realtà del suo amore sta nel mostrarci attraverso la meraviglia delle sue azioni – i “miracoli” – tutto ciò che noi stessi saremo in grado di realizzare nel corso della nostra lunga evoluzione. Persino la resurrezione, il miracolo sommo, diviene la prospettiva evolutiva reale per ogni uomo: tutto ciò che oggi è materiale sarà trasformato dall’uomo stesso in spirito.

La grazia divina concede a tutti la possibilità di compiere in libertà, vita dopo vita, la cristificazione del proprio essere, nell’amore per tutte le creature. E questa è una grazia davvero grande, molto più generosa di quella che ci concede solo una vita.

La reincarnazione è fedeltà alla Terra e all’umanità

Uno dei cardini di ogni vera religione è che non esiste una salvezza privata. Nessun uomo può essere redento se non lo sono anche gli altri. Tutti gli uomini fanno parte dell’intera umanità, sono membri di un unico organismo – come i rami e le foglie che appartengono allo stesso albero. Ma come si può, allora, sentirsi realmente e onestamente partecipi dell’organismo dell’umanità, se si vivono in Terra con i propri simili forse sessanta, settant’anni, e poi per millenni e millenni non si ha più nulla a che fare con la vicenda umana?

Possiamo allora considerare la reincarnazione come una fedeltà d’amore all’umanità, al corpo spirituale del Cristo. È la disponibilità responsabile a condividere sempre ciò che gli uomini vivono e conquistano sulla Terra, è la decisione di non voler essere redenti senza che lo siano anche tutti gli altri.

Un’altra affermazione centrale del cristianesimo è quella secondo cui il Cristo con la sua incarnazione ha fatto della Terra il proprio corpo. Come l’umanità è il suo corpo spirituale, così la Terra è realmente il suo corpo fisico. «Questo è il mio corpo», dice riferendosi al pane, «Questo è il mio sangue» dice riferendosi al succo dell’uva. E se questo è vero, i nostri ripetuti ritorni sulla Terra sono anche la fedeltà al Cristo che ha detto di sé: «Io sono con voi fino alla fine dei tempi».

L’uomo non è responsabile solo della propria evoluzione, ma anche di quella degli animali, delle piante e dei minerali – quelli che San Francesco chiamava fratelli e sorelle. I tre regni naturali compiono da millenni il grande sacrificio di mettersi al servizio dell’evoluzione umana. Di conseguenza, tutte le creature portano in sé il desiderio e la nostalgia di partecipare alla nostra libera umanità: gli animali vorrebbero imparare a parlare, a pensare, le piante vorrebbero muoversi, le pietre vorrebbero diventare vive... Se il Cristo ha fatto della Terra il proprio corpo, allora solo amandola nella sua interezza e restandole vicino per tutta l’evoluzione l’uomo potrà diventare un vero cristiano. Ciò avviene grazie al suo rinascere là dove vivono non solo gli uomini, ma anche le piante, gli animali e i minerali.

Una cultura umana per tutti i popoli
e per tutte le religioni

La riconciliazione fra le religioni può essere realizzata solo attraverso il singolo individuo. Se una persona si convince che ogni uomo è attivamente coinvolto nell’evoluzione globale dell’umanità e della Terra, capisce anche che ogni uomo deve aver fatto l’esperienza diretta di tutte le religioni che sono sorte. Una volta o l’altra tutti abbiamo vissuto sulla Terra come indù, come buddisti, come seguaci di Zarathustra, adoratori di Osiride in Egitto, di Zeus in Grecia e così via.

Chi sa vedere nel ripetersi delle vite le infinite occasioni di evoluzione individuale, vi vedrà anche la possibilità per tutti gli uomini di creare una cultura universale, una religione dell’umanità che ci unisca tutti. Il significato più profondo delle singole religioni che ogni uomo ha vissuto sta in ciò che ciascuna l’ha fatto diventare. L’opera comune di tutte le religioni è la loro armonizzazione nel cuore di ogni uomo, è l’uomo stesso nella pienezza del suo essere.

Idee come queste possono essere espresse sia in Asia che in Europa, tanto in Africa quanto in America. Se sono universalmente valide, saranno utili al prossimo gradino di evoluzione dell’umanità: serviranno a superare tutte le barriere tra le confessioni e le culture. Con queste idee si può parlare una lingua universalmente umana, che unisce gli uomini invece di dividerli.

Negli ultimi secoli la rivoluzione copernicana ha per così dire ipnotizzato l’umanità sulla dimensione materiale. La conquista del mondo fisico per mezzo della scienza e della tecnica si è espansa in lungo e in largo. La cultura del materialismo, fissata sull’esteriorità, ha reso gli uomini superficiali a livello interiore. L’uomo d’oggi non sa dare risposte alle domande più profonde della vita, non sa da dove viene né dove sta andando. È diventato sempre più abile e potente nel dominio del mondo fisico, ma è rimasto un analfabeta per quanto riguarda il mondo sovrasensibile.

Il nuovo millennio offre a tutti la possibilità di compiere una nuova rivoluzione copernicana: prendendo coscienza delle leggi dell’evoluzione di ogni spirito umano, dell’Io eterno che va di vita in vita, è possibile creare una cultura umana universale, in cui anche la realtà interiore rivesta un ruolo importante. Dopo l’esteriorizzazione e l’appiattimento sulla sola realtà fisica, è urgente una cultura dell’approfondimento e dell’interiorizzazione.

Un’umanità che prenda coscienza della reincarnazione e del karma sarà capace di riconoscere l’uomo come uno spirito incarnato. E allora i rapporti interpersonali saranno caratterizzati da una sempre maggiore tolleranza, perché ognuno saprà che tutti hanno il tempo per vivere tutto l’umano, per diventare in pienezza ciò che ogni Io umano può e vuole diventare. Nessuno avrà più bisogno di deprimersi o di diventare aggressivo; ognuno saprà che nell’evoluzione regna una giustizia che favorisce tutti, anche quando parla il linguaggio della sofferenza. Capirà che tutto è per l’uomo, nel mondo, tutto è stato creato per sostenerlo nel suo straordinario cammino verso la libertà.

[1]Sul tema del karma, V. P. Archiati, Nati per diventare liberi – Ed. Archiati

[2]Rudolf Steiner ha descritto, fra le altre, la serie delle incarnazioni che vede lo stesso Io umano incarnarsi nella successione Elia - Giovanni il Battista - Raffaello - Novalis, raffigurata sulla copertina di questo libro. Presa come ipotesi di lavoro, quest’affermazione può diventare l’inizio di un’opera di verifica molto avvincente. Si tratta di riuscire ad approfondire la propria conoscenza e ad affinare la propria sensibilità provando a considerare le biografie di queste quattro personalità diverse come i modi differenti di esprimersi della stessa individualità, con tanto di rimandi, sviluppi e richiami da una vita all’altra.

Un chiaro accenno all’identità fra Elia e Giovanni il Battista è contenuto nelle parole del Cristo, riferite da Matteo: «E se lo volete accettare, è lui quell’Elia che deve venire. Chi ha orecchie per intendere, intenda!» (Mt. 11,14-15). « ‹Ma vi assicuro che Elia è già venuto, e non l’hanno riconosciuto, ma lo hanno trattato come hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire a causa loro›. Allora i discepoli compresero che aveva parlato loro di Giovanni Battista» (Mt. 17,12-13).

[3]Per un approfondimento, V. P. Archiati, L’arte dell’incontro – Ed. Archiati [N.d.T.].

A proposito di Pietro Archiati

Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

Foto di Pietro Archiati

Quest’opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons. Salvo dove diversamente indicato, per i materiali presenti su questo sito vale la Licenza Creative Common “Attribution-NonCommercial-ShareAlike 2.0”: è libera la riproduzione (parziale o totale), diffusione, pubblicazione su diversi formati, esecuzione o modifica, purché non a scopi commerciali o di lucro e a condizione che vengano indicati gli autori e, tramite link, il contesto originario.

creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.5/it/

Licenza CCreative Commons by-nc-sa_eu
Licenza Creative Commons
Arrivederci alla prossima vita - Pietro Archiati - retro copertina