Questo testo è una nuova edizione profondamente riveduta di
Vivere con gli Angeli e con i morti
dello stesso autore
www.liberaconoscernza.it
ISBN 978-88-96193-19-8
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Pietro Archiati
Angeli e morti ci parlano
Nuove prospettive per la nostra vita
Indice
Primo capitolo
Come si dialoga con gli angeli e con i morti?
• Perché il cristianesimo parla poco degli Angeli?
• Il concetto di Dio è diventato rarefatto
• Noi facciamo gli Angeli a nostra immagine e somiglianza?
• I primi passi per dialogare con i Morti
• Un Morto che parla con la bocca di un vivo?
Secondo capitolo
Come lavora l’angelo nella nostra anima?
• Il purgatorio: prima fase della vita del defunto
• Gli effetti della libertà umana nel dopo-morte
• La crisi d’amore degli Angeli
• Perché nell’umanità d’oggi scarseggiano i geni?
• La coscienza dell’Angelo, dell’Io superiore e dell’io normale
• Il rapporto tra l’Angelo e il suo custodito
Terzo capitolo
Angeli e morti: una questione di fede o di scienza?
• La scienza oggettiva vale solo per il mondo visibile?
• La via del cuore e la via della mente
• Dionigi l’Areopagita e Scoto Eriugena
• “L’eterno riposo dona loro, o Signore...”
Quarto capitolo
Le gerarchie angeliche al lavoro nella natura e nell’uomo
• I Morti vivono di fiducia e ringiovanimento
• Come parlare ai Morti e come ricordarli
• Tre modi di concepire l’evoluzione
• Gli Angeli “caduti”, ovvero ritardatari
• Quanti tipi di Esseri popolano l’universo?
• Gnomi, ondine, silfidi e salamandre: “i distaccamenti” della terza gerarchia
• Impronte nella natura della seconda e della prima gerarchia
• Come gli Angeli parlano fra di loro
Quinto capitolo
Angelo del singolo, arcangelo della comunità spirito di un’epoca: il nostro rapporto con loro da vivi e da morti
• L’Angelo, guida sul cammino individuale
• L’Arcangelo, guida delle comunità umane
• I Principati, reggenti dell’alternarsi delle civiltà
• Vita interiore degli Angeli e mondo esterno
• Veracità, amore scambievole e amore per l’autonomia dell’altro
Primo capitolo
COME SI DIALOGA
CON GLI ANGELI E CON I MORTI?
La soglia fra i due mondi
Ovunque nel mondo si nota oggi un rinnovato interessamento nei confronti dei cosiddetti Angeli. “Cosiddetti”, per non dare in astratto per scontata la loro esistenza e per nota a tutti la loro identità. Preferisco avvicinarli a poco a poco, dando la precedenza alla descrizione concreta di alcuni fatti, per poi entrare nei quesiti teorico-conoscitivi che ne ricercano la spiegazione e il fondamento oggettivo.
Un conto, naturalmente, è constatare questa diffusa curiosità per lo spirituale che spesso vive a livello di sensazione – nel sito di James Redfield, l’autore de La profezia di Celestino, ci sono più di duemila titoli sugli Angeli! –, e un altro conto è coglierne il senso più profondo per la nostra vita di ogni giorno. In questa direzione intendo mettere a disposizione dei pensieri che spero siano in grado di evocare in ognuno riflessioni personali.
Viviamo in un tempo in cui la tecnica ci permette di fare cose mai sognate in passato, e di fronte a tante sollecitazioni esterne il nostro mondo interiore rischia di diventare sempre più monotono e noioso. Se andiamo indietro di due o trecento anni, la vita esterna era molto più semplice e si viveva col sentimento di fondo che il mondo fosse ancora tutto da scoprire. Oggi la vita va di corsa, scienza e tecnologia offrono una straordinaria quantità di possibili sperimentazioni, e così il ritmo accelerato dell’esistenza può bruciare prematuramente i desideri e l’uomo approda alla noia.
Che altro c’è di nuovo?, è una domanda frequente. A venticinque, trent’anni, se non prima, ormai si è assaggiato un po’ di tutto: il mondo appare scontato, e si va perdendo il senso del futuro. La capacità di stupirsi e d’incantarsi non è più di casa in chi si sente realista, e con le forze della meraviglia scompaiono lo slancio e la capacità di sorpresa.
Una frenesia insaziabile spinge l’uomo moderno ad accelerare sempre di più i ritmi della vita fino a stordirsi, e allora sorge un fenomeno che pure conosciamo bene: la passione per l’esperienza del limite. Nella gioventù, per esempio, c’è la tendenza a voler toccare le possibilità estreme delle forze fisiche – la parola record vuol dire “limite”. Sul Time Magazine si poteva leggere che un tale ha scavalcato il Gran Canyon in motocicletta nel punto più stretto della gola: saranno stati tra i sessanta e i settanta metri. È la ricerca del brivido che dà la vertigine del pericolo massimo e che si accompagna alla forza, alla velocità, al rischio fisico.
Il limite assoluto della vita è la morte: dunque niente di strano che, in questa spinta verso i confini ultimi, l’uomo pervenga al desiderio di far propria anche la soglia di tutte le soglie, quella che determina la frontiera tra due mondi. Il concetto classico di “soglia”, infatti, è quello di un limitare che separa il mondo della percezione sensibile, noto a tutti, dal mondo sovrasensibile, spirituale. Questa è la soglia per eccellenza, della quale ogni altra esperienza del limite vuol essere in fondo un’imitazione.
La ricerca del limite fisico dunque, è una specie di versione laica del desiderio di varcare quella soglia che separa il mondo fisico da quello spirituale. È una tensione in se stessa profondamente religiosa anche questa, ma va a concentrarsi e manifestarsi solo nel mondo fisico proprio perché ci siamo estraniati dalla realtà spirituale. Resta il fatto, però, che nel profondo c’è il desiderio d’incontrare l’altro limitare, di varcare l’altra soglia. Soprattutto nei giovani si nota che il mondo fisico è vissuto come troppo angusto e monotono, anche se non si comprende che è così perché manca l’esperienza del sovrasensibile.
In chi, invece, è chiara l’aspirazione a cimentarsi con le realtà spirituali, è presente anche il desiderio di non restare al livello della fede o della pietà tradizionali. Costui vorrebbe poter indagare il mondo degli Angeli e dei Morti con la stessa scientificità, con la stessa forza penetrante del pensare che lo spirito umano ha esercitato ormai da secoli riguardo al mondo visibile.
La nostalgia odierna del rapporto con l’Angelo è anche quella di poter stabilire una comunicazione con un Essere per il quale l’umano non può diventare noioso ma è sempre una sorpresa, è sempre nuovo. Se gli Angeli vivono in una dimensione diversa dalla nostra, non possono avere esperienza di che cosa significhi abitare in un corpo di materia che sottostà alle leggi della natura, non sanno che cosa voglia dire diventare vecchi e stanchi, lasciarsi alle spalle la pienezza delle forze vitali, tutta l’energia della gioventù.
Se è vero che gli Angeli sanno di noi soltanto quel che diciamo loro, e se è vero che “ci invidiano” l’umano che non hanno, allora noi uomini, quasi in un inconsapevole scambio, rispondiamo al loro stupore nei confronti di tutto ciò che è umano col desiderio d’incontrarli, perché ci ridiano l’incanto e la meraviglia del nostro stesso essere. In un tempo in cui l’umano sembra esaurito nei limiti dell’immagine fisica che le scienze naturali gli attribuiscono, ognuno desidera, anche se inconsciamente, lasciarsi nuovamente narrare dagli Angeli la bellezza dell’essere uomini.
In un’antica leggenda ebraica Jahvè, dopo aver creato tutte e tre le gerarchie angeliche, tutti gli animali, le piante e le pietre (come narra la Genesi), dice agli Angeli: “Ora devo creare l’essere più importante di tutti quelli che vivono sulla Terra!”. Gli Angeli si guardano intorno…: noi non siamo importanti abbastanza? Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli, Angeli! … Eppure dice che manca ancora sulla Terra la creatura più importante! Allora Jahvè porta gli Angeli a vedere varie cose da lui create e chiede: “Come si chiama questo animale?” e punta il dito verso una mucca. Gli Angeli guardano, ma non conoscono il nome. “E come si chiama questo?”, insiste Dio indicando un cristallo. Gli Angeli non lo sanno. “E questo?” chiede ancora indicando un giglio. Silenzio. E Jahvè conclude: “Ecco, vedete? Voi non sapete dirmi il nome delle cose. Perciò devo creare un essere fatto apposta per dare un nome a tutti gli esseri che vivono sulla Terra.”
Dare il nome alle cose significa trovarne il concetto: nel mondo visibile ci voleva un essere capace di percepire la realtà e di pensarla. Gli Angeli e tutti gli altri Esseri spirituali naturalmente pensano, ma in tutt’altro modo: il loro pensare non nasce dal vedere le cose con gli occhi, dall’udirle con le orecchie, dal tastarle con le mani… Per loro la conoscenza non si scinde da un lato nella percezione dei sensi e dall’altro nel concetto che la mente aggiunge.
La leggenda continua così: dinanzi agli Angeli ancora perplessi, Adamo, la nuova creatura, guarda il firmamento e la Terra. Jahvè chiede: “Adamo, come si chiama quell’animale?”, e lui: “È una mucca, no?”. Gli Angeli sono stupefatti: ma come fa a saperlo? E ancora Jahvè chiede: “E questo cos’è?”. “È un quarzo, non lo vedi?”, risponde Adamo. “E questo?”. “È un bel giglio, perbacco!”.
Con un linguaggio adatto alla nostra epoca scientifica, una moderna scienza della realtà spirituale traduce questa leggenda affermando che agli esseri umani è affidato nell’evoluzione del mondo il compito di costituire una nuova gerarchia angelica – la decima[1]. L’Umanità è, nel suo divenire, la decima gerarchia, perché immette nel cosmo una dimensione di coscienza mai apparsa prima. Proprio in questo suo apporto originale all’evoluzione dell’intero universo risiede la ragione stessa del suo esistere.
Rilevando che c’è nell’umanità di oggi un interessamento crescente nei confronti degli Angeli e di tutti gli Esseri che vivono nei mondi spirituali – quindi anche dei Morti –, dobbiamo aggiungere che la ricerca dell’esperienza della soglia, del limite, porta con sé anche una profonda paura, per lo più inconscia.
È la paura dell’ignoto: noi ci rendiamo conto sempre di più di essere degli analfabeti dello spirito, e perciò temiamo le conseguenze per la nostra vita quotidiana se cominciamo a prendere sul serio i moniti degli Angeli e dei Morti. Se non rimaniamo nella vaga teoria ma iniziamo a occuparci delle loro ispirazioni per il nostro concreto vivere, è quasi inevitabile il sopravvenire di una sana e profonda inquietudine per i cambiamenti reali di orientamento che ne possono derivare.
È altrettanto vero, però, che nel momento stesso in cui cominciamo a far emergere nella coscienza questa paura, cominciamo anche a guarirla. Una paura che diventa conscia viene per lo stesso fatto dimezzata nella sua forza paralizzante: lo sgomento più terribile e dannoso è quello che rimane vago e oscuro.
Perché il cristianesimo parla poco degli Angeli?
Che cosa dice riguardo agli Angeli la religione tradizionale, soprattutto quella cristiana che è alla base della cultura occidentale? Il metodo migliore per capire i vari passi compiuti dall’umanità nel corso dei secoli e dei millenni è quello di porre i fenomeni in chiave evolutiva. Solo così si può mantenere attiva la libertà interiore di chiedersi quale ulteriore cammino desideri oggi compiere l’essere umano, all’interno del cristianesimo stesso.
Le Scritture cristiane, i Vangeli, non contengono una dottrina sistematica sugli Angeli, né sul dopo-morte: l’esistenza degli Angeli e del mondo spirituale viene semplicemente presupposta, cioè viene data per scontata. I Vangeli non sono interessati a propagare dottrine bensì a dare all’uomo spunti esistenziali, aiuti efficaci per il suo cammino quotidiano.
Favorire il cammino della vita è tutt’altra cosa che propinare dogmi. Quando si vuol promuovere la trasformazione reale dell’essere quale premessa per un comprendere più approfondito, si danno delle indicazioni conoscitive di massima. È questo il caso dei Vangeli, i cui autori ben sapevano che l’umanità doveva percorrere un preciso cammino nel quale è compresa la tappa del materialismo e della scienza moderna, in base alla quale poi sarebbe sorto quell’eros conoscitivo che vuole affrontare con metodo scientifico anche la realtà degli Esseri e dei mondi spirituali.
Con il trascorrere dell’evoluzione e grazie alla conquista di nuove forze interiori, gli uomini saranno in grado di comprendere sempre meglio i misteri racchiusi nelle Scritture. I testi cristiani accennano alla presenza degli Angeli e dei Morti, come fosse la cosa più ovvia di questo mondo, compreso il fatto che gli uni e gli altri influiscono profondamente sul divenire terrestre. Il compito di andare più a fondo nella conoscenza di queste realtà viene lasciato all’evoluzione di ognuno. Ci sono pochi testi che lascino chi li legge così interiormente libero come fanno i Vangeli. Non c’è in essi alcuna norma morale: l’unica indicazione, che è stata intesa impropriamente come un comandamento, è quella di amare, perché l’esperienza dell’amore apre a tutto il resto.
“Vi do un comandamento nuovo”, dice il Cristo nelle nostre traduzioni del Vangelo. Ma la parola greca entolè è proprio l’opposto di “comandamento”: en significa dentro e tolè (da tèlos) è il fine. In realtà il Cristo dice: “Vi indico in che modo l’essere umano entra dentro il fine evolutivo del suo cammino, in che modo cioè raggiunge la pienezza del suo essere: attraverso le forze dell’amore”. È un comandamento? No, è un’indicazione conoscitiva che dice: l’essenza dell’umano è l’amore. Nella misura in cui ami entri nella pienezza finale del tuo essere, ma resti libero di farlo o di non farlo. Traducendo “Vi do un comandamento nuovo”, si travisa un elemento conoscitivo trasformandolo in un’ingiunzione morale.
Consideriamo, ora, la prassi di vita cristiana. Negli ultimi secoli, e soprattutto negli ultimi tempi, essa ha subito in tutto e per tutto l’irrompere del materialismo. La caratteristica fondamentale del cristianesimo attuale è di essere intriso di materialismo – e non poteva essere altrimenti, perché il cristianesimo cammina con l’umanità. La conoscenza e la comunione con gli Esseri spirituali sono quasi del tutto sparite anche nella prassi di vita cristiana. Questa è la situazione attuale.
Sta di fatto, però, che ci troviamo in una fase di crescita in un certo senso molto positiva e privilegiata: poiché non c’è più “un’anima di gruppo” che si lasci indirizzare volentieri dalla religione nella vita sociale, e non c’è una chiesa che sia in grado di amministrare la conoscenza spirituale, proprio per questo l’individuo ha la possibilità di cercare il sovrasensibile con le forze genuine del suo amore.
L’antica ed efficace forza paterno-materna della tradizione oggi tace nell’umanità; ugualmente, quando il figlio comincia a crescere e a diventare autonomo, il genitore si ritira. In questo senso anche la conduzione da parte della chiesa, che si è sempre presentata come madre, è giusto che si ritragga di fronte alla crescente autonomia del singolo uomo che, diventato adulto, è in grado di decidere le proprie sorti.
Siamo dunque immersi in un’atmosfera di materialismo cristiano anche nei confronti degli Angeli, e siamo a una svolta: anche qui ci troviamo di fronte all’esperienza del limite. Molti non riescono più a sopportare né il peso del materialismo né un cristianesimo così esangue da ignorare la realtà degli Angeli, da non saper più distinguerne i vari cori, con i rispettivi nomi. Dante sapeva ancora rivolgersi ai vari esseri angelici chiamandoli per nome e descrivendoli uno per uno.
C’è anche un numero sempre maggiore di persone che cadono nella depressione o nella violenza e spesso non ne comprendono il motivo. Detto in modo aforistico, chi vivesse in comunione reale col proprio Angelo custode non avrebbe mai bisogno di essere né depresso, né aggressivo: non gli riuscirebbe proprio. Il respiro interiore diventa depresso, o compresso, quando manca l’aria spirituale dell’Angelo custode, il moto della sua ala che ci fa volare, che ci fa vedere tutto dal suo lato positivo.
È importante considerare gli effetti del materialismo non solo come un disagio dell’anima, ma, più a monte, come una vera e propria crisi di astinenza dallo spirito. Se vogliamo curare la malattia animica della depressione o dell’aggressività restando nella dimensione dell’anima, non ci riusciremo mai. Un’anima depressa non è un’anima malata: è un’anima a cui manca la realtà dello spirito. Serve a poco far terapie sull’anima: bisogna conoscere e godere ciò che è spirituale. E dicendo “spirito” intendiamo tra l’altro la realtà degli Angeli e dei Morti, cioè di tutti gli Esseri intermediari tra l’umano e il divino.
Nel cristianesimo tradizionale – e la cultura cattolica italiana è una variante del cristianesimo – c’è un motivo più profondo ancora che spiega l’aver dimenticato gli Angeli. Si potrebbe addirittura dire che il cristianesimo è la prima religione nell’umanità che ha perso di vista la realtà delle gerarchie angeliche.
Ancora nella mitologia greca troviamo un Olimpo popolato di Esseri divini. Gli dei del paganesimo greco sono Esseri spirituali che, nella loro natura e nel loro operare, mostrano di aver raggiunto non certo il livello altissimo della Trinità e neanche quello delle gerarchie angeliche superiori, ma quello degli Angeli e degli Arcangeli del cristianesimo. Nel linguaggio umano non è mai questione di parole, ma sempre della realtà che le parole vogliono indicare.
Come mai allora il cristianesimo tradizionale ha fatto piazza pulita degli Esseri intermediari tra l’uomo e Dio? C’è una ragione profonda e va capita perché fa parte del cammino dell’uomo sulla Terra. Il cristianesimo è sorto con al suo centro un grande compito: tutelare il monoteismo come fondamento necessario all’autoesperienza dell’Io, cioè di quella forza divina unitaria e unificante che vive anche nell’interiorità umana. Il cristianesimo è vissuto e vive tuttora nella paura che, qualora si sottolineino i mediatori angelici, si finisca per ricadere nel politeismo pagano, col rischio di far perdere all’uomo il senso del Dio uno e unico e della sua immagine nell’Io umano.
All’inizio dell’era cristiana la conoscenza scientifica delle gerarchie celesti è stata per questo motivo affidata da Paolo di Tarso a Dionigi l’Aeropagita, l’esponente massimo della corrente esoterica del cristianesimo. Egli descrisse tre ordini gerarchici, ognuno costituito da tre diversi gradi di Esseri spirituali, cui lo stesso Dante fa riferimento cantando i nove Cori angelici nella sua Divina Commedia.
Accanto a questa corrente esoterica, il cristianesimo ufficiale mette in sordina la questione degli Angeli, anche se un Tommaso d’Aquino dedica un’opera non da poco alle “Sostanze separate” – ma anche qui si vede che la questione è più al livello di dottrina teologica che di prassi di vita. Oggi il cristianesimo vuol riscoprire la dottrina degli Angeli nella vita quotidiana.
Il pericolo che il monoteismo potesse venir compromesso dalle schiere di Esseri spirituali intermedi, non è stato il solo a determinarne l’oblio. La chiesa aveva un’altra preoccupazione, poco ammessa ma non per questo meno pressante: quella che gli uomini, sottolineando i vari gradi di trapasso tra l’umano e il divino, e dunque della continuità reale tra l’uomo e Dio, si mettessero in testa di poter diventare loro stessi divini – se non addirittura di esserlo già! Dal punto di vista della prassi cristiana questo pericolo è ben più allarmante della tutela del monoteismo: non sia mai che gli uomini pretendano di aver parte davvero alla natura divina! L’autorità della chiesa ci rimetterebbe non poco.
Se consideriamo le schiere angeliche come una scala di Giacobbe che va dall’umano al divino, l’Angelo, rispetto all’uomo, partecipa con intensità maggiore al divino. E l’Arcangelo è ancora più divino dell’Angelo. Nelle Scritture è detto: “Tu hai fatto l’uomo di un gradino inferiore all’Angelo”. Ma se l’uomo è in evoluzione, prima o poi potrà salire al gradino superiore!
Si presenta qui una polarità propria di ogni evoluzione: essa procede sia per graduali e lente trasformazioni, sia per veri e propri salti qualitativi. Un esempio di salto qualitativo è la morte: si passa repentinamente da una condizione incarnata a una puramente animico-spirituale. Invece abbiamo a che fare con trasformazioni graduali quando, per esempio, l’uomo passa dalla giovinezza alla maturità, alla vecchiaia.
Il passaggio dalla condizione umana a quella angelica è da comprendere come un lento processo di avanzamento che abbraccia uno sconfinato arco di tempo. Una tale affermazione presuppone però la risoluzione di un quesito che il cristianesimo ufficiale non ha finora affrontato: quello delle molteplici vite terrene concesse a ogni uomo. Si è dato finora per scontato che si vive una volta sola, e allora non può essere che pura illusione il volere, in una vita, raggiungere il divino.
La riconciliazione della polarità che c’è tra il salto qualitativo e la lenta gradualità si ha alla fine di ogni ciclo evolutivo: il risultato globale dell’evoluzione umana, fatta di millenni e millenni, alla fine condurrà al cambiamento vero e proprio di livello. L’essere umano sarà allora assunto al livello dell’Angelo.
Il cristianesimo tradizionale ha temuto che gli uomini prendessero sul serio, o fraintendessero, la frase lapidaria del Vangelo di Giovanni in cui il Cristo dice: “Voi siete dei”. Ma il Cristo non vuole dire: voi esseri umani siete già e automaticamente divini; il senso delle sue parole è che ogni uomo è potenzialmente un essere divino, perché porta in sé il dinamismo evolutivo che gli permette di partecipare sempre più pienamente al divino. E una volta capito questo, diventa anche chiaro che l’evoluzione di ogni singolo uomo non può che abbracciare la totalità dell’evoluzione terrestre, dall’inizio alla fine.
La preoccupazione della chiesa di arginare la presunzione umana ha pure una sua giustificazione, perché è reale la tentazione di ritenersi già più deificati di quanto si sia realmente, trascurando così il compito di divenire sempre più simili al divino. Questa inquietudine tutelatrice non è però più giustificata quando vuol proibire il cammino spirituale consapevole della sua meta divina, che è una vera e propria “chiamata evolutiva”. Che altro significa per l’uomo essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio, se non che è stata impressa nel suo essere la chiamata a diventare sempre più divino nel corso della sua lunga evoluzione?
Il concetto di Dio è diventato rarefatto
Il Dio di molti cristiani è una grande astrazione, o poco più. Quando un cristiano oggi dice: è la volontà di Dio che ha fatto succedere questo e quest’altro, la sua affermazione non si riferisce a nulla di concreto.
È come se, dopo aver mangiato una torta squisita, per ringraziare la persona che l’ha fatta chiedessimo: chi è questo bravo pasticcere? e ci rispondessero: è un uomo, oppure: l’umanità. È una risposta sbagliata? No, perché chi ha preparato quella torta fa certamente parte dell’umanità; ma è talmente generica quest’affermazione che non ci serve a nulla. Non ci permette di individuare il pasticcere e perciò non possiamo ringraziare concretamente nessuno.
Oppure, immaginiamo che una persona mi chieda che cosa si vede dalla finestra della mia stanza. Il mondo, rispondo io. Non è una risposta sbagliata, perché c’è proprio il mondo, là fuori; ma senza distinguere le macchine dalle case, le strade dai giardini, le motociclette dagli esseri umani, la mia affermazione resta vuota. Ugualmente, quando il cristiano dice: “l’ha voluto Dio”, questo Dio è un’astrazione enorme che con la realtà concreta ha poco da spartire.
L’umanità di duemila anni fa era ben diversa da quella attuale. Era un’umanità se vogliamo più “bambina” e perciò il tipo di religiosità che le corrispondeva doveva avere un carattere immaginativo e non ancora scientifico nel senso d’oggi. Ogni conoscenza diventa scientifica nella misura in cui sa distinguere e specificare, entrando nei dettagli.
La differenza fra un pedagogo e una persona che di pedagogia non si è mai interessata è che il primo non può confondere il comportamento di un bambino di due anni con quello di uno di tre, mentre l’altra persona lo fa dal momento che vede soltanto i tratti generali e approssimativi dei “bambini piccoli”.
Scientificità significa crescente complessità. La scienza richiede che i fenomeni vengano analizzati nei loro particolari, e necessita perciò di una terminologia articolata, proprio per non restare al livello superficiale. Il passato ci ha tramandato una religione fatta di generalizzazioni che oggi non è perciò più in grado di soddisfare chi porta in sé l’aspirazione alla scientificità – una delle cose più belle che abbiamo nel nostro tempo così difficile.
Rudolf Steiner afferma che se noi mettessimo insieme tutte le caratteristiche che la religione tradizionale attribuisce all’essere e all’operare di Dio, esse sarebbero a malapena sufficienti per descrivere l’essere e l’operare di un Angelo. Le rappresentazioni, i concetti adatti per riferirci all’entità e alla creatività dell’Arcangelo, o del Principato, per non parlare dei Troni, Cherubini e Serafini, o addirittura della Divinità, ci mancano del tutto. Questa lacuna spiega anche perché, pure in ambito religioso, permangano odio e guerra degli uni contro gli altri. Se, infatti, le nostre rappresentazioni su “Dio” non vanno oltre la realtà dell’Angelo, ed essendo l’Angelo un Essere di volta in volta diverso a seconda del suo custodito, ci ritroviamo ciascuno con un proprio “dio” diverso, fatto da ognuno a propria immagine e somiglianza. Lo chiamiamo Dio, ma in effetti ognuno descrive il suo rapporto personale con il proprio Angelo individuale.
Perciò, se vogliamo dialogare con gli Angeli e stabilire una reale comunione con loro imparando a viverci insieme, dobbiamo prima conoscerli oggettivamente. Ciò vale anche per gli uomini: come posso comunicare davvero con un altro uomo se non lo conosco? Che esperienza facciamo noi quando, parlando con qualcuno, abbiamo l’impressione che non ci capisca, che non ci conosca per niente? Constatiamo che manca la base per una comunicazione vera e fruttuosa. Il fondamento, l’atmosfera necessaria per ogni comunicazione, è la conoscenza.
La scienza dello spirito offre all’umanità nuovi e indispensabili elementi conoscitivi. La prima cosa da capire è che per entrare in rapporto con gli Angeli e con i Morti non esistono espedienti facili e immediati. D’altra parte, la tendenza a voler ottenere risultati istantanei è molto in voga nell’umanità d’oggi, abituata al mondo materiale.
A chi fosse alla ricerca di un modo sbrigativo per comunicare con gli Angeli sarebbe opportuno ricordare la fatica che dobbiamo fare quando andiamo in un paese straniero, dove la gente parla una lingua a noi del tutto sconosciuta. Se vogliamo dialogare con loro dobbiamo imparare la lingua, e una lingua non s’impara in un giorno. Per parlare con gli Angeli e con i Morti dobbiamo ugualmente imparare un linguaggio nuovo. Il loro linguaggio.
Noi facciamo gli Angeli a nostra immagine e somiglianza?
Per intendersi con gli Angeli e con i Morti l’umanità si deve dunque cimentare con l’apprendimento di un linguaggio completamente diverso, superando l’illusione che con trucchi o espedienti si possano risparmiare gli sforzi. In realtà si tratta di operare una vera e propria trasformazione del nostro essere, perché il linguaggio comprensibile agli Angeli e ai Morti non è fatto di parole, ma di atteggiamenti dell’animo. Più li coltiviamo e più entriamo in sintonia con loro, raggiungiamo la loro stessa lunghezza d’onda, per così dire, e possiamo farci capire e percepire i loro messaggi.
Per la cura di questa reciproca intesa c’è un imprescindibile punto di partenza: dobbiamo renderci conto che tutto quello che pensiamo e diciamo sugli Angeli e sui Morti non può essere che antropomorfico. Noi siamo uomini e non possiamo mai scavalcare l’umano: dobbiamo fare gli Angeli a nostra immagine e somiglianza, se vogliamo trovare ciò che è, appunto, comune. E va bene così, se esiste davvero una continuità evolutiva in tutto l’universo. Gli antichi chiamavano questo criterio conoscitivo “analogia”.
Ora, una caratteristica fondamentale dell’essere umano è quella di vivere come in due mondi: uno è quello esterno – gli altri uomini, i regni della natura, tutto ciò che cade sotto la percezione fisico-sensoriale –, e l’altro è il mondo interiore fatto di pensieri, sentimenti, atti della volontà che possono venir comunicati o anche celati. Sarà così anche per gli Angeli? L’indagine spirituale perviene all’affermazione che tutti gli esseri della terza gerarchia – Angeli, Arcangeli e Principati – hanno anch’essi esperienza di un mondo interiore, quale vissuto della loro anima, e di un mondo che sentono a loro esterno, che è come se fosse fuori di loro.
Interessante è però la differenza tra la qualità dei due mondi: per noi il mondo esterno, essendo spazialmente fuori rispetto al nostro essere, ci appare come oggettivo; il mondo interno ci sembra invece soggettivo, e ognuno può tenere per sé ciò che pensa o sente. Noi abbiamo la possibilità di mentire, per esempio, o di non far trasparire quello che viviamo dentro.
L’Angelo ha tutt’altra esperienza di sé: egli percepisce un mondo esterno solo quando manifesta la sua interiorità operando. Percepire l’uomo, per esempio, per l’Angelo significa percepire il suo stesso agire dentro l’essere umano. Il mondo esterno è perciò per lui la sua interiorità in quanto riversata, attuata all’esterno. L’Angelo non può dunque mentire, perché se percepisse qualcosa di diverso da ciò che interiormente vive, subirebbe un oscuramento di coscienza, cadrebbe in una specie di svenimento. Egli vive nella veracità perché può percepire soltanto quell’interiorità che lui stesso rivolge genuinamente verso l’esterno.
Non meno interessante è la vita interiore degli Angeli: essa non ha nulla di “angelico” in senso proprio, ma è fatta di tutte le ispirazioni di pensiero, di sentimento e di volontà che vi riversano dentro le gerarchie superiori: le Potestà, le Virtù, le Dominazioni, i Troni, i Cherubini e i Serafini. Un intero mondo di ideali, di mete evolutive che riguardano anche l’umanità, piove giù nell’interiorità degli Angeli come una grazia divina, e gli Angeli accolgono dentro di sé queste rivelazioni in modo fedelissimo.
Per comprendere una simile diversità tra la vita interiore ed esteriore dell’uomo e dell’Angelo, occorre rendere vivente il nostro pensare, così da riuscire a invertire i rapporti. Se non abbiamo la minima idea che l’Angelo percepisce all’esterno la manifestazione oggettiva del proprio essere, e che il suo mondo interiore non conosce egoismo e soggettività, non possiamo nemmeno iniziare quel cammino di conoscenza grazie al quale il nostro Angelo custode si sentirà sempre più in sintonia con noi. Conoscendolo meglio, creiamo l’elemento comune che permette a lui di manifestarsi e a noi di capirlo.
Se è vero che la “bontà” degli Angeli sta nell’interiorizzare la purezza cristallina delle ispirazioni e degli ideali che sgorgano da Esseri ancora più alti, in che cosa consiste la “caduta” degli Angeli di cui parla la tradizione religiosa? Se l’Angelo “buono”, non caduto, è quello che nella sua interiorità alberga fedelmente le rivelazioni di Esseri angelici superiori a lui, negli Angeli caduti dovrà esser nato il desiderio di avere in sé qualcosa di proprio.
Il cristianesimo ha visto in questa caduta degli Angeli un peccato di superbia, ma ciò significa porre le cose in chiave moraleggiante. Chi di noi non conosce il desiderio legittimo di aver qualcosa di proprio? In fondo, abbiamo partecipato anche noi alla caduta degli Angeli, e per fortuna questo evento non ha solo risvolti negativi. Ciò che nelle Scritture viene descritto come la tentazione perpetrata dal Serpente nei confronti dell’umanità, ha infatti posto la condizione necessaria per la nascita dell’autonomia dell’uomo, che lo ha reso capace di scegliere fra il bene e il male.
I primi passi per dialogare con i Morti
Anche per instaurare una comunicazione con gli esseri umani che hanno oltrepassato la soglia della morte, il primo passo da compiere è quello di conoscere la loro condizione d’esistenza. Nell’umanità attuale manca quasi del tutto la consapevolezza delle esperienze e delle regioni spirituali che i defunti attraversano dopo la morte. Sulle tombe c’è scritto spesso R.I.P. (Requiescat in pace, riposi in pace): non è un po’ poco augurare al defunto, che ha goduto per tutta una vita la sua attività, di farsi una bella siesta eterna? Il riposare in pace non si confà alla creatività dello spirito umano e mostra quanto siano povere le rappresentazioni che abbiamo dell’aldilà.
A questo riguardo la scienza dello spirito sorta tramite Rudolf Steiner indica quattro sentimenti fondamentali che rappresentano le categorie del linguaggio dell’anima dei Morti. Li chiamiamo “morti”, ma in realtà sono molto più vivi di noi perché la coscienza umana si amplia e si approfondisce quando lascia la prigione del corpo, che permette di vivere soltanto in un determinato momento e in un determinato posto. Nella dimensione dello spirito si può essere in tanti luoghi e in tanti tempi contemporaneamente.
Il primo sentimento che costituisce per il Morto un elemento di vita è la gratitudine per tutti gli esseri e per tutte le cose. Noi possiamo comunicare con i Morti soltanto se riusciamo a comprendere che l’elemento in cui vivono, la luce grazie alla quale essi capiscono ogni cosa, è la gratitudine. I Morti vedono ogni essere e ogni evento dal punto di vista della positività; noi, invece, siamo liberi di considerare anche negativi gli eventi della vita.
La gratitudine è un atteggiamento di apertura interiore, presente anche nelle profondità dell’animo dei vivi, o in quel sovraconscio che da sempre è stato chiamato Io superiore, o Io vero. L’Io superiore di ogni uomo – diversamente dall’io ordinario, che è la normale coscienza quotidiana – è grato per tutto ciò che la vita gli porta incontro, perché è convinto che ogni evento ha lo scopo di renderlo più ricco e gli offre nuove occasioni di crescita.
Noi forse non sappiamo che ancor prima che qualcosa accada, ancora prima che i nostri occhi si rivolgano verso qualcosa che ci aspetta domani o dopodomani, il nostro Io spirituale è già in quella realtà, immerso nella gratitudine, e dirige i nostri passi e i nostri organi di senso per farcela percepire e farcela vivere al positivo. L’Io superiore sa apprezzare anche la sofferenza, mentre l’io ordinario spesso la rifiuta. I Morti, che gradualmente riconquistano la coscienza del loro Io superiore, sanno bene che dalla sofferenza nascono le conquiste più belle dello spirito umano.
Per il nostro normale livello di coscienza è spontaneo rimpiangere una persona cara che è morta: è una reazione più che umana, che però non ha nulla a che fare col sentimento di gratitudine. Nell’animo di chi resta sulla Terra pesa di più lo sconforto per ciò che ha perduto che non la gratitudine per tutto ciò che ha ricevuto dalla persona deceduta. Il Morto, invece, guarda pieno di gratitudine a tutto ciò che ogni giorno della vita trascorsa con i suoi cari gli ha portato incontro.
Seppure in molte occasioni è difficile recuperare l’atteggiamento della gratitudine, noi entriamo in comunione con chi non vive più sulla Terra solo a mano a mano che vinciamo la nostra sofferenza per la sua scomparsa. La sofferenza c’è, è inevitabile di fronte alla morte di chi amiamo, però rischia di chiuderci in un dolore che ci allontana da lui. Lui vorrebbe aiutarci a fare spazio al sentimento della gratitudine, perché solo quello può fargli dire: ecco, adesso la persona che mi è cara sulla Terra comincia davvero a pensare come me, a capirmi, adesso può percepire i miei pensieri e rispondermi.
Per il defunto i nostri pensieri e sentimenti carichi di rimpianto sono pura ingratitudine, puro egoismo e negatività nei confronti della sua decisione di porre termine alla vita. Il dialogare con i Morti è un’attività molto concreta, e nessun espediente può sostituire lo sforzo di trasformare il dolore in gratitudine.
Un secondo sentimento fondamentale nell’anima di ogni Morto – anch’esso sovraconscio in noi viventi perché è parte integrante della coscienza dell’Io superiore – è il senso di comunanza con tutti gli esseri e con tutte le cose. Il morto vive un intimo rapporto con ogni essere, non si sente fuori da nulla, è immerso in tutto l’universo come un organo nel suo organismo. Noi cosiddetti vivi siamo invece in grado di isolarci, possiamo decidere di non frequentare più una persona, possiamo tapparci in casa e infischiarcene di quello che accade al nostro vicino.
Per farci un’idea di questa esperienza di comunione universale pensiamo all’omicida: egli ha un bisogno quasi fisiologico di ritornare sul luogo del delitto perché si è instaurato nel suo essere un legame persino con gli elementi della natura di quel posto fisico. Con maggiore o minore intensità, tutto ciò che noi facciamo su questa Terra, tutte le cose che tocchiamo, tutti i luoghi dove ci rechiamo, lasciano delle tracce indelebili nel nostro Io. Ognuno di noi porta in sé almeno inizialmente una comunanza con tutti gli esseri e con tutte le cose.
Anche il Vangelo di Giovanni accenna a questo mistero nell’episodio dell’adultera: i farisei sono pronti a lapidarla scagliandole addosso delle pietre; il Cristo si china e scrive sulla terra. Che cosa scrive? Egli traccia sulla terra il segno delle azioni di ogni essere umano ed è come se dicesse: “O uomo, a cosa ti serve giudicare? Ogni volta che tu ritorni sulla Terra rivisiti i luoghi della comunanza universale, ritrovi i nessi con le azioni che hai compiuto e con tutte le persone che hai incontrato”.
Vivere col sentimento d’appartenenza a tutto e a tutti significa capire che tutto l’umano ha a che fare con me, e io ho a che fare con tutto ciò che è umano. Ritrovare i legami con la Terra, con i regni della natura e con tutti gli uomini favorisce la percezione sempre più viva dell’umanità come un organismo unico. Il Morto lo sa e lo sente: noi siamo membra gli uni degli altri e ogni atto individuale, ogni singolo gesto interiore o esteriore, si ripercuote sull’umanità intera, sollevandola o abbassandola nella sua natura. Perciò ogni volta che ci apriamo alla reciproca appartenenza, possiamo capire meglio il linguaggio dei Morti.
Un Morto che parla con la bocca di un vivo?
C’è uno strano caso, realmente accaduto in Calabria parecchi anni fa. È un fatto interessante, che può dar adito a molte riflessioni. In un giornale di allora si poteva leggere:
Il 5 gennaio 1939 una contadinella di 17 anni di nome Maria Talarico si reca in compagnia di sua nonna da Siano alla vicina città calabrese di Catanzaro, dove vive temporaneamente sua madre. Al ritorno, sul ponte che collega le due località, la ragazza esita, si ferma al quarto pilone e guarda con attenzione la sponda al di là del parapetto, come se lì si stesse svolgendo qualcosa di interessante. La nonna non vede nulla e la esorta a proseguire. La ragazza si gira con un’espressione di grande sgomento e corre indietro spaventata a morte. Non ha ancora raggiunto la testa del ponte, quando grida dal dolore, si afferra il ginocchio e cade a terra priva di sensi.
Quando finalmente riprende conoscenza è trasformata. Respinge sua madre, che nel frattempo era accorsa, ed esorta i presenti a chiamare una tal signora Caterina Veraldi. La voce e il contegno della ragazza sono completamente cambiati: sembra un uomo con la voce roca del fumatore e del bevitore.
Nell’ulteriore sviluppo dei fatti, ella afferma di essere il giovane trovato morto tre anni prima sotto il ponte, considerato suicida dalla polizia. Scrive lettere con una calligrafia che la signora Veraldi subito riconosce essere quella del figlio morto, è al corrente dei rapporti più intimi del defunto – che mai aveva conosciuto – e descrive inoltre lo svolgimento dell’assassinio del giovane per mano dei suoi amici.
La ragazza viene fatta incontrare con gli amici dell’ucciso: li riconosce, li chiama con i loro soprannomi e ricorda intimi particolari dell’amicizia passata. Infine si reca sul luogo del crimine e mima con raccapricciante realismo lo svolgimento dei fatti (l’indagine della polizia confermerà in seguito la precisione della descrizione). Infine, la ragazza cade in un’incoscienza profonda. Al risveglio non ricorda più nulla ed è ora la semplice ragazza di sempre[2].
Nascono vari interrogativi da questo racconto: che cosa ha vissuto quel defunto per tre anni, e dove è vissuto? I fatti citati indicano una forte brama presente nella sua anima: quella di riuscire a far sapere ai vivi di non essere un suicida, ma la vittima di un omicidio. Perché?
Altra domanda: questa ragazza di 17 anni è da invidiare per le sue eccezionali capacità di interazione con i Morti? In fondo, questa vicenda si è svolta molto tempo fa, quando la corporeità umana era meno “indurita” di oggi, grazie anche alla diversa e più sana alimentazione, all’aria ancora non inquinata, alle abitudini di vita meno stressanti ecc. Potremmo essere indotti a pensare che un fenomeno del genere indichi una maggiore disposizione naturale verso la realtà dello spirito, che sia un fenomeno positivo e oggi più raro proprio perché le condizioni di vita negli ultimi decenni sono precipitate verso il disumano.
Eppure, una lettura spregiudicata di questo episodio, fatta con gli strumenti conoscitivi di una scienza dello spirito consona ai nostri tempi, mette in risalto che qui abbiamo a che fare con una donna che deve aver avuto una tale disaffezione rispetto all’incarnazione, una visione così negativa del corpo, da essersi incarnata, per così dire, solo a metà, o di malavoglia. Per questi motivi ben concreti il ragazzo morto è riuscito facilmente a estromettere dal corpo l’anima semi-incarnata della ragazza, e ha potuto avvalersi della sua fisicità per i propri scopi, ha potuto “incorporarsi” per un breve tempo così da riuscire a parlare e scrivere attraverso il corpo di lei.
La paura dell’incarnazione non è un fatto infrequente: forse questa condizione si spiega anche in base a un cattolicesimo che per secoli ha presentato il corpo quasi unicamente in chiave negativa. Il fulcro del cristianesimo autentico, invece, è proprio l’incarnazione del Verbo, e quindi l’amore per la corporeità in quanto strumento privilegiato dello spirito umano incarnato!
Un’ulteriore domanda da porsi è questa: quando lo spirito della ragazza ritorna nel suo corpo – che per un certo tempo è servito da strumento a un’anima totalmente estranea a lei –, in quali condizioni lo ritrova? La ragazza sentirà una corporeità ancora più refrattaria di prima, ancora più estranea a lei, e ciò non potrà che accrescere la paura e la diffidenza nei confronti dell’esistenza sulla Terra.
E ancora: è opera dell’Io superiore del Morto tutta questa faccenda? L’Io superiore è sempre un Io pieno di amore. Come potrebbe allora impossessarsi del corpo di un altro essere umano, estromettendone l’Io? E se non è il suo Io superiore, quale altro elemento costitutivo del Morto ha compiuto un tale atto?
Queste domande trovano una risposta solamente se riflettiamo su un fatto di fondamentale importanza: il materialismo contemporaneo ci porta a credere che ci sia qualcosa soltanto dove c’è la materia. Dove non c’è, pensiamo che ci sia il vuoto. Invece è proprio il contrario: non solo lo spirito compenetra ovunque la materia, ma anche dove c’è vuoto di materia c’è pienezza di spirito.
In questa luce l’episodio riportato acquista un altro significato: la ragazza è sul ponte, apparentemente in compagnia solo della nonna, ma bisogna riuscire a toccare con mano la presenza fortissima dell’anima (non dello spirito, cioè dell’Io superiore) del giovane morto che vuole impadronirsi del suo corpo, e bisogna capire quali siano, al contempo, le dimensioni costitutive della ragazza realmente presenti. Il suo spirito si ritrae dal corpo, e anche la sua anima: rimane il corpo intriso di forze vitali che si fa ricettacolo per l’anima del giovane morto. Avviene una vera e propria bufera nel mondo dell’invisibile su quel ponte, ma gli occhi fisici non vedono nulla.
Il mondo dello spirito che per noi è diventato vuoto, i greci lo chiamavano il pleroma, la pienezza. La Bibbia lo descrive come una scala vivente, quella di Giacobbe, costituita dagli Esseri delle gerarchie spirituali che riempiono tutto lo spazio tra il Cielo e la Terra. L’uomo partecipa sempre più alla “pienezza” riconoscendo la propria missione, ascoltando la sublime chiamata a salire i gradini di luce che riconsegnano alla pienezza dello spirito tutto lo spazio svuotato dal materialismo.
Secondo capitolo
COME LAVORA L’ANGELO
NELLA NOSTRA ANIMA?
Il purgatorio: prima fase della vita del defunto[3]
Per instaurare un rapporto con gli Angeli e con i Morti è importante, come si accennava, cogliere la differenza che esiste tra il nostro mondo interiore e il loro – una diversità così radicale da costituire anche la difficoltà principale per un vero dialogo. Noi abbiamo un tipo di mentalità, e loro ne hanno tutt’altra.
Potremmo chiederci come mai gli Angeli e i Morti, se è vero che hanno una coscienza molto più ampia della nostra, non si diano da fare loro per comunicare con noi nel modo migliore. Non sarebbe tutto molto più facile se ci parlassero col nostro linguaggio anziché costringere noi a imparare il loro? Certo che sarebbe più facile, ma proprio per questo sarebbe inutile per la nostra crescita. Abbiamo già intorno a noi tanti esseri umani con i quali possiamo utilizzare il linguaggio che ci è familiare, il tipo di conoscenza che ci accomuna e che già abbiamo conquistato.
I bambini imparano a parlare un linguaggio a loro del tutto sconosciuto, e nessun adulto penserebbe mai di fare una buona cosa imitando il bambino nella lallazione. Ugualmente, se gli Angeli e i Morti facessero di tutto per scendere al nostro livello, sparirebbe il loro contributo specifico alla nostra evoluzione. Sta a noi aprirci gradualmente al loro modo di pensare, di sentire e di agire. È un processo di trasformazione interiore, lungo ma non impossibile; e che sia nello spirito del nostro tempo ce lo fa intuire il grande desiderio che c’è di stabilire una relazione più cosciente con i mondi dello spirito.
I Morti nel tempo dell’immediato dopo-morte non possono che far di tutto per purificare la loro anima dall’egoismo. Il purgatorio cristiano – la tradizione orientale lo chiama kamaloca: il luogo del kama, cioè della brama insaziabile – è quella fase di vita nel dopo-morte in cui chi si è disincarnato deve sciogliere tutte le brame congiunte con il corpo, non potendole più soddisfare. Le fiamme del purgatorio sono un’immagine ben calzante per indicare i tanti desideri accesi che bruciano nell’anima di chi, morendo, ha lasciato dietro di sé la corporeità che poteva placarli.
Pensiamo a un buongustaio che nella vita si procurava i vini più prelibati e se li sorseggiava soddisfatto a pranzo e a cena: lasciato il corpo al momento della morte, si ritrova con l’anima ancora piena di voglia di bere perché i desideri, le passioni, le brame, risiedono nell’anima e non nel corpo! Per il fatto però che questa voglia non può più soddisfarsi (vino e corpo non ci sono più), essa viene a poco a poco necessariamente estinta.
Nei mondi spirituali non c’è più il corpo fisico che consente quel tipo di autogodimento che ci isola dagli altri: tutti gli esseri vivono gli uni negli altri. Perciò più ci sforziamo, anche sulla Terra, di vincere l’egoismo con l’amore, più ci avviamo a capire i messaggi degli Angeli e dei Morti, e più ci apriamo alle intuizioni che essi ci inviano.
Un’altra differenza fondamentale è che i nostri pensieri sono per lo più ignari delle necessità evolutive oggettive, mentre gli Angeli e i Morti conoscono ciò che ci fa bene ed è consono ai tempi. Le conquiste che oggi vengono rese possibili all’uomo grazie alla tecnica del computer, per esempio, l’Angelo le conosce molto bene: noi, invece, se non esercitiamo la libertà, possiamo stravolgerle a nostro totale svantaggio. Allora diventa prezioso poter accogliere le ispirazioni che l’Angelo ci invia, perché sono tutte nella direzione positiva del nostro cammino.
Gli effetti della libertà umana nel dopo-morte
Il cristianesimo vede nell’incarnazione dell’Uomo perfetto la svolta dei tempi: in ciò è la grande differenza tra la matrice orientale e quella occidentale nell’interpretazione dell’evoluzione umana. Anche lasciando da parte i riferimenti al religioso, il pensare occidentale in genere ha fatto sorgere nell’umanità la consapevolezza dell’evoluzione storica lineare. L’Oriente invece, in linea generale, ha sempre privilegiato una concezione ciclica del divenire: in un tempo senza inizio e senza fine, i cicli della vita si ripetono sempre uguali, senza uno sviluppo progressivo.
Quando si entra invece nella prospettiva di un’evoluzione con un inizio e una fine, si comprende anche che dev’esserci la svolta. Prima della discesa dell’Essere del Sole sulla Terra – non è necessario usare sempre la parola “Cristo”, visto che in tanti evoca una confessione particolare che non corrisponde alla sua realtà universale – tutta l’evoluzione ha avuto un carattere di preparazione. Al momento della sua incarnazione la preparazione giunge al suo compimento. È questo il significato della “pienezza dei tempi”, un termine tecnico della scienza spirituale che vuol dire: i tempi di preparazione sono pieni, sono compiuti. Ma cosa vuol dire questo? Vuol dire che d’ora in poi non manca più nessuna condizione necessaria per l’esercizio della libertà umana.
Prima della svolta evolutiva l’umanità aveva un altro rapporto con gli Angeli e col mondo spirituale. In quei lontani tempi, quando l’uomo nasceva portava in sé il ricordo dei mondi celesti, il sentimento della “preesistenza”. Platone è uno degli ultimi grandi pensatori che ancora vedono le cose in questo modo: per lui “conoscere” significa ricordarsi di ciò che si sapeva nel mondo spirituale ancor prima di nascere. Egli pone alla base del senso della vita la certezza del vissuto spirituale dell’uomo antecedente alla nascita fisica.
La grande svolta dell’evoluzione consiste nel fatto che ogni uomo comincia ora a portare oltre la morte il ricordo di ciò che ha vissuto durante la vita terrena, dimenticando invece, al momento della nascita, la sua preesistenza nel mondo spirituale. È una vera e propria rivoluzione! All’importanza assoluta della realtà spirituale che orientava l’esistenza, subentra il valore insostituibile della vita terrena, ora pienamente degna di essere vissuta quale palestra per conseguire un’autonomia forte abbastanza da sussistere anche senza il corpo, dopo la morte.
L’evoluzione umana, anche quella che si ripete nell’arco di ogni vita, ha due fasi: quella della guida dal di fuori (dei genitori, dei maestri) e quella della guida dal di dentro. Il passaggio dall’una all’altra è come una vera e propria “inversione” – a questa si accenna col concetto di “svolta” dei tempi. Dopo la svolta – dopo Cristo – la nostra libertà comincia a determinare ciò che ognuno di noi è in grado di portare oltre la soglia della morte, proprio perché se l’è conquistato sulla Terra. È evidente, allora, che il compito della libertà è oggi quello di venire a conoscere durante la vita terrena la realtà degli Angeli, dei Morti, dei regni spirituali che ci attendono dopo la morte; di cercare il dialogo e la conversazione con gli Esseri che vivono nell’aldilà, in modo da poterne avere coscienza anche oltre la morte.
È un compito della libertà perché nessuno è costretto a svolgerlo, anche se ognuno ha la possibilità di farlo. Dopo la grande svolta dell’evoluzione, ogni uomo che lascia la Terra è in grado di vivere una maggiore o una minore comunione con gli Angeli e con i mondi spirituali, a seconda di quanta ne ha sperimentata in vita. Da qui si comprende quanto sia fondamentale l’esercizio della libertà durante la vita, perché dalla svolta in poi è riposta in questo cimento ogni possibilità di evoluzione.
Questa straordinaria inversione che ha dato un carattere del tutto nuovo alla vita sulla Terra, nei termini della tradizione cristiana è espressa così: prima del Cristo c’era un’umanità bisognosa di redenzione, dopo il Cristo c’è un’umanità in via di redenzione.
Queste parole perdono però ogni significato se non vengono riempite di conoscenza spirituale. La “salvezza” di cui parla il cristianesimo sta tutta nella riconquista del senso di queste affermazioni tramite le forze libere del pensiero umano. Solo un pensiero libero è un pensiero “redento”. La redenzione portata dal Cristo a tutti gli uomini non è una sorta di cancellazione delle colpe – e quali colpe, poi, poteva avere un’umanità bambina? –, ma è la facoltà di libertà, la capacità data all’Io, alla coscienza umana, di decidere in autonomia.
È fondamentale capire che la svolta ognuno la compie dentro di sé ogni volta che cessa di rimpiangere i tempi in cui il rapporto col sovrasensibile era dato per sola grazia, ogni volta che capisce che ogni stadio evolutivo deve avere un termine per far posto al successivo. E allora s’intuisce anche l’immensa portata del fatto che chi nella vita non ha creato alcun pensiero sugli Angeli, dopo la morte farà fatica a riconoscerli, a comunicare con loro, e vivrà nella solitudine spirituale. Ed è giusto che sia così, altrimenti si vanificherebbe la libertà umana: essa è reale solo se ha conseguenze reali.
Dopo la svolta dell’evoluzione, resta nel dopo-morte la memoria del rapporto con gli Angeli quale è stato instaurato durante la vita, secondo libertà. Prima della svolta continuava, dopo la nascita, il ricordo di una comunione non libera avuta con gli Angeli nei mondi spirituali, prima ancora di nascere. Questo fa comprendere meglio perché gli esseri umani che oggi apprezzano la libertà sentano anche l’appello interiore a un rinnovato interessamento al mondo dello spirito.
Gli Angeli sono gli Esseri spirituali gerarchici più vicini a noi. Se dovessimo cominciare con i Troni, o i Cherubini o i Serafini, cioè gli Esseri della prima gerarchia, le cose da conoscere sarebbero molto più complesse.
Quando noi diciamo “Angeli”, intendiamo di solito tutti e nove i cori, anche se la parola Angelo si riferisce, in senso più specifico, al solo nono coro. Salendo, incontriamo l’ottavo coro, che sono gli Arcangeli; poi il settimo, i Principati; il sesto, le Potestà; il quinto, le Virtù; il quarto, le Dominazioni; il terzo, i Troni; il secondo, i Cherubini; il primo, i Serafini. Quando parliamo di Esseri spirituali bisognerebbe perciò di volta in volta distinguere. Ciò sarà possibile soltanto quando sapremo in modo scientifico unire al nome delle gerarchie anche i caratteri più significativi della loro specifica natura e del loro operare.
La crisi d’amore degli Angeli
La caduta degli Angeli è un fenomeno di “crisi” che riguarda tutte le gerarchie angeliche, e non solo gli Angeli propriamente detti. Esistono due categorie fondamentali: le gerarchie angeliche del “bene” – quelle che noi chiamiamo in modo generalizzato “Angeli” – e le contro-gerarchie, sorte per necessità evolutiva al fine di offrire le controforze necessarie per l’evoluzione – e che noi chiamiamo solitamente “Diavoli” o “Demoni”.
Ognuno di noi è accompagnato spiritualmente non solo dall’Angelo custode, ma anche dal suo Diavolo. Io, da piccolo, sapevo da mia mamma che l’Angelo custode poggia sulla spalla destra di ogni uomo e il diavoletto sulla spalla sinistra! Quando uno rigava “dritto” l’Angelo era contento, quando guardava a sinistra aveva paura di qualche “sinistro”! Ogni forza deve interagire con la sua controforza in un mondo che sia in evoluzione. Ogni realtà di bene può essere un bene concreto, cioè non astratto, unicamente in proporzione al male corrispondente che riesce a vincere.
Un aspetto fondamentale della svolta evolutiva consiste nel fatto che tutte le gerarchie si sono scisse in due: una metà è salita di un gradino e l’altra è discesa di un gradino. Quando l’Essere del Sole ha deciso di incarnarsi dentro tutte le condizioni umane, con questo atto di enorme portata cosmica ha indotto tutte le gerarchie angeliche a prendere posizione, generando in esse una sorta di “crisi” interiore.
Tutti gli Angeli, gli Arcangeli e fin su ai Serafini, che hanno accolto in sé il Cristo, hanno capito che era necessario che l’Essere pieno di amore si incarnasse dentro l’umano. Essendo il nostro un cosmo d’amore, gli Esseri spirituali che si sono schierati con il Cristo si sono messi al servizio dell’uomo e sono così ascesi di un gradino nella loro evoluzione. Quelli invece che a tutt’oggi si rifiutano di seguire il Cristo, per via di questo stesso rifiuto sono caduti di un gradino.
Lo stesso Essere fatto tutto d’amore, quindi, alla svolta dei tempi ha causato in tutte le gerarchie la più grande crisi, che è stata poi la loro crisi d’amore nei confronti dell’uomo. Ci sono stati Angeli che si sono lasciati conquistare dalla dedizione dell’Essere solare verso l’umano, sono andati con lui e si sono intrisi dello stesso amore. Ce ne sono stati altri, anch’essi necessari, che si sono opposti perché non hanno voluto, o potuto, capire l’importanza centrale dell’umano nell’evoluzione cosmica: di quell’umano che conduceva l’Essere dell’Amore a svestirsi della sua veste angelica di luce per rivestirsi di quella umana, per ora greve e oscura.
Non è facile per noi capire quale prova interiore sia stata questa per tutte le gerarchie angeliche! Ci sono Esseri spirituali altissimi che non riuscirono ad accettare la centralità dello spirito incarnato, dello spirito che governa la materia abitandola – perché questo è il mistero dell’uomo. Spiriti celesti che vissero un terremoto cosmico di fronte all’Essere dell’Amore che lascia lo stato irraggiante del puro spirituale e s’immerge nell’abisso dell’umano, per dichiarare di fronte a tutto l’universo che quel regno di pietra è il nuovo regno della libertà dello spirito, conquistata dentro la materia!
Se unendosi all’Essere d’Amore una metà degli Angeli è ascesa ponendosi al servizio dell’uomo, l’altra metà ha seguito l’impulso opposto: quello di servirsi dell’uomo per la propria ulteriore evoluzione. Paolo, nella sua lettera ai Corinti, scrive: “Non sapete voi che noi siamo la crisi degli Angeli? Non sapete che noi giudichiamo gli Angeli?”. L’elemento umano diventa così il crinale decisivo per tutte le gerarchie angeliche e gli spiriti si dividono: o con l’uomo o contro l’uomo.
Se è vero che il concetto di evoluzione investe non solo l’uomo ma anche gli Angeli e tutte le loro gerarchie – se cioè non solo l’essere umano ha come meta del suo cammino il diventare Angelo, ma anche l’Angelo ha quella di diventare Arcangelo, l’Arcangelo Principato e così via fino ai Serafini – allora c’è da chiedersi se tutti questi Esseri spirituali hanno attraversato anch’essi il gradino umano dell’evoluzione. Gli Angeli, prima di essere Angeli, sono stati forse uomini come noi?
Rudolf Steiner risponde a questa domanda iniziando col chiarire quale sia, al livello cosmico, il concetto di “gradino umano”. Una creatura perviene al livello umano quando acquisisce l’Io, quando, cioè, diviene capace di autocoscienza. Il conferimento dell’Io è un atto di donazione della propria sostanza spirituale da parte di Esseri superiori. Essendo infinita la fantasia morale dei creatori divini, ci sono nell’universo diversi modi per acquisire l’autocoscienza. I processi sono diversi e ognuno conduce, nel prosieguo dell’evoluzione, a conquiste spirituali specifiche e diverse.
La modalità nostra di acquisire l’Io e di percorrere il gradino dell’umano è diversa da quella che fu propria degli attuali Angeli. Gli Angeli non erano dentro un corpo fisico quando poterono dire a se stessi: Io sono un Io. L’esperienza dell’acquisizione dell’Io tramite l’incarnazione nella materia riguarda soltanto la nostra vicenda: di qui la grande crisi che si produsse in tutte le gerarchie quando l’Essere dell’Amore decise di vivere tutto ciò che fa parte della vita umana sulla Terra, in primo luogo la morte.
Perché nell’umanità d’oggi scarseggiano i geni?
Dove sono andati a finire tutti i geni che sono vissuti nel passato? Tutta la storia è piena di uomini d’eccezione, ma dove si nascondono oggi quegli Io lì?
Il fenomeno del genio diventa non solo sempre più raro ma anche sempre più anacronistico. I grandi geni andavano bene nella fase infantile dell’evoluzione umana: infatti, quando noi diciamo che una persona è “geniale” – pensiamo a un Mozart, per esempio – che cosa intendiamo dire? Intendiamo che quello che sa fare non se l’è conquistato più di tanto col sudore della fronte. Agisce in lui una forza sovrumana, la sua genialità è un dono che viene dall’alto – dal “genio”, come lo si chiamava una volta.
La genialità si manifesta particolarmente nell’infanzia o in gioventù, quando è ancora la natura a tenere le redini, e molto di meno nella maturità, quando sopravvengono le conquiste individuali della libertà. Un essere umano che comincia a vivere le conquiste libere del suo stesso Io, non produce a tutta prima cose geniali, ma modestamente umane: però esse sono il frutto preziosissimo della sua libertà.
L’uomo che deve conquistarsi tutto con l’impegno e l’ingegno della libertà è più povero del genio, ma questa “povertà” tutta umana vale mille volte di più che non la produzione straordinaria di cento geni messi insieme. È questo il senso del detto evangelico: “beati i poveri di spirito” – cioè i diseredati, i mendicanti dello spirito –, perché hanno la possibilità di conquistarsi liberamente e individualmente i tesori di cui sono alla ricerca.
L’opera del genio non è specificamente umana: è l’ispirazione di Esseri superiori che compenetra la coscienza di quest’uomo senza che ci metta più di tanto il suo libero sforzo. È intrinseco alla dinamica del cammino evolu¬tivo che sia gli Angeli, sia l’elemento puro del “genio” – che è poi l’Io superiore di ogni uomo – nei tempi passati guidassero in modo più diretto l’umanità ancora poco capace di iniziativa propria. Ora debbono ritrarsi sempre di più per far posto alla libertà dell’io cosiddetto inferiore, cioè quello che gestiamo noi nella nostra coscienza ordinaria. Questo ritrarsi è, a partire dalla grande svolta, una decisione “cristica” perché fa spazio all’autonomia dell’uomo. Un genio non soltanto è poco libero perché dipende da chi lo ispira, da chi in un certo senso lo possiede, ma per di più rende dipendenti da sé altri esseri umani. Chiediamoci onestamente: di fronte alle creazioni del genio ci sentiamo veramente liberi? In molti può nascere l’invidia: prima dipendenza. In moltissimi altri nasce l’ammirazione: seconda dipendenza. Poi nasce il desiderio di imitazione: terza brutta dipendenza. Ma l’essere umano non è stato creato per ammirare o imitare o invidiare altri, bensì per diventare lui stesso qualcuno: allora sì che mostra la sua vera originalità. Perciò meno male che oggi di geni al mondo ce ne sono pochi: significa che la democrazia della quale tanto ci vantiamo può diventare sempre più vera.
Il principio della democrazia riconosce un’uguaglianza fondamentale tra gli esseri umani, nel senso che ogni uomo è a pari diritto di ogni altro uno spirito individuale e unico. E allora perché trascinarci questi elementi di aristocrazia che vorrebbero farci inchinare di fronte ad altri, con l’idea errata che qualcuno sia per natura “migliore” di altri? Non è un caso che attorno al genio aleggi una sorta di “divismo”: gli appassionati di questo o di quest’altro artista coltivano lo stesso atteggiamento interiore che l’umanità bambina riservava al divus – imperatore o santo o poeta che fosse –, cioè a colui che consideravano adombrato dal dio e attraverso cui il dio si manifestava.
La coscienza umana in cammino è in grado di comprendere, oggi, che nessun uomo è più degno di ammirazione di un altro e nessuno lo è di meno: ammirare qualcuno significa in fondo sottovalutare qualcun altro. Ogni essere umano è un vero e proprio genio. Il genio di ognuno è l’Io superiore, l’Io vero. La meta dell’evoluzione di ogni uomo è quella di mettersi in comunione sempre più profonda col proprio Io vero, attraverso l’esercizio delle forze di coscienza dell’io normale e quotidiano. E tutti gli Io superiori umani sono intuizioni ugualmente “geniali” della Divinità che li ha fantasiosamente e artisticamente creati.
L’io del quale abbiamo coscienza, è come un’immagine riflessa del nostro Io superiore, resa oscura dalla materia. All’inizio dell’evoluzione questo riflesso era assai debole e perciò l’uomo era guidato – proprio come un bambino – direttamente dal suo Io superiore e dagli Angeli. A mano a mano che l’evoluzione è andata avanti, questo fratello minore dell’Io si è sempre più rafforzato: è nata la filosofia greca, è nato il pensare logico, è nato l’egoismo...
Ma è anche nata la capacità di autonomia interiore. Parallelamente, la visionarietà dei primordi, che era di tipo rivelatorio e conduceva l’umanità dal di fuori, è andata ritraendosi. Gli uomini devono trovare sempre dentro a se stessi le forze del pensiero e della volontà.
La grande scommessa sull’essere umano che il Cristo ha voluto fare tra lo sconcerto di tutte le gerarchie angeliche, è stata quella di dare fiducia alla libertà umana che può scegliere sia il bene che il male. Ognuno dei nove cori angelici è una manifestazione dell’Amore divino: gli esseri spirituali del decimo coro a venire, cioè noi, siamo chiamati a diventare gli spiriti di quell’Amore specifico che si esprime sprigionandosi dalla materia – proprio come i Prigioni di Michelangelo. Quest’opera immane di “sprigionamento”, di liberazione, è la nostra progressiva evoluzione verso ciò che chiamiamo libertà umana.
La coscienza dell’Angelo, dell’Io superiore e dell’io normale
Il duplice esito possibile dell’evoluzione umana è di assurgere al gradino superiore angelico, oppure di omettere su tutta la linea la fatica della libertà, disattendendo sistematicamente l’umano fino a ricadere al gradino inferiore – quello animale. L’Apocalisse lo chiama l’abisso della Bestia. La duplice possibilità di ascendere o discendere deve rimanere per ognuno aperta, altrimenti non ci sarebbe più libertà di scelta.
Uno dei tratti fondamentali dell’Angelo custode è che il suo livello di coscienza è tale da abbracciare la totalità dell’evoluzione terrestre del suo protetto, nel suo significato unitario. Egli accompagna ogni passo che il suo protetto compie avendo presente l’armonia con l’inizio e la fine del suo cammino.
L’io ordinario, invece, cioè la nostra coscienza di veglia, è in grado di vedere i rapporti di causa-effetto unicamente all’interno di una vita. Abbiamo coscienza di ciò che abbiamo fatto ieri, l’altro ieri e l’altro ieri ancora, fin dove arriva la memoria, e anticipiamo il domani e il dopodomani nelle nostre intenzioni e nei nostri progetti. Una caratteristica fondamentale del cosiddetto io “inferiore” è di abbracciare il corso di una vita a partire dal sorgere della memoria.
L’Io superiore sta come in mezzo, fa da intermediario tra la coscienza dell’Angelo, che abbraccia l’intera evoluzione di un uomo, e quella dell’io ordinario, che abbraccia la serie dei giorni di una sola vita, a mano a mano che vengono vissuti. Il carattere fondamentale della coscienza dell’Io superiore è di abbracciare con la sua coscienza il senso unitario di un’intera esistenza ancora prima di viverla al livello di coscienza ordinaria incarnata. Già prima di nascere egli ha fatto il piano di tutta l’esistenza, ha architettato ogni evento, ha deciso se vuol vivere trenta, cinquanta o ottant’anni.
La libertà dell’io quotidiano potrà apportare delle modifiche minori al progetto dell’Io vero, ma non potrà mai, ad esempio, ridurre a vent’anni una vita pensata per durarne settanta. Ciò che “mi capita” è ciò che il mio Io superiore ha voluto per la mia crescita ulteriore; il modo di reagire, facendone il meglio o il peggio, è lasciato alla “libertà” dell’io normale in base alla quale l’Io superiore “adatta” di continuo i suoi piani, un po’ come fanno i genitori con i bambini piccoli.
Tutta la problematica che accompagna l’eutanasia e l’accanimento terapeutico, per fare un esempio, nasce dal fatto che non sta alla coscienza ordinaria decidere quale sia il momento giusto per morire. Sapere quale lunghezza della vita sia quella giusta per una data persona è una faccenda dell’Io superiore. Il disagio interiore che suscita la questione dell’accorciare o prolungare la vita, deriva dal fatto che l’umanità ha sempre saputo – seppure solo al livello del sano sentimento – che l’io normale non è ancora a quei livelli evolutivi così scevri di egoismo da poter decidere quando sia bene per lui e per gli altri lasciare la scena di questo mondo.
È l’Io superiore di ognuno di noi ad avere uno sguardo d’insieme sulla nostra esistenza quale unità organica. Il modo in cui poi quest’esistenza verrà intessuta nell’insieme dell’evoluzione millenaria della nostra individualità, viene lasciato all’Angelo custode. Dopo la morte l’Io superiore entra nei mondi spirituali per ricevere dall’Angelo le ispirazioni che gli consentono di architettare la vita successiva.
Il rapporto tra l’Angelo e il suo custodito
C’è una domanda che forse risuona un po’ strana alle orecchie del cristianesimo tradizionale: qual è la differenza tra il demone di Socrate e l’Angelo custode cristiano? Io, nato in seno al cattolicesimo, da piccolo recitavo l’Angelo di Dio più volte al giorno. E mi piaceva molto. Poi, al liceo, mi sono beato altrettanto a leggere in Platone le cose che Socrate dice sul suo demone: ne parla in termini così belli, Socrate, lo presenta come un genio in tutto e per tutto benevolo... Il cristianesimo, invece, ha negativizzato il dàimon socratico, e infatti la parola demone, in italiano, indica uno spirito nefasto. Ancora più negativa è la parola “Demonio”, riservata al fratello più robusto del demone.
Eppure il dàimon dava a Socrate le ispirazioni più belle e più alte! Ciò significa che il grande filosofo greco è stato un vero precursore dell’evoluzione proprio per il suo rapporto cosciente con l’Essere angelico che lo custodiva. Per questo non è facile capire come mai il cristianesimo abbia liquidato il dàimon di Socrate presentandolo come roba da diavoli.
C’è però una differenza fondamentale fra il demone di Socrate e l’Angelo custode “del buon cristiano”: mentre Socrate, 400 anni prima della svolta, riusciva ad accogliere le ispirazioni del suo demone, il demone a sua volta non poteva ancora accogliere l’Essere pieno di amore, che non era ancora entrato nella Terra. Per l’Angelo del “cristiano” le cose si invertono su entrambi i fronti: l’Angelo ha accolto il Cristo, mentre invece il suo protetto, a differenza di Socrate, non è ancora in grado di ascoltare le sue ispirazioni – cosa che dovrà imparare sempre a fare meglio in futuro.
Dopo la grande svolta, l’Angelo e l’uomo sono in un certo senso ancora più strettamente accomunati nel loro cammino, tanto che oggi si presenta per tutti e due un elemento nuovo di ascesa o di caduta. Gli esseri umani, a partire dal nostro tempo che vede sorgere per la prima volta la possibilità reale di una scienza dello spirito, cominciano a dividersi in due “razze morali”, cioè in due diverse configurazioni animico-spirituali. Alla prima, apparterranno coloro che dedicheranno pensieri alla conoscenza dello spirituale, alla seconda coloro che rifiuteranno di farlo.
In stretta connessione con questo evento, anche una metà degli Angeli salirà di un gradino e l’altra metà lo scenderà – si tratta naturalmente non di una metà aritmetica, quantitativa, ma qualitativa. Questo salire o scendere sarà opera comune dell’uomo e dell’Angelo, avendo l’Angelo guidato il suo custodito fino al punto di poter prendere o no sul serio la realtà dello spirito.
Quella parte degli uomini che scende verso il basso rifiutandosi di accedere a una scienza dello spirituale porta in basso anche l’Angelo, che deve sempre restare congiunto col suo protetto. L’evoluzione del suo custodito è infatti anche il risultato della sua stessa evoluzione. L’uomo che si riduce ai determinismi di natura meccanizzando il suo spirito, lasciando vegetare la sua anima e rendendo del tutto istintivo il suo corpo, tira in basso anche l’Angelo.
Ecco, di nuovo, il significato della frase di Paolo: noi giudichiamo gli Angeli, noi siamo la crisi degli Angeli – la parola “crisi” viene dal verbo greco krìno che significa “giudico”, “scevero”, “separo”. Anche questo elemento di ascesa o caduta nostra e degli Angeli fa parte di un processo evolutivo lunghissimo che regge il nostro mondo, la cui legge fondamentale è la libertà dell’uomo.
“Angelo di Dio, che sei il mio custode...”
Angelo di Dio che sei il mio custode,
illumina,
custodisci,
reggi,
governa
me, che ti fui affidato dalla pietà celeste.
Amen.
Tanti di noi da piccoli hanno recitato questa preghiera. Vorrei riproporla alla luce di quanto è stato detto.
Angelo di Dio che sei il mio custode: in greco ànghelos significa “messaggero”. Gli Angeli sono, a tutti i livelli, messaggeri tra la Divinità e l’uomo. La Divinità vuole entrare in contatto con noi, ma questo contatto è fatto di Esseri viventi, non di pensieri astratti. Dio, quando pensa, crea Esseri. Noi non siamo in grado di comunicare direttamente con Dio, perché la coscienza che ha il nostro io normale è di tipo riflesso e astratto. Siamo abituati a pensare quello che ci pare, a formulare i pensieri più vari, giusti, sbagliati, campati per aria, malevoli... tanto, così ci diciamo, all’esterno non succede niente, le cose non cambiano.
Dio pronuncia i propri pensieri viventi e i Serafini, i Cherubini e i Troni li accolgono; poi li passano – un po’ semplificati, altrimenti non li capirebbero – alle Dominazioni, alle Potestà e alle Virtù che, semplificandoli ulteriormente, li porgono ai Principati, agli Arcangeli e agli Angeli che li semplificano ancora un po’ per permettere a noi di portarli al nostro livello di pensiero. Se noi fossimo in grado di capire tali e quali i pensieri viventi di Dio, saremmo noi Dio!
La coscienza divina crea esseri e crea mondi! Che cosa capiamo noi del creare mondi? Nulla! I pensieri divini, sostanza viva d’amore e di saggezza, devono venire “umanizzati” e giungono a noi attraverso nove trasformazioni successive. L’Angelo è la nona trasformazione delle creazioni divine e accompagna la decima trasformazione che ognuno di noi è chiamato a compiere nella sua mente e nel suo cuore.
Illumina, custodisci, reggi e governa me, continua la preghiera: è straordinaria l’esattezza scientifico-spirituale di questo quaternario di verbi! L’Angelo di Dio è una preghiera che io non so quando sia stata coniata, ma sicuramente in un tempo in cui si avevano ancora conoscenze oggettive delle realtà spirituali.
Illumina si riferisce allo spirito vero e proprio, perché l’azione del chiarire col pensiero, del fugare le tenebre dell’ignoranza è propria dello spirito;
custodisci si riferisce alla realtà dell’anima, perché è nell’anima che si annida il pericolo dell’egoismo e lì devono essere custoditi, curati, i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre volizioni. Tutto il cammino di purificazione è un custodirci dal male. Proteggi la mia anima in modo che non soccomba al maligno;
reggi: il reggere ha a che fare con ciò che la scienza dello spirito chiama il “corpo eterico”, cioè l’insieme delle forze vitali, architettoniche e plasmatrici che edificano e mantengono in vita il nostro corpo fisico che, altrimenti, invece di “reggersi” si decomporrebbe, come accade al cadavere;
governa: il governare ha a che fare con le leggi delle forze fisiche – gravità, elettricità, magnetismo... – e si riferisce alla costituzione specificamente terrestre dei corpi. Il greco kübernào (governo), il semitico GBR (da cui il cristiano “Gabriele” e la moderna “cibernetica”) si riferiscono all’insieme delle forze telluriche che i misteri di Samotracia esprimevano negli dei Kabiri. È sempre la stessa serie consonantica gbr, che compare nel latino gubernare;
me, che ti fui affidato dalla pietà celeste: ecco qui la risposta a una domanda che aleggiava da un pezzo. Chi ci ha assegnato l’Angelo custode? La pietà celeste, cioè la grazia divina. Quando? Qui le cose si complicano perché dobbiamo ancora una volta confrontarci col cristianesimo tradizionale. L’idea che l’anima umana non esista prima della nascita e venga creata da Dio al momento del concepimento, è uno degli aspetti più problematici del cristianesimo tradizionale. Che cosa è contenuto implicitamente in un’affermazione del genere? Che non è lo spirito a decidere quando deve nascere il corpo, ma è l’elemento corporeo a decidere quando lo spirito, anzi l’anima, deve venire creata da Dio.
Invece le cose stanno in ben altro modo in un cristianesimo inteso correttamente. La creazione di tutti gli Io umani è avvenuta all’inizio dell’evoluzione terrestre: ogni Io umano è uno spirito che partecipa a tutta l’evoluzione, proprio perché è stata avviata apposta per lui! Gli Io umani sono sorti come tante intuizioni morali della fantasia del creatore: di queste intuizioni faceva parte anche quella di affiancare a ogni essere umano l’Angelo custode.
La preghiera dice: O Angelo custode, a te è stato affidato fin dall’inizio dall’amore divino il compito di offrirmi pensieri che illuminino la mia mente, il mio spirito, di custodire la mia anima proteggendola dal male, di reggere le mie forze di vita tenendole nel giusto equilibrio, e di governare nel modo più sano tutte le forze fisiche che mi permettono di operare sulla Terra.
Come tutte le preghiere, anche questa è stata pronunciata con le forze del cuore nello stadio infantile dell’evoluzione umana. Nello stadio adulto si può aggiungere alla fede, che è la forza del cuore, la luce della conoscenza. In questo modo diventiamo adulti. Dà gioia profonda constatare che certe preghiere – ce ne sono anche altre! – illuminate dalla scienza dello spirituale risultano spiritualmente giuste. La scienza che si aggiunge alla fede in questo caso ci fa vedere che i quattro verbi non sono messi lì a caso, ma si riferiscono in modo oggettivo e preciso allo spirito, all’anima, all’eterico-vitale, al fisico minerale.
Terzo capitolo
ANGELI E MORTI:
UNA QUESTIONE DI FEDE
O DI SCIENZA ?
La scienza oggettiva vale solo per il mondo visibile?
Fin qui, nelle mie riflessioni ho semplicemente presupposto l’esistenza degli Angeli. A questo punto bisogna però affrontare alcuni quesiti di carattere metodologico. Comincio col riportare un articolo su Sandra Adler, una donna che percorre gli Stati Uniti in lungo e in largo cercando di convincere gli altri della realtà degli Angeli, indicando anche i modi concreti in cui ci si può mettere in contatto con loro.
“Un tempo scettica, ora insegna agli altri
come trovare il proprio Angelo”
“Sto diventando pazza”, pensava Sandra Adler. Da anni sentiva delle voci. Suo marito le disse che aveva bisogno di aiuto. Così cominciò a frequentare uno psichiatra. Ma le voci non scomparivano.
Finché un giorno, su suggerimento di qualcuno del suo gruppo di terapia, Sandra Adler andò ad ascoltare una conferenza sugli Angeli. “Ero arrivata a un punto della mia vita in cui ero depressa e mi attaccavo a qualsiasi cosa”, ricorda.
Quella conferenza, oltre 30 anni fa, segnò un punto di svolta nella sua esistenza. Sandra Adler si persuase che le voci che le risuonavano in testa erano i suoi Angeli custodi che cercavano di comunicare con lei.
Oggi Sandra Adler gira gli Stati Uniti e il mondo per diffondere il suo messaggio: tutti noi abbiamo Angeli custodi che cercano di raggiungerci.
Dalla quantità di gente che attira, è chiaro che molte persone credono, o vogliono credere, all’esistenza degli Angeli. Sandra Adler, che ha un master in consulenza all’Università del Michigan, è una dei tanti conferenzieri entrati con successo nel mercato della “nuova spiritualità”.
Secondo la Adler la grande sfida è riconoscere l’appello degli Angeli. La pelle d’oca o un brivido improvviso, dice, sono in realtà segnali provenienti dagli Angeli.
“Gli Angeli ci si avvicinano per farci sapere che sono lì a proteggerci o che stiamo facendo la cosa giusta”, dice Sandra Adler, che è vicepresidente dell’Inner Peace Movement, un’associazione senza scopo di lucro, fondata nel 1964 e con sede a Washington, che organizza seminari sugli Angeli. “Molti hanno fatto l’esperienza di avere un’idea improvvisa o un’intuizione e di verificare che funziona. Ecco, questo è uno dei modi in cui gli Angeli ci aiutano”.
L’Inner Peace Movement afferma di avere insegnato negli Stati Uniti a circa centomila persone a comunicare con i loro Angeli custodi. Sandra Adler, che vive a Las Vegas, ammette tranquillamente che molte persone trovano le sue idee difficili da digerire. È questa una delle ragioni per cui viaggia tanto. All’inizio anche lei nutriva molti dubbi. “Ero la più grande scettica del mondo. Facevo l’insegnante e non insegnavo certo questo a scuola”, dice.
Oggigiorno gli Angeli sono i protagonisti di numerosi film e libri. La serie-tv Touched by an Angel (Toccato da un Angelo), in cui gli Angeli vengono in aiuto di anime in difficoltà, è uno dei successi della CBS. Decine di libri sugli Angeli riempiono gli scaffali delle librerie riservati ai testi New Age e alla nuova spiritualità.
Gli Angeli occupano un posto centrale nel cattolicesimo romano e nella religione ebraica e se ne parla nella Bibbia come di messaggeri celesti. Alcuni teologi sostengono che non si può dimostrare l’esistenza degli Angeli con la logica, altri che non se ne può neanche dimostrare l’inesistenza.
Secondo Sandra Adler, ci sono quattro modi in cui gli Angeli custodi cercano di mettersi in contatto con noi:
1. attraverso l’intuizione, quando sentiamo una voce interiore;
2. attraverso una visione, quando cogliamo un’ombra con la coda dell’occhio;
3. attraverso la profezia, quando abbiamo sogni premonitori o sappiamo per esempio chi ci sta chiamando al telefono prima di alzare la cornetta;
4. attraverso quella che la Adler chiama “sensazione viscerale” (o istintiva). Alcuni descrivono la sensazione: “qualcuno mi ha battuto sulla spalla, mi volto e non c’è nessuno”.
Sandra Adler racconta l’episodio di una donna che ha assistito a una sua conferenza a Jackson. La donna era in ospedale in attesa di essere sottoposta a un’operazione chirurgica per la rimozione di un tumore al seno. Mentre aspettava, stesa, che le facessero una radiografia aveva sentito una mano che le toccava, dietro, il collo. “Quando guardarono la radiografia il cancro non c’era più”, racconta la Adler. “Chiese ai dottori chi le avesse toccato il collo e quelli dissero che nessuno l’aveva toccata. In quel momento seppe che era stato il suo Angelo”[4].
La prima osservazione che vorrei fare su questo articolo è che anche Sandra Adler – che l’autore dell’articolo avvicina al movimento New Age – l’esistenza degli Angeli semplicemente la presuppone e non si pone il problema di dimostrarla. “Gli Angeli ci si avvicinano... ci aiutano”. Colpisce in questo testo il desiderio sincero di incontrarli, questi Esseri di luce, la spontaneità con la quale viene affermata la loro esistenza e lo sforzo per ritrovare un aggancio, un contatto. Manca però la consapevolezza della complessità che comporta questo dialogare: non meno che fra gli esseri umani. C’è un’evidente tendenza a semplificare le cose.
La Adler parla di quattro modi essenziali di manifestarsi degli Angeli. Dobbiamo aver fede in lei che afferma queste cose? O c’è una possibilità di verificare scientificamente la sua affermazione? Questa domanda sorge spontanea leggendo un testo di questo genere. La Adler parla di intuizioni: ma come si fa a sapere se un’intuizione è vera o errata? Parla di visioni: ma tanti sono gli esseri umani che dichiarano di vedere qualcosa di insolito... dobbiamo fidarci di tutti? Anche quando fanno affermazioni che si contraddicono a vicenda?
Di fronte al fenomeno delle visioni la cosa più importante è il saper distinguere tra la percezione e l’interpretazione pensante che se ne fa, altrimenti si rischia di cadere in un anacronistico riemergere di antiche chiaroveggenze spontanee.
Per esempio: una persona vede un Essere di luce e ritiene di essere trasportata in una dimensione diversa. Dice: ho visto un Angelo; oppure: ho visto il Cristo. Ora, è importante sapere che l’Essere di luce che le viene incontro lo fa secondo le leggi del suo essere, indipendentemente dalla presa di posizione pensante di chi percepisce. Ugualmente, la persona che percepisce interpreta ciò che vede in base alla sua compagine animico-spirituale. Del resto, anche nella vita sensibile, un bambino che veda per la prima volta un elicottero, potrebbe dire: ho visto un calabrone enorme che mi voleva assalire!
Nell’umanità di oggi i due livelli della percezione e dell’interpretazione concettuale vengono quasi sempre confusi per cui quando una persona dice: io ho visto un Angelo, ho parlato con un Angelo, la prima cosa da chiedere sarebbe: come fai a sapere che era proprio un Angelo? E se fosse stato un abbagliante Diavolo? Tu pensi che sia un Angelo: può darsi che sia vero, ma rimane pur sempre un’interpretazione tua.
Il primo passo da compiere, quindi, dovrebbe essere quello di rendere puro l’elemento percettivo, cercando di descrivere ciò che si vede prima di immettervi le categorie interpretative che sono il patrimonio conoscitivo di colui che vede.
Se nell’umanità di oggi sono sempre più numerose le persone che hanno percezioni sovrasensibili, questo fenomeno non significa che aumenti nell’umanità anche la capacità pensante per decifrarle. Anzi, il materialismo è proprio un’esasperazione, un’inflazione del dato di percezione che induce pensieri sempre più automatici, con un conseguente sottovalutare e negligere l’attività creativa e attiva del pensare stesso. Questo significa che ci sono uomini che sentono sempre più cose, ma che hanno una capacità sempre minore di sapere oggettivamente di che cosa si tratti.
Il compito del pensiero è quello di cogliere l’oggettività di un fenomeno, non di attribuirgli il significato che uno vorrebbe che avesse. Se mi pare di vedere un Essere di luce o addirittura di udire delle voci, non è affatto escluso che si tratti di “qualcosa” di reale, se non addirittura di Esseri spirituali veri e propri. Ma fa una bella differenza se io penso che sia una persona cara morta mentre invece è l’Angelo, o il mio Io superiore o qualche altro Essere ancora.
Il disagio dell’umanità attuale sgorga da una vistosa disparità tra una quantità esorbitante di elementi di percezione e l’atrofizzarsi dell’elemento del pensare, che non ce la fa più a distinguere e a vagliare. E c’è più attività percettiva che pensante per il fatto che la percezione viene da sola, si presenta da sé. Basta restare inerti, passivi e arrivano mille percezioni; basta sedersi di fronte al televisore o navigare in Internet e ne arrivano di ogni specie. Il pensare vero e proprio richiede invece attività interiore, è una presa di posizione individuale che cerca l’oggettività dei fenomeni.
Premesso tutto questo, c’è da domandarsi se può esistere una scienza oggettiva anche riguardo al mondo spirituale. Solitamente si risponde che solo al mondo fisico è applicabile il metodo scientifico. Ma chi ha decretato che le cose debbano stare proprio così? E in base a che cosa si fa un’affermazione del genere?
La fiducia nella sola scienza materiale è il risultato di tutta la cultura occidentale, soprattutto quella degli ultimi secoli. Ciò deriva dal fatto che l’esperienza di sé ha portato l’uomo a stabilire che le certezze scientifiche, valide per tutti, sono possibili solo per ciò che riguarda il mondo materiale, mentre la sfera spirituale e quella del religioso sono considerate puramente soggettive, costituiscono una faccenda personale.
Esiste una scienza vera e propria, oggettiva e universalizzabile, per il mondo visibile – così si pensa; per il mondo dello spirito bisogna accontentarsi della fede. E siccome la fede è puramente soggettiva e ognuno può credere a quello che vuole – perché non può provarlo scientificamente –, rimane relegata nella sfera privata della vita.
Si rileva, però, che all’inizio del nuovo millennio c’è un forte aumento di esperienze sovrasensibili. Perché non deve essere possibile una conoscenza scientifica e valida per tutti anche nel campo dello spirituale? Quali sono i criteri della scientificità? Come si fa a stabilire l’oggettività dei fenomeni?
Al polo opposto di una Sandra Adler, che non si pone queste questioni di metodologia e interpreta le sue percezioni dicendo senz’altro che sono gli Angeli a manifestarsi così e così, c’è un Rudolf Steiner che complica non poco le cose affermando che se c’è una scienza oggettiva dello spirituale, essa deve fondarsi sulle stesse basi della scienza valida per il mondo visibile.
Ora, il metodo scientifico invalso negli ultimi secoli per indagare il mondo materiale, poggia su due colonne: la percezione e il pensare che trova il concetto che le corrisponde. Scientifico viene considerato tutto ciò che può mostrare da un lato l’elemento di percezione sensibile, accessibile a tutti, e dall’altro la sua comprensibilità tramite il pensiero che interpreta questa percezione in modo ugualmente accessibile a tutti.
Per procedere scientificamente nei riguardi di ciò che è spirituale, dobbiamo avere sia la percezione del sovrasensibile sia il pensare rivolto ad essa. Molti diranno: allora dovrò aspettare fintanto che avrò io stesso qualche percezione del sovrasensibile e per adesso è inutile perdere tempo. Quello che dice Sandra Adler e quello che dice l’iniziato Rudolf Steiner io li metto sullo stesso piano.
Però, se è vero che la percezione o si ha o non si ha, ciò non vale per il pensare: la facoltà di pensare ce l’ha ogni essere umano – cosa bellissima e incoraggiante. E non solo: il procedere del pensare è esattamente lo stesso sia che pensi sul visibile, sia che pensi sulle percezioni sovrasensibili. In altre parole, sia che uno Steiner percepisca mucche, pietre o lapislazzuli, sia che percepisca Angeli e Arcangeli, la sua attività pensante, in tutti e due i campi, resta la stessa. Fondamentale per la scientificità di qualunque conoscenza non è dunque la percezione, ma la capacità del pensiero di dire che cosa quella percezione sia oggettivamente. Uno scienziato non ha bisogno di percepire lui stesso tutti gli esperimenti fatti da un altro per metterli al vaglio del proprio pensiero.
La via del cuore e la via della mente
La questione complessa che riguarda l’esistenza e l’operare degli Angeli e dei Morti richiede che si compia una nuova sintesi di scienza e di fede. Il futuro rapporto con lo spirituale, sta nell’imparare ad avere fiducia – questo è il vero significato della parola “fede”, dal greco pìstis – nel pensare umano.
La religione del passato si fondava sulla fede, sulla rivelazione divina che l’uomo sapeva accogliere più che altro passivamente; la scienza moderna si è fondata, di contro, sulla diretta comprensione delle cose, e ha scartato la fede.
L’uomo religioso moderno usa soltanto il cuore e mette da parte la testa; in quanto scienziato, usa soltanto la testa e dimentica il cuore, perché gli crea solo pasticci. Si è instaurata una religione con un cuore senza testa, e una scienza con una testa senza cuore. A farne le spese è l’uomo che si vive solo a metà, sia come scienziato sia come uomo religioso.
Però sia la testa sia il cuore sono indispensabili all’uomo: la testa è indispensabile perché sa pensare e il cuore perché sa amare. Il passo in avanti è quello di una fede che si illumini sempre di più grazie alla scienza, e di una scienza che si approfondisca con le forze del cuore.
In fondo, la testa senza il cuore fa comodo: la scienza da sempre ha cercato di affrancarsi dall’etica, e ci riesce sempre meglio. La scienza oggi si preoccupa solo del vero astratto, scartando il bello e il buono, e la religione, che si è preoccupata solo del buono, ha trascurato non poco il bello e il vero.
Bisogna cominciare a usare testa e cuore insieme. Ciò che la testa non riesce ancora a capire in fatto di Angeli e di Morti, lo può intuire il cuore; ciò che il cuore, con le forze dell’amore, non riesce ancora a distinguere, lo sa fare la mente. Soprattutto parlando di Angeli e di Morti, se la mettiamo solo in chiave di fede viviamo nel puro sentimentalismo e se mettiamo la ricerca soltanto in chiave di scienza rimaniamo nel puro dilettantismo. Il materialismo è dilettantismo là dove si tratta di affrontare ciò che è spirituale.
Allora, è possibile dimostrare l’esistenza degli Angeli e dei Morti? Possiamo tentare una duplice risposta: una della mente e una del cuore.
La mente in fondo ci dice che non è possibile dimostrare nulla, perché quel che è reale si può soltanto mostrare. Gli esseri reali sono fatti per essere vissuti e sperimentati, e se una persona non ha mai fatto l’esperienza della presenza dell’Angelo, per lei l’Angelo semplicemente non esiste. L’intento di dimostrargliene teoricamente l’esistenza è illusorio: questa persona continuerà a dire che gli Angeli non esistono – e per lei è la pura verità. Però, quella stessa mente, nel momento in cui fa posto anche al cuore, fa un’altra constatazione: se è vero che non si può dimostrare l’esistenza degli Angeli è altrettanto vero che non si può dimostrare la loro non-esistenza!
Chi ritenesse di poter dimostrare la non-esistenza degli Angeli, è altrettanto dogmatico e non-scientifico di chi volesse dimostrarne l’esistenza. Attraverso questa seconda, più libera, affermazione della mente, superiamo la presunta autosufficienza del pensare logico. Questa modestia ci fa rivolgere alle forze del cuore per chiedergli: che cos’hai da dire, tu? Se la mente non è capace di decidere né per l’esistenza né per la non esistenza degli Angeli, qual è l’esperienza che fa il cuore?
Prendiamo le mamme di due bambini piccoli: il cuore di una mamma è convinto che il suo bimbo sia protetto dall’Angelo custode e l’altra mamma ignora l’Angelo, proprio non ci pensa. Queste due mamme vivranno il rapporto col loro bambino in modo del tutto diverso.
La prima passa giornate tranquille, senza la paura che al figlioletto possa succedere qualche disgrazia da un momento all’altro, è piena di fiducia, sa che al suo bambino capiterà solo ciò che è previsto nell’amore di un essere angelico, e a lui lo affida. La seconda mamma, invece, forse vive dalla mattina alla sera nell’ansia che il suo bambino si ammali, che cada dalla finestra o vada a finire sotto un’automobile.
Il rapporto con la realtà dell’Angelo custode è dunque di tipo esistenziale: sono io a decidere se voglio vivere così o così. E, restando a questo esempio, ognuno può chiedersi che tipo di mamma avrebbe preferito avere. Una mamma piena di fiducia – che naturalmente non significa una mamma irresponsabile –, o una mamma costantemente in allarme? Chi preferirebbe una mamma divorata dalla paura? Qui si arriva al limite del dimostrare, anzi, a questo punto non c’è più nulla da dimostrare: il capire al livello del cuore non avviene per astrazione logica, ma un è modo di vivere.
Affermare l’esistenza dell’Angelo custode si confà a un atteggiamento interiore pieno di positività, che vive in un mondo di sapienza e di aiuto reciproco.
Dionigi l’Areopagita e Scoto Eriugena
Ci sono testi che risalgono al VI secolo, contenenti una dottrina ben articolata sulle gerarchie angeliche. Furono attribuiti per lungo tempo a Dionigi l’Areopagita, vissuto nel I secolo dopo Cristo. La scienza degli ultimi 150 anni ha poi sentenziato che questi testi non possono risalire a quel Dionigi, che fu discepolo di Paolo di Tarso. Sostiene che sono stati fabbricati a bella posta da un falso Dionigi – passato alla storia come lo pseudo-Dionigi –, appunto nel VI secolo.
Se ci rifacciamo alle antiche conoscenze esoteriche – con le quali, come vedremo, Dante aveva ancora dimestichezza –, veniamo a sapere che Paolo incaricò Dionigi di fondare ad Atene una scuola di esoterismo cristiano per tramandare, a chi avesse i necessari presupposti conoscitivi e morali, una conoscenza scientifica delle gerarchie celesti.
Era previsto che il cristianesimo ufficiale – quello essoterico, cioè accessibile a tutti – non mettesse in primo piano una tale scienza, prematura e pericolosa quando mancano le capacità morali di farne buon uso. Ne sarebbero derivati soltanto pesanti dogmi di fede col rischio di mettere a repentaglio il monoteismo. Per questo motivo si affidò al filone esoterico, che è sempre rimasto nelle catacombe della cultura occidentale, la conoscenza scientifica degli Esseri angelici.
Nei tempi passati tutto ciò che aveva un carattere scientifico-spirituale doveva essere coltivato dai pochi che avevano sviluppato prima del tempo quelle capacità che il resto dell’umanità avrebbe conquistato solo più tardi. E c’era una regola fondamentale, cui fa accenno già Platone: le verità più profonde, quelle che solo più tardi possono diventare patrimonio di tutti, dovevano essere tramandate per via orale e non per iscritto.
Se i moderni esegeti conoscessero le leggi della tradizione esoterica, capirebbero perché le conoscenze di Dionigi sono state tramandate per cinque secoli solo oralmente. Poi, nel VI secolo, sorse la necessità – anche perché la capacità di memoria andava scemando sempre di più – di fissare quei contenuti nella forma scritta per evitare che andassero persi o che venissero alterati.
Gli iniziati che misero su carta quei testi nel VI secolo sapevano bene che i contenuti risalivano al Dionigi vissuto al tempo di Paolo. Lo pseudo-Dionigi è stato perciò inventato dagli pseudo-scienziati! Lo stesso Tommaso d’Aquino ha fatto un commentario bellissimo sul testo di Dionigi, perché nel medioevo era fondamentale nello studio della teologia.
Un altro frammento di scienza degli Angeli andata persa risale a una personalità interessantissima, Scoto Eriugena, vissuto nel IX secolo. Scrisse un libro importante: De divisione naturae (Sulla divisione della natura).
Scoto divide la realtà complessiva della natura, cioè del reale, che abbraccia anche la Divinità, in quattro settori fondamentali. Parla di una natura naturans non naturata, poi di una natura naturata et naturans, poi di una natura naturata et non naturans, e in quarto luogo di una natura non naturata et non naturans.
1. La natura naturans è una natura che crea, è la Divinità non naturata, cioè non creata a sua volta. La Trinità – a lei si riferisce questa prima definizione – è una natura, l’essere divino, che crea altre nature ed è increata.
2. Il secondo livello della creazione è la natura naturata et naturans: sono le gerarchie angeliche! Da un lato create dalla Divinità suprema, e dall’altro esse stesse creatrici del mondo a loro sottostante.
3. Al terzo gradino troviamo gli esseri umani: natura naturata et non naturans, creata e non creante. Ci troviamo adesso al momento della storia in cui quest’affermazione di Scoto va ripresa in chiave evolutiva: gli uomini sono a tutta prima nature create ma non capaci di creazione. Sono destinate, però, grazie al loro cammino evolutivo, a diventare a loro volta sempre più creatrici. Gli uomini sono chiamati a diventare essi stessi esseri “naturanti”, cioè creanti; come punto di partenza sono natura naturata et non naturans, creata e non creante.
4. Il quarto livello della creazione è la natura non naturata et non naturans: non creata e che non ha più bisogno nemmeno di creare, perché rappresenta il compimento ultimo di tutta l’evoluzione. Ecco di nuovo la Divinità: essa è all’inizio creante e alla fine è compimento della creazione stessa.
I cori angelici in Dante
Veniamo adesso a Dante: potremmo bearci degli interi canti XXVIII e XXIX del Paradiso, oltre a tutto il resto, in quanto il Paradiso dantesco è tutto popolato di Esseri angelici. Sulla Luna, per esempio, ci sono gli Angeli e tra i Morti gli Spiriti votivi; su Mercurio ci sono gli Arcangeli, e tra i defunti gli Spiriti operanti; su Venere ci sono i Principati, e gli Spiriti amanti; sul Sole abitano le Potestà con gli Spiriti sapienti; su Marte le Virtù, Spiriti militanti; su Giove le Dominazioni, Spiriti giudicanti. Poi viene Saturno con i Troni e gli Spiriti contemplanti, poi c’è il Cielo delle Stelle fisse popolato dai Cherubini, Spiriti trionfanti, e infine il Cielo cristallino, o Primo Mobile, dove vivono i Serafini immersi nella divina essenza. Al di là del Cielo cristallino c’è l’Empireo, il cielo di fuoco, che non si muove più nel tempo, ma vive nell’eternità.
All’inizio del canto XXVIII, Dante pone a Beatrice un importante quesito. Egli ha già passato in rassegna tutte le gerarchie celesti distribuite nello spazio, in quanto abitano i vari pianeti, salendo fino a Saturno; poi ha incontrato le Stelle fisse, poi il Primo Mobile e l’Empireo. Al di là di tutto ciò che è nello spazio, ha poi contemplato il puro spirituale che si fissa in un punto solo, non dimensionabile, che è la Divinità. Ciò che Dante non riesce a capire è perché nel mondo puramente spirituale ci sia una totale inversione dei rapporti.
Nel mondo materiale il centro è la Terra, poi vengono la Luna, Marte, Venere, il Sole ecc., secondo la concezione tolemaica, che muove dal punto di vista della nostra esperienza reale e pone la Terra al centro – e non il Sole, come nella concezione copernicana. Noi il Sole lo percepiamo in rotazione attorno alla Terra, intorno a noi stessi, e ognuno di noi in realtà si sente posto al centro del mondo.
Nel mondo fisico il centro è costituito di forze gravitazionali: il centro è la Terra, dove c’è il massimo di gravità. Il primo cerchio attorno alla Terra è quello che gira più lentamente, perché è più vicino alla gravità. Più ci si allontana dalla Terra e più aumenta la velocità.
Ora, lasciato alle spalle tutto il mondo visibile, Dante contempla lo spirituale puro e vede che lì è tutto all’opposto: il centro, che è la Divinità, è un punto invisibile, e i più vicini ad essa sono gli spiriti più alti e “veloci” (Troni, Cherubini e Serafini) e non i più bassi. Quello che Dante non riesce a capire è perché gli spiriti più vicini al punto centrale (cerchiamo di trasporre tutto nello spirituale, anche se ci tocca usare immagini spaziali) siano quelli che si muovono più velocemente. Più si va lontano dal centro spirituale e più c’è lentezza nel movimento.
La risposta di Beatrice all’interrogativo di Dante è che spiritualmente non può essere che così: più si va lontano dalla velocità massima e “concentrata” dello spirito che pensa e crea, e più ci vuol tempo per capire qualcosa. Questa velocità diminuisce in proporzione alla distanza dal punto centrale, cioè “concentrato”, dell’intuito puro dello spirito creatore.
Dante distingue allora due ordini fondamentali nell’universo in cui viviamo: il primo è l’ordine che vige nel mondo visibile, dove la massima concentrazione di materia fa da centro di gravità, e più le si è vicini e più si vive la lentezza, la pesantezza. A mano a mano che ci si allontana dalla materia si diventa veloci nello spirito.
Il secondo ordine è quello spirituale, dove avviene l’opposto: più lo spirito è concentrato e più è veloce, immediato nell’intuizione creatrice e nell’agire; più ci si allontana dallo spirito (Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli, Angeli), più si procede lentamente nella conoscenza e si è meno liberi nell’agire. In altre parole Dante ci vuol dire: le leggi fondamentali del regno della materia sono l’opposto di quelle dello spirito: la gravità nella materia è antigravità nello spirito, che è leggerezza assoluta, movimento di massima libertà.
Leggiamo ora il canto XXVIII dal verso 94 alla fine. È un testo bellissimo che merita di venir meditato più e più volte.
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene alli ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre foro;
e quella che vedea i pensier dubi
nella mia mente, disse: “I cerchi primi
t’hanno mostrati Serafi e Cherubi:
così veloci seguono i suoi vimi
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e possono quanto a veder son sublimi.
Quelli altri amor che dintorno li vonno
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ’l primo ternaro terminonno.
E dèi saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogni intelletto
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato nell’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda;
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Ariete non dispoglia,
perpetualemente “Osanna” sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.
In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi èe.
Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
Questi ordini di su tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
E Dionisio con tanto disìo
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’io;
ma Gregorio da lui poi si divise,
onde, sì tosto come gli occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch’ammiri;
ché chi vide qua su lil discoperse
con altro assai del ver di questi giri”.
Dante, Paradiso XXVIII, 94-139
Beatrice dice alla fine: e se c’è stato in Terra un mortale, cioè un uomo (Dionigi) che ha espresso una tale verità per i più sconosciuta, nascosta, (secreto ver), non voglio che tu te ne stupisca. È stato Paolo a rivelargliela (lil discoperse), quel Paolo che l’ha osservata quassù. Dionigi ha saputo queste cose da Paolo il quale racconta di essere stato rapito al terzo cielo.
Dante mostra qui chiaramente di sapere come stanno le cose: sa che gli scritti di Dionigi risalgono a quel Dionigi l’Areopagita che fu discepolo di Paolo; sa che Paolo era un iniziato e che aveva affidato a Dionigi un ver secreto (verità segrete), cioè delle conoscenze esoteriche che non era ancora possibile comunicare a tutti, ma che andavano coltivate nascostamente, in attesa che i tempi maturassero.
Con altro assai del ver di questi giri: Dante intende dire che Donigi aveva imparato da Paolo molte più cose di quelle che ha poi tramandato. Questi ultimi quattro versi documentano con evidenza che Dante parte dal presupposto che esisteva nella corrente esoterica del cristianesimo una conoscenza scientifica, dettagliata e articolata, delle gerarchie celesti.
Ripartiamo ora dall’inizio:
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene alli ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre foro;
Il punto fisso è la Divinità, quale centro spirituale che tiene ogni gerarchia angelica al proprio posto (alli ubi). A ogni gerarchia di Angeli viene cioè affidata una posizione, cioè una mansione, che vale per tutta l’evoluzione terrestre e che è una specie di eternità nel tempo.
e quella che vedea i pensier dubi
nella mia mente, disse: “I cerchi primi
t’hanno mostrati Serafi e Cherubi:
così veloci seguono i suoi vimi
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e possono quanto a veder son sublimi.
Beatrice, dice Dante, che vedeva il dubbio nei miei pensieri, ora mi spiega che nel mondo spirituale il centro è il punto massimo di velocità e più ci si allontana da esso e più si perde in velocità, contrariamente a ciò che avviene nel mondo dei pianeti visibili.
I Serafini e i Cherubini seguono velocissimi, senza tergiversare, i legami (i vimi) d’amore e di sapienza che li uniscono alla Divinità, sono i più strettamente “legati” alla Trinità, sono spiritualmente più versatili e mobili nella loro attività creatrice. Essi assomigliano al centro spirituale quanto più è possibile (quanto ponno) a una creatura: tutte le gerarchie sono create, ma i Serafini e i Cherubini sono simili al divino in modo sommo. Di più non sarebbe possibile a natura creata. E questa capacità di assimilarsi al divino risulta dalla loro capacità eccelsa di scandagliare il divino stesso (e posson quanto a veder son sublimi).
Quelli altri amor che dintorno li vonno
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ’l primo ternaro terminonno.
Che bella concezione dei Troni ha Dante! Il trono sulla Terra mette in evidenza la gravità che tira verso il basso: mi ci siedo sopra, faccio sentire il mio peso ed esercito il potere. Dante dice: i Troni sono quelli che completano in basso la prima triade gerarchica e sono chiamati Troni perché spingono in su! Spingendo essi in su, si siedono sul loro Trono quelli che stanno sopra di loro: i Cherubini, i Serafini e la Divinità.
Quando ci si siede sul trono fisico tutto preme in giù; i Troni delle gerarchie, invece, accompagnano verso l’alto. La concezione del “Trono” nel mondo delle gerarchie è che gli Esseri spirituali, in base al dono che fanno di se stessi, salgono spiritualmente: c’è una levitazione spirituale che è fatta di immolazione di sé, e questo sacrificio è il supporto della Divinità e degli Esseri spirituali più alti.
E dèi saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogni intelletto
La beatitudine non viene direttamente dall’amore, ma dal pensare. Dante è un genuino tomista, e la corrente tomistica, per un certo verso in opposizione a quella di Bonaventura e dei francescani, dice: l’uomo, che è chiamato a diventare lui pure sempre più uno spirito libero, può conseguire le forze dell’amore soltanto in base all’intelletto, alla conoscenza degli esseri che vuole amare. Può amare soltanto in quanto capisce e soltanto ciò che capisce. Si può vedere il bene dell’altro solo nella misura in cui lo si conosce. La dignità e la libertà della persona umana stanno nel fatto che la conoscenza deve sempre di più precedere l’amore: si approfondisce nell’amore, ma non c’è vero amore senza conoscenza.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato nell’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda;
La beatitudine si fonda sul pensare. L’amore viene dopo (poscia seconda) la conoscenza: se cerchiamo l’amore senza conoscenza non otterremo né l’uno né l’altra; se cerchiamo la conoscenza vera, di necessità essa si approfondisce tramite l’amore. Dove c’è vera conoscenza c’è anche amore.
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
Questa terzina contiene la risposta a chi si domanda: ma gli Angeli sono liberi o no? La caduta degli Angeli avviene liberamente o solo perché la Divinità, nel quadro generale dell’evoluzione, considera necessario che qualche Essere resti indietro? Questo complesso quesito Dante lo risolve elegantemente in tre versi: il criterio che decide quale misura di visione beatifica ogni coro angelico può avere, è il merito (mercede).
E il merito si sostanzia di due cose: di grazia divina – che ci vuole sempre, perché senza di essa non si può far nulla –, e di libera volontà (buona voglia), che è la libertà della volontà volta al bene, cioè buona. Ci vogliono tutt’e due le cose: per Dante è scontato che la grazia non si pone in contrapposizione alla libertà e la libertà non può opporsi alla grazia. Da una parte la Divinità offre le condizioni evolutive (grazia), e dall’altra la creatura risponde con la propria responsabile libertà (buona voglia). E così si procede di grado in grado: i diversi cori angelici rappresentano gradi diversi dell’operare della grazia divina, e di buona voglia, di libertà, di merito da parte della creatura.
L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Ariete non dispoglia,
perpetualemente “Osanna” sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.
In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi èe.
Potestà, Virtù, Dominazioni suonano in tre ordini di letizia, in una primavera che non viene mai abolita dall’inverno, come accade nel mondo sensibile, perché è la primavera eterna dello spirito. Anche qui c’è una realtà ternaria di Esseri spirituali: è bello che Dante non abbia nessuna remora cattolica a chiamare non solo dei, ma addirittura dee, al femminile, le Potestà, le Virtù e le Dominazioni! Qualche spirito gretto potrebbe accusarlo di paganesimo, se non addirittura di panteismo!
Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
Questi ordini di su tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
Il rapimento di questi nove ordini è nel loro volgersi in alto verso le cerchie superiori e verso la Divinità, per bearsi nel contemplarla, mentre tutti attirano in alto quelli che stanno sotto. Tutti sono tirati in su dall’Essere Sommo, che è la Divinità, e tutti tirano chi sta sotto. I Serafini tirano gli altri otto ordini gerarchici più gli esseri umani; e così via, scendendo in giù, ognuno ha da tirare. È giusto e bello quello che Dante dice: tutti tirati sono e tutti tirano. Ogni gerarchia riceve dall’alto e dona verso il basso; anche l’uomo è chiamato a tirar su i regni della natura, quello animale, vegetale e minerale.
E Dionisio con tanto disìo
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’io;
Il desiderio che mosse Dionigi l’Areopagita a vivere con gli Esseri angelici sta rinascendo nell’umanità attuale, perché i tempi sono maturi per questo. Dante dice che una delle cose più belle per l’uomo è di generare e vivere in sé il desiderio, la gioia, l’amore per la conoscenza degli Esseri angelici, per la comunione e la conversazione con loro, per il sentirsi guidati e ispirati da questi nove cori di sapienza divina.
ma Gregorio da lui poi si divise,
onde, sì tosto come gli occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
Dante nel Convivio aveva seguito la distinzione delle gerarchie operata da Gregorio: poi, nel corso della vita e della composizione della Divina Commedia, cambiò idea e si rivolse a Dionigi, soprattutto grazie all’influsso di Tommaso d’Aquino. E qui dice: Gregorio si è sbagliato riguardo all’ordinamento dei nove cori, ma niente di male, perché dopo la sua morte è venuto qui in cielo e s’è rimesso le idee a posto; nel vedere come stanno veramente le cose ha riso di se stesso.
“L’eterno riposo dona loro, o Signore...”
Il Requiem aeternam è una preghiera nata nella tradizione cristiana della fede, della devozione del cuore e della pietà verso i Morti.
L’eterno riposo dona loro, o Signore,
e splenda ad essi la luce perpetua.
Riposino in pace. Amen.
Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
Requiescant in pace. Amen.
Anche questa breve preghiera, per come è strutturata, risale ai tempi in cui gli iniziati esprimevano in formule – che sono poi delle vere e proprie meditazioni – l’oggettiva esperienza che fanno i Morti.
Questa preghiera si divide in due parti: nella prima si parla del tempo che il Morto passa nel mondo dell’anima, dove avviene la purificazione dalle passioni e dalle brame; nella seconda si parla del mondo vero e proprio dello spirito.
Le esperienze dell’anima subito dopo la morte sono, stando anche alle descrizioni di Rudolf Steiner, in connessione con la sfera lunare; quando poi il defunto entra nella sfera solare, si apre alla dimensione dello spirito vero e proprio. Nel mondo personale e soggettivo dell’anima il Morto deve ripercorrere la sua vita a ritroso, deve portare a chiara coscienza ciò che del suo vivere e del suo operare nel mondo gli è rimasto inconscio.
È questo uno dei significati del detto evangelico: se non diventerete come bambini non potrete entrare nel regno dei cieli. Questa frase descrive tra l’altro il cammino dei Morti: essi sono nel processo di ridiventare come bambini in quanto ripercorrono la loro vita a ritroso, dalla morte fino alla nascita. Finché non completeranno tutto il percorso da fare riguardo al mondo della loro anima, non potranno entrare nei mondi oggettivi e universali dello spirito.
La sfera dell’anima ha come carattere fondamentale l’irruenza delle passioni di un animo umano che non ha ancora trovato il suo giusto equilibrio e la sua armonia. Concedi o Signore, dice la preghiera, al nostro caro defunto di trovare nel mondo dell’anima la pace che si raggiunge tramite la purificazione interiore.
Percorsa questa sfera fatta di esperienze dell’anima e che dura circa un terzo della vita – se si muore a novant’anni, il purgatorio dura circa trent’anni –, conquistata la pace nell’anima grazie al fatto che la nebbia delle brame è stata spazzata via dalle “fiamme” purificatrici, il Morto può entrare nel regno dei cieli, nella visione dell’oggettivo spirituale. E splenda ad essi la luce perpetua: si tratta qui del mondo dello spirito vero e proprio. Dopo aver dato requie all’anima liberandola dagli egoismi personali, si acquisisce l’organo solare di percezione che coglie l’oggettività del mondo spirituale.
Perché si parla di pace “eterna” e di luce “perpetua”? C’è forse una differenza tra ciò che è eterno e ciò che è perpetuo? La parola “eterno” viene da aeviternus che significa: che dura un evo (in greco aiòn, che vuol dire “eone”); la pace che il Morto conseguirà non dura infatti “per sempre”, ma per un evo, per un eone. L’evo, o eone, che qui si intende è il periodo che va dalla morte a una nuova nascita.
La parola perpetuus significa “ininterrotto”, “incessante”, “inintermittente”, cioè qualcosa che dura senza interruzione; le corrisponde il greco pètomai, “volare”, che è appunto un procedere senza intermittenze, altrimenti si cadrebbe giù. Lo spirito è un “continuo” esser presente a se stesso. Ciò che appartiene allo spirito permane sempre, vive nel regno della durata, non viene mai a mancare.
Testi come questi sono precisi e scientifici. Si chiede per l’anima una requie eterna, quella che serve a creare i presupposti per una nuova esistenza; la luce dello spirito, invece, è perpetua perché non dura solo per un singolo evo, ma per sempre.
La nostra cultura occidentale ha conferito anche alla parola “eterno” il significato di “per sempre”, perché si è persa la conoscenza di quegli “evi” che indicano l’alternarsi di stato incarnato e stato disincarnato. Ritornando sulla Terra, l’anima avrà a che fare con nuove brame e nuovi desideri – minori o maggiori, a seconda del cammino fatto. Continuerà sulla Terra la crescita che fa acquisire all’uomo sempre più la sovranità dello spirito, di ciò che è duraturo e “perpetuo”.
Un’altra legge dell’evoluzione si evidenzia da quanto stiamo dicendo: l’uomo può crescere interiormente soltanto nello stato incarnato, soltanto sulla Terra. Tutto il periodo passato nel post-mortem non consente passi reali verso la pienezza dell’umano, ma serve a fare il bilancio della vita trascorsa e a progettare, insieme agli esseri umani karmicamente congiunti e insieme alle gerarchie spirituali, tutte le occasioni di crescita da proporre alla propria libertà nell’incarnazione successiva. Perciò invochiamo per l’anima la “pace”: il defunto non può fare un ulteriore progresso nel suo cammino. Quello potrà avvenire solo al suo ritorno sulla Terra.
Il Requiem aeternam può costituire per il cristiano moderno un bel testo di meditazione. La preghiera tradizionale è stata intesa per il cuore, la scienza moderna si rivolge solo alla testa: la meditazione offre l’occasione di far la sintesi fra testa e cuore, è fatta per la gioia del sentire e per approfondire il pensare. Meditando il Requiem aeternam se ne coglie la giustezza scientifico-spirituale; in questa piccola preghiera non c’è nulla da cambiare, ogni parola è al posto giusto.
Sul requiescant in pace (riposino in pace) abbiamo già detto: questa frase è senz’altro un’aggiunta posteriore, perché non fa che ripetere l’anelito alla pace espresso all’inizio, fermo restando che il riposo e la pace dell’anima sono solo i primi passi che il defunto è chiamato a compiere nel suo cammino verso la luce dello spirito.
L’eterno riposo dona loro, o Signore,
e splenda ad essi la luce perpetua.
Amen.
Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
Amen.
Quarto capitolo
LE GERARCHIE ANGELICHE
AL LAVORO NELLA NATURA
E NELL’UOMO
I Morti vivono di fiducia e ringiovanimento
I due atteggiamenti interiori, già prima descritti, necessari per intendersi con i defunti, vanno integrati con un terzo e un quarto che non sono meno importanti dei primi due. Si tratta di coltivare degli atteggiamenti dell’animo che corrispondono ai sentimenti di fondo in cui sono immersi i Morti e che nell’Io superiore – dunque al livello sovraconscio – vivono anche in ogni essere umano incarnato. Il primo atteggiamento era quello della gratitudine per tutte le cose e per tutti gli eventi, e il secondo quello della comunanza e della reciproca appartenenza fra gli esseri.
I pensieri che i Morti vogliono comunicarci sono tutte variazioni sul tema del primo sentimento – quello della riconoscenza e della comunione con tutti gli esseri. Il trapassato ci parla sempre, è sempre in comunione con noi: il problema è che noi possiamo cogliere i suoi messaggi solo se lavoriamo a stabilire coscientemente nella nostra anima un comune terreno di dialogo, fatto di atteggiamenti interiori. Del resto, il compito della libertà, il cammino della coscienza ordinaria è proprio quello di conquistarsi il senso della comunanza e della gratitudine che l’Io superiore, la sovracoscienza, da sempre vive.
Il terzo tema della sinfonia con la quale i Morti ci parlano è il sentimento di assoluta fiducia nella vita. La gratitudine per ogni cosa si riferisce maggiormente al passato: a conti fatti, se guardiamo con spregiudicatezza a tutto quel che abbiamo attraversato nella vita, ci risulta di dover essere grati per ogni cosa. Il sentimento di fiducia nella vita, invece, ci apre maggiormente verso il futuro e, sebbene sia chiaramente un’estensione del primo, questo stato d’animo può essere visto anche come una bellissima polarità nei suoi confronti.
È importante per noi sapere che dopo la morte ogni uomo vive sempre più nell’assoluta fiducia nei confronti di tutti gli esseri. Significa che ogni volta che ci sentiamo depressi o scoraggiati, ogni volta che perdiamo la fiducia nella vita, ci precludiamo l’accesso al defunto perché egli non riesce più a trovare l’elemento comune per inviarci i suoi messaggi.
Aver fiducia nella vita non significa trovar tutto roseo o pensare che tutto va bene. Fiducia vuol dire invece che qualunque sia la situazione in cui ci troviamo, per quanto “male” vadano le cose, ci è sempre offerta la possibilità di fare qualcosa di buono e di crescere interiormente. C’è sempre la possibilità di trasformare anche il male più tremendo in un autentico bene. Magari ci vorrà del tempo, magari ci vorranno secoli, ma la possibilità c’è.
Il sentimento della fiducia si fonda sul convincimento che il male umano – e, per quanto ci riguarda, noi uomini possiamo avere a che fare solo con il male relativo alla nostra evoluzione – non è in se stesso qualcosa, ma è sempre un’assenza di bene. Tutta la tradizione occidentale, da Platone ad Aristotele, ad Agostino, a Tommaso d’Aquino, interpreta il male non come qualcosa a sé stante, ma come mancanza del bene.
Se il male fosse qualcosa di reale non potremmo avere una fiducia assoluta nella vita; invece, sapendo che il male umano può rappresentare soltanto una carenza di bene, e sapendo che il bene è sempre possibile attuarlo – perché un bene impossibile non è affatto un bene –, proprio queste convinzioni di fondo ci infondono una fiducia illimitata nei confronti dell’esistenza.
La certezza della positività del futuro ci fa vivere in sintonia con la sapiente provvidenza: siamo tutti accompagnati da una “pro-videnza” che “pre-vede” tutto ciò di cui abbiamo bisogno per la nostra crescita e “pro-vede” a darcelo. Viviamo in un’evoluzione che merita fiducia perché a nessuno viene fatto mancare ciò di cui necessita per il suo cammino.
Che poi noi, nella dimensione dell’io ordinario, non ci avvaliamo di una buona occasione perché non ci piace o perché vorremmo qualcosa d’altro, questa è tutt’altra faccenda. Ma il mondo di sapienza e d’amore nel quale viviamo ci sta a dire che tutti i fattori evolutivi che ci circondano sono fatti apposta per favorirci. Comprese le malattie, le cosiddette disgrazie e tutti quegli eventi che quando ci capitano fanno dire alla nostra coscienza ordinaria: ma perché proprio a me? ma che cosa ho fatto di male?
La fiducia è come un organo conoscitivo, una facoltà che il defunto mette in atto concretamente quando ci invia le sue ispirazioni. Egli ci ispira continuamente il pensiero che ci dice di affidarci alla saggezza di ciò che ci capita, di ogni incontro, soprattutto quando vorremmo fuggire. Chi ha passato la soglia della morte può ormai vedere come stanno veramente le cose. Perciò, nella misura in cui noi coltiviamo l’atteggiamento fondamentale della fiducia nei confronti della vita, edifichiamo in terra una nuova reale facoltà, non soltanto affettiva ma anche, e soprattutto, conoscitiva.
Possiamo considerare il dialogo fra noi e i defunti come una melodia suonata su un violino a quattro corde, e la quarta corda è quella che parla di un ringiovanimento continuo. In vita, il corpo non può fare a meno di invecchiare, come ogni altro corpo vivente nella natura; ma questa legge non vale per l’anima nel dopo-morte. È un oscuramento della mente dovuto al materialismo quello che ci fa ritenere che con l’indebolimento del corpo fisico di necessità si affievoliscano e vadano in declino anche le forze dell’anima. Non è vero! L’invecchiamento animico è possibile, certo, ma non è necessario che avvenga, né è dovuto alle sorti del corpo: anzi, col passare del tempo, l’anima tende a ringiovanire sempre di più se non glielo impediamo.
Parallelamente al consumarsi del corpo fisico, ognuno può vivere un ringiovanimento delle forze dell’anima, per non parlare del risuscitare continuo dello spirito! Il Morto è colui che vive in un continuo ringiovanimento della sua anima, che lo fa rinascere nello spirito. E questa freschezza interiore i Morti vorrebbero condividerla con noi.
Non è poi così difficile farla nostra, giorno dopo giorno. Se per esempio ci interessiamo veramente non soltanto alla pagnotta materiale ma anche al pane spirituale, possiamo fare, nel corso della vita, una reale esperienza di ringiovanimento. Quando l’anima trova il modo di rinnovarsi, lo spirito si riaccende e noi diventiamo interiormente più giovani, ritroviamo la gioia e l’entusiasmo degli ideali giovanili. È possibile avere la struttura interiore di un bambino che va incontro alla vita ogni giorno con rinnovata meraviglia anche a cinquanta, sessanta, ottant’anni. È possibilissimo, e quando non lo facciamo ci perdiamo il meglio della vita.
Possiamo ogni mattina cominciare con slancio la giornata immaginandola piena di belle sorprese, come ci è accaduto a quindici, sedici o vent’anni, quando cantavamo infilandoci la camicia e ci precipitavamo fuori di casa per non far tardi all’appuntamento con la vita. Possiamo fare lo stesso a sessant’anni, forse ancora più sinceramente, perché abbiamo dentro tutto il portato dell’esistenza, c’è in noi lo spessore morale di una libertà conquistata. Più andiamo avanti negli anni e meglio possiamo capire le cose della vita: e questa è pura gioventù, che non ha più bisogno di far sfoggio di sé con la vitalità scontata delle forze fisiche.
Aver fede vuol dire aver fiducia nella vita; il ringiovanimento è la speranza che la vita ci dà, quella che ci permette di non rassegnarci mai e di restare aperti al destino, con rinnovato amore per la vita. I Morti lavorano per aiutarci a restare capaci di sorpresa, di stupore e di meraviglia, come i bambini. Del resto, essi stanno ripercorrendo la loro stessa vita a ritroso, verso quell’infanzia che li rende giovani nello spirito.
Se il nostro corpo fisico invecchia, sono affari suoi; noi non siamo il corpo, ma abbiamo un corpo. Quando invece lo spirito ringiovanisce, quelli sì che sono affari nostri, perché questa nuova gioventù è una nostra conquista, non viene mai da sola.
Il corpo, sia quando è giovane che quando invecchia, lo fa necessariamente, per natura, che noi lo vogliamo o no. La giovinezza dello spirito è come il canto della libertà di un cigno, che si fa più bello e più forte man mano che va verso la fine dell’esistenza.
Come parlare ai Morti e come ricordarli
Si può anche diventare più concreti riguardo al modo di comunicare con i Morti. I quattro atteggiamenti di fondo a cui è stato accennato ad alcuni possono sembrare ancora troppo astratti. In realtà sono concretissimi, solo che vanno conquistati a poco a poco e ci vuol tempo prima di poterne cogliere i frutti concreti nell’esperienza quotidiana.
Vediamo allora se c’è qualche modo più immediato per comunicare con i Morti. Entriamo qui in un campo di indicazioni un po’ più spicciole, che hanno meno peso rispetto al lavoro interiore di cui si è parlato prima.
La scienza dello spirito, così come è stata inaugurata da Rudolf Steiner, ci avverte che il trapassato non può avere nessun rapporto con le astrazioni del linguaggio terreno, soprattutto con i sostantivi. Già dai primi giorni dopo la morte, quando sulla Terra risuona nel linguaggio un sostantivo, il defunto non percepisce nulla, proprio perché ogni sostantivo è un’astrazione. Forse non è facile per noi capire il perché: le parole “mare”, “terra”, “mela” ci sembrano ben concrete, perché nella nostra mente sorgono subito rappresentazioni ben chiare di cose realissime. Un po’ meno immediati possono apparire i sostantivi come “veridicità”, o “velleità”, o “pensiero” perché non abbiamo un’immagine rappresentativa: ma anch’essi, comunque, ci sembrano molto ricchi di contenuto. Perché per i Morti non è così?
È perché i sostantivi sono il fondamento del pensare terreno che, considerato dall’altra parte della soglia, è un pensare a cui manca la realtà spirituale. Soprattutto le parole legate al mondo fisico non trovano nel defunto un’eco interiore, perché la cosiddetta materia, per il Morto, non esiste più. Il mondo fisico si accende nelle sue forme, nei colori, nei suoni, nel calore, soltanto per chi è dotato di organi corporei: occhi, orecchie, pelle... In altre parole, il mare e la mela in quanto materialmente visibili non esistono per il defunto. Quando noi pronunciamo i nomi delle cose e ne abbiamo automaticamente l’immediata rappresentazione, è perché ci riferiamo al mondo terreno, materiale e visibile.
Un Angelo e l’uomo dopo la morte hanno l’idea vivente di “mare” – vedremo più avanti che cosa significa –, mentre il mare per noi reale, quello visibile al quale pensiamo quando qualcuno pronuncia la parola “mare” (una distesa d’acqua azzurra, con onde, pesci, coste... vedete? altri sostantivi!) per loro in fondo non esiste.
Quando invece pronunciamo dei verbi, questi risuonano già meglio per il defunto: se noi diciamo “correre”, per esempio, abbiamo la rappresentazione reale dell’affanno – e se corriamo davvero sentiamo l’affanno –, dell’intento che vogliamo raggiungere entrando nel movimento, dello stato di tensione interiore che l’accompagna... Tutto ciò è già più reale per l’anima del defunto.
Prendiamo la parola “veridicità”: mentre io la pronuncio i Morti non provano nulla, anche perché di certo non la odono con le orecchie fisiche. È una parola che, esprimendo un concetto non corrispondente a un oggetto esterno, può rimanere vuota anche per un vivo. Se traduciamo in espressioni verbali, allora il sostantivo “veridicità” diventa, poniamo, “sforzarsi di restare aderenti alla realtà nel proprio parlare, di non mentire”. Compaiono i verbi, e tutto il contesto di significato diventa per i Morti più vivo e dinamico. Allora il cosiddetto morto esclama: ah ah, mi ricordo cos’è il parlare, cos’è il mentire, cos’è lo sforzarsi...
Nel dopo-morte, allora, spariscono per prima cosa i sostantivi, più tardi gli aggettivi, gli avverbi e le varie parti del discorso; l’ultima cosa che sparisce per il Morto sono le interiezioni, le esclamazioni: ahh!! ohh! uhh! ehh! ihh! Quando un essere umano sulla Terra dice: ahh!!, per il morto si accende come una luce perché c’è l’intensità del vissuto in quell’interiezione, la densità del sentimento che per il Morto è una realtà, non un’astrazione.
Per comunicare con i Morti bisogna rivolgersi a loro creando nella nostra fantasia le immagini più vivaci che ricordiamo del loro atteggiarsi fisico nella vita. Per esempio mi rappresento in modo vivissimo come il mio amico morto stava seduto a tavola, con la schiena dritta, le mani appoggiate a destra e a sinistra del piatto, l’indice che picchiettava sulla tovaglia e gli occhi puntati verso la porta della cucina, pronti a salutare l’apparizione del cibo...
Oppure il suo modo tipico di leggere il giornale, la maniera caratteristica in cui reagiva quando io interrompevo la sua lettura. Immaginiamo che cosa vuol dire avere viva nella fantasia una scena come questa: “Hai saputo del nuovo capufficio di Antonio?”, “Ma lasciami leggere in pace ’sto giornale!”. Nel momento in cui io, da vivo, ricreo vivacemente l’espressione del suo volto nella mia fantasia, con intensità e nitidezza, questa rappresentazione è come una luce che si accende nel mondo del Morto e lui mi sente accanto a sé.
Questa indicazione concreta vale anche per comunicare con coloro che sono morti da piccoli: nel caso loro è importantissimo riuscire, per esempio, a rievocare scene di giochi fatti in comune. Ma questo è davvero possibile solo se noi abbiamo giocato con loro con animo bambino, se abbiamo sentito in noi stessi la gioia con cui il mondo infantile si anima nel giocare. Il dialogo con i defunti poggia in altre parole su ciò che noi abbiamo vissuto e condiviso con loro nella vita trascorsa insieme, nei sentimenti vissuti stando con loro.
Ci sono tanti Morti che cercano nel buio i loro cari che hanno lasciato indietro: poiché questi vivono in terra intrisi di materialismo e non portano in sé alcun pensiero che si riferisca al soprasensibile, non può avvenire nessun incontro. I Morti dicono: io ho lasciato sulla Terra genitori, fratelli, amici... ma dove sono? I nostri pensieri aridi e meccanici, i nostri sentimenti egoistici, i nostri progetti intrisi di opportunismo e di avidità utilitaristica – cioè tutto il modo di vivere che tiene conto solo del mondo materiale – sono come una densa tenebra per i Morti, perché per loro il mondo fisico non esiste più.
La cultura indiana da sempre ha affermato che il mondo materiale è maya: maha a-ya vuol dire il grande non-essere, la grande illusione. I Morti sanno che è vero. E se i pensieri dei loro cari sulla Terra sono rivolti soltanto al mondo visibile – mangiare, bere, comprare una casa, assicurarsi la pensione ecc. –, essi vivono come nel buio e sentono una profonda sofferenza. Invece, ogni rappresentazione viva che sia in grado di riprodurre un tipico atteggiamento di chi in terra non c’è più, accende una luce nelle regioni dove l’anima del Morto vive. E si rende possibile la comunicazione.
Quando il defunto riesce a stabilire il contatto con noi attraverso la porta della nostra fantasia, del ricordo inconfondibile di lui, in quel momento egli è presente a noi con la sua coscienza e gli possiamo comunicare tutto quello che vogliamo. Gli possiamo leggere una conferenza di Rudolf Steiner che parla degli Angeli, per esempio, e lui ha la gioiosa possibilità di far suoi tutti i pensieri che leggiamo e che gli rischiarano la strada che sta percorrendo.
Prima però dobbiamo convocarlo attraverso la porta della nostra connessione karmica con lui, che rende presente alla fantasia un frammento di ciò che abbiamo vissuto insieme. Non è necessario che queste scene evocate nella fantasia raccontino qualche fatto rilevante: importa, invece, che rievochino quelle abitudini, quei gesti che ognuno immette nella vita in modo unico e che l’amore di chi gli sta attorno coglie perlopiù col calore della confidenza del cuore, senza portarli a piena coscienza.
La scienza dello spirito che sta ora nascendo nell’umanità è il primo linguaggio davvero comune sia ai vivi che ai Morti. Quando noi, sulla Terra, facciamo risuonare la parola “corpo eterico”, per fare un esempio, il Morto capisce subito di che si tratta, è una realtà che ormai conosce bene: siamo noi che stiamo appena cominciando a sapere di che si tratta. Uno dei caratteri più rivoluzionari di questa scienza dello spirituale inaugurata da Rudolf Steiner è la sua capacità di instaurare un linguaggio tecnico-scientifico a proposito dei fenomeni della vita e dell’evoluzione, della materia e dello spirito, che è comprensibile in ugual misura sia ai vivi sia ai Morti.
I tre giorni dopo la morte
La morte, si è sempre detto, è la sorella maggiore del sonno. Quando ci addormentiamo avviene una separazione tra le nostre quattro dimensioni costitutive: il corpo fisico e le sue forze vitali (corpo eterico) rimangono nel letto, mentre lo spirito vero e proprio e l’anima lasciano il corpo ed entrano nei mondi spirituali.
Finché le forze vitali rimangono connesse col corpo fisico, restiamo in vita; l’elemento specifico della morte è infatti la fuoriuscita dal corpo fisico non solo dell’anima e dello spirito, ma anche delle forze vitali, cioè del corpo eterico. È un processo di separazione, questo, che dura tre giorni circa. Più precisamente, il tempo che il corpo vitale-eterico impiega a distaccarsi definitivamente dal corpo fisico al momento della morte corrisponde al periodo di tempo che la persona morta sarebbe stata capace di restare sveglia, quand’era in vita. C’è chi riesce a star sveglio per tre giorni o più di fila, c’è chi dopo uno solo crolla.
Con una media di tre giorni queste forze vitali si liberano definitivamente dal fisico e proiettano nell’etere – una parola che nell’antichità si usava e che oggi possiamo ripristinare – tutte le scene della vita trascorsa come in una specie di panorama. Questa visione panoramica della vita trascorsa è possibile per il defunto finché le forze vitali mantengono un certo rapporto col cadavere.
In quei primissimi giorni dopo la morte egli ha davanti a sé, in modo vivissimo, tutte le scene della sua vita. È così incantato da queste visioni da non poter ancora notare nient’altro. Le forze vitali sono come delle correnti antigravitazionali che durante la vita il corpo fisico orienta verso la Terra; una volta liberate da esso, tendono per natura a espandersi nell’etere cosmico fino a che, dopo circa tre giorni, le immagini mnemoniche si ingrandiscono al punto da dissolversi, e il defunto non vede più nulla di esse.
Per questo motivo, fino a non molto tempo fa, si aspettavano tre giorni prima di fare il funerale – retaggio di antica saggezza –, in modo che potesse essere presente l’anima stessa del trapassato, cosa che non può far bene prima, perché nei primi tre giorni vive come stordita dalle immagini della vita trascorsa.
Dopo i tre giorni, l’uomo entra nel mondo dell’anima, nel kamaloca (o purgatorio), di cui abbiamo già parlato. Una cosa importante da sapere è che egli dapprima può instaurare un rapporto soltanto con gli esseri umani con cui ha avuto a che fare in vita, siano essi ancora vivi o siano già morti. Il defunto lavora a pareggiare il suo karma personale, e perciò in un primo momento tutto il resto dell’umanità per lui è come se non esistesse.
Lo stadio successivo al kamaloca, quando l’anima si è purificata e l’Io entra nei mondi dello spirito, consiste proprio nell’allargare lo sguardo a una cerchia sempre più vasta di esseri umani, anche a quelli non legati al proprio karma. Il mondo dello spirito vero e proprio ci aiuta a vivere la comunanza universale. Lì il defunto può entrare in comunione un po’ alla volta con tutti gli esseri umani e, per quello che riguarda noi cosiddetti vivi, non è più indispensabile avere rappresentazioni karmico-animiche di un vissuto comune per comunicare con lui.
Tre modi di concepire l’evoluzione
C’è una massima invalsa particolarmente ai tempi della scolastica medievale, e che dice: bonum est diffusivum sui, il bene è per natura sua diffusivo di sé. Il bene, ciò che è buono, tende per natura a comunicarsi. Un bene tirchio non esiste. Se il bene sommo è il creare divino, allora la Divinità non solo crea delle creature, ma le crea con l’intento di renderle a loro volta creatrici. Un creatore che negasse alle sue creature la capacità di creare a loro volta, non sarebbe diffusivum sui. La Divinità, se è piena di bontà, vuol conferire alle creature il meglio di sé, cioè la capacità di creare.
Noi siamo inseriti in questo movimento dell’amore che tende per natura a diffondersi, siamo immersi in un dinamismo del divenire che ci permette di trapassare sempre più realmente dall’essere creature all’essere anche noi creatori.
È questo un altro carattere fondamentale della svolta di ogni evoluzione: noi la viviamo ogni volta che dall’essere passivi e ricettivi, dal sentirci pure e semplici creature create da Dio, ci trasformiamo interiormente e diventiamo a nostra volta creatori, per lo meno in qualche ambito della vita. Ogni volta che creiamo qualcosa di nuovo diventiamo, se pur in minima misura, dei co-creatori nelle vicende del mondo.
In una prospettiva d’incessante evoluzione l’universo va compreso non come un casuale aggregarsi di materia, spuntata fuori da non si sa dove, ma come la manifestazione di una sapiente attività creatrice svolta da Esseri divini.
Il rigido monoteismo afferma: esiste un solo creatore, Dio, e tutti gli altri esseri sono pure creature. A nessun altro essere viene data la possibilità di assurgere al livello di co-creatore, di avvicinarsi gradualmente alla Divinità.
Il vero senso della Trinità divina è invece proprio la partecipazione di sé, l’attualizzazione del bonum est diffusivum sui. È come in un organismo in cui i singoli membri siano a loro volta singoli Esseri spirituali capaci di creare a vari livelli.
Gli Angeli “caduti”, ovvero ritardatari
Nella tradizione cristiana si parla di una “caduta” non solo dell’uomo, ma anche degli angeli. Questa caduta non è come un piombare di botto dal tetto al pianterreno, ma si riferisce a un processo evolutivo molto lento e graduale. Per l’evoluzione dell’uomo è necessario che, a tutti i livelli delle gerarchie, ci siano degli Esseri che restino indietro, che siano dei “ritardatari” rispetto alle loro reali possibilità evolutive.
Abbiamo visto in Dante che l’elemento della libertà, pur diverso dal tipo di libertà specificamente umana, è presente in tutti gli Esseri spirituali non meno che nella Trinità divina – perché uno spirito senza libertà sarebbe un controsenso: dove c’è spirito c’è libertà. La libertà però è di natura diversa in quanto specificamente umana, ancora diversa in quanto libertà degli Angeli, diversa ulteriormente in quanto libertà degli Arcangeli e via salendo. La libertà consente in altre parole vari gradi di profondità, se così si può dire, ma c’è dappertutto dove c’è lo spirito.
Se la libertà, pur essendo presente in tutte le gerarchie angeliche, è meno perfetta che nella Trinità divina, deve avere anche la possibilità di omettere qualche bene che le sarebbe possibile conseguire: solo una libertà del tutto perfetta non omette nessun bene possibile. Quando una Potestà, o una Dominazione o un Arcangelo..., invece di fare tutti i passi evolutivi che la Trinità gli rende possibili ne omette anche solo qualcuno, diventa “ritardatario”.
Se è vero che gli Esseri spirituali che sono adesso Angeli lo sono gradualmente divenuti nel corso di una lunga evoluzione, ci devono essere oggi due specie fondamentali di Angeli: quelli che nell’evoluzione trascorsa hanno completato il cammino per diventare Angeli, e quelli che sono rimasti un po’ indietro – cioè non sono divenuti Angeli a tutti gli effetti e sono come rimasti per strada. Anche noi, nell’evoluzione umana, abbiamo la possibilità di acquisire nel corso del tempo tutto l’umano che ci è reso possibile, ma possiamo anche omettere tante cose e restare indietro anche noi.
Da un lato ci sono allora Angeli “completi” e dall’altro ci sono i cosiddetti “Diavoli”, cioè Esseri spirituali che nella fase evolutiva precedente erano per strada per diventare Angeli, ma hanno omesso delle dimensioni dell’angelico. Se dunque sono diventati Angeli solo a metà, o per un quarto o per un terzo, che cosa stanno facendo, adesso? Devono far di tutto per recuperare il tempo perduto, e lo fanno servendosi dell’aiuto degli uomini, che sono a loro volta in via di diventare Angeli.
Il criterio che distingue gli Angeli “buoni” dagli Angeli “cattivi”, o “caduti” è allora che quelli buoni, non avendo nulla da recuperare per se stessi, possono dedicarsi al cammino degli esseri umani. Invece gli Angeli ritardatari sono presi dall’assillo del loro recupero, sono preoccupati più del proprio divenire che del nostro. Gli Angeli normalmente evoluti sanno porsi al nostro servizio, mentre ai Diavoli, poveretti, tocca servirsi di noi per la loro evoluzione.
L’immagine del Vangelo che raffigura il Cristo inginocchiato davanti agli apostoli a lavare loro i piedi, mostra come l’amore agisce nell’universo: l’Essere più evoluto si pone al servizio del meno evoluto. E lo stesso Cristo caccia i Diavoli che “possiedono” gli uomini usandoli per i loro intenti.
Se i cosiddetti Diavoli non hanno ancora in sé quell’amore cristico che si dona agli altri e si servono di noi per recuperare, che cosa vogliamo farci? Vogliamo impedirglielo? Anche noi sappiamo che cosa vuol dire dover recuperare: quando perdiamo dei colpi, spesso ne diamo a nostra volta a destra e a manca per riassestarci. E non ci serviamo, forse, giorno dopo giorno, degli animali, delle piante, dei minerali per la nostra evoluzione? E il bambino piccolo non si serve dell’amore gratuito della madre per la propria crescita? Non facciamo troppo presto a mettere le targhette morali del buono e del cattivo?
In un mondo tutto in evoluzione, bisogna provvedere al cammino di tutti gli esseri, non soltanto di quelli che vanno avanti spediti: sono importanti anche quelli che zoppicano o che inciampano. Quando capita a me di zoppicare, sono ben contento che non mi si dia un’ulteriore botta per il fatto che gli altri sono andati più avanti e io sto qui ad arrancare, e do pure fastidio. In fondo, chi zoppica ha tutto il diritto di chiedersi: ma perché non mi sono state date le gambe giuste per camminare come si deve? Chi è responsabile del mio zoppicare? È proprio vero che dipende tutto e solo da me? Questo tipo di magnanimità che usiamo verso noi stessi, possiamo imparare a usarla anche verso gli altri.
Gli esseri umani, nella misura in cui veramente non perdono colpi, possono acquisire una magnanimità tale da cominciare ad aiutare perfino quegli Angeli che sono rimasti indietro. Potremmo chiederci come ciò sia possibile, visto che l’uomo, nella scala evolutiva, ha comunque un livello di coscienza non sempre superiore a quello di qualunque Diavolo.
È un vero mistero, questo: il ritardo di un essere (il Diavolo) può diventare per un altro (l’uomo) un sacrificio, un’offerta di sé, un ostacolo che è occasione di crescita. Gli esseri ritardatari, infatti, nelle gerarchie che ci precedono nell’evoluzione, immettono nel nostro cosmo un elemento importantissimo e necessario: la controforza. Per quanto riguarda loro stessi sono ritardatari; per quanto riguarda noi, invece, ci offrono un elemento evolutivo indispensabile: la forza dell’ostacolo, senza il quale non sarebbe possibile l’esercizio della libertà.
Senza controforza, nessuna forza è in grado di irrobustirsi ulteriormente. Il ritardo diventa, nella saggezza d’un universo pieno di amore, un sacrificio cosmico. E il male nostro, per quanto ci riguarda, non sta nel fatto che questi ostacoli ci vengano incontro, ma sta nel lasciarci vincere da essi, invece di vincerli noi stessi. Soccombere all’ostacolo, far prevalere la controforza, è sempre evitabile: sempre possiamo vincere la gravità della materia e sperimentare la levità dello spirito.
Se la solerzia nasce solo vincendo l’inerzia, è evidente che l’elemento di pesantezza deve esserci, se vogliamo poterlo vincere. Nel momento in cui operiamo in libertà e non permettiamo al Diavolo di soggiogarci, gli offriamo concretamente l’occasione di non servirsi più di noi, e questo è anche per lui un aiuto per il recupero dei passi perduti.
Quanti tipi di Esseri popolano l’universo?
Per orientarci fra le miriadi di Esseri che vivono nel mondo, pur nell’estrema complessità, possiamo suddividerli in quattro categorie fondamentali:
1. Esseri che hanno spirito e anima: sono tutti gli esseri divini, tutte le Gerarchie Angeliche, che non hanno un corpo fisico.
2. Esseri costituiti di puro spirito. L’anima è la chiamata allo spirito, il desiderio dello spirito; lo spirito è atto puro, non conosce la potenzialità del divenire, che è sempre volta a colmare specifiche carenze. Allo spirito puro non manca nulla, è attualità pura. Dove c’è l’anima, invece, – e tutti gli esseri angelici hanno un’anima – vige l’anelito al perfezionamento, in quanto l’anima aspira allo spirito, non basta a se stessa.
3. Esseri costituiti di corpo, anima e spirito. Siamo noi uomini, e così fatti siamo soltanto noi, in tutto il cosmo! Esiste nell’universo un solo tipo di spirito, che opera direttamente nella corporeità fisica: quello umano.
4. Esseri che hanno corpo (fisico) e anima. A questa quarta categoria non appartengono gli esseri umani – come comunemente si pensa, avendo dimenticato la dimensione spirituale dell’uomo –, ma gli esseri che reggono le sorti della natura. Essi non hanno uno spirito individualizzato e quindi devono essere governati da fuori, dagli spiriti delle Gerarchie Angeliche. Non hanno pensieri propri, non hanno scopi propri: sono gli esseri che lavorano alle piante, agli animali.
Gnomi, ondine, silfidi e salamandre:
“i distaccamenti” della terza gerarchia
In tutto il mondo della natura, nei suoi quattro elementi-base – terra, acqua, aria, fuoco – sono all’opera quattro schiere di esseri, che la scienza dello spirito chiama esseri elementari o degli elementi. Sono miriadi di gnomi, di ondine, di silfidi e di salamandre e si occupano dei trapassi da un elemento all’altro: dal solido al liquido all’aereo al calorico.
Gli gnomi vivono e operano nei minerali, nei metalli; le ondine nell’elemento dell’acqua; le silfidi nell’aria; le salamandre nel fuoco, nel calore. Questa quaterna di esseri della natura sono “distaccamenti” della terza gerarchia – Principati, Arcangeli, Angeli – che li governa e dirige dal mondo dello spirito. Non hanno una vita autonoma e nemmeno un’evoluzione individuale.
Non sono delle “creature” vere e proprie, non sono esseri destinati ad accogliere un Io individuale, lo spirito. Vivono come incantati nel mondo della natura, ne sono come prigionieri, e per questo ardono dal desiderio di ritornare a far parte della realtà degli Angeli, degli Arcangeli e dei Principati dai quali si sono come “distaccati”. La terza gerarchia, infatti – lo vedremo più avanti – non ha ancora una vera e propria capacità di creare esseri a loro volta indipendenti, come invece fanno la seconda e la prima gerarchia.
Gnomi, ondine, silfidi e salamandre sono al lavoro là dove, per esempio, c’è da trasformare il seme in una pianta. Nella terra-madre, ricca di umori stillati dall’alto, gli gnomi lavorano al seme dove è compresso l’elemento paterno del fuoco. Gli gnomi (vere e proprie levatrici delle piante!) cominciano a trasfondere gli elementi minerali all’intorno perché possa rivestirsi di forma ciò che è concentrato nel seme. Spunta così la radice.
Subentrano poi le ondine che lavorano nell’elemento acqueo e la piantina comincia a crescere; intanto le silfidi apportano le forze dell’aria e della luce sviluppando la forma della pianta, mentre sullo stelo spuntano le foglie fino a formare il calice e il fiore. All’interno del fiore, nel nuovo seme, deve potersi raccogliere ancora una volta la forza maschile-paterna del calore: ecco allora le salamandre che, al momento opportuno, traggono d’ogni dove il calore e lo comprimono nel nuovo seme. Questo, reimmesso nella terra, farà ricominciare il processo di riproduzione della pianta.
Il materialismo degli ultimi secoli ha perso di vista tutti questi esseri della natura e li ha relegati, spesso con scherno, nel mondo delle fiabe. E non a caso la scienza dello spirito vede nelle fiabe autentiche un prezioso patrimonio di conoscenza spirituale.
Impronte nella natura della seconda
e della prima gerarchia
Gli Esseri della seconda gerarchia – le Dominazioni, le Virtù e le Potestà – hanno anch’essi dei “discendenti” nei regni della natura: sono le cosiddette “anime di gruppo” degli animali e delle piante. Qui si verifica una vera e propria attività creatrice da parte delle Gerarchie Angeliche. La terza gerarchia non crea ma “distacca” da sé degli esseri elementari che restano in tutto e per tutto dipendenti da loro. Le anime di gruppo delle piante e degli animali, invece, sono degli esseri con un alto grado di autonomia, sono le idee archetipiche, cioè le “specie” animali e vegetali che, nel nostro mondo fisico, “si condensano” poi nelle varie forme visibili delle specie.
Gli Esseri della terza gerarchia – Angeli, Arcangeli, Principati – non sono capaci di concepire, con le forze della loro fantasia morale, l’evoluzione globale possibile di un’intera specie animale o vegetale. L’architettare, il condurre e il portare a fine questo tipo di evoluzione è faccenda specifica degli Spiriti della Forma (Potestà) – perché ogni specie deve avere la sua forma –; degli Spiriti del Movimento (Virtù) – perché le specie devono subire continue trasformazioni –; e degli Spiriti della Saggezza (Dominazioni) – perché occorre l’intuito morale capace di creare dal nulla il leone o la rosa in un mondo dove prima non c’era né il leone né la rosa. È una cosa meravigliosa meditare su questa armonia universale delle Gerarchie che lavorano agli esseri della natura!
Troni, Cherubini e Serafini, infine, hanno un compito ancora più sublime, che svolgono tramite i loro discendenti nel mondo della natura che sono gli spiriti che reggono i periodi ciclici, cioè i ritmi della natura e le rivoluzioni dei pianeti. Quando gli antichi dicevano che ogni ora del giorno e della notte è retta da uno spirito particolare, dalle diverse “Ore”, avevano ancora la percezione che il passare del tempo non è questione di automatismo, ma è la manifestazione dell’operare di Esseri spirituali tutti diversi gli uni dagli altri. In ogni ora che passa è all’opera un Essere spirituale che conduce gli impulsi opportuni e previsti; nell’ora successiva lascia il posto a un altro Essere, perché le cose da fare in essa sono diverse, i giochi di luce e di ombra del sole, per esempio, saranno del tutto diversi che non nell’ora precedente.
Quando il giorno è finito e deve venire la notte, chi comanda agli Esseri che fanno il giorno di ritirarsi per far posto a quelli che fanno la notte? Sono i Troni, i Serafini e i Cherubini. Ogni ritmo, ogni ciclo della natura, è governato dalla più alta delle Gerarchie Angeliche: anche la nascita e la morte dell’uomo. Ciò vale anche per l’alternarsi delle stagioni: gli Esseri della primavera lasciano il posto a quelli dell’estate, ai quali subentrano poi gli Esseri dell’autunno e dell’inverno, e tutti lo fanno ubbidendo alle ispirazioni che provengono dai Troni, dai Cherubini e dai Serafini.
La conduzione delle alternanze e dei ritmi della natura si rifà alla sapienza angelica più alta, perché ogni ciclo naturale della Terra non è isolato nell’universo ma è in perfetta armonia con le orbite di altri pianeti.
La prima gerarchia è in grado di armonizzare gli esseri di un intero pianeta nel suo rapporto con gli altri pianeti del sistema al quale appartiene. In questo senso arriviamo, da un’altra via, al mistero dell’universo quale organismo unitario, dove si tratta di armonizzare fra di loro interi sistemi planetari, con le loro stelle fisse di riferimento. Tutto ciò che nel firmamento appare ai nostri occhi come fatto di materia – ammassi di minerali e di gas, come crede la scienza – è in realtà l’espressione a noi visibile di Esseri spirituali. L’antica sapienza vedeva negli astri i corpi degli dei.
Aristotele, colui che ha inaugurato il pensare logico-astratto, ha tradotto così questo gran lavorare cosmico degli Esseri spirituali: ha chiamato causa materiale tutto quello che fanno gli esseri degli elementi (terra, acqua, aria, fuoco) retti dalla terza gerarchia; quel che avviene nelle anime di gruppo, nelle specie delle piante e degli animali – che Platone chiamava idee –, e che fa capo agli Esseri della seconda gerarchia, l’ha chiamato causa formale; poi ha chiamato causa finale il dinamismo e la meta di tutta l’evoluzione, che si manifesta nei vari ritmi, nei cicli e nelle alternanze retti dalla prima gerarchia; infine ha chiamato causa efficiente, cioè causa originaria vera e propria di tutto il divenire, gli Esseri spirituali in quanto tali, nella loro capacità di pensare, di volere e di agire.
Aristotele traduce così in concetti astratti ciò che in Platone, e ancora prima di lui, era riferito agli Esseri spirituali gerarchici, agli artisti divini creanti (causa efficiente) che si avvalgono della causa materiale (terra acqua aria fuoco), della causa formale (le idee delle anime di gruppo dei minerali, delle piante e degli animali) e degli spiriti delle alternanze, dei ritmi e delle rivoluzioni orbitali per conseguire le mete evolutive che si propongono, e che sono la causa finale dell’evoluzione.
Come gli Angeli parlano fra di loro
C’è un testo di meditazione che Rudolf Steiner ha composto verso la fine della sua vita, uno dei più belli che io conosca. Lo chiamo “dialogo d’Angeli” e ne propongo una mia traduzione dal tedesco.
DIALOGO D’ANGELI
ANGELI: Gli esseri umani pensano!
Ci occorre la luce delle altezze
Per poter rilucere nel pensare.
VIRTÙ: Ricevete la luce delle altezze
Affinché possiate rilucere nel pensare
Quando esseri umani pensano.
ARCANGELI: Gli esseri umani vivono!
Ci occorre il calore dell’anima
Per poter vivere nel sentimento.
DOMINAZIONI
E POTESTÀ: Ricevete il calore dell’anima
Affinché possiate vivere nel sentimento
Quando esseri umani vivono.
PRINCIPATI: Gli esseri umani vogliono!
Ci occorre la forza delle profondità
Per poter operare nel volere.
DOMINAZIONI,
VIRTÙ
E POTESTÀ: Ricevete la forza delle profondità
Affinché possiate operare nel volere
Quando esseri umani vogliono.
Con questo testo ci è dato di gettare uno sguardo sulla vita interiore di due gerarchie, quella degli Angeli, Arcangeli e Principati e quella che sta immediatamente sopra di loro – Potestà, Virtù, Dominazioni –, e dalla quale ricevono le ispirazioni necessarie alla conduzione delle vite degli esseri umani.
Chiunque le mediti con un atteggiamento di venerazione scoprirà in queste parole tesori sempre nuovi. Le cose che vengono dette in questo testo sono intese come oggettivamente vere in senso scientifico-spirituale. Gli Angeli lavorano nell’elemento del pensiero umano, gli Arcangeli lavorano nel cuore, dove vivono i sentimenti, le brame, i desideri, le speranze, le sofferenze, le gioie…, e i Principati lavorano nell’elemento della volontà degli uomini, degli impulsi che conducono all’agire.
Una differenza fondamentale, quindi, fra un Angelo e un Arcangelo è che l’Angelo è in grado di reggere le sorti evolutive del nostro pensare, perché “è più facile” che non condurre l’evoluzione dei sentimenti umani. Nella sfera del pensiero, infatti, noi siamo molto più autonomi e individualizzati che non nel sentimento. Per il pensare c’è bisogno delle luce e questa l’Angelo invoca a sua volta presso le Virtù, affinché ne sia sempre lui stesso illuminato e ricolmo, così da poter ispirare l’uomo.
Il sentimento è quella dimensione di comunanza e di reciproco influenzamento fra le persone che la nostra coscienza può capire solo fino a un certo punto. Nel pensiero non possiamo influenzarci a vicenda, e se questo accade, vuol dire che qualcuno accoglie i pensieri di un altro con le forze del sentimento. L’atto del pensare che ci fa pervenire alla comprensione di qualunque cosa, ognuno deve farlo per sé. Se io permetto a un altro di pensare al mio posto, vuol dire che dipendo da lui nella sfera del sentimento e non m’importa tanto di capire di testa mia le cose, quanto di essere in accordo con quella persona. Il pensiero è un fattore eminentemente individuale e autonomo, il sentimento è un reciproco influenzamento che resta semiconscio.
Il mondo dei sentimenti umani è troppo complesso per l’Angelo e allora subentra l’Arcangelo, che è l’Essere angelico in grado di reggere gli influssi reciproci fra le persone di intere comunità. L’influenzarsi reciprocamente in una comunità avviene a livello inconscio o semiconscio, più al livello del sentimento che del pensiero. L’Arcangelo è all’opera dove non si tratta solo del singolo, ma del karma comune che lega fra loro vari uomini. Il destino che ci porta a incontrare determinate persone noi non siamo ancora in grado di comprenderlo interamente – altrimenti saremmo Arcangeli. Gli Arcangeli sanno però anche che le ispirazioni originarie che occorrono per lavorare nel sentimento che accomuna gli uomini, sono quelle che provengono dalle Potestà e dalle Dominazioni, e perciò si rivolgono a loro.
Meditando su un testo come questo, ci si rende conto di svolgere un cammino eminentemente individuale quando si fanno dei passi in avanti nel pensiero, e chi può aiutarci in questo è l’Angelo.
Quando invece si tratta del vissuto del cuore, quando abbiamo a che fare con i misteri comunitari delle simpatie e delle antipatie che intessono un mondo di influssi reciproci fra gli esseri, non basta più l’Angelo, bisogna rivolgersi all’Arcangelo.
Se poi consideriamo gli impulsi della nostra volontà, ci accorgiamo che sono del tutto inconsci. Di ogni azione che compiamo noi conosciamo soltanto, grazie al pensiero, lo scopo che vogliamo raggiungere. Se io penso: voglio prendere in mano questo orologio, ho in me solo la rappresentazione di prendere l’orologio; poi prendo l’orologio e ho la rappresentazione dell’orologio che ora sta nella mia mano. Però la forza dinamica reale, l’impulso della volontà che muove i miei muscoli, io non sono in grado di recepirla nella mia coscienza. Nell’elemento di operatività degli arti si esprimono i Principati, in greco Archài: archè, al singolare, significa “l’inizio”, il nuovo inizio. La volontà pone sempre nuovi inizi, porta all’essere qualcosa che prima non c’era, anche nei più piccoli gesti, nelle minime azioni.
I pensieri pensano cose già da sempre pensate: i pensieri umani non possono a tutta prima che ripensare, in forma astratta, i pensieri viventi della Divinità. Invece nella volontà noi siamo in grado, anche se per ora solo a livello inconscio, di porre nuovi inizi: in ciò consiste il principiare dei “Principati”. La volontà crea sempre qualcosa di nuovo, anche quando si esprime nel più semplice movimento.
I Principati hanno, a loro volta, una venerazione così profonda di fronte ai misteri del volere umano nel quale sono chiamati a lavorare con le loro ispirazioni, che si inginocchiano spiritualmente di fronte alle Potestà, alle Virtù e alle Dominazioni – tutte e tre insieme! – dicendo loro: Gli esseri umani vogliono! Ci occorre la forza delle profondità per poter operare nel volere.
E che cos’è la forza delle profondità? È l’insieme delle forze della natura: il volere umano è reso possibile dal corpo che traduce gli intenti della volontà in azioni avvalendosi delle forze della Terra, della gravità o dell’antigravità. Per fare anche solo un passo noi interagiamo con le forze della natura: solleviamo il piede (forza antigravitazionale), poggiamo il piede (forza gravitazionale).
La volontà umana si esprime nell’interazione con le forze della natura, invece il pensiero si rivolge alla luce delle altezze, dove rifulgono i pensieri divini. Il pensiero ci fa ascendere alle altezze, la volontà ci fa immergere nelle profondità della Terra, cioè nelle forze di natura, per trasformare il mondo. Il sentimento, che fa la spola fra il pensiero e la volontà, si rivolge al sistema solare, ai pianeti che ci girano attorno con i ritmi che ben conosciamo e che ci danno gioia. Il sentimento stesso è un ritmo che va e rivà dalla simpatia all’antipatia, dalla gioia al dolore; vive nel pulsare del cuore, nell’aria che entra e poi riesce dai nostri polmoni.
Quinto capitolo
ANGELO DEL SINGOLO,
ARCANGELO DELLA COMUNITÀ
SPIRITO DI UN’EPOCA: IL NOSTRO RAPPORTO CON LORO DA VIVI
E DA MORTI
L’Angelo, guida sul cammino individuale
Negli Stati Uniti, a Denver, due studenti liceali fra i 17 e i 18 anni un bel giorno sono andati a scuola armati e hanno cominciato a sparare e a lanciare ordigni uccidendo dodici compagni e un insegnante. Poi si sono uccisi. Di fronte a una tragedia come questa c’è stato sgomento in tutta la nazione e nel mondo, accompagnato dalla bruciante domanda: come si può spiegare un fatto di tale portata?
La rivista Time titolava: “I mostri dell’appartamento accanto”. A me è parsa terribile la definizione “mostri”, perché sembra voler dire che si tratta di un caso di assoluta eccezione, mostruoso appunto, e che noialtri, che per fortuna siamo uomini normali e non dei mostri, siamo a posto. Così si cerca di mettere in pace la coscienza senza riflettere sul fatto fondamentale che questi due giovani sono un prodotto della nostra società, e se rappresentano una cellula degenerata del nostro organismo sociale, allora questa malattia coinvolge tutto il sistema.
Dal diario di quei ragazzi è emerso che per un anno intero hanno pianificato la loro tragica impresa: non è stato un colpo di testa improvviso. E avevano stabilito che l’azione dovesse svolgersi il 30 aprile, anniversario della morte di Hitler, e quindi c’era anche un retroscena ideologico.
Due domande mi paiono fondamentali: in tutti i mesi durante i quali questi ragazzi hanno progettato l’orrore, come mai nessuno si è accorto di quello che stava avvenendo? Non si evidenzia qui la misura della solitudine in cui oggi vive l’uomo, soprattutto in una società tecnologicamente avanzata? Questi due ragazzi passavano innumerevoli ore davanti al computer e ai videogiochi: colloquiando con l’intelligenza artificiale gestita da un potere reale ma impersonale, avevano imparato a costruire le bombe che poi hanno usato.
La seconda domanda si chiede: dov’erano e che cosa facevano gli Angeli custodi di questi due ragazzi e di tutti coloro che sono morti nell’eccidio? Sicuramente erano presenti e non c’è dubbio che abbiano fatto di tutto per comunicare le ispirazioni giuste e per evitare il disastro, senza però riuscirci. Una tragedia come questa deve allora avere un lungo e non meno tragico passato.
In un’umanità consapevole della presenza sapiente e amorevole degli Angeli – e la si può costruire, questa umanità! –, eventi così tragici si potrebbero evitare; ma se continuiamo a ignorare gli Angeli, questi episodi non potranno che moltiplicarsi. L’esistenza degli Angeli e l’urgenza di comunicare con loro è una questione di vita o di morte per tutti.
Andiamo tutti incontro a una vita sociale sempre più minacciosa, sempre più piena di sofferenza, se perdiamo di vista il senso vero dell’esistenza, quello che gli Angeli ci vorrebbero comunicare. E come c’è un profondo desiderio di rinnovamento nell’umanità, così c’è anche una resistenza altrettanto tenace, perché il cambiamento necessario richiede l’impegno costante della libertà individuale di ciascuno.
Degno dell’uomo è lo sforzo di lavorare alla propria crescita interiore e di aiutare ciascuno a diventare sempre più autonomo. Il pensiero è l’elemento di autonomia per eccellenza ed è al pensare che è bene per tutti fare riferimento, alla capacità di giudicare le cose con la propria testa. Soprattutto quando si parla di Angeli e di Morti, che non sono tangibili come le nostre macchine, ma sono reali come i pensieri che ci ispirano, quelli capaci di creare le macchine.
Ci siamo detti che ogni uomo è un Angelo in potenza e che questo lo caratterizza nel suo nucleo più profondo ed essenziale. Siamo nel mezzo dell’evoluzione verso il gradino di coscienza “angelico” e sentiamo il desiderio di poter contemplare l’ala dell’Angelo che non cammina pesante sulla Terra ma vola da un mondo all’altro. Proprio come i pensieri, che ci avvicinano all’Angelo perché anche noi, pensando, siamo capaci di volare.
Il fenomeno dei medium
A proposito dell’autonomia che ci dà il pensiero, voglio accennare al fenomeno di un medium ora famoso negli Stati Uniti, James van Praagh, che ha scritto recentemente un libro Toccare il cielo col dito (Reaching to Heaven), e che compare spesso nei programmi televisivi americani. Nel suo libro racconta, tra le altre cose, che una volta, in una piccola compagnia di persone che assistevano a una delle sue sedute medianiche, c’era anche uno scettico che non credeva alla possibilità di comunicare con i Morti. Verso la fine dell’incontro van Praagh si rivolse a lui e cominciò a raccontargli di un suo amico – amico non di van Praagh, ma del suo interlocutore! – morto tragicamente da piccolo, accennando a dei particolari così precisi e significativi (dalla marca della bicicletta al loro gergo infantile) che era impossibile li avesse saputi da qualcun altro.
Van Praagh rievocò la scena in cui, per sbaglio, quello spettatore scettico aveva ucciso, a dieci anni, il suo amichetto mentre armeggiava col fucile del padre. Di questa tragica morte non s’era mai più dato pace mentre l’amico morto, tramite il medium, adesso voleva comunicargli – così gli diceva van Praagh – di stare tranquillo, che tutto era perdonato e di smetterla con l’inutile rimorso per una disgrazia successa senza volerlo. Alla fine quel signore crollò e dovette riconoscere di essere davvero di fronte a un uomo del tutto singolare, perché in grado di dialogare con un morto.
C’è da chiedersi se nel fenomeno medianico avvenga un vero e proprio dialogare con i Morti. Visto che un essere umano trapassato è una realtà molto complessa, se vogliamo rimanere nella concretezza delle cose dobbiamo chiederci: il medium parla con l’Io vero del Morto, con la sua parte costitutiva spirituale, oppure con tutt’altre componenti del suo essere? L’Io superiore del Morto può mai voler entrare in dialogo indiretto con l’io ordinario del suo amico, rendendolo dipendente da un medium e compromettendo così, di seduta in seduta, la sua capacità di evolversi in piena libertà?
Non può essere l’Io vero del Morto a rendere dipendente anziché libero chi è in Terra: per quanto affascinante possa essere il caso citato, esso comporta un elemento morale estremamente ambiguo. Se io non sono capace di entrare in rapporto reale con i Morti e ho bisogno di un intermediario, del medium, non mi rimane altro che la fede nell’intermediario stesso, ed io vengo gestito dal di fuori. Non importa se colui a cui “credo” sia un profeta, un santo, un illuminato nel deserto o un medium.
Con le sedute medianiche i vivi non fanno che disturbare le anime dei Morti nel loro processo di purificazione, non li aiutano affatto a distaccarsi dal mondo terreno. I Morti vengono al contrario costretti a immettere nell’atmosfera della Terra correnti animiche che ostacolano l’evoluzione del pensiero autonomo in chi è incarnato.
Un bambino piccolo è un medium, nel senso tecnico della parola, finché non acquista l’autonomia del suo Io. Il fenomeno medianico risale all’infanzia dell’umanità, quando l’uomo era uno strumento di cui si avvalevano altri Esseri, un canale sempre aperto verso i mondi dell’anima e dello spirito. Cinque o seimila anni fa eravamo tutti dei bravissimi medium! Ora siamo chiamati a sviluppare le forze del pensiero individuale e autonomo.
L’Arcangelo, guida delle comunità umane
Dovunque ci sia una comunità di uomini – un popolo, una famiglia, un gruppo di amici, un’istituzione con scopi comuni, un’associazione, un’azienda – è all’opera un Arcangelo: in tutto ciò che gli uomini vivono a livello semiconscio nei loro rapporti reciproci.
Accade molte volte che delle persone si mettano a lavorare o a vivere insieme, senza però creare una realtà spirituale comune. Ognuno rimane al suo livello singolo, e dunque gli Esseri spirituali di riferimento rimangono gli Angeli dei singoli individui. Quando le cose stanno così, prima o poi la comunità si scioglie per il semplice fatto che non c’era mai stata più di tanto.
Gli Arcangeli offrono le ispirazioni che ci consentono di esser d’aiuto e di sostegno gli uni per gli altri; gli Angeli inviano invece messaggi del tutto individuali. Gli Arcangeli sanno armonizzare fra loro tanti cammini individuali, sanno creare un organismo di cui i singoli sono i membri.
Un compito importante degli Arcangeli è la creazione dei vari linguaggi che fanno di tanti individui un popolo con una cultura che porta l’impronta della sua lingua. Gli italiani, per esempio, hanno in Dante un ricettacolo esemplare delle ispirazioni dell’Arcangelo che ha creato la lingua italiana.
L’Arcangelo è all’opera negli influssi reciproci che gli uomini hanno gli uni sugli altri quando instaurano i rapporti più svariati. L’Arcangelo di una famiglia svolge un compito più modesto rispetto all’Arcangelo di un popolo, che è come il principe di tanti Arcangeli minori.
Se l’Angelo regge l’evoluzione di ogni singolo essere umano, la controforza necessaria per conquistare liberamente la comunione con l’Angelo è l’egoismo del singolo. Tutte le ispirazioni dell’Angelo custode sono allora ispirazioni morali che riguardano i tanti modi di superare l’egoismo individuale.
Come l’egoismo del singolo è bello in quanto amore di sé ma è negativo se manca l’amore per gli altri, così l’egoismo di gruppo – per esempio il nazionalismo – va benissimo per quanto riguarda la solidarietà che ci fa apprezzare le qualità e le doti all’interno del proprio popolo, mentre l’elemento che dapprima manca, perché va conquistato da ognuno in libertà, è la capacità di apprezzare le doti degli altri popoli. L’egoismo di gruppo fa parte della nostra natura. Va bene l’amore spontaneo per quelle specifiche qualità dell’umano che si esprimono in modo esemplare nella cultura del proprio popolo: nessuno di noi può vivere senza questi elementi di comunanza. Ma l’umanità non potrebbe esistere se non ci fossero anche le sfaccettature dell’umano quali s’incarnano in tutti gli altri popoli.
Anche qui vale il detto: ama gli altri popoli come ami il tuo. È questa la massima fondamentale dell’Arcangelo che ispira il rapporto fra gruppi di persone, così come la massima dell’Angelo che ispira il rapporto tra individui dice: ama il prossimo tuo come te stesso. Gli Arcangeli dei popoli italiano, tedesco, afgano, americano, iracheno, indiano... fra di loro si amano, mica si osteggiano a vicenda!
Gli Arcangeli ci ispirano la gratitudine per quello che siamo in quanto popolo, in quanto parte dell’organismo dell’umanità, e ci danno l’apertura alla conoscenza e all’apprezzamento delle qualità degli altri popoli. Come l’egoismo del singolo ci è dato per natura mentre l’amore per l’altro va conquistato, così l’egoismo di gruppo ce lo ritroviamo per natura e l’amore per gli altri popoli va conquistato liberamente. Lo spirito nazionalistico è nocivo nell’organismo dell’umanità perché si arrocca sull’egoismo di gruppo, e non vuol riconoscere quelle qualità dell’umano che in modo esemplare vivono negli altri popoli.
I Principati, reggenti dell’alternarsi delle civiltà
Il Principato, l’Archè, è lo Spirito del Tempo, lo spirito comune a tutti i popoli di una data epoca storica. I diversi Arcangeli di popolo di una data epoca vengono ispirati da un unico Spirito del Tempo. Egli non fa preferenze di popolo: è lo Spirito comune a tutti i popoli che vivono sulla Terra in un dato tempo.
Il Principato del nostro tempo è diverso da quello del medioevo, per esempio, che si è ritirato al momento opportuno per far posto al Principato che avrebbe dato “principio” all’era moderna, al tempo nostro. Il Principato del medioevo con le macchine e i computer non ci si raccapezzerebbe proprio! Invece lo Spirito del nostro tempo sì: è proprio lui che ci invia le ispirazioni per le tante invenzioni tecnologiche che realizziamo. Ci offre anche le ispirazioni per usarle a favore dell’umano.
L’ispirazione fondamentale che ci manda il Principato del nostro tempo la possiamo capire solo paragonando il nostro tempo con epoche passate. Per quanto bella e importante sia la tappa storica attuale, con tutte le sue possibilità evolutive specifiche, è comunque un tempo, un’epoca tra altre, non è il tutto dell’evoluzione.
Noi viviamo nell’epoca del materialismo e se è vero che il nostro è un tempo che apprezza quasi esclusivamente il mondo materiale, dobbiamo fare lo stesso ragionamento di prima: la parte positiva della nostra epoca è l’amore per il mondo della materia che ci ha portato ingegnerie meccaniche, elettroniche, edili, aeronautiche, navali, astronautiche, chimiche, mediche ecc.; ciò che manca è l’amore per lo spirito. E l’ispirazione complessiva dell’Archè del nostro tempo è quella di aggiungere all’amore spontaneo per il mondo visibile, l’amore libero per quello invisibile. Ci ispira a conoscere e amare la materia in modo così profondo da vederla e volerla dappertutto intrisa di spirito.
La scommessa della nostra epoca – la più difficile perché rappresenta al contempo una grande svolta nella storia – è quella di ricongiungere spirito e materia nella mente e nel cuore di ogni uomo, perché egli finalmente si riconosca e si viva come uno spirito incarnato. Seppure a livello istintivo, abbiamo visto che esiste oggi il desiderio di integrare la scienza del mondo fisico con una scienza non meno rigorosa dello spirituale. Certo, siamo all’inizio, ma il compito è appassionante, fatto proprio per noi che viviamo in questo tempo.
L’ambito della coscienza di un Principato è ancora più vasto di quello dell’Arcangelo: proviamo a immaginare che cosa comporti far sorgere nell’umanità lo spirito di un’epoca, cui concorrono armonicamente tutti i vari popoli, in sintonia con tutte le epoche precedenti e con tutte quelle che verranno, nel contesto globale dell’evoluzione umana! Questi pensieri possono far nascere in noi una profonda gratitudine verso il Principato che ci guida svolgendo una missione di saggezza e di amore tale da donarci l’esperienza reale di essere uomini del nostro tempo.
Chi ha fatto sorgere quegli splendori della cultura che noi chiamiamo civiltà greca, egizia, assira, caldeo-babilonese, persiana, indiana? Se non ci fossero stati da sempre questi Esseri gerarchici di sublime altezza, i Principati, capaci di uno sguardo sovrano sul divenire umano universale, non sarebbero sorte queste variazioni epocali sul tema inesauribile dell’umano. Esse si sono articolate in una sequenza perfetta, scandita dall’Essere Solare che visita, segno dopo segno, tutto lo Zodiaco del cielo e lo porta sulla Terra avvalendosi di un Principato dopo l’altro.
Il Sole impiega 2.160 anni per passare da segno a segno. E questi 2.160 anni sono per i Principati il tempo del loro lavoro: sanno quando devono cominciare e quando devono far posto al successore. Così, ogni 2.160 anni circa, un nuovo Principato immette nell’umanità condizioni evolutive del tutto nuove, inaugurando una cultura completamente diversa dalle altre.
Il Principato ci aiuta anche a superare l’egoismo proprio di una data epoca, ci fa vincere la tendenza ad assolutizzarlo. L’egoismo specifico del nostro tempo, per esempio, consiste nel fatto che molti pensano: “ma quanto era bambina l’umanità al tempo dei Greci! In fatto di scienza non ci capiva niente, viveva di favole e di miti! Ma per fortuna è arrivata la scienza moderna, la prima e l’ultima che ha saputo e saprà come stanno veramente le cose.” In questo consiste l’assolutizzazione dello spirito di un’epoca!
Fra 2.160 anni ci saranno uomini che diranno: ma com’erano ingenui e dilettanti quelli dell’inizio del millennio! Credevano in una scienza degli astri del tutto mitologica e inventata di sana pianta – la chiamavano sistema copernicano –, e non si rendevano conto che esisteva soltanto nella loro fantasia!
Vita interiore degli Angeli e mondo esterno
C’è un testo di straordinaria bellezza che propongo per la meditazione quotidiana di chi volesse apprezzarlo. Inesauribile com’è nei suoi risvolti che si vanno scoprendo a mano a mano che ci si lavora, prima di presentarlo devo fare una specie di introduzione che serva da orientamento.
Per avere un punto di riferimento e di raffronto nella considerazione dei nove cori angelici, ci siamo riferiti alla nostra stessa autoesperienza che ci porta a distinguere tra vita interiore e mondo esterno. Se dovessimo spiegare a un marziano che cosa vuol dire essere uomini, non potendo riassumere in poche parole qualcosa di estremamente complesso, andremmo in cerca di caratterizzazioni fondamentali, una delle quali senz’altro sarebbe: noi uomini viviamo in due mondi.
Uno è il mondo esterno, quello fuori di noi. Lo troviamo già fatto così com’è e ne riceviamo continuamente notizia attraverso le porte dei sensi fisici. L’altro mondo è quello interiore, quello della nostra anima: non si vede coi sensi, ma noi, caro marziano, ti possiamo assicurare che esiste. Ognuno di noi porta dentro di sé un’infinità di pensieri, di sentimenti e di impulsi volitivi che lo muovono all’azione.
Su questa falsariga ci siamo chiesti se anche per l’Angelo valga questa doppia realtà, e abbiamo visto che la scienza dello spirito è in grado di rispondere che sì, anche gli Angeli hanno una vita interiore e un mondo a loro per così dire esterno. Gli Angeli, gli Arcangeli e i Principati vivono nel loro interno le ispirazioni di Esseri a loro superiori, e nel mondo esterno esprimono in piena veridicità il loro mondo interiore.
Saliamo ora di un gradino fino alla seconda gerarchia: Dominazioni, Virtù e Potestà. Anche per queste Entità c’è una vita interiore e un mondo esterno. All’esterno creano esseri: inizia così al livello della seconda gerarchia il processo vero e proprio della creazione, che trova la sua perfezione nella Trinità divina.
La qualità specifica di questa creazione è di dar vita a Esseri distinti da chi li crea, ma che rimangono sempre del tutto dipendenti dal loro creatore. Dominazioni, Virtù e Potestà non smettono mai di operare sugli Esseri che creano, e questi esistono per il tempo in cui la seconda gerarchia opera in loro.
Un esempio che può in qualche modo aiutarci a capire questo tipo di rapporto tra creatore e creatura è la gestazione umana. Durante i nove mesi la creatura, il bambino, è in tutto e per tutto dipendente dall’osmosi di forze che gli provengono dal creatore – dalla mamma. Ciò che succede alla mamma succede anche al bambino che essa porta dentro di sé. Sono due esseri, sì, ma ancora in tutto e per tutto interdipendenti.
Quando invece attraverso la nascita avviene il distacco fisico fra madre e figlio, e quest’ultimo comincia un’esistenza indipendente dalla madre, perveniamo al livello di creazione proprio della prima gerarchia. Serafini, Cherubini e Troni creano in modo tale da dar vita a Esseri che pongono fuori di sé, con l’intento di renderli sempre più indipendenti. Solo la prima gerarchia è capace di creare Esseri dotati di potenzialità verso l’autonomia – naturalmente mai a tutti i livelli perché l’indipendenza e la creatività suprema è propria soltanto della Trinità divina.
Riassumendo:
• la terza gerarchia non crea Esseri ma lavora nei pensieri, nei sentimenti e negli impulsi volitivi di Esseri – per esempio gli uomini – creati da gerarchie ancora superiori;
• la seconda gerarchia crea Esseri distinti da sé che però restano per tutta la loro esistenza dipendenti dal creatore, cioè esistono solo nella misura in cui opera in essi il creatore;
• la prima gerarchia crea Esseri ai quali sa conferire autonomia interiore, che possono divenire sempre più creativi a loro volta.
Il dinamismo complessivo della creazione, la meta del divenire universale, è di far sorgere Esseri spirituali sempre nuovi che diventino a loro volta capaci di indipendenza e creatività. La creatività spirituale è ciò che di più bello la Divinità abbia: è per natura creatrice e vuol dare alle sue creature il meglio di sé.
La vita interiore della seconda gerarchia – Potestà Virtù Dominazioni – s’incentra sull’esperienza della propria vitalità di creatori. Questi Esseri spirituali si sentono vivi interiormente nella misura in cui creano, come la mamma si sente tale nel trasfondere la propria vita alla creatura che porta dentro di sé.
La vita interiore della prima gerarchia è invece tutta incentrata nel suscitare in altri Esseri l’autonomia spirituale, non soltanto la vita. Creare Esseri individuali, dotati di un Io e che evolvendo si rendano sempre più autonomi, è per i Troni, i Cherubini e i Serafini al contempo autocreazione. Creando le condizioni dell’autonomia altrui fanno l’esperienza interiore di rigenerare se stessi, di venire sempre più pienamente all’essere come creatori. Che cos’è, infatti, che dà al creatore la percezione interiore di essere, appunto, creatore? È il creare Esseri da lui indipendenti. Finché ciò che io creo resta parte di me, io resto dentro di me, non esco da me stesso. Mi vivo come creatore solo nella misura in cui la mia creatura cessa di far parte di me e diventa a sua volta capace di creare.
Veracità, amore scambievole
e amore per l’autonomia dell’altro
A questo punto diventa importante la domanda su come si possano mai avvicinare Esseri spirituali così sublimi. Con la terza gerarchia, quella a noi più vicina degli Angeli, degli Arcangeli e dei Principati, un’idea ce la siamo fatta. Ma con le altre gerarchie, come si fa?
La scienza dello spirito di Rudolf Steiner indica tre cammini interiori che ognuno di noi può percorrere: uno crea la comunione con la terza, uno con la seconda e il terzo con la prima gerarchia degli Angeli. Sono tre cammini che in fondo già conosciamo ma che vanno affrontati da una nuova angolatura.
1. Il primo cammino, che porta alla comunione con Angeli, Arcangeli e Principati, è quello della veracità. La veracità è la responsabilità morale nei confronti della verità. Il genio della lingua, distinguendo tra verità e veracità, intende dire che la verità è la capacità di comprendere, affermare e confermare le cose così come sono; la veracità è invece l’atteggiamento interiore di responsabilità morale nei confronti della verità stessa.
Un essere umano è verace quando, conosciuta la verità, la immette nella pratica della vita, facendosene carico nel suo cammino interiore. L’Angelo, l’Arcangelo e il Principato non possono mentire perché non possono che riversare fedelmente all’esterno, attraverso il loro agire, ciò che hanno dentro, altrimenti gli mancherebbe la percezione di sé. Nella terza gerarchia vigono dunque verità e veracità allo stato puro. Nella misura in cui noi viviamo coscientemente nell’elemento della veracità, creiamo la lunghezza d’onda giusta per entrare in comunione con la terza gerarchia.
2. La seconda gerarchia vive nella reciprocità d’amore tra essere ed essere, in un continuo scambio di forze che danno vita. L’amore, come noi lo intendiamo normalmente, è proprio quello che troviamo a questo secondo gradino. La seconda gerarchia ama intervenendo nell’altro, amorevolmente: è l’amore materno, l’amore che risponde al bisogno dell’altro e ha bisogno dell’altro. Il cammino interiore per creare la lunghezza d’onda adatta a cogliere le ispirazioni delle Potestà, delle Virtù e delle Dominazioni è quell’amore reciproco che instaura un continuo scambio fra gli esseri.
3. Il terzo cammino rappresenta la perfezione dell’amore, è il conferire all’amato capacità di autonomia. Per concedere autonomia all’altro ci vuole un amore ancora più intenso, perché bisogna avere la forza morale di accettare gli abissi della libertà altrui. La perfezione dell’amore è la capacità di tirarsi indietro per far posto all’altro, è l’offerta di sé, e quella noi quasi non la conosciamo. Noi conosciamo quasi esclusivamente l’amore che vorrebbe premurosamente gestire l’altro: è un amore che sa ancora di paternalismo perché chi ama come fa un genitore ritiene di sapere meglio dell’amato ciò che è bene per lui.
Fare qualcosa per l’altro è l’inizio dell’amore; lasciar fare l’altro è la perfezione dell’amore. L’amore è compiuto quando io amo al di sopra di ogni cosa l’autonomia dell’altro, quello che l’altro fa traendolo dalla sua creatività propria. Quando amo ciò che compio io nell’altro amo ancora me stesso: per amare veramente l’altro, e non me in lui, mi devo ritirare, devo amare la sua autonomia. E questa autonomia non potrà sorgere senza errori e senza ferite da parte sua, che io non voglio risparmiargli bensì rendergli possibili, perché sono indispensabili all’acquisizione della libertà.
Questo terzo cammino di trasformazione interiore ci consente di entrare sempre più in sintonia con il mondo dei Troni, dei Cherubini e dei Serafini. È l’esercizio dell’intuizione morale che ci rende capaci di metterci nei panni dell’altro. È un lasciar essere l’altro nella sua alterità. E quando riesco a farlo le cose stanno esattamente come l’altro le vive: basta che io faccia mio il suo punto di vista. Questo tipo di comunione è il più profondo che vi sia.
La creazione dei Troni, dei Cherubini e dei Serafini, i più vicini alla Divinità, si esprime nella loro capacità di diventare tutto e tutti. Al livello umano ciò per me significa non amare l’altro intervenendo dal di fuori o facendo qualcosa in lui e per lui, ma diventare lui, senza annullarmi, perché poi voglio diventare un altro ancora e ancora e ancora.
Ogni nuovo punto di vista che facciamo nostro è un entrare in comunione con quell’essere che vede e vive le cose da quel punto di vista. E saper vedere le cose da tutti i punti di vista contemporaneamente – cosa che per ora sa fare solo la Divinità –, vuol dire essere in comunione con tutti gli esseri.
“Anima dell’uomo!”
Il testo di meditazione cui ho accennato è stato creato da Rudolf Steiner. È un mantram – o anche una preghiera, se si vuole – che compendia tutto il reale e il tutto dell’evoluzione. Eccolo:
ANIMA UMANA!
1) O anima umana!
Tu vivi negli arti
Che ti portano per il mondo dello spazio
Dentro l’essere oceanico dello spirito:
Esercita il ricordare dello spirito
Nelle profondità dell’anima,
Dove nell’essere governante
Creatore di mondi
L’Io proprio dell’uomo
Viene all’essere
Nell’Io di Dio;
E in verità tu vivrai
Nell’essere del mondo umano.
Poiché lo spirito del Padre delle altezze opera
Nelle profondità del mondo generando essere:
O Serafini, Cherubini e Troni,
Voi Spiriti delle forze,
Fate risuonare dalle altezze
Ciò che trova eco nelle profondità;
Questo dice:
Da Dio Padre trae l’essere l’umanità.
Questo odono gli spiriti degli elementi
All’est, all’ovest, al nord e al sud:
Possano udirlo gli uomini.
MENSCHENSEELE!
1) Menschenseele!
Du lebest in den Gliedern,
Die dich durch die Raumeswelt
Im Geistesmeereswesen tragen:
Übe Geist-Erinnern
In Seelentiefen,
Wo in waltendem
Weltenschöpfer-Sein
Das eigne Ich
Im Gottes-Ich
Erweset;
Und du wirst wahrhaft leben
Im Menschen-Welten-Wesen.
Denn es waltet der Vater-Geist der Höhen
In den Weltentiefen Sein-erzeugend.
Seraphim, Cherubim, Throne,
Ihr Kräfte-Geister,
Lasset aus den Höhen erklingen,
Was in den Tiefen das Echo findet;
Dieses spricht:
Ex deo nascimur.
Das hören die Elementargeister
Im Osten, Westen, Norden, Süden:
Menschen mögen es hören.
2) O anima umana!
Tu vivi nel palpito del cuore e dei polmoni
Che ti conduce tramite il ritmo del tempo
A vivere l’essere della tua anima:
Esercita il riflettere dello spirito
Nell’equanimità dell’anima,
Dove le fluttuanti gesta
Del divenire cosmico
L’Io proprio dell’uomo
Congiungono
Con l’Io dei mondi;
E in verità tu sentirai
Nell’operare dell’anima umana.
Poiché la volontà del Cristo opera all’intorno
Nei ritmi del mondo dando grazia alle anime:
O Dominazioni, Virtù e Potestà,
Voi Spiriti della luce,
Lasciate prender fuoco dall’Oriente
A ciò che prende forma tramite l’Occidente;
Questo dice:
In Cristo diviene vita la morte.
Questo odono gli spiriti degli elementi
All’est, all’ovest, al nord e al sud:
Possano udirlo gli uomini.
2) Menschenseele!
Du lebest in dem Herzens-Lungen-Schlage,
Der dich durch den Zeitenrythmus
Ins eigne Seelenwesensfühlen leitet:
Übe Geist-Besinnen
Im Seelengleichgewichte,
Wo die wogenden
Welten-Werde-Taten
Das eigne Ich
Dem Welten-Ich
Vereinen;
Und du wirst wahrhaft fühlen
Im Menschen-Seelen-Wirken.
Denn es waltet der Christus-Wille im Umkreis
In den Weltenrhythmen Seelen-begnadend.
Kyriotetes, Dynamis, Exusiai,
Ihr Lichtes-Geister,
Lasset vom Osten befeuern,
Was durch den Westen sich gestaltet;
Dieses spricht
In Christo morimur.
Das hören die Elementargeister
Im Osten, Westen, Norden, Süden:
Menschen mögen es hören.
3) O anima umana!
Tu vivi nel capo quiescente
Che ti dischiude dalle scaturigini dell’eternità
I pensieri universali:
Esercita lo scrutare dello spirito
Nella quiete dei pensieri,
Dove le mete eterne degli dei
La luce dell’essere cosmico
All’Io proprio dell’uomo
Donano
Per un volere libero;
E in verità tu penserai
Nelle profondità dello spirito umano.
Poiché i pensieri universali dello Spirito operano
Nell’essere del mondo implorando luce:
O Principati, o Arcangeli, o Angeli,
Voi Spiriti dell’anima,
Fate elevare dalle profondità in preghiera
Ciò che viene esaudito nelle altezze;
Questo dice:
Per mezzo dello Spirito Santo si risveglia l’anima.
Questo odono gli spiriti degli elementi
All’est, all’ovest, al nord e al sud:
Possano udirlo gli uomini.
3) Menschenseele!
Du lebest im ruhenden Haupte,
Das dir aus Ewigkeitsgründen
Die Weltgedanken erschließet:
Übe Geist-Erschauen
In Gedanken-Ruhe,
Wo die ew’gen Götterziele
Welten-Wesens-Licht
Dem eignen Ich
Zu freiem Wollen
Schenken;
Und du wirst wahrhaft denken
In Menschen-Geistes-Gründen.
Denn es walten des Geistes Weltgedanken
Im Weltenwesen Licht-erflehend:
Archai, Archangeloi, Angeloi,
Ihr Seelen-Geister,
O lasset aus den Tiefen erbitten,
Was in den Höhen erhöret wird;
Dieses spricht:
Per Spiritum Sanctum reviviscimus.
Das hören die Elementargeister
Im Osten, Westen, Norden, Süden:
Menschen mögen es hören.
4) Alla svolta dei tempi
La luce dello spirito cosmico entrò
Nella corrente dell’essere terreno;
L’oscurità della notte
Aveva terminato il suo dominio;
Chiara luce del giorno
Rifulse in anime umane;
Luce,
Che riscalda
I cuori semplici dei pastori,
Luce,
Che illumina
Le menti sagge dei re.
Luce divina
O Cristo, tu Sole,
Riscalda i nostri cuori,
Illumina le nostre menti,
Affinché divenga buono
Ciò che vogliamo fondare coi cuori,
Ciò che vogliamo condurre alla meta
Con menti risolute.
Rudolf Steiner
(traduzione di Pietro Archiati)
4) In der Zeiten Wende
Trat das Welten-Geistes-Licht
In den irdischen Wesensstrom;
Nacht-Dunkel
Hatte ausgewaltet;
Taghelles Licht
Erstrahlte in Menschenseelen;
Licht,
Das erwärmet
Die armen Hirtenherzen;
Licht,
Das erleuchtet
Die weisen Königshäupter.
Göttliches Licht,
Christus-Sonne,
Erwärme unsere Herzen;
Erleuchte unsere Häupter;
Daß gut werde,
Was wir aus Herzen gründen,
Was wir aus Häuptern
Zielvoll führen wollen.
Rudolf Steiner
Questo bellissimo testo di meditazione è composto di tre “colonne”: la colonna a pag. 146 tratta del mondo di Dio Padre, quella a pag. 147 si volge all’operare del Figlio, e quella a pag. 148 ha a che fare con lo Spirito Santo. Le ultime strofe poi racchiudono il mistero del Figlio che si fa uomo. Così come il mantram è riportato nelle pagine precedenti, le colonna di sinistra, di centro e di destra (p. 146, 147, 148) e le strofe finali (p. 149) sono indicate rispettivamente con i numeri 1), 2), 3) e 4).
Padre, Figlio e Spirito Santo non sono nella Trinità divina tre Esseri semplicemente distinti, perché una delle qualità più essenziali dello spirito è l’unità: dove è all’opera lo spirito non si ha pace finché non si crea l’unità in qualsiasi tipo di molteplicità. Lo spirito è l’arte di creare nessi: finché si distinguono nella Divinità tre Esseri diversi senza intuire in che modo siano al contempo un Essere solo, neanche lo spirito umano, cioè il nostro pensare, può ritenersi soddisfatto. Creati a immagine di Dio, noi non possiamo trovar pace nella mente finché non riconduciamo all’unità ciò che il mondo della percezione ci presenta come frammentato.
La Divinità si manifesta e opera nel mondo, cioè nel processo della creazione, in tre modi diversi, la Trinità di Dio sono i tre modi d’interazione della Divinità col cosmo. L’unità del tutto non è perciò qualcosa di astratto: si esprime nella molteplicità concreta degli esseri che vivono nel mondo. Il molteplice è bello perché è articolato e concreto, ma non ci dà quiete finché lo vediamo solo disperso.
Lo spirito pensante è in perenne cammino di ritorno verso l’unità: ogni tipo di spirito, e dunque anche lo spirito umano, vive di questo respiro, di questa diastole e sistole che si muove tra unità e molteplicità. L’unità senza molteplicità è vuota astrazione, la molteplicità senza unità è dispersione, è carenza di senso. Tra la complessità e l’unità trova il suo respiro il pensare umano.
Nella colonna 1) c’è il mondo del Padre, il mondo della prima gerarchia, quello dei Troni Cherubini e Serafini, con tutto il mistero dei regni di natura. La terminologia qui usata è di matrice cristiana, e c’è un motivo ben preciso. Si può dire che le religioni pre-cristiane non distinguevano fra loro i tre modi sostanzialmente diversi dell’operare della Divinità nel mondo. Le antiche Trinità sono in realtà tre modi di operare del solo Padre: sia Shiva, sia Brahma, sia Visnù, per esempio, si riferiscono tutti e tre al modo di operare di Dio Padre. Con la stessa necessità di natura Dio crea (Brahma), mantiene in vita (Visnù) e fa perire (Shiva) tutte le cose.
Nella matrice cristiana, invece, il Padre opera nell’elemento di natura; il Figlio, l’Essere dell’Amore (il Cristo) fa invece sorgere nell’uomo la capacità di libertà, trasforma cioè l’anima umana facendone una potenzialità allo spirito; e lo Spirito Santo è l’esperienza dello spirito attuato, cioè raggiunto e realizzato qui e ora dall’uomo singolo con le forze della sua libertà. L’esperienza del Figlio e dello Spirito Santo non compare nelle religioni pre-cristiane proprio perché sarebbe stata prematura da un punto di vista evolutivo.
L’amore del Cristo consiste nel fatto che ci rende capaci di libertà, ce ne dà la facoltà, ci pone nelle condizioni di poter essere liberi; ma gli atti tramite i quali io realizzo e attuo questa facoltà di libertà sono per me l’esperienza vera e propria dello Spirito Santo.
E sono due tipi di autoesperienza ben diversi. Ognuno di noi ha ricevuto, in modo uguale, la capacità di essere libero grazie all’Essere dell’Amore, ma rendere reale la libertà traducendola nella pratica della vita non è un obbligo. L’esperienza dello Spirito Santo può anche essere omessa dal singolo individuo.
Il Padre lavora nell’elemento di natura, pone il fondamento dell’evoluzione umana che è il determinismo di natura. Tutte le lingue antiche, e l’esoterismo delle religioni, usano la stessa parola per indicare Dio Padre e la pietra: Pater – petra, in latino; Aba – abanin, in ebraico. Il Padre opera nell’elemento corporeo del cosmo, il Figlio opera nell’anima umana per renderla potenzialità di spirito e nella libertà realizzata individualmente c’è l’esperienza dello Spirito Santo.
La prima triade – Troni Cherubini e Serafini – è la gerarchia del Padre che lavora dentro l’elemento di natura per eccellenza. Abbiamo poi la seconda gerarchia (nella colonna 2) – Potestà Virtù e Dominazioni – che opera in comunione particolarmente con il Figlio e lavora nell’anima umana per renderla capace di accogliere lo spirito. C’è infine la terza gerarchia (colonna 3), quella dello Spirito Santo – Angeli, Arcangeli e Principati – con la quale ci mettiamo in comunione ogni volta che facciamo l’esperienza individuale della libertà dello spirito.
In questa meditazione l’anima umana si rivolge a se stessa. È come un autorisveglio, un’esperienza di autocoscienza. Sono presenti tutte le gerarchie, c’è il mondo della natura e ci sono anche i Morti, perché anch’essi vivono in questa realtà complessiva del cosmo. La colonna 4) racchiude il quarto elemento, l’uomo: è la Divinità incarnata, il Verbo del Padre che si esprime nel Figlio e che suscita lo Spirito dentro gli esseri umani.
Le tre colonne vanno messe l’una accanto all’altra perché ogni rigo della colonna del Padre ha il suo corrispondente nello stesso rigo di quella del Figlio e dello Spirito Santo. Per esempio:
1) 1. O anima umana!
2. Tu vivi negli arti
3. Che ti portano attraverso il mondo dello spazio
4. Dentro l’essere oceanico dello spirito:
2) 1. O anima umana!
2. Tu vivi nel battito del cuore e dei polmoni
3. Che ti conduce tramite il ritmo del tempo
4. A vivere l’essere della tua anima:
3) 1. O anima umana!
2. Tu vivi nel capo quiescente
3. Che ti dischiude dalle scaturigini dell’eternità
4. I pensieri universali:
I misteri del Padre riguardano tutto ciò che avviene nello spazio; i misteri del Figlio si riferiscono a ciò che avviene nel corso del tempo; i misteri dello Spirito sono quelli dell’eternità e del ritorno di ogni spirito umano all’unità. Il Padre regge ciò che è eterno, immutabile; il Figlio regge il mondo che è in divenire, il susseguirsi di un’epoca dopo l’altra, il nascere e il morire; lo Spirito Santo è pura interiorità, è il mondo morale attuato nell’agire del singolo uomo.
Questi sono solo alcuni cenni di lettura: la scoperta degli infiniti aspetti racchiusi in questo testo (in cui non manca nulla!) è lasciata alla meditazione quotidiana di ognuno. Chi prova gioia nel meditarvi sopra, magari ogni giorno, si stupisce di percorrere ogni volta cammini sempre nuovi.
Un altro breve esempio:
O anima umana!
Tu vivi negli arti
O anima umana!
Tu vivi nel battito del cuore e dei polmoni
O anima umana!
Tu vivi nel capo quiescente
A sinistra c’è la volontà, che si esprime tramite il corpo; al centro c’è il sentimento, ciò che si vive nell’anima; a destra il pensare, che è puro spirito – un’altra triade fondamentale.
Oppure:
1) Esercita il ricordare dello spirito
Nelle profondità dell’anima,
Dove nell’essere governante
Creatore di mondi
L’Io proprio dell’uomo
Viene all’essere
Nell’Io di Dio;
E in verità tu vivrai
Nell’essere del mondo umano.
2) Esercita il riflettere dello spirito
Nell’equanimità dell’anima,
Dove le fluttuanti gesta
Del divenire cosmico
L’Io proprio dell’uomo
Congiungono
Con l’Io dei mondi;
E in verità tu sentirai
Nell’operare dell’anima umana.
3) Esercita lo scrutare dello spirito
Nella quiete dei pensieri,
Dove le mete eterne degli dei
La luce dell’essere cosmico
All’Io proprio dell’uomo
Donano
Per un volere libero;
E in verità tu penserai
Nelle profondità dello spirito umano.
Esercita il ricordare dello spirito: l’elemento di natura del Padre rappresenta il passato dell’evoluzione, e il passato vuole essere “ricordato”. Il verbo “ricordare” esprime una bellissima intuizione del genio della lingua italiana e significa “riportare dentro al cuore”. Tutto ciò che il Padre ha compiuto ponendo i fondamenti di natura va amato col calore della gratitudine. Nel regno del Padre l’uomo sperimenta il vivere, l’essere plasmato dalle forze della vita che però sono ancora oscure, sfuggono alla coscienza, vivono, appunto, nelle profondità dell’anima governate ancora dai creatori dei mondi.
La colonna centrale, quella del Figlio nella Trinità cristiana, comincia con: Esercita il riflettere dello spirito. Ci esercitiamo a riflettere lo spirituale quando viviamo nella nostra anima, nella nostra interiorità, che vuol essere un “riflesso” puro e terso del mondo circostante. Nell’anima non viviamo nell’Io vero e proprio, che è il nostro essere spirituale eterno, ma nel suo riflesso, che è l’autocoscienza. La coscienza dell’Io è l’immagine riflessa del nostro Io vero dentro la nostra anima.
Ma è proprio la coscienza di aver in noi solo un riflesso del nostro Io vero che ci fa cercare la sua realtà: l’anima vive l’anelito verso lo spirito. Nell’immagine riflessa c’è infatti tutto e nulla della realtà che si riflette: c’è il tutto della sua immagine e il nulla della sua realtà vivente e operante.
Il mondo dell’anima, delle immagini speculari prive di realtà, ci rende capaci di libertà proprio perché quelle rappresentazioni non possono fare nulla – e non ci possono fare nulla! Tocca a noi conferir loro realtà spirituale attraverso il nostro spirito pensante. Le forze della volontà vengono “vissute” come un oscuro pulsare di vita, il tessere dell’anima viene “sentito” nei sentimenti veri e propri, che sono meno oscuri del volere e meno chiari del pensiero.
La colonna di destra (p. 148), la 3), è quella dello Spirito Santo. Esercita lo scrutare dello spirito, esercitati, cioè, a intuire ciò che è realmente spirituale. L’attività pura del pensare non conosce gli ondeggiamenti dell’anima, lascia dietro di sé simpatie e antipatie e cerca l’oggettività delle cose. L’anima vive sempre al presente, in una specie di autogodimento, come fa il bambino, ma lo spirito guarda in avanti, concepisce mete del divenire universale che da idee si trasformano in ideali. Pensare e volere diventano, nell’esperienza dello spirito, una cosa sola: l’intuire diviene amore puro, e l’amore pura intuizione.
Le triadi più svariate si schiudono all’occhio dello spirito che medita questo testo: natura, cultura, individualità; essere, divenire, autocoscienza; stazione eretta, parola, pensiero; mondo della terra, del sistema solare, dello zodiaco. E altre ancora…
1) Poiché lo spirito del Padre delle altezze opera
Nelle profondità del mondo generando essere.
O Serafini, Cherubini e Troni,
Voi Spiriti delle forze,
Fate risuonare dalle altezze
Ciò che trova eco nelle profondità;
2) Poiché la volontà del Cristo opera all’intorno
Nei ritmi del mondo dando grazia alle anime.
O Dominazioni, Virtù e Potestà,
Voi Spiriti della luce,
Lasciate prender fuoco dall’Oriente
Ciò che prende forma tramite l’Occidente;
3) Perché i pensieri universali dello spirito operano
Nell’essere del mondo implorando luce:
O Principati, o Arcangeli, o Angeli,
Voi Spiriti dell’anima,
Fate elevare dalle profondità in preghiera
Ciò che viene esaudito nelle altezze;
La prima e la terza colonna esprimono tutta una serie di polarità.
Troni, Cherubini e Serafini – che Rudolf Steiner chiama anche Spiriti delle forze, delle forze di natura, appunto – portano giù i pensieri di Dio Padre nelle profondità oscure dei regni di natura, in un movimento che va dall’alto al basso e che è proprio dell’amore universale che crea.
Gli Angeli, gli Arcangeli e i Principati – Spiriti delle anime, cioè che sono al lavoro nelle anime degli uomini – rispondono con un movimento inverso che va dal basso verso l’alto, verso la luce delle gerarchie superiori e della Trinità: essi accolgono e innalzano la risposta umana alla vita stessa, spiritualizzando nel pensare umano tutta la natura. Questa risposta si esprime nelle conquiste interiori della conoscenza: l’uomo ascolta il richiamo dell’essere (della vita) che vuole essere compreso e illuminato da lui, riscaldato dalle forze del suo cuore e riconsegnato alle altezze come Spirito Santo, come spirito attuato nella libera volontà umana.
Nel mezzo la seconda gerarchia – chiamata anche gerarchia degli Spiriti della luce – opera col Figlio nei movimenti dei pianeti, dalla periferia, e porta sulla Terra l’operare del sistema solare abbracciando l’intera Umanità. Il Figlio entra nei ritmi evolutivi dei cuori umani, del vissuto umano, quale si esprime nell’alternarsi delle epoche storiche, effondendo la “grazia”, cioè mettendo a disposizione di epoca in epoca tutte le condizioni necessarie per l’esercizio della libertà. Lì avviene lo scambio fra uomo e uomo, lì l’Oriente incontra l’Occidente, la luce incontra la forma – è il mistero dell’incarnazione dello spirito nella materia –, lì la dispersione dell’umano si ricompone nel reciproco completarsi, come avviene con i membri di un organismo vivente.
1) Questo dice:
Da Dio Padre trae l’essere l’umanità.
2) Questo dice:
In Cristo diviene vita la morte.
3) Questo dice:
Per mezzo dello Spirito Santo si risveglia l’anima.
Queste tre formule – che in latino suonano così: Ex deo nascimur; In Christo morimur; Per Spiritum Sanctum reviviscimus – contengono la quintessenza della saggezza rosicruciana, una corrente profondamente cristiana che si è espressa a livello esoterico, cioè di catacomba, in tempi in cui sarebbe stato prematuro offrire le sue conoscenze alla cultura ufficiale. Questi tre detti rosicruciani sono densi di verità e di bellezza, in quanto descrivono le tre manifestazioni della Divinità:
Da Dio Padre trae l’essere l’umanità: tutto nasce dal Padre, la natura è il creato del Padre, come anche il passato dell’uomo e dell’intero universo.
In Cristo la morte diviene vita: il Figlio è all’opera ogni volta che c’è una morte, ogni volta che nel divenire incessante qualcosa o qualcuno cessa la sua specifica mansione per far posto a ciò che deve ancora venire. Ogni morte si può trasformare in resurrezione se è compiuta nel Cristo che ci fa risorgere sempre a nuova vita. Nel Cristo moriamo con l’intento di tornare all’essere in ciò che viene a nascere come creazione dal nulla, come qualcosa di nuovo.
Per mezzo dello Spirito Santo si risveglia l’anima: qui si esprime la totalità del divenire proiettata nel futuro. Il significato globale di tutta l’evoluzione umana è la “resurrezione della carne” operata dallo spirito, il risorgere dello spirito umano incarnato che riporta la materia allo stato di polvere cosmica perché ha saputo volerla, amarla e conoscerla vivendoci dentro.
Tutte e tre queste formule si concludono con l’invocazione:
Questo odono gli spiriti degli elementi
All’est, all’ovest, al nord e al sud:
Possano udirlo gli uomini.
Di nuovo un appello alla responsabilità dell’uomo che racchiude in sé i destini del mondo e al quale lavorano in ogni dove – all’est, all’ovest, al nord, al sud – gli spiriti degli elementi, che anelano a risorgere con noi per rituffarsi nella sostanza divina.
L’ultima parte del mantram, la 4), riguarda la decisione del Figlio di farsi uomo per rendere ognuno di noi capace di accogliere in sé, nel corso del tempo, i misteri della Trinità divina.
Alla svolta dei tempi
La luce dello spirito cosmico entrò
Nella corrente dell’essere terreno;
L’oscurità della notte
Aveva terminato il suo dominio;
Chiara luce del giorno
Rifulse in anime umane;
Luce,
Che riscalda
I cuori semplici dei pastori,
Luce,
Che illumina
Le menti sagge dei re.
Luce divina
O Cristo, tu Sole,
Riscalda i nostri cuori,
Illumina le nostre menti,
Affinché divenga buono
Ciò che vogliamo fondare coi cuori,
Ciò che vogliamo condurre alla meta
Con menti risolute.
Come i pastori di Betlemme, anche noi abbiamo un cuore pieno di povertà che anela alle ricchezze dello spirito, tutti siamo mendicanti dello spirito, e ognuno di noi è anche un saggio nella sua mente, perché la sua facoltà pensante anela alla sovranità della conoscenza. Il cuore cerca l’amore e la mente cerca la saggezza: il Figlio del cielo è sceso, si è incarnato, per riscaldare il cuore e per illuminare la mente di ogni essere umano.
Possiamo chiederci un’altra volta: l’esistenza degli Angeli e dei Morti è una questione di fede o di scienza? L’uomo vuole sia la fede sia la scienza: il cuore cerca la fede e la mente cerca la scienza. Ma devono andare insieme: la mente da sola non basta e neanche il cuore da solo. Riscalda i nostri cuori, illumina le nostre menti.
Affinché divenga buono
Ciò che vogliamo fondare coi cuori
Ciò che vogliamo condurre alla meta
Con menti risolute.
Con un’infinita fiducia nelle risorse di ogni uomo si conclude questa meditazione nella quale ognuno può sempre nuovamente ritrovare il senso del suo esistere, la meta che la Divinità una e trina ha inscritto nel suo cuore e nella sua mente. E mentre noi ci offriamo alla trasformazione interiore che queste verità operano in noi, gioiscono gli esseri umani che ci hanno preceduto oltre la soglia della morte. E le gerarchie angeliche ci inondano con i loro doni in un movimento cosmico che Goethe nel Faust descrive così (in una traduzione mia che non può essere che un balbettio a confronto dell’originale), guardando al cielo con gli occhi sapienti del suo cuore di poeta:
Wie alles sich zum Ganzen webt,
Eins in dem andern wirkt und lebt!
Wie Himmelskräfte auf- und niedersteigen
Und sich die goldnen Eimer reichen!
Mit segenduftenden Schwingen
Vom Himmel durch die Erde dringen,
Harmonisch all das All durchklingen!
Tutte le cose s’intessono in un tutto
Ogni essere vive e ferve in ogni altro!
Le potenze del cielo scendono e ascendono
E a turno si offrono le loro coppe d’oro!
Spiegano ali fragranti di benedizioni,
Dal cielo trafiggono l’essere della terra
E fanno un’armonia dell’universo intero!
[1] Secondo l’antica nomenclatura, le gerarchie angeliche propriamente dette sono tre (cfr. la tabella alla fine del libro), ognuna costituita da tre ordini o “cori” angelici, per un totale di nove. In questo senso l’umanità costituisce il decimo coro, o decima schiera di Esseri spirituali gerarchici.
[2] Da: Otto Julius Hartmann Segreti dall’aldilà della soglia – A. Kienreich Editore, Graz, 1956 – pagg. 50-51
[3] Su questo argomento vedi in particolare Rudolf Steiner, Che cosa fa l’Angelo nell’anima dell’uomo, Archiati Edizioni
[4] Da un articolo di Pedro Ribadeneira pubblicato sul Boston Globe il 27/2/1999
A proposito di Pietro Archiati
Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).
Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.
Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.
Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.
Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.
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