fronte.jpg

Trascrizione integrale e redazione a cura di Stefania Carosi

Testo non rivisto dall’autore

dorè.jpg

Gustav Dorè - “La Samaritana e Gesù”

Indice

26 dicembre 2001, sera

27 dicembre, mattina

27 dicembre 2001, pomeriggio

27 dicembre 2001, sera

Quinto capitolo 28 dicembre 2001, mattina

28 dicembre 2001, pomeriggio

28 dicembre 2001, sera

29 dicembre 2001, mattina

29 dicembre, pomeriggio

29 dicembre 2001, sera

Capitolo sesto

30 dicembre 2001, mattina

A proposito di Pietro Archiati

26 dicembre 2001, sera

Cari amici, questa sera vorrei ricordare con voi il cammino che abbiamo percorso nel precedente seminario sul vangelo di Giovanni, fino al quarto capitolo, versetto 23, dove abbiamo l’incontro del Cristo con la samaritana. Ricorderete forse che avevo proposto di leggere l’interagire fra il Cristo e la samaritana come la fenomenologia di ciò che avviene sempre quando lo spirito umano colloquia con l’anima umana. Una fenomenologia, dunque, sub specie aeternitatis. La samaritana rappresenta in tutto ciò che dice, in tutte le sue manifestazioni, l’evoluzione dell’anima umana quando incontra l’Essere che noi chiamiamo il Cristo, e dialoga con lui. Spesso la parola “Cristo” è culturalmente problematica e dobbiamo avere il coraggio di coniarne anche altre. Ciò significa che non dobbiamo presupporre di sapere già chi sia il Cristo, anche perché può darsi che nella tradizione ci siano di lui conoscenze solo incipienti o addirittura dei fraintendimenti. Se ci interessa di mettere in moto un nuovo accesso a questo Essere, dobbiamo diventare così spregiudicati da lasciare la terminologia un po’ più aperta: perciò io lo sto chiamando “questo Essere”; non perché la tradizione l’ha sempre chiamato “Cristo” significa che abbia capito tutto di lui. Spesso i nomi diventano etichette e allora proporrei di mettere in secondo piano il nome e di guardare alla fenomenologia di ciò che manifesta il suo Essere.

Man mano che colui che gli Ebrei chiamavano il Messia, l’Unto del Padre, parla con la samaritana, si ha la possibilità di verificare se è vero che lo spirito umano di fronte a tutte le sue manifestazioni può dire: qui ravvedo lo squadernarsi di momenti fondamentali e sempre essenziali (nel vangelo di Giovanni non c’è mai nulla di accidentale) della mia stessa fenomenologia – naturalmente quest’ipotesi io la faccio a ragion veduta: sta a voi verificare. Se così fosse, significherebbe che l’incontro tra la samaritana e il Cristo è l’esperienza eterna, che dura sempre, del modo in cui l’anima umana viene confrontata con la totalità delle sue potenzialità evolutive. Lo spirito di ognuno di noi è la totalità di ciò che la sua anima può divenire, mentre l’anima è ciò che ognuno è, ma proprio concretamente. Ognuno deve avere il coraggio non solo di essere sincero con se stesso, di conoscersi oggettivamente, ma anche di gioire di ciò che è: chi non è capace di gioire del proprio punto di partenza, se ne mette in testa un altro che non è il suo, che non gli appartiene, e non riesce a camminare. Il presupposto dell’anima è il godimento, la gratitudine e la gioia di trovarsi dove si trova, di essere così com’è. Godere di sé. Non è un autocompiacimento: è l’essere grati per tutto ciò che ognuno ha compiuto – e ognuno di noi ha alle spalle parecchi millenni di evoluzione: non è una cosa da poco essere un’anima umana. È la gioia di vedere che c’è in me, proprio così come sono, una potenzialità, una chiamata, una provocazione infinita a conquiste che l’evoluzione mi darà la possibilità di raggiungere; però queste conquiste vengono rese possibili dal fatto che io accetto, con sincerità, onestà e anche gratitudine, di partire da là dove sono.

Sta a ciascuno di noi vedere nella fenomenologia della samaritana la sua propria anima, riconoscersi in lei e personalizzare così questa figura del vangelo: in lei si mostrano le manifestazioni archetipiche dell’umano, quelle che valgono per tutti, pur se in mille variazioni. Quindi un’altra dimensione del vangelo di Giovanni è l’universalità: parla solo di cose valide per ogni uomo e perciò fin dall’inizio insiste sul Logos, che è il senso e il destino onnicomprensivo del cammino umano. Il Logos, il Cristo, è la totalità dei pensieri divini come conquista evolutiva dell’uomo. Il Logos non si limita al popolo ebraico: già il primo segno, quello delle nozze di Cana, si svolge in Galilea che etimologicamente significa: mistura di sangue. La Galilea era una regione dove le forze ataviche, quelle che venivano mantenute intatte celebrando matrimoni esclusivamente dentro la stessa genìa, erano state disperse perché da tempo le unioni non erano più tra consanguinei. Il rompersi di questa magia del sangue è l’apertura dello spirito umano a ciò che è universale. E la samaritana è una straniera, una specie di moderna extracomunitaria per i giudei di allora: e questo è importantissimo nel vangelo di Giovanni, perché sottolinea l’universalità dello spirito umano che va oltre il popolo, la lingua, la razza, la religione.

Riassumo adesso per sommi capi i capitoli che precedono l’incontro con la samaritana, e che hanno costituito l’oggetto del nostro precedente lavoro.

Le due affermazioni di apertura erano: operante dentro la realtà primordiale dell’evoluzione c’era il Logos, il Verbo, la Parola creante, il pensiero creante; la direzione del Logos, prima volto verso la Divinità, è di farsi carne, di entrare nel mondo umano per dare la possibilità a ogni uomo di evolversi sempre di più verso la dimensione del divino. La differenza tra l’umano e il divino non è una differenza di principio, ma evolutiva. Tutte le Gerarchie angeliche sono esseri divini e vengono chiamati θεοι (theòi), in greco, anche nel Nuovo Testamento. Il problema nostro è l’aver abolito il plurale mantenendo solo il singolare: Dio. E di Dio, diciamo noi, ce n’è uno solo. La corrente giudaico.cristiana del monoteismo ha ostracizzato la corrente politeistica dei greci; ma se poniamo la domanda: di esseri divini ce n’è uno solo o sono tanti? possiamo rispondere che il divino ha dei gradi, come l’umano. Il senso di questa unilateralità del monoteismo è che pedagogicamente, nell’evoluzione dell’umanità, per 2000 anni – circa per il tempo che il Sole impiega per passare da un segno zodiacale all’altro – ha rafforzato nell’uomo l’esperienza dell’Io, dello spirito. Quando un essere umano dice “Io”, fa un’esperienza del tutto monoteistica: non esiste l’esperienza degli “Ii”. La parola Io non ha il plurale ed è giusto: l’Io è l’esperienza del punto in cui tutta la moltitudine degli impulsi animici del mio essere viene portata all’unità. Io sono colui che, in quanto spirito unitario, gestisco la pluralità dei fenomeni animici. Tutto ciò che è nell’anima, quindi, si esprime meglio col politeismo – l’anima è politeistica, è una pluralità infinita di impulsi – e tutto ciò che ha a che fare con l’Io si può esprimere solo in termini di monoteismo.

Adesso vi chiedo: chi ha ragione? La tradizione giudaico-cristiana che dice: c’è un Dio solo, oppure la tradizione greca che dice: ci sono tanti dèi? Tutti e due hanno ragione! Gli dèi e le dèè dei greci sono reali, ma si riferiscono a divinità che reggono il cammino dell’anima, a divinità che si esprimono nell’uomo in quanto impulsi animici. Il monoteismo della tradizione giudaico-cristiana è non meno vero, ma si riferisce all’Io, allo spirito, non all’anima. Noi ci troviamo a un punto dell’evoluzione in cui dobbiamo vincere tutt’e due le unilateralità, mettendole insieme; comprendendo, cioè, che l’essere umano è fatto sia di spirito (e qui vale il monoteismo) sia di anima (e qui vale il politeismo). Poiché il vangelo di Giovanni presenta le cose in un modo valido per tutti i tempi, la questione se il divino sia uno o molteplice la lascia nascosta; come un tesoro in un campo: c’è, ma va scoperto. Tant’è vero che al decimo capitolo c’è la fatidica frase del Cristo – e che sarà motivo per decidere la sua condanna a morte – che dice: “Voi siete dèi”, θεοι εστε (theòi estè). Ognuno di noi è un essere divino unitario in potenza, un Io, ma gli Io umani sono tanti: e dunque dobbiamo riaprire al plurale il concetto del divino. Dèi. La differenza tra l’umano e il divino, dicevo prima, è una differenza di gradi d’intensità; l’umano è il divino all’inizio della sua evoluzione. Ciò che noi chiamiamo “il divino” è la prospettiva evolutiva dell’umano e man mano che l’uomo si evolve, diventa sempre più divino. Non ci sono salti (o divino, o umano), ma c’è continuità. Tant’è vero che è previsto – come la scienza dello spirito di Rudolf Steiner ampiamente mostra – che si riscoprano tutte le gradazioni del divino: le Gerarchie angeliche. Si scoprirà che gli Angeli sono molto più divini degli uomini, ma molto meno divini degli Arcangeli; e gli Arcangeli sono molto meno divini dei Principati... e così via. La differenza fondamentale tra il divino è l’umano è nella vastità di coscienza: più vasta è la coscienza, più un essere è divino; più ristretta è la coscienza e più un essere è umano. L’eternità è una coscienza così vasta che abbraccia in sé la totalità del tempo, che le è compresente dall’inizio alla fine. Il genitore rispetto al bambino piccolo è più divino perché ha la capacità di abbracciare spazi di tempo più ampi e tenerli compresenti nell’orizzonte della sua coscienza. L’adulto è capace di progettare, il bambino no. In tutto l’universo non ci sono che vari stadi e stati di coscienza, diversi per vastità e profondità. Naturalmente noi usiamo immagini spazio-temporali: nel divino spazio e tempo vengono superati.

Dopo l’affermazione che il Logos divino, la coscienza divina, è entrata nella corrente dell’evoluzione umana per rendere possibile a ogni spirito umano l’ampliamento e l’approfondimento della coscienza intridendosi sempre più delle forze del Logos stesso, abbiamo visto l’incontro con i discepoli, al secondo giorno. Il primo giorno corrisponde al Prologo. Il secondo giorno è il giorno del cammino, degli incontri karmici con i discepoli (il discepolato). Il terzo giorno sono le nozze di Cana. Abbiamo sottolineato, ricordate?, che ogni volta che si parla di nozze e ogni volta che c’è una triade di giorni, un’articolazione trinitaria del tempo, si tratta sempre di misteri dell’iniziazione. Dove l’evoluzione nel tempo viene strutturata trinitariamente significa sempre che ci sono tre fasi: la prima è la semina, la seconda è una svolta, la terza è il compimento. Iniziazione significa ritornare con la coscienza desta, acquisita sulla Terra, al paradiso dell’inizio. Initiatio significa: venire iniziati ai misteri dell’inizio. Cosa c’era all’inizio? La coscienza divina. Ce ne siamo staccati per diventare autocoscienti e ritornarci dentro conservando la coscienza del nostro Io individuale. Il primo giorno è del Padre, che pone come base le leggi di natura – e dunque per l’uomo è la fase della caduta, dell’inserimento nella materia, nel determinismo di natura –; il secondo è sempre il giorno del Figlio – ecco perché il Figlio incontra i discepoli e i discepoli incontrano il Figlio che compie la svolta da un dato di natura a un dato di libertà –; il terzo giorno è sempre il giorno dello Spirito Santo, dove lo spirito umano diventa sempre più creatore. Al terzo giorno (che corrisponde all’inizio del secondo capitolo), abbiamo visto le nozze di Cana, cioè il ricongiungersi dell’uomo col mondo divino e queste nozze possiamo anche vederle come un’anticipazione dell’incontro della samaritana col Cristo.

Abbiamo parlato a lungo della cosiddetta purificazione del tempio di Gerusalemme: ho insistito molto sul fatto che se noi interpretassimo la purificazione come un fatto esterno fisico (animali scacciati fuori a scudisciate dal Cristo, tavoli con le monete rovesciate, ecc) entreremmo in problematiche senza fine e ci toccherebbe ammettere che il Cristo può diventare violento, in contraddizione assoluta col suo essere. L’altro modo di lettura è una sfida non da poco per l’uomo moderno, perché significa rendersi conto del fatto che 2000 anni fa gli animi umani avevano una possibilità d’influsso reciproco di cui noi non abbiamo la più pallida idea. In altre parole, la presenza stessa del Logos che inabita il corpo di Gesù di Nazaret crea, attraverso i gesti, la voce, il camminare e l’operare corporei, un fulcro che catalizza verso Terra tutte le forze di saggezza e amore che sono squadernate in tutto il sistema solare, per volgerle verso gli uomini. Attraverso Gesù di Nazaret il Cristo esprime e opera nell’umanità incarnando in sé tutti gli impulsi evolutivi della totalità del sistema planetario. Il suo operare è un oroscopo vivente per tutta l’umanità.

L’oroscopo è la composizione di forze dei sette pianeti tradizionali, del Sole, della Luna e della Terra che forgiano l’essere umano alla sua nascita; è talmente potente, è talmente strutturante tutti i sostrati karmici, che noi consideriamo l’oroscopo soltanto alla nascita. Immaginiamo invece un oroscopo permanente, un operare permanente di tutte le forze planetarie, la compaginazione organica, saggia e amante di tutti gli esseri spirituali delle Gerarchie che hanno a che fare col sistema solare e che attraverso il Gesù di Nazaret si rivolgono verso l’umanità: questo è il concetto del Cristo. In ogni parola e in ogni opera del Cristo si esprime di volta in volta l’oroscopo della Terra e dell’umanità intera. Ecco perché dicevo che tutto ciò che è nel vangelo di Giovanni è archetipico. Tutti fenomeni primigeni dell’umano, direbbe Goethe. Non si può immaginare un testo più fecondo di questo, a tutti i livelli, perché ognuno può approfondirlo e concretizzarlo a seconda del suo campo d’azione.

Nel tempio, grazie a queste forze concentrate nel Cristo, alcune persone a Gerusalemme fecero l’esperienza reale di una presenza del tutto nuova, così travolgente e universale, che travalicava talmente ciò che era parziale nell’ebraismo, da poterla esprimere solo in immagini di purificazione dell’altro tempio – di cui quello di Gerusalemme è l’immagine –: il corpo umano. Il tempio di tutti i templi è il corpo umano perché è il ricettacolo dell’Io, dello spirito umano: dentro vi abita un essere divino. La sua purificazione consiste nel cacciar fuori tutti gli impulsi animali (i buoi rappresentano le forze degli arti, le pecore le forze del cuore e le colombe rappresentano le forze di pensiero): o essere umano, dice il Cristo, se tu vuoi umanizzarti sempre di più, devi fare in modo che non sia più la natura istintiva animale a condurre il tuo essere, ma devi trasformare questo istinto nella libertà del tuo spirito. Ecco la purificazione del tempio: l’immane cammino di evoluzione, che abbraccia secoli e millenni, dove l’uomo trasforma la sua istintualità animale di partenza – che impulsa la sua volontà, il suo sentire e il suo pensare – in pensieri, sentimenti e atti volitivi veramente umani, sempre più intrisi di verità e amore, di creatività. E difatti nell’Apocalisse, un altro testo di Giovanni-Lazzaro – vedremo nell’undicesimo capitolo che Lazzaro viene risvegliato dal Cristo proprio col compito bellissimo di conferire all’umanità la sapienza, la Sofìa che è racchiusa in quello che noi chiamiamo il vangelo di Giovanni – descrive l’abisso dell’evoluzione nei termini della Bestia, che è la mancata purificazione del tempio. L’evoluzione in negativo, che dev’essere possibile altrimenti non saremmo liberi, consiste nell’omettere continuamente l’umanizzazione di ciò che in noi è animale: così facendo l’uomo ricade al gradino animale, la cui caratteristica è l’assenza della potenzialità di libertà. L’essenza dell’umano è la potenzialità di libertà che, se non viene esercitata, si disfa. Nella purificazione le forze di natura, le forze animali nell’uomo, vengono messe fuori, diventano cioè strumento per lo spirito umano. Il concetto di “fuori” è quello di strumento, mentre il “dentro” è l’essenza. Se l’uomo mette fuori di sé tutto ciò che è natura e se ne avvale senza lasciarsene forgiare, nella sua interiorità c’è sempre di più un cammino di libertà.

Centrale nel terzo capitolo è l’incontro fra il Cristo e Nicodemo: ho sottolineato la bellissima polarità (il vangelo di Giovanni è pieno di polarità) tra l’incontro con Nicodemo a mezzanotte e quello con la samaritana a mezzogiorno. Il concetto del Sole a mezzanotte è l’incontro spirituale col Cristo – il Cristo è sempre il Sole: qui non dobbiamo avere patemi d’animo di diventar pagani: nel vangelo di Giovanni è scontato che nel Cristo si esprimano tutte le forze spirituali del sistema solare. Durante la notte il Sole fisico si occulta e, nelle scuole misteriche prima del Cristo, uno dei gradini fondamentali dell’iniziazione era il vedere l’essere spirituale del Sole a mezzanotte. Durante il giorno c’è l’esperienza del Sole in quanto manifestazione delle cose – il Sole a mezzogiorno è l’esperienza di percezione e concetto – perché il Sole squaderna tutte le cose rendendocele percepibili. Il Verbo si è fatto carne nelle percezioni, affinché noi ritrasformiamo le percezioni in Verbo divino, attraverso i nostri concetti. L’incontro con l’Essere solare a mezzanotte è invece l’incontro col Cristo spiritualmente presente dentro ogni uomo: come il Sole a mezzogiorno ci offre le percezioni affinché noi ne troviamo i concetti – ed è questo il cammino conoscitivo dell’uomo –, così l’incontro col Sole a mezzanotte è il cammino morale, perché siamo portati a “rinascere dall’alto”, a trovare le intuizioni morali per l’agire nel mondo. A mezzogiorno le percezioni per conoscere il mondo tramite le intuizioni conoscitive; a mezzanotte le intuizioni morali, in ognuno diverse, per agire nel mondo in modo unico per ciascuno.

Abbiamo poi visto tutta la testimonianza del Battista, il primo essere umano che percepisce il Logos incarnato. Senza di lui, che l’ha additato, sarebbe stato impossibile l’evento del Cristo; sarebbe stato per lo meno difficilissimo per gli uomini di allora cogliere che cosa ci fosse di così speciale in quel Gesù di Nazaret. La missione del Battista era quella di riconoscere il Messia in un uomo che sarebbe venuto a battezzarsi e sul quale una colomba sarebbe discesa, permanendo. Ecco l’agnello di Dio.

E poi eravamo giunti alla samaritana. Nell’incontro con Nicodemo è centrale la bellissima frase del nascere dall’alto, del rinascere sempre dall’Io superiore che è “il Cristo in me”. Apro una piccola parentesi per intenderci sulla terminologia: l’Io vero, l’Io superiore di ognuno di noi non è diverso dall’interiorizza-zione del Cristo, da ciò che S. Paolo chiama “il Cristo in me”. Con l’espressione Io superiore intendiamo la potenzialità evolutiva dello spirito di ognuno di noi, mentre il Cristo è la totalità realizzata e individualizzata di ciò che ognuno di noi può divenire.

Nell’episodio della samaritana centrale è invece l’immagine dell’acqua viva. La samaritana conosce la fenomenologia dell’acqua fisica, in particolare quella del pozzo di Giacobbe da cui sta andando ad attingere, e il Cristo usa quest’immagine che le è familiare per farla entrare nei misteri di una altro tipo di acqua. Il concetto è: tu, anima umana, conosci un’acqua morta, ma c’è un’acqua che è viva e se la scopri non ti farà aver più sete. È come l’acqua sorgiva, molto più vitale di quella di pozzo. Quest’acqua vivissima è il pensare gestito in proprio da ognuno, e la sorgente è l’Io di ognuno di noi. Torniamo dunque al mistero dell’Io. Il Cristo è l’essere dell’Io: per questo il nome conoscitivo del Cristo è Logos (Λογος), mentre il nome morale è Io Sono, Εγω ειμι, (Egò eimì), Io sono un Io. La sorgente che genera il pensare è dunque l’Io. Nella misura in cui faccio l’esperienza di essere un Io che produce pensieri, che artisticamente li crea, faccio l’esperienza di un’acqua che mi vivifica sempre e che sempre è a mia disposizione. Vi dicevo che, potete girare e rigirare quanto volete, ma il significato fondamentale, più vasto e calzante di questa acqua, è il pensare. Non tanto il pensiero, quanto l’attività del pensare; il pensiero è il risultato della facoltà del pensare, che è la sorgente che produce pensieri, è l’Io umano in quanto pensante, in quanto creato a immagine divina, capace di far sprigionare in sé il significato di tutte le cose.

Anche se la samaritana (l’anima umana) capisce poco e niente, non importa: ha a disposizione secoli e millenni per capire. Le parole del Cristo racchiuse nei vangeli sono dunque come semi che lavorano, e più ci meditiamo, più li viviamo, più portano frutto in modi e tempi che noi non ci sogniamo neanche. Ciò che convince la samaritana non è ciò che ha capito, ma ciò che ha vissuto col Cristo; l’esperienza di questo incontro deve averle fatto così bene da poter dire: ma è proprio questo che io cerco. E va a chiamare i compaesani: venite, venite, c’è uno che mi ha detto cose mie personalissime; venite anche voi a sentire! Il Cristo da un lato rappresenta l’universalmente umano, dall’altro rappresenta ciò che è unico, irripetibile e specifico in ognuno (mostra alla samaritana di conoscere la faccenda dei suoi cinque mariti, ricordate?). La samaritana si rende conto che il Cristo le porta incontro una conoscenza ben diversa da quella dei rabbini della tradizione, cioè una conoscenza del suo essere individuale che nemmeno lei stessa ha. Fare l’esperienza del Cristo è incontrare qualcuno del quale si può dire: mi conosce meglio di quanto mi conosca io. E nella misura in cui, attraverso l’incontro col Cristo, mi conosco meglio di prima, vado avanti. Per rendere migliore la conoscenza di me, e quindi non fermarmi evolutivamente, ho bisogno di qualcuno che mi conosca profondamente e mi comunichi questa conoscenza. L’Io superiore è colui che mi conosce meglio di me – quindi il Cristo in me conosce me meglio del mio io normale (o inferiore). Nella mia coscienza ordinaria io mi conosco poco mentre nella mia coscienza cristica, superiore, mi conosco molto, molto più profondamente. E questo è di per sé convincente.

Eravamo arrivati al versetto 23, da cui ripartiremo domani mattina, dove il Cristo dice: “Viene l’ora evolutiva, ed è adesso, in cui coloro che adorano con veracità e schiettezza interiore il divino, adoreranno il Padre in spirito e verità”. Questo in risposta alla domanda della samaritana su quale fosse il luogo vero per adorare Dio, antica diatriba fra samaritani e giudei: Gerusalemme o il monte Garizim? Il Cristo dice: adesso viene l’ora, ed è ora che te ne rendi conto se vuoi andare avanti nell’evoluzione, in cui lo spirito s’incontra “in spirito e verità”.

4,24 “Perché Dio è spirito e i suoi adoratori non possono che adorarlo in spirito e verità.” Perché non dice che Dio è spirito e verità, ma dice che è spirito e basta? Dio è πνευμα (pnèuma) spirito, e i veri adoratori hanno a disposizione due strumenti: uno è lo spirito come potenzialità evolutiva, l’altro è la verità, che però in loro (in noi) non è una cosa sola con lo spirito. Lo spirito divino è la totalità della verità, mentre noi siamo in evoluzione verso il divino perché abbiamo ricevuto lo spirito come facoltà divina: la nostra evoluzione consiste nel poter riempire sempre più il nostro spirito di verità. Ecco il secondo strumento degli adoratori veraci. Lo spirito umano è la facoltà divina, che gli è stata data, mentre l’attuazione di questa facoltà consiste nel cercare e incamerare in essa sempre più verità. Lo spirito divino non cerca la verità: è verità. L’uomo, scintilla dello spirito divino, cerca la verità e questo processo è l’evoluzione. Pensate che queste affermazioni del vangelo di Giovanni siano vecchie di duemila anni? Neanche per sogno! Ci precedono di millenni, perché rappresentano la totalità dell’evoluzione. Si può davvero passare tutta una vita, ma proprio senza sentimentalismi, su questo tipo di testi, perché sono una continua esperienza di conoscenza oggettiva. È lo spirito che cammina sempre di più verso la verità che ci conduce nel divino. Se mi permettete una piccola glossa autobiografica, sincera e molto sentita, posso dire che la scienza dello spirito di Rudolf Steiner è stata per me l’esperienza continua dello spirito umano che si apre alla verità e gioisce della verità. È l’avveramento più pieno che io conosca della promessa del Cristo: “Viene l’ora, ed è adesso, in cui i veraci adoratori del Padre, dello spirito divino, lo adoreranno in spirito e verità”.

27 dicembre, mattina

Torniamo indietro al v.14 di questo quarto capitolo, dove si parla dell’acqua vivente che io ho riferito al pensare. Quando qui si parla di pensare, s’intende un pensare che è al contempo la profondità ultima dell’amore. Pensare le cose, gli eventi, le creature, pensare gli altri nel loro vero essere, significa diventare l’altro conoscendolo e pensandolo nel suo essere più profondo. Quindi la conoscenza è la forma più profonda di amore che esista. Ogni altro tipo di amore che non si trasformi in pura conoscenza spirituale dell’essere che si vuole amare, resta ancora in se stesso; non si trasforma completamente, come spirito – e spirito siamo – nell’essere da conoscere, ma resta ancora presso di sé, in un certo senso. Questo testo non dice queste cose, ma le presuppone. In tempi in cui noi siamo abituati a pensare l’amore e il pensiero come fossero una polarità, è importante sottolinearlo. Amore e pensiero sono una polarità solo al livello superficiale: man mano che si approfondiscono diventano una cosa sola. Qui non si parla di pensiero astratto, che resta fuori dall’essere che si vuol conoscere.

Potremmo anche chiederci: la Divinità come crea gli esseri? Pensandoli. Tutti gli esseri sono pensieri divini talmente intrisi di amore che vengono all’essere. Pensare l’essenza di un essere significa confermarne l’esistenza, significa dire: quant’è bello, quant’è vero. Confermare l’esistenza è la forma più profonda dell’amore, ma non posso amare senza trasformarmi spiritualmente. Questa esperienza noi la facciamo per approssimazioni: quando dico – è purtroppo un po’ raro, ma capita – “mi sento capito da te”, quello è il momento in cui mi sento più amato. In quel momento ho l’impressione che tu ti stia trasformando, proprio mettendoti nei miei panni, che tu stia entrando nel mio modo di essere per farti un’idea di come si esiste essendo me. Questo è l’amore. È un tipo di pensiero che è al contempo intento di identificazione con l’altro, amore dunque, però senza perdersi, senza annullarsi. Identificarsi con l’altro perdendovisi è più facile, ma non è amore.

“Colui che vorrà bere dall’acqua che l’esperienza pensante dell’Io gli darà, non avrà più sete, nel secolo presente e nel secolo futuro (di fase evolutiva in fase evolutiva): l’acqua che io gli darò sarà in lui esperienza di rigenerazione quotidiana, genererà in lui una sorgente di acqua che zampilla nella vita eterna”. In questo senso c’è amore nel conoscere: è come nel latino capio, il verbo che indica il capire qualcosa. Sono come correnti pensanti vitali che noi mandiamo fuori verso la cosa che vogliamo capire, e queste correnti avvolgono, prendono e comprendono ciò che noi capiamo. Sono come mani viventi che tastano l’oggetto del pensiero da varie parti e ne afferrano i contorni e lo comprendono. Per la percezione le lingue antiche usano sempre il video e per il conoscere il capio. Com-prendere. Afferrare. La facoltà del pensare non viene dal di fuori: ascoltare me, per voi, è come uno stimolo dal di fuori perché ciascuno attivi la propria sorgente dall’interno. Solo allora c’è vera conoscenza. Il pensare, l’acqua che zampilla, esce fuori dall’Io e va verso le cose e verso gli altri nella vita eterna, cioè va a cogliere ciò che è eterno in ogni essere, la sua essenza, ciò che la Divinità ha pensato quando l’ha creato. Il v.14 è da un lato la descrizione del pensare puro e al contempo è la descrizione dell’amore puro che diventa spiritualmente, in tutto e per tutto, l’essere conosciuto, l’essere amato.

La samaritana aveva interpellato il Cristo circa il luogo più propizio per comunicare con la Divinità (Gerusalemme o Garizim). La grande svolta che le forze del Logos portano, forze di pensiero e di amore, è proprio l’affrancamento dello spirito umano da condizioni di spazio e di tempo. Il che significa che prima di Cristo l’uomo aveva bisogno dell’aiuto, dell’accompagnamento dell’elemento spazio-temporale per congiungersi con la Divinità. Per esempio c’erano modi di incontrare la Divinità possibili solo in inverno, altri solo in estate. Il ciclo delle feste annuali era importantissimo, e vedremo nel vangelo di Giovanni che l’operare e le parole del Cristo, i segni che compie, si inseriscono nelle feste dell’anno ebraico, e quindi tengono conto del tempo. Quanto allo spazio, pensiamo a Leopardi che solo qualche tempo fa scriveva; “quanto caro mi fu quest’ermo colle”: Steiner conferma che Leopardi, simile a Nietzsche, era un uomo molto dipendente nella sua vena poetica da certe forze di natura, da esseri naturali che in alcuni luoghi si esprimevano molto più fortemente che in altri: sull’ermo colle la costellazione delle forze naturali gli consentiva una vena ispirativa di tutt’altra natura, forse la sorgente zampillava più copiosa che non altrove. L’inabitazione del Cristo nell’essere umano significa la capacità di diventare sempre più liberi dallo spazio (monte Garizim o Gerusalemme) e dal tempo, attraverso questa sorgente che non viene più dalla natura ma dall’interno dell’Io. Anima umana, viene l’ora, ed è ora, in cui l’uomo acquista la capacità di congiungersi col divino sempre e dappertutto. Perché il divino è spirito e ha creato e voluto l’uomo come organo dello spirito e della verità. Il Padre ha creato l’umanità dandole la potenzialità di diventare indipendente dallo spazio e dal tempo, per essere sovrana nel suo pensiero e nel suo amore nel mondo spirituale. In altre parole, l’accesso al mondo spirituale è dato ad ogni essere umano in quanto spirito, dovunque si trovi e in qualsiasi tempo. Nel vangelo ci sono botte una dietro l’altra, affermazioni che valgono per tutta l’evoluzione: avere un testo del genere nel mondo è un aiuto grandioso.

Il Padre cerca da parecchi millenni questi adoratori, ma la sua ricerca dura fino alla fine, perché noi abbiamo bisogno di tutta l’evoluzione per diventare adoratori in spirito e verità. Quindi niente di male se in duemila anni abbiamo fatto sì e no due passi. Due passettini. Per esempio, senza polemica, il cristianesimo petrino è vissuto più in riferimento a un luogo (Roma) e a un tempo che non al puro spirito. Arrivare al punto, nel 1870, di proclamare il dogma dell’infallibilità del papa, è stato proprio un grosso rimangiarsi questa affermazione del vangelo. Ma queste sono controforze necessarie all’evoluzione, perché è l’individuo che viene chiamato a riferirsi allo spirito, non le istituzioni. Il Cristo dice queste parole sull’acqua vivente a una singola anima umana, non ad un gruppo. Quindi, senza patemi d’animo, possiamo dirci che siamo appena all’inizio: il senso della venuta del Logos è di aprire a ognuno l’accesso allo spirituale, all’essere eterno del mondo e degli uomini, sempre e dappertutto. Da ogni passo del vangelo di Giovanni si potrebbe fare un passaggio immediato – non un salto mortale, ma vitale! – ai contenuti de La filosofia della libertà di Steiner.

“Dio è spirito” (queste frasi lapidarie sono belle in greco: πνευμα ο θεος, pnèuma o theòs), e coloro che lo venerano προσκυνουντας (proskynùntas) – προσκυνησις (proskùnesis) era la genuflessione, la forma di venerazione che si esprimeva anche verso i poteri del mondo che rappresentavano, o avrebbero dovuto rappresentare, la Divinità – devono farlo in spirito e verità. Devono: non c’è altro modo. È il dovere assoluto dell’evoluzione, ciò che dobbiamo a noi stessi: diventare sempre di più uno spirito ricercando la verità, trasformandoci nella verità di tutte le creature. C’è un respiro in questo testo: dopo ogni scossone così assoluto sulle leggi evolutive, si lascia spazio alla samaritana che non ha capito nulla.

4,25 “Gli rispose la donna: So che il Messia viene, quello chiamato l’Unto (il Cristo); quando lui verrà ci dirà tutto.”

In tutte le culture e religioni c’era l’affermazione che l’Essere solare se n’era andato a fare una passeggiata nel cosmo, prendendo così le distanze dalla Terra e dall’umanità per dare all’umanità stessa la possibilità di respirare un pochino senza di lui. Che significa? Che ci ha lasciato godere un po’ d’egoismo! Non si può costruire amore senza egoismo: la prima fase dell’amore è l’amore di sé, non si scappa. Nessuno arriva ad amare l’altro se prima non s’è costituito come un’unità autonoma. La fase egoica ci vuole: il problema è che si resta lì e non si va alla seconda fase dell’amore. Il senso dell’egoismo è di concentrarsi sulla propria evoluzione, di costituirsi come persona, come individuo autonomo nel pensare e nel volere: è una libertà negativa, un “liberarsi da” – un processo che, per esempio, si ripete sempre nella pubertà. Il Cristo, che è l’Essere dell’Amore, non poteva gestire in proprio questa fase perché il suo compito è di darci la perfezione dell’amore: allora s’è ritirato sul Sole e ha lasciato la conduzione di questa fase evolutiva umana a un essere che è fatto apposta per generare negli uomini l’egoismo; la Bibbia ce lo presenta nell’immagine del serpente: “I vostri occhi si apriranno e conoscerete il bene e il male e diventerete come Dio”. Pensate voi che si potesse resistere? Sarebbe ora che cominciassimo a ringraziare Eva, che se l’è presa, la mela; il fatto di averla stramaledetta per millenni, significa che non abbiamo capito nulla. Cogliere la mela è il presupposto necessario e insindacabile per diventare autonomi nel pensare. Steiner chiama questo essere spirituale, che conduce tuttora le vicende dell’egoismo (prima fase negativa dell’amore) Lucifero: perché porta la luce della conoscenza. Il nome Lucifero significa proprio: portatore di luce. La luce della conoscenza fa bene o male all’uomo? Tutt’e due le cose, perché lo rende libero: l’uomo può usare la conoscenza sia per amare sia per manipolare gli altri. Però senza conoscenza non si può fare né l’uno né l’altro.

Nelle scuole iniziatiche si sapeva che c’era la grande promessa, la grande profezia: l’Essere del Sole sarebbe tornato. Sta già ritornando, dicevano i piccoli unti – sacerdoti, re e profeti – e l’Essere solare sarà il Grande Unto. Il concetto del Grande Unto, del Messia (ne abbiamo parlato durante il precedente incontro) è quello della totalità delle forze solari. Chi ha fatto del Messia il Grande Unto è il Padre dei cieli, la cui immagine di eternità è nel 12 delle stelle fisse, nello Zodiaco. Possiamo perciò immaginare lo Zodiaco come presenza visibile del Padre eterno dei cieli, e il sistema solare come il Grande Unto che il Padre dei cieli manda sulla Terra per ungerla con tutta l’umanità e trasformarla in Sole. Ungerla di forze solari di pensiero e di amore: “Logos” sono le forze del pensare del Grande Unto, “Io sono un Io” sono le sue forze dell’amore, gli impulsi volitivi autonomi. Ci sono sette qualificazioni principali dell’Io Sono, lo vedremo. “Io sono il pane della vita”: fare l’esperienza dell’Io Sono significa nutrirsi quotidianamente dei pensieri e delle volizioni dell’Io vero in noi; “Io sono la porta” vuol dire che l’esperienza dell’Io Sono è un’esperienza di soglia, che il Cristo è il Grande Guardiano della soglia; “Io sono la luce del mondo”: l’esperienza dell’Io Sono consiste nell’accendere in noi la luce della conoscenza. Eccetera: li vedremo tutti e sette nel corso del testo: un settenario delle qualifiche dell’Io Sono, sette sacramenti che rendono sacro l’uomo che si intride delle forze del Cristo.

So che il Messia verrà, dice la samaritana: è abituata a credere alla tradizione perché non è ancora sorta in lei la capacità di giudicare in proprio; ma quale sarà la sua rappresentazione del Messia? “Quando lui verrà ci dirà tutto”: l’opposto, dunque, della realtà del Cristo. Il Messia non può che venire interiormente in ciascuno, perché altrimenti non sarebbe l’Essere dell’Amore e ci manterrebbe eternamente dipendenti da lui: invece l’anima umana caduta, la samaritana, aspetta un Messia che dal di fuori le dirà tutto quello che c’è da sapere e da fare.. Il concetto del Messia che arriva è la chiamata a diventare interiormente attivi nel pensiero e nell’amore, ma il punto di partenza in cui ci trova è la totale passività sia nel pensiero che nell’azione. L’anima umana non si rende conto che se immagina un Messia che le dirà il da farsi senza che lei debba capire nulla con le sue forze, non avrà nemmeno modo di riconoscerlo. Avrà bisogno di qualcuno che le dica: è lui; e poi avrà bisogno di qualcun altro che le dica: guarda che quello che ti ha detto che è lui, ha detto il giusto: è proprio lui; e poi avrà bisogno di un altro ancora che le dica: guarda che ciò che t’ha detto quello, e t’ha confermato quell’altro che è stato confermato da quell’altro, è vero... Non se ne esce più. La samaritana ha il Cristo davanti e non se ne accorge, perché i passi dell’evoluzione si fanno uno dopo l’altro. Nell’evoluzione non si vola: si cammina; con velocità varia, certo, ma è sempre un camminare. Posto di fronte a quello che la samaritana gli dice, cosa possiamo immaginare che il Cristo risponda? Pensiamo che rinunci? No, getta un seme. Il versetto che segue è una delle cose più belle del vangelo.

4,26 “Dice a lei Gesù: l’Io Sono (Jahvè) è colui che balbetta a te.”

La risposta del Cristo – che nel vangelo di Giovanni è chiamato quasi sempre Gesù per sottolineare l’incarnazione del Verbo di fronte alla gnosi che la negava – è paragonabile alla risposta data alla donna, a sua madre, a Cana (τι εμοι και σοι γυναι, ti emòi kài sòi, gùnai, c’è qualcosa tra me e te, o donna): Εγω ειμι οn λαλων σοι (Egò eimì o lalòn sòi), Io sono l’Essere dell’Io che balbetta a te. Non dimentichiamo che di fronte al Cristo c’è una donna semplice della Samaria: il vangelo di Giovanni, oltre alla prospettiva cosmica, ha sempre contemporaneamente anche la prospettiva incarnatoria, dichiarata nel Prologo. C’è quindi anche la dimensione reale di questa donna in carne e ossa che di greco non sa nulla e quindi è chiaro che il Cristo non parla in greco, ma in ebraico: non le dice: Εγω ειμι, ma הוהי Jah-vè, che è la dicitura ebraica per Io Sono. Che esperienza fa la samaritana? I samaritani avevano in comune coi giudei il Pentateuco, quindi anche per loro Javhè Elohìm è il creatore dell’umanità e di tutte le creature della Terra. Il Cristo le dice: “Jah-vè è colui che balbetta a te”, al tuo cuore. Ricordate la differenza tra λεγειν (lèghein) parlare, il parlare razionale, e λαλειν (lalèin), che è la lallazione, il balbettare del bambino? L’Essere solare, il Logos, la perfezione dei pensieri divini, incontra l’anima umana non per schiacciarla con la sua sapienza: va dove lei si trova e la conduce passo per passo, balbettando con lei. L’Io Sono, le dice, è colui che ti prende dove sei e parla con te un linguaggio che ti è accessibile per condurti piano piano verso le forze del Logos. Oggi potremmo anche dire: verso una scienza spirituale. Si comincia piano piano, dall’inizio.

Qui finisce il colloquio con la samaritana: ora deve lavorare in lei quello che il Cristo le ha detto. Nel frattempo ritornano i dodici apostoli, che erano andati a comprare da mangiare. Proprio in base al fatto che tornano col cibo, sorge qui una bellissima polarità tra l’acqua e il cibo. Detto come enunciato, l’acqua è il pensiero e il cibo sono gli impulsi volitivi. Il cibo per essenza ha a che fare con gli impulsi volitivi perché in base al metabolismo noi possiamo muoverci e agire; nell’acqua che sgorga e scorre sono invece racchiusi i misteri della conoscenza. La polarità tra acqua e cibo è la polarità tra pensare e volere. Ricorderete che nella mitologia greca si parla del nutrimento degli dèi: era costituito da nettare (una bevanda) e ambrosia (un cibo: da cui βρωτος, brotòs, il pane). È la stessa polarità. Il volere, e quindi l’agire, sgorga dal pensare: perciò prima incontriamo i misteri del pensare e adesso, coi discepoli, i misteri della volontà

4,27 “E in quel mentre vennero i suoi discepoli e si meravigliarono che parlasse con una donna. Nessuno però gli chiede: cosa cerchi? oppure: che hai da chiacchierare con lei?”

Επι τουτο (epì tùto): “in quel mentre”. Questa semplice locuzione sottolinea che le due cose avvengono contemporaneamente: ci nutriamo contemporaneamente di cibo e acqua, perché nessun cibo è senza acqua; non si tratta di due realtà separate. Il testo è preciso fin nelle preposizioni. I discepoli si meravigliano: niente di male, i greci dicevano che la conoscenza nasce dal meravigliarsi. Non importa in base a che cosa si accenda la meraviglia: l’importante è che si accenda, perché è l’inizio dell’eros conoscitivo. Si meravigliano che lui balbetti, parli in modo così umano, così semplicistico: con loro parlava in modo più sostenuto! Quindi il testo non dice soltanto che i discepoli si meravigliano perché trovano il Cristo a parlare con una donna, ma anche perché le parla in modo particolare (λαλειν significa anche “chiacchierare”).

4,28 “Infatti la donna aveva lasciato la brocca e se n’era andata verso la cittadina e diceva agli uomini:”

4,29 “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutte le cose che io ho fatto. Che non sia lui il Cristo?”

È interessante vedere come la samaritana descrive il Cristo: per lei è un fenomeno mai visto, mai udito! Uno che non ha saputo da bocca umana le faccende intime e personali di un’altra persona, e gliele va a dire! Che non sia lui il Cristo? Ne ha fatta di strada la samaritana! In base a quello che il Cristo le ha detto, le è rimasta la pulce nell’orecchio. Qualcosa del Cristo l’ha raggiunta, ma non tanto in base alle cose dette, quanto all’esperienza che lei ha fatto trovandosi esposta alle sue forze. La samaritana ha avuto modo di staccarsi per tornare alla sua cittadina; allontanandosi guarda a una specie di interiorizzazione dell’evento e si dice: ci hanno sempre parlato del Messia, ma quando verrà potranno mai gli esseri umani fare un’esperienza più bella e accattivante di quella che ho fatto io?

4,30 “Uscirono dalla città e andarono verso di lui.”

4,31 “Nel frattempo i discepoli lo interrogarono dicendo: Rabbì, mangia.”

Εν τω μεταξυ (en to metaxỳ), “nel frattempo”, cioè fra l’andata e il ritorno della samaritana: l’andata la fa da sola, il ritorno con tutto il paese! C’è anche una notazione spaziale, in questo avverbio greco, non solo temporale; come dire: nel frattempo e nel fraspazio (!) i discepoli interrogarono Gesù. Ηρωτων (erotòn) “interrogarono”, è il verbo ερωταω (erotào) che ha la parola eros all’interno, l’eros conoscitivo. In realtà non è una domanda, questa dei discepoli, ma è come se lo fosse: l’hanno visto parlare con una donna, cosa pericolosa a quei tempi, addirittura con una straniera, avrebbero una gran voglia di chiedergli: “Ma insomma, spiegaci un po’, come ti permetti?”, ma non trovano il coraggio e allora per cavarsi d’impaccio gli dicono: Rabbì, mangia!

4,32 “Egli disse a loro: Io ho un cibo da mangiare che voi non conoscete.”

Io posseggo, fa parte di me, una masticazione di cibo (βρωσιν, bròsin è proprio macinare cibo) che voi non conoscete: è un’affermazione sullo stato di caduta dell’umanità e il senso di questa caduta è di venire a conoscere il senso del Logos. C’è un tipo di nutrizione che l’essere umano, al punto infimo di caduta, non conosce, e l’incontro col Cristo è fatto apposta per portarlo alla sua coscienza.

4,33 “I discepoli si dissero tra loro: Che forse qualcuno gli ha portato da mangiare?”

Magari interiormente si dicevano: ma guarda un po’, ci ha mandato fino al paese, e lui se l’è già fatto dare il cibo, magari da quella donna. Ma mica glielo domandano direttamente: no, bofonchiano fra loro.

4,34 “Gesù dice a loro: Il mio cibo è di fare la volontà di colui che mi ha mandato, e di compiere la sua opera.”

Il cibo dell’Io, a partire dalla svolta e per tutto il futuro dell’evoluzione (per questo il verbo è al futuro: ποιησω, poièso) e di fare la volontà del Padre. E la volontà del Padre è la transustanziazione nelle forze del Logos di tutta la creazione divenuta materiale. La volontà del Padre è la rispiritualizzazione di tutta la materia, e il Logos è venuto per mettere a disposizione di ogni essere umano tutte le forze di transustanziazione della creazione. Dove fisiologicamente viene transustanziata la materia? Mangiando.

INTERVENTO: Appaiono un po’ materialisti, questi discepoli, troppo fissati sulla materia...

ARCHIATI: Io non ho conosciuto – e intendo nel mondo di coloro che hanno non solo bevuto, ma mangiato a cucchiaiate la scienza dello spirito di Steiner – quasi nessuno che abbia capito che cosa avviene quando si mangia. Siamo tutti all’inizio, perciò.

I. Ma i discepoli in un certo senso sono stati iniziati dal Cristo.

A. Ma no! All’improvviso diventano iniziati! E poi, ricorderai che quando le cose si complicheranno spariranno tutti. Dove sono gli iniziati?

I. Ma possibile che stando insieme al Cristo da tanto tempo non capiscano che cosa voglia dire un cibo non materiale?

A. Piano, piano. Quello che tu dici dimostra che ancora non ci siamo: questo è interessante. Facciamo un discorso fisiologico-medico per cercare di venire al nocciolo della questione. Il materialismo, lo stato di caduta della coscienza umana nel quale si trovano non solo la samaritana ma anche gli apostoli e tutti noi (altrimenti non avremmo a disposizione millenni per continuare a crescere), ci porta a pensare che il nostro corpo venga costruito, materialmente costruito, da ciò che mangiamo. Questa è un’illusione assoluta e fisiologicamente è un errore. E la scienza dovrà imparare, nel corso dell’evoluzione, che ha sgarrato, e in modo madornale, in fatto di processi nutritivi Le cose stanno in tutt’altro modo: non metafisicamente, ma proprio fisiologicamente.

Il corpo umano è compaginato di due elementi fondamentali: la materia e le forze. Naturalmente semplifico, perché se prendessimo tutti e quattro i livelli del minerale-materiale, del vitale, dell’animico e dello spirituale le cose si complicherebbero. Quindi prendiamo solo le due parti corporali: il corpo fisico e il corpo vitale (o eterico). Il corpo fisico si esprime nella materia – pensate ad Aristotele che distingue tra materia e forma – e tutto ciò che è extra materiale (cioè “non si vede”) ma è essenziale per le vicende della materia, chiamiamolo forza. L’interazione fra questi due elementi – la materia e le forze che le varie materie ingenerano – ci dà il corpo. Ora, arriva l’affermazione fondamentale che questo testo fa e che, per quanto io sappia, è l’unico che parli in modo così scientifico prima della scienza dello spirito di Steiner: il nutrimento dell’uomo viene dal cielo. Steiner è il primo che si riallaccia a questi misteri del vangelo di Giovanni; ecco perché, se si vogliono affrontare i vangeli al livello del pensiero, quello di Giovanni è di gran lunga il più fecondo. Allora, ciò che noi mangiamo, i cibi in quanto contenenti materia fisica, non costruiscono nulla della materia del nostro corpo: tutto ciò che è materia nei cibi viene estromesso dal corpo. Il senso del mangiare non è ingurgitare materia ma è che, nel processo di bruciare e di estromettere ciò che non è bruciabile, si generano in noi delle forze. E soltanto grazie al fatto che queste forze vengono generate, grazie al processo del metabolismo che è fondamentalmente un processo di combustione che annulla la materia del cibo (e quella che non si annulla viene estromessa) e la transustanzia in forze, il nostro corpo ha la possibilità di accogliere materia dall’eterico del cosmo. Materia: in modi finissimi, ma reali. Sono quattro i livelli fondamentali dell’eterico che si precipita, in materia, nel nostro corpo: il vivente del calore, il vivente della luce, il vivente del chimismo cosmico e il vivente delle unità vitali del cosmo; tutto questo viene catalizzato dalle forze che il processo metabolico genera e si precipita come materia. Nel sesto capitolo che ci aspetta per ben dodici volte ricorre la dicitura: il pane che scende dal cielo.

Adesso vi complico la cosa: dei tre sistemi del corpo umano (sistema neurosensoriale, sistema respiratorio-circolatorio e sistema metabolico) ce n’è uno che si nutre di materia terrestre ed è il sistema neuro-sensoriale. In esso è possibile avere dei sedimenti di materia terrestre e perciò è l’unico sistema che sa pensare soltanto ciò che è morto. Uno degli elementi della caduta, necessario per l’evoluzione, è che il corpo umano ha cominciato, ma solo nel sistema nervoso, a nutrirsi di materia terrestre per dare il sostrato materiale, fisiologico, al pensiero razionale morto (non creativo). Questo pensiero, pensando solo il morto, pensa ciò che s’è frammentato, ciò che separa gli esseri e che costituisce il presupposto indispensabile per sentirsi un Io autonomo e indipendente. Lascio a voi immaginare che cosa significhi in campo di terapia, di medicina, non avere la più pallida idea di queste realtà fondamentali dell’essere umano: immaginate quante terapie sono proprio del tutto fuori strada. Ed è beatificante, permettetemi questa parola, scoprire che nel vangelo di Giovanni sono espresse in modo semplice, pulito, chiaro e scientifico queste cose: il mio cibo è fare la volontà del Padre dei cieli, e questo nutre e forma il mio corpo nella sua materialità. È un cibo che l’uomo caduto non conosce. Questo cibo la scienza moderna materialistica – che è una delle espressioni della caduta più fondamentali che ci siano – non lo conosce. È un rimprovero che il Cristo fa? No. Dice: non potete conoscerlo perché il senso della caduta è di imparare a conoscerlo. Come potremmo imparare liberamente se già conoscessimo? È un aiuto per l’autoconoscenza quello che il Cristo dà: l’uomo comincia a porsi queste domande solo se si rende conto di non conoscere; nella scienza dello spirito di Steiner si trova un inizio di questo tipo di conoscenza. Noi non sappiamo da dove si costruisca la materia del corpo fisico umano; parlare di “sostanza materiale” è una contraddizione: sostanziale è solo lo spirito. Ciò che noi chiamiamo materia vuol dire: non sostanziale. La materia è lo stato transeunte dello spirito sulla Terra, perché solo nella corporeità della Terra può nascere un corpo umano.

Facciamo una pausa e dopo riprendiamo con la conversazione.

*******

Prima di entrare in dibattito e sentire cosa ne pensano i medici di quanto abbiamo detto prima, voglio mostrarvi da un altro lato ancora la complessità del rapporto fra la cosiddetta materia e i vari livelli del sovrasensibile:

fig_0.psd

Dalla Terra sorgono delle realtà, dal cosmo scendono delle realtà: l’essere umano è al punto d’incontro fra questi due mondi. Quello che io ho espresso in termini di materia viene dalla Terra: però la realtà della materia sono le forze che si generano nella materia e che, vivendo in essa, la trasformano. La materia fisica si trasforma in quattro tipi di forze: forza calorica, forza luminosa, forza chimica (di attrazione e repulsione tra vari elementi) e forza vitalizzante. Adesso arriva l’interessante: che differenza c’è tra i quattro stati di materia (solido, liquido, aeriforme, calorico) e i quattro tipi di forze? Finché la materia, in uno qualunque dei suoi stati, resta materia non è suscettibile di nulla: nel momento in cui si trasforma in forze diventa capace d’interazione con le forze che si immettono nell’essere umano dall’alto. Quindi abbiamo una forza calorica che si sprigiona dalla materia e ce n’è un’altra, di tipo animico, che si sprigiona dall’entusiasmo. Il calore è in assoluto l’elemento di trapasso da tutto ciò che è di natura materiale a tutto ciò che è di natura sovrasensibile. È la porta di trapasso, è come il guardiano della soglia dell’evoluzione. Di qua dalla soglia ci sono i misteri della materia, dell’uomo incarnato, di là dalla soglia ci sono misteri dell’animico. Tant’è vero che il calore animico dell’entusiasmo si accompagna sempre a fenomeni di riscaldamento del corpo. Non ci si può entusiasmare a 30° sotto zero. Perché non si può? Perché l’interazione col corporeo è necessaria all’uomo: è uno spirito incarnato. Dopo la forza calorica abbiamo quella luminosa che interagisce dal basso con l’irradiare spirituale della Luce dall’alto, cioè con le forze dello Spirito Santo. La forza del Logos, cioè del dialogo, dell’interazione fra esseri spirituali, si pone in relazione col chimismo fisico, con le forze chimiche della materia; e infine la forza della volontà del Padre (visto che nella scienza non abbiamo ancora coniato i termini ci serviamo, per adesso, di quelli della tradizione) che interagisce con le forze vitalizzanti che costituiscono gli organismi unitari.

Vi faccio presente che il primo inizio di approccio scientifico a questi quattro livelli si trova in Steiner, ma finora non è stato neanche percepito. Tant’è vero che anche negli incontri sull’agricoltura biodinamica questo passaggio viene scavalcato (Corso per l’agricoltura O.O.327). C’è anche un altro testo dove Steiner descrive l’interazione tra la materia che si trasforma in forze e il nutrimento che viene dal cosmo, in modo molto più minuto: è l’OO.346, un ciclo sull’Apocalisse non tradotto in italiano. Sono conferenze tenute agli allora sacerdoti della Christengemeischaft durante l’ultimo mese della sua attività, settembre 1924. Andrebbe tradotto: addirittura c’è una predizione del fenomeno del nazismo in Germania, dove in base ai cicli dell’evoluzione Steiner arriva all’anno 1933 e dice: attenti, lì si manifesterà la Bestia dell’Apocalisse. Io ho tradotto una conferenza di questo ciclo nel libretto L’evoluzione dell’eterno femminile.

I. Sarebbe corretto vedere in queste forze che vivono e agiscono nella materia, la stessa differenza che c’è tra il caos e il cosmo?

A. Il caos è diventato un cosmo attraverso la creazione divina e il cosmo che noi abbiamo davanti è la Terra. Ogni caotizzazione è un presupposto per nuove creazioni dello spirito; e perciò Steiner sottolinea che mangiare significa ricaotizzare la materia: solo così do a un qualche spirito la possibilità di entrare dentro per strutturarla a modo suo. In altre parole, questi quattro processi servono – ed è questa la digestione – a buttar fuori dalla materia ogni forza strutturante che venga dalla materia: buttandola fuori rendo possibile allo spirito, all’Io, di entrare dentro e di formare la materia, cioè di costruirla. Mangiare significa: caotizzare materia, oppure bruciare materia: è la stessa cosa. Il senso del bruciare o caotizzare materia è una nuova creazione. Anche lo spermatozoo maschile, quando entra nell’ovulo femminile caotizza la materia perché altrimenti lo spirito umano che si sta incarnando sarebbe costretto a prendersi una struttura già fatta, che non gli corrisponde. Soltanto entrando in un caos di materia ha la possibilità di strutturarla a modo suo. A immagine sua.

I. Possiamo dire che si tratta sempre di bruciare materia a diversi livelli?

A. Un conto è annientare forze caloriche che hanno una loro legge per creare forze caloriche secondo la mia legge; un conto è annientare forze di luce che hanno la loro legge per crearne altre che abbiano la mia legge; un conto è annientare forze di chimismo, che hanno la loro legge, per metterci le forze di chimismo della mia scintilla di Logos; e un conto è annientare forze vitalizzanti che provengono da altri esseri per farci entrare le forze vitalizzanti del mio essere spirituale. Caotizzare (o bruciare) il calore, la luce, il chimismo e il vitale sono quattro lavori di caotizzazione diversi. Noi li riassumiamo dicendo: mangio. Ogni individualità ricrea in un modo diverso; invece le forze che si sprigionano dipendono dal sostrato calorico, di luce, di chimismo e di vita dei cibi. Certi cibi hanno tutto un altro sostrato calorico o di luce, rispetto ad altri. Se io voglio avere specifiche forze caloriche devo mangiare questo cibo specifico, perché solo questo mi dà la possibilità di caotizzare il calore. Per la luce è lo stesso, e così via. Il futuro della medicina, l’intento medico, sarebbe di cogliere sempre più intuitivamente l’individualità spirituale del cosiddetto paziente per sapere in che modo lui vuole caotizzare il calore, la luce, il chimismo e il vitalizzante di natura per immettervi dentro un calore che è tutto suo, un’irradiazione che è tutta sua, individualizzata, forze del Logos, di dialogo, di interazione fra gli esseri tutte sue, e una forza vitale (il vitale è la forza che consente a un organismo di essere autonomo) che si chiude in sé, tutta sua.

I. Sembrerebbero esserci, allora, diversi tipi di caos.

A. Eccome: quattro tipi di caos.

I. Ma allora il processo digestivo riguarda il calore, e magari il processo respiratorio riguarda la luce, il chimismo riguarda il fatto di interagire con la parola...

A. Bene, bene, vedi?

I. Io vorrei capire meglio. Facciamo l’esempio delle proteine: sono dei polipeptidi degli amminoacidi complessificati ecc. ecc. Avviene la scissione, si formano questi “mattoni”, gli amminoacidi elementari, dai quali, poi, il nostro organismo ricrea, fa la sintesi ex novo delle proteine, secondo i bisogni dell’organismo.

A. No, secondo i bisogni dell’Io.

I. Va bene. Però io ho preso materia, l’ho caotizzata, e ho creato altri amminoacidi dai quali poi vengono create le proteine che servono a me. Ma questi amminoacidi che io ho ricombinato sono sempre gli amminoacidi che ho preso dalla materia ingerita. Dove sta la materia che viene dal cosmo?

A. Il problema è che tutto quello che tu hai descritto è solo materia. Non c’è ancora nulla della trasformazione della materia in questi quattro tipi di forze. Tu hai parlato di mattoni come se ce ne fossero di un solo tipo: invece, nel momento in cui trasformi la materia in forze, hai mattoni calorici, di luce, di chimismo e di vita. La scienza si ferma ai mattoni iniziali, ma questi, attraverso i processi di digestione, di combustione, si trasformano in forza calorica, in forza luminosa, ecc. La luce è una forza, nella sua essenza: dove si esprime al livello di materia si materializza. Il punto è che dobbiamo capire che tutta la materia è energizzabile, è trasformabile in forza, e nel momento in cui la materia diventa invisibile perché assurge al primo gradino di sovrasensibilità, la scienza empirica non sa dirne più nulla. Finché c’è il percepibile, la scienza si specifica in centinaia e centinaia di scienze, quando non c’è più il percepibile materiale se ne esce con concetti così rudimentali e mistici che danno il segno del suo limite: parla di energia, di antimateria, di forza... Ma che cos’è l’energia? Lì finisce il sapere della scienza empirica e comincia quello della scienza spirituale, della quale siamo agli inizi.

I. Allora, tornando agli esempi dei mattoni, possiamo dire che si energizzano, si trasformano nella loro essenza, però, quando si ricombinano, si rimaterializzano di nuovo.

A. Certo.

I. Quindi è come se facessero un salto di qualità e poi di nuovo la caduta.

A. Una caotizzazione per un nuovo tipo di creazione.

I. Però questo mattone trasformato che poi mi ritrovo da qualche parte nel mio organismo, è sempre lo stesso?

A. Possiamo parlare di condensazione, di cristallizzazione... Ma il concetto è un altro: consideriamo adesso il concepimento. I mattoncini (che ora, con le sequenze del DNA, si possono vedere sistemati tutti belli in fila) sono disposti in ognuno di noi nella struttura che corrisponde al suo Io. Se uno spirito umano dovesse incarnarsi usando i mattoncini sistemati dai genitori, imporrebbe al proprio spirito uno strumento materiale che corrisponde ai suoi genitori, ma non a sé. Il presupposto per costruire una corporeità adatta al proprio spirito non è quello di creare in assoluto una nuova materia, ma di strutturare in modo individuale la materia (i mattoncini) messa a disposizione da mamma e papà. La fecondazione serve appunto a fare un caos di questi mattoni: da belli sistemati che erano, vengono scompigliati, disorganizzati. Non c’è più forza strutturante. Allora lo spirito che si vuole incarnare dice: oh, adesso sì che posso lavorarci dentro io! E se li mette a posto in modo opportuno.

I. Fino a un certo punto: perché i mattoni sono comunque quelli dei genitori.

A. Certo. I mattoni non vengono creati dal nuovo.

I. Però nell’alimentazione la cosa è diversa: la materia viene espulsa dall’organismo e si utilizzano le forze.

A. Viene espulso solo quel residuo di materia che non è stato trasformato in forza.

I. Una parte è quella che poi va al sistema nervoso, mi pare d’aver capito.

A. Sì. E l’altra va al gabinetto. Ma ci stavo arrivando a cosa avviene quando la materia si caotizza mangiando. Prendiamo un cavolo, con i suoi mattoncini strutturati nel modo appropriato al cavolo. Ora lo metto in bocca, mastico, deglutisco, comincio a digerire. Che fa la digestione? Annienta in assoluto il sostrato di materia? No. Dunque è un processo analogo a quello che descrivevamo per il concepimento. Però c’è una differenza tra il caotizzare la materia del corpo umano e caotizzare quella di un cavolo: solo il processo è lo stesso. Finché nel cavolo lavorano gli gnomi, le ondine, le silfidi e le salamandre, la struttura è in un certo modo; ma io non sono né uno gnomo, né una silfide, né un’ondina né una salamandra: sono un uomo. Allora la digestione mi serve a creare un bel caos: dinamizzo il tutto, il mio spirito entra dentro e trasforma quello che era cavolo nel sostrato adatto alle mie forze di pensiero e di amore. Son tutti tentativi di schematizzare, eh? Però l’importante è capire che lo spirito mette a posto la materia ingerita con l’intento di consumarla pensando e amando: per questo bisogna sempre rimangiare. Lo spirito rende il cibo umanamente consumabile, transustanziabile in pensieri e atti di amore. In modo realissimo: perché pensare e amare significa consumare materia.

I. È importante il modo in cui si mangia, o tutto va da sé?

A. Se io accompagno questo processo di natura con pensieri sbagliati, che pensano l’opposto di ciò che avviene, lo indebolisco enormemente, perché vado contro ciò che sta avvenendo. Se invece penso i pensieri giusti, rafforzo enormemente il processo. Molte malattie sorgono dal fatto che noi pensiamo pensieri del tutto sbagliati su ciò che avviene nell’interazione tra la materia e le forze che si sprigionano. La terapia dei pensieri viene sottovalutata, forse perché è quella più impegnativa; ma l’avvenire dell’umanità per quanto riguarda il risanamento – e per questo è stato scritto il vangelo del Logos – è di prendere sempre più sul serio gli effetti fisiologici del pensare.

I. Il sacramento della comunione è la stessa cosa?

A. Ciò che tu chiami il sacramento, celebrato in chiesa, dovrebbe servire a presentare alla mia coscienza, a livello di evento archetipico, ciò che io sono chiamato a fare tutti i giorni. Se non lo faccio nella vita, però, è una menzogna farlo in chiesa, dove dichiaro ciò che poi non faccio. Il sacramento ti dice: ricordati che il tuo compito è, sempre e dappertutto, di trasformare il Logos diventato carne in Logos di nuovo spirituale, a immagine dell’uomo. Se io la transustanziazione non la compio nella vita, in chiesa mento; del resto è propedeutico, il sacramento: finché l’umanità non arriverà al punto di farlo sempre più nella vita, avrà bisogno di questo ricordo continuo. “Fate questo in memoria di me”. Nella misura in cui lo fa sempre di più nella vita, diminuisce il bisogno di esporsi alla rammemorazione. Chi pensa che l’ammonimento gli faccia bene, ha tutto il diritto di andare in chiesa.

I. C’è una contraddizione che sperimento sempre: da una parte si parla di maya, di illusione – lei mi pare abbia detto che la materia fisica non esiste – dall’altra, quando si parla dell’antico Saturno, si dice che vengono poste le basi per il germe del corpo fisico, quindi della materia. A cosa ci si riferisce, insomma, quando si dice materia?

A. Il problema è che tu riferisci subito la materia al corpo fisico. Ciò che noi chiamiamo materia è uno stato della coscienza umana che, in quanto tale, è una realtà. Ma non è una realtà fuori dalla coscienza umana: questo è il mistero della materia. La materia è unicamente un contenuto della coscienza umana ed è reale solo in essa. Negli Angeli la materia è nulla.

I. E la materia di quei mattoni di cui parlavamo prima?

A. Parliamo sempre di contenuti della nostra coscienza. Steiner ti dice: dove la nostra coscienza parla di materia, per gli Angeli ci sono buchi. Il cubo della Mecca, per esempio, che è la quintessenza del mondo materiale, per gli Angeli è un nulla. Quando gli Angeli guardano i pensieri umani radicati nella materia come se fosse di per sé realtà, quei pensieri si nullificano. E gli Angeli dicono: che senso ha per gli esseri umani che nella loro coscienza sia stato posto il nulla? Il senso che si accorgano che è un nulla e trovino qualcosa, finalmente! Ma la trovino loro. La materia è il punto infimo della caduta della coscienza umana. Però come realtà di coscienza è una realtà: eccome. Quindi parlare della materia è una delle cose più difficili che ci siano, e in aggiunta viviamo in una temperie di materialismo.

I. Ai fini dell’alimentazione la materia potrebbe essere un discorso relativo, a seconda del punto in cui si trova la coscienza di una persona?

A. Eccome!

I. Quindi non esiste in assoluto un alimento di cui si possa dire: fa bene.

A. No. È del tutto illusorio. Nel mio libro La caduta verso l’alto ho scritto che non ci sarà più l’epatite, ma l’epatite di questa persona, di questa e di quest’altra. Abbiamo generalizzato a oltranza in una fase evolutiva in cui l’umanità si sta sempre più individualizzando. Il futuro di ogni terapia è una sempre maggiore individualizzazione. Ma non solo la terapia va verso l’individualizzazione, cosa già più semplice da capire, ma anche la patologia. Ciò che è generale serve al medico solo come fondamento e non per capire l’epatite di questa persona. Tant’è vero che ci sono medici che dicono: c’è sempre stato detto che la stessa patologia richiede la stessa terapia, io la applico e non funziona assolutamente in modo uguale. Così come il sociale diventa sempre più complesso, per lo stesso motivo...

I. Ognuno deve diventare medico di se stesso...

I. Come medico trovo interessante quello che si è detto, perché aiuta a capire che è un errore usare dei parametri comuni, degli schemi che si irrigidiscono a forza di usarli. Nella patologia c’è una tale metamorfosi! Pensiamo alle grandi epidemie che erano patologie di massa, di gruppo... adesso c’è un processo di individuazione, e infatti oggi quello che varia è il virus, che si individualizza, scende nelle cellule, crea una casa... E le patologie cambiano: le polmoniti di trent’anni fa non sono più quelle di adesso, ed è un problema grosso perché il medico non riesce più a fare diagnosi se non ha strumenti. Ora questa elasticità deve servirci anche in certi processi metabolici come quello delle proteine di cui si parlava prima. Io vedo la scissione metabolica delle proteine a un livello fisico: mangio, dopo lo stomaco si passa per i succhi pancreatici e biliari, ho un chimo alimentare, un grande impasto che passa nell’intestino, attraverso certe vie linfatiche ed ematiche, tira su alcune sostanze ed altre ne lascia. Passiamo poi a un fase successiva che possiamo chiamare vitale: entrano in gioco certi organi, come per esempio il fegato, che è un grande laboratorio dove si svolgono importanti processi. Per esempio lo zucchero, che è una fonte di calore, viene sintetizzato su questo piano eterico. Poi andiamo oltre e arriviamo nei reni: guarda caso i reni sono degli organi fuori da questa grande fucina, da questa caverna viscerale, vitale, dove lavorano il fegato, il pancreas, la milza... I reni sono extra-addominali, sono fuori, sono come degli organi scesi dall’alto, e infatti sono su un piano astrale: è lì che vengono portati gli amminoacidi, in grumeroli che sono enormi perché se li distendiamo da Vipiteno arriviamo in Sicilia... Questa massa è caotizzata, e c’è un catabolismo, un gran lavoro, e c’è anche la bellissima polarità fra il rene e il surrene. Il surrene è una cupola che è sul rene, in esso esistono tutte le sostanze che si chiamano catecolamine, corticosteroidi e altri prodotti anabolizzanti che sono lì sopra e a queste sostanze l’uomo dà la sua impronta perché fa le sue proteine. Ecco il senso dell’Io, il senso del pensiero e dell’amore, che dà il suo colpo magistrale e sintetizza questa materia che viene gettata, diciamo, in alto – da un punto di vista medico noi acquisiamo che certe cose vengono fatte, ma poi non si sa... Allora abbiamo: piano fisico, piano eterico, piano astrale e piano spirituale. Il piano spirituale corrisponde alla parte piccolissima del surrene, piccolissima se paragonata alla massa enorme che è l’intestino, lungo circa dodici metri; il surrene sarà tre centimetri, due, ed è lì che sintetizza le proteine, lì che inizia il processo di costruzione del corpo...

A. I reni sono la metamorfosi, a livello metabolico, degli occhi. Le stesse forze creano i reni nel sistema metabolico e nella testa gli occhi. E il surrene a cosa corrisponde, nella testa? All’epifisi, o ghiandola pineale.

I. Sì. La ghiandola pineale, chiamata così dalla pigna del cipresso che è l’albero dell’eternità e della luce, l’albero di vita, l’albero saturnio.

A. Il surrene è sopra i reni, l’epifisi (epì significa “sopra”) è sopra gli occhi. Il surrene, nella sua stessa etimologia, indica il soprasensibile, e perciò è piccolo piccolo perché l’importante avviene a livello sovrasensibile. Lo stesso per la ghiandola pineale. O.O.128 Fisiologia occulta: quello è un testo che va studiato e masticato! Mentre tu parlavi da medico, io cercavo di seguirti a modo mio avendo in mente questi rapporti, perché i fenomeni si capiscono nella polarità.

I. Allora si può dire che è la luce interiore che s’incontra con la luce esteriore che vedono gli occhi.

A. Certo, è proprio questo. Perciò Goethe passava ore e ore a chiudere gli occhi per restare nei controcolori che si creano nell’interazione tra l’occhio e la ghiandola pineale, per capire i misteri della luce. Quando noi guardiamo bene un’immagine colorata e poi chiudiamo gli occhi, vediamo sorgere il colore complementare.

Adesso, fatta tutta questa complessificazione, torniamo al testo. Riprendiamo il v.34:“Gesù dice a loro: Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato, e compiere la sua opera” Il Padre fa l’opera a metà e il Figlio la porta a compimento. Se il Padre l’avesse già completata, non ci sarebbe bisogno del Figlio. L’opera del Padre restata a metà è la natura, la creazione materiale: il Figlio dovrà spiritualizzarla, umanizzarla, trasformarla in un mondo di luce e di amore umano. Trasformare tutte le percezioni in concetti, ricreare i pensieri divini che hanno creato tutte le cose: questa è l’opera conoscitiva del Figlio; e ritrasformare in comunione tutte le estraniazioni e le frammentazioni fra essere e essere, questa è l’opera morale del Figlio. Il Figlio in noi, cioè ognuno di noi, completa l’opera del Padre ritrasformando ogni percezione in un frammento del Logos, in un concetto spirituale, e sciogliendo ogni estraneità e opposizione in un’esperienza di amore, dove gli esseri si organizzano spiritualmente gli uni dentro gli altri e si favoriscono a vicenda, come gli organi dentro l’organismo. Il cristianesimo ha sempre chiamato questo organismo spirituale il Corpo mistico del Cristo dove gli esseri sono gli uni per gli altri, gli uni dentro agli altri. L’acqua da bere che il Padre dà al Figlio sono tutti i pensieri attraverso i quali la conoscenza trasforma in Logos tutta la natura; il cibo morale, dove ci vuole più forza, sono gli atti di amore attraverso i quali il Figlio dentro ogni uomo trasforma la separazione fra gli esseri in un’armonia organica.

4,35 “Voi non dite forse che mancano quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco io dico a voi: alzate i vostri occhi e guardate le messi che già biondeggiano in vista della mietitura.”

Il Cristo dice: se quello che vi sto dicendo vi sembra difficile, guardate la natura. Voi siete abituati ai suoi cicli: guardate la messe e sapete che fra quattro mesi ci sarà la mietitura, sapete che c’è un seminare e un mietere. Mietere è l’opposto di seminare: e dunque perché si semina se poi bisogna far l’opposto? Perché tutto ciò che è evoluzione nel tempo è ciclico e si ripete. Riempio lo stomaco per vuotarlo, quindi non è una contraddizione. Sempre la Terra vi serve da analogia per capire le leggi dello spirito, perché è stata creata a immagine dello spirito divino: così se diventate ancora più forti nel vostro spirito potrete guardare non solo al campo ma alla Terra tutta, e vedrete che è già al quarto mese, quello della mietitura. Tre sono i periodi evolutivi della semina: il quarto è sempre quello in cui la semina comincia a trasformarsi in mietitura. La creazione del Padre è la creazione del vitale e quella del Figlio è il consumare a brano a brano tutto il vitale per far risorgere lo spirito umanizzato. Il Figlio viene nella Terra quando è matura per venire consumata. Cosa facciamo noi dei grani maturi? Li trasformiamo in spirito. E il vangelo dice (anticipo i versetti che verranno): voi siete chiamati ad essere i mietitori in un campo che non avete seminato voi, così come il Figlio è infinitamente grato al Padre perché viene nella Terra a mietere ciò che non ha seminato.

In altre parole: la Terra è già da un bel po’ di tempo in fase di spiritualizzazione. La metà geologica è già passata, altrimenti il Figlio non avrebbe potuto venire. Ciò significa che la Terra ha cessato di crescere nelle sue forze vitali e, come avviene nella corporeità di ognuno di noi, sta decadendo. Il corpo cresce e diventa sempre più vitale per dare allo spirito il sostrato di combustione, perché senza combustione di materia non c’è spirito umano. Gli Angeli possono essere spiriti anche senza combustione di materia, ma è proprio questa la differenza fondamentale tra gli Angeli e gli uomini: lo spirito umano si evolve unicamente nell’interazione con l’elemento che noi chiamiamo materia. A partire dalla metà dell’epoca atlantica, circa quindicimila anni fa, la Terra sta invecchiando. Per esempio, dopo la betulla non ha prodotto più nessun tipo di albero nuovo perché non ha le forze per farlo: perciò betulà, in ebraico, significa “vergine”: sono le ultime forze vitali della Terra. Il Figlio che viene a portare tutte le forze di transustanziazione della materia in spirito, poteva venire solo quando la Terra avesse raggiunto la sua fase vitale discendente. Il fenomeno archetipico della transustanziazione della materia in spirito umano è avvenuto a metà circa del quinto periodo di evoluzione della Terra, duemila anni fa. Se avessimo avuto una Terra ricolma di forze vitali esse avrebbero obnubilato lo spirito, perché forze vitali e forze conoscitive sono polari. La Terra ha cominciato allora a far spazio allo spirito umano, ha cominciato ad amare lo spirito umano, come sua redenzione.

I. Se questo è il destino della Terra, il nostro libero arbitrio rimane?

A. La Terra diventa sempre più morta e lo spirito umano ha una duplice possibilità evolutiva, altrimenti non sarebbe libero: una è di far sprigionare da questa morte sempre più forze trasformanti, l’altra di ridursi sempre di più ai meccanismi di natura. Proprio questa è la scelta della libertà, continuamente: lasciarsi andare o prendersi in mano. Lasciarmi andare significa che la materia “mi fa”, e io sono passivo. L’uomo, dice l’Apocalisse, può ricadere al livello della Bestia come un puro essere di natura.

I. Se io rimango sempre passiva e non risveglio questa parte spirituale in me, cosa succede?

A. Succede che del tuo Io non resta più nulla. Resta l’animale, che infatti non ha l’Io.

I. Essere attivi che significa?

A. Rendere il proprio spirito sempre più creatore.

I. Nella vita di tutti i giorni, dico.

A. Se i pensieri giusti per te sono qualcosa, nella vita di tutti i giorni puoi fare i pensieri giusti. Vedrai che la vita diventa un’altra.

I. Questo significa anche che non abbiamo più tanto tempo, che il tempo si va restringendo?

A. Cos’è il tempo? È una realtà costante o non costante? È costante solo per la natura, ma non per l’uomo. Dove l’uomo entra nel tempo, lo umanizza: lo rende lungo o corto. Noioso significa: il tempo si dilata, non finisce mai. È un tipo di tempo psicologico, quello umano. In altre parole, per chi omette lo spirito, il tempo diventa sempre più lungo, per gli altri invece accelera e la massima accelerazione del tempo è la compresenza di tutto il tempo dell’evoluzione nella presenza dello spirito. Ecco l’eternità: più veloce di così non si può.

I. Ma il substrato materiale della Terra va a morire, no?

A. Non esiste fuori dalla coscienza umana. Il sostrato materiale di cui tu parli è l’autoannullamento dello spirito umano. Le cose non sono facili, lo so. Diciamo che il sostrato di materia è la noia degli spiriti umani che diventano pigri, inerti. Non c’è nulla fuori dello spirito umano.

I. Hai detto che l’umano è il divino potenziale, mentre il divino è l’umano realizzato.

A. A vari livelli: angelico, arcangelico ecc.

I. Sì, ma i regni sotto l’umano, quelli di natura? Se ho capito bene, i vari livelli del divino (Angeli, Arcangeli...) sono partiti tutti dal gradino umano, non dall’animale, vegetale e minerale.

A. Dall’umano fra virgolette, perché l’acquisizione dell’autocoscienza, della capacità di dire io a se stesso (questo è il livello umano della coscienza), non comporta necessariamente l’inabitazione di una corporeità fisica, come è per noi. Questo perché non immaginiate che gli Angeli e gli Arcangeli al loro gradino umano fossero degli uomini in carne ed ossa come noi. Veniamo adesso ai regni di natura: tutta l’evoluzione della Terra serve per far assurgere al divino l’essere umano e non altri esseri: ciò significa che nella Terra non ci sono altri esseri oltre l’uomo. Animali, piante e pietre sono dimensioni dell’uomo. La loro evoluzione, quindi, non consiste nel divinizzarsi, ma nell’umanizzarsi. In altre parole, l’essere umano diventa divino umanizzando l’intera creazione della Terra. Tutto questo è descritto in modo molto più bello e meno noioso ne La scienza occulta di Rudolf Steiner, sempre quel “romanzetto” di cui vi parlavo a S. Galgano, che alcuni leggono la sera per star svegli tutta la notte e altri per addormentarsi subito! Questione di gusti, però è il romanzetto più interessante che io conosca. Lì spiega che sarebbe un grave errore pensare che gli animali, le piante e le pietre abbiano una sostanzialità spirituale al di fuori dell’uomo. I regni di natura sono tutte dimensioni dell’umano che, grazie alla coscienza illusoria, l’uomo ha estraniato da sé per darsi il compito di riportarle dentro. Illusorio è tutto ciò che l’uomo separa da sé percependolo come fuori di sé. Cosa sono le piante? Pensieri potenziali dell’uomo. Man mano che io le penso, si umanizzano.

Andiamo a pranzo?

27 dicembre 2001, pomeriggio

Vi propongo un altro piccolo scorcio metodologico su quanto stavamo dicendo stamattina. La seminagione è il far sorgere il mondo della natura, e la mietitura è il cammino umano della libertà che trasforma tutta la creazione in un fatto di pensiero e in un fatto di amore. La Divinità viene chiamata Padre in quanto seminante, e viene chiamata Figlio in quanto mietente dentro le menti e i cuori degli esseri umani. Il Cristo non va mai pensato come istanza esterna all’uomo, perché sarebbe un’altra alienazione dell’uomo da sé. Il concetto del Figlio è di pura immanenza; quello del Padre, invece, è un concetto di una certa estrinsecità della coscienza umana a se stessa, perché non si è ancora interiorizzato. Il concetto del Padre è proprio lo stato illusorio della coscienza umana che pone la natura fuori dell’uomo; il Figlio vince questa illusione, questa alienazione di coscienza, rendendo tutta la creazione immanente allo spirito umano.

C’è da aggiungere che in campo morale ci sono le leggi comuni – regole, comandamenti, ecc. –, che nello stadio d’infanzia dell’umanità erano il tutto dell’evoluzione. Nel cosiddetto Vecchio Testamento c’era la Legge di Mosè e l’uomo, prima della libertà, aveva il compito di osservarla: osservata le Legge, aveva fatto tutto. Il sopravvenire della libertà, della realizzazione dell’individuo singolo, unico in ognuno (che il cristianesimo chiama: il Cristo in me), non abolisce ciò che è comune: le leggi comuni restano, subendo naturalmente delle trasformazioni in base all’elemento nuovo che subentra. Nella fase dell’infanzia c’è una conduzione dell’uomo che dice dal di fuori ciò che va fatto e ciò che non va fatto: l’uomo usa la legge come fosse un pedagogo che l’aiuta a crescere sempre di più. Dopo la svolta, e la svolta si compie sempre, il dovere comune non basta più. Questo è il pensiero fondamentale. All’osservanza della legge comune, ogni Io umano aggiunge il compito di realizzare il suo essere spirituale individuale. Nella misura in cui l’umanità diventa sempre più matura, le leggi comuni devono tendere a diventare quantitativamente sempre di meno; si stabiliscono come vincolanti solo quelle necessarie, ma qualitativamente diventano sempre più sacre perché c’è in ogni individuo la consapevolezza di aver bisogno di questa base per la propria individualizzazione. Il peso morale qualitativo di ciò che è comune aumenterà sempre più di fronte alla coscienza umana; ci saranno leggi sempre più esterne e a carattere negativo: questo no, questo no e questo no... perché lede la libertà altrui. E basta. Si ritorna in un certo senso ai comandamenti negativi del Vecchio Testamento, perché si aggiunge la morale individuale per quanto riguarda l’agire propositivo e creativo del singolo. In questa fase storica di grande confusione, abbiamo invece inzeppato la nostra vita di leggi comuni positive – quelle che indicano il da farsi – che servono più ad asfissiare l’Io che non a permettergli di agire. Ciò è possibile solo perché la forza dell’Io è appena incipiente.

Una cosa analoga possiamo dire circa il dato di natura: prendiamo una malattia. Non è un fatto morale di per sé, ma è un fattore di natura: abbiamo detto che le leggi di natura non spariscono, ma ad esse si aggiunge ciò che è individuale. Perciò in futuro ogni patologia avrà una parte di leggi di natura, valide per ogni epatite, per esempio, e poi, a seconda dell’individualizzazione, ognuno porterà dentro la natura, dentro la patologia, elementi tutti suoi. Un’altra riflessione fondamentale da aggiungere è che le leggi comuni nel campo della morale, e le leggi di natura nel campo del corporeo, non sono libere: ci devono essere. Invece la parte individualizzata dell’Io non “deve” esserci, perché è libera. Sta ad ognuno individualizzarsi di più o di meno sia moralmente sia nel riflesso sul corporeo. Se un medico ha a che fare con una persona che dimostra di essersi individualizzata molto poco, nel trattare la sua patologia osserverà un fenomeno abbastanza generalizzabile di natura. Se invece ha che fare con una persona fortemente individualizzata, dovrà accorgersi che l’elemento di natura non è più quello portante, ma è solo un sostrato: allora la terapia dovrà tener conto molto di più di ciò che è individuale, perché è quello che comincia a determinare il dato di natura, più che non viceversa. Naturalmente c’è sempre una causazione reciproca: il dato di natura causa necessariamente qualcosa dentro l’anima e lo spirito, e lo spirito ha la possibilità di causare dentro la natura, perché la sua è una causazione libera.

I. L’aspetto morale è escluso dalla malattia?

A. Ridursi al dato di natura, oggi che l’individualizzazione è possibile, è il male morale. Tout court. Individualizzarsi sempre di più è il bene morale. Tout court. Perché il bene morale è l’Io, è il Cristo in me, ed è diverso da persona a persona. Il criterio del bene e del male morali non è più l’assoggettamento a una legge, che è solo il presupposto, ma è l’individualizzazione o l’omissione dell’individualizzazione, l’esercizio o il non esercizio della libertà: qui io l’ho presentato in rapporto alla legge umana e in rapporto alla legge di natura. Fondamentale è ciò che lo spirito costruisce, individualmente e liberamente, in base alla sua creatività. Il male morale oggi è di omissione, prima della svolta era di commissione. Elementi di gruppo, per esempio la chiesa, le istituzioni ancora fissate sull’osservanza delle leggi comuni, diventano sempre più anacronistici. Non solo non capiscono che l’osservanza dovrebbe ridursi al minimo, ma non capiscono neanche che il fattore morale si sposta sempre più verso la libertà. Per questo il giudizio universale è fatto di elencazione di ommissioni: c’era fame di Io – a proposito del punto cui siamo arrivati nel vangelo di Giovanni – e non mi avete dato da mangiare, ecc., Io ero nudo, mancavano tutte le vesti, le forze, della libertà e non me le avete messe... E quelli: ma quando mai t’abbiamo visto affamato, assetato, svestito...? E il Cristo: non avete visto, e il problema è proprio questo. Ero presente in ogni essere umano che avete incontrato e non mi avete visto: la libertà è stata omessa. Trovo questo un pensiero così liberante... di una positività travolgente.

Tornando al v.35 “Voi non dite forse che ci mancano quattro mesi e poi viene la mietitura?” vediamo che il Cristo sta facendo capire ai discepoli che l’evoluzione è a un punto di svolta dalla conduzione del Padre, che si basa sulle leggi comuni, alla conduzione interiore del Figlio, che fa perno sulla libertà individuale. E dice: voi sapete che c’è un tempo della semina e uno della mietitura: dovete ora imparare a leggere il tutto delle leggi dell’evoluzione così come sapete leggerlo nei piccoli cicli di natura. Se guardate l’umanità, vi accorgerete che la semina è al punto di diventare mietitura. La grande semina è il lavoro del Padre che ha squadernato la messe fuori di noi – “fuori” nell’ottica della coscienza umana –, la mietitura sta nel raccogliere questa messe per portarla nel granaio della testa umana e del cuore umano. “Ecco io dico a voi: alzate i vostri occhi e guardate le messi che già biondeggiano in vista della mietitura”: finora siete stati a contatto con le leggi della natura; ora viene l’Io e vi dice: alzate i vostri occhi e guardate allo spirituale. Avete guardato alla natura e ve ne siete fatti percezione e concetto: adesso cercate di percepire ciò che è spirituale per farvi il concetto anche di quello. “Alzate gli occhi” non significa alzarli fisicamente; quando il vangelo dice “Il Cristo alzò gli occhi al cielo” significa: si traspose nella visione dello spirituale, si traspose nella percezione del soprasensibile. Quindi il Cristo sta dicendo: cercate di percepire ciò che avviene nel soprasensibile. È il momento della svolta, avviene un passaggio dal lavoro del Padre al lavoro del Figlio, un passaggio dal seminare al mietere: guardate allora le messi che sono già sono dinamicamente protese alla mietitura, invocano di essere mietute. Τας χωρας (tàs chòras), il seminato del mondo, invoca la mietitura. Tutta la creazione anela a venir sciolta dall’incantesimo delle forme fisse e costanti per entrare nella motilità e nella creatività dello spirito umano.

4,36 “Ecco che già ora colui che miete riceve la sua ricompensa e raccoglie i frutti verso la vita eterna, affinché colui che semina possa gioire insieme a colui che miete.”

L’essere umano in quanto diventa portatore dell’impulso del Logos, raccoglie in sé la creazione seminata nel tempo e la raccoglie nel suo contenuto di eternità. La raccolta non è una specie di scorta per un paio di mesi, ma vale per tutta l’eternità, perché lo spirito umano porterà in eterno con sé la raccolta dell’evoluzione sua sulla Terra, quando assurgerà al livello degli Angeli. Il raccolto non andrà mai perso. Il Grande seminatore è il Padre e il Grande Mietitore è il Figlio. Il Padre ha seminato la natura e il Figlio la miete facendola diventare spirituale grazie alla creazione nuova che parte dalla mente e dal cuore dell’uomo. Viene ora citato un proverbio: questi proverbi sapienziali si tramandavano di scuola iniziatica in scuola iniziatica:

4,37 “In questo è verace questo detto: Un altro è colui che semina ed è un altro colui che miete.”

Si potrebbe dire, a questo punto, che il paragone con la semina e la mietitura fisiche cominci a zoppicare. Ogni paragone non calza mai perfettamente perché son sempre due realtà diverse di cui si rileva una somiglianza: ogni paragone mostra elementi di paragonabilità e altri di non paragonabilità, e perciò serve fino a un certo punto. Nel seminare e nel mietere fisici è lo stesso contadino che semina e raccoglie; invece qui (e perciò è un proverbio antico) è detto che nella semina e nella mietitura di tutta l’evoluzione la conduzione in chiave di semina è del tutto diversa dalla conduzione in chiave di mietitura: perché l’una è l’inversione dell’altra. Nella semina è il dato di natura che è dominante, nella mietitura è dominante l’esercizio della libertà. L’essere umano stesso è tutt’altro nella fase di semina e deve diventare tutt’altro, interiormente, in quanto mietitore. Questo detto bellissimo che riassume le due metà dell’evoluzione, in Steiner assume ancora altre prospettive di lettura: i seminatori sono, per esempio, tutti gli esseri della natura, o servi del Padre cosmico. Hanno tutti lavorato e sudato per seminare il mondo: perché non possono essere loro a mietere? Perché si aspettano dall’uomo, dal Grande Mietitore, che sia lui a liberarli da questo lavoro che li incatena alle leggi ferree di natura. Gli spiriti del minerale, del liquido, dell’aereo e del calorico hanno avuto il compito di seminare, ma non sarebbero mai capaci di mietere.

4,38 “Io vi ho mandato a mietere là dove non avete penato a seminare; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel campo del loro lavoro.”

Apostolo (da απο-στελλω, apò-stèllo), è colui che viene inviato, mandato. Il padre manda a seminare, il Figlio manda a mietere. Il Cristo sopravviene al punto di svolta e da duemila anni l’evoluzione, se le cose vanno bene, va vissuta in chiave di mietitura. La fissazione sull’elemento di natura diventa sempre più anacronistico perché è stato destinato, per natura sua, a declinare sempre di più, ad essere mietuto e portato a resurrezione dentro lo spirito umano. Forse, se mi permettete un accenno che magari potrebbe sembrare fuori posto, il grosso del fenomeno dello sport, che è una fissazione sull’elemento fisico, in fondo è ancora precristiano. Tutto ciò che si fissa sull’elemento fisico, come vanto o criterio di distinzione e selezione fra gli uomini (come il razzismo), è tutto un modo d’interpretare l’evoluzione che con lo spirito cristiano non ha nulla a che fare. Cristiano è il pensiero che dice: d’ora in poi interessante, determinante, decisivo è lo spirito umano, non più il dato di natura che si fa materiale da redimere. “Io vi ho mandato a mietere là dove non avete penato a seminare”: la fase della semina l’uomo non l’ha vissuta coscientemente e individualmente, non vi ha partecipato, non vi ha messo nulla di suo, di libero, perché la libertà miete, non semina. Si può mietere soltanto con un atteggiamento d’infinita gratitudine verso altri che hanno seminato quella messe che ci è dato di mietere. Nessuno di noi ha seminato la messe che raccoglie. “Altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel campo del loro lavoro”: che meraviglioso riassunto delle leggi fondamentali dell’evoluzione! Mietere il mondo significa essere eternamente grati a coloro che l’hanno seminato. Significa portare in sé la consapevolezza che non siamo stati noi a seminare perché la legge evolutiva è che colui che miete sia un altro da colui che semina. Conoscete voi testi che si avvicinino alla profondità di questo testo? Ecco adesso ritornare la samaritana con i compaesani.

4,39 “Da quella città molti credettero in lui grazie alla parola della donna che testimoniava che aveva detto a lei tutto ciò che aveva fatto.”

La samaritana ha riassunto la sua esperienza ai compaesani dicendo: ho incontrato un uomo che scruta ciò che è individuale in ognuno. Questo è il nocciolo dell’esperienza della samaritana. Non ha fatto un’esperienza di dottrina, ma ha vissuto un rapporto da essere a essere: dunque i samaritani non si pongono in ascolto ma si mettono in moto verso un’esperienza che anch’essi vogliono fare. Potremo capire ciò di cui parli solo facendo anche noi l’esperienza, dicono, vogliamo esporci noi stessi al suo modo di operare. Che non è un insegnare teorico astratto, ma è un’osmosi di forze; questo è anche il mistero dell’incontro fra esseri umani: quello che conta non è ciò che due persone si dicono, ma quale scambio di forze avviene. Questo è ciò che noi chiamiamo il vissuto, che non è sempre facile tradurre in parole, in concetti, perché si tratta di qualcosa che ci cambia interiormente.

4,40 “Quando poi vennero a lui i samaritani lo pregarono di restare con loro e rimase là due giorni”.

Quindi un giorno è quello in corso, più altri due giorni: una triade di giorni. Da che mondo è mondo gli esseri umani hanno sempre saputo, grazie alle tradizioni misteriche – e solo l’umanità degli ultimissimi cinque, sei secoli non lo sa più – che tra i tanti cicli che ci sono c’è anche quello dei tre giorni, un ciclo fondamentale dell’evoluzione dell’uomo. Infatti tutto ciò che è a livello intellettuale, nella misura in cui ci si dorme sopra due o tre volte – quindi dai due ai quattro giorni – dalla dimensione puramente mentale passa al vissuto. Steiner ha descritto i vari trapassi: ciò che avviene nella percezione fisica, dopo una dormita si iscrive nel corpo vitale, dopo una seconda dormita entra nell’anima e dopo la terza dormita ha la possibilità di assurgere alla coscienza. Ma ciò che viene portato a coscienza dopo la triade di notti non è più qualcosa di astratto, ma è un vissuto, è un cambiamento dell’essere che adesso è più cosciente di sé. Questo spiega perché i samaritani non vengono a porgli domande, ma gli dicono: resta con noi, dacci la possibilità di venire esposti alla tue forze non solo immediatamente, ma anche al di là dell’interruzione di coscienza che viene portata dal sonno. E lui resta. In altre parole, tutto ciò che è puro ammaestramento teorico serve a ben poco. Ciò che serve è il vissuto, ma il vissuto ha bisogno di tempo per scendere nelle profondità. Naturalmente comincia dalla mente: il primo giorno si scambiano dei pensieri, delle parole; cosa fa il sonno di questi pensieri scambiati? Li fa entrare ai livelli più profondi, proprio perché la coscienza desta delle parole e dei pensieri si stacca, e il vissuto che non si era notato, perché eravamo concentrati sulle parole, viene messo in primo piano: seppure inconsciamente per noi, entriamo nel vissuto – durante il sonno si vivono molte cose – e al risveglio (nel secondo giorno) la mietitura di ciò che è stato seminato il primo giorno è già di tutt’altro tipo. E il terzo giorno c’è la mietitura di quel che si è seminato in tutti e tre i giorni. La mietitura è il vissuto e la semina è il contenuto intellettuale: la teoria diventa vita nel corso del tempo grazie all’evoluzione interiore, grazie a un processo di trasformazione interiore. E per questo processo ci vuole il tempo: la mente può capire in un lampo certe cose, può afferrare un ideale di pace, per esempio, in un attimo; la trasformazione del cuore, invece, quella che conduce ad amare tutti gli esseri umani in modo tale da creare la pace, ha bisogno di tempo. La mente va veloce, la teoria va veloce, la prassi va più lentamente. Qui viene messa in primo piano la prassi: i samaritani non gli chiedono nulla di teorico, ma gli chiedono di restare con loro. Così come, nell’XI capitolo, i discepoli dicono a Gesù: il tuo amico Lazzaro sta morendo, e lui aspetta altri due giorni prima di andare a risvegliarlo. Anche lì è sottolineata non solo l’evoluzione intellettuale, la trasformazione dell’essere, che ha bisogno del tempo. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

4,41 “E molti di più credettero grazie alla parola di lui.”

Vivendo a contatto con il Cristo per altri due giorni, passano dalla parola della donna che testimoniava dell’esperienza fatta, alla loro propria esperienza: e si rafforzano interiormente (cioè credono) in base al vissuto. L’unica cosa che fa progredire l’essere umano è l’esperienza fatta in proprio. Questo viene detto qui a caratteri semplicissimi e chiarissimi. Credono in base alla loro stessa esperienza del Logos (τον λογον, ton lògon, qui c’è proprio la parola Logos).

4,42 “E alla donna dissero: Non crediamo più, ora, in base alle tue chiacchiere, infatti noi stessi abbiamo udito e vediamo che costui è veramente il salvatore del mondo”

e alcuni manoscritti aggiungono: il Messia. Ci sono due verbi: udire e vedere. Non dovrebbe essere all’opposto? Steiner, quando descrive i gradini del cammino spirituale, parla sempre prima dell’immaginazione, che è il vedere lo spirituale, e poi dell’ispirazione, che è l’udire in spirito. Il Logos scavalca la percezione sensibile e va subito alla percezione dei pensieri: il Logos è la percezione dei pensieri. Cosa avviene tra il Cristo e i samaritani esposti a lui? Naturalmente per prima cosa lo vedono, poi lo odono parlare. E il terzo passo? Capiscono. Il vangelo di Giovanni presuppone il vedere e l’udire fisici, perché qui siamo nella normalità. I samaritani dicono: “abbiamo udito e visto” e qui s’intende: abbiamo udito il parlare del Logos e abbiamo visto spiritualmente, abbiamo intuito, che è il Cristo, il salvatore del mondo. Questo vedere che viene dopo l’udire è ciò che Steiner chiama il livello intuitivo, dove si intuiscono esseri specifici. Quindi c’è prima la percezione spirituale di un essere (l’immaginazione), poi l’ispirazione che è il venire a contatto con l’automanifestazione di questo essere attraverso la sua parola e infine, attraverso ciò che manifesta, si coglie il nucleo centrale del suo essere, la sua identità.

I. Nel mio testo c’è scritto: “abbiamo udito e sappiamo”.

A. Sì, ma “sappiamo” è οιδαμεν (òidamen), lo stesso verbo che indica il “vedere”. In greco, l’ho detto più volte, vedere è anche conoscere: è percepire fisicamente e intellettualmente. Questo “sappiamo” è un vedere spirituale, è vedere l’identità dell’essere che mi sta parlando. È lasciato al lettore di farsi un’idea di che cosa non solo la samaritana, ma tutto il paese, abbia vissuto interiormente e attivamente per poter arrivare alla conclusione, dopo tre giorni: costui è il salvatore del mondo.

I. Ma che strada velocissima hanno fatto questi samaritani! In tre giorni, già al livello intuitivo!

A. Diciamo che la loro tradizione gli offre queste diciture. Loro hanno come una premonizione che gli fa dire: una identità più forte, più potente, più travolgente e trasformante di questa non ci può essere e quindi usiamo, per designarla, i termini più sublimi che abbiamo. Questo non vuol dire che abbiano capito tutto: hanno fatto un primo passo e ci azzeccano, e si sottolinea che si tratta del vissuto. L’essere umano comincia dal vissuto.

I. Come si collega il detto: un altro semina e un altro miete con le leggi del karma? Sembrerebbe fare a pugni, di primo acchito. Si può mitigare questa contraddizione poggiando sulla reincarnazione, dicendo che la personalità (non l’individualità) che ha seminato non è la stessa che miete?

A. Diciamo che nella misura in cui ci è dato di guardare alla realtà delle cose, acquisiamo sempre maggiore libertà nel modo di esprimerle. Ecco perché il samaritani si espongono all’esperienza del Cristo e non fanno teorie. Nella misura in cui capiamo la realtà (non la teoria) del karma, possiamo fare tutte queste riflessioni perché ne vediamo la fondatezza reale. Nella prospettiva che dice: la personalità del Battista è Elia reincarnato, è giusto dire che quel che ha seminato Elia lo miete il Battista. Ma questa è una prospettiva del tutto secondaria; sarebbe come dire: siccome io oggi sono molto diverso da com’ero trent’anni fa, oggi chi raccoglie il seminato è un altro. Ma non è un altro: sono sempre io, divenuto diverso. Queste riflessioni terminano di essere disquisizioni di lana caprina nella misura in cui ci riferiamo alla realtà. Quindi una risposta alla tua domanda che aiuti a tuffarsi in modo più mietente e proficuo nel reale non dovrebbe cavillare su fattori marginali, ma andare massimamente all’essenza delle cose. Adesso ci provo, e si tratta di cogliere prospettive fondamentali di orientamento.

Allora direi: finché l’essere umano non è ancora capace di karma personale e individualizzato, siamo nel tempo della semina del Padre; da quando ognuno di noi è diventato capace di mietitura individuale nella messe del cosmo, cioè capace di formare karma personale, inizia il lavoro del Figlio. È lì che ognuno diviene ciò che fa di se stesso; nel diventare Io, nella responsabilità morale autonoma di ciò che si fa, formiamo karma individualizzato. Le culture occidentali sono così poco cristificate che nelle nostre lingue non esiste neanche una parola per indicare il karma individuale, ciò che io ho costruito nel mio essere in base alla mia libertà. E dobbiamo prendere a prestito la parola sanscrita “karma”. La parola “destino” è una parola cristiana? No, perché il destino è una conduzione dal di fuori. Tutta roba del Padre. Ma la cultura cristiana, lo ripeto, doveva oscurare per secoli la consapevolezza del karma per dare all’individuo la possibilità di riconquistarsela tutta in proprio. Il destino ha a che fare con il fato, è ciò che non ho fatto io e non ci posso far niente: invece il karma è l’opposto. Quando uno dice: è destino, mica intende dire che dipende da lui. Siamo proprio all’inizio di una presa di coscienza, cristica però, dei misteri del karma.

I. Hai detto che il Cristo, nei riguardi della samaritana, rappresenta un fattore di non dipendenza. In questo processo di individualizzazione non c’è anche una crescita dell’egoismo dell’individuo, non cresce anche il senso egoico, lo scoprirsi capace di cose tutte proprie? Mi pare un circolo vizioso: più aumenta l’individualizzazione, più aumenta l’egoismo.

A. Dicevamo che la prima fase di questo diventare autonomi – tu hai cercato adesso di esprimere cosa avviene quando si diventa autonomi – dev’essere negativa: via, via, via tutti dalla mia strada! Pensiamo alla pubertà, come paragone. Tu vuoi dire che l’individuo, una volta che diventa egoistico perché respinge ogni conduzione da fuori, ha la possibilità di restare egoista. Certo, perché l’altruismo, la seconda fase della libertà, la fase di essere liberi non solo dagli altri ma per gli altri, non viene per forza: è libera e si può omettere. Quindi l’egoismo è l’inizio necessario della libertà: quando l’egoismo, ormai acquisito, non fa posto all’amore, diventa l’omissione dell’amore. Ma l’omissione dell’amore deve esserci come possibilità. L’egoista è colui che tarda ad aggiungere all’amore di sé l’amore per gli altri, quindi omette troppo a lungo l’amore per gli altri. Finché con l’egoismo non saltano fuori pasticci, vuol dire che l’amore di sé è ancora in fieri, che bisogna ancora far qualcosa per diventare del tutto autonomi. Quando cominciano a saltar fuori pasticci, significa che si è aspettato troppo a costruire, ad aggiungere l’amore per gli altri.

I. Ma di egoismo mi pare che ce ne sia a sufficienza.

A. Se la caduta nel suo punto infimo coincide con quello della massima egoità – e l’affermazione che il cristianesimo fa è che il punto infimo sta già dietro di noi –, allora non c’è più nessun essere umano che non sia abbastanza egoista; ci sono magari uomini che non si accorgono di quanto egoisti siano. Adesso siamo già due millenni dopo la svolta, siamo già nella necessità evolutiva di aggiungere liberamente all’amore di sé l’amore dell’altro.

I. Volevo dire che l’egoismo cresce anche con l’altruismo, in un certo senso.

A. L’amore dell’altro è la perfezione dell’amore di sé, perché puoi amare l’altro soltanto portando a fioritura massima ciò che solo tu puoi dare all’umanità. Amore di sé e amore altrui si approfondiscono a vicenda. Finché si escludono sono tutti e due incipienti, sono all’inizio. Un amore di sé che danneggi l’altro danneggia anche sé, non è un vero amore di sé. E così un amore per l’altro dove io mi devo cancellare non è amore per nessuno, perché non ho nulla da offrire all’altro, cancellandomi. Quindi amore di sé e amore per l’altro ricevono la loro genuinità l’uno dall’altro. Più l’amore per gli altri mi porta a maturare i doni che ho da dare, cioè le mie capacità, e più l’amore di me diventa perfetto.

I. Allora è una falsità la dicotomia egoismo-altruismo, in un certo senso.

A. È l’illusione della coscienza caduta. Però è reale, realissima, quest’illusione. Io mi illudo che mandando a farsi benedire tutto il mondo posso davvero pensare a me stesso; e in questa illusione ci vivo, eccome, se ce l’ho. In questo consiste la caduta della coscienza. Che cosa è necessario per vincerla? Averla! Viverla! Noi continuiamo a dimenticare queste uova di Colombo.

I. Ma ci sono certe esperienze che già col pensiero vedo dove mi portano, non le devo per forza vivere.

A. Tu stai dicendo che la caduta non era necessaria: invece è necessaria se si vuol fare una risalita. In che cosa consiste la caduta?

I. Forse nel vivere un’illusione senza sapere che è un’illusione.

A. E già. Vivere l’amore di me come escludente l’amore altrui: è un’illusione, ma se io lo vivo così, per me è così. Sono ancora lontano dall’essere così perfetto da amare me stesso e contemporaneamente (non dopo!) anche tutti gli altri, non capisco ancora che quel che costruisco in me lo costruisco per loro. Ma intanto, pensare questi pensieri, anche se siamo all’inizio, è la vittoria sull’illusione – non ce lo dimentichiamo. Però per vincerla proprio a livello di operatività morale, ci vuole tutta la seconda fase dell’evoluzione. Ognuno di noi, oggi, si vive ancora in alternativa agli altri. Se tu hai un milione non puoi dire di spenderlo direttamente anche per gli altri: lo spendi per te. Quindi lo stato di caduta è quello di dover scegliere fra me e l’altro, perché siamo smembrati; nella misura in cui ci riorganizziamo gli uni dentro gli altri, non c’è più da scegliere, perché in un organismo non si sceglie: se gli organi son tutti sani, è sano l’organismo e se uno si ammala è malato tutto l’organismo.

I. Si può anche dire che si tratta di trovare il giusto equilibrio tra i propri talenti e i bisogni altrui. Concretamente.

A. Certo. Il mio libro Potere o solidarietà è di nuovo un tentativo, stavolta sul tema dell’economia, di elaborare questi temi fondamentali. L’uomo d’oggi viene alienato ancora di più da se stesso perché è costretto a viversi solo in chiave di bisogno (soldi, soldi, soldi...) e mai come pieno di talenti da riversare sugli altri. Rendersi conto di come questo illusorio amore di sé sia in realtà un’autodi-struzione perché manca l’amore per gli altri, è difficile da capire e vivere. O ci costruiamo a vicenda, e allora ci costruiamo tutti, oppure ci distruggiamo a vicenda. Nessun essere umano può svilupparsi a scapito degli altri, così come nessun organo lo può a scapito degli altri. Finché l’amore di sé non diventa al contempo amore per l’altro è illusorio. Uno si illude di amare sé, ma non si ama veramente perché si procura soltanto nemici.

4,43 “Dopo i due giorni uscì di là verso la Galilea.”

4,44 “Gesù stesso infatti dette testimonianza che un profeta non viene onorato nella sua patria.”

Una frase a tutti nota. Ma che vuol dire? Il Cristo che fa passare l’evoluzione dalle mani del Padre a quella del Figlio testimonia della verità di questo detto antico. “Patria” viene da padre: patria è il risultato di ciò che altri hanno fatto; al centro dell’evoluzione, la patria è il risultato di tutto quello che è avvenuto prima. Un profeta, per definizione, è colui che apre al futuro, che ha l’occhio verso il futuro. E il profeta di tutti i profeti, colui che apre tutta la seconda parte dell’evoluzione, è il Cristo: perciò ogni profeta partecipa del Grande Profeta che è il Cristo. L’innovatore non può essere onorato dai conservatori. È così semplice! Il compito del conservatore è di mettere i bastoni fra le ruote a colui che guarda in avanti, altrimenti non avrebbe nulla da rinnovare. Ognuno ha il suo compito: nell’evoluzione non possono mancare forze di resistenza da superare. Questa è una dinamica che si sviluppa nell’animo di ogni uomo che, in quanto al carattere fondamentale del suo essere, o è un po’ più patriota-conservatore o un po’ più profeta. Ma queste due forze sono in ciascuno, altrimenti non ci sarebbe crescita. Si può naturalmente diventare disumani andando all’estremo di qua o di là; l’evoluzione giusta è di veder di volta in volta ciò che si può davvero trasformare e ciò che va mantenuto. Se uno vuole trasformare più di ciò che è realmente possibile, fa violenza alla realtà e pagherà lui stesso perché vorrà l’impossibile; ma di fondo, in noi c’è la tendenza all’inerzia, a volere meno del possibile. Tra il più e il meno c’è l’equilibrio evolutivo che trasforma di volta in volta tutto ciò che si può trasformare.

I. Il metro di questa decisione è sempre l’essere umano?

A. L’essere umano che si individualizza sempre di più. Ciò che per un uomo è una mezza rivoluzione, per un altro è una gran noia; allora il confronto tra forze rinnovatrici e conservatrici è destinato a diventare sempre meno rivolto agli altri, al sociale, e sempre di più alla propria interiorità. Il sociale non è più oggetto per questo scontro di forze, ma sempre di più è la base per sapere dentro di sé quali passi sono precipitosi e quali troppo lenti. E questo varia da persona a persona. Il compito del sociale, se non vuole distruggere la libertà individuale, è quello di diventare sempre più modesto e di attenersi alle cose necessarie per tutti affinché abbia luogo lo scontro di forze nell’interiorità di ognuno. Allora chi sono il rivoluzionario e il conservatore che si scontrano all’esterno, nel sociale? Sono coloro che omettono di vivere il confronto interiore di queste due forze: non vivendolo all’interno, lo portano all’esterno. Nella misura in cui ognuno, in modo individuale, gestisce in sé e confronta giustamente queste forze che fanno parte di ogni esser umano, ci sarà sempre meno bisogno di scontrarsi nel sociale, dove non serve. Diventerà sempre più oggettivo che quel che è rivoluzionario per uno è invece troppo poco per un altro, che è chiamato a cambiare le cose. Qual è allora il criterio futuro del sociale? È che diventi sempre meno incombente in modo da dare a ognuno la possibilità del proprio sviluppo evolutivo individuale; però, nella misura in cui milioni e milioni di individui omettono questo cammino individuale, diverso per ognuno, ci sarà in tutti la pretesa di un’armonia che dev’essere “il sociale” a stabilire. Ma quale armonia può dare il sociale se ciò che per l’uno è rivoluzionario per l’altro è vecchio come il cucco? Una persona che compia una rivoluzione dentro di sé ha più che a sufficienza da fare, e la rivoluzione sociale non se la sogna neanche. L’evoluzione nel sociale può essere solo il risultato della somma delle individualità che si evolvono. Non è più il sociale a creare, di riflesso, un’evoluzione nell’individuo, ma è l’individuo a creare, di riflesso, un’evoluzione nel sociale.

I. Non è sempre stato così. Per esempio Marx, che era un utopista, ha trascinato l’evoluzione in una certa direzione. Forse, oggi, anche gli atti di Bin Laden trascinano l’evoluzione, richiamano l’attenzione a un mondo diverso. O no? C’è ancora un’interazione fra l’interno e l’esterno, secondo me.

A. Il sociale è la somma di ciò che gli individui fanno di sé: non salta fuori nel sociale né più né meno di quello che ciascuno ha fatto dentro di sé. Se c’è in milioni di individui l’omissione di un’evoluzione retta, che cosa salta fuori, come evidenziamento di questa omissione? Il caos. Ma il caos non è il problema “del sociale”, ma di milioni di individui che omettono l’evoluzione individuale. In altre parole, il cosiddetto sociale è una delle più grandi astrazioni che esistano. Esistono individui, non “il sociale”. Parlare del sociale come di una realtà conducente l’evoluzione, corrispondeva a verità quando l’umanità era sotto la direzione del Padre: ma oggi siamo già due millenni dopo la svolta. Quando si seminava era la comunità a decidere cosa doveva avvenire nell’individuo; nel tempo della mietitura, il Cristo è venuto a far sì che siano gli individui a decidere che cosa deve avvenire nel sociale.

I. Però dal punto di vista economico, per esempio, sono più le istituzioni organizzate che gli individui a condurre.

A. No. La forza di queste organizzazioni non è una forza primigenia: è il risultato della debolezza degli individui che hanno omesso di coltivare la loro forza. Nessuna istituzione o organismo impersonale potrebbe acquisire un minimo di forza se non ci fossero nell’umanità numerosi individui che omettono di costruire ed esercitare la propria forza individuale. Come acquisisce l’organizzazio-ne anonima la sua forza? Dal fatto che cento, mille, un milione di persone si sono rese anonime. Un’organizzazione nasce da un processo di abdicazione del singolo, è il risultato cumulativo della rinuncia dei singoli. Ma l’effetto non lo comprendi se non capisci la causa. La potenza di una multinazionale non è un fenomeno di causa, ma un fenomeno di effetto, la cui causa è l’abdicare di tanti individui.

I. E del prevaricare di altri.

A. La prevaricazione viene permessa da chi abdica. La differenza tra abdicare e prevaricare è enorme: per abdicare non ho bisogno del permesso di un altro, per prevaricare qualcuno, invece, ho bisogno che l’altro ometta la sua forza e mi permetta la prevaricazione.

I. Il patriottismo americano dopo i fatti dell’11 settembre può vedersi sotto quest’ottica dell’abdicazione all’individualità?

A. Penso proprio di sì.

I. Direi già prima di Bin Laden!

A. Certo. Faccio solo un accenno a questa situazione perché molti me lo hanno chiesto. Quando noi parliamo del “popolo americano” facciamo un’astrazione astronomica. Non esiste “il popolo americano”: esistono persone, e sono poche, che, avendo in mano la forza finanziaria hanno in mano anche la forza militare. Il potere più grosso, quello che veramente muove i destini dell’umanità, è il denaro. Supponiamo – lo metto qui come ipotesi, ma per me è reale – che ci siano una cinquantina, o forse dieci individui che hanno in mano una potenza straordinaria perché sono in grado di muovere migliaia di miliardi di capitale, quindi hanno in mano anche la forza militare più schiacciante di questo mondo, e la potenza della stampa. Denaro, armamenti, stampa. Ma questo non è “il popolo americano”, sono pochissime persone del popolo americano. Strumentalizzano 170 milioni di individui – dico le cose per sommi capi – con l’arma del nazionalismo che ottenebra la coscienza. Quindi la grossa tragedia del popolo americano, che come popolo non ha nulla a che fare con questo potere così disumano, è quella di arrivare a distruggere paesi (l’Afganistan, l’Iraq...) con la scusa di salvare la libertà dell’occidente. Ma quale libertà? Si tratta di avere accesso al petrolio a un terzo del prezzo che paghiamo noi europei!

Il popolo americano ha, secondo me, una qualità spiccata: è in grado di guardare allo spazio infinito dell’evoluzione proprio perché è scappato via dai ceppi europei carichi di duemilacinquecento anni di storia, e perciò da trecento anni respira, ha forze di gioventù inesauribili. Il lato più delicato è che è anche un popolo ingenuo, di un’ingenuità che noi in Europa neanche ci sogniamo e che è massimamente sfruttata dal potere. Se io capisco bene le leggi del potere, non posso far altro che pensare che i moventi dell’attentato alle due torri, i retro retro retro moventi, devono essere i potenti che ora hanno una scusa formidabile per obnubilare tutto un popolo, per usarlo in modo disumano con l’arma del nazionalismo. Il nazionalismo, aggiunto all’ingenuità – che ha anche il suo lato bello perché è una condizione evolutiva sciolta dagli inceppamenti di storia e tradizione – offre il fianco alle manipolazioni. Su questa ondata di pseudo nazionalismo gli americani permettono al loro presidente di fare quello che vuole. Però il fenomeno qual è? È la chiamata di ognuno di questi 170 milioni di individui a svegliarsi, perché se continuano a omettere la coscienza desta le sorti dell’umanità non diventeranno certo migliori. La chiamata a svegliarci ce l’abbiamo tutti, altrimenti non saremmo esseri umani. Io mi augurerei che ci fossero realmente tentativi per aiutare questo popolo a rendersi conto di quanto venga strumentalizzato. Allora le cose potrebbero cambiare nell’umanità. Susan Sontag, un’americana che vive a Berlino, ha scritto che la percentuale di approvazione di quello che il presidente fa è del 92, 93%, esattamente quella che aveva il Cremlino ai tempi della dittatura comunista. E questo sarebbe il popolo della libertà! Non vi pare che tutto ciò mostri a quali livelli di illusione gli esseri umani possono arrivare?

I. Per il popolo americano non vale il detto: nessuno è profeta in patria?

A. La Susan Sontag ha preso delle belle bastonate proprio in base a quello che ha detto. E poi, chi ha deciso che invece di Al Gore diventasse presidente Bush? Non il popolo, ma il potere. Perché il popolo fatto di singoli individui aveva espresso 500.000 voti in più per Al Gore: quindi ci sono elementi di pseudo democrazia molto forti, che si possono vedere soltanto superando un certo livello di ingenuità. Il meno sveglio degli europei, l’ingenuità degli americani non se la potrebbe permettere, perché qui ci siamo ammazzati fra di noi per oltre duemila anni e non siamo nemmeno ottimisti sulle sorti di questa Europa, che non è appena a un terzo della sua unità. Negli Stati Uniti, quando un americano dice: we are American (noi siamo americani) intende dire qualcosa. Per noi, essere europei non significa ancora nulla, e proprio questo ci concede di non poter essere manipolati più di tanto. Io vedo massimamente soffrire il popolo americano: se gli individui si svegliassero e vedessero quello che si fa nel loro nome, si opporrebbero subito. Perciò era necessario per i potenti obnubilare il popolo con questa sbornia del nazionalismo.

I. In America c’è un movimento che si oppone alla guerra e che ha scelto di chiamarsi proprio “Non nel nostro nome”.

A. Per quanto siano in pochissimi a parlare, lì la voce del singolo, se vuole, può farsi sentire.

I. Il Cristo, sul piano storico, a quale patria si sta riferendo? Alla Giudea, visto che sta andandosene dalla Samaria verso la Galilea?

A. Ci sono due patrie fondamentali: una è la Galilea e l’altra è la Giudea, e il problemino è che per lui sono tutt’e due patrie. Quindi piglia botte sia al nord sia al sud. Questo non fa parte del vangelo di Giovanni, ma siccome tu vuoi sapere tutto, se noi studiamo l’origine, il luogo di nascita, di Gesù di Nazaret in Matteo e in Luca salta fuori che in Luca la patria è la Galilea (Nazaret) invece in Matteo è la Giudea. Tutto il resto te lo vai a leggere in Rudolf Steiner. In altre parole, uno dei misteri più grossi del vangelo è l’identità fisica del Gesù, e non si sa neppure bene chi sia suo padre e chi sia sua madre. Nel vangelo di Giovanni avremo modo di trovare la domanda sull’identità di Gesù quasi a ogni capitolo.

Perché è importante che non si riesca a identificare l’origine fisica di Gesù? Per cancellare ogni vanto del mondo fisico, perché non si potesse dire: da questo paese è venuto il Messia, e dunque noi siamo gli eletti. Per rendere gli esseri umani tutti uguali di fronte al Cristo. Quindi il proverbio applicato al Cristo sta a significare proprio che patria non ne ha: viene dal mondo spirituale e nessuna nazione può vantarne la paternità. Già il fatto che con gli strumenti della scienza dello spirito oggi possiamo tematizzare queste domande che per duemila anni non sono state poste, significa che siamo a una svolta della coscienza umana e del cristianesimo. Ed è bello vedere che le affermazioni che uno legge per la prima volta in Steiner, hanno il loro fondamento nei vangeli: rileggendo Luca e Matteo si trovano conferme. Ma i presupposti di coscienza, di pensiero, per affrontare questi quesiti non c’era duecento anni fa, e oggi che ci sono bisogna avere ugualmente pazienza e tolleranza versa il cammino degli altri, altrimenti l’evoluzione non va avanti. Ognuno deve opporsi soltanto quando l’altro gli impedisce di camminare, allora sì. Ma il cammino dell’altro è sacro e mi deve andar bene così com’è, perché anch’io mi aspetto dagli altri che rispettino il mio cammino, così com’è. Il male morale è l’uomo che manipola l’altro uomo, impedendogli il suo proprio cammino.

Ci concediamo una pausa?

*********

4,45 “Quando poi venne in Galilea, i galilei lo accolsero avendo visto tutte le cose che aveva fatto in Gerusalemme durante la festa, poiché essi stessi erano andati alla festa.”

Si gioca sempre sulla polarità Galilea-Giudea. La Palestina è come un essere umano capovolto: Giudea al sud (la testa), al centro la Samarìa (il tronco), al nord la Galilea (gli arti). Nella Giudea c’è il deserto, il teschio ecc., viene detto che la salvezza viene dai giudei, quindi dalla capacità pensante dell’essere umano; la Galilea è il luogo delle forze ancora dormienti della volontà dove il Cristo fa i primi segni che danno inizio all’evoluzione dell’essere umano singolo; in mezzo c’è la Samaria, il mondo del cuore, dell’anima, che fa da ponte e tramite. Ciò che avviene nella dinamica tra Giudea e Galilea è al contempo sempre un’indicazione di ciò che avviene nell’essere umano nell’interazione tra testa e metabolismo, tra fenomeni di conoscenza e fenomeni di volontà.

4,46 “Ritornò dunque a Cana di Galilea dove aveva reso l’acqua vino. E c’era un servo del re il cui figlio era ammalato a Cafarnao.”

E adesso arriva il secondo segno del Cristo. Βασιλικος (basilikòs) in greco significa “un regio”, un servo del re, un’appendice del re. A volte è tradotto: funzionario regio, ma il greco pone l’accento sul fatto che quest’uomo prende la sua identità dall’essere un dipendente del re.

4,47 “ Costui, avendo sentito che Gesù era venuto dalla Giudea verso la Galilea, se ne andò verso di lui e lo pregò affinché scendesse e guarisse suo figlio. Stava infatti per morire.”

Cafarnao era proprio sulla sponda del lago di Genezaret, quindi da tutta la Galilea si doveva scendere per andare a Cafarnao.

4,48 “Gesù disse a lui: Se voi non vedete segni e portenti non credete.”

4,49 “Dice a lui il regio: Signore, scendi prima che muoia il mio ragazzo.”

Παιδος (paidòs) è in greco il giovinetto in età puberale.

4,50 “Dice a lui Gesù: Vai, il figlio tuo vive. Credette l’uomo alla parola che disse a lui Gesù, e andò.”

Credette l’uomo, ο ανθρωπος (o ànthropos). Mentre prima era un βασιλικος (basilikòs), adesso fa una prima esperienza di fiducia in questo essere che sta vedendo, e ciò consente all’evangelista di chiamarlo ανθρωπος. L’uomo diventa uomo nella misura in cui acquista fiducia nell’operare dell’Io.

4,51 “Mentre lui ancora scendeva, i suoi servi gli andarono incontro dicendo che il suo ragazzo viveva.”

4,52 “Si informò presso di loro circa l’ora nella quale il figlio aveva cominciato a migliorare. Dissero a lui: ieri all’ora settima lo lasciò la febbre.”

4,53 “Allora il padre seppe che era l’ora in cui Gesù aveva detto a lui: Il figlio tuo vive, e credette lui e tutta la sua casa.”

4,54 “Questo fu il secondo segno che Gesù fece essendo venuto dalla Giudea verso la Galilea.”

Riprendiamo adesso elemento per elemento, perché qui c’è un mondo infinito di cose. Comincio con un accenno ai vari cicli del Sole che qui sono fondamentali. Alla fine del capitolo 4, dove ci troviamo adesso, abbiamo questo secondo segno; subito dopo, all’inizio del capitolo quinto, avremo il terzo segno, che è la guarigione del paralitico alla piscina di Betesda. In questo capitolo c’è una grossa diatriba con i Giudei dove il Cristo descrive la missione del Figlio che viene a compiere l’opera del Padre. È quindi il capitolo dove il Cristo, in piena ufficialità, a Gerusalemme, proclama la missione del Figlio come compimento della missione del Padre: proprio a Gerusalemme, al centro della cultura giudaica, dove la divinità viene chiamata Jahvè o Jahvè-Elohim, ma non “Padre”. Poi andiamo al capitolo sesto: il Cristo ritorna in Galilea e abbiamo il quarto segno, la moltiplicazione dei pani, il nutrimento, la sfamazione dei cinquemila. In questo stesso sesto capitolo c’è anche il quinto segno, che è la tempesta sedata sul lago.

Ciò che intendo sottolineare è che per questo secondo segno è determinante l’ora; per la guarigione del paralitico sarà determinante il giorno della settimana, il sabato; per il quinto segno sarà determinante il periodo dell’anno. Il giorno è un ciclo totale del Sole per tutti e dodici i segni dello zodiaco; invece il ritmo settenario dei giorni della settimana si riferisce in modo particolare al rapporto della Luna con la Terra (per esempio: quattro volte sette è il ciclo lunare); il ciclo delle feste dell’anno è di nuovo il Sole che percorre tutti i segni zodiacali. In altre parole, la guarigione del figlio del servitore regio la si capisce inserita nel mistero del giorno, la guarigione del paralitico la si capisce nel mistero della settimana e la sfamazione dei cinquemila la si capisce se inserita nel mistero dell’anno.

Possiamo osservare anche delle polarità: il figlio del servitore regio soffre di febbre, il paralitico di sclerosi; fisiologicamente è una polarità fondamentale. Il testo stesso indica che si tratta di fenomeni primigeni, tipici. Steiner chiamerebbe tutte le forze che giocano tra padre e figlio come un fenomeno puramente luciferico e il fenomeno del paralitico come un fenomeno arimanico. A parte la terminologia che si usa, si tratta di individuare di volta in volta le realtà sia fisiologiche sia psichiche che giocano un ruolo in questi avvenimenti.

Il problema del servitore regio qual è? Rappresenta l’essere umano che non ha ancora nulla di individuale, ma è una pura appendice di qualcun altro. È il risultato puro dell’evoluzione sotto il registro del Padre, tant’è vero che suo figlio ha soltanto “una patria”, ha soltanto il padre che è in tutto e per tutto dipendente dal re – tant’è vero che non viene chiamato uomo, ma “un regio” – e non ha nulla di individuale né nel pensiero né nella volontà. Questo figlio cresce, si trova alla soglia della pubertà e rischia la morte. Superare la soglia della pubertà significa staccarsi dai genitori e cominciare a costruire qualcosa di proprio; al ragazzo però mancano i presupposti per costruire qualcosa di individuale in quanto è stato esposto, crescendo, alle forze non individualizzate del padre. In che cosa consiste la guarigione operata dal Cristo? Il Cristo concede al padre una prima esperienza di fiducia nell’Io. Nel momento in cui il Cristo gli dice: Vai, il figlio tuo è salvo, il servo del re deve avere in qualche modo vissuto la presenza, le parole e l’operare del Cristo come qualcosa di assolutamente degno di fiducia. Il Cristo non va nemmeno con lui – l’Io non ha bisogno di presenza fisica: è una realtà spirituale. Vai, queste forze che tu invochi per la salvezza di tuo figlio te le posso conferire anche a distanza spaziale perché sono dappertutto. La svolta si compie nel momento in cui questo padre, che finora aveva avuto fiducia solo nel re e negli altri, acquisisce fiducia nell’Io, nelle forze che sono dentro l’essere umano. Il padre, rafforzato in sé, è in grado di infondere questa stessa esperienza al figlio che supera senza morire la soglia della pubertà e comincia l’evoluzione individuale, nell’autonomia.

L’ora è la settima: l’una. Con la samaritana era l’ora sesta, mezzogiorno. Il mistero del Golgota è avvenuto nell’ora nona dell’evoluzione totale. L’operare del Cristo è un operare di mietitura, non di semina. Quindi presuppone che l’evoluzione fisica abbia già oltrepassato il punto sommo, l’apice, e cominci a poter venire raccolta perché il senso di ogni morire della realtà fisica è di far risorgere lo spirito. Il Cristo può suscitare la forza dell’Io nel padre, e di riflesso anche nel figlio, dopo che la forza fisica del Sole fisico comincia a tramontare, a scendere.

I. Perché non prima?

A. Perché prima la conduzione ce l’ha la natura, la natura è l’elemento portante che deve crescere. Quando l’elemento di natura si ritira, fa posto allo spirito, e lo spirito umano si genera unicamente consumando la materia. Lo spirito umano si sprigiona, a tutti i livelli e in tutte le sue manifestazioni, unicamente consumando frammenti di materia, proprio come la fiamma di una candela fa luce consumando la cera. Quest’immagine è sempre stata usata, ed è molto bella.

I. Però le sante sono rappresentate sempre belle rotonde. È proprio necessario diventar magri?

A. Se sono sante belle rotonde, lo sono per grazia ricevuta!

I. San Tommaso d’Aquino nelle raffigurazioni non è mica tanto magrolino!

A. Andiamo indietro di settecento anni, e il suo pensiero non era ancora al punto di venir conquistato frase per frase da uno sforzo logorante dell’Io. Leggi la Summa teologica: è una tecnica di pensiero perfetta ma non sudata, e quindi era possibile quella sua bella pancia. Noi dobbiamo sudare.

I. Tornando al testo: il padre posso collocarlo verso il declino, ma il figlioletto? Seppure è nella pubertà, che è una soglia, è ancora nel pieno delle forze vitali di crescita. Poi questo inizio di consapevolezza dell’Io che passa dal padre al figlio non mi convince tanto.

A. Cerchiamo di comprendere nella loro essenzialità le forze che sono in gioco. Abbiamo il re coi suoi pensieri e impulsi volitivi e questo βασιλικος (basilikòs) che non ha nulla di suo. Ha un figlioletto che la natura porta, verso i dodici anni, a una soglia che si può passare soltanto se si ha un minimo di individuazione, altrimenti si muore. Da dove gli viene l’individuazione?

I. Non gli può venire che dal padre.

A. E se il padre non ce l’ha? Il figlio avrebbe la possibilità di vivere il gioco di forza e controforza tra la sua e quella del padre se il padre avesse una forza sua: ma non ce l’ha. In altre parole, a questo figlioletto non viene offerta nessuna controforza.

I. Ma Gesù che fa?

A. Cosa dice il testo? Επιστευσεν (epìsteusen): il servo del re si riempì di forze di fiducia nell’Io. Questa è la grande svolta di tutto l’evento. Per la prima volta questo figlioletto è confrontato con le forze dell’Io.

I. Non capisco la febbre del figlioletto.

A. Cosa fa il calore? Scioglie, non permette di chiudersi in se stessi. Invece la sclerosi è un eccessivo chiudersi in sé che non permette di muoversi, di aprirsi e operare nel mondo.

I. Ma in quanto dipendente del re, non aveva comunque una sua forza, questo padre?

A. No. Sono impulsi di gruppo, non individuali. Nel Cristo il nuovo è l’individuale.

I. Col βασιλικος siamo ancora nel mondo del Padre, allora.

A. Certo. Manca la differenziazione, l’individuazione che comincia con l’incontro col Cristo.

I. C’è anche una dinamica pedagogica, mi pare: quanto più il genitore si individua, tanto più si rafforza il figlio.

A. Certo. Come dicevo, è una dinamica di forza e controforza. Se il ragazzo o la ragazza nella fase puberale non hanno nulla a cui andar contro, come fanno ad emanciparsi? Da che cosa si emancipano? Quindi è importantissimo che i genitori, la chiesa, la scuola... pongano una controforza. Allora c’è gusto.

Andiamo a cena, s’è fatto tardi.

27 dicembre 2001, sera

Dicevamo che questo servo del re, questo funzionario regio, è ancora del tutto inserito in un impulso di gruppo. Il re non è una persona privata, ma incorpora gli impulsi sociali e evolutivi di tutto il suo regno: quindi “servo del re” significa che è totalmente al servizio della realtà di gruppo. Dicevamo oggi che l’uomo a servizio – e che perciò non è ancora individuo –, al quale si chiede osservanza, era al tempo giusto nella prima fase dell’evoluzione dove si trattava di venire educati all’autonomia attraverso la legge esterna. I dieci comandamenti della Legge mosaica sono le vie maestre per diventare un Io. Il significato di ogni conduzione dall’esterno, non fa male ripeterlo, è di rendere capaci di gestirsi dall’interno. Un maestro è buono nella misura in cui rende legittimo il suo sparire, facendo di tutto per tirar fuori le forze di autogestione dell’allievo. E se si tratta di tirarle fuori si presuppone che ci siano già potenzialmente: l’educazione è una guida dal di fuori con l’intento di emancipare la vita interiore. Quindi la Legge mosaica è una guida solo in partenza dal di fuori, perché il suo senso è l’interiorizzazione dei comandamenti, cosicché vengano osservati sempre di meno per sottomissione e sempre di più per convinzione interiore. Ciò avviene quando faccio l’esperienza che questa conduzione dal di fuori mi fa bene, nel senso che corrisponde al mio essere, mi aiuta a svilupparmi sempre meglio, mi fa crescere, mi fa diventare sempre più autonomo. Smetto di osservarli perché “devo” e comincio a osservarli perché “voglio”, perché ne capisco il senso e ne esperisco il beneficio sul mio progresso reale.

Prendiamo l’ingiunzione di Jahvè che di Dio ce n’è uno solo e che non devo farne immagini: in un certo senso, culturalmente, questo comandamento è polare al politeismo greco e alle meravigliose immagini con le quali esso ritraeva tutte le divinità - la mitologia greca è un’immaginificazione senza fine, e tutti gli dèi hanno corporeità umana. Ora, la forza dell’Io si sviluppa nella misura in cui sorge una sfera oltre l’immaginazione, cioè una sfera di pura immanenza: l’esperienza dell’Io non consente nessuna immagine al di fuori, perché allora non sarebbe più un Io. L’immagine è una esteriorizzazione e l’Io non consente esteriorizzazioni, è pura interiorità. L’Io è davvero un dio unico, non ammette altre istanze accanto a sé, è monoteistico per natura. Questo è un piccolo esempio del fatto che i dieci comandamenti sono dieci vie fondamentali per diventare sempre di più un Io. Il Cristo trova l’umanità – sempre, anche oggi – in questo passaggio all’Io perché è il Cristo stesso che fa questo passaggio; quindi se il servo regio incontra il Cristo, è anche nel suo karma di trovarsi ora al punto di poter porre un inizio di interiorizzazione, di individualizzazione delle leggi regali e sociali che finora ha seguito sottomettendosi. Il Cristo gli dice: la forza dell’Io non ha bisogno del contatto esterno: se tu sei convinto, e sei venuto apposta!, che io sia capace di guarire tuo figlio; va’, allora, che tuo figlio è guarito. Non trascuriamo il fatto che questo servo regio ha preso una decisione enorme andando dal Cristo, nel fermo convincimento che sia capace di guarirgli il figlio. Il Cristo conferma in un modo bellissimo questa incipiente fiducia nell’Io e gli dice: la forza dell’Io non è dipendente dal tempo e dallo spazio. Dal momento in cui tu, tra tutti i taumaturghi che ci sono nel mondo, ti sei rivolto a me, questa forza la porti con te, non c’è bisogno che io venga fisicamente. Va’, tu sei diventato diverso, e tuo figlio, per trasmutazione di forze, sarà capace di superare la soglia della pubertà.

Il secondo grande atto di fiducia che questo padre fa è di credere al Cristo. E infatti va. Per questo ho insistito sul v.50, che è quello fondamentale. Il primo passo è la decisione di andare dal Cristo, un passo enorme per uno che era stato fino a quel momento soltanto l’appendice di impulsi volitivi altrui; deve aver sentito parlare del Cristo, in qualche modo, deve essersi interessato, e deve aver colto che il modo terapeutico del Cristo di porsi di fronte agli esseri umani è diverso. Deve aver avuto un primo sentore animico, non intellettuale, che con Gesù di Nazaret si ha a che fare con i misteri dell’Io, stando a ciò che altri dicono di aver vissuto circa forze nuove che sorgono. Il servo passa dalla decisione di andare dal Cristo a dirgli: vieni da mio figlio, all’altra decisione di andarci da solo, dal figlio, certo che il Cristo, l’Io, non ha bisogno del contatto fisico. Il contatto fisico è necessario quando si agisce per magia, perché si agisce su forze di natura. Per esempio, immaginate voi che sia possibile un’ipnosi a distanza?

I. No, perché è una suggestione e l’ipnotizzatore mi deve guardare.

A. Perché ti deve guardare?

I. Perché l’azione non è di natura spirituale.

A. E già! Quindi presuppone l’intervento di forze di natura dell’uno su forze di natura dell’altro. L’acqua non può bagnare dove non c’è. Quindi ciò che è fisico-naturale è legato allo spazio e al tempo. Allora il Cristo gli dice: guarda che qui si tratta di una forza, che poi è quella decisiva dell’evoluzione, che è di natura puramente spirituale. Quando un essere umano, poniamo una mamma, manda un pensiero d’amore verso il suo figliolo che è a diecimila chilometri di distanza, oltreoceano, tutto questo spazio non conta nulla, assolutamente nulla. Le forze di amore raggiungono direttamente e per nulla sminuite la persona a cui sono destinate.

I. Perché il funzionario dice: Signore scendi? Solo in senso geografico?

A. Per lo meno geografico. Se poi ci vuoi vedere il fatto che la forza dell’Io bisogna tirarla giù, puoi farlo senz’altro. Ma come prima realtà, siccome non vogliamo attribuire pensieri stratosferici a questo pover’uomo che sta cominciando adesso la sua svolta d’evoluzione, diciamo che significa: scendi giù a Cafarnao. La Galilea è piena di colline, il monte Tabor è abbastanza alto.

Il secondo grande passo, dicevo, è nel v. 50 che dice: credette l’uomo. È il grande mistero della fiducia. Quando una persona guarisce, lo fa grazie alle sue forze di fiducia nella vita che significano: impulso evolutivo di non voler morire sotto la malattia. Se questo impulso non ci fosse, potreste usare tutte le medicine che volete, tutta la magia corporea che volete, ma quella persona morirebbe lo stesso. Guarire partendo puramente dal dato materiale è per l’essere umano del tutto impossibile. Ma è anche impossibile trovare un uomo che non abbia un briciolo di forze di fiducia; che poi queste forze si riferiscano a Lourdes o a questa medicina che il suo medico, che è così bravo, gli ha prescritto, o al fatto che ha dei figli piccoli e per loro vuol continuare a vivere, tutto questo importa poco: il denominatore comune è la fiducia nella vita, che è soprattutto una forza dell’anima. Nel momento in cui questo βασιλικος si intride di forze di fiducia nell’Io che confermano e amano la vita sulla Terra, viene chiamato ανθρωπος, uomo. Prima era un’appendice di un impulso di gruppo, adesso è un essere umano. Credo di avervi già spiegato che il sanscrito ha le tre caratteristiche specificamente umane che sono: la posizione eretta, la parola e il pensiero. Ora, le varie lingue si caratterizzano anche per il fatto che alcune hanno privilegiato nel mistero dell’uomo il pensiero, altre la stazione eretta, altre la parola. Per esempio manas è la facoltà pensante (il latino mens, l’italiano “mente”): il tedesco usa Mensch per l’essere umano, quindi Mensch è il pensatore; i greci, che erano ginnasti, amanti della totalità della corporeità, hanno caratterizzato l’uomo a partire dalla sua forza di ergersi: ανα (anà) significa “verso l’alto” e τρεπω (trèpo) significa “rivolgersi”, quindi l’uomo, l’ ανθρωπος (ànthropos), è colui che si rivolge verso l’alto, colui che nel corso dell’evoluzione acquisisce e porta in sé la totalità delle forze di erezione. Significa che l’uomo si orienta da sovrano nel mondo circostante, che sa camminare, percorrere i passi di un karma individualizzato, e significa che ha la percezione di tutto quello che lo circonda – e che l’animale non ha perché è rivolto verso la Terra, in un certo senso essenzialmente per nutrirsi. Queste forze di fiducia fanno erigere l’essere umano, e quindi επιστευσεν ανθρωπος (epìsteusen ànthropos), si riempì di fiducia l’uomo.

Nel v.51 i servi gli vengono incontro e gli dicono: il tuo figlio vive, quindi la crisi è superata. In ogni processo di malattia c’è un’intensificazione della malattia e poi c’è la crisi: “crisi” era un termine medico che significava il punto culminante della malattia, qui espressa dalla febbre, che o peggiorerà, col conseguente pericolo di morte, oppure comincerà a risolversi. I periodi che portano alla crisi in molte malattie sono fondati sul settenario dei giorni della settimana: per sette giorni – sette giorni sono un ciclo scritto dal cosmo – presentano un avvicinarsi al punto critico e al settimo giorno si decide: o peggiora o migliora. Come mai quest’uomo chiede in quale ora la crisi s’è risolta verso il meglio? Domando io: chi ha messo in testa a questo servo regio che c’è stata un’ora fatidica? Deve averne fatto l’esperienza, quando il Cristo gli ha detto: va’ il tuo figlio vive, va’ è l’ora in cui in te sorgono i presupposti che consentono a tuo figlio di continuare a vivere. Il Cristo non gli ha detto: vai, il tuo figlio “vivrà.”

Questi testi danno per scontato che esistono realtà spirituali che addirittura si comunicano da persona a persona. Leggere questo evento del vangelo e volerlo capire senza entrare nella realtà spirituale in cui c’è un’osmosi di forze soprasensibili, invisibili, che si trasfondono dal Cristo al padre e dal padre al figlio, significa non spiegare nulla. Perché se si vuol prendere sul serio questo racconto, bisogna porsi la domanda: che cosa è realmente successo? Dall’esterno nulla: tutto ciò che è successo è dunque di natura spirituale. Se il Vangelo di Giovanni ha un futuro nell’umanità, lo ha soltanto nella misura in cui ritroveremo il modo di prendere sul serio non solo ciò che è visibile e percepibile coi sensi, ma anche il soprasensibile. Altrimenti rimane un testo assurdo. Se il cristianesimo tradizionale (nelle due grosse chiese: l’evangelica e la cattolica) facesse nei singoli un passo morale di onestà intellettuale nei confronti di questi testi, dovrebbe dirsi: o inizia nell’umanità una conoscenza scientifica dello spirituale – pulita, non soltanto sentimentale, raffazzonata e approssimativa – e allora questi testi verranno non solo recuperati ma avranno un luminoso futuro, oppure i vangeli dovranno sparire. Nessuno, senza un minimo di conoscenza scientifica dell’invisibi-le, è in grado di capire che cosa succede in questo evento di guarigione del figlioletto.

I. Se non mi riferisco a Lourdes o a qualsiasi altra cosa, come posso attivare queste forze di guarigione, indipendentemente da influssi esterni?

A. Proprio nel capire che il senso di ogni impulso esterno è quello di terminare, prima o poi. In altre parole, gli impulsi esterni non avranno in eterno la loro forza, diventeranno sempre più anacronistici. O l’essere umano interiorizza, sia conoscitivamente sia moralmente, i motivi per vivere, oppure ne avrà sempre di meno. Facciamo un piccolo salto: cosa ci dicono questi cosiddetti terroristi pronti a morire per andare in paradiso? Che non hanno nessun motivo di vivere. Se i motivi di vivere dati dall’esterno giustamente non mi convincono più perché mi rendono dipendente, e se non creo nulla dall’interno, cosa mi resta come forza che mi induca a continuare a vivere? Io vedo sempre più persone che non hanno quasi più nessuna motivazione reale per l’esistenza, e questa è la tragedia dell’umanità. Lo scemare delle forze che mi conducono dall’esterno è legittimo, oggi, ma se trascuriamo, proprio come atteggiamento culturale, di coltivare le sorgenti interiori della fiducia, della positività, della bellezza dell’Io, avremo esseri umani sempre più deboli su tutta la linea. Io vedo, anche in Germania, tante e tante persone che arrivano stremate alla fine della settimana, dopo cinque giorni lavorativi nei quali di sicuro si lavora molto meno che non cinquant’anni fa. Ci dev’essere un grosso peccato culturale di omissione. Pigliando una scorciatoia posso dire: viene omesso di coltivare la scienza dello spirito, che non è un sapere come un altro, ma è un ricostruire dal di dentro le forze del vivere. Se io leggo Steiner e credo a lui di nuovo come a un’autorità esterna, non mi serve a nulla. Abbiamo creduto per millenni! Se invece prendo ciò che la scienza dello spirituale mi dà come spunto di pensiero, come spunto di innamoramento, e ci lavoro su col mio pensiero, che sia poco o molto diventa un eros del mio spirito e comincio a trasformare la mia vita, ad avere motivi per vivere su tutta la linea. Sia sulla linea conoscitiva, sia sulla linea morale. Oppure ditemi quali motivi ha l’uomo d’oggi di vivere? Non ce n’ha, proprio non ce n’ha! Questa è la tragedia in cui viviamo.

I. Si illude di averli nella materia.

A. Ma neanche più di tanto, altrimenti si dovrebbe manifestare nel mondo un minimo di entusiasmo.

I. Appunto, è un’illusione che ci fa affannare tanto.

A. Ma affannarsi non significa aver motivi di vivere. Io ho chiesto: dove sono i motivi di vivere?

I. Sono indotti.

I. Forse il denaro.

A. Tutti motivi carichi di morte. Si potrebbe dire che attraverso l’incontro col Cristo, il servitore regio fa un primo incontro con tutti i motivi per vivere, quelli veri però. E quindi riacquista in ogni direzione la fiducia nella vita, una fiducia che diventa esperienza, non un fatto mentale.

I. Ho capito ciò che dicevi riguardo al figlio e al padre, ma mi viene sempre da pensare che il figlio di questo servo faccia parte del padre, che siano un’unica persona, e che lo spostamento che c’è dalla Giudea alla Galilea sia lo spostamento dal pensare al volere: “il bambino” che deve sanarsi è una parte del servo stesso, è la sua volontà, che deve proprio mostrare un impulso individuale. Sbaglio?

A. No, è giusto in quanto lettura del rapporto padre-figlio che è sano quando l’adulto fa suo l’impulso all’individualizzazione.

I. A me non sembra che il servo abbia questo impulso perché all’interno del brano c’è una frase del Cristo che dice: “Voi venite per i segni”, e subito dopo: “Vai a casa che tuo figlio è guarito”. E lui credette. Il bello della questione è che se questo “credette” fosse un punto di svolta per la persona, tornando a casa non avrebbe bisogno di ricredere ancora. Il testo però dice: “Il funzionario regio s’informò dell’ora e riconobbe che proprio in quell’ora il Cristo gli aveva detto: Tuo figlio vive. E credette lui con tutta la sua famiglia”. Si usa lo stesso verbo. In sostanza, riferendomi a una frase precedente dove è detto che Gesù conosceva molto meglio le persone di quanto le persone potessero testimoniare di lui, sembra che Gesù conosca molto di più il funzionario regio di quanto il funzionario regio conosca se stesso. Perché anticipare tutto questo cammino di individuazione che il funzionario regio non ha in sé? Semplicemente è andato da Gesù perché voleva un segno per credere. Insomma, tutta questa individualità che si muove, si attiva ecc. io non la vedo uscire dal testo, ma solo da una lettura che tiene conto della figura del Cristo in quanto Essere dell’Io. In fondo, la figura del re rispetto a quella del Cristo non cambia di molto la fenomenologia tra le persone: il funzionario si fida del Cristo come si fida del re e, a loro volta, i suoi servi, che si muovono secondo i suoi dettami, credono quando crede il loro padrone. Sono similitudini che non mi sembrano portare all’individualità.

A. Io ti chiedo: in che cosa consiste il nuovo che il Cristo porta? Il Cristo continua a sottolineare che il Padre suo ha fatto qualcosa che lui viene a portare a compimento, che il Padre ha seminato e lui viene per la mietitura. Come individueresti il nuovo assoluto, e di enorme importanza, che il Cristo porta?

I. In questo caso lo individuo nel fatto che il Cristo conosce meglio l’uomo che gli viene incontro di quanto l’uomo conosca se stesso. Il Cristo dà il giudizio che quell’uomo è venuto lì per i segni e vuole vederne altri: allora dà il segno, però lo dà in una prospettiva che è diversa...

A. E questa diversità importa. Certo che non tutti i fattori umani vengono sospesi, è chiaro che restano intoccati, ma il diverso dov’è? Qui non si tratta di sottolineare che il Cristo conosce e sa, ma si tratta di sottolineare una guarigione, un segno che lui compie. Senza smontare nulla di quello che tu hai detto, dov’è il modo nuovo del Cristo? Proporrei di arrivarci insieme: compare tre volte il verbo “credere”. “Se non vedete segni e portenti non credete”, “L’uomo credette” e infine “Credette lui e tutta la sua casa”. Vediamoli tutti e tre. La prima frase del Cristo non l’ho commentata perché se ci dovessimo fermare su ogni parola impiegheremmo un paio d’anni, ma la discussione c’è proprio per riprendere alcune cose che io magari ho sorvolato e che invece a voi interessano. Allora, siamo al versetto 48 che va tradotto fedelmente dal greco per non andare fuori strada. “Disse a lui Gesù: Se non vedete segni e portenti non credete”: cos’è questa dualità σημεια (semèia) e τερατα (tèrata), segni e portenti? È simile alla dualità tra l’acqua che si beve e il cibo che si mangia: i segni sono qualcosa da vedere, invece i portenti sono opere taumaturgiche. Per esempio un oscuramento del Sole è un segno visivo, da percepire, mentre un terremoto è maggiormente una realtà di forze di natura da vivere. Voi uomini, dice il Cristo, siete abituati alla conduzione esterna, avete fiducia nei segni e nei portenti. Intende dire che adesso sorge un altro tipo di elemento verso cui aver fiducia, ed è di tipo interiore. L’evoluzione umana, finora, ha avuto fiducia nei segni divini e nei portenti divini e senza di essi non c’è fiducia: c’è fiducia solo nelle visioni extraumane e nelle opere extraumane. Il resto non è nulla. Il tutto della vostra fiducia è ciò che la Divinità vi mostra e compie fuori di voi. Questa prima frase del Cristo è un riassunto di come stanno le cose.

I. È però una notazione critica.

A. No, è un aiuto di autoconoscenza. Una delle dimensioni fondamentali di ciò che il Cristo dice, è sempre l’aiuto ad autoconoscersi. L’autoconoscenza parte dal capire qual è stato il mio cammino finora, altrimenti non so a che punto mi trovo e qual è il nuovo cui posso dar inizio. Allora la prima battuta dove c’è il primo tipo di “credere” riassume l’evoluzione e dice: Caro uomo, tu non sei ancora uomo, in effetti, perché finora ti sei fidato soltanto di ciò che la Divinità fa e ti fa vedere. E la causa della malattia di tuo figlio sta proprio nel fatto che gli uomini finora hanno acquisito forze di fiducia solo se posti di fronte ai segni e ai portenti della Divinità. Al v. 49 il servo regio dice: “Signore, scendi prima che muoia il mio ragazzo” e io chiedevo: come arriva ad avere il sentore che se questo Signore scende a Cafarnao il figlio vivrà? Questo primo sentore di fiducia annuncia proprio la svolta da una conduzione dal di fuori a una dal di dentro. v.50 Gesù gli dice: va’, πορευου (porèu): ho già detto altre volte che questo πορευου non significa semplicemente un andare esteriore ma significa anche: nella misura in cui tu ti evolvi interiormente, continui a dare sempre più fiducia a ciò che vivi a contatto con me, a dar fiducia alle forze dell’Io. Quindi non solo va’, ma continua ad evolverti in questa direzione e nella misura in cui lo fai, tuo figlio vive. Il presupposto perché il figlio tuo trovi le forze per vivere, è che tu non smetta di evolverti. A questo punto, sempre nello stesso versetto – e questo è interessante perché indica proprio la conseguenza immediata di ciò che gli ha appena detto – επιστευσεν ανθρωπος (epìsteusen ànthropos), l’uomo acquisì fiducia. Dev’essere un nuovo tipo di fiducia, diverso da quello che il Cristo aveva descritto dicendo: voi siete abituati a dar fiducia solo quando vedete segni e fate l’esperienza dei portenti, dal di fuori. In altre parole, il Cristo si proibisce di far segni e portenti che restano fuori, che rendono l’uomo dipendente e fa di tutto per aiutare l’essere umano a generar lui stesso le forze da sé. E perciò rifiuta di andare lui fisicamente. Se fosse andato, la guarigione sarebbe stato un portento magico, ma è proprio questo che il Cristo rifiuta di fare. Quindi l’uomo acquisisce fiducia nella parola che gli dice: continua ad evolverti, tuo figlio vive. È nel Logos, τω λογω (to lògo) che crede, si intride di questo operare puramente spirituale e quindi del tutto interiorizzabile. Fa l’esperienza delle forze rigeneranti del Logos, non è solo una cosa esterna. Traduco in modo un po’ più forte: “Credette al Logos, alla parola fortificante l’Io che Gesù gli ha comunicato, e andò”. Poi gli vanno incontro i servi (v. 51, 52, 53), gli dicono che il figlio ha superato la crisi, lui chiede dell’ora... dev’essere successo qualcosa di grosso in lui se queste forze di trasformazione sono il presupposto per la guarigione del figlio. Altrimenti perché il servo dovrebbe sottolineare che questi due eventi – la sua fiducia nel Logos e la guarigione del figlio – sono avvenuti contemporaneamente? Perché sottolinearlo se non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro? Sono due eventi che dipendono l’uno dall’altro, è evidente. Questi sono testi che presuppongono la realtà assoluta delle forze vitali, delle forze animiche e spirituali: perciò nel momento in cui sorgono nel servo regio forze nuove di fiducia nell’Io – non perfette, ma reali nella loro incipienza – suo figlio ce la fa. Coloro che attorniavano il figlio dicono: ah, adesso ci sono forze nuove e sta meglio. Un’ora fa minacciava di morire, si vedeva che le forze necessarie per vivere scemavano sempre di più: perché ora si ripresentano in modo così vistoso da poter dire che è salvo? Cosa è successo? Torniamo sempre da tutti i lati alla realtà di ciò che è soprasensibile. Che sia una realtà complessa, questo senz’altro, ma il testo la presuppone in modo assoluto.

Allora, mettendo le due cose insieme – le parole del Cristo e il figlio che nello stesso momento supera il pericolo di morte – arriva il terzo επιστευσεν: v. 53 “credette lui e tutta la sua casa”. Il primo “credette” descrive e porta a termine la vecchia credenza e poi ci sono due nuovi tipi di επιστευσεν: il primo in cui il servo crede alla parola del Cristo e il secondo in cui crede alla conferma della guarigione del figlio. La sua fede aumenta ancora di più e si trasfonde a tutti gli esseri umani che finora dipendevano da lui. Significa che questo capovolgimento nel funzionario da una conduzione dal di fuori a una dal di dentro è notata dai servi, i quali capiscono che non sarà più solo un esecutore degli ordini del re e non potrà più pretendere da loro che siano puri esecutori dei suoi ordini, altrimenti si contraddirrebbe. Quindi fanno un’esperienza, non intellettualizzata ma vissuta. Se il loro padrone ha cominciato, grazie all’incontro con questo Gesù di Nazaret, ad essere autonomo nei confronti del re, adesso comincerà a trattarci in modo diverso perché non vorrà più che noi siamo del tutto dipendenti da lui, vorrà aiutarci a non essere più servi, passivi. La vita diventerà un po’ più difficile, ma umanamente più bella. Questo viene espresso dicendo: tutta la sua casa, tutti i suoi servitori credettero. Certo, noi continuiamo a dire “credettero” ma, lo ripeto, il concetto di πιστις (pìstis) è quello della saldezza interiore, è affine alla posizione salda dello stare in piedi (da πους, genitivo ποδος, pus podòs, piede) dell’essere radicati in sé. Io traduco: ebbero fiducia nelle forze dell’Io. Il problema è che il nostro concetto di “fede” non dice nulla qui. Tradurre “fiducia”, invece di fede, ci costringe almeno a pensare un’esperienza un po’ più sostanziosa del credere a qualcosa. Cosa vuol dire in italiano credere?

I. Ritenere vera una cosa che ci viene riferita.

A. Quindi una pura faccenda intellettuale. Ma il testo non dice “credette che era vero”, dice solo επιστευσεν, credette. Vedete la differenza? Non è un credere in qualcosa – a parte il precedente επιστευσεν τω λογω (epìsteusen to lògo) che, l’abbiamo detto, si riferisce al Logos, non alle semplici parole come le intendiamo noi -, ma è un’esperienza interiore di rafforzamento, non di natura puramente intellettuale. Il nostro concetto di fede è proprio rarefatto nei confronti dell’esperienza di πιστις del Nuovo Testamento. Si rafforzò in se stesso lui e la sua casa, potremmo tradurre.

I. Si sono resi conto che sono attive le forze dell’Io: è la stessa cosa detta in un altro modo.

A. È proprio questo. Però resta vero quello che dicevi tu: che il testo è complesso. Affrontando tutti i singoli elementi e rifacendosi all’originale greco, abbiamo in mano elementi infiniti su cui meditare per tutta la vita. Non è che facendo qui un commento di mezz’ora esauriamo il tutto: no, no, si indicano soltanto, se tutto va bene, delle piste che si possono percorrere vivendo col testo. Il testo parla nella misura in cui io gli porto incontro esperienze di vita.

I. Io ho avuto delle esperienze in cui non avevo chiaro col pensiero cosa dovessi fare, e sono rimasto fermo e fiducioso in qualcosa che comunque avrei dovuto fare: dopo è venuta la chiarezza. Pensavo che questa fosse la fede, perché provengo da un’educazione cattolica. Io la chiamavo così. Ora il greco mi ha illuminato dicendo che è fermezza di propositi in ciò che non si conosce, che non ci è chiaro razionalmente... È sbagliato pensare in questi termini?

A. Sbagliato non è: cerca di capirlo meglio. Lo sai che non è sbagliato.

I. Mi accorgo della difficoltà che ho, per esempio quando parlo con i tedeschi, di spiegare queste esperienze: loro non concepiscono la fede, questa fiducia così incondizionata in qualcosa che pure non ci è chiaro ma che, dopo l’esperienza, viene in chiaro. Come la vedi tu?

A. In altre parole, tu stai dicendo che se noi sapessimo già in partenza cosa salta fuori da una certa decisione o comportamento, non saremmo inseriti nel tempo, non avremmo un’evoluzione nel tempo perché saremmo già con la nostra coscienza alla fine di tutto il processo. Vivere nel tempo è il coraggio di dar fiducia all’esistenza – ecco la πιστις. Se io voglio assicurarmi già in partenza di non rischiare nulla, faccio meglio a non incarnarmi. Quali motivi ho di dar fiducia all’esistenza, di vivere le cose? Ho dei motivi o sono un irrazionale? Il motivo fondamentale è che finora me la son cavata, e questo vuol dire che ci sono in me tutte le forze per orientarmi, soppesare, valutare le cose, man mano che si presentano. Se io non avessi mai fatto l’esperienza di essere uno spirito pensante e amante, avrei motivo di non aver fiducia: ma l’ho sempre fatto, santa pace!, perché essere uomini significa essere capaci di affrontare col pensiero qualunque fattore. E così come posso affrontare le cose col pensiero, so anche di poter fare sempre quello che posso; ciò che non posso nessun padreterno me lo può chiedere, sarebbe stupido chiedermelo. E quello che posso, lo posso. Ritorno da capo: dove sono i motivi della fiducia? Nell’Io. Il cristianesimo dice: questo Io che ci dà fiducia massima non se l’è inventato l’uomo. No, è una forza cosmica che la seconda forma della Divinità, che noi chiamiamo il Figlio, ha infuso dentro ogni essere umano; il vangelo ci racconta i fenomeni archetipici di infusione dentro l’uomo delle forze dell’Io. Tu te la sei cavata, finora? pare di sì, altrimenti saresti sparito. E allora, di che cosa c’è da aver paura? In altre parole, ogni essere umano, in quanto Io – detto cristianamente: in quanto inabitato dal Cristo – ha in mano tutti gli strumenti di cui ha bisogno.

I. È un altro avverarsi del dialogo con la samaritana.

A. E già, perciò viene subito dopo. Quello che il Cristo ha insegnato alla samaritana, adesso lo compie: rafforzare l’Io. Ma la forza dell’Io non sta nel mettere le mani avanti e sapere già in partenza tutto quanto, perché allora non sarebbe un aver fiducia. Se io voglio essere sicuro, ancor prima di partire, di cosa salterà fuori, non ho fiducia. Ho sfiducia.

I. Come quando si ama una persona: rischiamo sempre. Perché le diamo fiducia.

A. No, non diamo fiducia a lei – quella se la deve dare da sola –: la diamo a noi stessi. Io non so che cosa salterà fuori nell’altro, ma so che io me la caverò sempre. Questa è fiducia. L’uomo è strutturalmente l’essere che nell’esistenza terrestre se la cava sempre, se vuole. Sennò poltrisce, ma allora sono problemi suoi, di tutt’altro genere. Se non omette di coltivare le forze che sono insite nella natura umana, sa di essere immerso, gettato nell’esistenza, perché è capace di cavarsela sempre.

I. E la programmazione, allora? È una cosa inutile e sbagliata?

A. La programmazione riguarda solo lo svolgimento esterno-organizzativo, non riguarda un ipotecare già in partenza i comportamenti. La programmazione intelligente, davvero umana, riguarda solo l’esterno e mi lascia abbastanza libertà da poter decidere di momento in momento, di situazione in situazione, il mio modo interiore di pormi di fronte al mondo. Una programmazione che mi proibisca di reinventare me stesso di fronte a ogni situazione, che programmazione è? È un uccidermi interiormente. La programmazione fa parte delle condizioni di cornice. Cosa dicevamo di queste condizioni? Che più le persone sono mature e più le condizioni di cornice, e quindi il programmare, diventa minimo, riguarda lo stretto necessario, quelle cose da cui tutti dipendiamo per poter funzionare socialmente, ma non di più. E come si fa a sapere quali cose sono essenziali e quali no? Provando! O volevate già in partenza sapere?! Se alcune persone organizzano qualcosa da fare insieme, all’inizio come fanno a sapere a quali regole dovranno attenersi tutti perché sono ineludibili? Bisognerà che facciano dei tentativi. Poi magari si diranno: no, no, qui abbiamo troppe regole, togliamone alcune; e poi: no, no, adesso sono troppo poche... Continuando a provare andranno sempre

più vicini a ciò che è ragionevole. Ma questo tentare non significa altro fiducia nell’esistenza, nell’essere umano. Se non siamo del tutto stupidi, saremo sempre capaci di rimetterci insieme e dire: no, qui c’è questo che non va, quest’altro che non va.

La totalità delle forze del Cristo è l’inesauribilità dell’Io umano posto di fronte all’esistenza e ai rapporti con gli altri esseri umani. È la capacità di trovare sempre, in ogni situazione, ciò che è vero, bello e buono. Se non avessimo questa capacità, come li tireremmo fuori il vero, il bello e il buono? O c’è, questa capacità, e le diamo fiducia, oppure non c’è e allora l’evoluzione dovrebbe essere andata a catafascio da un bel po’ di tempo. Il problema è che, pur essendoci questa capacità, non viene coltivata abbastanza. E allora io non tolgo la fiducia a una persona, ma le dico: guarda che tu attivi meno di quello che potresti la tua capacità di contribuire al vero, al bello e al buono. Io non penserò mai che non ne è capace, e questa è la fiducia nell’umano: la convinzione che ogni uomo sia in grado di trovare nella sua situazione il vero, il bello e il buono; e quando non lo fa non è mai perché non è capace, è perché poltrisce. La fiducia non c’è mai motivo di revocarla, a nessuna persona; però siamo fatti apposta per incoraggiarci a vicenda a non omettere più di tanto, perché altrimenti ci tocca pagarne le conseguenze.

Quinto capitolo
28 dicembre 2001, mattina

Il quarto capitolo, che abbiamo appena concluso, è occupato dall’incontro con la samaritana e dal secondo segno, “la guarigione del servo del re”: tra virgolette, perché in effetti il servo del re pensa che sia suo figlio ad essere ammalato, invece il vero problema è in lui. L’inizio di un impulso individuale nel servo regio consente al figlio di superare la crisi della pubertà, che è proprio l’emergere dell’essere umano da ciò che è comune (fino alla pubertà si è inseriti in ciò che è comune e guidati da ciò che è comune) grazie al sorgere di impulsi della volontà che sono propri e specifici, diversi da quelli dei genitori, della società, dell’educazione, del sottofondo ambientale. L’uomo è fatto di tutt’e due queste dimensioni; anzi, la bellezza dell’umano sta proprio nel gioco giusto, diverso per ognuno, tra ciò che è di natura comune, in senso ideale e universale (la dinamica sana di ogni gruppo è di allargarsi sempre di più per diventare universale) e ciò che è di natura individuale. Un’altalena tra ciò che sono io e ciò che è l’umanità, gli altri: quel che gli altri danno a me per farmi crescere e quel che do io agli altri per farli crescere. Ogni organismo vive di queste due dimensioni: se ci fosse un’unificazione delle funzioni, un appiattimento, se ci fosse solo la comunanza senza la specificità di ogni organo, l’organismo morrebbe. E se ci fosse solo l’unilateralità, nel senso che i singoli organi cominciassero ad andare ognuno per conto proprio senza vedersi in funzione di tutto l’organismo, ugualmente l’organismo si ammalerebbe. La salute dell’organismo è il giusto equilibrio – da ristabilire sempre, quindi un equilibrio labile – tra l’universalmente umano e l’unicità del mio Io. L’essere umano si perde, si ammala, muore, nella misura in cui l’un polo diventa unilaterale a scapito dell’altro.

Quando le richieste della comunità diventano preponderanti e chiedono all’individuo di sacrificarsi per la comunità, si entra nell’illusione: se l’individuo mortifica e distrugge se stesso impoverisce la comunità perché non le porta la sua ricchezza specifica. L’arricchimento della comunità presuppone la ricchezza in ognuno. Se tutti portano povertà nella comunità perché non ci si è preoccupati di costruire la ricchezza individuale in ognuno, la comunità sarà una comunanza di povertà che non piacerà a nessuno. L’altra unilateralità si ha quando l’individuo pretende che la comunità sia al servizio suo e non avverte la reciprocità: allora non solo lede la comunità, ma anche se stesso, perché invece di crescere in amore diventa sempre più egoista, e si autodistrugge. La dinamica tra comunità e individuo è così: o si favoriscono a vicenda e crescono tutt’e due, oppure si diminuiscono a vicenda. Questo come riflessione generale, naturalmente, perché è alla base di tutti i fenomeni che sono espressi nel vangelo di Giovanni, dove è racchiusa una fenomenologia archetipica dell’umano. Il concetto del Cristo è l’armonia assoluta, perfetta e compiuta tra ciò che è universalmente umano – il Logos, la verità oggettiva dell’umano – e l’unicità di ogni Io – l’Io Sono. Abbiamo nel vangelo di Giovanni tutta la fenomenologia di come il Cristo, attraverso le sue parole ed opere, favorisce in ogni essere umano la crescita armoniosa dell’Io e dell’universalmente umano. Cresco in quanto uomo, quindi uguale a tutti gli altri uomini, e cresco in quanto individuo unico che è chiamato a portare nell’umanità un contributo che nessun altro può portare. L’umanità non può permettersi di esistere se manca anche soltanto un Io: sarebbe come un organismo che voglia vivere sano essendo mutilato di un membro, per quanto piccolo esso sia. La salute dell’organismo dipende da tutti i membri, da tutte le cellule, da tutte le componenti.

Ci troviamo adesso al punto di passaggio dal secondo al terzo segno. Vediamo le connessioni: c’è stato tutto un discorso articolato del Cristo prima con la samaritana – l’acqua zampillante, cioè i pensieri che conoscono la verità eterna delle cose. Con i discepoli parla poi del cibo sostanziale che ci nutre dall’alto, e che è il fare la volontà del Padre: il cibo che mangiamo fisicamente, dal basso, non è ciò che ci nutre ma ciò che crea i presupposti per ricevere la vera nutrizione. La materia non ci nutre: dà allo spirito la possibilità di nutrirci, di fare la volontà del Padre che è quella di redimere il mondo, di ritrasformarlo in una realtà spirituale. Poi c’è l’incontro con i samaritani, che vivono col Cristo per tre giorni, ne fanno cioè l’esperienza. Dopo questi tre passi, c’è la guarigione del servo regio che è da capire come un concento, un’armonizzazione di questi tre momenti che sono i tre giorni passati in Samaria: tre momenti di insegnamento riuniti insieme in un segno che il Cristo fa.

Ora si pone la domanda: cosa ha a che fare la guarigione del figlio del servo regio con l’ammaestramento dato alla samaritana, agli apostoli e ai samaritani? Il Cristo aiuta il servo regio a rendersi conto che l’uomo è chiamato a pensare in proprio e a nutrirsi della volontà del Padre dei cieli in modo individuale. In altre parole, che la volontà primigenia e totale del Padre dei cieli è l’individualizzazione di ognuno di noi. Il segno della guarigione del servo regio e del suo figlio è la soglia d’inizio dell’individualizzazione, conseguente al discorso con la samaritana che diceva: qui c’è il pozzo della tradizione (il gruppo, la comunanza): vali forse più tu di tutta la tradizione? E il Cristo le dice: ma guarda che in ogni essere umano c’è la sorgente del pensare in proprio e responsabilmente. Bisogna attivarla. Quindi la samaritana è l’anima umana che vive il primo incontro con l’Io, la prima chiamata a diventare individuali. Con gli apostoli si tratta della conseguenza del pensare autonomo, che è il volere autonomo, l’avere impulsi volitivi propri: il che significa fare la volontà del Padre. Queste due realtà dell’essere umano – pensare con la propria testa ed essere responsabile delle proprie azioni – vengono riassunte nell’operare del Cristo col servo del re, capace di far nascere in lui un primo innamoramento per la realtà dell’Io e conseguentemente, nel figlio, un primo spazio per avere la legittimità di cominciare a pensare e volere in proprio. Quindi il figlio varca questa soglia, il figlio cui mancava un padre che desse spazio a ciò che è individuale. Intuiti conoscitivi (la samaritana) e intuiti morali (gli apostoli) sono messi insieme nel Cristo: il servo regio incontra il Cristo e viene suscitato in lui l’amore per gli intuiti conoscitivi individuali e per gli intuiti morali individuali. E proprio questa duplice apertura crea spazio al figlio perché il suo cammino verso l’autonomia viene amato dal padre.

All’inizio del quinto capitolo viene subito il terzo segno, che è la guarigione del paralitico alla piscina di Bethesda. Vediamo per sommi capi la dinamica dei sette segni che il Cristo compie nel vangelo di Giovanni. I segni sarebbero “i miracoli”, parola da usare tra virgolette perché se pensiamo al significato tradizionale di questa parola andiamo fuori strada. Diciamo allora che sono le sette opere del Cristo, sette segni nel senso che “significano” qualcosa. Il Cristo compie sette opere che sono i sette gradini dell’evoluzione umana. Non sono a caso sette, e nel settenario c’è il tutto dell’evoluzione. Vediamoli ora come una specie di carta di orientamento.

fig_1.psd

Il primo è Cana, il secondo è il servo del re, il terzo è il paralitico alla piscina di Bethesda (che è il primo segno a Gerusalemme, in Giudea, mentre Cana e il servo del re sono in Galilea). A Gerusalemme il Cristo fa solo due segni e vedremo che sono una polarità bellissima e fondamentale per capire l’operare del Cristo nell’umanità. Cosa fa il Cristo? L’operare del Padre è in tutto ciò che è natura, la grande opera del Figlio è la libertà. Quindi, quando i conti non vi tornano, o vi trovate troppo ingarbugliati nel testo perché i particolari diventano complessi, è importante ritornare sempre a questi orientamenti di fondo che, presi da soli, sono delle grandi astrazioni, ma nella tempesta fanno da bussola. Certi riassunti che io faccio per ritornare agli orientamenti fondamentali non hanno il senso di dire: si tratta di questo e di quest’alto, ma di orientare il pensiero per non perdersi nei particolari. Un’altra polarità di questo testo è il gioco infinito, musicale, fra temi fondamentali e variazioni all’infinito. Se io in una sinfonia sento soltanto variazioni, mi manca l’elemento che struttura; se sento solo temi, senza variazioni, è monotonia metafisica, non arte. Ripete sempre la stessa cosa. Quindi il bello della vita è il gioco continuo tra temi e variazioni.

Il quarto segno lo metto al centro perché è sempre di svolta in un settenario: il settenario è una totalità di evoluzione e non sarebbe evoluzione se tutto fosse sempre nella stessa direzione. Evoluzione c’è dove s’inizia in una direzione, poi c’è un’inversione di marcia e quindi si piglia un’altra direzione. Allora sì che è evoluzione, e nel nostro caso possiamo dire: c’è un prima della svolta e un dopo la svolta, c’è un tratto di strada dove domina l’elemento di gruppo, di popolo, ecc. e poi c’è una svolta verso l’individuazione. L’individuale non è una continuazione di ciò che è comune: è il risvolto, è una polarità, è l’opposto. L’evoluzione nel tempo è fatta di svolte. In questo settenario potremmo dire che i primi tre segni sono una specie di riassunto del carattere della prima parte dell’evoluzione, di come il Figlio ritrasforma tutta l’opera del Padre in vista della sua propria opera. In un certo senso il Figlio, che è il Cristo, entra nell’opera del Padre e la trasforma per farne il fondamento dell’individuale.

Il quarto segno, che è nel sesto capitolo, è il segno del nutrimento per i cinquemila. Nelle bellissime conferenze di Steiner sui vangeli, questo settenario è visto come un archetipo della struttura dell’evoluzione e in ognuno di questi eventi c’è una frase saliente, che è il punctum saliens di tutta la storia. Il punctum saliens nel quarto segno, quello di svolta, non è neanche una frase intera ma un inciso, che nel vangelo di Giovanni è l’elemento più importante ma molti manoscritti l’hanno lasciato fuori. È il punto dove il Cristo non dà direttamente i pani e i pesci alle persone, ma li dà agli apostoli perché loro li distribuiscano. In altre parole, la svolta sta nel fatto che mentre nei primi tre segni è il Cristo a lavorare nell’essere umano, al quarto segno l’uomo è cristificato a un punto tale da diventare capace lui stesso di portare incontro all’altro l’elemento cristico. Il Cristo non opera più direttamente sull’essere umano, cessa quella certa immagine di esteriorità del Cristo che lavora nel regno del Padre per creare il trapasso, e adesso abbiamo dodici esseri umani che cominciano a muoversi in proprio, dopo aver vissuto vicino al Cristo per mesi e mesi. Essi rappresentano tutta l’umanità perché sono dodici come i segni zodiacali.

Il quinto segno, che, come il quarto segno, è nel sesto capitolo, è la tempesta sedata, anche questo un segno con protagonisti i dodici apostoli.

Il sesto segno è il cieco nato, nono capitolo.

Il settimo segno è la perfezione di tutti i segni: il risveglio di Lazzaro. È la cristificazione totale dell’essere umano (detto in parole astratte), è la culminazione dei sette segni che segnano la graduale cristificazione dell’uomo. Dopo la svolta del quarto segno il Cristo termina di essere fuori dell’uomo e viene interiorizzato: quindi da qui in poi il Cristo opera sull’uomo attraverso l’altro uomo. Il Cristo in te agisce sul Cristo in me, su Cristo nell’altro... il Cristo fuori non esiste più. Per questo alla fine del vangelo dice: io devo andare, devo sparire perché se io non sparisco come istanza esterna lo Spirito Santo non può venire. Lo Spirito Santo è il Cristo interiorizzato e individualizzato, e al quarto segno abbiamo i primi dodici esseri umani che hanno interiorizzato e individualizzato il Cristo a un punto tale da poter cominciare a portarlo loro stessi agli altri uomini. In un certo senso il cristianesimo petrino è concepito ancora come un’istanza esterna all’uomo: adesso, dopo duemila anni, al passaggio dal cristianesimo petrino a quello giovanneo, siamo al punto di passaggio dall’esperienza del Cristo all’esperienza dello Spirito Santo. Un Cristo non più gestito dalla chiesa e cercato al di fuori dell’essere umano: l’esperienza dello Spirito Santo è il Cristo che in una persona pensa e opera in un modo del tutto diverso da come pensa e opera in un’altra.

Ancora un accenno di orientamento generale: i due grandi segni che il Cristo fa a Gerusalemme sono la guarigione del paralitico, quinto capitolo, e la guarigione del cieco nato, nono capitolo. Dopo l’evento del paralitico il Cristo dirà a Gerusalemme: “Ho compiuto soltanto un segno” e si riferisce al segno del paralitico, perché i segni compiuti in Galilea non avevano l’ufficialità di ciò che avviene nelle grandi feste annuali a Gerusalemme. Le guarigioni del paralitico e del cieco nato avvengono nelle feste dell’anno fondamentali a Gerusalemme, quindi sono atti del tutto pubblici del Cristo, sono atti che hanno a che fare con i destini evolutivi del popolo ebraico: a Gerusalemme, guarisce di sabato il paralitico e guarirà, sempre di sabato, il cieco. Il sabato è la quintessenza della spiritualità ebraica – sciabàt significa “riposare” –: un riposo sacro perché Jahvè-Elohìm, com’è detto nella Bibbia, per sei giorni, per sei tratti di tempo, fece tutta la creazione, al sesto giorno creò l’uomo e al settimo giorno riposò. Vedremo che il problema, la provocazione operata dal Cristo, è tutta incentrata sul non aver rispettato il riposo del sabato: le guarigioni erano una cosa normalissima, per quei tempi.

Per il Cristo non è importante ciò che avviene nel corpo fisico, ma ciò che avviene nell’anima e nello spirito dell’uomo – che poi si riflette anche sul fisico, come conseguenza. Nel corpo fisico, quando opera il Cristo, ha diritto di avvenire soltanto ciò che risulta dall’evoluzione dell’anima e dello spirito dell’uomo. Il Cristo si proibisce di fare all’essere umano qualsiasi cosa che lui stesso non sia in grado di far suo: o la nuova armonizzazione del fisico corrisponde al suo spirito, oppure non si fa. Quindi se il Cristo cambia la costituzione fisica di qualcuno è perché, tramite la sua presenza, ha creato in questo essere umano che gli sta davanti i presupposti spirituali perché il cambiamento nel suo corpo dia atto del cambiamento avvenuto nel suo spirito. Un cambiamento nel corpo senza un cambiamento nello spirito è anticristico per essenza, perché continua a mantenere l’uomo in tutto e per tutto dipendente da un’istanza fuori di lui. Quindi è importantissimo capire che i cosiddetti miracoli, nei duemila anni trascorsi, sono stati capiti come se il Cristo venisse a sfoggiare la sua potenza divina (e va bene così, perché non c’erano altri strumenti per comprenderli). Ma non c’è un pensiero più anticristico di questo. Chi è che sfoggia la sua onnipotenza divina? Il Padre! E se diciamo che il Figlio fa lo stesso, che è venuto a fare? Bastava il Padre, così onnipotente! Lo specifico del Cristo è che si proibisce di compiere ogni atto di onnipotenza che non risulti dall’evoluzione reale dell’individuo; si proibisce di operare come fatto di natura.

I. Ma il Cristo non opera anche nel mondo fisico?

A. Il Cristo risveglia la coscienza, il Padre opera nella natura. Nel lavoro del Padre non c’era l’apertura al Figlio, tutto era natura. Il Figlio deve preparare la svolta trasformando la creazione del Padre per aprirla a ciò che lui porta. Quando leggi Steiner, La scienza occulta per esempio, ti dice sempre: ogni nuova evoluzione nella sua prima metà ripete l’evoluzione passata a un nuovo livello. Così come l’epoca polare, l’epoca iperborea e l’epoca lemurica sono una ripetizione di Saturno, Sole e Luna a un altro livello, cioè a livello terrestre. Quindi abbiamo tutti e due i caratteri, sia di ripetizione, sia di rinnovamento.

Torniamo al filo portante del discorso: il Figlio si proibisce di operare come il Padre, cioè per magia di natura. Il Padre opera magicamente, l’ha sempre fatto e lo fa ancora: la natura lavora, e non c’è nessun problema. Ma se il Cristo non porta niente di nuovo, che se ne stia a casa sua, capite? Il Cristo viene a fare tutt’altra cosa che l’operare di natura, che va avanti così com’è senza chiederci il permesso. Il Cristo è venuto a portare forze di libertà per mettercele a disposizione, ed esse aggiungono l’umano al fatto di natura. L’animo umano è stato esposto per duemila anni al Cristo e adesso cominciamo a capire qualcosina. Ma non sopravvalutiamo più di tanto questo lavoro perché mirava solo a creare i presupposti per la comprensione di oggi: era il cristianesimo della fede, una fase iniziale che non si può scavalcare, ma non è certo quella definitiva. Adesso bisogna che l’operare millenario del Cristo nella cultura cristiana sorga al livello dello spirito, della coscienza. Il senso del cristianesimo della fede non è di lasciarci dipendenti dal Cristo come lo siamo dal Padre, ma è la chiamata a pensare sempre più con la propria testa e a rispondere individualmente delle proprie azioni.

Negli altri vangeli, i cosiddetti Sinottici, il Cristo fa molti più miracoli, e perciò non sono così profondi come il vangelo di Giovanni – che, tra l’altro, li chiama segni, non miracoli. Quando il Cristo pone un segno, indica ciò a cui siamo chiamati, non fa qualcosa al posto nostro: indica ciò che noi, nella sua imitazione, siamo chiamati a diventare nel corso dell’evoluzione. Il Cristo è la pienezza dell’umano che non ci viene data dal di fuori; è la chiamata di tutta la seconda parte dell’evoluzione che ci occorrerà tutta per arrivare al punto in cui il Cristo già si trova. Il Cristo è la somma totale della chiamata della libertà umana, di tutte le potenzialità evolutive dell’uomo verso l’individuazione per non restare una pecorella nell’ovile. La reinterpretazione dei miracoli, allora, sta nel capire che non sono segni dell’onnipotenza divina, prevaricante l’umano, ma sono le possibilità evolutive offerte a ognuno di noi. Però a questo punto il discorso diverge da quello teologico tradizionale che dice (o tende fortemente a dire): i miracoli sono quelle opere che il Cristo sa fare, perché è Dio, e tu no, perché sei uomo. C’è una differenza fondamentale di prospettiva. Il vangelo di Giovanni già in partenza mette via questa lettura di mortificazione dell’umano e ci dà la fenomenologia di un settenario di segni nei quali il Cristo indica ciò che ogni uomo, passo dopo passo, è chiamato a fare: tant’è vero che il culminare di questi segni è ciò che avviene in un uomo, non nel Cristo. Dopo che Lazzaro è stato risvegliato dal sonno-morte, il Cristo può sparire, proprio perché Lazzaro è il fenomeno archetipico dell’uomo in cui il Cristo è interiorizzato, e dunque scompare come istanza esterna. Difatti una settimana dopo il Cristo muore. Il concetto di Lazzaro, nel vangelo di Giovanni, è quello dell’essere umano intriso delle forze del Cristo in tutte le sue forze e componenti: quindi, adesso, o ognuno di noi fa di tutto per diventare sempre più Lazzaro, dando voce e lasciando operare sempre di più “il Cristo in me”, oppure non c’è un’evoluzione cristica dell’umanità.

Un’ultima cosa, e poi ci tuffiamo nel testo. Dopo il sabato viene la domenica, giorno del Dominus, del Signore. Questo Dominus è il Padre o è il Figlio?

I. Il Padre...

I. Il Figlio...

I. Κυριε, Signore, non era chiamato il Cristo?

A. Ci ritroviamo in un cristianesimo pasticciato, nel quale la chiarezza è tutta da fare. Il Dominus è il Cristo, è l’Essere solare, tant’è vero che in altre lingue la domenica si chiama Sonntag, Sunday, giorno del Sole. La domenica è il giorno del Figlio, non del Padre, e il Figlio opera anche di sabato: una provocazione totale per la cultura ebraica, perché il sabato era fatto per riposare, restando nell’imitazione del Padre. C’era una casistica che non finiva più: 1113 ingiunzioni circa tutto quello che non si poteva fare il sabato! Adesso arriva questo Gesù e guarisce un paralitico di sabato! Secondo la prospettiva ebraica durante la settimana si fanno tutte quelle opere che sono necessarie per mantenere il fondamento di corporeità, ecc. ecc., e il sabato si coltiva lo spirituale, il rapporto con Jahvè. La buona novella (ευαγγελιον, euanghèlion: il vangelo), l’essenza di questa notizia buona, è che il senso del riposo del Padre non è quello di far riposare anche noi, ma di far posto a noi. Il Padre, tirandosi indietro, lascia spazio a un nuovo tipo di creazione, che è quella del Figlio. E perciò il Figlio si presenta lavorando dove il Padre gli fa posto: durante il sabato. Immaginiamo noi questi bravi ebrei, tutte persone che con devozione secolare erano vissute nel timore sacro del sabato – guai a fare qualcosa perché si sarebbe rotto il rapporto con Jahvè! –, posti di fronte a uno che dice: no, il senso del sabato è che l’uomo cominci, adesso, a fare qualcosa! E dopo duemila anni credete che l’abbiamo capito? No.

I. C’è ancora una somiglianza con la samaritana e col servo del re, perché i giudei qui sono inseriti come servi di Jahvè. Sono un tutt’uno e arriva il Cristo a dire: individualizzatevi.

A. Sì, qui c’è di nuovo questo segno e te lo fa a Gerusalemme, il giorno di sabato! Una provocazione diretta a tutta la cultura ebraica.

I. Nella cultura ebraica c’era la domenica?

A. Sì, ma era un giorno lavorativo. Il cristianesimo ha posto l’accento su questo giorno: in altre parole, il cristianesimo comincia dove comincia la creazione del Figlio. Però il Figlio può operare soltanto dopo che il Padre s’è dato una calmata. Per il Vecchio Testamento la settimana culminava nel settimo giorno, il sabato; per il Nuovo Testamento non è importante l’ultimo giorno, ma il primo; non è importante il compimento della creazione del Padre, ma l’inizio della nuova creazione del Figlio. Quindi la domenica, cristianamente vista, non è la fine della settimana, ma l’inizio. È l’inizio dell’operare del Figlio, del Dominus, dell’Essere solare. Saturday: il giorno di Saturno, Sunday: il giorno del Sole. Il giorno di Saturno conclude la creazione del Padre, il giorno del Sole inaugura la creazione del Figlio del Padre cosmico.

Tutta la diatriba che adesso studieremo verte sul sabato: come può costui agire in nome di Jahvè se infrange il sabato? E il Cristo dice: il senso del sabato non è il riposo per l’uomo, ma il cominciare a far qualcosa. Il dato di natura termina di essere il tutto nell’uomo, si ritira un po’ proprio perché l’uomo aggiunga qualcosa di suo. Questi sono i cardini del cristianesimo, stanno nei vangeli (soprattutto in quello di Lazzaro-Giovanni) da duemila anni e noi poveri esseri umani, non certo evoluti come Lazzaro, cominciamo appena adesso ad avere gli strumenti per affrontarne i misteri – soprattutto grazie a una scienza dello spirito sorta con l’individualità di Steiner. Possiamo cominciare a capire i lineamenti fondamentali di questo testo. cos’è questo putiferio che succede intorno alla questione del sabato, mentre non crea nessun problema la guarigione del paralitico? Vanno capite queste cose, altrimenti non comprendiamo nulla del vangelo.

Adesso diamo uno sguardo d’insieme al testo, perché se entro nei particolari perdiamo l’insieme: vi entrerò nella giornata di oggi, ma per adesso spero solo di aver creato i presupposti per capire di che cosa si tratta in questo terzo segno. Il capitolo inizia dicendo “Vi fu poi una festa per i giudei”: è la festa di Pentecoste, quindi siamo in estate. Il ciclo annuale del Sole ha un solstizio d’inverno (21 dicembre), uno d’estate (S. Giovanni, 21 giugno), un equinozio autunnale (21 settembre, e festa di S. Michele) e un equinozio di primavera (21 marzo). L’evento del servo del re è avvenuto nel ciclo giornaliero alla settima ora, l’evento del paralitico avviene nel ciclo annuale, un’ora prima del solstizio d’estate, cioè a Pentecoste. Pentecoste cade 50 giorni dopo Pasqua, e la Pasqua è la prima domenica dopo la prima luna piena dopo il 21 marzo. Pentecoste precede nel ciclo annuale il punto supremo (solstizio d’estate), invece il segno del servo regio segue nel ciclo giornaliero questo punto supremo.

fig_2.psd

La posizione del Sole nel cosmo, giornalmente o annualmente, è fondamentale per l’operare del Cristo. E perciò c’è sempre un riferimento nei vangeli alla situazione cosmologica, oroscopica. La conoscenza dei misteri della cosmologia, dell’interazione tra il sistema planetario, lo Zodiaco e ciò che avviene sulla Terra, è appena agli inizi. Anche la scienza dello spirito di Steiner dà soltanto i primi rudimenti. La guarigione del paralitico avviene dunque nel ciclo annuale del Sole a Pentecoste e nel ciclo dei giorni della settimana (che sono i rappresentanti dei sette pianeti) avviene di sabato, dove si compie il passaggio dal giorno di Saturno al giorno del Sole. Ma adesso senza commentare leggiamo il tutto tenendo presente che il sabato è il cardine per la religione ebraica e lo dimostra il fatto che lo è tutt’oggi.

I. Come faceva ad esserci già la Pentecoste?

A. Pentecoste vuol dire 50 giorni dopo la Pasqua. Adesso leggo da questo testo già tradotto - Nestle Aland Nuovo Testamento, greco e italiano, a cura di B. Corsani e C. Buzzetti (N.d.T.) - e non sottovalutate il mio sforzo di leggere qualcosa senza commentare!

1 “Vi fu poi una festa per i Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2 V’è a Gerusalemme, presso la porta delle pecore, una piscina chiamata in ebraico Betzaetà con cinque portici 3 sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi zoppo e paralitici. 4 Un Angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi, dopo l’agitazione dell’acqua, guariva da qualunque malattia fosse affetto. 5 Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. 6 Gesù, vedendolo disteso, e sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: Vuoi guarire? 7 Gli rispose il malato. Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me. 8 Gesù gli disse: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina. 9 E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare. Quel giorno però era di sabato. 10 Dissero dunque i Giudei all’uomo guarito: È sabato e non ti è lecito prender su il tuo lettuccio. 11 Ma egli rispose loro: Colui che mi ha guarito mi ha detto: prendi il tuo lettuccio e cammina. 12 Gli chiesero allora: Chi è stato a dirti: Prendi il tuo lettuccio e cammina?” 13 “Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato, essendoci folla in quel luogo. 14 Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio. 15 Quell’uomo se ne andò e disse ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. 16 Per questo i giudei cominciarono a perseguitare Gesù perché faceva tali cose di sabato. 17 Ma Gesù rispose loro: Il Padre mio opera da sempre” qui c’è scritto solo “sempre” ma dovete permettermi di aggiungere una sillaba: “da” “e anch’io opero. 18 Proprio per questo i giudei cercavano ancor più di ucciderlo perché non solo violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio. 19 Gesù riprese a parlare e disse: In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa anche il Figlio lo fa. 20 Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste e voi ne resterete meravigliati. 21 Come il Padre resuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole; 22 il Padre infatti non giudica nessuno ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio, 23 perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha mandato. 24 In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. 25 In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. 26 Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso; 27 e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. 28 Non vi meravigliate di questo, perché verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce 29 e ne usciranno; quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. 30 Io non posso far nulla da me stesso; giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 31 Se fossi io a rendere testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera; 32 ma c’è un altro che mi rende testimonianza, e so che la testimonianza che mi rende è verace. 33 Voi avete inviato messaggeri da Giovanni ed egli ha reso testimonianza alla verità. 34 Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché possiate salvarvi. 35 Egli era una lampada che arde e risplende, e voi avete voluto solo per un momento rallegrarvi alla sua luce. 36 Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. 37 E anche il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me. Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto, 38 e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato. 39 Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza. 40 Ma voi non volete venire a me per avere la vita. 41 Io non ricevo gloria dagli uomini. 42 Ma io vi conosco e so che non avete in voi l’amore di Dio. 43 Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi ricevete; se un altro venisse nel proprio nome lo ricevereste. 44 E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo? 45 Non crediate che sia io ad accusarvi davanti al Padre; c’è già chi vi accusa, Mosè, nel quale avete riposto la vostra speranza. 46 Se credeste infatti a lui, credereste anche a me: perché di me egli ha scritto. 47 Ma se non credete ai suoi scritti, come potete credere alle mie parole?”

I giudei sono stati guidati da Jahvè e nelle loro Scritture, fin dal primo libro, la Genesi, Jahvè, o Jahvè-Elohim, è presentato come il creatore. Quindi l’ebreo normale aveva il convincimento che Jahvè fosse l’essere divino sommo, il creatore in assoluto. Non conosceva divinità più alte di Jahvè; altri esseri divini sì, per esempio gli Angeli, gli Arcangeli, Michele..., ma tutte di livello inferiore. La domanda che dobbiamo porre per far tornare i conti con la baraonda che il Cristo suscita intervenendo a Gerusalemme di sabato, è questa: nonostante gli ebrei, cosa legittimissima, avessero il convincimento soggettivo e umano che Jahvè fosse la divinità suprema, questo convincimento è oggettivo e verace in assoluto? Il primo grosso problema salta fuori quando Gesù di Nazaret rompe tutti i parametri del giudaismo e parla di una Divinità che chiama “il Padre”. Per loro non esisteva. Naturalmente Jahvè era stato presentato anche dai profeti nell’immagine del padre, così come nell’immagine dell’amico, del consolatore, ecc.: “padre” era una delle tante qualifiche di Jahvè. Invece il Cristo parla del Padre dei cieli come Divinità assoluta.

È inutile, adesso, che io vi dica in quale contesto salta fuori – sempre in quel romanzetto che vi consiglio, La scienza occulta di Steiner – che i gradi del divino sono i seguenti: al gradino infimo di divinità ci siamo noi che, per quanto poco, siamo divini (essere divini significa essere creatori, pensare pensieri propri, per lo meno non essere del tutto dipendenti). Il concetto del divino, infatti, è quello dell’autonomia spirituale, ed ha tantissimi gradi.

tab1.jpg

Dopo di noi, andando sempre più in su, ci sono gli Angeli, gli Arcangeli e poi i Principati. L’Angelo è la perfezione dell’evoluzione dell’uomo singolo, l’Arcangelo è la perfezione di una comunità di uomini, il Principato è la perfezione dell’evoluzione di tutta l’umanità – questo tanto per accennare qualcosa. Noi facciamo l’esperienza di questi tre ordini gerarchici soprattutto nella nostra interiorità: gli Angeli hanno maggiormente a che fare con l’evoluzione del pensiero umano, gli Arcangeli con l’evoluzione del sentimento umano – il sentimento è quello che ci unisce: la lingua di un popolo, per esempio, è un fenomeno di sentimento, non solo di pensiero –; i Principati hanno a che fare maggiormente con gli impulsi evolutivi di volontà, con le azioni e l’evoluzione storica dell’umanità. Andiamo più su e cerchiamo terminologie che ci aiutino e non ci fuorviino. I primi tre ordini di esseri divini, abbiamo detto, lavorano soprattutto nell’umano. La successiva triade, ancora più alta, lavora nella natura. Per operare nella natura ci vuole ancora più potenza, ci vuole una triade di impulsi: ci vogliono gli Spiriti Formanti, gli Spiriti Trasformanti (ancora più creativi e potenti) e poi gli Spiriti Creanti, sempre nella natura. Steiner li chiama: Spiriti della Forma, Spiriti del Movimento (trasformazione delle forme) e Spiriti della Saggezza, che creano tutte le leggi evolutive della natura. Andando ancora più in alto troviamo i Troni, i Cherubini e i Serafini, la cui terminologia è più nota. Essi sono direttamente a contatto – possiamo leggerlo in Dante – con la Trinità e portano giù gli impulsi, li comunicano ai tre ordini di esseri divini che operano nella natura e, tramite questi, li comunicano agli Angeli, agli Arcangeli e ai Principati. Nell’O.O.136 potete studiarvi tutti i fondamenti di questi nove ordini gerarchici.

Dove si trova Jahvè? Non si trova nella Trinità, quindi non è la Divinità più alta che ci sia (che gli ebrei non conoscessero divinità più alte non significa che non ce ne fossero). Non appartiene nemmeno alla triade più alta (Troni, Cherubini e Serafini), bensì alla seconda triade: Jahvè, gli Elohìm, sono Spiriti della Forma, tant’è vero che sono all’opera nei sei giorni della creazione. Ora, l’importante è capire che la Genesi non parla della creazione in assoluto – che è di natura puramente spirituale e animica – ma parla dei sei giorni in cui la creazione diventa naturale, materiale. Gli Elohim sono all’opera dove la creazione, che è già in corso a livelli più alti, entra nella dimensione materiale. Che oltre agli Elohim ci fossero livelli divini più alti, l’ebreo non lo sapeva, e non c’era bisogno che lo sapesse. Oggi, invece, dobbiamo saperlo perché se pensiamo che Jahvè e il Padre siano la stessa divinità, non capiamo nulla di ciò che il Cristo dice. Il Cristo parla del Padre della Trinità – Spirito Santo, Figlio e Padre - e dice: io devo fare i conti con quel Padre là. Io sono venuto al mondo per attuare la volontà prima e ultima di quello lassù... il Padre. Che ci capiscono i poveri ebrei? Capiscono solo che la loro religione è sconvolta, nel senso che il loro compito specifico di popolo è concluso. Non è una cosa facile da digerire! Tant’è vero che sia l’ebraismo sia il cristianesimo in duemila anni non hanno nemmeno cominciato a digerire questa faccenda.

I. Ma dov’è che nel cristianesimo tradizionale si comincia a parlare degli esseri della prima gerarchia, se al tempo degli ebrei non si andava più su degli Spiriti della Forma?

A. T’ho detto di leggere l’O.O.136! Quando hai masticato quella dieci volte, leggi anche l’O.O.110!

I. Quando nella Bibbia si parla dei Serafini, sono gli stessi?

A. Certo.

I. Se i Serafini sono al servizio di Jahvè non possono stare lassù...

A. C’è una piccola differenza tra come stanno le cose nel cervellino medio di un ebreo medio nell’anno 1, e come stanno le cose oggettivamente! E c’è una piccola differenza tra come stanno le cose nel cervellino medio di un cattolico oggi, e come stanno le cose realmente. Quindi le risposte si riferiscono sempre a stadi di coscienza. È chiaro che, se nella struttura mentale – cosa legittima, perché ognuno ha la sua struttura mentale – di un ebreo al tempo del Cristo, Jahvè è la divinità più alta, tutti gli altri esseri sono al servizio di Jahvè. Ma questa è un’affermazione sui contenuti della sua coscienza. Tutt’altra cosa è porre la domanda su come stiano le cose oggettivamente. Chi di noi è capace di assoluta oggettivazione della sua coscienza, quando abbiamo ancora davanti millenni di evoluzione? Quindi nella coscienza dell’ebreo normale di quei tempi, i Serafini sono al servizio di Jahvè. È molto semplice la cosa. Perché se fosse Jahvè al servizio dei Serafini, sarebbero loro i creatori. Un bambino di quattro anni pensa che nessuno sia più grande e bello e bravo di suo padre e di sua madre. È giusto o no?

I. Per il bambino sì.

A. E allora? Si tratta sempre di individuare stadi di coscienza nell’evoluzione umana. Se tutta questa scalmanata che stiamo facendo ci serve ad allargare la coscienza, ben per noi. Allora diciamo: il motivo per cui il popolo ebraico duemila anni fa ha fatto morire il Cristo, è che la sua provocazione ad allargare la coscienza era così assoluta che non la si poteva accogliere. Giustamente. Perché era previsto prima di tutto che il Cristo dovesse morire (guai se l’avessero accolto), e poi perché per questo allargamento di coscienza ci vuole tutta la seconda parte dell’evoluzione! Quindi come possiamo pretendere che la coscienza ebraica di primo acchito dicesse: ah, eccoti, bene arrivato, è un pezzo che t’aspettiamo! È previsto che non lo riconoscano. E dopo duemila anni noi che ci diciamo cristiani stiamo facendo, se siamo fortunati, i primissimi passi per riconoscerlo. Bisogna sempre individuare stadi e stati della coscienza umana, perché è sempre con la coscienza umana che ha che fare l’evoluzione. Il Cristo sta dicendo: quello che il popolo ebraico pensava che fosse il tutto dell’evoluzione – ed è giusto, perché era il suo compito assoluto – non è il tutto, ma solo un contributo parziale all’evoluzione. Il compito del popolo ebraico era quello di mantenere la sua spiritualità incontaminata perché forgiasse l’unica corporeità adatta per il Messia, il grande atteso, colui che esprime la pienezza dell’umano. Se il popolo ebraico avesse avuto consapevolezza del fatto che il suo era un piccolo contributo dentro una vicenda molto più grande, non avrebbe avuto la capacità di concentrarsi sul suo compito. E il concentrarsi su un compito prevede che lo si assolutizzi. Poi arriva il compimento, l’attesa finisce... e cosa bisogna fare? Ci vorrà tempo, tutta l’evoluzione che resta, per riconoscere e capire che il contributo evolutivo del popolo ebraico non era l’universalmente umano, ma un aspetto centrato sul corporeo.

Per riconoscere il Cristo bisogna aprire tutto ciò che è parziale verso l’universale umano. E l’universale umano è fatto solo di due dimensioni: ciò che è valido per tutti e ciò che è individuale in ognuno. In altre parole, bisogna superare tutto ciò che riguarda il gruppo, che non è né universale né individuale. Però, ripeto, rendiamoci conto di che cosa significhi diventare del tutto universali, in modo che quel che un essere umano esprime valga per tutti, e che la propria individualizzazione sia piena! Ognuno di noi ha bisogno di tutta la seconda parte dell’evoluzione. Il Cristo è la fenomenologia di un essere divino che viene da un mondo di perfezione divina e porta nell’umano, al centro dell’evoluzione, una pienezza alla quale noi arriveremo soltanto alla fine. Il Cristo è l’anticipazione nel mondo umano della perfezione ultima alla quale noi siamo chiamati ad arrivare passo dopo passo, individualizzandoci e universalizzandoci sempre di più. A questo punto dell’evoluzione è chiaro che ciò che è parziale non può riconoscerlo. Qual è il compito di ciò che è vecchio quando arriva qualcosa di nuovo?

I. Resistere.

A. Certo, altrimenti il nuovo non avrebbe nulla da vincere e non sarebbe nuovo. Il compito di ciò che si è stabilizzato è sempre di dar la croce a ciò che viene: è una legge fondamentale dell’evoluzione. Il popolo ebraico viene confrontato col fatto fondamentale che ciò che riteneva l’umano assoluto è in realtà una parzialità nella complessità dell’umano e quindi va ampliato. Il concetto del Cristo, invece, è che non è ampliabile, perché contiene tutto. Ma questo non significa che noi siamo in grado di interiorizzarlo, questo tutto, conoscitivamente e moralmente: nessuno di noi lo può, a questo gradino evolutivo, altrimenti staremmo già alla fine. Il Cristo non è soltanto un essere umano, ma è un essere divino la cui divinità consiste nel fatto che immette nel mondo umano la perfezione evolutiva dell’umano, che è proprio ciò che noi chiamiamo “il divino”. Uno dei modi fondamentali del Logos di farci capire la sua logica è questo: non s’incarna fra le nuvole, ma in un popolo, quello ebraico. Però porta in questo popolo specifico ciò che è universalmente umano, e per far capire la dinamica, l’interazione tra ciò che è parziale e ciò che è universale, usa le categorie comprensibili agli ebrei e dice: la creazione che termina con un riposo è la creazione del Padre, ma mi tocca dirvi, cari esseri umani, che il Padre si riposa per far posto al Figlio.

Torniamo al testo: Gerusalemme è una città murata, con una valle in mezzo: sta su due colline. Il nome Gerusalemme è Jerushalàjim, la cui forma grammaticale è il duale: la città polare. Le lingue antiche, anche il greco, hanno il duale per indicare due realtà: noi abbiamo solo singolare e plurale. Il duale nell’ebraico si riconosce dalla desinenza àjim, e ogni volta che la si incontra significa che i soggetti sono due. Gerusalemme è la città strutturata polarmente: Sole e Luna, maschile e femminile... È il sorgere nell’evoluzione della tensione fra polarità. È proprio scritto nella parola che, tradotta letteralmente, significa “le due Gerusalemme”. Jerushalìm sarebbe il plurale, Jerushalà sarebbe il singolare, Jerushlàjim, il duale. Era proprio strutturata con una bella valle in mezzo e due monti polari, e presentava una tensione di forze a tutti i livelli: fisico, eterico, astrale... così veniva vissuta questa città. Un luogo di polarità e di tensione evolutiva. Shalòm significa la pace, shalàjim è l’armonia interiore che si acquista creando e ricreando l’equilibrio tra poli estremi. Quindi Gerusalemme è la città, il modo di abitare sulla Terra dove l’uomo acquisisce armonia creando e ricreando sempre equilibrio tra poli opposti: Jerù significa città, shalàjim è l’armonia del duale, l’armonia che si sente godendo di questa tensione, di questo richiamo reciproco di poli dell’esistenza.

A Gerusalemme c’erano due piscine: una alla porta delle pecore, con cinque colonnati, (è stata riscoperta dagli archeologi), circa cinquanta metri di lunghezza, ed è la piscina di Betèsda dove avviene l’incontro col paralitico. Sotto c’è la psicina di Sìloe – shiloàh significa “inviare”, il corrispettivo del greco απο-στελλω (apò-stèllo), da cui αποστολος (apòstolos), il mandato – dove avviene la guarigione del cieco nato: questi sono i due segni polari di Gerusalemme, sotto gli occhi di tutti, durante le grandi feste. Il primo a pentecoste, il secondo nel periodo di massima tenebra, in inverno, per annunciare che il Sole comincia a risalire e la luce di nuovo vince sulle tenebre. La guarigione del paralitico avviene quando il Sole sta arrivando al punto più alto, e la guarigione del cieco nato quando è al punto più basso – durante la festa ebraica delle Luci, a dicembre. Lo vedremo nel capitolo nono.

Evidenzio adesso alcuni elementi fondamentali di polarità negli eventi in Gerusalemme. Al paralitico, dopo averlo guarito, il Cristo dice: continua la tua evoluzione, non peccare più perché non ti avvenga di peggio; del cieco nato invece dice: questa cecità è sorta perché si manifesti in lui la forza dell’Io. Il Cristo è dunque il fenomeno di svolta, il paralitico riassume tutta l’evoluzione del passato e il cieco nato anticipa tutta l’evoluzione futura – tant’è vero che è il penultimo segno, prima di Lazzaro. Il paralitico è l’uomo che, come risultato totale della caduta, è paralizzato nel suo essere. Perciò il Cristo gli dice: il tuo incontrarmi serve a porre termine alla caduta, e se tu continui a peccare, a cadere, ti succede di peggio. Il male della caduta, infatti, non è male più di tanto, perché era previsto; invece continuare ad andare in giù quando è aperta la possibilità di andare in su, è peggio. Quindi, non continuare a cadere, ma inverti l’evoluzione e comincia a risalire. Non peccare più significa: la discesa dell’uomo, il negativo della caduta, è finito; non permanere nello stato di caduta perché la caduta libera è molto peggio della caduta necessaria. È chiarissimo che – e lo vedremo nei particolari – tutto quello che avviene col paralitico è una liberazione dai risultati della caduta; invece il cieco nato non è nato così come risultato karmico della caduta, ma per costruire le sue forze visive a partire non più dalla natura, ma dall’Io. È nato cieco non in seguito a peccato, ma per creare addirittura le proprie forze di percezione, le forze dei sensi, tramite l’incontro col Cristo, grazie a un primo interiorizzare il Cristo.

Il vangelo ci dà queste bellissime polarità e sono, vi dicevo, i soli due grandi segni avvenuti Gerusalemme: uno alla piscina di Bethesda, l’altro alla piscina dell’Inviato - l’invio è la missio, la missione di tutta la seconda metà dell’evoluzione. Bethesda, Beth-shatàjim: Beth significa “casa” e shatàjim (desinenza duale) significa “le due potenze”: la casa dei due potenti (Betlemme è Beth-lechèm, casa del pane). Chi sono i due potenti dell’evoluzione fino al Cristo? Il corpo fisico e il corpo eterico: tutto il dato di natura; il Cristo interviene sulla duplicità della creazione del Padre, quella del fisico morto e del vitale. Invece col cieco nato avremo a che fare con i misteri del corpo astrale, cioè dell’anima, e dell’Io. Sono schemini che vi sto facendo, e perciò usateli come strumenti per poi capire veramente: qui sto parlando di eterico e di astrale come se qui tutti sapessero che cosa significano. L’eterico è il vitale, l’astrale è l’animico. I cinque portici cosa saranno?

I. Dato il contesto, saranno i cinque sensi.

A. Sì. Un altro aspetto è che i cinque portici dividono in due la piscina e quindi, fisiologicamente, rappresentano l’essere umano diviso in due dal diaframma. L’organismo della testa e il tronco: nel primo prevale il morto, nel secondo il vivente. Ciò che è morto serve a far sorgere la coscienza e il vivente serve a ridare alla coscienza sempre di nuovo qualcosa da far morire. È proprio la struttura polare dell’essere umano: Beth-shatàjim: Ci sono centinaia di conferenze di Rudolf Steiner fondate su questa struttura duale; tante altre lo sono sulla struttura ternaria – che poi non è altro che la mediazione tra i due poli, dopo averli compresi. A Bethesda il Cristo agisce maggiormente sul dato di natura per rinnovarlo ed aprirlo, e invece nella piscina di Sìloe agisce maggiormente sull’anima e sullo spirito. Tutte queste indicazioni sono nel vangelo, tutte da riscoprire, celate a volte nei nomi, che non sono mai a caso. Tutti i nomi sono significati fondamentali e per il vangelo di Giovanni sarebbe inconcepibile che la guarigione del paralitico avvenisse alla piscina di Sìloe, sarebbe una contraddizione assoluta. E viceversa. Però noi non sappiamo più che nel nome di un luogo veniva espressa l’essenza delle forze fisiche ed eteriche: è tutto da riconquistare. E vi ripeto un’altra volta: i primi strumenti nell’umanità che ci consentano un inizio di interpretazione non arbitraria sono nella scienza dello spirito di Rudolf Steiner. Senza questo tipo di fondamento conoscitivo io stesso, che ho alle spalle tutta la teologia, tutta l’esegesi e lo studio del greco ecc., non sarei minimamente in grado di dare queste spiegazioni sul vangelo di Giovanni. E spero che siano convincenti, perché se non vi convincono ho sudato per nulla!

I. Nel mio testo Betèsda significa Casa della Misericordia.

A. Sì, facendo una piccola variazione di suono shatàjim è la misericordia, la grazia. Tutta la realtà del corpo fisico e del corpo eterico sono la più grande grazia che esista, perché sono il fondamento dell’esistenza; c’è anche il significato della misericordia, ma va inserito in modo ragionevole. Il fisico e l’eterico, i due potenti, sono i due grandi mondi della misericordia divina, della grazia divina. I greci, da un’altra parola ebraica kabìr (gabàr, ghibùr significa “forza”) hanno la parola Kαβειροι (kabèiroi), i Cabiri, che sono le forze più grandi e potenti che esistano. I Cabiri prima erano tre, poi quattro, poi sette... Nel Faust, Goethe gioca proprio con i sette Cabiri: il corpo fisico, il corpo eterico, l’astrale e l’io, più le altre tre dimensioni dello spirito (il Sé spirituale, lo Spirito vitale e l’Uomo spirito, per usare la terminologia di Steiner). Impulsi più onniabbraccianti, e quindi più forti e potenti di questi non esistono! Però ciò non vuol dire che Aristotele, o Socrate o Platone, quattro, cinque secoli dopo la fioritura della devozione verso i Cabiri a Samotracia – erano culti misterici – sapessero o capissero rettamente che cosa s’intendesse dire con questi Cabiri. Adesso l’umanità si trova a un punto tale d’evoluzione della coscienza che ha la possibilità, tramite i fondamenti di una scienza oggettiva dello spirito, di recuperare, embrionalmente ma in modo giusto, i significati fondamentali di questi grossi passi evolutivi. Comunque kabìr, ghibòr, ghibùr, significa in tutte le lingue semitiche “la forza”. Ghiburà, è una dei nove Sephiròt nella Cabala: è tutti gli impulsi di forza. Che cosa c’è di più forte del sostrato di natura – corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale – quale triplice fondamento pre-terrestre (T1,T2,T3) affinché al quarto punto d’evoluzione (T4) potesse sorgere, sul fondamento forte e saldo (kabìr), l’Io? I conti tornano. Allora, leggendo il piccolo scritto di Schelling sulle divinità di Samotracia possiamo dire: ma guarda quali intuiti ha avuto Schelling! Non conosceva ancora la scienza dello spirito, ma è andato così vicino alla giusta interpretazione! E Goethe, che ha messo i Cabiri nel suo Faust, aveva studiato questo testo di Schelling. Questo la dice lunga sul cammino spirituale dell’Europa centrale negli ultimi duecento anni.

Allora, volete fare una pausa?

*********

Cominciamo adesso col testo. Fin qui è stata propedeutica per creare i fondamenti.

5,1 “Dopo queste cose c’era una festa dei giudei e Gesù salì a Gerusalemme.”

Μετα ταυτα (metà tàuta), dopo queste cose. Vi dicevo che nel vangelo di Giovanni non c’è nulla di inessenziale: se dice “dopo queste cose”, significa che c’è una consequenzialità evolutiva archetipica. Ciò che avviene adesso è il terzo segno, che può avvenire soltanto dopo il secondo: il modo di operare del Cristo nell’umanità, il suo modo di trattare il paralitico, è reso possibile da tutto ciò che è avvenuto prima. È importantissimo che il segno avvenga a Gerusalemme perché in questa città, per l’ebreo di allora, il corpo della Terra mostrava inscritto tutto il mistero dell’evoluzione umana, divisa in due parti: come in una cifra, la prima parte dell’evoluzione è la collina che scende a valle, e la valle la separa dall’altra collina, quella della risalita evolutiva. È chiaro che l’ebreo, nel fulcro del suo cammino spirituale, riteneva Gerusalemme la città santa, anche nella sua cifra geografica, geologica. E non è arbitrario. Chi ha costruito Gerusalemme? La natura. La natura ha spaccato in due quel luogo, facendo una valle e due monti. E gli ebrei hanno costruito lì il luogo sacro della loro cultura, agganciandosi a un dato di natura duale: Jerù-shalàjim. E hanno detto: qui è il luogo della nostra cultura, perché essa è fatta per capire il carattere duale dell’evoluzione. Una discesa, un’attesa del Messia, poi una svolta in cui i tempi si compiono e si vive nella pienezza, dove non c’è più nulla da aspettare ma c’è tutto da realizzare. Questo luogo con due rilievi e la valle in mezzo, questa lacuna dell’universo, è il nostro luogo santo, e qui facciamo il centro del nostro incontro con Jahvè. È bello, molto bello!

fig_3.psd

Gerusalemme è la città in cui la coscienza umana comprende che l’evoluzione non è monotona, ma duale. C’è una discesa e una salita, c’è una prima parte condotta dall’elemento lunare, Jahvè, e una seconda parte condotta dall’elemento solare, il Cristo. Monte del Sole, monte della Luna: il monte della Luna riassume tutta l’evoluzione del Padre, il monte del Sole anticipa tutta l’evoluzione del Figlio. Certo l’ebreo normale non era consapevole di queste profonde verità evolutive, però viveva in questa giusta religiosità. Alle spalle aveva iniziati che sapevano ben più di lui perché proprio questo luogo geografico-geologico, con questa dinamica polare di forze, doveva essere circondato da mura sacre ed eletto come punto d’incontro col divino. Adesso arriva il Cristo, il Figlio, e dice: guardate che la vostra città vi mette proprio sotto gli occhi che l’evoluzione ha due tronchi, e voi conoscete solo quello del Padre, di Jahvè. Adesso comincia quello del Figlio. Ve lo dice la vostra città, ve lo dice il nome della vostra città, che è duale. Il Cristo non va a Gerusalemme per caso: quello che adesso avverrà può avvenire solo a Gerusalemme. Ed è festa: significa che tutto il popolo si raduna lì, che non è un periodo qualsiasi dell’anno, ma proprio un momento culminante della spiritualità ebraica che celebra una posizione del Sole. Il massimo dell’operare del Sole di natura che deve cominciare a scendere per far posto al Sole spirituale. Quindi siamo in un periodo estivo, a Pentecoste. Invece la festa delle Luci, che vedremo nel nono capitolo, si celebra quando c’è il massimo della tenebra, e allora si vede la luce spirituale.

5,2 “C’è a Gerusalemme, sulla porta delle pecore, una piscina chiamata in ebraico Betzatà, avente cinque portici.”

Επι (epì), ormai lo sapete, significa “sopra”. Allora, riprendendo i riferimenti fisiologici cui avevamo accennato, la porta delle pecore è il surrene e la piscina di Bethesda è il rene; la porta delle pecore è l’epifisi e la piscina è l’ipofisi. Sono sempre presenti i risvolti fisiologici, perché ogni fenomeno fisico ha un epifenomeno spirituale, che è quello più interessante. Quindi va indicato sia il luogo fisico, sia il luogo che sta sopra. Il luogo che sta sopra è la porta delle pecore, mentre il luogo fisico dell’evento è la piscina, Beth-shatàjim, dei due potenti. Le pecore sono per eccellenza l’anima di gruppo. Più chiaro di così: si riassume, si porta a conclusione la creazione del Padre, che è il dato di natura comune a tutti: lì siamo tutti pecore e ci tocca seguirlo. Il problema ce l’ha chi, duemila anni dopo la svolta, va ancora in cerca di pecorelle. Eppure in una delle parabole dei sinottici che descrive l’evoluzione, la pecora buona è proprio quella “smarrita”. Ma chi la chiama smarrita, o perduta? Chi non vorrebbe vederla rendersi autonoma. Invece è proprio l’unica pecora salva. E il testo aggiunge (non invento io): c’è più festa in cielo per questa pecora che ha avuto un’evoluzione individuale che non per le novantanove che sono rimaste nel gregge.

I. Anche nel testo greco c’è scritto “smarrita”?

A. Nooooooooooo!!!!! Dice che se n’è andata per i fatti suoi!! È l’uomo che dice: sono stufo di essere intruppato. Quindi, sotto questa porta delle pecore, c’è a Gerusalemme una piscina, κολυμβηθρα (kolymbèthra), un luogo di purificazione. Ci si lavavano anche le pecore, prima di sacrificarle. Andare in piscina, a quei tempi, non significava fare sport, ma purificarsi, perché si arrivava da fuori, si passava la porta belli sporchi e, soprattutto se uno voleva poi andare nel tempio, doveva lavarsi. Questa piscina nel vangelo porta il nome ebraico, proprio ad indicare che è il riassunto di tutto il passato. Se avesse un nome greco mi meraviglierei. Quindi il suo nome ebraico è Beth-shatàjim, il luogo delle due forze portanti dell’evoluzione. E quali siano queste forze non è una cosa arbitraria: sono il mondo minerale e quello vegetale. Non mi dimostrerete mai che questo non è oggettivo, perché altre colonne portanti non ce ne sono. Tutto il mondo minerale si riassume nel corpo fisico dell’essere umano, e tutto il mondo vegetale si riassume nel corpo vivente umano – che una scienza dello spirito, creando terminologie scientifiche, chiama “corpo eterico”. È l’interazione fra le forze minerali formanti e le forze metamorfosanti del vivente; il morto e il vivente come duplice sostrato dell’evoluzione dell’anima e dello spirito umani. Questo tipo di interpretazione che sto facendo, non è alternativa a cinquanta altre: se voi avete voglia – io l’ho dovuto fare perché altrimenti gli esami non si passavano – potete leggere in tomi che non finiscono più, venti, venticinque interpretazioni di cosa significhi questo nome ebraico. Però l’orizzonte è talmente ristretto che uno dice: avrà ragione questo o quest’altro? Si escludono a vicenda. L’esperienza che io ho fatto leggendo Steiner è che non se ne esce fuori con la ventiseiesima interpretazione ad escludere le altre venticinque. No, in Steiner si trova soltanto un tipo di interpretazione che include tutte e venticinque le altre, e non può essere sbagliata, perché l’errore sta sempre nell’escludere aspetti del reale. Lo sguardo della scienza dello spirito è talmente comprensivo, talmente d’insieme, che integra tutto. Quando dico: in questa dualità di shatàjim una parte sono le forze delle forme, l’altra sono le forze di metamorfosi – questo s’intende per il morto, il fisso, e per il vivente – cosa escludo? Nulla. Non manca niente. Quindi questo tipo di interpretazione non può essere sballato, proprio non può! Questa è l’esperienza di beatitudine, di gratitudine e di gioia che io facevo quando ho scoperto Steiner, e mi dicevo: ho fatto tutte quelle sudate esegetiche, ma adesso mi godo davvero quello che sto leggendo!

I. Hai parlato della piscina che rappresenta le forze fisiche ed eteriche...

A. Non “rappresenta”: è.

I. OK, è. La porta delle pecore cos’è, allora? Il corpo astrale?

A. La porta è l’accesso, fa entrare in Gerusalemme. Qual è l’accesso a capire il sostrato minerale e vivente? È lo stato interiore d’essersi stufati abbastanza di vivere in un gregge, come pecore. Ecco la porta di accesso. Se uno non si è stufato di essere pecora, non cercherà mai qualcosa di meglio.

I. Mi sono venute alcune idee e volevo dirvele così, un po’ grossolane e sporche. Molti artisti rinascimentali presentano i loro quadri sempre divisi in due (come tu hai in questi giorni disegnato alla lavagna l’evoluzione retta dal Padre e quella retta dal Figlio): c’è una parte, in genere sullo sfondo – e quindi iniziale, secondo me – sempre disegnata in azzurro, e una parte che abbiamo ben di fronte, in rosso. Questo mi ha suggerito sempre la circolazione: sangue venoso e sangue arterioso. Su questa immagine ho ricollocato il grafico dei sette segni, forse in modo un po’ forzato, ma... ci provo. Il primo segno – le nozze di Cana – è come il nostro sangue periferico, venoso (acqua, vino). Poi il servo del re: ecco questo sangue che entra – linfatico, venoso, sporco, quindi dipendente da tutti quanti i metabolismi accaduti sopra – e passa nella sclerosi (ecco il paralitico), fisiologicamente in un organo, per esempio il fegato, che è l’unico organo interno che si sclerotizza. Poi abbiamo la fucina del fegato-milza-pancreas e da lì arriva un elemento di nutrimento fondamentale: il glicogeno. E lì siamo alla svolta dei sette segni. Poi risaliamo (tempesta sedata) ed ecco il sangue polmonare, renale, (acqua, aria). Andiamo poi nella camera oscura che è il cuore: il cieco nato. È la parte destra venosa, nera, e lì irradia l’ossigeno (l’elemento di calore diventato luce) dal polmone, e l’ossigeno è l’elemento dell’Io che si imprime nel sangue e lo trasforma in arterioso. Il segno di Lazzaro, infine, è l’Io che, una volta data l’impronta individuale al sangue, lo porta al cervello che è l’elemento supremo dove si afferma l’Io, il Dio che è in ogni uomo. E guarda caso tutto questo avviene per 25920 volte circa in un giorno, che corrisponde ai 25920 anni che il Sole impiega per transitare in tutti e dodici i segni dello Zodiaco. Non so se torna, se ha un senso...

A. Ma certo! Tornano i conti. La mente è fatta per dire se i conti tornano o non tornano. Allora io pensavo a quel romanzetto dove Steiner alla fine tira la somma del tutto e dice: il senso globale dell’evoluzione terrestre è di trasformare un cosmo di saggezza – risultato della creazione divina - in un cosmo d’amore. Trasforma una creazione di colore azzurro in una creazione di colore rosso. I conti tornano. E quando non tornano si tratta di chiarificare meglio le cose. A quello che tu hai detto non c’è nulla da dire. Ciò non significa che hai detto “il tutto”: hai colto degli aspetti. Però l’articolazione degli aspetti che hai fatto è giusta, tant’è vero che trovavi immediatamente il rapporto con i sette segni. Che nella tempesta sedata il vento, quindi l’elemento dell’aria, sia fondamentale, non si scappa, è così. Senza il vento non esiste tempesta: ma ci vuole anche l’acqua. Quindi è un evento di interazione tra aria e acqua. Il segno del paralitico è un evento di interazione tra acqua e Terra – il vivente è sempre nell’acqua – e l’aria non c’entra nulla. L’aria ce la porta ogni tanto l’Angelo che muove l’acqua: quindi viene portata da fuori, si è dipendenti dall’Angelo. L’unico altro modo di muovere l’acqua è il terremoto, il moto della Terra, ma qui non si parla di terremoto: al terremoto il Padreterno ricorre solo quando c’è veramente bisogno di una botta per l’umanità che non capisce niente; normalmente lascia in pace la Terra, il cui compito è di essere bella ferma, e fa muovere l’acqua attraverso l’aria. Vediamo che il testo evangelico presuppone sempre tutta la fenomenologia dei quattro elementi, altrimenti parlerebbe di fenomeni non umani. La lettura, quindi, può diventare ancora molto più complessa: io sto soltanto sbracciandomi per creare i primi accessi. Tu adesso hai fatto una lettura in chiave di fisiologia che certamente fa parte della fenomenologia dell’incarnazione del Verbo: cos’è la “carne” se non il corpo? Non parliamo dell’ “interrazione” del Verbo, ma dell’incarnazione del Verbo. Il sangue ha a che fare con l’elemento acqueo in tutt’altro modo che non il polmone, che ha a che fare con l’elemento aereo in tutt’altro modo che non il cuore, ecc. E uno si dice: siamo agli inizi di scoperte conoscitive senza fine! Rimbocchiamoci le maniche! E dà veramente tanta gioia poter dire: questa sudata che ho fatto non è stata arbitraria perché i conti tornano. E cosa mi fa dire che i conti tornano? Il fatto che gli elementi si sostengono e si confermano a vicenda, e invece di avere intoppi e contraddizioni ho degli intuiti, delle illuminazioni conoscitive che si integrano e illuminano. Questo è il criterio della verità. Gli errori sono sempre di parzialità perché escludono questo, questo e quest’altro. Come accade nell’esegesi. Invece Steiner ti dice: il significato è questo, e quest’altro e quest’altro... però lo capisci solo se sai metterli tutti insieme, se sai pensare per inclusioni.

Si va a pranzo? Buon appetito.

28 dicembre 2001, pomeriggio

Abbiamo visto che è importantissimo che la guarigione del paralitico avvenga a Gerusalemme, città dalla struttura polare, luogo d’incontro, fra l’altro, tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. C’è quindi un lato di sintesi di tutto il passato e un lato di apertura al futuro. In un certo senso, questo mistero della piscina dai cinque portici è un po’ la Galilea dentro Gerusalemme (e poi vedremo che il cieco nato è un po’ la Giudea dentro Gerusalemme). La struttura polare di Gerusalemme è come una ripetizione della polarità fra la Galilea – impulsi volitivi ancora dormienti del passato – e la Giudea – l’impulso proprio degli ebrei al fine di far sorgere la coscienza dell’Io nell’umanità. Quindi col cieco nato avremo a che fare coi misteri delle forze della percezione sensibile costruite in base all’incontro col Cristo: perciò questo sesto segno del Cristo avverrà nel polo giudaico di Gerusalemme. Adesso siamo nel polo galileico, dove si tratta di un confronto con le forze di natura, divise da una specie di diaframma come immagine della fisiologia dell’uomo, che è diviso veramente in due: il polo della coscienza e il polo di tutto ciò che è vita. Il polo della testa presuppone il minerale morto, perché solo dove la materia si devitalizza può diventare sostrato speculare per riflettere la coscienza: non si può far riflettere la coscienza dalla materia vivente, che è tutta mobile nel suo pullulare di forze. Adesso il testo ci dà in mano tutti i particolari di cui abbiamo bisogno.

Eravamo al v. 2 “C’è a Gerusalemme, sotto la porta delle pecore”...

I. Sotto o sopra? Prima avevi tradotto “sopra”.

A. Fisicamente sotto, spiritualmente sopra. “...una piscina chiamata in ebraico Bethzaidà, avente cinque portici”; cinque portici creano una polarità: quattro laterali e uno in mezzo. È una struttura polare ed è all’interno. Adesso vediamo il rapporto con gli esseri umani di questa realtà che è stata descritta come Gerusalemme, un posto specifico in Gerusalemme, una porta specifica e una piscina specifica.

5,3 “In questi portici stava seduta una moltitudine di malati, ciechi, zoppi e rinsecchiti”.

Malati significa: persone che hanno difetti o nel corpo delle forme (quello che ho chiamato l’elemento minerale) oppure nei sette processi vitali. Queste malattie sono di tre tipi fondamentali: ciechi, zoppi e “rinsecchiti”, ξηρων (xeròn), dice il testo greco. L’essere umano può essere considerato sia in chiave di dualità che di trinità: nel primo caso considero la testa e il resto, nell’altro caso distinguo testa, tronco (tutto ciò che è ritmico) e arti (tutto ciò che è di natura metabolica). Qui il testo dà tre matrici fondamentali di malattia, quindi una si riferisce alla testa (ciechi), una si riferisce agli arti (zoppi, paralitici), e l’altra si riferisce alla sfera mediana nella quale, se si rinsecchisce, tutti i processi vitali vengono come spremuti e tendono a diventare morti. Come si rinsecchisce una cosa? Perdendo l’acqua, l’elemento umorale. Abbiamo quindi un funzionare non giusto dei sensi (ciechi), un’incapacità di percezione sensoria; abbiamo un funzionare non giusto degli arti (zoppi, paralitici), cioè un’incapacità di movimento volitivo per agire nel mondo, una paralisi delle volizioni; il terzo è il rinsecchito, il morire della vita.

I. Se è un’incapacità di percezione sensoria, allora oltre ai ciechi comprendiamo i sordomuti, ecc.

A. Certo. La vista sta a rappresentare tutti i sensi. Ciechi: senza capacità di percezione; zoppi e paralitici: senza capacità di movimento e azione; rinsecchiti: senza capacità di ritmo vitale. In altre parole, il Cristo trova qui la rappresentanza dell’umanità perché non manca nulla di tutti i fenomeni fondamentali della caduta. Il Cristo incontra l’umanità a metà dell’evoluzione, quindi sempre nel suo stato di caduta, e viene per operare l’inversione di marcia, per mettere a disposizione dell’uomo le forze che gli consentono di risalire. In che modo viene qui riassunta la totalità della caduta? I sensi aspettano di essere cristificati perché altrimenti non funzionano, non sanno essere strumento percettivo per i concetti. Gli impulsi volitivi sono annientati perché manca il volere individualizzato: rispetto a un volere libero, il fare di natura cos’è? È una paralisi assoluta. Rispetto alle azioni fatte per amore, fatte liberamente, un’azione istintuale che cos’è? Una paralisi. Quindi queste immagini vanno interpretate nel loro significato evolutivo. La caduta, la malattia dell’uomo, viene espressa in una triplicità di incapacità: incapacità di percezione illuminata dall’Io, incapacità di azione illuminata dall’Io, incapacità di ritmo illuminato dall’Io. Perciò il Cristo deve venire per riempire tutte e tre le sfere con le forze dell’Io. Segue a questo punto il versetto che in molti manoscritti è stato tolto perché si parla dell’Angelo.

5,4 “Un Angelo del Signore, infatti, di tempo in tempo scendeva nella piscina e scuoteva l’acqua; il primo che scendeva nell’acqua dopo il movimento dell’acqua diventava sano da qualsiasi malattia fosse in preda.”

Come mai è stato espunto questo versetto? Uno dei motivi è senz’altro la difficoltà fondamentale con gli Angeli sia della cultura giudaica, sia dell’inizio della cultura cristiana. Il grosso problema del rapporto del giudaismo e del cristianesimo con gli Angeli è il monoteismo, di cui abbiamo già parlato. Era compito del giudaismo, e poi dell’inizio del cristianesimo, di mettere in sordina la pluralità d’impulsi dell’anima per porre in primo piano la forza dell’Io – e l’Io è monoteistico, non può esserci una pluralità di Io nell’uomo – e quindi era necessario mettere in secondo piano la pluralità degli esseri divini. Adesso il nostro compito è di riconquistare la pluralità degli esseri divini senza perdere la prospettiva monoteistica dell’Io. Si tratta ora di avere tutt’e due le realtà. Il nostro compito è di essere al contempo monoteisti, per ciò che riguarda lo spirito, e politeisti per ciò che riguarda l’anima. Gli Angeli, in quanto gradini di divinità tra la Divinità assoluta (Jahvé per gli ebrei, Dio per i cristiani) e l’uomo, ci sono o non ci sono nei vangeli?

I. Ci sono all’annunciazione, alla nascita di Gesù...

A. Gli Angeli nei vangeli ci sono come c’è la reincarnazione: in modo velato. Se ci fossero come si deve, ci dovrebbe essere una vera e propria sistematicità nell’affrontare le Gerarchie angeliche. Se nei vangeli fossero un elemento preminente, avremmo un’angelologia vera e propria. Ma non c’è. S. Paolo un paio di volte nomina alcune di queste Gerarchie, ma si vede che non ha nessun intento di sistematizzare, accenna soltanto. La realtà degli Angeli, e la realtà della reincarnazione, nel Nuovo Testamento vengono presupposte, ma non tematizzate più di tanto. Questo è il punto: sono presenti in un modo velato. I problemi sarebbero grossi se i vangeli negassero l’esistenza degli Angeli e della reincarnazione, ma questo non avviene (e sarebbe assurdo che avvenisse). Qual è il senso di un messaggio che c’è, ma è velato? Di fatto lascia alla libertà degli esseri umani lo scoprirlo in base a un cammino, a un impegno di conoscenza. In altre parole, nei vangeli le cose più importanti sono proprio quelle che si conquistano dopo aver sudato e sofferto a lungo per la verità. Ed è proprio questo che i vangeli vogliono suscitare in noi, non un comodo ricevere verità bell’e pronte. I vangeli aiutano a cercarle, queste verità. E nella misura in cui l’individuo singolo cerca indefessamente con cuore sincero, la verità gli viene incontro.

Nella storia del Parsifal, riceve risposte solo colui che pone domande. Non domande teoriche, ma il risultato sofferto, karmico ed esistenziale, della ricerca di qualcosa. Se invece la verità ci fosse data senza sforzo, sarebbe un gran peccato: perché una verità che si conquista penando, rinunciando forse a qualcosa di importante nella propria vita, ha un tutt’altro valore morale che non una verità regalata senza sofferenza. Quella non vale nulla, resta teorica e astratta. Il motivo per cui l’umanità di oggi è piena di verità che non valgono nulla è che non sono state conquistate in base a un cammino sofferto di ricerca. Questo ci fa capire l’importanza di non spargere le verità così, a manciate: non servirebbe a nulla, servirebbe solo a far poltrire. Invece è molto più nella logica dell’evoluzione dell’individuo libero, di far sorgere la comprensione dallo sforzo della ricerca, sincero e faticoso. Una verità per la quale non si è pagato nulla non vale nulla, proprio non vale nulla. Pensate a Internet: quante unità d’informazioni ci sono in Internet? Un’infinità. Cosa valgono? Nulla. Sono di tutti e di nessuno. Una verità diventa mia veramente, e vale qualcosa per me, in proporzione a quanto ho patito per cercarla. Son tutti aspetti che ci sottolineano la densità morale dell’individuo che si conquista la sua evoluzione, e non la riceve senza che gli costi nulla.

Andiamo avanti. Il Cristo trova l’umanità nella triplice realtà di malattia: ciechi, zoppi-paralitici e rinsecchiti. Cosa vuol dire che l’accesso alla guarigione avviene non grazie a una forza interiore, ma grazie all’arrivo dell’Angelo? Vuol dire dipendenza. Non solo si è dipendenti dall’Angelo, ma si è dipendenti dal movimento dell’acqua suscitato dall’Angelo, dal tempo – il movimento dell’acqua non c’è sempre, ma solo quando l’Angelo viene –, e si è dipendenti dal fatto che ogni volta soltanto uno viene guarito. Pensiamo realmente quest’ultima affermazione: le forze elementari, le forze naturali di guarigione che vengono generate quando l’Angelo muove l’acqua, non sono inesauribili ma bastano per una persona sola. Perché? È una tirchieria divina? Arriva il Cristo e dice: tu sei qui da 38 anni, e la cosa nuova, che ti rende possibile l’impossibile, è che tu generi dentro di te delle forze risananti che ti saranno sempre a disposizione, che non dipendono dall’Angelo, né dal tempo giusto per l’Angelo, né dipendono da un altro essere umano che ti aiuti a entrare nella piscina.

Cosa sono i 38 anni? Siamo a Gerusalemme, e uno dei suoi aspetti polari è quello del Sole e della Luna, come dicevamo: infatti la Terra è un corpo cosmico sul quale si inscrivono gli impulsi del Sole e della Luna. Se noi prendiamo il rapporto che hanno fra di loro la Terra, il Sole e la luna, sappiamo che uno dei cicli fondamentali astronomici è la cosiddetta epatta lunare, cioè il tempo che ci vuole perché Sole, Luna e Terra ritornino esattamente allo stesso rapporto fra di loro. In altre parole, quando una persona nasce, Sole Luna e Terra hanno una certa posizione reciproca, poi si spostano. Ritornano esattamente in quella stessa posizione dopo 18 anni, sette mesi e nove giorni. Sono i cosiddetti nodi lunari. Moltiplicando per due, siamo nel trentottesimo anno. Quindi, quando una persona si trova nel trentottesimo anno, son già due volte che Sole, Luna e Terra hanno ripetuto lo stesso rapporto fra di loro che avevano alla nascita di questa persona. Il mezzo della vita è 35 anni (e la metà geologica dell’evoluzione terrestre è la metà dell’epoca atlantica); quindi tre anni dopo circa abbiamo passato l’apice, di un po’. Siamo un’ora dopo l’apice. Il significato della posizione dell’ultima ora prima del culmine del Sole, e della prima ora dopo il culmine del Sole, l’abbiamo visto. Durante il trentottesimo anno c’è il secondo nodo lunare nella biografia di una persona, quindi è il compiersi totale della fase di ascesa perché ormai, dopo il secondo nodo, la biografia in quanto vicenda fisica decisamente scende, e sempre più dà la possibilità di resurrezione allo spirito umano: il senso di ogni morte di ciò che è fisico è la resurrezione di ciò che è spirituale. Ed è a questo punto che siamo a metà della quinta epoca post atlantica dove c’è l’evento del Golgota e l’Essere del Sole entra nella Terra.

I. Però siamo a trentotto anni dal momento in cui è diventato paralitico: il vangelo non dice che sia nato paralitico.

A. Non importa quanti anni abbia lui: è l’umanità che è trentottenne. Il Cristo trova l’essere umano da trentotto anni paralitico. L’affermazione è essenziale e riguarda lo stato di malattia. Lo vedremo meglio dal testo greco, al quinto versetto. Ora però non vorrei dimenticare nulla del quarto. L’ “Angelo del Signore” significa l’Angelo che annuncia la venuta dell’essere dell’Io, ο αγγελος Κυριου (o ànghelos Kyrìu), così come l’Arcangelo annuncia l’incarnazione di Gesù di Nazaret, quale futuro portatore del Cristo. Quest’Angelo di tempo in tempo scendeva nella piscina e muoveva l’acqua: muovere l’acqua significa infonderle movimento di vita in modo che poi queste forze vitali, dall’acqua che da stagnante ridiventa vivente, vengano comunicate al primo che si immerge nella piscina, risanandolo. Adesso viene la risposta alla tua domanda:

5,5 “C’era un tal uomo già avente trentotto anni nella sua infermità.”

Prima πληθος (plèthos), una moltitudine, adesso lo sguardo si fissa su uno. Domanda: e tutti gli altri il Cristo li ignora? Perché fa questa preferenza? Perché quest’uomo paralizzato da trentotto anni rappresenta in quest’anima di gruppo, in questa moltitudine, la pecorella che si stacca. In altre parole, il Cristo può guarire soltanto separando dal gruppo, cioè conferendo almeno un primo inizio di individualizzazione dentro l’elemento comune, di natura, che c’è sempre. Questa affermazione non vale numericamente solo per quest’uomo qui: vale per tutti, nella misura in cui anche gli altri, nel corso dell’evoluzione, cominciano ad essere capaci di un primo incontro col Cristo. Ma l’affermazione fondamentale è: il Cristo non si incontra come gruppo, non esiste un Cristo di gruppo. Bisogna cominciare a cercarlo come individuo. Tant’è vero che la prima domanda che il Cristo gli rivolge è: vuoi tu diventare sano? L’evoluzione guidata dal Padre era quella in cui erano decisivi l’Angelo, l’acqua, l’aiuto dal di fuori di qualcuno che ti buttasse dentro la piscina...; il Cristo chiede: sei capace, vuoi generare dentro di te la volontà tua di diventare sano? In altre parole, il futuro dell’evoluzione sta nel fatto che sano è colui che vuole diventarlo sempre di nuovo. La salute la costruisce ogni giorno la volontà individuale, non viene più data, ma viene offerta come possibilità evolutiva della libertà dell’uomo: vuoi tu diventare sano? E questo volere va rinnovato ogni giorno.

I. Ma allora quest’Angelo che viene ogni tanto a portare un po’ di salute, cosa rappresenta?

A. Le forze di natura, il lavoro del Padre.

I. Che sta estinguendosi.

A. Esatto. Proprio questo. L’Angelo rappresenta forze spirituali extra umane, l’acqua in movimento rappresenta forze naturali-eteriche extra umane e l’uomo ne dipende e ne è guidato. La svolta evolutiva sta nel comprendere che c’è un’altra possibilità di evolversi, ed è quella di generare dal di dentro le forze di salute. Volendolo. Oggi, quando una persona è malata, non guarisce in base alle medicine o ai medici: questi possono essere l’occasione, il presupposto della guarigione. Ma la velocità, la forza e la completezza della guarigione dipendono in tutto e per tutto dall’individuo, dal suo voler essere sano. Oggi una persona che voglia individualmente, fortemente e decisamente essere sana, è sana; anche una malattia è salute per lei, perché nel suo corpo accade solo ciò che il suo Io vuole. Nella misura in cui si affievolisce questa volontà di salute karmica, grazie alla quale posso andare incontro a tutto ciò che mi fa crescere, la mia natura corporea porta fuori cose che non sono secondo la volontà d’evoluzione dell’Io. Oggi a decidere le sorti corporee è sempre di più l’Io: nella misura in cui l’Io è debole, decide la natura; viceversa, se l’Io è forte, decide lui che cosa deve avvenire al corpo. Se una malattia salta fuori, salta fuori perché la vuole l’Io, quindi è salute. Gli altri forse pensano che sia una malattia: ma se un’individualità fa di una malattia un presupposto per cammini interiori enormi, è pura salute. Gli altri possono dire finché vogliono che è male, perché al corpo avviene solo ciò che vuole l’Io, la realtà spirituale dell’Io. Nella misura in cui questa volontà non c’è, subentrano gli elementi di natura.

I. Stai dicendo che un Io debole non la vuole la malattia?

A. Ci sono due tipi fondamentali di volere: io posso volere una malattia della massima difficoltà, e la voglio proprio perché sono cresciuto abbastanza da poterla affrontare, e c’è un tipo di difficoltà che si deve affrontare perché si è omesso qualcosa nel passato. Tutt’e due le cose sono possibili. Ed entrambe dipendono dall’Io che decide in tutt’e due i casi. Se invece non decide, è la natura a offrirgli sia l’uno sia l’altro.

I. La natura offre all’Io?

A. La natura è tutta un’offerta.

I. Ma sono positive in entrambi i casi?

A. Nessuno è costretto a trarne il positivo, perché quello dipende dalla libertà. Le offerte del karma son tutti desideri dell’Io superiore. Però è un conto desiderare qualcosa perché me lo merito e un conto è desiderare qualcosa perché me lo merito! Attenti, non mi sono ripetuto: è l’italiano che qui gioca in un modo molto bello. Uno si merita qualcosa perché si è evoluto in positivo, è capace di affrontarla e quindi può andare ancora più avanti; oppure si piglia una difficoltà, e se la merita, perché ha omesso qualcosa nel passato. L’Arcangelo della lingua italiana usa lo stesso mistero del “meritare qualcosa” in tutt’e due i casi: una volta si merita una botta, perché ha omesso, una volta si merita una difficoltà perché è capace di superarla.

I. Una volta con merito e un’altra con demerito, allora.

A. Possiamo anche dire così.

I. Ma come si fa a distinguere?

A. Uno lo sente interiormente. È proprio questa l’attenzione a se stessi. C’è una voce interiore che ti dice: questa difficoltà è un premio; oppure ti dice: è l’effetto di un’omissione passata. Fare attenzione al karma sta proprio in questo: imparare a cogliere il carattere fondamentale degli eventi, a decifrare. Mi pare che sia chiaro, però, che tutt’e due l’Io le vuole, altrimenti la libertà non ci sarebbe. Pensiamo a quello che fanno i genitori con il bambino di dieci, dodici anni: quando c’è stato un momento di evoluzione positiva, come premio danno una controforza ancora maggiore perché se la merita, nel senso che è capace di cimentarsi con ostacoli ancora maggiori. Se invece il bambino ha perso colpi di qua e di là, allora gli tocca passare un periodo difficile, di sofferenza, che non è un premio per farlo crescere ancora di più, ma è perché ha omesso nel passato. E i genitori sanno che una volta è così e un’altra è cosà.

I. Ma allora nel campo dell’omissione è più difficile la guarigione.

A. Esatto. E perciò da sempre si dice: sta attento ad omettere, perché poi diventa sempre più difficile. Tant’è vero che a forza di cumulare l’omettere, l’omettere e l’omettere, l’evoluzione va del tutto verso il basso. Questo è possibile, lo dicevamo prima sottolineando che la capacità, la facoltà del positivo, non resta tale e quale se uno omette di esercitarla: si affievolisce.

I. Potrebbe essere vista in questo contesto la sofferenza che tutta l’umanità sta sopportando per malattie e morti precoci?

A. Certo. Qui abbiamo le chiavi fondamentali di lettura delle sorti dell’umanità, perché questi incontri col Cristo sono archetipici, è ciò che avviene sempre. Il vangelo ci parla solo di ciò che avviene sempre. Vi dicevo questa mattina che uno degli aspetti polari tra la guarigione del paralitico e la guarigione del cieco nato è che la prima è maggiormente uno sciogliere nodi del passato, mentre la guarigione del cieco nato è tutta rivolta al futuro: la sua cecità se l’è meritata in senso positivo perché sapeva di essere capace di non ricevere dalla natura le forze di visione, ma di generarle lui stesso. Sta a dire che era un essere estremamente evoluto. Quindi nel cieco nato vediamo forze del futuro e nel paralitico vediamo il risultato della caduta. E perciò il Cristo gli dice: non peccare più perché non ti avvenga di peggio.

I. Da un lato c’è una malattia per pagare un debito, dall’altro c’è una malattia come investimento futuro.

A. Certo. Il paralitico “deve” superare, il cieco se lo può permettere, è capace di fare ciò che gli altri ancora non sanno fare. Il paralitico ci rappresenta tutti: il superamento della comune malattia della caduta dobbiamo operarlo tutti; invece il cieco nato è uno che precorre i tempi. Poi Lazzaro, che è l’ultimo segno dopo il cieco nato, è proprio l’immagine dell’essere umano archetipico che va avanti, che precorre, precorre, precorre. Ci vuole sempre qualcuno che precorre in modo da tirare gli altri appresso.

I. Anche in Lazzaro si parla di malattia.

A. Il Cristo dice: questa malattia non è in vista della morte, ma in vista della piena manifestazione dell’essere dell’Io.

I. E possiamo anche pensare a Saulo che viene accecato sulla via di Damasco?

A. Adesso siamo al paralitico: ricorda di rifare questa domanda quando saremo al cieco nato. Eravamo al v.5 “C’era là un uomo già avente trentotto anni nella sua infermità.”

5,6 “Gesù vedendolo giacente e sapendo che il tempo della sua malattia è compiuto, dice a lui: Vuoi diventare sano?”

Il Cristo guarda l’essere umano spiritualmente per vedere se si trova al momento giusto per incontrarsi con lui. Questo può essere ogni momento, ma l’importante è che il Cristo non faccia mai qualcosa senza guardare alla realtà dell’uomo. E vede l’uomo giacente, paralizzato. Uno degli aspetti del riposo del sabato è che tutte le forze che davano la salute secondo natura si ritirano per far sì che l’uomo possa, grazie alle forze libere dell’Io, costruire la sua salute. Quindi la natura deve ritirare le forze di salute automatica, perché se il Padre non si ritrae non possiamo fare nulla. Perciò vedendo l’uomo paralizzato dice: il tempo è compiuto. Da che cosa si vede? Proprio dal fatto che le forze di natura non bastano più, nel senso che viene data la possibilità all’uomo di metterci forze sue. Se il tempo non fosse compiuto, completo, le forze di natura agirebbero ancora automaticamente; invece non funzionano più. Nelle traduzioni c’è “sapendo che era già lì da molto tempo”, ma il greco dice “sapendo che il tempo della sua malattia è compiuto”, πολυν χρονον (polýn chrònon). Il Cristo viene quando il tempo della prima parte dell’evoluzione è compiuto.

Il testo dice: il Cristo, vedendo spiritualmente che quest’uomo si trova al punto di compimento della prima parte dell’evoluzione, gli porta incontro l’impulso della svolta che gli consente di cominciare la seconda parte dell’evoluzione. Questa comincia comprendendo che la volontà individuale dell’Io è fondamentale, e perciò gli chiede: “Vuoi tu diventare sano?”. Tutta la seconda parte dell’evoluzione è la decisione libera di volere diventare ogni giorno, e ogni ora, sani. Cosa presuppone la volontà di diventare sani? Di aver capito che non si è sani. Un uomo che si aspetta la salute dalla natura, è un essere che si rifiuta di diventare sano ogni minuto della sua vita. In altre parole, o la salute dell’interezza dell’essere viene voluta dall’Io individualmente ogni minuto, oppure non c’è. La natura si proibisce di farci già sani per darci la possibilità di diventarlo volitivamente e liberamente.

Tante cose andrebbero dette ai medici che altrimenti crederanno in eterno che sani o si è o non si è. No: sani o si diventa o non si è. E lo si diventa solo per volontà propria, individuale. Significa che io, di ora in ora, divento sano in modi diversi, perché la sanità è diversa di ora in ora, di giorno in giorno. Noi andiamo per enormi approssimazioni, come se il dato di natura fosse il tutto: no, la salute da volere in una certa ora, dove la costellazione karmica è tutta diversa da tre ore prima, non è la salute di tre ore prima. Vuoi tu diventare sano? Per favore non traducete: “vuoi tu essere sano”, perché sarebbe una contraddizione, sarebbe l’opposto. Come liberi non si è ma si diventa, così sani non si è, ma si diventa. O uno lo diventa perché lo vuole di ora in ora, oppure non è sano; pensa di esserlo, ma intanto crea i presupposti perché la corporeità, attraverso disordini o malattie, lo costringa sempre di nuovo a rendersi conto che non ha più il diritto di aspettarsi la salute dalla natura, cosa che lo farebbe andare indietro nella sua evoluzione, gli permetterebbe di impigrirsi sempre di più nelle forze dell’Io che ora sono chiamate a decidere sul dato di natura.

I. E gli incidenti? Se uno ti dà una gomitata e ti fa male a un occhio?

A. Porgigli anche l’altro occhio, è la risposta del vangelo. Quando uno mi percuote su una guancia, che significa porgigli anche l’altra? Significa che presuppone che la prima gliel’ho porta io. In altre parole, l’altro sarà stato egoista, arrabbiato ecc., ma la domanda del karma non è: come mai lui è arrabbiato? ma: come mai questa mano arrabbiata si è appiccicata proprio alla mia guancia? Chi ha attirato questa rabbia verso di me? Io, se lo schiaffo l’ho preso io.

I. Quindi; porgi anche l’altra per vedere se ne arriva un altro?

A. No, per capire che sei tu ad aver voluto questo schiaffo.

Ma adesso torniamo al “Vuoi diventare sano?”: ti senti capace di generare in te le forze di volontà che sono in grado di conferire a tutta la tua costituzione fisica la capacità di funzionare da strumento per il tuo spirito? Tra essere sani e diventare sani bisogna scegliere, non si possono avere tutti e due. E per diventare sani bisogna prima finire di esserlo e poi bisogna volerlo. “Vuoi diventare sano?”, questa è la traduzione letterale. C’è γενεσθαι (ghenèsthai), il verbo della genesi, di un processo di lavoro, c’è una continua rigenerazione delle forze di salute e un continuo risanamento che avviene in base alla volontà di un Io libero. Quindi l’esperienza dell’Io è di risanare continuamente la propria corporeità a partire dalla sua volontà libera di esprimersi nel mondo. Se non ci sforziamo di dare questo senso così forte a queste parole, nella traduzione normale viene fuori una specie di insulto al Cristo: andare da uno che è paralitico e da 38 anni aspetta di immergersi in quella piscina per guarire e chiedergli: Vuoi guarire? Ma che domanda è? Sarebbe una presa in giro! In bocca al Cristo è un’assoluta stupidaggine.

5,7 “Rispose a lui il malato: Signore, non ho un altro uomo che quando viene mossa l’acqua getti me dentro la piscina: nel momento in cui io sto per arrivare, un altro scende nella piscina prima di me.”

Ασθενων (asthenòn), che noi traduciamo con “malato”, significa “debole”: è l’essere umano dove la natura è diventata debole, è il sabato del Padre che si riposa, per dare la possibilità all’Io di fortificarsi secondo il suo essere. Pensare che la salute sia generalizzabile è un pensiero che anche scientificamente mostrerà sempre di più la sua insostenibilità. Ci sono tanti modi di essere sani quanti sono gli esseri umani: a mano a mano che gli uomini si individualizzeranno sempre più, una concezione astratta delle salute uguale per tutti avrà sempre meno connessione con la realtà oggettiva dell’individuo. Il tuo modo di essere sano, sta dicendo il Cristo, è affar tuo, non può venire dalla natura, che è uguale per tutti, né può venirti da un altro essere. Lo devi volere tu, perché il tuo modo di strutturare la compagine del tuo essere fisico, come strumento del tuo Io, non può che essere deciso dal tuo Io, di giorno in giorno. È bello, è veramente bello! È una fiducia assoluta nell’umano individualizzato. Però vediamo anche che ci sono eoni di evoluzione ancora davanti a noi per arrivare a questi livelli. Ma questo è un testo che ci incoraggia, perché si pone all’inizio, dove il Cristo subentra nel riposo del sabato, in questo vuoto della natura.

Quindi “l’indebolito”, l’essere umano in cui le forze di natura scemano per far posto alla libertà dell’Io, risponde al Cristo: “Signore, non ho un altro uomo che quando viene mossa l’acqua getti me dentro la piscina.” Il Cristo gli ha chiesto: Vuoi diventare sano? e lui risponde: Non ho nessuno che m’aiuta. Il Cristo intende dire: certo, per forza non hai nessuno che t’aiuta perché è ora che tu stesso ti dia una mossa. Non aspettare di essere mosso dal di fuori. Il paralitico è vissuto per 38 anni malato, ha passato la metà della biografia – e anche la metà dell’evoluzione – con l’abitudine ad essere aiutato dal di fuori. E il Cristo porta un nuovo principio di evoluzione dove l’essere umano genera dal di dentro le sue forze.

5,8 “Gesù dice a lui: Sorgi, prendi su di te il lettuccio che ti ha portato finora e cammina.”

Εγειρε! (ègheire) Sorgi! Alzati! la svolta dell’evoluzione avviene nella misura in cui l’essere umano, che finora si è fatto portare dal destino, dalla natura, dall’aiuto altrui, prende nelle sue mani il suo karma, ne fa un fattore di libertà e cammina da solo. Decide lui dove andare. Finora sei stato trasportato nell’evoluzione – il lettuccio – e dormivi, avevi la posizione orizzontale; ora acquisisci la posizione verticale, prendi tu nelle tue mani il tuo destino, disponi tu liberamente, e cammina orientando i tuoi passi in base alla tua libertà.

5,9 “E immediatamente l’uomo divenne sano e prese su di sé il suo lettuccio e cominciò a camminare. Era sabato in quel giorno.”

Εγενετω υγιης (eghèneto yghiès) letteralmente significa “divenne sano” e non va tradotto “guarì”. Quando la decisione libera della volontà scocca, non c’è una protrazione del tempo fra la decisione e il muoversi della realtà corporea. Quando uno dice: faccio questo, e tra il dire e il fare passa del tempo, significa che la volontà non c’era. Quando la volontà è pura decide immediatamente dell’elemento corporeo.

I. Detto, fatto.

A. Detto, fatto. Altrimenti significa che la volontà è ancora debole. Perciò l’avverbio ευθεως (euthèos), che significa “immediatamente”. La libera volontà umana opera magicamente sul proprio corpo, non sul corpo altrui; la volontà umana è pura magia sul corpo, nella misura in cui c’è.

Ora una pausa. In minuti italiani o tedeschi?

*********

A. Ci sono domande sul testo del vangelo?

I. Perché uno solo veniva guarito all’agitarsi delle acque nella piscina?

A. Un elemento fondamentale – non vi sto dicendo il significato assoluto, ma uno fondamentale – è che l’evoluzione prima del Cristo non tratta tutti gli esseri umani in modo uguale: è un’evoluzione di privilegi. L’impulso del Cristo comincia dove tutti siamo uguali, perché veniamo tutti trattati da Io. Il Cristo non si presenta a questo paralitico dicendo: tu sei una persona speciale; no, il Cristo si rivolge sempre a ogni essere umano dicendo: guarda che adesso non si tratta più di privilegi, ma ognuno che voglia diventare di giorno in giorno sano, lo può fare. In altre parole, l’elemento di esclusività, di elitarismo, era insito nell’iniziazione antica. Rudolf Steiner, in tante conferenze, dice che era nella natura dell’iniziazione prima di Cristo che soltanto alcuni, i privilegiati, avessero i presupposti per venire iniziati. Uno degli elementi fondamentali del cristianesimo è dunque l’universalità, che non ammette privilegi, e nessuno viene favorito rispetto a un altro: il privilegio deve venire superato, perché se l’universalità ci fosse già stata il Cristo non avrebbe potuto portarla. Se il Cristo porta l’elemento di comunanza che ci rende tutti uguali in quanto spiriti umani, se è lui che porta questa universalità assoluta per cui agli occhi di ognuno non c’è un Io più bello di un altro, vuol dire che questa uguaglianza prima non c’era. Prima non era così: l’uno ce la faceva e l’altro no. Il cristianesimo sorge nell’umanità quando a nessuno vengono dati dei vantaggi rispetto a un altro. Nessuno è svantaggiato, nessuno è avvantaggiato dall’esterno: tutti i vantaggi e gli svantaggi sorgono in base al cammino individuale di ognuno e ognuno ne è responsabile. Questi pensieri sono fondamentali nel cristianesimo, però bisogna capire davvero in che cosa consiste la fratellanza umana assoluta. È stato nel mio karma di andare in giro per tutte le razze dell’umanità: sono stato in Laos, fra i gialli, poi in Sudafrica fra i neri... cosa c’era in comune? La forza dell’Io. Il dato di natura non è comune, lì ci sono notevoli differenze. Il cristianesimo è universalità, ma questa universalità non c’era prima del Cristo. Il Cristo dice: guarda che adesso vengono immessi nell’evoluzione umana degli elementi che sono a disposizione di tutti: prima, invece, chi saltava dentro per primo in questa piscina guariva, e l’altro no. D’ora in poi gli esseri umani vengono trattati in modo uguale e a nessuno viene fatto torto. E in effetti, se l’evoluzione fosse rimasta la stessa duemila anni dopo il Cristo e fosse vero ancora che chi salta per primo nella piscina di Bethesda viene guarito, come reagiremmo? È ingiusto, diremmo. Chi ce lo dice che è ingiusto?

I. Lo sentiamo da dentro.

A. Ma chi t’ha detto che gli esseri umani sono tutti uguali?

I. Il mio Io, la mia coscienza...

A. Ma lo sono davvero, uguali?

I. Sì e no...

A. Certo che c’è un elemento di diversità, ma non ha nulla a che fare con l’uguaglianza che si riferisce alle possibilità evolutive offerte tutte a tutti ugualmente.

I. Però l’Io si serve del dato di natura e se lì c’è diversità...

A. Prima di tutto l’Io ha già un’evoluzione dietro a sé; e poi è la possibilità di prendere posizione nei confronti del dato di natura che viene data ugualmente a tutti. Ma non restiamo tutti uguali perché c’è la libertà di usare o non usare la forza dell’Io. Uno dei tratti fondamentali del Cristo è che non fa preferenze: questo è un pensiero semplice. Ma pensiamo alle conseguenze enormi di questo pensiero! Se facesse preferenze metterebbe altri esseri umani in svantaggio e sarebbe una contraddizione assoluta nell’amore. Il Cristo dà tutti i vantaggi dell’Io a tutti. La libertà, poi, può prenderli in mano o omettere di prenderli in mano, ma le offerte che il Cristo fa sono complete per tutti. Questo elemento di assoluta fratellanza umana non potrebbe risultare immesso dal Cristo se ci fosse stato già da prima. Perciò devono esserci elementi di disuguaglianza, che nel vangelo di Giovanni sono espressi in modo molto bello. L’inizio dell’uguaglianza fra gli esseri umani è “il Cristo in me”.

I. Il fatto, però, che noi veniamo da una condizione di differenziazione precedente, in qualche modo non comporta diversità?

A. Non per essere stati avvantaggiati o svantaggiati dal di fuori. Questa è la differenza. Nessuno è stato realmente svantaggiato o avvantaggiato dal di fuori, se l’evoluzione va verso l’autonomia dell’Io. Il paralitico dice: io vengo svantaggiato dal di fuori perché non mi posso muovere e gli altri si tuffano prima di me. E il Cristo gli risponde: adesso viene il momento in cui i vantaggi e gli svantaggi dell’evoluzione vengono decisi da ognuno.

I. Questo sì. Però, nel momento storico in cui il Cristo parla, ci sono delle situazioni di differenziazione. Noi adesso sappiamo che ci sono altre vite, e sappiamo che Gesù è il Maestro... ecc., ma quelli lì, noi stessi a quel tempo, mica eravamo tutti uguali.

A. Il concetto della svolta non è un attimo, ma abbraccia secoli: il Cristo comincia a preparare, preparare, preparare sempre più la sua venuta nella carne, e questo è già l’inizio del suo operare. Poi c’è il punto culminante della sua incarnazione che porta a compimento le condizioni, gli strumenti. Il concetto di svolta è che nessuno strumento più manca per l’evoluzione umana; il mettere a disposizione gli strumenti non è cominciato nell’anno 30, ma è stato tutto un lungo processo evolutivo. L’Essere solare è sempre all’opera. È lui che ha causato il peccato originale, la cacciata dal Paradiso... pensate forse che non ci fosse? Accompagna tutta l’evoluzione, e ci entra dentro sempre più profondamente.

I. Però in tutta l’evoluzione precedente ci sono i privilegi: Alessandro Magno è stato Alessandro Magno...

A. Il privilegio viene espresso col fatto che in primo piano c’era il Padre, e il Figlio era in sordina. Le cose cambiano quando si invertono i ruoli: il Padre si dà una riposata nel sabato, e subentra l’opera del Figlio. Ma, ripeto, quando il Padre era all’opera, non era certo assente il Figlio: era in secondo piano. Le cose vanno pensate anche nella loro complessità infinita.

I. La cosa quadra solo nella prospettiva di più vite: se dovessimo pensare che si vive una volta sola, sarebbe un mondo d’ingiustizia.

A. Difatti il cristianesimo dovrà riscoprire la reincarnazione.

I. Il cristianesimo tradizionale colloca tutti i nati prima del Cristo nel limbo, perché non potevano avere possibilità di redenzione.

A. Il limbo è un parcheggio in attesa che si comprenda la reincarnazione. Riprendiamo ora la fine del v.9 “Era sabato in quel giorno”. Tutto ciò è potuto avvenire soltanto perché era sabato, giorno del riposo del creatore del mondo di natura, giorno d’apertura alla libertà umana. Si libera un posto di azione.

Si sviluppa adesso una diatriba molto forte, dove c’è l’intento di portare a coscienza quanto è stato compiuto nella chiave di lettura del rapporto tra l’operare del Padre e quello del Figlio. Per noi che leggiamo il vangelo duemila anni dopo, va sempre ricordato che nel giudaismo non c’era il concetto di Padre. C’era Jahvè-Elohim, che ha creato il mondo e l’uomo: come prassi religiosa fondamentale, c’era il convincimento che l’uomo vive la sua comunione con Jahvè imitandolo, e quindi riposandosi il sabato. In questo contesto, l’affermazione rivoluzionaria che il Cristo porta è: la Divinità non è semplice, ma duplice. C’è un operare divino paterno che poi termina per far posto all’operare divino del Figlio; ma gli ebrei conoscevano soltanto l’operare del primo tramite la legge mosaica, e dunque pensano che il Cristo stia portando la fine della loro religione. E difatti, in un certo senso, è proprio così.

5,10 “Dicono i giudei a colui che è stato guarito: È sabato e non ti è lecito prendere in mano e portare il tuo lettuccio.”

Vedete come agli occhi dell’ebreo di allora non è l’evento di guarigione in sé che conta, ma è la trasgressione del sabato. Tu stai operando, mentre il sabato è fatto per riposarsi. Immaginiamo questo fatto proprio nella sua fisicità storica: lo vedono camminare col suo lettuccio, grande trasgressione del sabato.

I. Perché portare un lettuccio era un lavoro?

A. E sì. C’era una casistica piena di divieti circa il sabato, e bisognava far tutto la sera prima, entro le 18, in modo da poter poi riposare pienamente.

I. Strano però che non se la prendano con chi va nella vasca e invece se la prendono con lui che non s’è nemmeno mosso.

A. Era proibito portare oggetti, pesi. E poi non c’è scritto che altri entrassero nella vasca, non dice che l’Angelo veniva di sabato. Stiamo al testo. Invece è nell’essenza dell’operare del Cristo agire di sabato.

5,11 “Lui rispose a loro: colui che mi ha fatto sano, lui mi ha detto: Prendi il tuo lettuccio e cammina.” Le cose si complicano: c’è un sobillatore!

5,12 “Gli chiesero: Chi è l’uomo che ha detto a te prendi e cammina?”

5,13 “Il guarito non sapeva chi era. Infatti Gesù si era reso invisibile al popolo che era in quel luogo” Che traduzioni avete per εξενευσεν (exèneusen)?

I. Si era allontanato... Era scomparso... Si era eclissato... Si era sottratto...

A. Il fenomeno è questo, e l’abbiamo già accennato in altri contesti: Gesù di Nazaret è il tramite nel quale si esprime il Cristo, il Logos, l’Essere solare, l’insieme di tutte le forze del sistema planetario. Il Cristo è una realtà spirituale e quindi dobbiamo sempre sforzarci di pensarlo come un insieme di forze. Attraverso il Gesù, il malato fa una prima esperienza della realtà spirituale che è la volontà singola, individuale e libera, di risanare sempre di nuovo il corpo: è un aspetto fondamentale del Cristo la forza di volontà di rigenerare continuamente il corpo a immagine dell’Io. Quindi quello che stava coricato sul suo lettuccio ha fatto questa esperienza; intorno c’è tanta altra gente. Chi ha visto il Cristo? Non viene detto. Ciò che viene detto è che chiedono: dov’è?, dov’è, dov’è? Il testo presuppone sempre la realtà spirituale che non è automaticamente esperibile in modo uguale a tutti. Il linguaggio misterico, esoterico, dice: il Cristo si era occultato, non era più genericamente visibile (questo è il senso della folla). La dicitura tecnica è εξενευσεν: era ridiventato occulto.

I. Neanche il paralitico lo vedeva?

A. Neanche il paralitico. E perciò il Cristo poi gli va incontro, gli parla e quindi si manifesta di nuovo.

I. È sbagliato allora che nel testo ci sia scritto Gesù e non Cristo?

A. No. Se Gesù parla con la potenza dell’aura di forze del Cristo, si manifesta in tutt’altro modo di quando questa potenza sparisce, diventa occulta. Quindi è un cambiamento anche in Gesù. Per esempio, molto concretamente, Steiner descrive un paio di volte che il volto di Gesù si illumina in tutt’altro modo quando l’aura del Cristo si serve delle sue parole per parlare: quando l’aura si ritira, il volto di Gesù diventa un volto normale, qualsiasi. E magari, poco dopo, il Cristo si esprime attraverso uno dei dodici, e il volto dell’apostolo s’illumina in tutt’altro modo.

I. Ma allora il versetto 13 a chi si riferisce? A Gesù o a Cristo? Il Cristo si è occultato, dicevi. “Il guarito non sapeva chi era. Infatti Gesù si era reso occulto sparendo dalla folla”.

A. Vanno insieme, è un tutt’uno.

I. Ma non torna il fatto che questo paralitico abbia riconosciuto il Cristo e poi non lo riconosca più...

A. Ripeto: il paralitico è stato esposto a queste forze e quindi le ha percepite. Adesso queste forze sono diventate occulte: cosa cambia?

I. La sua percezione.

A. Quindi il paralitico non sapeva più.

I. Cioè non aveva lo stesso riscontro.

A. Sì. Ognuno può dirlo con parole proprie, però il fatto è che il paralitico è stato esposto a un complesso di forze, e cinque minuti dopo non più. È nella natura di queste forze che spariscano dal di fuori per entrare dentro. Il nostro problema è il materialismo: noi capiamo le cose solo in senso materiale. Eppure, quante volte diciamo: ma, due minuti fa questa cosa l’avevo capita, e adesso m’è sfuggita, è sparita... Cosa è sparito? L’intuito. Prima c’era, ed era così chiaro, ne facevo l’esperienza... adesso è diventato occulto... Questo dice il vangelo. Parla di cose spirituali, non di pezzi di materia. Quindi non dimentichiamo mai che il nostro problema non è il testo, ma è sempre la nostra abitudine mentale al materialismo. Noi viviamo in una compagine spirituale dell’umanità in cui la realtà spirituale è come se non esistesse. E qui si parla proprio di cambiamenti, di trasformazioni nello spirituale.

I. Ma non può essere semplicemente che Gesù si confondeva nella folla? Quindi il paralitico guarito non sapeva distinguere tra la folla, ma Gesù c’era.

A. Ciò che è individuale cosa fa nella folla? Sparisce, perché è proprio il contrario.

28 dicembre 2001, sera

Siamo alla diatriba, alla disputa tra lo spirito del popolo giudaico e la realtà nuova che il Cristo porta. Qual è la quintessenza della disputa? È che il popolo si trova di fronte non a un nuovo spirito che vuol scalzare o distruggere quello del popolo giudaico, ma si trova di fronte al compimento di tutte le profezie relative al popolo giudaico stesso. Solo che, vivendo a lungo nell’attesa di qualcosa, ci si abitua all’attesa e quando arriva il compimento crea enormi problemi perché pone fine a tutta una spiritualità fondata sull’attesa. Detto teoricamente sembra ovvio, ma psicologicamente significa ricominciare da capo. Quindi è importante mettersi nei panni della cultura ebraica che per secoli, e con le forze migliori del cuore e della mente, aveva coltivato la fedeltà alla Legge mosaica, l’importanza di non contaminarsi col politeismo dei popoli pagani circostanti per mantenere puro il sangue ebraico e offrirlo al Messia, come dicevano i profeti. Adesso si trova di fronte a un fenomeno che non solo mette in forse ma addirittura profana la sacralità del sabato. Perciò i versetti 10-12.

Al tredicesimo versetto c’è l’incapacità del guarito di individuare il guaritore, perché gli viene chiesto di indicare un corpo visibile mentre lui ha fatto un’esperienza spirituale. Ciò che ha vissuto a contatto col Cristo non era focalizzato sul piano fisico, ma sulle forze spirituali che, sulle ali delle parole, ha vissuto in sé. Adesso che gli si ordina di indicare materialmente il Cristo, non sa rispondere, si rende conto di non aver prestato attenzione al portatore umano del Cristo, perché lui, in realtà, ha avuto a che fare col Cristo, non con Gesù. Nel momento in cui il vangelo dice che il Cristo si è occultato, Gesù appare alla percezione normale con niente di straordinario: è così simile agli altri da essere irriconoscibile. Questo testo richiede da noi un cammino interiore di flessibilità che cominci a cogliere non solo il lato di percettibilità accessibile a tutti, ma anche e soprattutto gli eventi soprasensibili che ci sono e non ci sono, vengono vissuti e non vengono vissuti, a seconda delle capacità delle persone. Vedremo più avanti nel testo che ci saranno delle manifestazioni del Cristo che per qualcuno saranno realtà e per altri no.

5,14 “Dopo queste cose Gesù lo trova nel tempio e disse a lui: Vedi che sei diventato sano, non continuare il cammino di discesa affinché non ti accada di peggio.”

Adesso possiamo dire Gesù-Cristo, perché il Cristo non è più occulto e va a trovare nel tempio il paralitico che è diventato sano. Questa dicitura del vangelo εν τω ιερω (en to ierò), nel tempio, si riferisce soprattutto al fatto che l’Io del paralitico non aveva ancora inabitato il suo tempio, cioè il corpo. S’intende qui anche il tempio di Gerusalemme, perché non si esclude mai la prospettiva geografico-storica: anzi, diciamo proprio che questo incontro avviene nel tempio, come evidenziamento esterno di un’altra inabitazione del tempio. Come prima il Cristo l’aveva trovato ammalato perché non era ancora capace di abitare il tempio del suo corpo – il primo tempio fondamentale per l’essere umano è il suo corpo –, così adesso lo trova nel tempio, cioè trova l’Io di costui dentro il corpo, perché il paralitico ha suscitato in sé le forze di volontà dell’Io di intridere il suo corpo (Vuoi tu diventare sano?). Siamo di fronte a un processo di incarnazione: il Cristo porta a compimento l’incarnazione dell’Io umano dentro la corporeità; e perciò il mistero fondamentale del Cristo è la sua stessa incarnazione. Dove il Cristo è all’opera, l’essere umano riceve le forze fondamentali di cui ha bisogno per inabitare il corpo dal di dentro, in modo che sia il suo Io a decidere le sorti del corpo e non più il corpo a decidere le sorti dell’Io. Finché è il corpo a decidere, siamo nella creazione del Padre, dove la natura guida e trasporta l’uomo; il Cristo opera la grande svolta e l’uomo comincia a incidere sulle sorti della natura, a partire dal suo corpo. Quando l’uomo comincia a decidere dei destini della natura del suo corpo, rafforza le sue forze d’incarnazione e sarà poi capace di decidere di una corporeità sempre più ampia, fino ad abbracciare la Terra intera.

Il Cristo trova nel corpo, nel tempio, l’Io di quest’uomo che ha voluto diventare sano, vede l’inizio di forza incarnante, di amore dell’Io per la materia del corpo in vista di redimerla e portarla a resurrezione. E perciò gli dice: “Vedi che sei diventato sano”, e cioè: cerca di comprendere con la tua mente, col tuo pensiero, che sei diventato sano, cerca di capire quello che hai fatto. In altre parole, il Cristo lo ha aiutato ad entrare nel suo corpo, ma ora quest’uomo deve portare a coscienza ciò che gli è avvenuto e così facendo diventa sempre più autonomo. Comprendi ciò che per metà t’è successo e per metà hai fatto tu, in modo da poter diventare sempre più libero e capace di gestire l’interezza del tuo essere. “Non continuare il cammino di discesa affinché non ti accada di peggio”. Le traduzioni riportano: “non peccare più” (μηκετι αμαρτανε, mekèti amàrtane), ma il Cristo dice: sta’ attento, quello che ti è avvenuto, quello che tu hai compiuto insieme a me e io insieme a te, è la svolta dell’evoluzione. Fino al punto infimo era la materia, la natura a decidere delle sorti dell’uomo, ma ora tu sei entrato in essa in modo tale da cominciare a far sì che sia il tuo spirito a decidere delle sorti della natura: allora non continuare questo cammino di discesa, di indebolimento dello spirito nei confronti della materia, altrimenti ti succederà di peggio. Quindi il male dell’evoluzione non è male più di tanto, perché era un male necessario: però c’è un peggio, che è l’omettere l’inversione dell’evoluzione. Non peccare più significa: il tempo della caduta è finito. D’ora in poi l’uomo singolo non ha più la scusa per dire: non ci posso far nulla. Se continua a restare inerme nei confronti della natura è per un’omissione sua, non per una necessità evolutiva comune a tutti. Il Cristo dice: non continuare più a lasciarti trasportare dalle leggi di natura perché potresti arrivare al punto di soccombere ai determinismi di materia.

5,15 “L’uomo se ne andò e annunciò ai giudei che Gesù è colui che l’aveva guarito.”

Adesso viene chiamato “l’uomo”, adesso che ha portato a coscienza il significato della svolta, l’orientamento positivo, con la possibilità anche del negativo, di tutta l’evoluzione. E subito va dai giudei per dire: eccolo, è lui. Il suo intento non è certo di tradire il Cristo: gli è successa una cosa così bella, è così pieno di gratitudine che vuol far fare bella figura al Cristo; e pensa: se vengono a sapere che è stato lui gli daranno una certa importanza. Ma di fronte al Cristo gli spiriti si dividono: chi fa l’esperienza della positività assoluta – se volete perché non ha nulla da perdere - s’innamora del Cristo, non può far altro, perché vive la totalità delle forze positive che portano avanti l’uomo; chi invece ha molto o tutto da perdere reagisce in modo opposto. Ed è questo che nella sua ingenuità il paralitico non sa.

5,16 “E a causa di questo i giudei perseguitavano Gesù, perché faceva queste cose di sabato.”

Seguono adesso le proposte conoscitive che il Cristo fa alla coscienza giudaica, e che fa sempre a ogni uomo che si trovi nel travaglio di compiere la svolta. Ognuno di noi vive, anche a duemila anni di distanza, per alcuni aspetti già in chiave cristica, ma per tantissimi altri è come se vivesse ancor prima del Cristo. Chi di noi può dire di aver cristificato tutti gli aspetti della sua persona? Perciò il Cristo è sempre disposto a porgere alla coscienza umana le sue offerte evolutive. E adesso ne vedremo il calibro.

5,17 “Gesù rispose loro: Il Padre mio lavora fino a questo momento e anch’io ho lavorato.”

Εως αρτι (èos àrti) significa “fino ad ora”, non “sempre”, come è tradotto; ed è giusto così, perché il Cristo sta dicendo proprio che la conduzione del Padre si ritrae per lasciar spazio alla svolta. Il Padre mio, inoltre, significa “il Padre dell’Io”, il Padre che fa tutta la creazione in vista dell’Io, del Figlio. Anch’io ho lavorato, dice il Figlio, però in sordina, come accompagnamento; adesso avverrà il contrario, lavorerà il Figlio accompagnato dal Padre.

5,18 “Perciò i giudei volevano ancora di più ucciderlo, poiché non soltanto scioglieva il sabato ma perché chiamava il Dio padre suo, facendo se stesso uguale a Dio.”

Per la prima volta si dice che i giudei considerano l’eliminazione di Gesù Cristo quale condizione per la loro stessa salvezza, soprattutto vedendo quale seguito ha, quali forze operative porta. Non è una cosa da nulla, ai loro occhi, che qualcuno si richiami al Padre, operi di sabato e abbia pure intorno chi gli dà retta. E non è cosa da poco, anche per il cristianesimo che per ben duemila anni ha affermato che il Cristo è il Figlio di Dio, riferire poi quest’affermazione ad ogni essere umano (lo vedremo bene nel capitolo 10): perché ogni uomo è figlio di Dio, è una creatura fatta a immagine di Dio. E allora, o quest’affermazione non interessa nessuno e non crea problemi, oppure, se la prendiamo sul serio, crea enormi problemi. Prendiamo noi che siamo qui, cento persone, e ognuna dice: sono figlio di Dio. Vi pare poco? Ma questa è la realtà. Il senso dell’evoluzione umana è proprio quello di portare sempre più a maturazione la figliolanza di Dio, la scintilla divina in noi, e farla irradiare sempre di più. Però la chiamata di ogni uomo a essere Figlio di Dio è stata fatta per la prima volta nell’umanità dal Cristo: qui siamo al punto in cui gli uomini per la prima volta odono un essere umano parlare di Dio come di suo Padre, con la pretesa (lo vedremo andando avanti nel testo) che questa affermazione valga per tutti gli uomini. Per i poteri costituiti di questo mondo, che sono interessatissimi all’ordine sociale e al controllo, sono affermazioni destabilizzanti al massimo grado.

5,19 “Gesù rispose e disse a loro: Amen, amen, l’essere dell’Io dice a voi: Il Figlio non può fare da se stesso nulla se non vede il Padre che lo fa. Infatti tutte le cose che il Padre fa, le stesse cose fa anche il Figlio.”

Ricorderete che quando un’affermazione del Cristo viene preceduta dalle parole Amen amen vuol dire che viene particolarmente sottolineata. Amen è una radice verbale ebraica che significa: “costruire sulla roccia” e viene tradotto: in verità, in verità... Ma s’intende: ciò che adesso sto per dire è di una saldezza tale, è talmente radicato nei fondamenti dell’evoluzione terrestre, che non vacilla mai ed è valido dall’inizio alla fine dell’evoluzione terrestre. Indica una validità universale nello spazio e nel tempo. E dice: la libertà dell’essere umano (il Figlio) non può liberare nulla che non sia stato offerto dalla creazione del Padre. In altre parole: l’opera della libertà, quella di far risuscitare tutta la creazione, corrisponde in tutto e per tutto alla creazione che il Padre ci ha messo a disposizione. Tanti sono i compiti che il Padre ci mette a disposizione, tanti sono i compiti che possiamo svolgere. Il Figlio, se è Figlio del Padre, non può inventare nulla da sé perché viene a mietere la messe seminata dal Padre. Si può mietere altro o di più o di meno di quello che si è seminato? No. L’affermazione che il Cristo fa è che c’è una corrispondenza perfetta tra la creazione del Padre e la ricreazione che ne fa il Figlio. Il Padre ha fatto una creazione di natura e la creazione del Figlio è di trasformarla tutta, quella che è: non di più, non di meno. Tutta la creazione del Padre è l’oggetto dell’opera della libertà, non ce n’è un’altra. L’opera che trasforma può trasformare solo il trasformabile, e il trasformabile l’ha deciso il Padre. Le due metà dell’evoluzione si corrispondono perfettamente. Tanto è il dato di natura, tanta è l’opera della libertà che lo redime e lo porta a resurrezione. Tre sono i regni di natura, tre sono i campi della libertà: umanizzare il regno animale, il vegetale, il minerale.

Il versetto si conclude con le parole:“Infatti tutte le cose che il Padre fa, le stesse cose fa anche il Figlio.” È una variazione dell’affermazione di prima: il Figlio non può redimere che tutto ciò che il Padre ha posto come elemento di natura.

5,20 “Poiché il Padre ama il Figlio e gli ha mostrato tutte le cose che lui fa, e il Padre gli mostrerà cose ancora maggiori affinché voi vi meravigliate.”

Quindi il dato di natura, il determinismo di natura, ama la libertà. Il triplice determinismo di natura (pietre, piante e animali) anela alla libertà. “Il Padre ama il Figlio” significa: la creazione di natura anela alla libertà dell’uomo, tutta la creazione (il Padre) tende all’umanizzazione (al Figlio). Il senso di ogni determinismo è di venir trasformato in un’esperienza di libertà, tutta la creazione della natura aspira alla figliolanza, alla libertà dell’Io umano. Il Padre mostra all’uomo tutto ciò che ha creato, perché l’ha creato affinché l’uomo intervenga a trasformarlo in una creazione artistica del suo spirito. “E il Padre gli mostrerà cose ancora maggiori affinché voi vi meravigliate”: quali sono le opere più grandi che il Padre non ha ancora mostrato? Sono quelle che mostrerà di qui a un anno circa (a seconda di quando si colloca questo evento nei tre anni in cui il Cristo inabita in Gesù di Nazaret), attraverso la morte: l’opera della morte il Figlio non l’ha ancora vista. L’opera ancora più grande non è stata mostrata perché non è ancora successa. La meraviglia ancora più grande sarà allora quella di vedere che il Figlio non soltanto è in grado di rigenerare un corpo malato, ma è anche capace di trasformare la morte in resurrezione. Viene qui anticipata tutta la meraviglia degli uomini di fronte alla tomba vuota. Più attoniti di così! E i vangeli, affermando che accanto alla tomba del Cristo c’erano quattro guardie, si assicurano che non ci venga il pensiero che il corpo di Gesù Cristo possa essere stato sottratto da qualcuno. Quindi ancora oggi restiamo di fronte a questo stupore assoluto: è morto, ma il corpo non c’è.

Si potrebbe anzi dire che uno dei punti più morti del cristianesimo è proprio che non c’è più stupore di fronte alla resurrezione. L’uccisione del cristianesimo avviene quando, nella convivenza con una scienza materialistica che deride l’affermazione della tomba vuota, i teologi stessi, coloro che dovrebbero vivere questo evento come mirabile, si sentono a disagio e non parlano più della resurrezione, così antiscientifica e irrazionale. Infatti in tutta la teologia che ho fatto io non c’è neanche un’ombra di sforzo, un minimo tentativo di affrontare il quesito della tomba vuota. I filosofi greci dicevano: la filosofia nasce dalla capacità di stupore, perché accende una ricerca di pensiero. La fine dello stupore è perciò in un certo senso la morte del cristianesimo, e sta nel fatto che, in base alla scienza naturale degli ultimi secoli, la teologia (parlo per sommi capi, ci sarà un’eccezione qua e là, ma non è culturalmente incisiva) afferma semplicemente che il Cristo non è morto, nel senso che dopo la sua morte continua a vivere; ma questo vale per tutti i morti e non c’è niente di speciale, allora, nella morte del Cristo. Invece la resurrezione è un unicum che viene affrontato solo quando si pone la domanda: cos’è avvenuto alla materia del corpo fisico di Gesù, dove è andata a finire? Qui la teologia non pone nessuna domanda perché già in partenza sa di non avere alcuna risposta. Non è semplice rispondere. L’unica matrice culturale dove ho visto porre centralmente questa domanda, con un inizio di vera risposta, è la scienza dello spirito di Steiner, motivo questo di particolare gratitudine perché viene offerto un impulso nuovo al recupero dello stupore. Proprio leggendo Steiner mi sono accorto che nella teologia tradizionale la domanda stupefatta sulla resurrezione non si pone neanche; ricordo i professori gesuiti all’università gregoriana che quando noi studenti chiedevamo spiegazioni su questo argomento rispondevano: il vostro compito è di imparare quello che vi stiamo dicendo, se volete superare l’esame. Basta. Questa è la mia testimonianza del cristianesimo reale che c’è.

I. Ma il cristianesimo non dice che Gesù è asceso al cielo?

A. Questo non ha niente a che fare con la domanda: cosa è successo alla materia? Ma aspetta, che adesso arriva la risposta:

5,21 “Come infatti il Padre fa risorgere i morti e li vivifica, così il Figlio vivifica coloro che vuole.”

Sia il Padre, sia il Figlio fanno passare l’essere umano per la morte e lo vivificano, cioè lo conducono in una vita dopo la morte. Però il Padre conduce tutti alla vita dopo la morte, mentre il Figlio solo coloro che vuole. Il Padre dona a tutti una vita dopo la morte che non è individualizzata, e la dona senza distinzione di libertà, perché la libertà è un fattore che ancora non c’entra. È un’immortalità nel seno di Abramo, quella che dona il Padre, in una spiritualità di gruppo, la stessa in cui l’anima umana era inserita prima della morte: nel corpo o fuori dal corpo, l’anima resta tale e quale. Invece il Cristo è venuto per rendere possibile un altro tipo di morte e un altro tipo di vivificazione dopo la morte: non a tutti, ma a coloro che, grazie all’accogliere il Cristo in sé, generano un impulso di volontà individuale. Il Figlio non impone una vita dopo la morte a tutti: quello lo fa il Padre, da sempre. Il Figlio offre, a chi vuole intridersi della sua volontà di Io individualizzato e libero, la possibilità di rivivere oltre la morte come individuo: questa è l’enorme differenza.

Dire che l’uomo dopo la morte continua ad esistere non significa nulla. Anche un animale continua ad esistere dopo la morte: nella sua anima di gruppo, tale e quale come prima. Il mistero dell’immortalità umana è il mistero di viversi, dopo la morte e quindi senza il corpo, come individualità. E va compreso, per prima cosa, che ciò non avviene a tutti, ma si avvera nella misura in cui durante la vita ci si è intrisi dell’elemento individualizzante cristico. Ne consegue anche che l’immortalità ha gradi di intensità diversi: ognuno è immortale come Io singolo, dopo la morte, tanto quanto è diventato un Io singolo prima di morire. Nessuno, dopo la morte, può essere un Io singolo più individualizzato di quanto lo sia stato in vita, perché il fatto di lasciare il corpo non mi rende un Io più o meno individualizzato rispetto a quando ero in vita. L’immortalità individualizzata non è dunque uguale per tutti, non è una necessità di natura: dipende dalla libertà umana. “Coloro che lui vuole” significa: coloro che assumono in sé la volontà individualizzata delle forze cristiche. Perciò l’ingiunzione al paralitico era: vuoi tu diventare sano? O generi in te una volontà individualizzata, e allora diventi spiritualmente un individuo, oppure, se non la generi, resti inserito nelle forze di natura, di comunanza, di antica Legge mosaica uguale per tutti e alla tua morte sarai un frammento, una particola di questa spiritualità di gruppo, o meglio di questa animicità. Non potrai dire, dopo la tua morte: Io sono un Io diverso da tutti gli altri, se non lo sei stato in vita. Bisogna generare in sé un impulso volitivo, una sorgente di fantasia morale del tutto individualizzata che viene espressa con le parole: “Il Figlio fa rivivere dopo la morte coloro che vuole”, coloro che hanno generato in sé la volontà del Figlio, la volontà individualizzata. È quindi l’opera della libertà che si aggiunge all’elemento di natura: immortali per natura siamo tutti grazie al Padre, individualmente immortali non siamo tutti, ma soltanto coloro che vogliono, e questa possibilità di volere è dovuta al Figlio.

I. Il testo dice. “Il Figlio vivifica chi vuole”, e sembra che vivifichi chi vuole lui.

A. Perciò mi sono sforzato di dirvi che la volontà del Figlio non può restare fuori dell’essere umano: la volontà del Figlio deve venire interiorizzata. Le leggi dell’individualizzazione sono la volontà del Figlio: nella misura in cui le faccio mie, la sua volontà diventa la mia volontà. Quindi “coloro che lui vuole”, significa “coloro che vogliono con lui dentro di sé”. Il problema nasce solo quando il Cristo è là e io sono qua. Il Cristo, come realtà spirituale, è interiorizzabile: quindi la sua volontà può essere in me come fuori di me, e questo dipende dalla mia libertà. Però l’origine di questa volontà è nel Figlio, è in lui, e per questo il testo la riferisce a lui: “Coloro che lui vuole”, coloro nei quali sorge la sua volontà.

5,22 “Infatti il Padre non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio,”:

la natura non decide delle sorti dell’uomo, ma le decide la libertà. Il giudicare è κρισιν (krìsin), la crisi. In altre parole, la natura rende l’uomo capace di libertà, ma a decidere delle sorti dell’umano è la libertà esercitata. Il Padre ha posto nelle mani del Figlio la totalità del decidere della crisi, cioè il “criterio” dell’evoluzione. Queste sono frasi fondamentali, sono i cardini dell’evoluzione: il Padre non giudica nessuno perché nell’evoluzione da lui condotta non c’è ancora una duplice possibilità di evoluzione: crisi significa bivio, scelta, criterio, giudizio. Il Padre non fa cernite, la natura non cerne gli uomini, ma la libertà sì: alcuni di qua, alcuni di là.

5,23 “affinché tutti venerino il Figlio così come onorano il Padre. Colui che non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha inviato.”

Venerare il Figlio significa avvertire il peso morale della libertà. Il Padre ha rimesso la decisione delle sorti dell’umanità in mano al Figlio affinché gli uomini imparino a venerare la libertà non meno della natura, affinché sentano rispetto e timore (in greco c’è τιμωσι, timòsi) di fronte alla libertà come lo sentono di fronte alla natura. Cosa ci induce ad avere non meno timore per il Figlio che per il Padre? Il fatto che non sia la natura a decidere i destini dell’uomo, ma che la crisi, il giudizio, la decisione di questi destini sia in mano al Figlio. La volontà del Padre è che noi impariamo a sentire tremore di fronte al mondo del Figlio, al mondo della nostra libertà, nel senso che ne comprendiamo la portata.

I. Perché timore, che è il fratello della paura?

A. Timore di andar giù nell’evoluzione È proprio questo; timor Domini, che significa? Il Dominus è il Figlio, non il Padre. Attento, che se non senti venerazione verso il Figlio, se non capisci l’enorme responsabilità che si apre davanti al tuo conoscere e operare, vai giù, e invece di evolvere, involvi. Nel timor c’è il rapporto con la libertà che è la spada a doppio taglio dell’evoluzione. Che si impari ad aver reverenza verso la libertà. Colui che trascura o addirittura disprezza la libertà, disprezza non meno la natura, che è stata creata per la libertà. C’è solo un modo di amare la creazione del Padre: amare la libertà del Figlio che la redime. Quindi si può amare il determinismo di natura soltanto amando nell’uomo quella libertà che scioglie ogni determinismo di natura, amando le forze che disincantano il creato e lo riportano nei mondi dello spirito. Non si può amare il Padre senza amare il Figlio. Naturalmente stiamo parlando avendo sempre presente che cosa significa il mondo del Figlio – che io riassumo con la parola libertà – e cosa significa il mondo del Padre – che è la creazione di natura. Colui che non onora la libertà, non onora la natura che aspira alla libertà, perché le nega la libertà; non onora il Padre perché il Padre vuole il Figlio. È come dire: colui che non ama il bambino appena nato, in braccio alla mamma, non ama la mamma, perché l’amore della mamma sta tutto in questo bambino, e non posso amare la mamma senza amare il bambino. Se tutto l’amore del Padre si rivolge al Figlio, come posso io amare il Padre senza amare il Figlio? Il Padre ha fatto tutto in vista del Figlio, e ciò che fa onore al Padre è il Figlio. Ciò che fa onore alla natura e ce ne dà il senso è la libertà, la libertà esercitata.

Un quarto d’ora di pausa, e poi riprendiamo con la conversazione.

*********

I. Come si fa a disincantare il mondo della natura? Tu hai detto: facendo dei pensieri creativi, liberatori. Me li puoi spiegare meglio?

A. Quando tu vedi un fiore e dici: questo è un tulipano, che cosa avviene?

I. Che lo riconosco.

A. Cosa vuol dire?

I. Vuol dire che lo guardo, che lo ammiro, che lo penso...

A. Cos’è un tulipano? È il sistema di forze formanti e trasformanti specifiche e uniche di questo fiore – perché le forze della rosa, della primula e del giacinto sono tutt’altre. La realtà immortale, che va oltre la morte di questo tulipano, dov’è? C’è un tulipano immortale? Certo: è il pensiero creatore divino, altrimenti non sarebbe sorto il tulipano. Il tulipano che io vedo sono le forze eteriche, vitali, intrise di materia, che si son rese visibili: quando la materia sparisce diventano di nuovo invisibili, ma ci sono. Queste forze eteriche specifiche del tulipano sono sorte in base a qualche essere creatore che le ha pensate: da sole non saltano fuori. Nel momento in cui, tramite la percezione sensibile, io vedo le forme, penetro la specificità di queste forme, osservo le loro trasformazioni, entra nel mio spirito l’essenza del tulipano, cioè il tulipano eterno. Vi chiedo: dove è più reale ed essenziale e sostanziale un tulipano, là nel terreno o nel mio spirito?

I. Nello spirito.

A. Nello spirito, perché il tulipano fisico seccherà e sparirà, è transeunte e totalmente inessenziale: è una parvenza ingannevole, perché mi appare come se fosse un tulipano vero, mentre il tulipano vero è sovrasensibile e vive nella mente divina che l’ha creato e nella mente umana che lo ricrea. La creazione del Padre sta nei pensieri divini che hanno creato tutte le cose, la creazione del figlio è la ricreazione di tutte le cose, sono le cose che diventano immortali anche nello spirito dell’uomo. Quando tutti i pensieri divini di forme e metamorfosi che costituiscono l’essenza del tulipano saranno diventati un frammento indistruttibile e permanente nello spirito di tutti gli uomini, il compito della percezione sensibile sarà compiuto. E il tulipano avrà la legittimità, il “permesso”, di non farsi più imprigionare nell’incantesimo della forma esterna, intrisa di materia.

I. Nello spirito di “tutti” gli esseri umani?

A. Certo. Perciò siamo noi che dobbiamo darci una mossa; gli esseri della natura hanno pazienza. Così come il Padre ha dato vita a questi pensieri divini eterni, così anche il Figlio, l’uomo, ridà vita, ma liberamente. Non per forza.

I. Jahvè è uno spirito della forma, il settimo degli Elohim. Gli altri sei, mi pare di aver letto in Steiner, formano il Cristo. Allora il Cristo è la somma degli Spiriti della Forma. È così?

A. Adesso ti dico la mia reazione sincera: già stiamo sudando a non finire con questo testo qua, e tu ci fai un riassunto di un testo di Steiner, che è l’O.O.122, che racchiude i misteri della creazione e pretendi da me che ne parli qui?

I. Il fatto è che io sono rimasto scombussolato da quello che mi sembrava di capire, e cioè che il Cristo fosse l’insieme degli Spiriti della Forma, quindi seconda Gerarchia, mentre io lo avevo sempre pensato nella Trinità. E sono anni che ci penso...

A. Vabbè, è un questione di scatolette! Adesso vediamo di risistemarle un po’ (questo argomento era già stato trattato nel primo incontro sul vangelo di Giovanni: v. fig. 3 del fascicolo I - N d.T.). Ci sono nel cosmo tre cassetti fondamentali: uno è lo Zodiaco, quello più vasto, con dodici sottocassetti (o dimensioni dell’essere). È un’immagine dell’eternità – le stelle fisse –, una specie di percezione della compresenza nello spazio; poi c’è un secondo livello fondamentale (faccio semplificazioni enormi, eh?), e disegno una lemnsicata a rappresentare il sistema planetario in movimento, apparizione visibile alla percezione umana del mistero del tempo (il verbo πλανειν, planèin, da cui deriva la parola “pianeta”, in greco significa “planare, veleggiare”); poi c’è un terzo luogo fondamentale dove, come negli altri due, ci sono leggi fondamentali specifiche del divenire: è la Terra. Se volete, lo Zodiaco è il grande serbatoio del pensiero, il sistema planetario è il grande serbatoio in movimento dei sentimenti e delle emozioni, e la Terra è il grande serbatoio degli impulsi volitivi. Quindi, in un certo senso, il cosmo è fatto di pensiero, sentimento, volontà (sono semplificazioni, non dimentichiamolo). La tua domanda era: in quale cassetto mettiamo il Cristo? Sarebbe un errore pensare che il Cristo sia collocabile: il Cristo è dappertutto. Allora, in quanto Figlio della Trinità, in quanto operante al livello massimo di eternità, di durata, di sovranità divina, lo chiamiamo Figlio del Padre (uso una terminologia specificamente cristiana); in quanto essere solare – il Sole è l’Essere attorno al quale si muove tutto il sistema planetario e quindi racchiude in sé tutti i movimenti e le successioni nel tempo degli impulsi evolutivi – lo chiamiamo Logos. Cos’è allora il Logos rispetto al Figlio? È la manifestazione del Figlio della Trinità al livello del sistema planetario. Ciò che il Figlio fa nella Trinità eternamente (nel cassetto dello Zodiaco, per intenderci), lo fa il Logos al livello del tempo, del sistema planetario. Se s’incarna sulla Terra lo chiamiamo il Cristo. Il Cristo è dunque il Figlio del Padre in quanto operante sulla Terra, e il Logos è il Figlio del Padre in quanto operante in tutto il sistema solare. Non è quindi la terminologia che conta, quanto l’individuare i tre livelli fondamentali della realtà in cui viviamo: quelli non sono arbitrari.

Un conto è che un’Entità si esprima a livello di Zodiaco e un conto è che si esprima a livello del movimento nel tempo, e un altro conto è che si esprima sulla Terra. Questo tipo di orientamento, che ti dice tutto e non ti dice niente perché è solo una metodologia, è l’esperienza che io ho fatto sempre con Rudolf Steiner. Questa è la mia riconoscenza infinita: perché non mi dà nessun dogma, mi dà soltanto degli orientamenti dicendo: guarda che se vuoi rendere il tuo pensiero sempre più fecondo e metterti in grado di scoprire cose sempre nuove senza sgarrare, hai bisogno di questi orientamenti fondamentali. Ma dandoti questi tre orientamenti, cosa ti dice in quanto ai contenuti? Nulla, il lavoro è tutto da fare. Io ho sempre vissuto la scienza dello spirito di Rudolf Steiner come una metodologia del pensiero. Ed è quella che manca nell’umanità. Allora, gli Elohim in quale cassetto li porresti?

I. In quello planetario del Sole.

A. Bravo. Gli Elohim nel primo cassetto non sono a casa propria: si troverebbero al di là delle loro forze. E sulla Terra non sarebbero capaci di entrare: quindi la Terra non è al di sotto delle loro forze, ma è di nuovo al di là delle loro forze. Sorge anche un criterio per distinguere essere da essere.

I. Però lui aveva chiesto se il Cristo è la somma dei sei Elohim, cosa che ho letto anch’io...

A. Ma i pianeti quanti sono? Gli Elohim sono sette, e cosa sono? I pianeti, no? E chi gli dà una regolata a tutti? L’Essere del Sole!

I. Infatti. Io mi sono data questa spiegazione: che è la somma dei sei Elohim in quanto è l’Essere del Sole, per cui è il re del sistema planetario.

A. Però per il Cristo questo è uno dei tre livelli di operatività. Tu vorresti arrivare al punto di poter dire: adesso so. Invece quando Steiner ti dà una prospettiva conoscitiva di questo genere, il lavoro è tutto da fare, non ci si ferma. L’eros conoscitivo, la gioia della mente, non è di semplificare le cose, ma di semplificarle dopo averle complessificate. Il cosmo in cui viviamo è complesso e lì sta la sua bellezza.

I. Vorrei tornare al versetto 13 dove tu hai tradotto: “Ma colui che era divenuto sano non sapeva chi fosse, ed infatti Gesù si era occultato”. Il mio testo dice: “..Gesù infatti si era allontanato perché in quel luogo c’era molta gente”. Non esiste nell’originale greco questa frase?

A. No, il “perché” non c’è. Si era occultato alla folla che era in quel luogo e non “perché” c’era molta gente. Era sparito alla percezione.

I. Riguardo al paralitico, mi chiedo: ma all’epoca era del tutto naturale andare in giro col lettuccio?

A. Perché no?

I. Il Cristo porta delle forze nuove: queste forze nuove fanno in modo che possa dire al paralitico: alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina. Che è una novità. Il lettuccio allora, secondo me, rappresenta il karma: prenderlo in mano e non lasciarcisi portare. Mi rafforza questo pensiero il fatto che questo è un testo esoterico, altrimenti realisticamente mi pare un controsenso....

A. Sì e no. Quello che tu fai adesso è vanificare un po’ il dato storico in nome di ciò che avviene spiritualmente. Quanto al dato storico è invece essenziale che il Cristo gli dica di far qualcosa che infrange il sabato, altrimenti non darebbe nessuna percezione ai giudei in questo senso. Difatti la percezione che colpisce i giudei è vedere uno che porta il lettuccio di sabato, mica di vedere un paralitico camminare. Quelli col lettuccio, alla piscina, ci stavano dal venerdì sera, o comunque il lettuccio lo portavano il venerdì sera per riportarselo a casa dopo il sabato. Non cancellare questa percezione reale del lettuccio. L’esortazione del Cristo: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”, ha tutti gli elementi che tu prima dicevi, ma ha anche quello fisico percettibile.

I. Una riflessione: se al sabato presso la piscina ci sono ciechi storpi e paralitici, di fatto significa che l’Angelo può scendere anche di sabato, altrimenti non ci sarebbe nessuno, di sabato. Quindi l’operare del Padre può avvenire anche di sabato. Ora, il testo dice che il Figlio fa ciò che vede fare dal Padre: non si potrebbe mettere in relazione questa cosa con la discesa dell’Angelo? Il Figlio, siccome sa dell’Angelo che va a muover l’acqua della piscina, fa sul paralitico questa stessa cosa che fa il Padre, e siccome il Padre non fa distinzione fra sabato, domenica e lunedì, lui agisce di sabato.

A. Torniamo al centro delle tue riflessioni, che è giusto, perché l’hai desunto dal testo. Se è vero che il Figlio non può fare opere altre che quelle che vede fare al Padre, e se c’è una differenza, dove deve essere questa differenza? Nel modo di farle. E questo è vero: il Figlio non fa cose diverse dal Padre, ma le fa in un altro modo. Il Padre le fa all’uomo dal di fuori, gliele fa; il Figlio si proibisce di fare cose che l’uomo non accolga liberamente dentro di sé. Questo è il nuovo. Il nuovo nel Cristo non sta nel fatto che faccia altre cose rispetto al Padre; l’uomo non diventa un altro essere, grazie al Cristo, ma diventa altro, nel senso di diverso. Da non libero che era diventa libero.

I. Secondo me, però, lo specifico dell’azione del Cristo è proprio in questo comando che dà al paralitico: Prendi il lettuccio e cammina, una frase che l’Angelo non gli avrebbe mai detto. Il fatto che questo paralitico si dimentichi la faccia di chi l’ha salvato è probabilmente relativo a un peccatuccio proprio di questa persona che si dimentica sempre il proprio passato. Allora Gesù gli dice: Ricordati che sei stato paralitico e per ricordartelo, prendi il tuo lettuccio e portatelo in spalla, così non ricadi negli stessi errori...

A. No, guarda che stai cambiando il testo, e questo ti porta fuori. Se il testo ti dicesse che lui ha dimenticato qualcosa, vedrei la legittimità della tua osservazione, ma nel testo non c’è neanche un accenno al dimenticare. Perché mettercelo?

I. Ma è detto che non riconosce il Figlio...

A. No, non dice così. Il testo è di una precisione tale che se c’è una possibilità di non sgarrare nei passetti che si fanno, è proprio quella di attenersi strettissimamente alle parole del testo. Perciò cerco di darvi una traduzione assolutamente letterale. Se, ad esempio, traduciamo “perché c’era molta folla”, l’abbiamo visto, fuorviamo. Per questo sottolineo che questo “dimenticare” non c’è.

I. Va bene, togliamo il dimenticare. Però il Cristo, dicendo “Prendi il tuo lettuccio...” gli dà un compito specifico, e quel compito è, come è stato suggerito prima, di prendersi sottobraccio il destino, il suo basamento fino a quel momen-to, e di portarlo con sé, in modo da sentirlo nella sua pesantezza. E questo è un compito affidato alla persona. Da qui ad arrivare a dire che questo dev’essere un pretesto per scatenare i giudei, mi sembra una cosa che nel testo proprio non c’è.

A. Cos’è che i giudei non possono digerire?

I. Che costui porti il lettuccio di sabato.

A. E allora? C’è, eccome, nel testo.

I. Sì, ma non è che il Cristo dica al paralitico: Piglia il lettuccio così adesso facciamo arrabbiare i giudei. Nell’interpretazione che si è data di questo segno, mi sembra che al Cristo siano date impropriamente intenzioni sobillatrici.

A. No! Io dicevo che se il Cristo viene a porre termine a qualcosa per proporre il nuovo, deve mostrare qualcosa che indichi ai giudei che il vecchio sta terminando.

I. È proprio quest’azione dimostrativa che io non vedo. Vedo di più un’azione di Gesù fatta verso paralitico, per il paralitico, con conseguente reazione dei giudei. Vedo tutto l’agire del Cristo connesso col paralitico, non col secondo fine di scatenare i giudei.

A. Se l’azione del Cristo non avesse relazione con i giudei, perché il vangelo ne descriverebbe la reazione? Quindi il fatto deve avere a che fare con loro, e se togli questa relazione togli la legittimità della loro reazione. Non ho detto che il Cristo abbia fatto tutto apposta per far arrabbiare i giudei: ho detto che se c’è una reazione, ci dev’essere un elemento che la provoca. Adesso immagina che nell’operare de Cristo non ci sia nulla che vada al di là della Legge mosaica: ti starebbe bene? Significherebbe che il Cristo non porta nulla di nuovo. Fa parte dell’essenza del fenomeno che ci dev’essere qualcosa che scombussola.

I. Dovrei rileggere i testi, ma mi pare che il Cristo dica espressamente che non è venuto per togliere qualcosa della Legge mosaica.

A. Sarebbe stupido andare a cambiare ciò che non serve più.

Comunque, tutti i problemi che non abbiamo risolto oggi, li risolveremo di sicuro domani! Vi auguro una buona notte.

29 dicembre 2001, mattina

Stiamo affrontando questo quinto capitolo che è il primo di una serie di lunghe conversazioni – la parola diatribe non è in fondo quella giusta, perché in realtà sono dialoghi – tra il Cristo e i giudei. Nella tradizione teologica si è sempre pensato che i sinottici (Matteo, Marco e Luca) siano un bel po’ più storici che non il vangelo di Giovanni perché sembrano più ricchi di eventi, mentre il testo di Giovanni si presenta come teologico, se non altro perché l’evangelista si sofferma su molteplici affermazioni e riflessioni conoscitive sul Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, ecc. Insomma, di questi lunghi dialoghi presenti nel vangelo di Giovanni, i teologi pensano che siano di una tale difficoltà da non poter essere realmente avvenuti. Rudolf Steiner inverte la prospettiva e dice (io vi do come percezione, come informazione, quest’affermazione di Steiner: poi è lasciato a ognuno che cosa farsene): il vangelo di Giovanni è quello di gran lunga più storico di tutti e quattro. I sinottici sono incentrati maggiormente su ciò che viene vissuto nell’immaginazione e nella visione: per esempio il fico che viene maledetto dal Cristo e poi all’istante rinsecchisce, è una visione reale di alcuni presenti che dimostra nello spirituale le forze nuove che il Cristo sta mettendo a disposizione degli esseri umani. Nel vangelo di Giovanni il livello immaginativo delle parabole e dei grandi quadri visivi si sposta tutto al livello ispirativo: ecco quindi il dialogo, il colloquio tra spirito e spirito sia sulla Terra che nei mondi spirituali; attraverso questo livello ispirativo, di comunicazione fra essere e essere, raggiunge poi il livello intuitivo, che è la capacità dello spirito di individuare il nucleo, il carattere centrale e unitario dell’Io di un altro essere tanto da poter dire: questo è un Angelo, questo è un Arcangelo, questo è un diavolo, questo è Lucifero, questo è Abramo, questo è il Cristo, questo è Mosè...

Quale dev’essere stato uno dei fenomeni storici più fondamentali che viene descritto nei vangeli? Se, partendo dal nostro sforzo di capire l’essenza dell’operare del Cristo, io vi chiedessi: l’essenza dell’operare del Cristo sarà nel fare qualcosa agli uomini indipendentemente dal fatto che la capiscano, la recepiscano e la possano gestire, oppure sarà nell’aiutare ed elicitare al massimo colui che è apparentemente il ricettore a diventare sempre più attore libero e individuale in ciò che fa? Quale di queste due cose vi sembra più essenziale all’identità del Cristo? Detto così, è chiaro che mi rispondereste: la seconda. Allora, però, dobbiamo essere conseguenti e avere il coraggio di dire che ogni volta che interpretiamo nel vangelo l’operare del Cristo come se stesse facendo qualcosa a qualcun altro – come se, per esempio, stesse lui stesso guarendo una persona e fosse questa la cosa importante – descriviamo in realtà lo spirito dell’anticristo. Descriviamo invece lo spirito del Cristo quando il modo di fare è tutto diverso e la guarigione consiste non in ciò che lui opera sull’essere umano, ma in ciò che gli rende possibile fare, soprattutto partendo dal capire. Il presupposto, il fondamento e cardine dell’autonomia è il pensiero: non si può avere la responsabilità morale di ciò che si fa se non si sa ciò che si fa. Perciò l’operare del Cristo è la fenomenologia dell’aiuto offerto a ogni uomo perché coltivi la sua capacità pensante.

E allora si capisce perché l’elemento portante dell’operare del Cristo nel vangelo di Giovanni siano dialoghi di tipo platonico, dove il Cristo è una specie di Socrate portato alla perfezione e che, attraverso botta e risposta, fa di tutto per aiutare l’altro che sta ascoltando a capire. In altre parole, il Cristo dialogando mette a disposizione strumenti conoscitivi. L’altra cosa da aggiungere è che dobbiamo avere il coraggio morale di accettare il fatto che questa pedagogia conoscitiva, che articola al livello di pensiero la svolta dalla conduzione di natura a quella interiore illuminata nel pensiero e forte nella volontà individualizzata, è un capovolgere talmente il modo di pensare di tutta l’evoluzione precedente che il Cristo di sicuro non si aspetta, e non può aspettarsi, comprensione. I giudei di allora, i primi esseri umani – e ci rappresentano tutti – ad ascoltare questa interpretazione della struttura evolutiva, conoscevano solo Jahvè, non sapevano neanche nominare il Padre perché altrimenti avrebbero dovuto conoscere anche il Figlio: come potevano capire subito? Ma nulla di male: il fenomeno non può essere che così. Il Cristo sa già in partenza di dire cose per la cui comprensione l’umanità caduta avrà bisogno di tutti i millenni della seconda parte dell’evoluzione. Però le deve dire, perché sono per noi i compiti conoscitivi fondamentali. Quindi partiamo dal presupposto che il Cristo, in un certo senso socraticamente, forgia una dinamica di dialogo che si muove tra la non comprensione degli uomini e il suo sforzo di articolare il pensiero passo dopo passo.

Il vangelo di Giovanni, che è il vangelo del Logos, molto più decisamente degli altri affronta quest’elemento centrale e portante dell’operare del Cristo: tutte provocazioni positive per la coscienza umana affinché capisca che il senso dell’operare del Padre non è di perpetuarsi all’infinito, ma è di creare la base perché l’evoluzione si capovolga, e sul fondamento del dato di natura sorga la libertà individuale dell’uomo. La conduzione dal di fuori nel vangelo è chiamata “il Padre”: questa terminologia usata per i giudei di allora, va colta nella sua realtà universale e questo ci dà la sovranità e la libertà interiore di tradurla in modi diversi. Del resto, più cogliamo un pensiero nella sua chiarezza e più siamo capaci di esprimerlo in tanti linguaggi culturali diversi. Dobbiamo distinguere nel vangelo tra ciò che è fattore di linguaggio specifico, usato in relazione alle categorie mentali di allora – questo è il livello storico – e ciò che è invece la realtà oggettiva universale, la cui essenza posso rendere in modi diversi, a seconda del contesto culturale.

In fondo io mi sto sbracciando per tradurre i contenuti di ciò che il Cristo diceva duemila anni fa in un linguaggio che per noi oggi è diventato cinese; il risultato può essere modesto, ma è reale lo sforzo di traduzione, proprio in sintonia con quel proverbio italiano secondo il quale il traduttore dovrebbe sforzarsi di non essere un traditore. Sfasature sono inevitabili, e perciò sono ben felice di riportarvi sempre all’originale greco: dicendovi che nel testo letteralmente c’è scritto questo e quest’altro, voi potete riservarvi di fare i vostri pensieri di interpretazione, di aggiungervi tutto ciò che più vi convince. L’accesso che ricevete al testo tramite me, serve a rendere ognuno di voi ancora più indipendente di fronte al fenomeno di duemila anni fa.

Un’altra riflessione, di tipo contenutistico, è che, soprattutto in questo quinto capitolo, c’è la prima grande disamina dove il Cristo confronta i giudei con una nuova interpretazione della Divinità. Essa ha due modi fondamentalmente diversi di operare: il modo del Padre e il modo del Figlio. In questo consiste la sfida assoluta alla coscienza ebraica, perché mancavano i presupposti per capire. I giudei percepiscono soltanto che tutta la loro religione viene messa in questione e sorge una grande paura: se lasciamo dire e fare questo Gesù di Nazaret, gli corre dietro sempre più gente, ed è finita. Di capitolo in capitolo risalta sempre più chiaro l’intento di fermare il Cristo. Del resto, le parole “decisero di ucciderlo” le abbiamo già incontrate. Per noi, duemila anni dopo, resta da tradurre tutte queste cose ognuno nel proprio linguaggio, di articolarle. Io ho detto: il Padre è la prima parte dell’evoluzione, dove la natura ha in mano le redini – e con questo mi pare di aver detto abbastanza, perché significa parecchio. Il bambino non è ancora capace di prendere da solo le redini del suo divenire, e il Padre che lo conduce è un mondo intero: sono i suoi genitori, la tradizione, il linguaggio che gli struttura la laringe, sono gli usi e i costumi, la natura intorno a lui, ben diversa se è nato al mare, in montagna o in città... tutto questo è dato di natura, è il polo opposto a ciò che è individuale e libero. È la “conduzione dal di fuori”. Il Cristo usa il termine “Padre”, e se non fosse stata una cultura patriarcale, quella ebraica, avrebbe detto “Madre”, e sarebbe stata esattamente la stessa cosa. Quindi le donne, qui, non devono offendersi perché nel vangelo si parla del Padre e non della Madre: il Cristo usa parametri patriarcali perché quelli c’erano. Se avesse parlato con i giudei dicendo: la Madre ha operato finora e adesso viene la Figlia, lo avrebbero ritenuto ancora più matto. Queste cose sono molto semplici, ma le sottolineo perché non dobbiamo dimenticare, quando si affronta un testo, in quale contesto culturale è sorto. Una volta che ho capito che quella cultura era patriarcale – e ancora lo è, come lo è la nostra: i maschi continuano a dominare e sarà così finché non si supera il materialismo – e che i contenuti delle parole del Cristo sono già una sfida assoluta, una provocazione estrema, accetto e capisco che almeno le matrici culturali venissero rispettate. Detto questo, continuiamo ad affrontare frase per frase il vangelo: forse riuscirò ad andare avanti più velocemente perché spero che possiate collocare ogni frase in questo contesto più ampio, in questa prospettiva generale che ho cercato di tracciare.

5,24 “Amen, amen io dico a voi: Colui che ascolta la mia parola e dà fiducia a colui che mi ha mandato ha la vita eterna e non viene al giudizio, ma trapassa dalla morte alla vita.”

Già queste parole sono inaccettabili, per un giudeo; il bravo giudeo non parla così, ma dice: Mosè ha scritto, Isaia ha scritto, Gioele ha scritto... E questo Gesù si permette di dire: Io dico a voi! Noi abbiamo ammansito il testo a un punto tale che non notiamo più questi elementi rivoluzionari, proprio non li notiamo più: quindi uno dei compiti di questo lavoro che facciamo insieme è di smetterla di dar tutto per scontato. Siamo abituati a sentire il Cristo che dice: “In verità, in verità io dico a voi...”, e ci pare un dire normale; ma per allora era una botta di quelle che faceva tramortire! Uno poteva presentarsi con autorità solo citando Mosè e i testi sacri, non se stesso. Si tratta sempre di recuperare l’elemento di svolta assoluta se vogliamo capire davvero perché il Cristo è stato condannato a morte: dobbiamo ricostruire concretamente la sua indigeribilità totale. E va cercata dappertutto, anche in queste semplici locuzioni che a noi paiono inoffensive. Il Cristo non fa mai compromessi: lui è il Figlio di questo Padre che rappresenta tutti gli impulsi di eternità, è il Figlio che porta la storia nella Terra, quindi porta l’importanza dell’una cosa dopo l’altra, porta la svolta e il cambiamento. Il discorso della stabilità, dice il Cristo, è il discorso del vostro Jahvè, del Padre, ma adesso c’è il Figlio, qui. Ed è la verità assoluta, questa, ma incomprensibile allora; il fatto che anche oggi siano sì e no quattro gatti ad avere qualche presupposto per capire, ci aiuta ad avere un minimo di solidarietà con i giudei. Il Cristo deve essere verace, non può abbassare il tiro...: deve esserci un cozzo assoluto di due mondi, e questo emerge dal vangelo di Giovanni. “Amen, amen io dico a voi” significa: “L’Essere dell’Io che conduce la seconda parte dell’evoluzione dice all’Io di gruppo, che è il risultato della prima parte dell’evoluzione...” con quel che segue. La dicitura non è : “Io dico a te”, questo sarebbe già cristianesimo; “Io dico a voi” è lo scontro fra il cristiano e il pre-cristiano. Vedete quante riflessioni si possono fare su ogni versetto?

Poi continua: “Colui che ascolta la mia parola e dà fiducia a colui che mi ha mandato”: colui che percepisce e recepisce (ακουω, akùo, non è un percepire qualunque, ma un percepire attento) il linguaggio dell’Essere dell’Io, dell’essere individuale che aspira alla libertà... poi, a seguire, troverete nelle vostre traduzioni “e crede”, e quindi mi tocca di nuovo sottolineare la differenza tra il nostro mingherlino “credere” e la grandezza del verbo greco πιστευω (pistèuo). “Ascoltare” è il percepire, “credere” è che l’intero essere, gli impulsi del cuore e della volontà, si intridono della realtà ascoltata nella mente; colui che ascolta la parola dell’Io e se ne lascia corroborare in tutto il suo essere, si sente saldo, confermato: questo è il credere in greco. Viene fortificato in tutto il suo essere. “Ascoltare” è faccenda della testa perché i sensi, il percepire, sono incentrati nella testa; “credere” è il percepito che mi fa talmente bene, mi convince e mi fortifica a un punto tale che diventa l’impulso del mio agire. Il nostro verbo “credere” è passato per un setaccio a maglie così larghe che non c’è rimasto quasi niente della sua forza. Il concetto italiano di credere è estrinseco più che mai: si crede a qualcosa di esterno; invece πιστις (pìstis) è l’opposto: succede in me il finimondo perché sto ascoltando il Logos che parla, l’Io del sistema solare! Colui che ascolta la parola dell’Io e, ascoltandola, dà fiducia al Padre, significa che capisce la dinamica del Padre come tendente al Figlio. Ascoltando il Figlio realizza il senso di tutto ciò che è di natura e vuol sfociare nella libertà. Non posso capire la natura senza conoscere la libertà, perché la libertà è il senso della natura; non posso capire il Padre senza il Figlio, e non posso capire il Figlio senza il Padre. Il determinismo di natura non può essere capito nel suo significato evolutivo senza fare l’esperienza della libertà, e l’esperienza della libertà non può essere fatta se non trasformando i determinismi di natura.

Allora, chi ascolta e si corrobora “ha la vita eterna”: ecco di nuovo l’eone (αιωνιον, aiònion), uno spazio di tempo con inizio e fine. Il giudizio universale dice: questi andranno alla vita per un eone, e gli altri per un eone andranno nella Gheenna. Questi se la passeranno buona per l’eone che va da una morte a una nuova nascita e quegli altri se la passeranno brutta, perché sono diventati brutti: avranno la possibilità di diventare un po’ più belli solo tornando sulla Terra. In altre parole: l’evoluzione reale dell’essere umano, sia in chiave di miglioramento che di regresso, è possibile solo sulla Terra; una volta morti si rimane per tutto l’eone, che va da morte a nuova nascita, così come si era al momento della morte. Ciò significa che, lasciata la corporeità, quel che resta è del tutto diverso da essere a essere: resta tanto quanto ognuno ha creato in sé di non dipendente dal corpo. Ho creato cinque? Resta cinque, cinque d’immortale. Ho creato ottanta? Resta ottanta.

I. E se uno non ha creato niente?

A. Per nostra consolazione niente non è possibile, perché allora staremmo parlando di un animale e non di un uomo. Però tra il due per cento e il novantacinque per cento c’è una bella differenza. Col due per cento posso avere sì e no la percezione di essere un Io, ma non capisco nulla in questo mondo spirituale... e forse arriverò a dire: magari non avessi nemmeno questo due per cento! Le differenze sono proprio in questi gradi. Ma è così sempre: prendete una disciplina qualunque, la pedagogia, la medicina, la fisica... La differenza non è tanto nel fatto di dire: questo non sa nulla, questo sa tutto, in teoria. Il problema nasce quando chi non sa nulla si trova a dover mettere mani in qualcosa: lì si vede ciò che la libertà ha davvero conquistato o ha omesso di conquistare. Colui che diventa in vita un essere autonomo nel pensare e nell’agire, resta un essere spiritualmente autonomo nel pensare e nell’agire anche dopo la morte. Questa è la vita “eterna”, cioè l’eone dopo la morte. Se invece una persona vive in sé unicamente ciò che la natura fa sorgere in lei, quando la natura – riassunta nel nostro corpo capace di percezioni – sparisce, cosa resta di lei? Quasi nulla. Ieri dicevo: l’immortalità ha gradi diversi. Non si è immortali tutti allo stesso modo, altrimenti la libertà non servirebbe a nulla.

“E non viene al giudizio”: la morte è come una bilancia, si va di qua o di là. Se ho costruito un Io, mi trovo nella vita eterna oppure mi trovo nella crisi, nel giudizio: devo cioè constatare di non aver costruito. Il giudizio è una constatazione, un bilancio, un tirar le somme; ma le somme non possono essere diverse da quello che ognuno è divenuto. Il giudizio alla fine della vita non è altro che la conoscenza di sé, ma è un’esperienza difficile perché si presuppone che in vita, giudicandosi, ognuno si sia visto migliore di quello che era. La morte serve apposta per farci vedere come realmente siamo: è la conoscenza oggettiva di sé, è il guardarsi come ci guarda il Cristo. Finché uno vive nell’illusione non progredisce più di tanto: si cresce quando ci si conosce e si sa oggettivamente cosa si è fatto e cosa c’è da fare. Questo è il giudizio. Allora viene detto che chi si rafforza nell’Io non precipita in un giudizio che gli dice: in te non c’è quasi niente perché prima c’era quasi solo natura. Il giudizio in negativo è la constatazione dei peccati di omissione; quello in positivo consiste nella gratitudine di dire – gratitudine perché certo non siamo noi a tenere insieme il mondo sul quale vivere e progredire –: in Terra ho fatto qualche passo e mi sento un Io. Non è arroganza: se è vero, è vero. Un Io che c’è non si può negare. Il Cristo sta dicendo che il modo di ognuno di vivere il Padre e il Figlio si evidenzia chiaramente dopo la morte: si vede allora chi ha capito che il Padre vuole farsi sempre di più sostrato e fondamento per l’esperienza del Figlio, che è la sempre maggiore responsabilità individuale di fronte all’evoluzione. Alla morte gli esseri umani mostrano di appartenere a due categorie diverse, perché la nostra è un’evoluzione di libertà: c’è chi ha afferrato la possibilità di autorealizzazione del proprio Io, e c’è chi l’ha omessa. Sono queste le cose portanti che il Cristo deve dire e dice. Quanto tempo, poi, ogni individualità ci impiegherà per capire, non importa. Se partiamo dal presupposto che la grazia divina, l’amore del Cristo, concedono a ogni spirito umano di ritornare sempre di nuovo nella Terra, sappiamo di avere a disposizione tutto il tempo dell’evoluzione per capire questa fenomenologia che nelle sue parole è descritta negli elementi fondamentali. Durante i tre anni d’incarnazione sulla Terra, il Cristo ha detto tutte le cose che c’erano da dire nella loro centralità: perciò dobbiamo aspettarci che nel vangelo, soprattutto in quello di Giovanni, siano dette le cose più fondamentali, nella loro essenzialità.

Notate anche che il v. 24 non dice “avrà” la vita eterna, ma “ha” la vita eterna, proprio ad indicare che la vita dello spirito non è una faccenda che inizia dopo morte: solo chi vive già prima della morte come un essere eterno, come uno spirito indistruttibile, dopo la morte resta lo spirito indistruttibile che è, porta con sé ciò che già vive in lui eternamente. È importante che qui ci sia l’indicativo e non il futuro: e se trovate una traduzione col futuro, dovreste subito pensare che chi ha tradotto non ha capito nulla. Ha la vita eterna, viene detto, è la vita eterna: è nel suo essere l’eterno “e non sottostà alla crisi”: nella misura un cui si costruisce l’Io non si soggiace all’annullamento che avviene quando il sostrato di natura viene a mancare. In questo senso è importante, per esempio, esercitarsi a pensare anche indipendentemente dalla percezione sensibile. Se una persona ha sempre e soltanto pensato in base a ciò che le sollecitazioni sensibili automaticamente le suscitano, quando tutte le percezioni fisiche spariscono, del suo pensare non resta nulla. Ma nella misura in cui si è esercitata a pensare pensieri anche indipendentemente dalle percezioni, questa forza pensante autonoma resta una sua conquista eterna. Perciò Steiner dice esplicitamente (basta leggere l’inizio de La scienza occulta) che la sua scienza dello spirito è sorta apposta per offrire all’uomo un sacco di realtà che non sono percepibili, ma solo pensabili – l’evoluzione di Saturno, Sole, Luna..., per esempio. Esercitando il pensiero su cose che non sono materialmente percepibili, rafforziamo il pensare come realtà spirituale che resta illesa dopo la morte.

Il v. 24 si conclude con l’affermazione ultima riguardo a quanto è stato descritto su colui che ascolta, si rafforza e non va a giudizio: “ma trapassa dalla morte alla vita.” C’è chi entra nella morte per rendersi conto di essere stato già morto, anche in vita, e c’è chi fa il trapasso (μεταβεβηκεν, metabèbeken, da μετα-βαινω, metà bàino, “faccio il trapasso”) come essere spirituale. Quindi la morte è il grande giudice: indica quel che resta di me. Prima della morte ce la caviamo un po’ tutti: il un mondo intero ci dà impulsi a non finire, e quindi si può vivere di pure reazioni passive. La differenza tra spirito e spirito non salta fuori in vita, o quanto meno bisogna avere l’occhio fino per vederla; però quando si muore si manifesta di sicuro.

5,25 “Amen, amen, dico a voi che viene l’ora, ed è adesso, che i morti udranno la parola del Figlio di Dio e in questo udire vivranno.”

Andiamo di botta in botta, di affermazione fondamentale in affermazione fondamentale: non c’è un’evoluzione sub specie aeternitatis, dice il Cristo, e perciò vivere nel tempo significa distinguere ora da ora, cogliere di volta in volta quel che è consono ai tempi e quel che invece è prematuro o retrogrado e anacronistico. Vivere nel tempo significa cogliere la costellazione dei fattori evolutivi e capire qual è l’offerta evolutiva che mi viene data ora. Questo è il concetto del contemporaneo: capire i fattori evolutivi che sono presenti. Noi viviamo all’inizio del ventunesimo secolo: cerchiamo di percepire, allora, – e si tratta di una percezione cumulata, complessiva – i fattori evolutivi attorno a noi e interpretiamoli. Dai computer agli aerei che buttano giù le Torri di New York, possiamo chiederci: che cosa provocano interiormente, evolutivamente, nello spirito umano? Sono fattori che occasionano quale tipo di crescita? Questo è interpretare i segni dei tempi, piuttosto che dire: sarebbe meglio se il mondo fosse diverso... ma io dovevo aspettare il 2200 per nascere... oh com’era bello il mondo cinquant’anni fa! Tutte posizioni che servono a scrollarsi di dosso ciò che va fatto ora. “Dico a voi che viene l’ora, ed è adesso”: nei vangeli la percezione dell’ora giusta fa parte dei fenomeni più importanti. Le cose devono avvenire al tempo giusto: se tu, uomo, non le afferri al tempo giusto, ma ti muovi prima o dopo, non avrai più le condizioni giuste. Via via saranno giuste all’80%, poi al 70%, al 50%..., ma sono giuste al 100% solo quando le afferri nel momento in cui ti vengono offerte. L’evoluzione umana comporta di essere svegli, attenti a ciò che la costellazione dei fattori mondiali d’incarnazione ci offre come provocazione al pensiero e all’azione. Il peccato morale più grande dell’Io è dormire. Il senso dell’ora è l’interazione fra la presenza di spirito e l’agire in modo consono. “Amen, amen, dico a voi che viene l’ora, ed è questa”: qual è l’ora che sta descrivendo? È l’ora in cui, dopo che per eoni è stato all’opera il Padre, subentra il Figlio.

Questa è l’ora, ed è adesso, “che i morti udranno la parola del Figlio di Dio e in questo udire vivranno”, vivranno dopo la morte da uditori del Logos. L’incarnazione del Verbo è l’ora evolutiva che scocca al centro dell’evoluzione e dà agli esseri umani che s’intridono di forze del Logos, la possibilità di essere del tutto vivi dopo la morte. Ai morti viene data per la prima volta – perché in precedenza l’ora non era ancora venuta – la possibilità di essere più vivi dei vivi. Tre, quattro secoli prima di questa ora, cosa dicevano i greci parlando dei morti? Sono larve, dicevano. Una persona morta, per i greci, aveva un’esistenza ombratile, perché era senza il corpo. Ulisse nell’XI canto dell’Odissea va nell’Ade, nel regno dei morti, e incontra Achille che gli dice: ma che stai a farfugliare della mia fama! Meglio essere un mendicante, un servo sulla Terra, anziché un re nel regno dei morti. Questa era l’ora prima del Cristo. E il Cristo dice: adesso viene un’altra ora in cui i morti (altro che larve!), possono essere molto più vivi, perché in vita, bene o male, si è dipendenti dal corpo. Dopo la morte si ha la possibilità di essere pienamente vivi, perché si può vivere essendo del tutto indipendenti dalla materia.

Possiamo chiederci: i greci morti stavano ascoltando quello che il Cristo diceva in Palestina? Eccome! Pensate voi che un Socrate non udisse queste parole del Logos? Un Socrate che aveva bevuto la cicuta tutto esilarato dicendo: finalmente riuscirò ad essere veramente vivo! Una volta lasciata la carcassa sarò in ogni luogo e in ogni tempo. E lo pigliavano per matto: era un precursore in assoluto, Socrate. Questi spiriti ascoltano, sono lì che ascoltano il Logos: O greci, voi che avete detto nella vostra cultura che dopo la morte ogni spirito umano è un’ombra, io vi dico che è giunta l’ora in cui la morte diventa vita! Immaginiamo quale fremito in tutti questi spiriti della cultura greca! Sono presenti, questi spiriti: la voce del Cristo risuona in tutto il cosmo. E Socrate che ascolta dice: adesso capisco a che cosa anelava la nostra cultura, così amante della bellezza corporea! Aspirava all’esperienza del Logos nel corpo vivo, perché solo così la si può avere anche dopo la morte; e per grazia divina a me era stato dato di anticipare un po’ i tempi: io il Logos l’avevo goduto in vita e perciò ero sicuro di vivere anche dopo la morte. Ma gli altri intorno a me piangevano, piangevano tutti... Nell’Apologia di Socrate, nel Fedone, i giovani piangono la morte di Socrate; quattrocento anni dopo risuona la voce del Logos incarnato che dice: quello a cui Socrate anelava quale spirito d’eccezione, adesso viene concesso a tutti. E Socrate avrà detto agli spiriti che in vita l’avevano pianto: adesso basta lacrime, eh? adesso si tratta di coltivare lo spirito in modo tale che ognuno vada nella morte con gioia, perché sa di andare a vivere ancora di più. Questo è cristianesimo. E credete voi che la nostra sia una cultura cristiana? Ma neanche siamo l’inizio! Viene l’ora, ed è adesso: l’essere umano ha sempre a disposizione il presente perché il passato è passato e il futuro non c’è ancora. In questa ora i morti udranno la voce del Figlio di Dio, cioè dello spirito individualizzato. Il Padre è lo spirito comune, questa è la differenza: di spirito non individualizzato ce n’è a iosa, mentre individualizzarlo è l’opera della libertà di ognuno.

5,26 “Infatti così come il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio di avere la vita in sé.”

Come il Padre ha portato nel mondo un tipo di vita di natura pre-egoica, di anima di gruppo, così questo stesso Padre, che non è tirchio, ha previsto anche un altro tipo di vita e perciò ha voluto che anche il Figlio avesse una vita in se stesso. Lo stesso Padre che ha creato uno spirito di natura, l’ha fatto non per proibire la vita in sé del Figlio – cioè l’egoità in vista dell’autonomia del singolo –, ma ha creato lo spirito di natura con l’intento che si trasformasse in spirito del Figlio. In altre parole, il Padre non è geloso del Figlio, la natura non è gelosa della libertà: la vuole e la cerca.

5,27 “E ha dato al Figlio la potestà di fare il giudizio perché è il figlio dell’uomo.”

La forza della vita ce l’hanno sia il Padre sia il Figlio, ma la crisi, il giudizio, la forza che separa e contrappone spirito e spirito, quella è del Figlio. La conduzione del Padre non comporta una divisione degli spiriti: è la libertà che separa gli spiriti. Nel modo di affrontare la libertà si separano gli spiriti umani: gli uni di qua e gli altri di là. Il Padre non può separare, il Figlio sì, perché porta il fattore di libertà individuale. Il Padre non giudica perché in quanto a natura siamo tutti uguali; con la libertà sorgono due vie opposte: quella del bene e quella del male, quella della verità e quella della menzogna, quella del bello e quella del brutto. L’Io è il criterio del bene e del male, perché è la forza dell’Io che sa distinguere cosa fa bene e cosa fa male all’uomo. E ha dato al Figlio la potestà di fare il giudizio “perché è il figlio dell’uomo”: bellissime queste parole! La decisione di andare di qua o di là è nelle mani del Cristo perché il Cristo è in ognuno come figlio dell’uomo. Figlio dell’uomo è in contrapposizione a figlio di Dio; il figlio è il generato: figlio di Dio è ciò Dio produce, figlio dell’uomo è ciò che l’uomo produce. Il figlio di Dio è generato da Dio, il figlio dell’uomo è generato dall’uomo. Quindi la grande crisi, lo spartiacque dell’evoluzione, non è in mano a Dio: lo spartiacque è l’uomo con la sua libertà. La grande divisione è in mano al Figlio perché è il figlio dell’uomo, perché apre all’uomo, gli dà la possibilità di compiere o omettere la sua libertà. Il Figlio rappresenta il grande giudizio universale perché fa sorgere in quest’ora centrale dell’evoluzione la possibilità di realizzare o di omettere l’Io. Così gli uni si separano dagli altri.

5,28 “Non vi stupite di questo perché viene l’ora in cui tutti coloro che sono nelle tombe ascolteranno la sua voce”:

il Cristo anticipa il loro sconcerto come per dire: se ci pensate bene, non è stupefacente quello che sto dicendo. Il Cristo cerca di attutire, di offrire un ponte perché i giudei possano trovare un aggancio tra la cultura che hanno a disposizione e il nuovo che lui porta. Dà un aiuto, crea continuamente modi d’accesso a ciò che dice.

5,29 “e usciranno fuori, coloro che hanno compiuto le opere buone verso la resurrezione della vita e coloro che hanno compiuto opere vane verso la resurrezione di crisi.”

Il Cristo usa ora il linguaggio dei profeti che avevano detto: dalle tombe sorgeranno i morti. Cosa vuol dire? Un pezzo di materia che esce fuori dal sepolcro? Naturalmente no, si tratta di un evento di coscienza. I profeti dicevano: quando verrà il Messia, quando verranno immesse nell’umanità le correnti di vita del Logos, esse saranno talmente forti che i morti saranno vivi. Il Logos scenderà agli inferi, dopo la sua morte: si metterà in comunione con tutti i morti del passato non per consolarli, ma per mettere a disposizione anche degli uomini escarnati la sua aura di luce e di calore, che ora avvolge la Terra. L’evento del Cristo è esperibile anche per i morti, e in modo particolare dopo la sua morte, – perché dopo la morte non è più lui stesso limitato nel tempo e nello spazio, come quando doveva esprimersi attraverso la corporeità di Gesù di Nazaret. Uscir fuori dalle tombe significa: noi eravamo morti, ma se guardiamo alla luce spirituale che irradia dalla Terra in questo momento e ne ascoltiamo la parola, ci sembra di essere più vivi di quando eravamo nel corpo. Questa è la discesa agli inferi. E il Cristo accenna a tutto ciò dicendo: attenti, nelle vostre Scritture è detto che quando il Messia verrà, dalle tombe usciranno i morti, succederanno eventi di coscienza tali che i morti avranno l’esperienza d’essere vivi e “ascolteranno la sua voce” – qui usa il futuro perché la sua morte non è ancora venuta.

Usciranno fuori dalle tombe in due modi diversi: “coloro che hanno compiuto le opere buone verso la resurrezione della vita e coloro che hanno compiuto opere vane verso la resurrezione di crisi”. Gli uni saranno in grado di vedere la pienezza, perché le “opere buone” sono la realizzazione dell’Io, sono pensieri, impulsi di amore, dedizione volitiva a coltivare l’elemento cristico. Risorgeranno dentro queste opere. Coloro che compiono “opere vane” (queste sono le opere cattive) omettono l’umano e dopo la morte risorgeranno dentro i loro buchi, si renderanno conto di essere fatti di vuoti. L’abisso dell’evoluzione umana non è il male, ma il vuoto. Il male, se fosse qualcosa, sarebbe molto meglio del nulla: fare una cosa sbagliata è molto meglio che non far nulla. Qui la morale tradizionale va veramente rivista: noi abbiamo una fissazione sulle cosiddette opere cattive, come se la cosa più brutta fosse far qualcosa di brutto o di sbagliato. Niente di male, invece, s’impara! L’antiumano sono i buchi, le omissioni. Il non fare. Finché si prova a fare, va bene: la vita è fatta per imparare e, se sbagli, la realtà si fa sentire e dice: no, no, questo non va. E uno cambia. Il problema è quando non si fa nulla. Il testo dice: αγαθα ποιησαντες (agathà poièsantes), “gli aventi fatto opere buone” e in quel “fare” ποιεω (poièo) c’è la ποιησις (poièsis), la poesia: ποιειν (poièin) è dunque il fare creativo, dove è presente l’attività dell’Io. Per “gli aventi praticato opere vane” abbiamo φαυλα πραξαντες (fàula pràxantes): quindi πραξειν (pràxein), la prassi, è qui il lasciarsi fare, il fare automatico e convenzionale.

Abbiamo la gioia di constatare che questo testo dice ben altro rispetto alle nostre traduzioni: in greco ci sono due verbi del tutto diversi che vengono tradotti tutt’e due come “fare”: fare il bene e fare il male. Invece sono “i poeti del bene” ad essere pieni di vita e i “pratici dei buchi”, i prosaici, ad essere belli morti. Il ragionamento di praticità, cos’è? È il capitolare dello spirito umano di fronte alla modalità di comportamento (la prassi) che stabilisce come e quali cose vanno fatte. Invece chi è artista dice: non me ne importa della prassi, io voglio creare. A che serve la prassi quando il mondo fisico sparisce, dopo la morte? È pratica davvero? No. Pratico veramente è solo lo spirito, perché coloro che si sono orientati nell’agire secondo lo spirito, continueranno a orientarsi anche dopo la morte, nel mondo dello spirito. Chi si è sempre orientato secondo la prassi del mondo materiale, dopo morto sarà disorientato. C’è quindi l’opera buona del creare l’Io spirituale, che vale per la Terra e per il cielo, e c’è la prassi che vale solo per il mondo fisico.

Facciamo dieci minuti italiani di pausa?

***********

C’è stata la proposta, mi pare approvata da tutti, di rimandare ad oggi pomeriggio le vostre domande e riflessioni, in modo che io possa esporre senza interruzioni i passaggi fondamentali di questo quinto capitolo.

5,30 “Io non posso fare da me stesso nulla; così come io odo, giudico e il mio giudizio è giusto perché io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.”

Se la libertà si mettesse in testa di essere indipendente dalla natura, sarebbe campata in aria. L’esperienza del Figlio presuppone l’opera del Padre e senza l’opera del Padre la creazione del Figlio sarebbe nulla. La libertà senza il dato di natura sarebbe aria fritta. “Così come io odo, giudico”: il giudizio è il concetto, e l’udire è la percezione. Il Cristo dice: io creo i miei concetti in base alla percezione, non li invento, e come odo giudico. Giudicare è creare i concetti che vengono offerti dalla percezione. Non invento nulla che non esiste, dice il Cristo, creo i concetti di ciò che esiste, e l’esistente è il mondo del Padre: l’esperienza del Figlio è crearne i concetti. Non si possono creare concetti di cose che non esistono. Come vedete, il Cristo sta usando molte variazioni su questo tema fondamentale della consequenzialità assoluta tra il Padre e il Figlio, tra natura e libertà, tra mondo della percezione e mondo dei concetti – che è l’essenza spirituale del mondo percepito. L’essenza spirituale del mondo la può cogliere solo lo spirito umano, l’esperienza del Logos, che però non può far saltar fuori dalla creazione più o altri pensieri di quelli che già ci sono dentro. Sono pensieri così puliti, questi del vangelo, senza sentimentalismi! Il cristianesimo è pulizia dello spirito, da lì si comincia. “Come io odo giudico” significa: creo concetti corrispondenti alle percezioni. L’esperienza del Logos individualizzato è di saper creare concetti che dicano la verità sulle percezioni, non la menzogna. Cos’è una svista? È un concetto sbagliato su una percezione giusta. Ho visto, e gli occhi non possono sbagliare, ma il concetto che mi sono fatto è “fuori di quella vista”, è sbagliato, mi fuorvia dalla percezione. Pensare significa diventare sempre più artisti che vanno a colpo sicuro nell’interpretare rettamente l’essenza di ogni percezione. Non si possono creare le percezioni, altrimenti saremmo creatori che stanno creando un altro mondo, e creare un altro mondo non serve, perché quello che abbiamo ce ne offre d’avanzo, di percezioni. Il nostro compito è di creare i concetti del mondo che esiste.

Il giudizio del Logos è logico, “e il mio giudizio è giusto”: se c’è una discrepanza tra percezione e concetto non è un giudizio del Logos, e dunque è illogico. Il Logos perciò dice: io parlo secondo la logica del mondo. Il Logos non sgarra, non travia il pensiero, coglie sempre nel segno: questo è questo, quello è quello... Quando una persona dice a un’altra: no, no, no, non è come tu dici! è presunzione? è arroganza? No, è l’essere umano che dice: ce l’ho anch’io il criterio della verità. Cos’è che si presenta con questa forza primigenia da farci dire: no, no? È il fatto che ognuno di noi porta da sempre in sé, spontaneamente, l’esperienza di dire: io ho in me uno strumento che mi rende capace di dire cos’è e cosa non è, e quando ho l’impressione che l’altro non abbia colto nel segno gli dico: no, no, è come dico io. È l’esperienza del Logos che viene dal di dentro. E a forza di colloquiare a vicenda diventiamo tutti sempre più capaci di cogliere nel segno. Infatti può sempre arrivare un terzo a dire: guarda che è più come dice lui che come dici tu... E allora sono uno contro due, e magari quello rimasto da solo si rassegna; se invece è più saldo nel suo convincimento dice: no, no, la verità non è mai stata questione di maggioranza – e ritorna all’attacco mostrando la sua forza di pensiero... Questa è la fenomenologia infinita di ciò che avviene nei dialoghi di Platone. E chi è che ha sempre ragione? Socrate. Mica perché gli altri vengono costretti a dargliela, ma perché a forza di sentirlo battere sul pensiero alla fine dicono: è vero, ha ragione lui, m’ha fatto capire che al mio pensiero mancava questo, questo e quest’altro e perciò gli devo dar ragione. Però Socrate lo fa in un modo così bello che tutti son contenti di imparare, e ne traggono l’esperienza comune che lo spirito umano è uditore del Logos. È un abitacolo del Logos.

La cosa più bella che ci sia è viversi come organo di comprensione e comunione con l’essenza eterna di tutte le cose: tutto il resto è propedeutico a questa beatitudine assoluta della comunione pensante con l’essenza di ogni creatura e di ogni fenomeno. Il mio giudizio è giusto, dice il Cristo: il Logos è la forza della verità. Quando lasciamo parlare il Logos in noi, quello che diciamo è giusto. Questa esperienza la facciamo tutti nei momenti in cui, posti di fronte a un’affermazione, ci sentiamo completamente disarmati e diciamo: è giusto, è certamente così. E chi mi dice che è così è il Logos in me. Se invece qualcosa non mi convince, vuol dire che sono ancora alla periferia del concetto in questione, vuol dire che al centro sono stati messi elementi marginali e bisogna che il pensiero continui a lavorare per arrivare veramente al nocciolo. Il mondo è come un’infinità di cerchi, e ogni volta che sono alla periferia non ho piena libertà di movimento; ma quando dico: è così! significa: centro! Sono al centro e mi posso muovere in tutte le direzioni, sono in un punto dell’universo in cui le cose non si contraddicono più perché sono tutte un organismo. “È così” significa: ho in mano un filo d’Arianna col quale posso andare dappertutto. L’esperienza del dire “è così” non è mai per escludere qualcosa, ma per aggiungere: è così, perché adesso capisco anche questo, e quest’altro, e quest’altro... Quando invece sono nel dubbio, vuol dire che non sono ancora al centro e sono bloccato. Lo spirito umano cerca sempre questo tipo di esperienza perché è stato creato per questo.

Continua il Cristo: “perché io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”; la volontà del Figlio è la creatività dello spirito umano e non è un volere inventato, arbitrario, ma è l’aspirazione di tutta la creazione del Padre. La creatività dello spirito umano è un volere che si evince da tutta la dinamica evolutiva della creazione, è lo sbocco naturale di tutta la creazione. E allora il Cristo dice: io non ho una volontà mia avulsa dalla creazione, perché sarei in contraddizione col Padre e con tutta la natura. Io voglio soltanto ciò che la creazione vuole dall’uomo, e allora la mia volontà è giusta, è in armonia con il cosmo creato. Non cerco la mia volontà, indipendente dal Padre, ma l’armonia col Padre; ho fatto mia la volontà della creazione del Padre, che è di sciogliere ogni meccanismo di necessità in un’esperienza artistica di libertà. Questa è la volontà di redenzione di tutto il creato. Se lo spirito umano fa sua questa volontà mai arbitraria, allora è la volontà giusta, l’unica giusta che ci può essere. La creazione manda il Figlio, esige il Figlio, cerca il Figlio, sfocia nel Figlio perché sorga l’esperienza della libertà.

5,31 “Se io dessi testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera;”:

è una variazione del concetto precedente. Chi dà testimonianza al Figlio e alla libertà? Chi testimonia che la libertà è la cosa giusta? Il determinismo, perché l’esperienza del determinismo ci fa dire: no, no, così non va. Proprio perché l’esperienza del determinismo ci fa morire come esseri umani, il determinismo stesso testimonia di trovare il suo senso nella libertà. Non si può capire la libertà senza aver fatto l’esperienza della non libertà, così come non ci può essere il bene senza l’esperienza del male. L’evoluzione nel tempo è possibile soltanto attraverso il misurarsi di forza e controforza. Come può apprezzare la libertà chi non è mai stato prigioniero? In altre parole, la libertà è sempre liberazione. O è un processo di liberazione, o non è nulla. Liberi non si è mai: o si diventa, o non si è. E diventare liberi, significa liberarsi da fattori che sono lì apposta per impedire la libertà. Vincere la non libertà: questa è la liberazione. Mi vengono sempre in mente i Prigioni di Michelangelo: ve li immaginate voi i prigioni senza quella massa granitica da cui si stanno liberando? L’evoluzione è l’eterna liberazione dello spirito umano, un processo vivente di liberazione. La parola libertà è un’astrazione: ciò che esiste è l’esperienza del liberarsi Anzi, detto meglio ancora, del liberarmi: perché ciò da cui io mi devo liberare oggi, in questo momento, è tutt’altra cosa da ciò da cui l’altro si deve liberare.

5,32è un altro che dà testimonianza di me, e io so che la testimonianza che mi rende è verace.”

Deve essere la non libertà a testimoniare della beatitudine del liberarsi. Quindi è il Padre che deve dare la testimonianza al Figlio. Se il Figlio vuol darsi la testimonianza da solo – cioè se una persona dice: che bella la libertà! che bella la libertà!, ma non vive l’interazione col non libero e la processualità vivace, individualizzata, del superamento – è nell’astrazione. La libertà in generale è una delle più grandi astrazioni che esistano: ciò che esiste è l’ora presente e il modo mio, individualizzato, di liberarmi. Detto concretissimamente: io sto parlando, qui, di questi versetti e supponiamo che abbia in mente certi pensieri e commenti che ho espresso in altre occasioni: sarei un bel prigione se li ripetessi tali e quali, perché non saprei liberarmi da un automatismo, da pensieri diventati necessari. Invece liberarmi significa: il commento lo creo di nuovo, adesso, perché ora io sto interagendo con tutt’altri esseri umani, e sono in un altro tempo e in un altro spazio. Tra l’altro devo pure lottare con un’altra lingua, perché mi vengono sempre in mente parole tedesche...

L’esperienza continua del liberarmi ce l’ho quando dalla percezione creo il concetto. Quando io percepisco una rosa, è questa rosa qui e non un’altra, quindi mi confronto con un elemento di necessità. Quando poi dalla percezione di questa rosa fisica passo al concetto della rosa, sono in un’esperienza di libertà che non finisce più perché la rosa stessa, quella vera, ha la libertà di esprimersi in mille modi e in tutti i tempi dell’evoluzione. E io, quando sono nel concetto di rosa, sono libero, sono un frammento del creatore. Ogni percezione è un piccolo incantesimo, è una piccola fissazione, un tentativo di imprigionare il mio spirito; e io dico: no, no, no, tu non sei soltanto questa rosa, sei la rosa. A te tocca di essere questa rosa, invece io ho la rosa dentro di me, io nel mio spirito divento la rosa. Tu, piccola povera rosa, hai la minima idea di questo? No, ti tocca essere una rosa dalla vita breve: ma io che sono uno spirito umano posso farti vivere in eterno pensandoti. Liberazione. In che rosa sono io? In tutte le rose del mondo: dove c’è più caldo sono nelle rose che si aprono di più, dove fa più freddo sono nelle rose racchiuse e piccoline... perché per me la rosa è rosa. E come faccio a sapere che sono tutte rose? L’ho pensato. In altre parole, il pensare umano è un’eterna liberazione dalle contingenze di spazio e di tempo, ci fa vivere in un mondo che non conosce restrizioni.

Il Logos dice: io porto in me il convincimento che la testimonianza che la creazione del Padre dà alla creazione del Figlio – che il mondo della percezione dà al mondo del pensiero – è verace. La percezione testimonia del concetto. E come faccio a sapere che la percezione mi testimonia veracemente del concetto, che non c’è discrepanza menzognera, ma una verace corrispondenza? Ho bisogno di un’ulteriore testimonianza dal di fuori? No. Allora il Cristo dice: io lo so. In altre parole, non posso dare alla convinzione pensante un’altra testimonianza dal di fuori: se avesse bisogno di conferme non sarebbe un intuito. Intuito significa entrare nel centro della realtà e dire che così è, e perciò il pensare è la forma di testimonianza più insindacabile che ci sia. Gli idealisti tedeschi l’hanno chiamata: esperienza della certezza assoluta; Schelling la chiamava “contemplazione intellettuale”. Così come c’è la percezione sensibile, c’è anche la percezione di un concetto così nitida che tu sai con certezza assoluta che è così. Se arriva un altro e ti dice che non è così, tu sai con altrettanta certezza che non ha capito. E se non ti vuoi arrabbiare stai zitto e non dici nulla: ma sai che non ha capito. Il sapere della veracità è una testimonianza immanente. Lo so, e basta. Il Logos dice: lo so, non si mette in questione. Quando uno capisce una cosa, l’ha capita. Andreste voi a chiedere testimonianza a un altro se è vero o non è vero ciò che avete capito, quando avete l’esperienza di aver capito? No, quando so di aver capito non vado più a chiedere a nessuno. Ho capito. Quindi il capire è una testimonianza assoluta. Io lo so, dice il Cristo.

I. Al v. 31 si diceva: “Se fossi io a rendere testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe verace”; ora mi pare che stiamo dicendo proprio che sono io a dare testimonianza a me stesso.

A. No: dà testimonianza della corrispondenza tra la testimonianza del concetto e la testimonianza della percezione. Il Cristo dice: se io avessi solo la testimonianza del concetto, senza il mondo della percezione, non basterebbe, perché sarebbe il concetto di nulla. Il concetto di concetto è che deve corrispondere alla percezione, quindi ci vuole la testimonianza della percezione. Il versetto che tu hai letto l’ho già commentato; adesso sto parlando del Cristo che dice: io so, senza bisogno di ulteriori testimonianze: Questa è la certezza assoluta del pensare: perché questa certezza, se c’è, è assoluta, oppure non c’è. Quando uno dice: fammi capire! che va cercando? La testimonianza di un altro alla quale magari poi crede per autorità: ma questo è l’opposto del capire. Il vero capire lo può fare solo ognuno per se stesso; questa è la testimonianza immanente del Logos che dice: io so. Tra l’altro in greco, questo “so” è οιδα (òida), nostra vecchia conoscenza: è proprio una contemplazione intellettuale, come la chiamava Schelling, perché οιδα significa “io vedo intellettualmente”. È un’immaginazione spirituale che viene interpretata dal pensiero a livello ispirativo e diventa un frammento spirituale di un essere spirituale, che è il livello intuitivo. Quando li metti insieme tutti e tre non c’è bisogno neanche lontanamente di una testimonianza dal di fuori: una testimonianza più forte dell’evidenza della verità non c’è. Gli scolastici la chiamano proprio così: l’evidenza. Che significa? Che si capisce. Ma per chi è evidente? Per chi la capisce! E perciò non va in cerca di un’altra testimonianza. Ciò che gli scolastici, rifacendosi ad Aristotele, chiamavano l’esperienza dell’evidenza intellettuale, Schelling la chiama: contemplazione individuale. Il linguaggio del vangelo di Giovanni, che testimonia lo sforzo d’incarnazione del Logos, parlando ai portatori della cultura ebraica dice le stesse cose: e perciò sottolineavo che bisogna saper distinguere gli elementi universali da quelli legati alla particolarità culturale del tempo e del luogo. E perciò continuo a tradurvi, culturalmente parlando, il concetto di Padre, di Figlio, il concetto di testimonianza... Il concetto di testimonianza è la certezza: quando c’è un processo in tribunale, a cosa serve la testimonianza?

I. A raccogliere le prove.

A. Che servono per arrivare alla certezza. A quei tempi si richiedevano almeno due testimoni maschi (le donne non potevano testimoniare): quando i due maschi concordavano su tutte le domande che venivano poste, e non avevano prima parlato fra di loro, si aveva la certezza. Quindi è importante tradurre tutto ciò che viene detto sulla testimonianza come i vari passi per raggiungere la certezza del pensiero.

5,33 “Voi avete mandato dei messaggeri a Giovanni e lui ha dato testimonianza alla verità.”

Il Cristo riprende la testimonianza di Giovanni che all’inizio del vangelo, l’abbiamo visto, è stata molto forte. Il compito di Giovanni il Battista era di chiudere la sequenza profetica dell’Antico Testamento portandola a compimento. A Giovanni era stato detto: tu hai la missione di indicare il Messia e tu saprai chi è quando, un bel giorno, mentre starai battezzando nel Giordano, ci sarà uno sul quale, mentre lo battezzerai, scenderà lo Spirito Santo in forma di colomba e vi rimarrà. E Giovanni darà la sua testimonianza quando i fatti accadranno e dirà per filo e per segno che è avvenuto quello che gli era stato detto. Adesso il Cristo ha il diritto di rifarsi alla testimonianza di Giovanni e dice: cari giudei, voi avete mandato apposta dei legati a interrogare il Battista. Che testimonianza ha dato? Voi che siete giudei volete la testimonianza da almeno due maschi: uno sono io, l’altro è Giovanni (faccio un esempio in consonanza con le usanze del tempo). Giovanni non mente. Se voi vi permettete di dire che Giovanni ha mentito, state attenti che il popolo vi fa fuori – il popolo teneva in grande onore Giovanni il Battista. Quindi il Cristo taglia corto e dice: voi avete mandato dei legati a Giovanni e lui ha dato testimonianza alla verità.

5,34 “Io non ricevo testimonianza da un uomo, ma vi dico queste cose affinché voi vi salviate.” Con questo intende dire che non era Giovanni il Battista, in quanto semplice uomo, a dar testimonianza di lui, ma uno spirito molto più vasto. L’essere umano, in quanto caduto, non può dare testimonianza della redenzione: può testimoniare soltanto la caduta. Quindi nessun uomo può testimoniare delle forze di resurrezione, di liberazione; l’uomo attanagliato dalle forze di necessità di natura non può dar testimonianza della liberazione dello spirito umano. Non ricevo testimonianza dall’uomo, potremmo dire, ma dal Figlio dell’uomo, cioè da ciò che l’uomo è chiamato a generare nel corso dell’evoluzione, superando l’esperienza di caduta in un processo di liberazione. A generare la libertà non è l’uomo, ma il figlio dell’uomo. Qui per “uomo” s’intende l’essere umano quale risultato della caduta. Invece in Giovanni il Battista si annunciava lo spirito che trasforma ogni caduta in resurrezione. “Vi dico queste cose affinché voi vi salviate”: io non ho bisogno di rifarmi alla testimonianza di Giovanni, ma voi sì. Ve la ricordo per aiutarvi.

5,35 “Egli era una lampada ardente e rilucente e voi avete voluto rallegrarvi per un’ora nella sua luce.”

Il Battista viene presentato come testimonianza al calore dell’amore e allo splendore della luce. Bruciante è l’amore e rilucente è la verità. Vi siete beati per un’ora, dice il Cristo. Cosa vuol dire per un’ora, προς ωραν (pros òran)? Vuol dire “verso un’ora”. Quando abbiamo commentato la testimonianza di Giovanni, abbiamo detto che il suo era un battesimo retrospettivo: mentre i battezzandi venivano immersi nell’acqua, alcuni avevano un’esperienza di quasi annegamento, il corpo eterico si staccava un po’ dal corpo fisico – come accade spesso a chi è in pericolo di morte, e poi racconta di aver visto in attimo tutte le scene della propria vita – e sorgevano immagini di tutta l’evoluzione passata. In altre parole, il battezzato faceva l’esperienza della caduta, ripassava tutto il percorso dal paradiso alla discesa nella materia. Abbiamo detto che il senso di questo testimoniare la caduta era quello di fare l’esperienza della necessità di redenzione, essendosi reso conto della caduta. Il Battista è dunque il precursore del Cristo, crea i presupposti di coscienza per andare incontro al Cristo, per cercarlo, sapendo di aver bisogno di lui. Allora, torniamo al “voi vi siete beati per un’ora”: la visione di tutto il passato e della bellezza di quel che vi aspetta come cammino della libertà, l’avete contemplato solo intellettualmente, in teoria, e non avete fatto nulla. Vi siete rallegrati del solo momento iniziale, teorico. È come andare subito in brodo di giuggiole nella contemplazione di un ideale, senza poi far nulla. Per il fare non basta un’ora, c’è bisogno di tutta l’evoluzione. La teoria può essere fatta tutta in una volta, basta l’ora presente: invece, per farla diventare realtà, non basta un’ora. Il concetto di ora è quello dell’istante presente e il Cristo dice: altro è l’intuizione intellettiva che capisce in un istante il da farsi, altro è accontentarsi di capire e poi non far nulla. Ciò che il Battista vi indicava come cammino di autotrasformazione, voi l’avete accolto come un momentaneo godimento intellettuale, senza muovervi diversamente nella vita. In altre parole, è la descrizione dello spiritualista disincarnato che vorrebbe bearsi di ideali realizzati nelle nuvole, mentre sulla Terra le cose si attuano soltanto un pezzettino alla volta.

I. È un richiamo per dire: siete coscientemente irresponsabili, sapete e non agite...

A. Siete goderecci astratti. Ognuno di noi ha la tendenza a godersi le cose dicendo: sarebbe bello ma...

5,36 “Io ho una testimonianza più grande di quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato affinché io le porti a compimento, queste stesse opere che io compio testimoniano di me che il Padre mi ha mandato.”

L’esperienza dell’Io ha una testimonianza più autorevole, più convincente e operante di quella di Giovanni. Tant’è vero che avete gioito della testimonianza di Giovanni senza capire che il suo senso era quello di esporvi alla testimonianza del Cristo. La testimonianza di Giovanni indica il da farsi e il Cristo dice: io sono venuto per aiutare gli esseri umani a farlo. Quale testimonianza è più convincente, quella di chi dice che cosa bisogna fare o quella di chi lo fa? La seconda, di certo. Perché a dire intellettualmente e astrattamente che cosa c’è da fare, sono capaci tutti. Per dirla in termini più tradizionali, il Battista porta la coscienza della redenzione e il Cristo porta la redenzione. Giovanni il Battista dice il da farsi; il Cristo lo fa. E dice: voi vi siete fermati alla testimonianza di Giovanni e non volete sentire la mia, che è ancora più forte, perché io comincio a fare quel che il Battista ha annunciato. Il bello di questi lunghi capitoli del vangelo di Giovanni è che frase per frase, in tante variazioni, emerge l’idea storica del tipo di interlocuzione, di comunicazione, che il Cristo deve aver cercato di instaurare con gli uomini. È bello e incoraggiante, perché anche a distanza di duemila anni possiamo ricostruire. In effetti, se cerchiamo di capire queste frasi, vediamo che in ognuna, e in modo diverso, il Cristo continua a cogliere il segno, a riportare all’essenza del fenomeno: che c’è una creazione del Padre, e non è l’ultima, ma è il presupposto perché sorga una ri-creazione dell’uomo. In che cosa consiste, infatti, la testimonianza più grande μειζων (mèizon), più potente? Μεγας (mègas) significa potente, grande (μαγεια, maghèia, è la magia), μειζων è il comparativo: più potente, più vincente, quindi più operante. Consiste nel fatto che “le opere che il Padre mi ha dato affinché io le porti a compimento, queste stesse opere che io compio testimoniano di me che il Padre mi ha mandato”. Il fatto che io compio le opere del Padre rende la mia testimonianza più grande, non il fatto che ne parlo in teoria. Guardate alle opere, guardate cosa diventa l’essere umano se vive nel modo che l’Essere dell’Io indica. Bisogna far parlare i fatti, non le teorie. Il compimento della natura è la libertà; la natura, senza la libertà, è un’opera incompiuta, è un controsenso, è il disumano. Il senso della natura è di essere il materiale di infinite liberazioni per l’essere umano. Il fatto che l’esperienza del Cristo renda l’uomo sempre più libero, dà testimonianza del fatto che il senso della creazione del Padre è l’avvento del Figlio, che il Padre manda il Figlio.

29 dicembre, pomeriggio

I. Stamattina hai ripreso il concetto di eone e l’hai messo in relazione al lasso di tempo che intercorre fra la morte e una nuova nascita. In altre parti mi pareva di aver letto che l’eone è un tempo molto più lungo.

A. Che significa eone? Αιων (aiòn) significa: un ciclo di tempo con un inizio e una fine. Corrisponde all’aevum latino: medio evo, evo antico, evo moderno... αιων, aevum, ewig in tedesco... Il concetto di evo è: una unità di tempo. Che può essere di tantissime specie.

I. Quindi quando ci si riferisce alla vita eterna, la durata dipende sempre dal contesto?

A. E qual è qui il contesto? Si sta dicendo che quando un uomo muore, in realtà non muore: quindi ci si riferisce al dopo morte, all’evo che viene dopo la morte. Io ho dunque messo un inizio e anche una fine a questo evo del dopo morte, sperando di passarla franca, perché la nostra cultura cattolica dice invece che con la morte il tempo non c’è più, e subentra l’eternità. Questo noi diamo per scontato, e si spera che ci si cominci a interrogare se è poi proprio così sicuro che dopo la morte l’evoluzione dello spirito umano di botto trapassi nell’eternità immutabile. Comunque è chiaro che il Cristo continua a dire: colui che in vita fa l’esperienza dello spirito individualizzato e diventa attivo nei confronti dello spirito, resta individualizzato, vivo e attivo anche dopo la morte, nell’evo successivo. Anche la vita è un evo: l’evo dello stato incarnato.

I. E la fine dei tempi cos’è?

A. Innanzi tutto perché è al plurale: i tempi? Il genio della lingua ti indica proprio gli evi, gli eoni. Quindi presuppone che ce ne siano diversi. E quando finiscono?

I. Nel vangelo si dice: “Sarò con voi fino alla fine dei tempi”.

A. No, non si dice nel vangelo, ma in qualche tua traduzione, forse.

I. Nell’Apocalisse si parla della prima e della seconda morte, quindi si parla dei tempi...

A. Non sono tempi: sono stati della coscienza umana.

I. Mi pare che nella gnosi si parli di eoni come di mondi spirituali, 33 ricordo, cioè di luoghi di residenza di Entità spirituali.

A. Il concetto di eone nella gnosi è un’altra cosa: qui stiamo parlando del concetto evangelico. Non ci aiuta a capire un testo l’andare in un altro contesto.

I. Vabbè, se dici che non c’entra niente col vangelo, non mi rispondere...

A. C’entra. Un concetto di eone è: un lasso di tempo. Un altro concetto è: una Entità. Vanno insieme, questi due concetti, perché a quei tempi si sapeva che se un preciso lasso di tempo prevede un certo cammino evolutivo – poniamo che gli uomini debbano passare dall’evo 1, all’evo 2, all’evo 3... – significava anche che Esseri spirituali specifici li avrebbero guidati. In questo caso gli Eoni sono esseri gerarchici: diciamo allora che un Eone principale, l’Eone 1, è incaricato di condurre l’evoluzione 1, cioè quel lasso di tempo che possiamo anche chiamare evo 1, eone 1; poi passa la conduzione all’Eone 2, perché lui si è specializzato per il tipo di evoluzione 2 (evo 2). Il primo Eone dice al secondo: ho lavorato, ho svolto il mio compito, adesso mi ritiro, mi riposo e tocca a te. Quindi gli eoni sono sia Esseri spirituali, sia l’arco di tempo necessario per il lavoro che ci concedono di fare – la nostra graduale autotrasformazione evolutiva. Quello che loro già sono, noi lo diventiamo: l’Eone in quanto essere spirituale conduce l’eone in quanto arco di tempo. È bello usare la stessa parola.

I. Bellissima questa spiegazione! Grazie.

A. Aspetta. Adesso andiamo dalla gnosi ai greci. Prendiamo le ore del giorno: prima ora, seconda ora, terza ora, quarta ora.... Cosa sono le Ore per i greci? Divinità: Οραι (Òrai). Quindi l’Ora del mezzogiorno deve essere quella che conosce bene la miriade di fenomeni che si verificano in tutto il sistema solare da mezzogiorno all’una – un putiferio! Dopo che ha svolto il suo lavoro, passa la mano a un’altra Ora, e così via. Chi ha la coscienza di tutte e ventiquattro le ore? Il Sole. Quindi la gnosi è l’ultima corrente culturale che ancora aveva la consapevolezza di questi Esseri spirituali che poi, per quell’intento evolutivo monoteistico di rafforzare l’Io di cui abbiamo già detto, è stata giustamente persa. Sono rimasti in sordina miriadi di Esseri spirituali. Ora ce li dobbiamo riconquistare, se non vogliamo proprio perdere tutta la conoscenza della realtà spirituale. Quindi un eone è un cammino evolutivo umano retto, guidato e accompagnato da un Eone. L’Eone ci dà tutte le condizioni necessarie, all’occorrenza ci sprona quando siamo stanchi, ci sveglia quando dormiamo... manda un paio di aerei contro le due Torri di New York... vediamo se si svegliano, dice lui. Ci prova. Naturalmente rimane aperta l’altra ipotesi fondamentale che dice: macché Eoni, ma siete matti, non esistono... È una scelta di conoscenza e di esperienza di vita che è di fronte ad ognuno; il materialismo ha fatto piazza pulita di ogni realtà spirituale, è la povertà assoluta del punto infimo dell’evoluzione.

Il Cristo non poteva venire nel tempo più oscuro della coscienza umana, cioè il nostro: perciò è venuto un’ora prima, alla penultima ora. Ha detto a Pietro: tu sei Pietro – l’impulso del minerale morto, del petrigno, della pietra – perché tu, subito dopo di me, accompagnerai l’umanità fino allo sprofondo, fino al punto in cui si identificherà col minerale morto. Dopo di te verrà l’altro discepolo, Giovanni, come vedremo nel XXI capitolo. Perché il Cristo non è venuto ora, che siamo ben più poveretti, spiritualmente, rispetto a duemila anni fa? Perché non l’avrebbe notato nessuno. Tant’è vero che lui c’è, ma chi se ne accorge? Era previsto nella saggezza evolutiva che in duemila anni l’umanità dovesse andare ancora più giù nell’oscuramento della coscienza. In fondo, se uno guarda ai fenomeni evolutivi della cultura italiana e va indietro di settecento anni, trova Francesco d’Assisi, Tommaso d’Aquino, Dante... Paragonando solo queste tre individualità alla nostra attuale cultura, vi pare che siamo più in alto? No, assolutamente. E va bene così, perché al punto infimo si doveva arrivare; ma ora che ci siamo, non è previsto di andare ancora più giù. Finché gli effetti del cammino umano non sono micidiali più di tanto, vuol dire che va tutto come previsto. Dov’è che avvertiamo di essere in ritardo, che avremmo già dovuto cominciare a risalire? Quando gli effetti della civiltà cominciano a diventare distruttivi, quando cominciamo a notare elementi di autodistruzione dell’umanità; allora questo ci fa dire legittimamente: siamo in ritardo, stiamo omettendo. Io sostengo che cento, duecento anni fa non era questa la situazione: l’umanità oggi si sta facendo davvero male – e sta facendo male alla Terra, rovinando il sostrato della propria evoluzione – in maniera del tutto imparagonabile a uno, due secoli fa. Da queste riflessioni capiamo la natura di un evo. Perciò il Cristo diceva (ricordate?): Voi siete abituati a riconoscere i cicli della natura e dite: fra quattro mesi viene la mietitura. Dovete ora imparare a leggere i cicli culturali, i segni dei tempi. E i segni dei tempi, oggi, dicono che siamo in ritardo nel superare il materialismo, perché cominciamo a danneggiarci e a danneggiare la Terra. E se non ci diamo da fare, diverrà tutto peggiore. È una lettura oggettiva delle cose, senza moraleggiamenti. Io sono convinto che se continuiamo così tra dieci o vent’anni quello che mangiamo, tanto per fare un esempio, non conterrà quasi più forze vitali, e le nostre corporeità ne pagheranno le conseguenze.

I. Ho una domanda sul paralitico, di cui abbiamo parlato ieri, ma prima faccio una premessa. Ho immaginato che il Cristo incontri un paralitico come se quest’uomo, nel corso di un’ipotetica settimana, sia arrivato al sabato senza più vitalità. La vita si spegne, non produce più. Di contrappasso c’è il cieco, anche lui di sabato: la vita non entra in lui perché non vede. Ora, nella visione del malato, noi medici, in genere, dovremmo capire che non c’è una malattia, ma c’è un uomo malato. Gli organi interni nel corso della settimana si ammalano: il lunedì, il martedì, il mercoledì... sono tutte tappe di avvicinamento al sabato e ogni giorno corrisponde a un pianeta e ogni pianeta a un organo – e, guarda caso, sabato è Saturno, il piombo, l’elemento della morte e della sclerosi: il paralitico. Perché l’uomo si ammala? Perché non è capace di collimare un suo organo con un certo pianeta – Steiner dice: l’uomo è un settemplice metallo –, oppure si ammala perché la sua configurazione psicologica, in rapporto a certi pianeti, è carente di quelle specifiche forze. La malattia è una carenza di collimazione. Allora quest’uomo si ammala alla soglia del giorno del Sole, del giorno dell’Io (e infatti dopo il cieco nato c’è il segno di Lazzaro). Vale a dire che, storicamente, quando l’Io riuscirà a sviluppare le forze solari potrà guarire: forse tra ventimila anni. La domanda è questa: come si fa a dire, come tu affermavi ieri: io decido di guarire e dunque guarisco? In questo momento evolutivo il mio Io non può sapere e capire perché non è arrivato ancora il giorno del Signore, la domenica. Eppure ogni tanto avviene il miracolo – vedi Padre Pio, Lourdes e vari altri fenomeni. Cosa significa? Forse che forze solari, divine, entrano in lui e travalicano il suo cammino spirituale portando la guarigione? Io non posso, se ho un tumore, dire: io voglio guarire. Non posso. A meno che non succeda qualche cosa. E allora chiedo: che cos’è questo qualcosa?

A. Partirei dal fatto che il vangelo di Giovanni chiama “segni” questi cosiddetti miracoli del Cristo. I segni indicano, mostrano qualcosa. Quindi l’intento non è di intervenire a fare qualcosa, ma di dare delle percezioni. Se il Cristo venisse a guarire, farebbe tale e quale quel che ha fatto il Padre. Quali percezioni ci vengono date sia col paralitico – in chiave di impulsi volitivi – sia col cieco nato – in chiave di percezione e concetto, cioè di pensiero? Il cieco nato rappresenta l’evoluzione del pensiero e il paralitico l’evoluzione della volontà. La percezione che il Cristo ci evidenzia andando prima verso il paralitico e poi verso il cieco, è che l’evoluzione condotta dalla natura, dal Padre, è arrivata alla fine e si sta riposando. In altre parole: caro essere umano, la salute non ti verrà più data dalla natura. Adesso deve cominciare la forza del Figlio grazie alla quale ogni uomo crea in sé la salute liberamente e individualmente. Per questa seconda creazione, che comincia con la domenica, col giorno dl Signore, abbiamo a disposizione tutti i millenni della seconda parte dell’evoluzione.

I. Ma la domanda era: oggi, quando avviene un miracolo, perché avviene? Per una scintilla particolare che fa un corto circuito con la Divinità?

A. Sto proprio dicendo che non avvengono miracoli. L’Io superiore, che è poi il Logos in ognuno di noi, di volta in volta sa quali creazioni si può concedere, quali è capace di fare. Steiner descrive come nel corso dell’evoluzione ognuno di noi, pezzo per pezzo, deve distruggere tutto quello che la natura gli ha dato, per ricostruirlo per conto proprio. Quindi ogni malattia viene scelta dall’Io superiore con l’intento di distruggere un qualche organo perché pensa di aver la forza di ricostruirlo. Se la malattia gli viene incontro come fatto karmico, vuol dire che le forze ci sono. Ognuno si può concedere solo ciò di cui è capace. Chi è più evoluto, un essere umano che si può concedere più malattie, nel senso che è capace di permettere alla natura di riposarsi al sabato perché ha lui le forze costruttive, o uno che non può concedersi malattie? È più evoluto quello che se ne può concedere di più, perché prima o poi le dobbiamo passare tutte: la creazione del Padre deve trasformarsi in una creazione della libertà dell’uomo, del Figlio. Se io ho un fegato che non ho mai distrutto per ricostruirlo io, a modo mio, non ho ancora un fegato a immagine del mio Io unico. Quindi l’evoluzione del mio fegato è ancora prima di Cristo. Comincia a diventare dopo Cristo quando io ho la forza di dire alle forze formanti che sono uguali in tutti, in quanto forze di natura: fuori! adesso ci metto le mie forze formanti! Sono lavori infiniti di cesello grazie ai quali questo fegato, una volta che è stato distrutto e ricostruito dall’Io, avrà un carattere del tutto individuale. Questo concetto il cristianesimo lo esprime in quella formula che ben conosciamo: la resurrezione della carne. Questa è. Ma prima la devi far morire, la carne, se vuoi farla risorgere.

I. Le forze formanti individualizzate sono anche forze di pensiero?

A. Non ce ne sono altre. Il creatore ha creato il mondo con che cosa? Con la cazzuola? Un conto è avere un fegato per grazia ricevuta, uguale a tutti gli altri, che non mi consente di individualizzarmi, e un conto è avere un fegato fatto tutto da me. Quindi, ogni volta che c’è una malattia, l’intento dell’Io cristico è sempre la ricostruzione, ma in proprio.

I. Torniamo a dire; non è la malattia, ma il singolo uomo malato.

A. Proprio questo. Quindi immagina che differenza c’è tra un medico che accompagna con questi pensieri lo sforzo di ricreazione del paziente, e un altro che non ne ha la minima idea. Quest’ultimo gli sottrae proprio le forze di cui ha bisogno. Come faccio io a sapere chi sono nell’organismo spirituale dell’umanità? Me lo possono dire solo gli altri. Quindi l’accompagnamento del medico dovrebbe servire a dirgli: sì, tu sei fatto così, tu sei questo, e gli conferma quei pensieri formanti particolari che sono tutti suoi. Questo è un aiuto preziosissimo. Se invece questo aiuto non c’è, il malato dovrà far tutto da solo e sarà molto più difficile perché il processo presupporrebbe la capacità d’intuizione morale di veder se stessi come realtà unica nel contesto di tutto l’organismo dell’umanità. Ce ne vuole prima di arrivare a questi livelli di fantasia morale! La Divinità ha concepito ogni Io umano come un organo specializzato nell’organismo dell’umanità. Quindi la grande domanda è sempre: chi sono io per l’umanità? Perché fuori dell’umanità ciascuno è nulla.

I. Questa ricostruzione degli organi attraverso l’Io, deve passare sempre per una crisi di malattia?

A. Se l’organo è già fatto con altre forze formanti, potrai forgiarlo a tua immagine solo disfacendolo e poi ricostruendolo. Devi inserire le tue forze formanti al posto di quelle di natura. Cacciar via le forze di natura è la malattia.

I. Ma se muoio, e non faccio in tempo a ricostruire l’organo, cosa succede?

A. Io non ho nulla in contrario a concederti almeno alcuni millenni per fare tutto questo lavoro! Tu hai qualcosa in contrario? Vuoi far tutto in una volta?

I. Ma no, intendevo dire: se muoio, la malattia è stata inutile? Rinascerò un’altra volta con un organo di natura?

A. In queste cose così fondamentali bisogna essere onesti fino in fondo, non si può barare. Preciso allora una cosa: il paralitico non è un malato, ma è uno che si gode un riposino della natura – tira via da sé un frammento di determinismi di natura – perché sta arrivando il Figlio. Ma come può arrivare il Figlio se il Padre non si ritira – e con lui la salute di natura? Il nostro concetto di malattia è tutto negativo, ma è da rivedere perché non è affatto negativo, invece. Quando l’Io superiore, il Cristo in ogni persona, decide di permettersi che il proprio fegato non funzioni più da solo, che significa? Che le forze di natura si sono ritirate. Lo scopo non è quello di riavere un fegato sano, ma è di generare in sé le “forze fegatanti”. Quello è l’importante! Perché una volta che il mio spirito le ha generate, non le perde più. È previsto nel mio karma che queste forze si generino lottando contro quello che noi chiamiamo malattia. È poi nel mio karma, per ciò che io sono nell’organismo dell’umanità, che sia previsto o no di applicare già in questa vita queste “forze fegatanti” mie. Se io, dopo averle acquisite, non posso più funzionare perché sono diventato troppo diverso, allora dico: niente di male, termino qui la vita terrena, e la prossima volta mi costruisco un corpo col fegato creato tutto da me. All’Io superiore non interessa la lunghezza della vita, vive benissimo anche senza il corpo. Il problema è sempre il nostro materialismo. Però è essenziale il fatto che l’Io si dica: ecco, adesso queste forze formative del fegato ce l’ho, e le avrò per sempre. Il karma prevede certe volte che tu possa modificarti e continuare in questa vita a contribuire all’evoluzione dell’umanità: altre volte il cambiamento dovrebbe essere talmente forte che è necessaria una corporeità del tutto nuova. E allora, vabbè, si muore. Ma è essenziale per l’Io avere queste forze che prima non aveva.

I. Mi ha stimolato quello che hai detto sulle “forze fegatanti”, un bisticcio verbale che rende bene l’idea. Noi, oggi, assistiamo all’invadenza di molte patologie virali, tipiche del nostro tempo. Guarda caso, con la storia di Bin Laden abbiamo provato paure archetipiche di epidemie: carbonchio, peste, colera... È suggestivo: è come se delle forze oscure ci volessero portare in un medio evo attraverso queste immagini di antiche patologie. Realmente abbiamo davanti, invece, l’occasione di vedere come, nel microcosmo della batteriologia, si evidenzino delle individualità che sono i virus. Guarda caso, mai come adesso – e non sono astrattezze perché anche questo è un dato scientifico – abbiamo avuto tante patologie cutanee di tipo sistemico (eczemi, orticarie, intolleranze alimentari, ecc), cioè autoimmunitarie, dove il primo movens si pensa, nel novanta per cento dei casi, sia un insulto virale. E cosa sono queste forme autoimmunitarie? Non sono altro che degli antigeni che noi produciamo e che vanno ad aggredire il nostro stesso corpo. È il corpo che mangia se stesso. È come se noi cercassimo di produrre delle riparazioni col nostro stesso Io: come il virus è singolo così io, come singolo, distruggo perché riparo. Si dice che è colpa dell’inquinamento, ecc.: ma siamo noi che l’abbiamo prodotto. Quindi è un qualcosa di stimolante, no? Tornano i conti. Io voglio ricostruirmi a mia immagine.

A. Vedi allora che problematico sarebbe se il Cristo andasse alla piscina di Bethesda e guarisse tutti quanti: mancherebbe la sintomatologia individuale. Vedi come il vangelo ci precorre di duemila anni? Guarisce il singolo. E c’è da domandarsi: e gli altri poveracci? Ce n’era una moltitudine fra zoppi storpi e rinsecchiti! Vedi allora che non è un miracolo, ma un segno? È il segno che dice: ora che il Padre si ritira, nasce una patologia di tipo individuale. Quindi anche la guarigione non può che essere individuale. Il Cristo si confronta col singolo. Non mi tornerebbero i conti se trattasse tutti allo stesso modo e facesse guarigioni di gruppo. Torniamo sempre al mistero dell’individualizzazione, da tutti i lati: fisiologico, patologico, psicologico, sociologico... Cosa significa essere un Io? Significa capire il mondo col proprio pensiero e prendere posizione. E siccome cominciamo a diventare ritardatari, queste cosiddette malattie sono aiuti a dire: sbrigati perché sennò...

I. Io ho sempre pensato che la frase “Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza” fosse da intendere nel senso che abbiamo detto, altrimenti saremmo tutti uguali, e che quindi dovesse partire da me l’azione di somiglianza, di individualizzazione.

A. Attenta. “Dio creò l’uomo a suo immagine e somiglianza” si riferisce alla creazione del Padre. Qui si parla del Figlio.

I. Appunto, pensavo si intendesse una somiglianza futura. Immagine e somiglianza. L’immagine è di Dio, la somiglianza è mia.

A. “Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza” è un’affermazione sulla prima creazione. Se il Cristo non porta niente di nuovo, che viene a fare? Nella fenomenologia del Figlio si continua a dire: c’è una consequenzialità tra le due creazioni, nel senso che non si contraddicono a vicenda, però sono due cose diverse. La libertà non contraddice la natura. La conduzione dal di dentro non contraddice quella dal di fuori perché ne è lo scopo; pur tuttavia non è la stessa cosa.

I. In questo contesto, come dobbiamo vedere le operazioni chirurgiche, le clonazioni, i trapianti? Dov’è l’impegno personale?

A. Sono tre cose diverse. Considera la sostituzione di organi: uno s’è rovinato un rene, e partiamo dal presupposto che non gli è capitato a caso, ma l’ha voluto il suo Io superiore. Che l’ha voluto a fare? Vuol generare le forze che creano il rene. Tu adesso gliene metti un altro. Gli fai un favore? Se lo scopo fosse quello di avere un rene che funziona bene, l’Io superiore l’avrebbe lasciato in pace, invece di farlo ammalare. Quindi la volontà dell’Io superiore è quella di avere un rene ammalato per avere qualcosa da fare.

I. I gesti dell’euritmia, a questo proposito, sono uno strumento che va nella direzione della costruzione delle forze?

A. Vanno in questa direzione perché l’insieme dei gesti dell’euritmia – se prendiamo tutte le vocali, il dodici delle consonanti, e tutte le interazioni che avvengono fra loro – è la completezza dei movimenti che il corpo eterico fa. Però si tratta di forze di movimento eteriche, forze metamorfosanti, non formanti – te lo immagini un movimento euritmico fermato? Terminerebbe di essere euritmia. Invece gli organi sono un movimento fermato (questa è la forma), e si fermano secondo le leggi di ciò che è vivente perché vogliono farsi da sostrato, da fondamento, per il vivente stesso. C’è tutto un lavoro di conoscenza da fare per capire la corrispondenza tra i movimenti di metamorfosi della rosa eterica e il modo in cui questi stessi movimenti si rallentano nella rosa fisica: la rosa fisica, infatti, è un enorme rallentamento dei movimenti di metamorfosi della rosa eterica. L’amore incarnatorio che rallenta i movimenti della nostra vita eterica per renderli fisici, in modo da poterli mettere a disposizione degli altri, è una creazione che richiede un’altissima fantasia morale. Una cosa è l’imitazione nell’euritmia di un movimento eterico, vitale, un’altra è vedere questo movimento che fa un sacrificio incarnatorio, rallenta e diventa un organo. Però la corrispondenza c’è ed è perfetta. Ognuno ha un corpo fisico che corrisponde in tutto e per tutto al suo corpo eterico. E siccome ognuno di noi ha un corpo eterico tutto individualizzato, ognuno è chiamato a rallentare e creare le forme molto più fisse degli organi – soprattutto la dodecuplicità degli organi di senso – in un modo del tutto individuale. Tant’è vero che a livelli più semplici possiamo ben vedere che siamo oltre sei miliardi di individualità incarnate e non ce ne sono due che abbiano rallentato i movimenti metamorfosanti del volto in modo uguale, in una forma uguale. Non ci sono due forme uguali, neanche nei gemelli. La mamma non li confonde.

I. Ricordavamo che le forze formanti degli organi sono le stesse che agiscono poi a livello di pensiero. Allora, come nello sviluppo del corpo fisico sappiamo che prima queste forze sono impegnate nella crescita, nella formazione, e dopo, verso la vecchiaia, si liberano da questo compito e sono più disponibili per il lavoro di pensiero, mi domandavo se anche nel campo della trasformazione degli organi a immagine dell’Io ci fosse un’azione analoga nei tempi. Cioè: prima c’è un lavoro rivolto agli organi, poi al pensiero e poi... poi mi trovo in difficoltà perché l’individuazione comincia col lavorio del pensiero. S’inverte forse la cosa?

A. No, gli evi si accavallano, i ritmi di tempo si accavallano. Un esempio accessibile a tutti: tu sottolineavi come stanno fra di loro il costruire organi e il consumarli per far sprigionare forze di spirito, di pensiero, di amore...: e si vede subito come due cicli fondamentali, uno più vasto e uno più piccolo, lavorano fra di loro. Il pensiero umano deve diventare sempre più duttile, malleabile e complesso perché dovrà essere capace di pensare sempre di più tutto questo putiferio che il Padreterno ha creato. La creazione è complessissima, perché è fondata sull’inesauribilità della fantasia divina. Allora, in questo arco di vita fino ai 35 anni si crea, si crea, si crea il vitale per dar la possibilità di consumarlo: infatti possiamo consumare soltanto quanto abbiamo costruito. Questo avviene nell’insieme della vita, ma lo ripetiamo ogni giorno: di giorno consumiamo e di notte ricostituiamo. Quando avviene il costruire e quando il consumare? Nell’arco della vita nella prima parte prepondera di gran lunga il costruire e nella seconda ci sono sia il degenerare, che è un fatto di natura, sia il far sprigionare lo spirito, che è un’attività libera e come tale si può omettere. Il fatto di natura dice che prima o poi moriamo tutti e che nessuno è più vitale a ottant’anni di quando ne aveva venti. Ciò che nell’arco della vita si squaderna in due metà, si ripete a livelli più piccoli ogni giorno: se tu hai mangiato molto, nella mezz’ora successiva non puoi risolvere il problema matematico più difficile che esista perché le forze vitali e quelle di coscienza sono opposte. La coscienza si esplica solo consumando il vitale, cosa possibile se questo vitale continuo a ricostruirlo sempre. L’equilibrio giusto tra quanto mi posso permettere di consumare e di ricostituire, diventa sempre più individuale.

Francesco d’Assisi era un godereccio tale nel consumare la materia per vivere i processi di coscienza che ha bistrattato il suo corpo fino a morire a 44 anni. Gli puoi dire: hai fatto male? È stata l’intuizione del suo Io. E il suo detto famoso è: tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto. Mi è, non mi sarà (in un altro mondo). Se uno costruisce sempre il vitale, come una pianta, e non se lo gode mai, peccato! Non sperimenta mai a che cosa serve. Se invece uno consuma, consuma e consuma fino all’esaurimento, da fuori possiamo dire che avrebbe fatto meglio a riposarsi e vivere altri vent’anni? No, il consumare è individuale e da fuori nessuno può dire nulla. Quindi il metro della salute e della malattia non si può più prendere dal di fuori. Francesco d’Assisi l’esistenza se l’è goduta, e lo dimostra: se guardiamo alla fenomenologia della sua vita, così bella, la quantità degli anni vissuti sparisce di fronte alla qualità. Dire a uno: cerca di vivere dieci anni di più, o di meno, è assurdo. Si tratta di ascoltare sempre di più la voce del proprio Io, che è il Logos di cui stiamo parlando. Allora ricevo le intuizioni: il mio compito è questo, e allora adesso do la precedenza al consumare perché qui mi si chiede qualcosa, nell’umanità c’è bisogno di questo, e non serve a nulla che io voglia per forza conservarmi vitale... Bene, lo faccio, mi consumo... Poi mangerò un po’ di più, dormirò un po’ di più... È tutto individuale. Lo chiamiamo il karma, questo, e il karma è individuale. Quindi devo far bene attenzione al mio posto nell’organismo dell’umanità che mi dice: buttati, datti un poco... poi mi dice: guarda che adesso se ti spremiamo ancora di più ci dai solo povertà, quindi rimettiti un po’ in sesto... L’organismo dell’umanità ha interesse che il meglio di ognuno sia messo a disposizione di tutti nel modo migliore per ognuno. Siamo stati concepiti dalla fantasia divina come membri gli uni degli altri, in modo realissimo. Nella misura in cui ognuno di noi diventa genuino, schietto e se stesso, siamo assolutamente armonici gli uni con gli altri come lo sono gli organi, le cellule, di un corpo fisico sano. Questa è l’intuizione morale dell’umanità: è un immenso organismo unitario di Io umani concepiti ognuno come un organo individuale. E insieme fanno la salute dell’umanità.

I. Una ragione in più per non scambiare gli organi fra una persona e l’altra.

A. Se l’Io superiore di un uomo si è concesso di lacerare un organo perché pensava: speriamo che il mio inferiore capisca che qui c’è qualcosa da fare, e poi l’io inferiore fa cilecca, che succede? E lascia che qualcuno gli dia un aiuto, no?! A che ti serve mettere un dogma contro i trapianti? A che serve stabilire che se l’io inferiore non ce la fa, nessuno lo deve aiutare e che crepi pure? L’importante è che siamo onesti con noi stessi e diciamo: il trapianto si fa quando l’io inferiore fa cilecca, perché invece di costruire qualcosa si fa dare un pezzo di ricambio. Ma perché non si deve essere misericordiosi anche con la pigrizia degli uomini? Chi di noi non fa mai cilecca?

I. Ma nell’economia del karma generale dell’umanità come la mettiamo?

A. Siccome c’è la libertà, nell’economia del karma dell’umanità sono previste un sacco di cilecche. Ma guarda quanta pazienza il Cristo ha con tutti noi! Quando tu fai cilecca non ti dà subito una botta di rincaro. Dire: il trapianto non si deve fare, è un dogma. Se quello vuole un trapianto, chi sei tu per proibirglielo? Lascialo con la sua libertà. Lesivo della libertà del malato, invece, è che quando si sta ancora interrogando sul da farsi il medico prema dicendo: no, no, qui ci vuole assolutamente un trapianto. Qui io direi; sta’ attento, medico, sta’ attento: ciò che è da rispettare è sempre la volontà di colui che si trova in una situazione.

I. Ma come si fa a conoscerla davvero la volontà del malato?

A. Te lo dice.

I. Però tu fino ad ora hai parlato della volontà dell’Io superiore...

A. L’Io superiore dà un compito all’io inferiore, ma non glielo può imporre, altrimenti non esisterebbe la libertà. La libertà consiste nel fatto di poter far cilecca.

I. D’accordo, ma allora scegliamo la strada che va in giù!

A. Ma tu sei sempre andato solo in su?

I. No, no, io tutti i giorni faccio cilecca, però mi vorrei orientare...

A. Io non sto dicendo: i trapianti vanno fatti. Non ho detto questo.

I. Hai detto che se uno chiede un trapianto è libero di sbagliare.

A. No, è libero di essere debole. Se è debole, è debole. Non gli puoi imporre di essere forte. La misericordia è di dar atto che è debole, e posso farlo perché anch’io posso esser debole in mille modi e sempre di nuovo. Questa è la misericordia.

I. E il donatore dell’organo?

A. La problematica di ciò che avviene al donatore e quando si può o non si può tirar fuori un organo, è un’altra problematica ancora. Noi stavamo parlando del trapianto, non dell’espianto.

I. Però vanno insieme, necessariamente.

A. Allora diciamo che togliere un organo a qualcuno è una forma di uccisione. Allora devi argomentare così. Prima tu dicevi che è male il trapianto.

I. Io intendevo il problema nel suo complesso, che prevede chiaramente anche l’espianto.

A. Allora ti chiedo: tu sei del parere che l’espianto sia sempre un male?

I. Io so che c’è un corpo eterico individualizzato, un Io che compenetra ogni cellula dell’organismo... non mi tornano i conti col trapianto.

A. A me interessa la differenza tra il dire: sarebbe bene così, e mettere un dogma che dice: si deve fare così. Il dogma non ha più nessuna legittimità, dopo il Cristo. Che poi tu dica che in chiave ideale sarebbe meglio così, benissimo. L’abbiamo già detto. Quando l’Io superiore si permette una malattia, l’ideale sarebbe che l’io inferiore si mettesse al lavoro e l’affrontasse. Ma se non è capace, che fai?

I. Ma quando uno dice: voglio un trapianto, chi parla in lui? È vera o non è vera questa volontà?

A. L’Io superiore non può mai volere il trapianto, perché significa ricevere un organo sano. Se lo voleva sano, l’organo, non lo faceva ammalare. Quindi la volontà dell’Io superiore è di avere un organo ammalato come compito per l’io inferiore. L’inferiore fa cilecca, ripeto. Si capisce cosa intendo per far cilecca, no? E l’evoluzione prevede anche le cilecche, affinché noi impariamo innanzi tutto a sapere cosa sono e poi come evitarle. E se non permettessimo di farle, queste cilecche, non ci sarebbe libertà.

I. Dove nella malattia c’è un’enorme sofferenza, è ben difficile che qualcuno arrivi a dire: sto ricostruendo il mio organo, accetto questa sofferenza. Tutti arriveranno a dire: voglio il trapianto. Lo scegliere dell’Io superiore si trasforma per l’io inferiore nell’avere a che fare con l’organo malato, nel trovarsi in un stato di necessità.

A. La volontà dell’Io superiore è di creare delle forze formanti, non di essere ammalato. Essere ammalato è il presupposto.

I. Diciamo che ricorre a questo ostacolo per creare delle forze che riescano a superarlo. In una società come questa, mi chiedo, quanti possono prendere coscienza di questo fatto e quanti invece, guarendo, rimangono comunque nell’epoca del Padre, cioè fanno un decorso di malattia che fa appello alle forze del Padre e non alle forze del Figlio?

A. Tu stai dicendo: quante saranno mai le persone che arriveranno a capire che quel che dice il Figlio è diverso da quel che dice il Padre? Ma il discorso non è questo. Il discorso è se tu riesci a cominciare a capire quello che il Figlio ti sta dicendo. Non sottovalutare il fatto che io ho detto nell’ultima mezz’ora cose che sono un’assoluta assurdità per il materialismo di oggi. Ma il materialismo non è dappertutto (visto che voi, per esempio, non mi avete ancora fatto fuori!). Quindi vedi che gli spiriti capaci di pensare questi pensieri ci sono, ci sono! Il problema è che stiamo appena all’inizio, ma questa non è una dichiarazione di disfattismo, è un modo di fare coraggio e dire: cominciamo! Se è vero che lo spirito umano è stato creato per questi pensieri, quando li sente dice: sì, sì, non è stupido quello che sento. Se invece questi pensieri non gli corrispondessero, tout court, allora vi toccherebbe dirmi: no, no, quello che dici proprio non va. Ma non l’avete detto. Nessuno di voi ha avuto l’impressione di essere capace di smontare i pensieri che ho espresso, almeno nella loro essenzialità: perché? Perché sono giusti. A che serve, perciò, chiedersi quanti e quando arriveranno a capire? Il nostro amico, qui, voleva costringere tutti ad andare avanti come si deve! E allora ho detto che la libertà deve avere la forza morale di sopportare anche una misura di debolezza e quindi dobbiamo instaurare un modo di agire gli uni con gli altri che non preveda solo la forza. Io non ho mai detto che è bene fare i trapianti, ma che ci sono situazioni in cui non è possibile altra soluzione. Però se tu dici a un malato (è sempre questione di coscienza): guarda che tu credi che non ci sia altra soluzione e per rispetto della tua volontà lo facciamo, questo trapianto; ma se pensi che sia la cosa ideale ti sbagli. Facendo questo ragionamento qui la coscienza umana va avanti. Ma non possiamo trattare gli uomini come se fossero già alla fine dell’evoluzione: non ci siamo.

I. Volevo sottolineare che io non voglio costringere nessuno: volevo soltanto dire che, seguendo la via dei trapianti, seguiamo la via opposta a quella che vuole l’Io superiore. Se uno si fa trapiantare il fegato ritarda la creazione di quelle famose forze fegatanti...

A. E io ho detto: fa cilecca. Se fa cilecca, lo vuoi costringere? Quale soluzione migliore hai?

I. Di lasciarlo morire! Quella è al via naturale.

A. Ma l’Io superiore non è soltanto saggezza, è anche amore e il suo amore è la pazienza infinita che ha verso l’io inferiore. Il Cristo non è venuto a dirci: o fate questo o crepate, che è il discorso che fai tu. Tra o lo fai o crepi, l’amore trova soluzioni molto più fantasiose. Io mi oppongo solo a questo bianco o nero.

I. Ma abbiamo altre vite a disposizione.

A. Tu hai questa convinzione: mettiti nei panni di uno che non ce l’ha. Il Cristo non è inesorabile, e nei panni di uno che non ce l’ha la prospettiva della reincarnazione, ci si mette. Certo che per te è più facile dire: non mi interessa morire cinque anni prima. Ma uno che pensa che la vita sia una sola e la ama? Fai presto a dire: deve morire. Queste decisioni vanno lasciate a ognuno.

I. Rimaniamo terra terra. Quando uno viene e vuole curarsi una polmonite che faccio, io, come medico? Ha un focolaio polmonare, è nel suo destino... lo lascio stare? No. Perché se è venuto da me vuol dire che un motivo ci sarà: siamo due persone che per vie karmiche, o per quello che vuoi, s’incontrano e insieme affrontano un cammino comune dove io teoricamente non dovrei decapitargli il malanno con una botta di antibiotici, ma dovrei aiutarlo a sviluppare con prodotti naturali delle forze sue per riparare quello che è riparabile. Se poi lui sceglie di andare avanti e di morire, è da vedere. Io posso intervenire per un fatto etico, gli do un antibiotico e lo salvo. Anche qui c’è un quesito, mi sembra.

A. Il compito del terapeuta è di cogliere il più possibile la natura dell’essere del paziente, di vedere quante forze è capace lui di generare e di incoraggiarlo a generarne il più possibile – che è l’opposto di dargli medicine per sostituire quelle forze. Poi ha l’impressione che il malato sia al massimo di quello che può tirar fuori: per non farlo morire, magari gli dà una medicina, il cui senso è di concedergli di continuare la lotta. Il senso evolutivo di una malattia è la lotta contro le controforze, e più dura meglio è. Lottare significa essere in relazione con la controforza: qua avviene il rafforzamento.

I. Noi dobbiamo vedere nei fenomeni fisici sempre una proiezione spirituale: come con l’interazione fisica si può ottenere una guarigione (l’antibiotico vince un batterio), così in chiave spirituale esistono forze e controforze che permettono di andare avanti.

A. No, sta’ attento. Supponiamo che l’Io superiore si sia ripromesso di lottare per cinque mesi contro una polmonite: in cinque mesi ne genero di forze! dice. Tu gli risolvi la polmonite dopo un mese ed è una catastrofe, lo costringi a trovare altre controforze. La guarigione non è un fatto del solo corpo fisico, ma consiste nell’aver conseguito forze nell’Io spirituale, nel corpo astrale ed eterico che si possono conquistare solo lottando. Se gli porti via l’ostacolo prima, deludi l’Io. Nelle conferenze bellissime tenute da Steiner ad Amburgo su Le manifestazioni del karma, si osserva che in base al progresso della medicina molte malattie sono scomparse: da un lato può essere una bella cosa, ma da un altro nasce il problema enorme di tanti Io umani che vengono giù sulla Terra con la speranza di trovare specifiche malattie per generare specifiche forze, e invece queste malattie non ci sono più. Come dire: la vita è diventata troppo comoda, e questa è una catastrofe per l’Io; ma ciò è nel senso dell’evoluzione. Ora, un fatto corporeo, essendo un fatto di natura, ha elementi generalizzati; le controforze, man mano che l’Io si evolve, diventano invece sempre più individualizzate. Venendo meno le controforze generalizzate di natura, le cose andranno peggio se io non mi costituisco un sostituto di controforze più individualizzate. Dove le cerco? Nei rapporti. Quindi o ci sono difficoltà significative nei rapporti – quindi controforze individualizzate di tipo animico –, oppure l’Io poltrisce a un punto tale da venir costretto a crearsi nuove malattie nel corpo. Il materialismo è essere così bacati nella mente da pensare che la vita sia più positiva quando tutto va liscio. Questo è un errore assoluto, è la distruzione dell’Io.

I. Comunque l’aiuto terapeutico è previsto, in quanto la malattia viene per essere superata.

A. Viene per lottarci contro tutto il tempo necessario. Superare una malattia è la fine della lotta, ma il positivo sta proprio nel lottare.

I. Ma non è questo il punto. Io chiedevo se l’aiuto terapeutico è previsto, visto che esiste anche una medicina antroposofica. Mi hai creato un momento di confusione quando hai detto che se l’Io superiore si è prefisso una polmonite che duri cinque mesi e un medico gli dà una medicina che gliela fa superare in due mesi, lo frega. È una catastrofe, hai detto. Ecco, qui non ti seguo più perché in questo modo delegittimi l’aiuto terapeutico.

A. No. È il concetto che sia meglio far sparire la controforza al più presto ad essere errato. Se fosse meglio che la controforza sparisse al più presto, cosa sarebbe il meglio in assoluto? Che non comparisse per niente la malattia, no?

I. La domanda è: è legittimo l’aiuto terapeutico?

A. C’è un aiuto terapeutico giusto e ce n’è uno sbagliato. Se uno mi aiuta a poltrire, che aiuto è?

I. È vero che certe malattie non ci sono più, ma ce ne sono altre: l’AIDS, il cancro... che non mi paiono meno impegnative. Un’altra osservazione è questa: c’è stato un recente caso di cronaca in cui un figlio ha donato un rene al padre che stava morendo, e secondo me questo è stato un gesto di grande amore.

A. Come fai a saperlo? Non puoi saperlo. Conosci gli effetti sul corpo fisico, quelli percepibili. Gli effetti sul corpo eterico, sull’anima e sullo spirito, come li conosci? Andiamoci piano.

I. Dal mio punto di vista è così. Non possiamo sapere gli effetti che può aver avuto questo gesto sul padre e sul figlio, che razza di lavoro avrà portato in loro. Ma se questo è stato un gesto d’amore, sicuramente avrà avuto degli effetti positivi anche in campo spirituale.

A. Allora stai dicendo: l’amore è sempre giusto. Con una frase così, nessuno ti può contraddire.

I. Come si può stabilire se è un bene o un male donare organi a bambini, i quali non hanno ancora le capacità di sviluppare forze individuali e autonome?

A. Se il bambino non ha ancora la capacità di dire la sua, c’è chi dona. Io sto dicendo che siccome è una cosa così complessa e l’umanità è chiamata a individualizzarsi sempre di più, preferirei lasciare questo tipo di decisioni a chi è dentro il problema. Perché devo gestire io la sua decisione?

I. Ma io sto dicendo: se avessi un figlio che può morire o vivere...

A. ...e tu fossi posta di fronte alla domanda se donare o no, la risposta la potresti trovare soltanto TU! Questo sto dicendo. Se non la trovi tu, chi te la può trovare la risposta? Qui, invece, qualcuno te la voleva dare preconfezionata e io ho insistito: gli uomini si stanno individualizzando sempre di più, per cui dobbiamo avere il coraggio di lasciare al singolo ogni decisione che riguarda il singolo. Io sto dicendo di sospendere il giudizio. Ognuno ha già problemi a sufficienza per quanto riguarda le proprie decisioni, perché dovrebbe andare a gestire quelle altrui? Solo per poltrire e omettere il proprio cammino. A una persona che prenda in mano le decisioni proprie non resta né il tempo né la voglia di andarsi a occupare di quelle degli altri. In altre parole, dobbiamo imparare a non giudicare moralmente le azioni altrui. Dar atto del fatto e basta! E non star lì a dire: è buono, è cattivo, avrebbe potuto scegliere diversamente... Ma chi ce lo fa fare? Perché ne abbiamo bisogno? Sono tutti residui, e belli forti, di una cultura cattolica che deve mettere le etichette: questo è bene, questo è male. Tu hai un figlio e sei confrontata con la decisione di donargli o no un organo? È bello che continui ad arrovellarti sul da farsi! O vuoi cercare qualcuno che te lo risparmi? Il bello è la tua lotta interiore per trovare una soluzione e questa lotta non te la deve togliere nessuno perché quella ti fa crescere! Lottare significa che mi rendo conto di tutti i pro e i contro che ci sono da una parte, e di tutti i pro e i contro che ci sono dall’altra. È un processo di enorme crescita e la decisione finale che poi prendi, è secondaria. Perché la vita, a seconda di quello che poi salta fuori, ti farà capire sempre meglio cosa è bene e cosa è male.

Bene, proporrei una pausa e poi riprendiamo il testo.

***********

Eravamo al v.36 del quinto capitolo: “Io ho una testimonianza maggiore di quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato per portarle a compimento, queste stesse opere danno testimonianza di me, che il Padre mi ha mandato”. Mi aggancio a ciò che dicevamo prima: gli esseri umani, così come sono, danno testimonianza del fatto che nell’uomo c’è l’aspirazione all’individualizzazione. In fondo, tutta la nostra conversazione di prima, era uno sforzo per venire alle prese con l’individualizzazione: le generalizzazioni ci serviranno sempre di meno. Dove troviamo, allora, una testimonianza credibile, che ci convinca che l’essere umano vuole davvero sfociare nell’individualizzazione, nella libertà? La troviamo in quello che ciascuno di noi desidera: benché io possa aver la tentazione di imporre ad altri le leggi del bene e del male, mi rendo conto che io rifiuto il tentativo degli altri di gestirmi dal di fuori, di impormi il criterio del bene e del male. Lascia fare a me, dico, è mia la decisione. Quest’impulso che dice: lasciami fare! è proprio la testimonianza che la creazione del Padre – che è di gruppo, generalizzata secondo leggi di natura – è destinata a farsi da fondamento per una realtà sempre più individualizzata. La natura stessa dell’uomo testimonia in modo chiarissimo il desiderio della libertà, il volersi sviluppare in modo sempre più individuale.

Ciò che fa bene a una persona non fa bene a un’altra, proprio perché è un’altra; ciò che favorisce l’evoluzione di una persona non necessariamente favorisce quella di un’altra. Ognuno deve sapere nel caso suo ciò che gli fa bene e ciò che gli fa male, e un’evoluzione nella libertà senza provare e riprovare non esiste. Provare significa anche sbagliare, perché ciò che io provo non dev’essere già in partenza la cosa migliore. se lo fosse già e io lo sapessi, non vivrei nel tempo ma nell’eternità. Vivere nel tempo significa cominciare qualcosa senza sapere come andrà a finire. Mi riservo di aspettare, devo avere il coraggio di aspettare gli effetti, di soppesarli e poi dirmi: se gli effetti sono questi allora cambio, perché vorrei effetti di altra natura. È un male? No, fa parte dell’evoluzione della libertà. L’amore divino consiste in questo: ad ogni essere umano vengono concesse possibilità infinite di provare, provare, provare e riprovare. Il male morale è quando io ometto di capire ciò che la realtà mi dice, e non mi rendo conto di ciò che mi fa male e continuo a farlo; ma finché leggo rettamente i risultati di ciò che faccio, va tutto bene nell’evoluzione. Basta che mi orienti sempre secondo la mia realtà e secondo gli effetti che opera sulla realtà altrui. Vivere nella libertà è uno sperimentare all’infinito.

Quindi le opere che il Padre ha dato sono le opere del karma, del destino di ognuno, le opere individualizzate. Il Cristo non parla mai col “noi”: parla sempre in prima persona. Le opere che il Padre mi ha dato sono quelle del mio karma individuale e compiendo queste opere, dando fiducia al karma, vedendo anche ciò gli altri mi portano incontro come sollecitazioni e desideri, divento sempre di più me stesso e aiuto gli altri a diventare sempre di più se stessi.

5,37 “E colui che mi ha mandato, il Padre, lui dà testimonianza di me. Voi non avete mai sentito la sua voce né avete visto il suo volto.”

Il Padre testimonia del Figlio, la creazione del Padre dà testimonianza che sarebbe monca senza il Figlio, senza il sorgere dell’individuo umano. Tutta la creazione sarebbe incompleta, resterebbe all’infinito nella prigionia delle forme fisse, se non venisse l’uomo a riportarla alla bellezza dei primordi, come risultato della sua specifica creazione. La seconda parte del versetto 37 descriverà adesso lo stato di caduta dell’umanità che non conosce il Figlio, e il Figlio che entra nel cosmo umano proprio per rendersi percepibile. “Voi non avete mai sentito la sua voce” perché comincia adesso a farsi sentire. Il Cristo non fa mai rimbrotti, rimproveri o rinfacciamenti – che non servono a nulla. Tutte le frasi del Cristo sono un aiuto per l’autoconoscenza. Gli esseri umani non hanno mai sentito la voce del Figlio perché finora ha parlato solo il Padre. E perciò il Cristo dice: state attenti, perché qua sta cominciando a risuonare una voce, una chiamata evolutiva, che è del tutto nuova. Finora era visibile e udibile nella creazione soltanto il Padre: è un dato di fatto, non si tratta di colpe, qui. Ed è importante questo dato di fatto perché comincia ora qualcosa di assolutamente nuovo: una nuova generazione, in un certo senso, come un passaggio dalla generazione dei genitori a quella dei figli.

5,38 “e non avete la sua parola dimorante in voi perché non credete in colui che il Padre ha mandato.”

Cominciando ora in assoluto il parlare e il mostrarsi del Figlio, il Figlio stesso dice: il motivo per cui non vi è possibile, o non riuscite, ad aver fiducia nella voce del Figlio è che vi è del tutto nuova, non ne avete fatto ancora nessuna esperienza. Che cosa mi dà ragione di aver fiducia in qualcosa? Il fatto di averne fatta l’esperienza. Non basta che un altro mi dica: guarda, questa è una gran bella cosa, ecc., se io non ne faccio a mia volta l’esperienza. La fiducia va data a ragion veduta e la ragion veduta è vivere i risultati positivi. Quindi il Cristo dice: il motivo per cui non avete fiducia è che il nuovo sta cominciando ora e quindi ci vorrà tempo; man mano che farete l’esperienza positiva di ciò che io porto, acquisterete sempre di più fiducia.

Sto cercando di evitare l’interpretazione così poco cristica di dare a queste parole del Cristo un’intonazione di rimprovero. Questi poveracci hanno avuto finora la loro religione di Jahvè, nessuno ha mai detto loro nient’altro, e come può il Cristo pretendere che capiscano subito che i tempi sono cambiati? Allora spiega in che cosa consiste la difficoltà di abbracciare il nuovo di botto: sta nel fatto che non è possibile. Il nuovo non si accoglie in un attimo, ma bisogna entraci dentro centellino a centellino, farne l’esperienza, provare e riprovare, vedere che effetti mi porta e, man mano che li vivo nella loro positività, dico: sì, sì, questo va bene. Il Cristo continua a ripetere in modi sempre diversi: qui vi trovate di fronte a qualcosa che è nuovo in assoluto, quindi piano col giudizio e piano con la condanna. Piano. Cercate di avere un minimo di apertura per provare e vedere. La tolleranza è l’apertura interiore di chi ha capito che tutti siamo in evoluzione, tutti. E bisogna star a vedere, nell’evoluzione, che cosa salta fuori di volta in volta. Bisogna darci la possibilità di sperimentare e vedere che cosa succede: e succede che il bene e il male si individualizzano sempre di più. Il Cristo in un altro contesto pronuncia la frase lapidaria: non giudicate. Intende il giudizio morale, non certo quello conoscitivo. Il giudizio morale su un altro non è possibile, perché per sapere se ciò che ha fatto è bene o male per lui io dovrei essere lui, vivere in me tutte le forze che ha e non ha, sentire di che cosa è capace e di che cosa non è capace... E inoltre, ognuno di noi sa bene che anche per se stessi non è facile individuare il bene e il male e quanto bisogna provare e riprovare per farselo dire dagli effetti; figuriamoci se possiamo pretendere di giudicare il bene e il male di qualcun altro.

“Voi non avete la sua parola dimorante in voi”, cioè vivente in voi in modo permanente: μενοντα (mènonta) da μενειν (mènein), è un dimorare duraturo; per questo ci vuole il tempo; “perché non credete in colui che mi ha mandato”: se c’è un rimprovero che il Cristo fa, qual è? Che il vero male umano è la paura del nuovo che consiste nell’essere talmente attaccati al proprio status quo da volerlo difendere a tutti i costi, soffocando il nuovo. Il proibirsi di dar fiducia al nuovo proviene dall’essere attaccati al vecchio. Voi non date fiducia al nuovo: quindi il problema non è che dovreste capirlo già in partenza, ma è che lo bloccate, che non gli permettete di cominciare a lavorare in voi perché non volete perdere nulla di ciò che avete già conquistato. Volete difendere la vostra comodità interiore perpetuando il vecchio, e non vi accorgete che proprio il Padre manda il nuovo, il Figlio.

5,39 “Scrutate le vostre Scritture, giacché voi pensate di avere in esse la vita eterna e infatti esse danno testimonianza di me;”:

le Scritture parlano di un’evoluzione che non termina mai, che va di evo in evo, i profeti della Torà parlano addirittura di un cammino di attesa verso la venuta del Messia, che è l’inaugurazione di un’evoluzione ancora più accelerata: dunque non vi parlano di una stasi, di un bene morale che consiste nello stare comodi dove si è, ma di un’evoluzione continuamente in corso. Il vostro profetismo, nella sua proiezione in avanti, vi parla di un’evoluzione che è fatta di dinamismo. Ascoltate le vostre Scritture così diverse dalle Scritture delle religioni orientali che non contenevano la tensione continua del fattore umano in evoluzione, ma consideravano l’uomo inserito nei cicli di natura che si ripetono sempre uguali. Quindi la differenza fondamentale fra le Scritture del popolo ebraico, alle quali il Cristo qui si riferisce, e le Scritture dei pagani (chiamiamoli così), specialmente dei popoli orientali, è che lì c’era una concezione ciclica ripetitiva, simile a quella delle piante, mentre il popolo ebraico è stato il primo a concepire l’evoluzione come una linea dove ci sono avanzamenti e sempre nuove conquiste.

“...e infatti esse danno testimonianza di me;”: le Scritture danno testimonianza del Messia, del fatto che l’evoluzione non resta uguale ma va per stadi diversi, uno dopo l’altro. C’è lo stadio del paradiso, quello della cacciata dal paradiso, c’è lo stadio dell’attesa del Messia, c’è quello della venuta del Messia e lo stadio dei tempi escatologici, perché venendo il Messia i tempi sono compiuti. Il concetto di pienezza dei tempi è che tutte le condizioni, tutti gli strumenti evolutivi sono compiuti. La dicitura “i tempi sono compiuti” c’è continuamente nel vangelo, e significa che dalla venuta del Cristo fino alla fine dell’evoluzione, non manca più nulla delle condizioni necessarie per l’evoluzione umana. Noi viviamo già da duemila anni nella pienezza dei tempi: l’evoluzione nel tempo compiuto presenta tutti gli strumenti di cui gli esseri umani hanno bisogno per costruire sempre di più la loro libertà. Non siamo più nell’era dell’attesa, non abbiamo da aspettarci più nulla dal di fuori, perché la grazia divina ci ha messo a disposizione ormai da duemila anni, tramite il Figlio, tutto ciò di cui abbisogniamo. L’unica cosa che può mancare è il nostro afferrare la libertà. Tutti i peccati (se si possono chiamare così) dopo il Cristo sono solo di omissione. Sono pensieri così liberanti, portanti e positivi, che se uno se li ripensa almeno cinque volte al giorno, gli passa la voglia di ogni depressione! Questo è il concetto di pienezza dei tempi. Gli strumenti per l’esercizio della libertà sono completi e sono tutti a disposizione.

Per esempio, uno strumento fondamentale è il pensiero sempre più individualizzato, cioè la capacità individuale di prendere posizione con la propria testa di fronte agli avvenimenti. Pensate voi che ci sia anche solo un essere umano che veracemente possa dire: a me il padreterno non ha dato un pensatoio sufficiente per poter prendere posizione? No, un pensatoio capace di capire e scegliere in modo individuale ce l’ha ognuno. Il problema è solo che, forse, in un caso o nell’altro non viene usato abbastanza. Quindi il problema non è mai che manchi l’arnese: questo sarebbe un rinfacciamento alla grazia divina; sarebbe come dire: il Cristo non è venuto. No, no, il Logos è presente in misura piena dovunque, da duemila anni. Quindi una persona che affermi: io non so pensare più di tanto, dice una menzogna assoluta e l’unica risposta è dire: finisci di poltrire e usalo questo strumento del pensiero, ché ce l’hai. Altrimenti sarebbe una negazione della presenza del Logos. L’incarnazione del Logos significa: ogni essere umano è capace di pensare, e di pensare tutti i fenomeni dell’evoluzione. Che poi ci siano poteri di questo mondo che hanno interesse a obnubilare questa capacità dei singoli, questo senz’altro: sono le controforze necessarie. Ma le controforze non servono come scusa per dire: io non so pensare.

5,40 “voi però non volete venire verso di me per avere la vita.”

Il problema non è che non potete, ma che non volete. Il problema non è mai che il Cristo non ci metta a disposizione la vita, ma è che l’uomo ha in sé tante remore da superare. Un’evoluzione senza superamento di sé, di ciò che come controforza agisce in ognuno di noi, sarebbe un’evoluzione senza libertà, e la libertà sta anche nella possibilità di non superarle. Se io fossi costretto a superarle non sarei nella libertà ma nel dato di necessità di natura. La libertà si può vivere soltanto lottando contro l’inerzia di natura. Quando io non voglio superare l’inerzia di natura perché sono stanco, perché mi costa troppo o perché non ci trovo gusto abbastanza..., chi devo rimproverare? Solo la debolezza della mia volontà. Il Cristo dice: voi non volete. Allora devo sapere che ho sempre la capacità, e ce l’ha ognuno, di rafforzare la volontà: il bene umano consiste nell’impegno quotidiano di vivere tutti gli eventi della giornata come occasioni per rafforzare la volontà.

Penso che quanto ho detto sia una cosa evidente per ognuno: ci sono certe situazioni in cui passiamo magari tre, quattro ore in una fase di dinamismo tale che ci rendiamo conto di godere addirittura dei contraccolpi per l’occasione che ci danno di superare noi stessi. Che ne so?, sto facendo jogging liscio liscio e mi pare poco, allora scelgo un percorso pieno di ostacoli che mi dà più gusto e richiede maggiore impegno... La libertà è l’arte di godere gli ostacoli. Psicologicamente, ogni rammaricarsi delle difficoltà significa povertà interiore; l’alternativa è di considerarle come un complimento che la vita ci fa, e questa posizione psicologica è possibile. Quando io sono nella lamentela, vivo una miseria dietro l’altra; quando invece considero ogni ostacolo come un apprezzamento del mio valore (perché se mi arriva si vede che sono capace di superarlo) la vita è un’altra. E si può vivere la libertà solo se queste due possibilità di reazione (una attiva, l’altra passiva) rimangono sempre aperte per ognuno. La vita è più bella se uno si dice: più difficoltà mi si presentano, più la vita si complimenta con me! Se qualcuno ci viene a dire: guarda, questo lavoro è difficile e allora lo faccio fare a un altro perché tu non sei capace... siamo contenti? Direi proprio di no. Quindi la libertà consiste nel godersi i cosiddetti impedimenti, proprio come la corsa a ostacoli è un godimento maggiorato rispetto alla corsa piana e piatta. Tutta la vita è una corsa a ostacoli.

5,41 “Io non ricevo irradiamento dagli uomini,”.

Δοξα (dòxa) viene tradotto con “gloria”, ma è propriamente “l’irraggiamento dell’Io”. Il Logos dice: l’Io non può ricevere irraggiamento dal di fuori, deve irradiare dal di dentro. L’esperienza del Cristo è quella di creare raggi di pensiero, di amore, di positività, di forza... se uno si aspetta che l’irraggiamento, la bellezza, il rilucere del suo essere gli venga dal di fuori, aspetterà invano. L’Io non riceve onore e bellezza dal di fuori: così va tradotta questa frase. Il valore dell’Io non può venire dall’esterno.

5,42 “ma conosco voi che non avete l’amore di Dio in voi stessi.”

Prendiamo questa frase come una disamina storica: gli ebrei ai quali il Cristo parla siamo tutti noi – siamo stati tutti ebrei, se è vero che ognuno di noi ha passato tutti i gradini dell’evoluzione. Allora il Cristo ci dice: la differenza tra voi, che vivete nel vecchio, e il nuovo che ora comincia, è che voi non sapete dove sia di casa l’amore. Per mille anni vi siete regolati secondo la legge, la sottomissione, il dovere. Ma questo avevate a disposizione: ora vengo io perché subentri qualcosa di diverso e di bello. L’amore è il nuovo, ma voi non lo conoscete. L’evoluzione prima di Cristo conosce un bene che si compie osservando una legge, l’evoluzione col Cristo conosce soltanto un altro tipo di bene, che è ciò che si ama. Bene è unicamente ciò che si ama. E quando l’uomo fa qualcosa che non ama è male, proprio perché manca l’amore. In altre parole, il Cristo dice: l’unico bene morale assoluto e supremo è la forza dell’amore. Questa forza non può venire dal di fuori, ma solo dal di dentro e da lì irraggia. Voi non avete l’amore, è questo che manca. E perciò lo porta lui. Ciò che manca all’evoluzione, fatta di devo, devo, devo, devo..., è il voglio, voglio, voglio, amo, amo, amo... Quando un essere umano ama il bene non ha più bisogno di evitare il male: non “deve” più nulla, fa ciò che ama.

L’amore sostituisce il dovere. È un comandamento nuovo, lo vedremo più avanti, al momento della lavanda dei piedi. Perché “un comandamento” nuovo? L’amore si può comandare? È interessante notare che cosa è successo passando dalle parole del Cristo alle traduzioni nostre di cristianesimo petrino: la parola εντολη (entolè), comandamento, viene da εν-τελος (en-tèlos), “nel fine”; ciò che noi traduciamo “vi do un comandamento”, in greco significa: vi dico in che modo l’essere umano entra dentro alla perfezione finale del suo essere. Come? Attraverso l’amore. È un comandamento, questo? No, è un giudizio conoscitivo. Ti dice: l’uomo è fatto in modo tale che va verso la perfezione del suo essere attraverso l’amore. E se non vuole questa perfezione e decide di non amare, sono affari suoi, può farlo, è liberissimo. Quindi non è un comandamento morale in merito a ciò che “si deve fare”; è come quando io compro una lavastoviglie e trovo allegate le istruzioni per l’uso: sono comandamenti? Mi obbligano a fare qualcosa? No, mi dicono che se voglio che funzioni bene devo trattarla così e così, questa macchina. Il Cristo offre un’istruzione d’uso: se tu vuoi che l’uomo funzioni bene, che entri nella perfezione del suo essere, guarda all’amore. Non t’interessa questa perfezione? Sei libero di non volerla.

Εντολη (entolè) risale al concetto aristotelico fondamentale di entelechìa: εντελεχεια (entelècheia). Vediamo com’è costruita questa parola: εν τελος εχω (en tèlos ècho), εν significa “dentro”, τελος significa “fine” e εχω è il verbo avere, “io ho”. Quindi εντελεχεια significa: avere la perfezione finale dentro di sé. L’entelechìa è il concetto aristotelico dell’Io superiore: è l’essere che porta dentro di sé il dinamismo verso la sua perfezione finale. Entelechìa è una parola che Goethe usa ancora con giubilo, e molto spesso; parla, per esempio, dell’entelechìa del Faust, quando il Faust muore e gli Angeli lo portano in cielo, mentre Mefisto fa di tutto per acchiappargli l’anima, ma gli scappa via. Entelechìa è una parola che c’è, del resto, anche in italiano. Quindi l’irraggiamento dell’essere non viene dal di fuori, non è un dovere cui sottomettersi, ma si vive dentro e nasce dentro. Sono due i principi conduttori dell’evoluzione, dice il Cristo: quello paterno e quello del Figlio. Quello paterno è la pedagogia infantile dove l’uomo è condotto dal di fuori; però questa sottomissione ai consigli del pedagogo non è la perfezione finale, è solo una preparazione a che l’uomo interiorizzi i comandamenti del pedagogo e li faccia suoi, non più per sottomissione ma perché vede che gli fanno bene. Non ammazzare: mi fa bene; non fare immagini di Jahvè: mi fa bene, perché così comincio a capire il puro spirito; non rubare: mi fa bene... e cosa faccio man mano che sperimento che tutte queste indicazioni mi fanno bene? Comincio a volerle da dentro e diventano un amore. Amo questi comandamenti per il bene che fanno a me e agli altri. Allora il Cristo dice: in questo punto di passaggio, dove la vostra evoluzione viene al suo termine, deve sorgere l’amore.

E cosa capiscono gli ebrei (o noi stessi che eravamo là)? Essendo una cosa nuova c’è come una premonizione: da un lato il cuore avverte che, sì, sì, certo che è meglio volere il bene da dentro anziché sottomettersi a una legge; dall’altro la mente dice: però, però, però... se vogliamo questa cosa migliore dobbiamo cambiare qualcosa di grosso... uhm, uhm, uhm... La libertà è sempre l’attrattiva verso il bene che ci chiama e il superamento dell’ostacolo per raggiungerlo. Bisogna sempre lasciarsi dietro qualcosa. Per avere il meglio bisogna lasciare il peggio, e allora sorge la paura che se lascio il peggio, che è comunque l’unica cosa che ho, chi lo sa se poi quel meglio riesco davvero ad acchiapparlo? Quello che lascio lo conosco, ma il nuovo? sarà davvero così bello come sembra? Allora c’è la posizione psicologica che dice: un momento, un momento, lasciamo andare avanti gli altri, poi si vedrà.... Il popolo ebraico ha deciso di lasciar andare avanti i cristiani, però adesso si accorge che i cristiani hanno fatto lo stesso loro ragionamento! Fa parte della natura umana il dover vincere l’inerzia dentro di sé. L’evoluzione nella libertà non è possibile senza una misura di rischio, ma il rischio è la fiducia.

Se spolveriamo la parola “fede” e la rendiamo umana comprendendo che in questa fiducia ci dev’essere una misura di rischio, significa: se è vero che mi attira la libertà e voglio darle fiducia, decido liberamente di rischiare di lasciar dietro di me un assetto dove tutto è assicurato, dove tutto è regolato. In Germania, se uno dovesse leggere tutte le ordinanze e tutte le leggi, avrebbe bisogno di dieci vite contemporanee: tutto è codificato e poi, accanto, si vorrebbe avere anche la libertà! E no! In altre parole, la libertà interiore è il coraggio di non voler codificare tutto, perché altrimenti ci mettiamo legacci intorno al collo e non respira più nessuno. Ma è un rischio... Certo che è un rischio. L’evoluzione appartiene a chi sa rischiare. La Divinità non ha rischiato abbastanza con la nostra libertà? Il bello è proprio godersi il rischio. Se un imprenditore sapesse già in partenza quello che salterà fuori, che imprenditore sarebbe? La stoffa dell’imprendi-tore è nel saper rischiare. E cosa mi permette di rischiare a ragion veduta? L’esperienza di aver le forze per cadere coi piedi in Terra anche dopo un patatrac. Allora rischio. Si può essere liberi soltanto con una certa misura di coraggio, e il coraggio salta fuori man mano che diamo fiducia agli esseri umani. Il Cristo ci sta dicendo: la natura umana è un’inesauribilità di forze. A che serve la paura? Le risorse dell’uomo di orientarsi, di rialzarsi, di andare secondo la realtà e di amare, sono infinite. Siamo stati creati a immagine di Dio, di che cosa abbiamo paura? L’uomo è capace di far fronte a tutte le situazioni umane, altrimenti non le incontrerebbe nel mondo umano. Se sono situazioni umane, l’uomo è capace di rispondere. Ma deve dar fiducia a queste sue forze interiori. Noi abbiamo una cultura che vive da secoli di paure e paure. Vogliamo assicurare tutto: la vita, la malattia, la casa, il paradiso...

Il Cristo dice: l’essenza dello stato di caduta è di non avere l’amore che crea. L’essenza dell’amore è l’esuberanza; la misura giusta appartiene alla giustizia, non all’amore. La forza dell’amore è l’esuberanza. L’essenza della natura umana non è la tirchieria dove ognuno si dà la misura giusta e niente di più; il principio dell’organismo non è la giustizia: ogni organo ha abbastanza per sé e per tutto l’organismo. La natura dell’uomo è perciò un’esuberanza di forze per sé e per gli altri. Questa è la fiducia nell’umano. È andare incontro a ogni altra persona indipendentemente dal colore della faccia, dalla lingua, dalla cultura, guardandolo come essere umano e dire: incontro in te, chiunque tu sia, un’inesauribilità di forze. Questo è vivere insieme come uomini! Se sei un uomo, non ti manca nulla. Hai un infinità di cose belle: basta tirarle fuori. Adesso, dopo l’11 settembre, ci guardiamo in faccia con sospetto: chissà se questo è un terrorista? Avrà una bomba in quella borsa? Esagero un po’, ma dobbiamo stare attenti: riduciamo il sociale a una paura reciproca. Ed è una cosa terribile! Il Cristo sta dicendo: vivere insieme ha senso solo se capiamo che l’impulso primigenio dell’uomo è l’amore. Ma l’amore significa capacità di positività, capacità di favorirci a vicenda a tutti i livelli. Questo è l’impulso: tutto il resto è distorsione della natura umana. Freud, per esempio, non ha capito nulla se pensa che l’impulso fondamentale dell’uomo sia la libido del corpo: significa che l’anima e lo spirito non li ha mai visti. La libido dell’anima e quella dello spirito fanno impallidire la libido del corpo, se uno ne fa la minima esperienza. Perciò i greci avevano tre parole per l’amore: l’amore a livello corporeo è l’eros, ερως, l’amore animico è la φιλια (filìa) e l’amore spirituale è l’ αγαπη (agàpe). Il Cristo, qui, li intende tutti e tre. Il concetto di amore è la positività assoluta dell’essere umano a livello del corpo, dell’anima e dello spirito.

Ce n’è che avanza, per tutti, e possiamo andarci a godere una buona cena!

29 dicembre 2001, sera

Vorrei tornare al versetto 37, perché ho fatto una svista: l’ho riferito al Figlio, e invece è riferito al Padre. Va bene in tutti e due i modi, in effetti, perché se non li conosciamo tutti e due, Padre e Figlio, non conosciamo né l’uno né l’altro. Però riprendiamolo ora riferendolo al Padre. 37 “Il Padre che mi ha mandato, lui dà testimonianza di me: voi non avete mai sentito la sua voce né visto il suo volto”: riferito al Padre vuol dire che l’umanità, prima di Cristo, conosceva solo una divinità che non era il Padre, ma una divinità di popolo. Anche Jahvè è una divinità che regge i destini di un popolo, quello ebraico. Invece il concetto di Padre è quello del Dio che regge l’evoluzione di tutta l’umanità. Il Cristo sta dicendo: guardate che il Dio che voi finora avete venerato esiste, ma non è il Padre di cui io parlo. Quello, voi, non lo conoscete, anche perché è di natura puramente spirituale, non si vede e non si sente a livello fisico. Jahvè si è reso accessibile a Mosè nel roveto ardente, per esempio. Queste divinità che si rendono accessibili attraverso gli elementi sono di natura inferiore – sono Spiriti della Forma, abbiamo detto –, non hanno nulla a che fare col Padre della Trinità. Il Padre divino è oltre il visibile e l’udibile: l’accesso è puramente spirituale. Non avete mai sentito la sua voce e non avete mai visto il suo volto. Il Cristo sta chiedendo agli ebrei di rendersi conto che il loro Jahvè-Elohim non è la divinità suprema e che la Divinità che il Figlio annuncia, il Padre di cui il Figlio porta notizia, è il Padre di tutte le religioni, di tutti i popoli, di tutte le razze, di tutti gli uomini. Questo livello di universalità nel concepire il divino non c’era prima del Logos, e non c’era nemmeno la capacità di concepire il divino in modo puramente spirituale, trascendente ogni qualità particolare di popolo, nazione, razza, impulsi di civiltà nel tempo, ecc. Il Cristo dice: non solo non conoscete il Figlio, ma questo Figlio vi sta parlando di un Padre così universale, così assolutamente spirituale, che voi dovete rendervi conto di non conoscere. Non confondete perciò il vostro Jahvè col Padre di cui Io parlo.

Torniamo ora al versetto 41: “Io non ricevo irraggiamento dagli uomini, ma conosco il vostro essere al quale manca l’amore”. C’è nel redentore la conoscenza del cuore dell’uomo alla svolta dell’evoluzione – e la svolta avviene ogni volta che l’uomo incontra il Cristo –, e sa che si tratta sempre di aggiungere l’amore. Il carattere dell’evoluzione prima del Cristo è la giustizia, il carattere dell’evoluzione con il Cristo è l’amore, che è una sovramisura. Se calcola non è amore, è giustizia. Si potrebbe aggiungere che uno dei grossi problemi sociali del nostro tempo è che la stragrande maggioranza degli uomini pensa che la legge fondamentale del sociale sia la giustizia. Invece non è vero. Se lo fosse, Dio avrebbe dovuto mettere nell’uomo, come impulso fondamentale, la giustizia e non l’amore. Perciò la giustizia non basta: non si può mai mettersi d’accordo sui diritti e i doveri reciproci, perché ognuno vive il suo diritto, ha esperienza diretta di ciò che gli spetta, mentre il diritto dell’altro è una teoria. Quindi nessuno può, a meno che bari con se stesso, dare lo stesso peso a un suo diritto e a quello di un altro. Questo vale per il matrimonio, per i rapporti, vale per ogni tipo di comunità anche a largo raggio: finché gli uomini litigheranno sui diritti e sui doveri pensando di mettersi d’accordo, non si accorderanno. L’unica possibilità di accordo è che ci siano abbastanza persone disposte a dare di più di ciò che è dovuto: allora ci sarà abbastanza per tutti. Solo quando io faccio del tutto per dare all’altro di più di quanto penso che sia nel suo diritto, ho la probabilità che gli basti. Troppo non sarà mai, perché della dedizione altrui ognuno vuol prendere finché può. La struttura mentale della giustizia, registro evolutivo prima del Cristo, dopo Cristo non è più sufficiente.

Il concetto pulito e non sentimentale di amore è la forza interiore, morale, piena di coraggio e fiducia che dice: l’essenza dell’umano è il non calcolare, perché ha energie in esuberanza. Si tratta di godere nello spanderle mettendole a disposizione degli altri. Anche i talenti: bisogna metterli a disposizione senza calcolo, perché se calcoliamo litighiamo. A me sembra proprio che la società umana si trovi adesso a fare i conti col fatto che il passaggio dal pre-cristico al cristico non s’è ancora fatto. Esteriormente siamo duemila anni dopo Cristo, ma come livello di coscienza siamo ancor prima del Cristo, in un certo senso: l’evoluzione in chiave cristica comincia quando si mette al centro dell’evoluzione la forza dell’amore, quella che gode nel dare più del necessario. I fiori a primavera calcolano la quantità dei colori da riversarci davanti? No, e perciò tutti ne abbiamo a profusione, perché non c’è calcolo. Ci salviamo solo così. Se uno comincia a dire: ma io ho dato, dato e dato e mi viene indietro poco poco... è finita. Il fenomeno archetipico dell’amore era (oggi non si sa se lo è più) l’amore della madre per il suo piccolo. Calcola qualcosa? Non calcola nulla. Questa è la logica dell’amore e funziona, funziona benissimo. Di questo tipo di rapporto ne abbiamo bisogno sempre di più se vogliamo che il sociale si salvi. Di nuovo non è un rinfacciamento, non è un rimprovero, ma una constatazione: e proprio per questo il Cristo è l’Essere dell’Amore e viene a portare amore.

5,43 “Io sono venuto nel nome del Padre mio e non mi ricevete; se un altro venisse a nome suo proprio quello lo ricevereste.”

C’è nell’essere umano, e ci deve essere, una resistenza ad accogliere il Cristo. La resistenza ad accogliere la logica dell’amore è che c’è da rischiare, per esempio. Però è una resistenza essenziale, altrimenti non avremmo nulla da superare. Fa parte del fenomeno dell’incontro col Cristo che ci sia una resistenza interiore: io sono venuto nel nome del Padre universale, che supera ogni particolarismo, e voi, siccome siete arroccati e non volete mollare questo vanto di popolo, non mi accogliete. Accogliere il Cristo significa: universalizzarsi, significa togliersi dalla testa che essere italiani sia meglio che essere cinesi. Essere uomo è la cosa migliore che ci sia: questo è accogliere il Cristo. Il Cristo sta dicendo: sia il Padre che il Figlio si accolgono soltanto vincendo in sé quelle zavorre che ci fanno identificare con qualcosa che vuol essere speciale, migliore degli altri. Non ci sono uomini migliori o peggiori: uomo è uomo. Invece i giudei si credevano migliori degli altri popoli, in quanto popolo eletto. Adesso il Cristo chiede di lasciar da parte quest’esperienza di elezione ed entrare nell’universalità. È un vincere se stessi non da poco. Io sono venuto in nome del Padre che individualizza se stesso dentro ogni essere umano, e voi non mi accogliete. Io non sono venuto a nome mio, ma ad annunciare il compimento della volontà del Padre di tutti gli uomini, del Padre universale, e proprio per questo non mi accogliete. Se qualcuno venisse a nome di un impulso particolare, nel quale vi riconosceste, allora sì che lo ricevereste perché confermerebbe il vostro particolarismo e settarismo, che chiude in una piccola cerchia i buoni, quelli che stanno avanti.

5,44 “Come potete voi rafforzarvi interiormente se ricevete gloria gli uni dagli altri e non cercate il valore della persona umana che proviene dall’unico Dio?” Come ci si può rafforzare grazie all’immanenza del Cristo in noi se andiamo in cerca di una gloria, di un riconoscimento che venga dal di fuori? Intende dire: o uno cerca un riconoscimento, un avallo esteriore del suo essere che gli venga dagli altri, oppure cerca il proprio valore interiore, che è puramente spirituale. A che serve che qualcuno mi dica dal di fuori: quanto sei bravo! se io so che non è vero, che interiormente non sto facendo nulla per crescere, per camminare nella forza del pensiero, nella ricerca della verità, nell’esercizio dell’amore? Qui il Cristo aggiunge al Dio la parola μονος (mònos), parla di un Padre che è uno, unico e unitario di tutta l’umanità. Cercare la gloria di questo Dio Padre unico, significa costruire dal di dentro la dignità che è propria di ogni uomo in quanto uomo, indipendentemente dal popolo, dalla religione, dalla razza.

5,45 “Non pensate che io vi soppeserò (accuserò) presso il Padre, perché già c’è colui che vi soppesa, Mosè, in cui voi riponete la vostra speranza.”

Non c’è bisogno che venga io a setacciarvi, ad accusarvi, a mostrarvi il vostro poco peso, la vostra identità: basta Mosè.

5,46 “Se infatti voi credeste in Mosè, credereste in me; infatti lui ha scritto di me.”

Questo è uno dei versetti più difficili per i teologi, perché si chiedono: quando e dove Mosè ha parlato del Cristo? Mosè, infatti, parla di Jahvè, non del Cristo. Ma quando Mosè, ricevuti i comandamenti, vuol sapere il nome di colui che gli è apparso, la risposta è: Ajèh aschèr ejèh, Io sono colui che sono, che ero e che sarò (indicando la durata dell’autoidentità nel tempo). Jah-vè significa più semplicemente “Io sono”. Chi è che parla con Mosè?

I. Se è l’Io sono è il Cristo.

A. Lo stesso che sta parlando adesso? Attenzione: dobbiamo sapere che ci sono due manifestazioni fondamentali del Cristo, una di riflesso e l’altra sostanziale. Così come il Sole irradia e la Luna riflette la sua luce, Jahvè ha portato nell’umanità, attraverso la porta di questo popolo, un riflesso, una prima coscienza del misterioso Essere solare. Il nome è lo stesso, perché quando arriverà sulla Terra il Cristo chiamerà se stesso Εγω ειμι (Egò eimì), Io sono, che in ebraico si dice Jahvè. Però c’è una bella differenza tra l’avere un riflesso della luce del Cristo e l’avere il Cristo direttamente operante. In altre parole, il Cristo comunica a Mosè il concetto del suo Essere e comunicandoglielo preannuncia la sua venuta. Secoli dopo, alla svolta dei tempi, sarà lui stesso a venire. Quindi Jahvè è un primo inizio di conoscenza, nella coscienza umana, dell’Essere solare: nasce una coscienza propedeutica alla sua venuta. Il Logos si annuncia dando il suo nome, e Mosè riceve contenuti di coscienza; tornando giù dal monte, non può dire: ecco, è con me l’Io Sono. No. Mosè dice: dove sia non lo so, ma di lui m’è rimasto un contenuto di coscienza. È importante tutto questo come presupposto dell’incarnazione del Cristo, perché ora il Cristo può dire: non vi manca più un solo aggancio per capire ciò che vi sto dicendo, perché se non vi opponete interiormente vedrete che l’essere mio è stato preannunciato da Mosè. Di me lui ha scritto. Ai giudei viene chiesto di comprendere che l’Essere che ha parlato con Mosè è lo stesso che sta ora parlando con loro. Il modo è però del tutto diverso: a Mosè ha comunicato una prima conoscenza, quella del suo nome. Il nome è un’essenza, è un essere, ma Mosè ne ha portato giù solo la conoscenza. Adesso si trovano di fronte l’Essere. Quindi uno degli aspetti fondamentali della missione del popolo ebraico è quella di aver fatto sorgere nell’umanità la coscienza dell’Io. Non sottovalutiamo questo compito, perché senza un minimo di coscienza del fatto che c’è un modo d’essere nel cosmo che dice “Io sono un Io”, l’umanità non avrebbe avuto nessuna possibilità, nemmeno nei suoi esemplari più alti, di riconoscere la presenza reale e l’operare reale di questo stesso Essere. Perciò il popolo ebraico è stato l’unico ad avere una divinità di riferimento chiamata Io Sono, Jahvè., a significare che il senso di tutta l’evoluzione è l’acquisizione da parte del singolo di questa forza divina che sorge dal di dentro, la forza di sentirsi un essere spirituale autonomo nel pensare, nell’amare e nel volere. Io sono un Io. Questa divinità viene interiorizzata e allora la legge del pensare, dell’amare e dell’operare nel mondo sorge dal di dentro: i miei pensieri li creo io, i miei impulsi d’amore e di volontà sgorgano da me.

5,47 “Ma se non credete alla sua Scrittura come potrete credere alle mie parole?”

Anche la Scrittura, la Torà, fa parte di questo cammino di coscienza. La Scrittura non è un essere vivente che parla e fa, ma è qualcosa che si legge e poi si riflette nella coscienza. Se non credete alla Scrittura non potete credere alla realtà di cui parla la Scrittura. La Scrittura serviva a darvi una rappresentazione per permettervi poi di riconoscere l’Entità reale, quando sarebbe venuta. Io sono la realtà del contenuto di coscienza che è nelle vostre Scritture, quindi se non credete a Mosè, non potete riconoscermi. Il Cristo si presenta come il compimento reale e sostanziale delle Scritture. La Scrittura è morta e la parola, il Logos, è vivente: la scrittura morta scrive di questo essere dell’Io, ma sentire la parola vivente è ancora più difficile. Γραμματα (gràmmata) e ρηματα (rèmata): le lettere scritte e le parole viventi; sono diverse, ma si corrispondono. Se uno non capisce le une non capisce nemmeno le altre.

E con qui si conclude questo lungo, forte, sostenuto discorso, il primo che il Cristo fa ai giudei e che è di una rivoluzionarietà immensa. Non soltanto mette in questione il loro concetto di divinità riferendosi a un Padre universale, ma addirittura porta in campo il Figlio di questo Padre con tutta la sua fenomenologia di svolta, che inverte la direzione evolutiva. Tutto cambia ma tutto corrisponde: la risalita, la seconda parte dell’evoluzione condotta dal Figlio, corrisponde in modo speculare alla discesa, condotta dal Padre. Nella prima parte c’è tutto il seminare, nella seconda c’è il mietere ciò che è stato seminato. Già in questo quinto capitolo, sul quale si potrebbe meditare per anni interi, ci sono i parametri fondamentali dell’evoluzione dell’umanità, con la sua andata e il suo ritorno. La discesa, l’andata, è l’inserirsi sempre più profondamente nel dato di natura e la risalita è di trasformare a brano a brano ciò che è dato di natura in esperienza di libertà.

Passiamo al capitolo sesto.

Capitolo sesto

6,1 “Dopo queste cose, Gesù andò al di là del lago di Galilea, il lago di Tiberiade.”

Da Gerusalemme, dove aveva compiuto il segno del paralitico – e tutto il capitolo quinto è un commento al segno compiuto – Gesù va in Galilea. Senza descrivere il passaggio per la Samaria, veniamo trasportati, come in un salto, dalla Giudea in Galilea. In Giudea è avvenuto il lungo discorso del rapporto tra il Padre universale e il Figlio individualizzato: fa parte della polarità che il Padre di tutto l’umano, proprio perché è universale e rappresenta ciò che tutti abbiamo in comune, mandi un Figlio che ci individualizza tutti in un modo unico. In altre parole, cos’è che tutti noi abbiamo in comune? L’essere tutti unici e diversi. È l’unica cosa. Il mistero dell’universale e dell’individuale unico si richiamano a vicenda: la caratteristica fondamentale di essere unici ce l’abbiamo tutti in comune. Siamo tutti uguali nel non essere assolutamente uguali. Il lato di comunanza universale viene espresso con la parola “Padre” e il lato di individualità unica e irripetibile viene espresso nella parola “Figlio”, la Divinità che si manifesta come la scintilla dell’Io in ognuno diversa. Ognuno può dire di sé: sono unico, diverso da tutti gli altri.

Il mistero dell’umano è paradossale e si può esprimere solo per paradossi: vive di ciò che è universale e l’universalmente valido è l’individualizzazione ultima, dove non resta più nessun gruppo. Qual è il male morale intrinseco a ogni gruppo? È che per natura sua deve escludere qualcuno: perciò ogni realtà di gruppo è fatta per venir superata. L’unico gruppo cristico è l’intera umanità, dove non si esclude nessuno, e l’unica unità cristica è il singolo che esclude tutti. Questa duplice qualità cristica ognuno di noi ce l’ha. Quando incontriamo oggi realtà di gruppo che diventano parte dell’identità interiore delle persone che lo costituiscono – a meno che non siano gruppi di carattere organizzativo, e allora non toccano l’identità interiore della persona – possiamo star sicuri che ci sono sempre impulsi ritardatari, pre-cristici e che diventano sempre più anti-cristici. Essere cristiani significa avere l’occhio desto, una specie di organo di percezione per tutto ciò che è settario e tende ad escludere, perché ogni esclusione dell’umano è la negazione dell’amore. L’amore cristiano o è universale o non è amore. Se l’umanità è un organismo unico, come posso amarne solo una parte? È come se del mio organismo amassi solo i polmoni e il fegato, e il resto non mi interessasse. È un assurdo. L’umanità o si ama tutta o non si ama nessuno, o si ama tutta l’umanità o l’amore non c’è. Un amore che escluda è una contraddizione, non è amore.

Questi tipi di ragionamento mica mi fanno pensare alla teologia: mi fanno pensare a mia mamma. Adesso mi sembra di star dicendo cose che sentivo quand’ero piccolo. Se veniva alla porta di casa un ubriaco, o un mendicante, lei gli dava il pezzo più grosso di polenta e ci diceva: è il Signore viene a visitarci. E noi eravamo tutti contenti – certo guardavamo pure se restava abbastanza polenta per noi – però eravamo felici, felici di dare al Cristo un bel pezzo di polenta ed eravamo convinti: quello è il Cristo. Proprio convinti. Che bello, è venuto a visitarci! Sono cresciuto così, in quest’universale. Poi, avevo nove anni e mezzo, ecco che arrivano due missionari: raccolgono un po’ di noi bambini, ci fanno una predica sulla loro missione in Africa e dicono che c’erano tanti negretti, laggiù, che non conoscevano il Cristo. Io piangevo, piangevo... Poi chiedono: chi di voi vuol farsi missionario per portare il Cristo a queste persone? E io, piccolo com’ero – immaginate quello che m’aveva dato mia mamma col latte – alzo la mano e dico: io, io, io! Dopo sei mesi passo dalla provincia di Brescia a quella di Treviso a fare il monachino per portare il Cristo a quella gente là. La mia vita è stata così. E ringrazio mia madre perché in questo amore universale per lei il problema era solo uno: come si fa a vivere senza il Cristo? Poi ho fatto otto, nove anni a Roma e per diversi anni ero l’unico italiano in mezzo a gente di ogni nazione che m’ha aiutato a imparare un po’ di lingue. C’erano studenti dalla pelle di ogni colore, ma non mi sono mai sembrati diversi per quel motivo. Vado in Sudafrica, dopo, e mi costringono a diventare razzista perché spesso c’erano riunioni solo per i neri. Io volevo partecipare, ma non c’era verso: No, tu sei bianco, non hai il colore giusto... Vi ho raccontato queste cose perché ognuno di noi, per vie diverse, vive questo mistero dell’umanità che aspetta di diventare una. Lo vive! Se non superiamo le barriere di popolo e di cultura, il cristianesimo non viene. Il cristianesimo è universalità, è mettere in primo piano quello che abbiamo tutti in comune, tirarlo fuori da ogni persona insieme a ciò che è individuale e unico. Basta con i gruppi! In un salmo che cantavamo si diceva: i confini fra le nazioni sono muri di carta velina.

6,2 “Lo accompagnava molta folla perché avevano visto i segni che aveva compiuto sui deboli (sugli infermi).”

Non vuol dire senz’altro che qui si tratti di una folla fisica; indica una realtà di gruppo, dove gli esseri umani ancora aspettano di venire individualizzati. Quindi accompagnano il Cristo, nel senso che sentono attrattiva verso di lui perché desiderano uscire dal pecorume, dal gregge delle cento pecore, e diventare quella pecora che fa dei passi suoi, individuali. Quindi, la folla lo segue, l’anima di gruppo lo segue perché dice: questo cerchiamo. Anima di gruppo significa: quando tutto va bene ognuno ha il merito, quando tutto va male nessuno ha la colpa. Questa esperienza duplicemente negativa di attribuire a sé troppo bene e di attribuire agli altri troppo male, fa sorgere il desiderio di individualizzarsi, di seguire il Cristo. Così ognuno può attribuire a sé il bene che è suo e a sé il male che è suo. Avevano avuto un primo sentore che l’operare del Cristo viene incontro alla debolezza umana per corroborare l’Io. Ogni malattia, ogni tipo di infermità consiste nel lasciarsi andare all’elemento di natura: hanno visto che col Cristo si manifesta una forza nuova grazie alla quale l’uomo può diventare forte nel suo essere. Il termine greco per malati è ασθενεις (asthenèis), lo ripeto, che significa “essere deboli”. Quindi l’uomo ancora inserito nella spiritualità di gruppo cerca la forza dell’Io che rinvigorisce dal di dentro e toglie la dipendenza.

6,3 “Gesù salì sul monte e si sedette colà con i suoi discepoli.”

Il testo non dice su “un” monte, ma “sul” monte, e questo già ci fa pensare che non si tratti necessariamente di un evento fisico o che comunque il salire fisico è solo per creare il presupposto a un altro tipo di innalzamento.

6,4 “Infatti era vicina la pasqua dei giudei.”

Vi ho anticipato che parlando della cosiddetta moltiplicazione dei pani – che poi non è una moltiplicazione dei pani – ci viene indicata non l’ora del giorno in cui avviene, né il giorno della settimana, ma la festa dell’anno. Con la Pasqua ci viene indicato un punto nel ciclo annuale. La guarigione del paralitico è in relazione a un giorno del ciclo settimanale, il sabato, e con la guarigione del servo del re viene indicata un’ora nel ciclo delle ventiquattro ore giornaliere. Vediamo adesso quante belle cose il vangelo ci dà. La moltiplicazione dei pani è un evento che riflette sulla Terra i misteri dello Zodiaco, il sabato del paralitico è un’esperienza sulla Terra dei misteri del sistema planetario e l’ora del giorno, come nel caso della guarigione del servo del re, è un evento in prospettiva dei misteri della Terra. Nella festa di Pasqua siamo all’equinozio di primavera e il Sole, a quei tempi, sorgeva nell’Ariete. Dopo l’Ariete, andando indietro perché siamo nella precessione degli equinozi, c’è il segno dei Pesci. La precessione degli equinozi vuol dire che dopo 365 giorni il Sole non sorge nello stesso identico punto dell’anno prima, ma un po’ più indietro; anno dopo anno, dopo 2160 anni, sorge più indietro di in un intero segno; adesso, per esempio, va verso l’Acquario. Il Sole, per fare tutto il giro dello Zodiaco e ritornare a sorgere alle sei di mattina del 21 marzo esattamente allo stesso punto dello Zodiaco, impiega 25920 anni, il famoso anno platonico.

I. Ma nell’Acquario quando andiamo?

A. È un po’ complicato rispondere perché i dodici segni, presi matematicamente, occupano ognuno 30 gradi nel cerchio dello Zodiaco; ma siccome il cosmo è qualitativo, alcuni segni durano più a lungo e altri di meno. Allora le cose si complicano. Resta però il fatto fondamentale che ogni 2160 anni tutti i fattori storico-culturali cambiano profondamente per dare agli uomini una nuova possibilità di impulsi evolutivi. Parlando in modo che non presupponga la reincarnazione, una delle domande che ci si potrebbe porre è questa: non sarebbe bello se l’amore divino, che è così dovizioso, desse a ogni spirito umano la possibilità di partecipare a tutta l’evoluzione? In questa prospettiva dell’esuberanza dell’amore divino, cozza l’idea che ognuno di noi viva in Terra solo per qualche striminzito decennio (se ci va bene, perché qualcuno muore bambino). Molto più convincente è che quest’amore divino, così generoso, dia ad ogni spirito umano la possibilità di incarnarsi sulla Terra ogni volta che i fattori culturali si fanno così diversi da consentire nuovi passi evolutivi per la coscienza. Ogni 2160 anni c’è un profondo, radicale cambiamento delle chances evolutive offerte all’uomo; e siccome l’esistenza viene vissuta in modo profondamente diverso a seconda che si sia maschi o femmine – non sia mai che il carattere nuovo di ogni epoca venga vissuto nella sola unilateralità del maschile o del femminile! – nell’arco di 2160 anni ognuno di noi ha la possibilità di incarnarsi una volta come maschio, un’altra come femmina. La media fra un’incarnazione e l’altra è dunque di circa mille anni. Cosa che potete leggere in Platone, per esempio. Alla fine della Repubblica c’è il mito di Er...

I. Ma le cose cambiano molto, ma molto prima di 2160 anni!

A. Adesso c’è in molti uomini la tendenza ad accorciare i tempi...

I. Ma di molto! Immagina tu fra mille anni come sarà rispetto ad ora.

A. Guarda che tu stai fissandoti su mutamenti puramente esterni. Quel che conta sono le condizioni evolutive della coscienza umana.

I. Ma quante volte tu hai detto: prendiamo il caso attuale della presenza dei computer nella nostra epoca... È una condizione contestuale che ci dà opportunità che appena cinquant’anni fa non c’erano, e fra cinquant’anni chissà che ci sarà! Altro che 2160 anni.

A. Le condizioni di coscienza che hanno preparato, portato in auge e poi, si spera, supereranno il materialismo (di cui il computer è un fenomeno), abbracciano un arco di tempo di 2160 anni.

I. Scusate, che diceva Platone nel mito di Er?

A. Stavo dicendo che ci sono scrittori antichi che identificano Er con Zarathustra – quindi è chiaro che si tratta di un mito che proviene dall’era persiana la cui cultura aveva profondissime conoscenze astronomiche e astrologiche. Questo ciclo dei 2160 anni era conosciuto, ovviamente, e in più c’era il mito di Er dove si parlava del continuo ritornare delle anime umane sulla Terra. Come la concepissero non è importante, ma è significativo che la reincarnazione fosse data per scontata; viene poi persa di vista in Aristotele che, pur non negandola, non ne parla. In Platone, invece, c’è il mito di Er dove è detto che passano mille anni fra un’incarnazione e l’altra. Ci sono alcuni che pensano che sul ciclo dei mille anni il primo a pronunciarsi sia stato Steiner: invece no, queste cose si sapevano già da millenni, ma siccome dovevano essere messe in sordina in modo da dare all’individualità umana la possibilità di riscoprirle in proprio, non sono state divulgate. Le trovate soprattutto in Platone, alla fine del decimo libro della Repubblica.

I. Ma perché, se siamo nell’epoca dei Pesci, si dice in giro da molte parti che siamo nell’era dell’Acquario?

A. Perché quelli che magari non hanno capito bene quello che c’è da fare ora, preannunciano quello che ci sarà da fare poi, e così non fanno niente! Domani riprenderemo il testo e vedremo come si riallaccia a quanto abbiamo detto: ci servirà in modo assoluto la prospettiva dello Zodiaco. Al versetto 4 è detto che Gesù si sedette sulla montagna con i dodici apostoli: ciò significa che gli apostoli vengono trasportati a un livello di coscienza più alto (la montagna) e il Cristo viene vissuto come maestro. Quando un maestro insegna si siede sulla cattedra: il sedersi indica un ammaestramento. Ciò che fisicamente succede è lasciato libero a ognuno di immaginarselo: ma le immagini indicano eventi spirituali. Salgono a un livello di coscienza di maggiore attenzione e concentrazione, anche di maggiore comunione col Cristo. È un particolare momento di cristificazione dei dodici.

Nei dodici apostoli c’è il precipitato delle dodici forze primigenie di tutto il divenire della Terra: lo Zodiaco rappresenta i dodici impulsi fondamentali che, insieme, rappresentano la totalità del divenire. È la totalità dell’eternità che crea il tempo. Ciò che noi nel tempo viviamo in successione, una cosa dopo l’altra, nell’eternità è compresente: una cosa accanto all’altra. Lo Zodiaco rappresenta la compresenza nella coscienza divina dei dodici grandi impulsi evolutivi che noi viviamo in successione. Ogni volta che compare il dodici fra gli uomini – le dodici tribù di Israele, i dodici cavalieri della Tavola Rotonda, ecc. – è sempre come un piccolo concentrato di spiritualità degli impulsi evolutivi di ognuno dei segni dello Zodiaco. Sapere a quale segno zodiacale ogni apostolo corrisponda, è un lavoro del futuro: speculare non serve a nulla. In base agli accenni dei vangeli sappiamo solo qualcosa: che lo Scorpione rappresenta il segno che dà le forze di morte, per esempio. Se negli impulsi cosmici non ci fossero anche forze di morte, non potrebbe risorgere nulla; dallo Scorpione vengono immesse nella Terra tutte le forze che portano a morte gli esseri terreni per dare la possibilità allo spirito di risorgere. Giuda è tra i dodici colui che racchiude in sé gli impulsi dello Scorpione: dà la morte. Il significato del tradimento è che quello era il suo compito; se non ci fosse stato uno a tradire, il Cristo non avrebbe potuto morire e non ci sarebbe stata la resurrezione. Perché un solo segno per le forze di morte? Perché si muore in un modo solo mentre si vive in undici modi diversi? Che gli impulsi della vita siano pluriformi, ci è più facile capirlo: ma perché il morire è uno solo?

I. Perché è solo assenza di vita.

I. Perché non c’è scelta.

I. Perché la materia è una sola.

A. Ci sono modi diversi di distruggere? No. Ci sono modi diversi di costruire? Sì. Ecco la differenza. Di Giuda e di Scorpione ne basta uno solo. Ma non è un segno negativo, eh? Gli altri sono i segni costruttivi, questo è il segno distruttivo, quale presupposto per tutte le altre costruzioni: perché se ciò che nasce sulla Terra non muore, non fa posto al successivo. Domani continueremo col testo. Ci sono altre domande?

I. Non ho capito bene l’equinozio.

A. È il giorno dell’anno in cui notte e giorno hanno la stessa durata. Nel solstizio d’estate il giorno è molto più lungo della notte, in quello d’inverno la notte è molto più lunga del giorno e nei due equinozi, di primavera e d’autunno, giorno e notte si equivalgono (aequinoctium). Solstizio vuol dire: Sole che sta. Che si ferma. Il Sole sale, sale, sale e poi scende, scende, scende, e poi sale, sale, sale... Può salire e scendere senza fermarsi?

I. C’è un momento di stallo quando cambia direzione.

A. Un’inversione di marcia è una discontinuità o una continuità? Se uno volesse esser cavilloso, matematicamente potrebbe dire: il salire e lo scendere si possono capire anche in termini di continuità. Però è un’astrazione. Nel vissuto, quando per esempio prima vivo un amore, un amicizia, e poi ci si comincia a odiare a vicenda, l’odio è la continuazione dell’amore? No. E per invertire ci deve essere un punto morto. L’evoluzione non ha solo continuità, ma anche inversioni di marcia e ogni volta che c’è un’inversione c’è un punto fermo, che è il morire. Non è che il vecchio proceda e proceda fino a diventare diverso e nuovo: no, muore. E il nuovo comincia. Questo mistero della discontinuità veniva indicato col segno del Cancro, il punto in cui il Sole è più in alto.

fig_3b.psd

La cosa più importante di questo simbolo del Cancro è lo spazio fra le due mezze spirali a significare la soluzione di continuità: qualcosa finisce e un’altra comincia. È discontinuo, dunque. Dev’esserci un punto morto.

I. Cosa festeggiava la festa di pasqua degli Ebrei?

A. La liberazione dall’Egitto. Il passaggio dalla schiavitù alla libertà.

Auguro a tutti una buona notte.

30 dicembre 2001, mattina

Ho già accennato, a proposito dei sette segni del vangelo di Giovanni, che tutto ciò che avviene nel tempo si struttura secondo il 7, in settenari; invece quel che è in funzione dello spazio ha a che fare col 12 (o 24, o due volte 6, o tre volte 4, o quattro volte 3... tutti multipli o sottomultipli del 12). Per ogni immagine dell’eternità, dove non si tratta di cose poste in successione ma in contemporaneità, si usa il 12, variamente composto: anche 7 e 5, come vedremo, la cui somma è 12. L’Apocalisse, che narra i misteri dell’evoluzione nel tempo, è tutta strutturata secondo il 7: le 7 lettere alle 7 chiese, i 7 sigilli, le 7 trombe e le 7 coppe dell’ira. Quindi quattro settenari che strutturano l’Apocalisse dall’inizio alla fine. Perché? Il motivo per cui ciò che avviene nel tempo è più fruttuoso e consono alla realtà trattarlo secondo il 7, dipende dal fatto che l’evoluzione nel tempo va proprio di 7 passi in 7 passi. (vedi fig. 19 del fascicolo I - N.d.T.)

1. L’inizio. Si comincia. Se questo inizio non subisce alcuna variazione non succede nulla, non c’è il tempo. Per avere il tempo devo far evolvere talmente l’1 da arrivare a una realtà sostanzialmente diversa, opposta.

2. È la polarità. 1 e 2 devono avere un rapporto polare. La cultura indiana, la prima della nostra epoca evolutiva, era fondata sull’unità: Brahaman e Athman sono una cosa sola. Arrivano poi i persiani, 2160 anni dopo – quindi ritorna l’elemento del dodici (2160x12) che avevamo visto per lo Zodiaco, ma sono qui sette dei dodici, intesi uno dopo l’altro – e dicono: siamo stufi di questa spiritualità indiana, facciamo qualcosa di diverso. Il Sole era prima nel Cancro e ora passa nei Gemelli, che parlano di polarità. E Zarathustra avvia una meravigliosa cultura tutta fondata sulla polarità: luce-tenebra, bene-male. La lotta. Cosa è successo? Si è andati avanti nel tempo. Nel dodici non cambia mai nulla perché gli impulsi cosmici sono sempre tutti compresenti: sono le stelle fisse; invece i sette pianeti sono sempre in posizioni diverse e sono l’immagine del tempo, del rinnovarsi. Una volta che la polarità s’è instaurata sorge la voglia di mediare. Ed ecco il terzo passo.

3. La mediazione. Il tre può sorgere solo nel contesto di una polarità, altrimenti sarebbe l’inizio di un altro processo, oppure si tratterebbe ancora di aspetti polari. Solo quando ho due realtà opposte, che finora hanno cozzato, si può provare a veder se ci sono elementi di accordo. Il terzo è sempre – faccio un po’ di filosofia hegeliana diluita – una sintesi tra tesi e antitesi. Quando ho la sintesi non manca nulla. Se voglio altro devo ricominciare da capo con un’altra tesi, la sua antitesi e un’altra sintesi. I pensatori medievali, gli scolastici, avevano un adagio: omne trinum est perfectum. Sono passi del pensare umano molto belli. Dopo la cultura di Zarathustra c’è stata la cultura egizia: il Sole non è più nei Gemelli, ma nel Toro. E proprio nella cultura del Toro sono nate tutte le trinità. Tutte. Osiride, Iside, Oro è la grande trinità egiziana. In Zarathustra la trinità proprio non esiste, quella persiana è una cultura duale di lotta fra gli opposti. Chi ha ragione, fra 1, 2 e 3? Tutti e tre hanno ragione. Ci sono fenomeni che sono più consoni all’unità, altri fenomeni evolutivi si comprendono meglio considerandoli quali lotta fra opposti e ce ne sono altri che si capiscono meglio come due polarità col movimento in mezzo. Per il pensiero è importantissimo sapere quale strumento strutturale è migliore. Se io ho un fenomeno di lotta, come faccio a sapere se si tratta di conciliare o di scegliere? Come si fa a sapere quando la conciliazione sarebbe un compromesso per la genuinità dei due poli e quando invece sarebbe una fruttuosa mediazione? Come faccio a sapere che se cerco di mediare sto barando con la mia coscienza, per esempio? Quando si tratta del bene e del male: lì bisogna distinguere. L’uno esclude l’altro. Il maschile e il femminile non sono un’esclusione reciproca, sono una polarità. Sono compossibili e la vita è più bella: è un tira e molla continuo, ma basta divertirsi.

Ci sono quindi nell’evoluzione sempre di nuovo fenomeni che vanno capiti in chiave di unità, di dualità, di trinità. L’essere umano è uno, è due o è tre? Tutti e tre. È uno in quanto spirito, e allora è stupido tirar fuori le polarità, se voglio considerare l’unità. Se invece voglio vedere le polarità, posso considerare forze della testa e forze del tronco, per esempio, e allora mi metto nell’ottica del 2. Però posso distinguere l’uomo anche secondo il 3: testa, tronco e arti: pensare, sentire e volere... allora faccio un tutt’altro percorso dove altri elementi vengono approfonditi. Allora, ho fatto tre passi: è finita l’evoluzione? No, bisogna che salti fuori un quarto tipo di cultura, un quarto tipo di costellazione di fattori evolutivi che non assomigli a nessuna delle tre precedenti, ma stia un po’ a sé.

4. La transizione, la svolta. La cultura indiana, quella persiana e quella egiziana – vedete che ora le prendo insieme? – hanno in comune l’aver considerato reale lo spirituale. La quarta è la cultura greca, quella dove il Sole entra nella costellazione dell’Ariete, e non ha nulla a che fare con le precedenti: non ne è un proseguimento nel senso che – evidenzio ora solo un aspetto fondamentale – i greci sono i primi a cadere definitivamente giù nel mondo fisico, a sentirsi a casa propria nel mondo fisico. È la prima cultura di incarnazione totale e perciò la Divinità stessa, se vuol raggiungere gli esseri umani, deve scendere sulla Terra. Quindi l’incarnazione del Verbo è concepibile solo in questa cultura. Prima sarebbe stato assurdo che lo spirito venisse a farsi vedere nella materia, che era considerata un nulla dalla coscienza umana, una maya. Sarebbe stata una contraddizione assoluta. Invece la quarta è proprio l’epoca adatta alla manifestazione fisica della divinità: per il greco la divinità deve farsi vedere. Un Giove, un’Atena, un Mercurio che non si facessero vedere che dèi sarebbero? Andando avanti, dopo la svolta del 4 si ha come un recupero, ad un livello più alto, dei primi tre passi evolutivi.

5. È il 3 rispecchiato a un altro livello e modificato (è il nostro periodo di cultura).

6. È il 2 rispecchiato a un altro livello e modificato.

7. È l’1 rispecchiato a un altro livello e modificato

Ecco la struttura settenaria del tempo. La nostra cultura, la quinta, è iniziata nel XV secolo – esattamente nel 1413, se mettiamo la fondazione di Roma al 747 a.C. (infatti 747+1413 = 2160, durata di ogni periodo di cultura). Se aggiungiamo a 1413 altri 2160 anni arriviamo al 3573, anno in cui il Sole passerà nell’Acquario. Se uno chiedesse: mi dai una chiave di lettura fondamentale dei fenomeni culturali comuni a tutte le civiltà umane del quinto periodo di cultura?, potremmo rispondere: guarda alla cultura egizia, speculare alla nostra. Considerare tutti i fenomeni della cultura egizia, però sapendoli invertire. Se volete sapere come si fa, basta leggere una cinquantina di volumi dell’Opera Omnia di Steiner e s’impara, un po’ alla volta. Ma già quest’indicazione di fondo è importantissima.

I. Puoi fare un esempio di inversione?

A. Per esempio: onorare l’autonomia eretta dell’Io è il rovellìo interiore, la lotta e controlotta dell’Io di ognuno di noi, in questa nostra cultura. È il carattere fondamentale del nostro tempo, del nostro quinto periodo. Nel terzo, a specchio, abbiamo l’obelisco esteriore: nella cultura egiziana c’è il mistero delle forze di erezione che vengono dalla Terra. La nostra invece è una chiamata morale, è l’impegno di considerare sacro l’Io di ognuno che si manifesta nella posizione eretta del suo corpo. Oppure, prendiamo il mistero del continuare a vivere dopo la morte: avete presente in quante variazioni lo abbiamo affrontato in questi giorni? Se io mi vivo nella vita come uno spirito che usa tutto ciò che è corporeo come strumento, non sono solo il risultato automatico di ciò che la natura è in me, ma sono uno spirito anche senza corpo. Dov’è nella cultura egiziana questa grande, atavica aspirazione all’immortalità, a vincere il mistero della morte? L’epopea di Ghilgamesh, datata 2800 a.C., tratta il primo scontro col mistero della morte. Prima ancora si comunicava con i morti: nel terzo millennio a.C. questa capacità già non c’è più. Sparito il corpo, sparito l’essere umano. A Ghilgamesh muore l’amico Enkìdu (chiamato Eàbani dai Sumeri) e, disperato, va da Utnapischtim, che è il Noè della cultura assiro-babilonese, a farsi dire come si fa ad essere immortali. Da questa tensione verso i misteri della morte prende avvìo il fenomeno egizio della mummificazione dei corpi per dire all’uomo: guarda che anche dopo la morte la tua casa l’avrai, te la conserviamo imbalsamata. Il nostro periodo di cultura, specularmente, ci chiede di diventare immortali senza mantenere il riferimento fisso al corpo di materia. Il volume 105 dell’Opera Omnia sui miti egiziani è pieno di spunti bellissimi.

Allora, stiamo al VI capitolo, alla cosiddetta moltiplicazione dei pani, che è il quarto segno. In che cosa consiste il carattere di svolta che il quarto segno porta in sé in questo settenario? Quando il Cristo si è incarnato, nel quarto periodo di cultura, la svolta è consistita nel fatto che ha messo sul chi va là, sull’attenti, tutte le Gerarchie celesti. Questa è la svolta. Ha dichiarato a tutti gli esseri celesti: vado dagli uomini. Il Cristo, incarnandosi, ha mostrato nel cosmo il peso morale dell’umanità, e ha diviso in due tutte le Gerarchie angeliche: da una parte quelle che si sono cristificate e quindi hanno accettato che l’uomo fosse al centro dell’evoluzione in cui ci troviamo e che l’Essere solare tornasse sulla Terra per fare della Terra il nuovo Sole, il Sole futuro del sistema planetario; dall’altra parte si sono schierate tutte le Gerarchie che hanno detto: no, non ci sto. Ecco il carattere di svolta. Steiner dice: l’essere arcangelico Gabriele, come lo chiama Maometto, che ha ispirato il Corano è una Elohà (uno degli Elohim) che invece di andare col Cristo è rimasto nell’impulso del Vecchio Testamento. Quindi la sorgente dell’ispirazione del Corano è un Essere gerarchico che, posto di fronte alla svolta che il Cristo compie con la sua incarnazione, ha deciso di restare al tempo prima di Cristo. Però, immettendo nell’umanità una spiritualità pre-cristica dopo l’evento del Cristo, essa diventa anti-cristica. E queste controforze ci vogliono, altrimenti il quattro non sarebbe una svolta. Nelle tre conferenze La conduzione dell’uomo e dell’umanità O.O.15, è detto che l’incarnazione del Cristo è stato il criterio di divisione in due di tutte le Gerarchie celesti.

I. Questo arcangelo Gabriele che hai nominato è lo stesso dell’annuncia-zione?

A. Se vuoi, però è una semplificazione, parti dal presupposto che quel Gabriele indica tanti “Gabrieli”: quindi con Gabriele si intende un essere arcangelico il cui operare non riguarda solo un individuo – altrimenti sarebbe un Angelo – ma vale per tutto un gruppo di persone, per un popolo. La spiritualità di un Principato, invece, è lo Spirito del Tempo, nel senso che è comune a tutti i popoli in un dato tempo. Nella terminologia cristiana lo spirito del singolo viene chiamato Angelo, ma non va confuso il termine con la realtà. C’è uno spirito di natura angelica preposto all’evoluzione del singolo uomo; c’è uno spirito di natura arcangelica preposto all’evoluzione di un popolo e poi c’è un tipo di spirito, il Principato, preposto all’evoluzione di un tempo in tutta l’umanità, comune quindi a tutti i popoli.

I. C’è una differenza fra un Arcangelo e un altro? L’Arcangelo Gabriele fa le annunciazioni?

A. Certo che c’è una differenza tra un Arcangelo e l’altro. Gabriele è quell’Arcangelo preposto alla giusta corporeità che ci vuole per essere un buon italiano e parlare bene la nostra lingua, per esempio; ma c’è un Gabriele per ogni popolo. Il Gabriele del popolo tedesco struttura la laringe in tutt’altro modo, proprio perché vada bene per il tedesco. Quindi Gabriele significa: le forze generative, perciò annuncia la nascita. Invece Michele ha a che fare maggiormente con le forze del pensiero.

I. Quindi Maometto dice: è un Arcangelo gabrielico, e intende riferirsi a un’ispirazione dell’Antico Testamento legata alla Genesi?

A. Giustamente, perché è un dato di natura. Non si riferisce all’elemento che fa da sostrato alla libertà umana, al pensiero.

I. Ma tu hai detto che è un Elohà...

A. Significa che Maometto non si è reso conto più di tanto che il suo Arcangelo era direttamente sotto l’ispirazione di uno Spirito della Forma che non è andato col Cristo. In effetti, una delle frasi più importanti del Corano non è tanto quella che dice: Allah è unico, Allah è il solo, quanto l’inciso che viene dopo: Allah è il solo e non ha figlio. Non è tanto importante se Maometto, in quanto ricettore di questa ispirazione, capisse o no di che cosa si trattava; importante è capire che la sorgente arcangelica, o di Spiriti della Forma, ispirandogli questo inciso, vuol negare il Figlio. È chiarissimo. A noi, se coltiviamo la realtà degli esseri spirituali, molto più di Maometto dovrebbe interessarci quale essere spirituale abbia ispirato il Corano, quali intenzioni abbia, cosa voglia favorire nell’umanità... Ed è evidente che vuol favorire la cancellazione della coscienza del Figlio nell’umanità. Pensate a tutte le espressioni fondamentali che abbiamo sentito ieri sul Figlio... Che Allah sia detto “unico” è giusto, perché se ci fosse ancora la duplicità, il pensiero dovrebbe continuare, andare ancora più in alto e trovare ciò che unifica i due. Per esempio nella spiritualità persiana c’erano Arhiman e Aura Mazdào, però Zarathustra diceva: noi abbiamo una cultura duale, risultato di un’altra cultura che era unitaria; se questi due esseri divini si contrastano fra loro, devono essere ambedue originati da uno solo: e lo chiamava Zeruàna Akaràna. Conoscete la religione del zurvanismo? È una religione persiana ancor oggi che raccoglie cento, duecentomila persone: Zeruàna Akaràna significa “il tempo che scorre tutto uguale”, cioè il tempo che si annulla nell’eternità. E diceva Zarathustra: noi non abbiamo più accesso a questa divinità unitaria perché il nostro compito è di concentrarci sulla lotta fra il bene e il male, fra la luce e la tenebra. Però c’era la consapevolezza che andando oltre la dualità si sarebbe incontrata una realtà unitaria: ma era ormai diventata astratta. Infatti non se ne parla quasi mai: bisogna andarsi a leggere l’Avesta dove c’è l’accenno che Aura Mazdào (la Grande Aura del Sole) e Angria Màinju (sta per Arimane e significa: lo spirito dell’ostacolo, dei bastoni fra le ruote) erano tutt’e due, inizialmente, nello spirito unitario.

In che cosa consiste, dunque, la svolta?

1) Cana di Galilea: bevono chimicamente l’acqua e fanno l’esperienza dell’entusiasmo. Ciò sta a dire che un fenomeno chimico ha la sua oggettività fuori dell’essere umano ma non ha nessuna oggettività dentro l’essere umano. Tutto ciò che entra nell’uomo diventa soggettivo, perché l’uomo è un soggetto. Un effetto oggettivo dell’elemento naturale dentro l’uomo che sia uguale per tutti non esiste: viene subito personificato, soggettivato.

2) Il βασιλικος (basilokòs) era l’appendice del re, non aveva ancora nulla di suo. Era un esecutore: come un martello che esegue i miei impulsi volitivi. E il Cristo gli dice: c’è di meglio che essere uno strumento in mano altrui: puoi diventar tu la mano. E il servo del re “credette”, cioè ebbe la prima esperienza di fiducia nell’umano proprio grazie al Cristo che gli accende quell’aspirazione all’autonomia, che è in ogni uomo. E il vangelo non lo chiama più servo del re, ma “uomo”. In Cana l’entusiasmo cambia l’acqua in vino lasciandola chimicamente acqua, e qui la dipendenza dall’altro diventa autonomia interiore, quella che fa l’uomo.

3) Il paralitico alla piscina: vuoi diventare sano? Hai mai voluto diventare sano? È l’essere umano che comprende che la compaginazione del suo corpo è effetto e mai causa del suo spirito. La salute del tuo corpo dipende da te. E guarisce. Ma il problema è il sabato per i giudei.

4) La svolta. Adesso aprite i vostri vangeli al v.11 e vediamo in quale delle vostre traduzioni la svolta è sparita!

I. Sul mio testo c’è scritto: “Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì ai commensali...

I. “....li distribuì alla gente seduta”.

I. “:::li distribuì a quelli che si erano seduti”.

A. Nessuno ha la dicitura: “prese i pani e li distribuì ai dodici?”. No? Allora è sparito l’elemento di svolta. Siamo ancora prima di Cristo, nella coscienza dell’umanità, ne è la prova lampante. Io naturalmente ho qui un testo greco con migliaia di varianti e quindi qui ci sono anche i manoscritti che questo inciso decisivo ce l’hanno. Ma la maggior parte dei manoscritti l’ha tirato via. La frase originale è: “Gesù prese i pani, li benedisse, li diede agli apostoli (alcuni manoscritti aggiungono: suoi) e gli apostoli li distribuirono ai seduti, e lo stesso fu fatto coi pesci, e venne dato tanto quanto vollero”.

I. Però in Matteo, Marco e Luca c’è questa frase.

A. Intendi dire che c’è nella traduzione? Il discorso che stiamo facendo vale per tutti e quattro i vangeli. Dove questo inciso manca, manca proprio il punctum saliens, l’elemento più importante di tutti. In base all’evoluzione 1, 2 e 3, questi dodici apostoli che sono gli archetipi dell’umano, sono stati trasformati a un punto tale che la svolta adesso sta nel fatto che il Cristo termina di operare direttamente sull’uomo, ma opera attraverso l’uomo: a partire da ora l’influsso sull’altro uomo viene dall’uomo. Gli apostoli rappresentano l’uomo: lo spirito del Cristo ha agito su di loro e adesso gli apostoli, Pietro, Bartolomeo o chi sia, danno a un altro uomo questo spirito. Lo spirito del Cristo ognuno può riceverlo soltanto da un altro essere umano cristificato. In altre parole, o gli apostoli interiorizzano il Cristo, e allora dove agiscono si manifesta il Cristo, oppure il Cristo non c’è. Quindi il Cristo, da un’istanza che opera dal di fuori si trasforma, ecco la svolta, in una forza interiorizzata dagli apostoli e opera attraverso la mente e il cuore degli apostoli. Quindi il vangelo di Giovanni dice: il Cristo conferì le forze di benedizione, benedisse i pani. I pani che restano nelle dodici ceste sono la dodecuplicità delle forze cosmiche formanti e trasformanti l’uomo. Il Cristo “dice bene”, esprime come Logos la bontà, la forza umanizzante e positiva di tutti questi impulsi cosmici (ecco il benedire) e conferisce agli apostoli questa coscienza del bene dire, del dire tutto ciò che c’è di buono. E gli apostoli ricevono l’eucarestia. Ευχαριζομαι (eucharìzomai) significa: dichiarare che tutte le forze del cosmo sono buone, ευ, (eu), perché sono grazia χαρις (chàris): tutto il cosmo è grazia buona per l’uomo. Tutto questo l’essere umano deve far suo, lo deve capire in sé, deve tirarlo dentro. Altrimenti rimane un esecutore. Il maestro ha detto... e dunque è così. Quindi aggiungete quest’inciso al vostro testo perché solo così si capisce che dall’interiorità dei dodici, da uomo a uomo, viene vissuto il Cristo. Il carattere fondamentale dell’evoluzione prima del Cristo è che il Cristo agisce da sé verso l’uomo; dopo l’incarnazione, o il Cristo viene interiorizzato, e quindi lo incontro nell’altro uomo, oppure non c’è. Il Cristo si proibisce di influire su di noi dal di fuori dell’umano.

I. Quindi tutti gli altri segni che vengono dopo sono da intendersi solo grazie agli apostoli, anche se il Cristo è presente?

A. Proprio questo: tant’è vero che al quinto segno, che verrà subito dopo in questo sesto capitolo, ci sono solo gli apostoli (la tempesta sedata). Il sesto capitolo ha due segni, uno dopo l’altro, e poi tutto un lungo discorso sul pane della vita (discorso eucaristico): è il capitolo più lungo.

I. Perché questo inciso è stato tolto? Per mettersi in pace ecclesiasticamente?

A. No, non vi vedo intenti di potere. È semplicemente che non s’è capita l’importanza di questo inciso, e se l’avessero capito già da allora tu non avresti la possibilità di riscoprirlo.

I. Non ho capito una cosa: se io non sono riuscito ancora a interiorizzare il Cristo, però c’è un altro essere umano che è riuscito a farlo, io il Cristo lo incontro in quest’altro?

A. Certo. Però attento a non fare astrazioni, perché stai parlando come se uno avesse del Cristo lo 0% e l’altro il 100%. In ognuno c’è una certa percentuale di forze cristiche, altrimenti non sarebbe uomo. L’affermazione dice: dall’evento del Cristo in poi, ogni essere umano vive ed esperisce del Cristo tanto quanto ce n’è dentro gli esseri umani. In sé e negli altri. Non di più. Tutto ciò che non nasce dall’interiorità umana non è il Cristo.

I. Però l’altro mi può dare uno stimolo con le sue opere, con i pensieri...

A. Lo può fare nella misura in cui ha interiorizzato il Cristo.

I. Lui. Però è comunicabile a me? Posso io interiorizzare il Cristo grazie a un altro?

A. Tu dici: mi corrisponde. E dunque ce l’hai dentro. L’altro lo fa solo risvegliare. Ognuno ce l’ha dentro potenzialmente. La nostra difficoltà a capire è dovuta sempre al fatto che tendiamo a ragionare in termini di tutto o nulla. Il Cristo è la potenzialità di ognuno. Si torna ad Aristotele e Tommaso d’Aquino che danno come forma mentale del pensiero la distinzione tra potenzialità e attuazione. Il vangelo di Giovanni non è fatto per riunirci qui e spiegare e capire tutto. Io al massimo vi metto delle pulci nell’orecchio, e poi sta a voi. È un testo di una inesauribilità assoluta: fare un buon lavoro, qui, sta nell’individuare alcune piste fondamentali di ricerca in modo da non andare a naso o fuorviarsi del tutto.

Allora riprendiamo il sesto capitolo dal v.4: “Era vicina la Pasqua. La festa dei giudei.

6,5 Gesù, alzando gli occhi, e avendo visto una grande folla che veniva verso di lui, dice a Filippo: Da dove compreremo pani affinché mangino costoro?”

Alzare gli occhi è un trasporsi nel mondo spirituale. Faccio una piccola parentesi per dirvi che difficoltà tragicomiche incontra l’esegesi normale. Il testo dice: è salito sul monte. Fin qui può essere benissimo un salire fisico. Poi, se prendiamo fisicamente il fatto che alzò gli occhi e vide una grande folla venire verso di lui, la cosa diventa assurda. Letteralmente il versetto dice: “Gesù, alzati gli occhi, e vedendo che molta folla veniva verso di lui...”

I. Si sarà rigirato. Prima guarda in alto e poi vede la folla.

A. Ma il testo dice che alzando gli occhi vide la folla. Quindi è assurdo. Questi sono gli elementi del vangelo di fronte ai quali anche la persona più sprovveduta potrebbe dire a un teologo: guarda che non ci siamo. Senza farsi intimorire. Dunque questa terminologia sta a dire che l’essenziale di ciò che avviene adesso è nello spirito. Il Cristo rivolge gli occhi dei dodici verso il mondo spirituale e vede tutta l’evoluzione futura nella fiumana degli esseri umani che cerca le forze del Cristo. Questa è la visione spirituale: che la direzione, il senso dell’evoluzione umana, l’anelito di tutti – molta folla significa: la totalità degli esseri umani, l’anima di gruppo dell’umanità – è il Cristo, l’individualizzazione. Guardando l’umanità nella sua realtà spirituale, vede che tutto ciò che è ancora di natura comune, di gruppo, tende e va verso di lui. Questa visione il Cristo la comunica agli apostoli, perché solo avendo questa consapevolezza intellettuale e morale possono capire che il loro compito non è più quello di pregare il Cristo di dare, dare e dare agli uomini, ma di far proprio questo impulso. L’essenza del Cristo è l’interiorizzazione dello spirito umano. Ogni essere umano tende verso la svolta che cambia la conduzione dal di fuori in una conduzione dal di dentro. Ecco perché è assurdo che sia il Cristo stesso a distribuire i pani. I pani entrano in loro. Loro diventano i dodici pani! Portano a coscienza il fatto di essere il riflesso terreno delle dodici forze zodiacali. Quindi o le accolgono in sé quali forze evolutive – e allora nell’incontro con i dodici, da uomo a uomo, viene favorito l’umano – oppure continueranno a indicare da fuori lo Zodiaco che significa: obbedisci a questo, a questo e a quest’altro. La domanda a Filippo: “da dove compreremo pani affinché mangino costoro?”, di nuovo significa: da dove? dal cielo o dalla terra? L’essere umano si nutre dalla terra o dal cielo? Ne abbiamo parlato in questi giorni.

6,6 “Ciò disse esaminandolo; lui infatti sapeva cosa stava per fare”.

Gli fa proprio un esame. Tradurre con “per metterlo alla prova” non convince, perché è uno sforzo di autoconoscenza che è chiesto a Filippo. Ciò disse per dargli l’occasione di fare un esame di coscienza, per dargli l’occasione di conoscere se stesso. Filippo, a che punto siamo? Qui c’è fame, c’è fame del Cristo in tutti gli esseri umani: e il nutrimento, Filippo, dove lo prendiamo? Capisci tu, Filippo, cosa sta avvenendo? Quindi: “Ciò disse per aiutarlo a conoscere se stesso: lui infatti sapeva cosa stava per fare”: stava per smettere di porgere conoscenze e comandamenti morali a Filippo, per dare a lui e agli altri la possibilità di farli sorgere dall’interno. Il Cristo sapeva ciò che stava facendo. In altre parole, non chiede un’informazio-ne a Filippo perché non sa dove prendere i pani, ma per aiutare Filippo a conoscere se stesso.

6,7 “Filippo gli risponde: Pani per duecento denari non basteranno affinché ognuno riceva un pezzetto.”

Il denaro era una specie di ciondolotto, un talento, e c’erano, a quei tempi, i salariati di un giorno – ricordate in Matteo 20, 1-16 la parabola del padrone della vigna che va a cercare lavoratori all’alba, poi alle nove, poi a mezzogiorno ... poi ne piglia uno all’ultima ora e lo paga come tutti gli altri? –: la giusta remunerazione per una persona (vedi la triarticolazione sociale di Steiner) è di darle ciò che basta a lei e alle persone che dipendono da lei, perché possa ripetere la sua prestazione l’indomani. Ai lavoratori si dava un denarius, il soldo per un giorno, per essere autosufficiente; il denaro era puro, una pura contabilità per darti ciò di cui avevi bisogno per il sostentamento. Filippo dice: i pani che si comprano con duecento denari “non basteranno affinché ognuno riceva un pezzetto”. Βραχυ (brachỳ) è proprio un mozzichino. Che sta dicendo Filippo? Ha forse contato le persone? Ma se non c’era nessuno fisicamente!? Allora, i segni dello Zodiaco sono divisibili in 7 e 5 perché l’orizzonte divide lo Zodiaco in 7 segni diurni e 5 notturni, 7 segni di luce e i 5 segni di tenebra.

fig_4.psd

Il 7 è anche l’evoluzione nel tempo, abbiamo visto: ma è 7 semplicemente perché facciamo finta che gli altri 5 non ci siano. Il sette è il manvantàra, poi sparisce tutto e c’è il pralàya, che è tenebroso, scuro, non si vede: ma c’è. Poi ricomincia, e poi risparisce tutto. Quindi per far sorgere il tempo dall’eternità bisogna dividere la dodecuplicità della contemporaneità e della compresenza in due parti: un settenario manifesto e un quinario nascosto nel mondo spirituale. Il settenario è l’evoluzione al livello storico visibile e ciò che il sanscrito chiamava pralàya è la creazione che risale a livelli sovrasensibili; poi discende di nuovo nel mondo visibile e lì passa sette stadi di trasformazione nel tempo; poi diventa di nuovo invisibile... Quindi c’è l’evoluzione di Saturno (T1) da 1 a 7, poi sparisce tutto, pralàya, 5, la tenebra. Poi ricomincia T2, il Sole va da 1 a 7 e poi di nuovo tutto sparisce. Pralàya, il 5 della tenebra. Poi arriva T3, la Luna, e di nuovo da 1 a 7: la descrizione in Steiner delle sette epoche lunari è una cosa molto complicata, ma noi adesso la facciamo sparire in tre secondi, ed ecco il pralàya della Luna! Ed ecco spuntare la Terra (T4) con le sue sette epoche: 1 polare, 2 iperborea, 3 lemurica, 4 atlantica, 5 la nostra, la quinta postatlantica, poi ci sarà la 6, sesta postatlantica e la 7, settima postatlantica. Poi risparirà tutto. E dopo? Il pralàya e poi ricomincerà la Nuova Terra, com’è scritto nel testo biblico. Quindi avremo T5 che ricomincerà col ritmo del sette, poi di nuovo il pralàya, poi T6, coi suoi sette stadi, un nuovo pralàya e infine T7. È noiosa la cosa? No, è sempre tutto diverso! Rudolf Steiner chiama la Nuova Terra “Giove”.

Detto questo, torniamo ai duecento denari. Cosa sono? Denarius è l’impulso di un giorno: quanti giorni ci sono in sette mesi? 210. Perciò Filippo dice: 200 son troppo pochi. È una cosa strabiliante scoprire queste cose nel vangelo! Ma sono lì, eh?, io non sto interpretando nulla. È scritto lì: solo che nell’umanità finora non ci sono stati i presupposti di conoscenza per leggere. Adesso vedremo che viene interpellato Andrea. Andrea viene da ανδρεια (andrèia), la forza del cuore, il coraggio, una delle virtù platoniche; la virtù della testa è la σοφια (sofìa), quella della temperanza è la σωφροσυνη (sofrosỳne). Quindi Andrea rappresenta le forze del tronco. Filippo, Φιλιππος (Fìlippos) significa: amante dei cavalli. Il cavallo era a quei tempi, in tutta la mitologia greca, il simbolo, la rappresentazione in assoluto delle forze pensanti, perché si sapeva che, guardando non solo il corpo fisico del cavallo, ma anche l’eterico, si scorgeva un’enorme testa eterica. I greci come hanno buggerato i troiani?

I. Col cavallo di Troia.

A. E secondo voi era un cavallo di legno materiale, e i troiani erano così stupidi da portarlo dentro senza accorgersi che nella pancia c’erano i greci? E quanti ce ne potevano essere, poi, per conquistare tutta Troia? I greci – quarto periodo di civiltà – hanno vinto sulla terza civiltà (rappresentata da Troia) perché sapevano pensare meglio. Ecco il cavallo. Anche Davide non ha bisogno della forza per vincere Golia che è grande e grosso: la sua forza è nella testa. Nelle fiabe chi vince, il gigante o il nano? Allora Filippo rappresenta le forze del pensiero, i 7 segni diurni della luce, della coscienza diurna; i 5 segni della coscienza notturna dove sono? Poiché Filippo ha detto che 200 denari non bastano nemmeno per i 7 segni diurni, Andrea dice: c’è qui un bambino con cinque pani e due pesci. Andrea non viene interpellato, perché in lui prevalgono le forze della volontà: e prende l’iniziativa. Filippo invece viene interpellato, perché in lui prevalgono le forze del pensiero: Filippo, che ne pensi?

6,8 “Dice a lui uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro:”

6,9 “C’è un giovinetto qui che ha cinque pani di orzo e due pesci, ma questi cosa sono per costoro?”

L’orzo, a quei tempi, lo mietevano già a primavera perché era fondamentale seminare in novembre in modo che il seme potesse stare sottoterra con la neve sopra. Adesso lo seminano a primavera! Quindi cinque pani d’orzo è il risultato del lavoro del Sole nella Terra nei cinque mesi più freddi e bui – sono i cinque segni del Sole durante la notte. Vediamo i due pesci: il primo segno diurno, a quei tempi, era l’Ariete e dunque l’ultimo notturno erano i Pesci. Nei cinque segni zodiacali notturni ci sono anche i Pesci (il segno veniva rappresentato sempre da due pesci). Una piccola notazione extra giovannea: in Giovanni c’è solo una moltiplicazione dei pani, quella per i cinquemila (è la moltiplicazione per noi, che siamo della quinta epoca) e quindi anticipa l’evoluzione – perciò lo seguono sì e no i dodici antesignani dell’evoluzione. Invece quando c’è la moltiplicazione dei pani per i quattromila, negli altri evangelisti, quella riguarda il quarto periodo di cultura, il loro, quello greco-romano. Lì troverete che c’erano sette pani e alcuni pesciolini: allora i sette pani sono i sette segni diurni e i pesci cominciavano già un poco a entrare. Il segno dei Pesci era quasi tutto sotto, ma cominciava a emergere: perciò sette pani e un po’ di pesciolini; tutto è in movimento, i Pesci si affacciano appena, siamo nell’Ariete, l’agnello di Dio. Invece dove ci sono i cinque pani, ci sono sempre i due pesci, perché ne fanno parte. Immaginate l’esegesi che epopea di ricami fa su questi numeri. Quando non si capisce nulla è tutto permesso.

I. Non ho capito perché i Pesci sono nella notte.

A. Sono cinque i segni notturni dello Zodiaco: uno di essi è i Pesci.

I. Ma se i Pesci indicano il tempo a venire (il nostro) dovrebbero stare fuori.

A. A quei tempi il segno dei Pesci era sotto l’orizzonte.

I. Sì l’ho capito, ma se i Pesci indicano il futuro dovrebbero star fuori, come appunto lo sono ora.

A. Ma anche l’Acquario indica il futuro e allora dovrebbe star fuori pure quello?

I. Ma perché nomina solo i Pesci e gli altri quattro no?

A. Perché nell’epoca dei cinquemila i Pesci sarebbero stati al posto dove allora c’era l’Ariete. Per l’epoca dei cinquemila, la nostra, i Pesci sono il segno fondamentale del futuro a venire. Dietro al Sole quale segno zodiacale c’è il 21 marzo alle sei di mattina? I Pesci.

Ma andiamo avanti. Chi è il bambino cui si riferisce Andrea? Questo spirito giovane è una specie di anima di gruppo, un giovinetto da cui, dice Andrea, noi apostoli dobbiamo ricevere i cinque pani e i due pesci. Chi è? È lo spirito di Giovanni il Battista, appena entrato nel mondo spirituale proprio per dare agli apostoli un’anima comune, potremmo dire. La moltiplicazione dei pani è un balzo nel cammino di autocoscienza dei dodici, possibile soltanto ora, perché il Battista è appena morto ed è diventato per i dodici un’aura comune di forze di conoscenza e di amore. È una realtà puramente spirituale, nella notte, una visione del Sole a mezzanotte, questo giovinetto: è l’offerta di sé, il sacrificio di sé che il Battista ha fatto morendo. Steiner descrive in modo molto bello queste cose nelle sue conferenze sui vangeli. C’è qui un fanciullo, dice Andrea, qui, nell’aura della Terra: rimane con loro per accompagnarli nel cammino di cristificazione, di comprensione sempre più profonda del mistero del Cristo per poterlo accogliere fin nelle proprie forze volitive. I cinque pani d’orzo e i due pesci sono realtà spirituali, non materiali. Nell’ultimo capitolo del vangelo di Giovanni, dopo la resurrezione, gli apostoli fanno una pesca. Il Cristo risorto dice a Pietro: Tira, tira a riva, tira! E Pietro tirò su 153 pesci. Quanti sono i giorni di cinque mesi? 153, fra quelli che ne portano 30 e quelli che ne portano 31. Non si scappa.

Cos’è il pezzetto di pane? Se io ho un tipo di conoscenza per sommi capi, dico che i segni diurni sono sette. Quando ho una conoscenza più articolata aggiungo che ognuno è di 30 giorni: conoscere le cose significa sminuzzarle, andare nei dettagli, e i pezzettini sono infatti più di duecento. Il pezzo grosso è il mese, e sono sette i pezzi grossi; il pezzo piccolo è il giorno – sono più di duecento –, è il pane quotidiano, è ciò che l’essere umano può capire in un giorno, è la sua coscienza diurna. In altre parole, i vangeli, e specialmente quello di Giovanni, sono testi cifrati, di una perfezione scientifica assoluta. Però bisogna avere le chiavi di lettura. E perché qui dice cinque pani, e il 153 non compare? Perché di notte la coscienza non c’è; la coscienza diurna è fatta per articolare ulteriormente, invece nella notte i segni vengono vissuti come impulsi volitivi generali, senza la conoscenza che distingue e sottodistingue. La conoscenza che distingue nella volontà diventa possibile solo dopo la resurrezione e allora questi cinque segni saranno specificati col numero 153.

I. Per questo allora qui si specifica che Andrea è il fratello di Simon Pietro, perché Simon Pietro sarà poi quello che dà il 153.

A. Bravo. Una breve pausa, adesso, e poi riprendiamo.

***********

Riprendo dal v. 5 e traduco senza commentare per uno sguardo d’insieme, perché ora ogni elemento può parlare da sé.

5 “Alzando Gesù gli occhi e vedendo che una grande folla viene verso di lui, dice a Filippo: Da dove acquisteremo pani affinché mangino costoro? 6 Ciò disse per aiutarlo a conoscere il suo essere, lui infatti sapeva cosa stava per compiere. 7 Rispose a lui Filippo: Duecento denari (il pane corrispondente a duecento denari) non basteranno a costoro affinché ognuno riceva un pezzo. 8 Dice a lui uno dei discepoli, Andrea, il fratello di Simon Pietro: 9 C’è un giovanetto qui che ha cinque pani orzini (con la qualità dell’orzo, con tutte le forze dei segni invernali) e due pesci, ma questi cosa sono per costoro?” Quindi il sette di Filippo non basta, il cinque di Andrea nemmeno, cosa vuol dire? Che ci vogliono tutt’e due insieme, 7+5, per arrivare alla totalità dell’umano, al 12.

6,10 “Gesù disse: Fate sì che si siedano Infatti c’era molta erba nel luogo. Si sedettero gli uomini ed erano della natura dei cinquemila.”

La posizione dello star seduti non è quella di chi dorme, e non è nemmeno quella di chi è attivo e cammina: è una posizione di conoscenza, di presa di coscienza. Quindi vuol dire: aiutate gli uomini a trovare la posizione di ricezione di contenuti conoscitivi. Voi avete adesso questo nutrimento per la mente e per il cuore, dice il Cristo: però attenti, non si possono buttar giù nel gozzo degli uomini le cose, c’è un lavoro da fare prima, che serve a predisporre gli animi ad accogliere. È chiaro che non stanno accadendo fatti fisici, ma siamo di fronte a un processo spirituale. Sedersi è mettersi nella posizione del voler comprendere, del voler ricevere il cibo spirituale; è come disporsi intorno alla tavola per mangiare cibo spirituale. Ma dov’è questo cibo? La domanda fatta a Filippo era: da dove prendiamo le forze nutrienti? In questi giorni abbiamo detto: da sotto non viene la materia che ci nutre e costruisce il nostro corpo, ma viene dall’alto. La materia che noi mangiamo prendendola dalla Terra la distruggiamo tutta, quella che non distruggiamo la espelliamo, e poi trasformiamo tutto in materia adatta a noi. Il nutrimento che costruisce le forme del nostro corpo, viene dall’alto. Perciò in questo lungo capitolo, dopo il mistero dei pani, dopo la visione del Cristo nel mondo spirituale sulle acque del sonno (la tempesta sedata), verrà tutto un lungo discorso dove per dodici volte si parlerà del cibo che viene dal cielo. Quindi dalla Terra mangiamo cibi per distruggere materia e trasformarla in controforze che permettano alla materia del cosmo di entrare in noi e costruire il nostro organismo. Allora il Cristo dice agli apostoli: il vostro compito è di disporre gli esseri umani a ricevere il cibo che viene dal cielo, a sedersi a tavola per diventare mangiatori di cibo spirituale, affinché sorga in loro la coscienza di ciò che li nutre, li costruisce e rigenera in continuazione. Fate sedere gli uomini.

“Infatti c’era molta erba nel luogo”: questo è il punto dove noi studenti dicevamo al professore: stiamo in montagna e c’è pure l’erba? “L’erba verde” nel linguaggio esoterico è sempre l’immagine di ciò che è vivente, quindi delle forze eteriche. Steiner dà informazioni molteplici su questo linguaggio: testi che parlano non solo del piano fisico, ma anche di ciò che avviene nel vivente, nell’animico e nello spirituale, devono usare termini tecnici specifici. Il riferimento all’erba verde indica sempre il mondo del vitale, o eterico, che è completamente diverso dall’animico, o astrale, dal fisico e dallo spirituale. Un’emozione, per esempio, lavora nel cosmo in un modo del tutto diverso rispetto alla ritmica circolazione del sangue o alla respirazione. Le forze che reggono la circolazione del sangue hanno una tutt’altra natura che non le forze che regolano una rabbia, per esempio. Tutto ciò che è di natura psichica è molto più motile e vario, così come nell’aria c’è molto più movimento che non nell’acqua: l’acqua, nella sua capacità di ondeggiare, mostra – e perciò le immagini non sono arbitrarie – di essere a metà strada tra la fissità del minerale solido e la motilità assoluta dell’aereo. Quando io intendo riferirmi a ciò che è fisso, parlo di Terra; quando intendo il vitale, dico acqua; quando mi riferisco all’anima dico aria; e lo spirituale è il fuoco. Il linguaggio esoterico è scientifico: è impossibile quindi che il vangelo si riferisca all’erba verde – verde perché è piena d’acqua: quando dissecca vuol dire che l’acqua non c’è più – e non parli delle forze vitali. Ciò che è di natura vitale ha quattro forme fondamentali: il vitale nel calorico, il vitale nella luce, il vitale nel chimismo e il vitale nell’organismo a sé stante, che è la forma suprema.

Allora: c’era molta erba nel luogo; non dice in “quel” luogo ma εν τω τοπω (en to tòpo): nel luogo. Già il fatto che le traduzioni aggiungano “quel” è fuorviante. Quando il greco dice: in quel luogo, allora siamo nel mondo fisico, perché è un luogo preciso e non un altro. Invece nel mondo eterico non ci sono distinzioni spaziali: c’è il mondo eterico, il luogo, molto più unitario del mondo fisico.

“Si sedettero gli uomini ed erano della natura dei cinquemila”: gli esseri umani che crearono in sé le condizioni per nutrirsi di questo cibo benedetto dal Cristo, erano “della natura dei cinquemila”. Il testo non dice che erano “circa” cinquemila, come si trova nelle traduzioni, perché ως (òs) non significa “circa”, ma “come”, “della natura di”, “del tipo di”. Che vuol dire che ci sono esseri umani “del tipo di mille, di duemila, di tremila, quattromila e cinquemila”? È un linguaggio esoterico per noi tutto da imparare, e man mano che lo impariamo ci accorgiamo che non è mai arbitrario, ma sempre ben preciso – proprio come accade quando s’impara una lingua straniera. Fa parte della grammatica del linguaggio esoterico che per parlare dell’evoluzione di gruppo, dove ci si sottomette alla legge e il singolo non ha ancora una volontà individualizzata, si parli di “mille”: sei uno fra mille. Un primo inizio di individuazione è quando il gruppo diventa un po’ meno grosso, e allora si parla di cento (le cento pecore): dal cento è un po’ più facile tirarsi fuori, mentre dal mille appena sgarri 999 ti rimettono in regola. Nelle altre moltiplicazioni dei pani – in Marco, per esempio – è detto che li fece sedere in gruppi di cento e di cinquanta. In Luca, nella parabola delle mine, si parla di un gruppo di dieci, e una mina si perde: il gruppo è qui già un gruppettino, ma il riferimento all’uno è sempre lo stesso. Qual è l’ultima quantità? Il due: i due figli di cui uno, il figliol prodigo, se ne va. Nei vangeli c’è tutta la fenomenologia dei gruppi. Per ogni grande gruppo, per ogni tipo di umanità, c’è un apostolo. Tutti questi numeri si riferiscono alla dinamica evolutiva del cammino di individuazione dell’uomo, che parte inserito in un grembo materno o paterno di conduzione comune, di natura, ed è chiamato ad usarlo come fondamento per costruire qualcosa di suo, di individuale.

fig_5.psd

Il Cristo sta dando istruzioni fondamentali per capire la struttura dell’evoluzione, la cui svolta è nel 4. Allora, in 1 siamo nell’evoluzione di gruppo: è il primo mille, la prima esperienza di gruppo. La seconda epoca sarà duemila – uomini del tipo di duemila – e la terza tremila; quando gli ebrei nel deserto rimpiangevano le cipolle d’Egitto, volevano ritornare al tremila: il mistero dell’ebraismo, festeggiato nella loro Pasqua, è il passaggio da 3 al 4: qui sono gli ebrei, senza casa e sempre in cammino. In Egitto (nel 3) non sono a casa, sono prigionieri (cattività babilonese) e vanno fuori: ma il punto di approdo e svolta, il 4, non lo riconoscono e mettono il Cristo a morte. Allora l’Antico Testamento dice: Jahvé, visto che stavano perdendo il desiderio della Terra promessa e volevano tornare indietro, in un solo giorno ammazza tremila uomini. E allora i bravi cristiani giù a criticare gli ebrei: ma che Dio avete, così sanguinario! Come se fosse una cosa fisica! Iahvè fa in modo che lo spirito che va avanti venga rafforzato in modo da cancellare il desiderio di tornare indietro alla spiritualità degli egiziani (i tremila). Quindi tremila indica il tipo di autoesperienza dell’umano durante il periodo di cultura egizio-caldaico. Quattromila è il tipo di autoesperienza dell’uomo nel periodo di cultura greco-romano; parlare dei cinquemila, qui nel vangelo, significa anticipare l’autoesperienza umana del nostro quinto periodo postatlantico. Perciò il Cristo vede gli esseri umani venire verso di lui, vede la spiritualità futura che cerca il Cristo: si tratta di fare di questi cinquemila tutti individui singoli. Però gli apostoli devono capire che il punto di partenza è l’anima di gruppo: predisponeteli dunque a quel tipo di coscienza che rende ognuno individuale, sapendo che il punto di partenza è l’esperienza dei cinquemila e il punto d’arrivo è l’individuazione. Coloro che sono seduti per prendere il pane spirituale che il Cristo dà siamo noi, gli uomini della natura dei cinquemila. È la spiritualità conoscitiva e operativa offerta all’uomo nella nostra epoca, quando il Sole a primavera sorge nei Pesci.

I. Infatti la prima folla rimane sotto il monte: il vangelo dice che prima c’era una grande folla che lo seguiva, poi Gesù sale sul monte e vede un’altra folla...

A. Se voi, tornando a casa, vi leggerete tutto il capitolo, vedrete che saltano fuori di quei pasticci perché non si sa mai bene quando si tratta di qualcosa di spirituale e quando di fisico. La folla reale, la folla spirituale, il tipo di spostamenti... Qui io ho un volume di Rudolf Schnakenburg, uno studioso che s’ingegna a risolvere tutti i problemi di spostamento del Cristo che ora si trova di qua dal lago, ma non c’è mai andato, poi si ritrova di là, e non c’è mai andato. Allora risolve spostando il quinto capitolo dopo il sesto. Questo per dire che se leggete il capitolo sesto vedrete saltar fuori enormi problemi logistici, ma questi ci sono solamente se prendiamo tutto in senso fisico. Invece non tutto ciò che viene descritto è fisico. In cima al monte non c’è il popolo: è la coscienza degli apostoli che sta facendo altre esperienze. Il sesto capitolo è quello che maggiormente ci costringe a fare i conti con il linguaggio esoterico: le cose diventano piene di contraddizioni irrisolvibili se si prende tutto a livello fisico. Ma questa è la conferma che un’esegesi che prenda tutto fisicamente non è in grado di interpretare, perché vi garantisco che sono beghe a non finire e non si mettono mai d’accordo. Ma il presupposto comune è che pigliano tutto in modo fisico e i conti non tornano. Non possono tornare. Vedrete quante difficoltà pone questo capitolo per l’uomo moderno che non conosce i vari livelli della realtà.

Adesso arriviamo all’evento: fin qui è stata preparazione.

6,11 “Prese dunque i pani Gesù e, avendoli benedetti, [li diede ai discepoli e i discepoli] li distribuirono a quelli che erano seduti, finché ne vollero”

I. C’era anche Giuda?

A. Certo, uno Zodiaco senza Scorpione che Zodiaco è? Vorresti far l’esperienza di resurrezione senza morire? Le forze dello Scorpione sono quelle che ti danno la possibilità di morire e quindi di risorgere, perché senza morire non si risorge. Quindi Giuda deve esserci. Cosa vuol dire: Gesù prese i pani? È un evento perenne. Il Sole è fatto per visitare i dodici segni dello Zodiaco, per andarsi a prendere tutti questi pani. Il Logos prende tutti i doni, è la totalità delle forze nutrienti dell’essere umano. Se non avessimo l’Essere del Sole che li prende in sé, noi, senza la mediazione, non potremmo avere nel nostro essere tutti questi dodici impulsi. E lui li benedice, li rende tutti solari, compatibili con l’uomo. Lo fa ogni giorno, il Sole! Il Cristo dice allo Scorpione, per esempio: io ti benedico perché porti le forze di morte, l’amore benedice anche te, perché senza di te, che distruggi, nulla potrebbe mai cominciare. Benedice: dice il bene, raccoglie in sé la consapevolezza della positività specifica di ognuna di queste forze formanti, nutrienti, edificanti l’uomo. Eucarestia. Tu, Ariete, sei buono per costruire la testa. Tu, Toro, sei buono per costruire le forze e le forme della laringe; tu, Gemelli, sei buono perché senza di te non ci sarebbe simmetria... Tutte queste forze del cosmo sono ευ χαρις (èu chàris), grazia buona.

I. Quindi l’eucarestia è venuta prima dell’ultima cena?

A. Il Cristo è l’eucarestia, lui è la somma di tutti i pani. Essere uomo significa vivere in questa eucarestia, in questo benedire. Ma io posso dire bene di qualcosa soltanto se capisco per che cosa è buona. Il versetto 11 è l’evento di sempre in cui le dodici forze cosmiche, grazie al Sole, si unificano in un organismo unico per costruire l’uomo. Il Cristo le prende sempre in sé, le unifica e le rende buone per noi: lo fa sempre, anche in questo momento, altrimenti come faremmo ad esistere, come potremmo avere in noi la presenza unificata, articolata e organizzata di queste dodici forze? Il Cristo ne fa un organismo dell’uomo. Prese i pani, li benedisse e li dette ai dodici, cioè all’uomo singolo: è un insegnamento, è una presa di coscienza. Di cosa si stanno nutrendo i dodici apostoli? È un processo di autocoscienza che li conduce a capire di che cosa è costituito l’uomo, a conoscere ciò che ci edifica perennemente. E se non ci fosse l’Essere del Sole avremmo una dodecuplicità di forze separate, non organizzate in quell’organismo che è l’uomo; l’uomo è l’organizzazione delle dodici forze dello Zodiaco. La grazia del Padre sono le dodici forze, e la grazia del Figlio è farne l’unità, perché se ognuna di queste forze andasse per conto suo non ci sarebbe l’uomo: devono essere le une per le altre, le une organizzate nelle altre.

E i discepoli distribuirono ai seduti tanto quanto vollero, a ciascuno tanto quanto il suo essere esigeva. È l’anelito evolutivo dell’uomo: ciò che il Cristo dà corrisponde alla potenzialità, all’anelito del singolo. Non gli dà né di più né di meno. Il nutrimento del Logos e la fame dell’uomo si corrispondono, perché il Logos è stato creato per l’uomo e l’uomo per il Logos, e ognuno riceve sempre ciò che il suo essere vuole. Mai qualcosa d’altro e sempre secondo quanto gli corrisponde. C’è stato mai qualcuno che ha capito più di quanto poteva? No. E quello che ancora non può capire, lo potrà domani e dopodomani. Si può anche omettere nel nostro prendere, ma qui si parla del dare: il Cristo non omette di dare a ognuno ciò che gli corrisponde, ma è possibile che la sua offerta venga rifiutata dall’uomo che non si apre, che ha paura. Il dare è sempre in corrispondenza perfetta all’essere che riceve: nessuno si può lamentare che gli venga dato qualcosa di più o di meno. Oσον ηθελον (òson èthelon): tanto quanto vollero.

6,12 “Come furono pieni disse ai discepoli: Raccogliete i pezzi che permangono affinché non periscano.”

Ενεπλησθτησαν (eneplèstesan) è il verbo ενπιμπλημι (enpìmplemi), essere pieni dentro. Noi diciamo sazi, ma qui è la pienezza, la completezza del 12, di tutte le forze dello Zodiaco: è l’essere umano portato a compimento. Continuando, nelle vostre traduzioni troverete: “Raccogliete gli avanzi”: ma qui non si tratta di rimasugli, bensì sta a dire che ogni essere umano diventa la raccolta, l’articolazione completa di dodici panieri celesti che operano permanentemente nel suo essere. Altro che avanzi! Il risultato cosciente è che in me io raccolgo, organizzo unitariamente dodici ceste colme di forze nutrienti, formanti, edificanti del cosmo che non lavorano in me a intermittenza, ma continuativamente. Rimangono, non se ne vanno mai, agiscono durevolmente. Il testo greco ti permette sia di tradurre “rimasugli”, sia “pezzi che permangono”. Bisogna pensare, nella traduzione, a processi nel mondo eterico, nel mondo astrale e nel mondo dello spirito: il testo ti dà di volta in volta una parola essenziale che indica un mondo. Noi, ora, essendo agli inizi di una scienza della realtà spirituale, avendo alle spalle un’esegesi fuorviante, dobbiamo capire che c’è da fare un grande sforzo nella traduzione dal greco. “Raccogliete i pezzi permanenti”: di questi pezzi eterni, durevoli, fatene un’unità organizzata. Qui sono pezzi, uno accanto all’altro: in voi sono uno dentro l’altro, e sono talmente sovrabbondanti che non sminuiscono mai, non finiscono, si rigenerano sempre.

“...affinché non periscano”: se l’evoluzione umana nel tempo non raccoglie nell’unità dell’uomo questi dodici impulsi cosmici, essi sono stati dati per nulla. Raccoglieteli, unificateli, affinché il loro senso non venga vanificato e annientato. Le forze dello Zodiaco, senza l’essere umano, sono un controsenso: vengono nullificate; la ragione d’essere di queste forze cosmiche è che l’uomo le raccolga sempre. Siamo state create per l’uomo, dicono, ma se lui non ci prende, che ci stiamo a fare? È fenomenale constatare che questo testo ci dica cose di questa portata. Se l’uomo non se ne nutre, per chi il Padre rigenera sempre queste forze? Sarebbe la fine di tutto. La ragion d’essere delle forze del cosmo è l’uomo, ma l’uomo le deve raccoglierle.

I. Forse qui dice che le forze sono di più di quanto uno vuole...

A. No, tanto quanto uno vuole. Non di più. Adesso vedremo l’uomo – rappresentato dai dodici apostoli – fare ciò che il Cristo gli ha detto di fare. Perché il Cristo non fa nulla al posto suo.

6,13 “Raccolsero e riempirono dodici ceste dai cinque pani di orzo che permanevano a coloro che avevano mangiato.” Ecco l’essere umano che apre la porta e lascia entrare in sé non i pezzi sconnessi di prima, ma dodici ceste. Quali sono “le ceste” in cui raccogliamo queste dodici forze formanti? La prima cesta è la testa che raccoglie le forze dell’Ariete; la laringe è la seconda cesta che raccoglie le forze del Toro; le braccia, tutto ciò che è simmetrico, sono la cesta che raccoglie le forze dei Gemelli; il torace è la cesta che raccoglie le forze del Cancro; il cuore è la cesta delle forze del Leone; l’addome è la cesta delle forze della Vergine; il bacino e le anche raccolgono le forze di equilibrio che provengono dalla Bilancia; gli organi di riproduzione raccolgono le forze dello Scorpione; le forze del Sagittario le troviamo nei femori, nelle cosce; le forze del Capricorno nell’articolazione del ginocchio e infine le forze dei Pesci sono all’opera nei piedi.

Rudolf Steiner descrive la differenza tra il dodici dei sensi e il dodici delle forze formanti: c’è un duplice dodici nell’essere umano. Una delle differenze fondamentali tra i dodici sensi, le dodici forze formanti e i sette movimenti vitali è che le forze di ogni senso (senso della vita, del movimento, dell’equilibrio, del tatto, dell’olfatto, del gusto, della vista, del calore, dell’udito, del linguaggio, del pensiero e dell’Io) non sono correnti vitali che attraversano tutto l’organismo, ma sono delle sfere circoscritte e fisse, non c’è un trapasso di forze dall’una all’altra, così come le forze formanti non fluiscono l’una dentro l’altra: la testa è testa, la laringe è laringe, le braccia sono braccia, ecc. Una differenza fondamentale tra il dodici nell’uomo (dodici sfere di sensi e dodici forme corporee o parti costitutive) e il settenario dei pianeti che sono i sette processi vitali (respirazione, termoregolazione, nutrizione, secrezione, conservazione, crescita e riproduzione) è evidenziata dal fatto che il vangelo usa due nomi diversi: per il 12 usa κοφινος (kòfinos), letteralmente “cofano”, che è un recipiente chiuso, una cesta chiusa; dove invece raccolgono 7 (nei vangeli ci sono ben sette moltiplicazioni dei pani: una in Giovanni e due per ogni sinottico) parla di σπυρις (spỳris), la sporta, il canestro. E non confonde mai i termini. Qual è la differenza tra un cofano e una sporta? Il cofano è impermeabile, invece la sporta è permeabile: tutto ciò che è vitale è permeabile, si trasforma, tutto ciò che è forma è invece stabile, trattiene la forma. I due elementi costitutivi dell’essere umano sono le forme fisse e i movimenti di metamorfosi: le forme fisse sono il precipitato delle dodici forze formanti dello Zodiaco e i sette movimenti vitali, che si esprimono negli organi, sono il precipitato nell’uomo dei movimenti del sistema planetario.

Va bene così, per questa volta?

Arrivederci a tutti al prossimo incontro.

www.liberaconoscenza.it

Gli autori difendono la gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a norme o direttive che, monetizzando tale servizio, limitino l’accesso alla cultura.

Gli autori e l’editore rinunciano a riscuotere eventuali royalties derivanti dal prestito bibliotecario di quest’opera. Tale opera è pubblicata sotto Licenza Creative Commons, che recita: si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, pubblicazione su diversi formati, esecuzione o modifica, purché non a scopi commerciali o di lucro e a condizione che vengano indicati gli autori e che questa dicitura sia riprodotta.

Ogni licenza relativa a un’opera deve essere identica alla licenza relativa all’opera originaria.

by-nc-sa_eu.png
CC.TIF
retro.jpg