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Titolo originale:

Die Weltreligionen. Wege des Menschen zu sich selbst

Traduzione di Silvia Nerini profondamente rielaborata dall’autore

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CC.TIF

www.liberaconoscenza.it

ISBN 3-937078-35-5

Pietro Archiati

Maschere di Dio,

volti dell’uomo

Le grandi religioni,

vie di ogni uomo verso l’umano

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Indice

Prefazione

Primo Capitolo

religione o religioni?

Dopo il diluvio universale inizia la «religione»…

La cacciata dal Paradiso e il crepuscolo degli dei

La religione è un ritornare a casa procedendo in avanti

Prospettiva metodica dell’evoluzione

Dalle religioni dei popoli alla religione dell’uomo

La «svolta», più che una fine un inizio

Religione dei popoli al Nord e al Sud

Iniziazione, fonte delle religioni

Tutte le religioni per ogni singolo uomo

Secondo Capitolo

le religioni dell’oriente

Buddha, Socrate e Cristo

L’uomo tra il vecchio e il nuovo

La Bhagavad-Gita e le Lettere di Paolo

L’uomo comincia a collaborare con Dio

«Non c’è (più) spirito secondo la metrica»

Metempsicosi o reincarnazione?

L’anima, l’Io e la coscienza dell’Io

Immortali non si nasce, si diventa

La Trinità divina e quella umana

Dov’è il Buddha oggi?

Krishna e il superamento del sangue

Krishna, Buddha e l’idealismo tedesco

La filosofia del Vedanta e la filosofia greca

Il Buddha e il Cristo

I dodici e il Tredicesimo

L’ottuplice sentiero – ieri e oggi

Terzo Capitolo

zarathustra e buddha

Zarathustra: la Terra come campo d’azione

I due alberi del Paradiso

Zarathustra, Ermete, Mosè e Gesù di Nazareth

Ama il tuo Dio con forza, mente, anima e spirito

Le due correnti in Gesù di Nazareth

Il Buddha alla svolta dei tempi

Buddha e gli Esseni: una salvezza privata?

Il Buddha «su Marte» e San Francesco d’Assisi

L’esperienza dell’Io: buddhismo, ellenismo, ebraismo

1) Nagasena dice a Milinda: l’Io è un’illusione…

2) Achille a Ulisse: Meglio un mendicante in Terra…

3) La moglie a Giobbe: Maledici Jahvè, e così muori…

Quarto Capitolo

la missione del giudaismo

Ritmi ciclici ed evoluzione lineare

Creato l’uomo, Dio si riposa

La struttura cerebrale di Abramo

Mosè e i Dieci Comandamenti

Il monoteismo come autocoscienza dell’uomo

La legge interiore e la Legge esteriore

Elia e l’enigma di Giobbe

La sofferenza come pegno dell’amore divino

Individualismo come universalismo – e viceversa

Il Messia è già venuto? Sì e no

L’ebreo errante e l’eterno cristiano

Quinto Capitolo

la svolta dei tempi

Uomo cosmico e uomini terrestri

La libertà dell’egoismo e dell’amore

Gesù di Nazareth e l’adempimento della Legge

«Io e il Padre (Abramo) siamo una cosa sola»

Mosè ha parlato dei misteri dell’Io

Lapidare a morte l’adultera?

L’anima umana da sempre adultera

Cristianesimo, religione della Terra

Gesù e Cristo: aspettativa umana e risposta divina

Il cristianesimo come «fatto mistico»

L’ascensione al cielo e la triplice discesa all’inferno

Il mistero del Golgota come fenomeno ecologico originario

Ordine naturale e ordine morale s’incontrano

L’iniziazione ai misteri come fatto storico

Sesto Capitolo

islam e cristianesimo

La libertà come criterio del bene e del male

Cristianesimo «petrino» e materialismo

Scienze naturali: cristiane o islamiche?

Una nuova religione dopo Cristo?

L’essenza dell’Islam: monoteismo e predestinazione

La Trinità cristiana: nuovo politeismo?

Gli scolastici cristiani e l’aristotelismo arabo

La lotta per l’immortalità individuale

«Se Allah lo vuole…»

Gesù di Nazareth nel Corano

Una sfida reciproca

Settimo Capitolo

il futuro della religione

La «transustanziazione» cristiana

Religione come «rispetto di se stessi»

Le «Sacre Scritture» come esperienza di sé

La seconda venuta del Cristo

La religione del Signore del karma

Dalla Trinità divina alla triade umana

Dalle nozze mistiche alle nozze alchemiche

Da eremita sulla Terra a cittadino del cosmo

Dalle maschere di Dio ai volti dell’uomo

Dalla tolleranza della religione alla religione della tolleranza

A proposito di Pietro Archiati

Prefazione

La parola «religione» significa ricongiungimento, ricollegamento dell’uomo al mondo divino. La religione al singolare è quel cammino evolutivo i cui passi percorrono lo spazio del mondo e scandiscono lo scorrere del tempo, sotto forma di «religioni» al plurale.

In questa prospettiva unitaria, la moderna scienza della realtà spirituale – avviata da Rudolf Steiner un secolo fa, e dalla cui elaborazione del tutto personale nascono queste pagine – dà minore importanza al contenuto dottrinale o teorico delle varie religioni, e guarda invece a ciò che ogni uomo diventa in tutto il suo essere, grazie a ognuna di esse.

Vista così, l’essenza di una religione non sta in quel che dice all’uomo come rivelazione o insegnamento, ma in ciò che fa dell’uomo che la vive.

E allora l’unione delle religioni non è il sincretismo tanto di moda oggi – che fa l’addizione delle verità più o meno simili che esse enunciano –, ma è l’uomo stesso che realizza l’interezza di sé vivendo una dopo l’altra e poi una dentro l’altra le religioni nate con lui e per lui nel corso della storia. L’uomo – ogni uomo – è destinato a diventare la sintesi vivente di tutte le vie religiose che egli stesso ha percorso durante la sua lunga evoluzione.

Anche le religioni sono involucri – come lo sono la razza, il popolo, la lingua... – e ogni uomo in quanto essere spirituale si avvolge nel corso del tempo di tutte queste vesti, una dopo l’altra. Solo quando vengono vissute tutte insieme, nella loro armonia, le religioni cessano di essere un rivestimento esterno e diventano il cuore dell’uomo.

Bisogna allora ben distinguere tra individualità e religione, perché nessun uomo è cristiano o musulmano o indú, così come nessuno può essere, come spirito, bianco o nero, tedesco o italiano… È la sua costituzione fisica che lo colloca in un dato popolo e che ha un dato colore.

E i fondatori delle religioni, i vari Buddha, Krishna, Mosè, Zarathustra…? Una moderna scienza della realtà spirituale non si accontenta d’indagare che cosa essi abbiano detto o fatto ai loro tempi, ma si chiede anche dove si trovino oggi Buddha, Zarathustra e gli altri, e che cosa di nuovo abbiano da dire oggi a un’umanità che di secolo in secolo è mutata profondamente, e che si trova oggi ad affrontare compiti evolutivi mai conosciuti prima.

Il mistero della religione è vasto quanto quello dell’uomo, è intessuto con la sua storia – se questa storia vogliamo prenderla sul serio, se non riduciamo l’essere umano ai pochi decenni che gli è dato di vivere in questa vita.

Forse può essere utile un piccolo cenno alla struttura di questo libro: non ho inteso dare fin dall’inizio delle «spiegazioni» esaurienti che consentissero d’interpretare il cammino religioso umano in modo sistematico, religione dopo religione. Ho invece preferito ripercorrere il cammino dell’umanità descrivendo passo dopo passo il suo fiorire, senza dimenticare che nel seme c’è già il frutto e che nel frutto è racchiuso il seme. Questo modo di procedere si rivolge alla mobilità d’animo di chi legge, alla sua capacità di andare avanti e indietro nella storia del mondo, al desiderio e alla gioia di conoscere.

È come nella vita vera di ognuno di noi: il passato parla solo se ci interessiamo alle tracce che lascia nel presente, e il presente è colmo di significato solo se ci accorgiamo che annuncia sempre e dappertutto l’avvenire.

Pietro Archiati

Estate 2004

Primo capitolo

Religione o religioni?

L’esperienza religiosa dell’uomo lungo il cammino della storia è racchiusa nella parola «religione»: deriva dal latino e vuol dire pressappoco «ricollegare», «riannodare». Con questa parola si afferma anche, in modo implicito, che nel corso dell’evoluzione dev’essersi verificata una qualche separazione, e che l’uomo tenda a porre fine a tale distacco per mezzo di un ricongiungimento.

C’è un pensiero di fondo che ritorna in mille variazioni nelle religioni e nelle mitologie, e dice: all’inizio l’umanità era del tutto diversa da come è oggi. Nel corso del tempo ha subíto enormi cambiamenti. In origine l’uomo era unito alla Divinità, viveva in «Paradiso», nella sua casa celeste, era come in grembo alla Divinità. Non aveva ancora la capacità di sentirsi un essere a sé stante e di agire di conseguenza.

L’esperienza di essere tanti individui separati gli uni dagli altri oggi è scontata per noi: attribuirla all’uomo di migliaia di anni fa, però, sarebbe un grave anacronismo. Vivere in Paradiso significava per l’uomo degli inizi essere come un pensiero della Divinità – proprio come è oggi un pensiero pensato da un uomo, che non acquista immediatamente esistenza propria, ma resta parte di chi l’ha pensato.

Questa condizione originaria dell’umanità dovette però aver termine. L’uomo si è separato dalla Divinità in un processo che ha richiesto un lunghissimo tempo: si è inserito a poco a poco in una forma fisica tagliando il cordone ombelicale che lo univa ai suoi progenitori divini. Tutto questo è rappresentato all’inizio della Bibbia nel racconto della cacciata dal Paradiso, nelle immagini del «peccato originale» che viene anche definito «la caduta», la caduta dell’uomo dal Cielo divino sulla Terra fisica, la sua seconda patria. È un allontanarsi dalla Divinità generatrice allo scopo di diventare un essere sempre più autonomo.

Questo processo può essere paragonato ai nove mesi di gestazione nel grembo materno, dopo i quali, dal punto di vista esteriore e fisico, il nuovo essere si rende indipendente dalla madre. La nascita, il taglio del cordone ombelicale, fanno sì che dall’essere iniziale se ne sviluppino due, sempre più distinti e autonomi. Si tratta di un processo lungo e complesso, che non può essere ridotto a questo o quell’aspetto particolare.

Dopo il diluvio universale inizia la «religione»…

Venne un momento per gli uomini in cui l’aspirazione alla propria autonomia si trasformò in una vera e propria esperienza di estraniamento dal divino. L’elemento propriamente religioso – l’intento di ricongiungersi al divino – non è sorto fin dall’inizio della storia umana: è un fenomeno specifico dell’era successiva al diluvio universale, quella che Rudolf Steiner chiama l’epoca postatlantica.

Quest’epoca fu preceduta da quella atlantica – di cui troviamo tracce in Platone e in tanti miti delle più svariate civiltà –, durante la quale l’umanità abitava il luogo geografico attualmente occupato dall’Oceano Atlantico. Là, in tempi arcaici, esisteva un continente da cui si è propagata tutta la civiltà «postatlantica»[1].

A quei tempi l’aria era molto più impregnata d’acqua di quanto non lo sia oggi. Il cosiddetto «diluvio universale» si verificò perché l’atmosfera terrestre venne sempre più purificandosi dai vapori acquei in essa contenuti. Precipitazioni intense e di lunga durata inondarono completamente intere regioni, provocando quel fenomeno che in tante leggende viene descritto come un diluvio «universale», che sommerse cioè tutte le terre allora abitate.

Nella Bibbia questo evento è collegato a un fenomeno fino ad allora sconosciuto, e che divenne possibile solo grazie al diluvio: l’arcobaleno. A Noè fu promesso che non ci sarebbe stata mai più un’alluvione così catastrofica: in effetti nell’aria era rimasta ormai così poca acqua che un secondo diluvio universale non avrebbe più potuto verificarsi. Ecco allora che Jahvè può dire a Noè di guardare all’arcobaleno come a un segno di pace – e ancor oggi l’arcobaleno rappresenta un solenne simbolo di concordia fra la Divinità e l’uomo.

Il fatto che l’atmosfera contenesse da allora in poi una minor quantità d’acqua, rese possibile un altro fenomeno importantissimo: la chiara e nitida percezione dei sensi. Prima tutto era avviluppato da dense nebbie, gli oggetti non potevano ancor venir percepiti con i loro contorni netti. La nitidezza della percezione sensoriale a cui oggi siamo abituati divennne possibile solo quando le condizioni dell’aria e dell’acqua pervennero allo stato che fondamentalmente hanno ancor oggi.

Parallelamente al fenomeno geofisico della chiara percezione del mondo esterno, gli uomini cominciarono ad avere anche una percezione di sé come esseri fisici e materiali, sempre più separati dalla Divinità. E ancora grazie alla possibilità di esercitare al meglio i suoi organi di senso, l’uomo iniziò via via a viversi come un abitante della Terra. Proprio in quest’era postatlantica, o postdiluviana, sentì nascere in sé la «nostalgia» del Paradiso perduto, una tensione struggente verso le lontananze celesti. Nacque così la religione vera e propria, la ricerca di una via che possa ricondurre al divino.

Le culture postatlantidee che precedono la nostra – l’indiana, la persiana, l’egizio-caldea e la greco-latina –, rappresentano i vari stadi dell’evoluzione religiosa del genere umano. Queste culture sono sorte al fine di permettere ad ogni popolo di cercare a modo suo il Paradiso celeste smarrito.

Quella presenza del divino che l’umanità dei primordi sperimentava ogni momento intorno a sé, cominciò ad essere cercata a partire dal sentimento della nostalgia. L’uomo sentiva di essere stato estromesso dalla sua patria originaria, e poté comprendere che questo è il presupposto per poterla ricercare e ritrovare. È in particolar modo nell’atteggiamento religioso dell’antica civiltà indiana che aleggia questo desiderio struggente di ritrovare la via verso la sorgente primigenia dello spirito umano.

La cacciata dal Paradiso e il crepuscolo degli dei

Nell’era atlantica ogni uomo era dotato di un tipo di «chiaroveggenza istintiva», ancestrale: percepiva direttamente ciò che è spirituale, vedeva l’espressione del divino in ogni cosa. Era una capacità che gli derivava dall’essere ancora congiunto fortemente con la Divinità, segno che il distacco dalla matrice celeste, la cosiddetta «caduta», è avvenuto solo a poco a poco. Quell’atavica confidenza col sovrasensibile si può paragonare alla capacità che i bambini molto piccoli hanno di avvertire istintivamente lo stato d’animo della madre, e di rivolgersi a tutte le cose come fossero animate. Questo tipo di chiaroveggenza arcaica andò perdendosi nel corso dell’epoca postatlantica.

La parabola evangelica del figliol prodigo vuole raffigurare proprio questo mistero evolutivo. Il figlio minore, cioè l’umanità più giovane, quella del periodo postdiluviano, abbandona la casa paterna divina per conseguire l’indipendenza. Raggiunta la libertà e l’autonomia grazie a una profonda trasformazione interiore, il figlio minore si rimette per volontà propria alla ricerca della casa paterna, del Padre celeste stesso, per vivere con lui una comunione completamente nuova, realizzata tutta a partire dalle sue forze.

Questa parabola dell’evoluzione è descritta in forma moderna ne La scienza occulta nelle sue linee generali di Rudolf Steiner. Lì si narra come l’uomo abbia visto scemare a poco a poco la sua chiaroveggenza naturale. Non solo è cessato il rapporto diretto con le Entità spirituali, ma successivamente anche la connessione con gli spiriti elementari che reggono le sorti della natura – quelli che oggi incontriamo ormai solo nelle fiabe: gnomi che lavorano fra le pietre, ondine che guizzano nei fiumi, silfidi che volteggiano nell’aria e salamandre che sfavillano nel fuoco.

Il mito di Baldur della mitologia nordica è una sublime descrizione di come scompare la capacità di vivere in comunione con questi spiriti della natura. Baldur è la natura ancora splendente di vita spirituale così come la vedevano gli antichi germani, quando ancora avevano un’intima familiarità con nani e coboldi, con ondine, silfidi e salamandre.

Il mito racconta: un giorno Baldur venne ucciso – e anche questo è un aspetto del peccato originale[2], del «crepuscolo degli dei», della necessità per l’uomo di separarsi dal mondo dello spirito. L’umanità doveva perdere anche Baldur, la capacità cioè di percepire gli spiriti all’opera nella natura. E dov’è finito, allora, Baldur? Giù, dalla tetra Hel! La buia Hel è la natura privata dello spirito, così come la percepisce l’uomo moderno.

Gli antichi germani vedevano scomparire con Baldur la vita vera della natura, della quale i racconti tramandati di generazione in generazione descrivevano ancora la radiosità e l’incanto. Per questi popoli del Nord il mondo così come lo vediamo noi oggi sarebbe stato un regno di oscurità totale, paragonabile a un inferno (Hel). Essi sapevano che il mondo in cui Baldur è morto è un mondo tutto buio, inospitale. Che a noi oggi non sembri buio dipende dal fatto che siamo abituati alla sola luce del sole che tutto illumina, e non rammentiamo più l’aura di luce vivente e vibrante che una volta avvolgeva la natura. Non abbiamo più nessuna possibilità di paragone, e riteniamo che il mondo sia sufficientemente chiaro, e che l’uomo l’abbia avuto intorno sempre così.

Il motivo centrale del peccato originale, della separazione dell’anima umana dal regno spirituale e del suo irretimento sempre più fitto nel mondo opaco della materia, è l’individualizzazione dell’uomo, l’acquisizione dell’autonomia da parte del singolo.

All’inizio l’umanità era come un essere unico: il nome «Adamo» non indica un individuo singolo, bensì l’umanità tutt’una. In principio vi era per così dire un’«anima di gruppo» in cui non era ancora possibile fare l’esperienza dell’Io individuale. L’evoluzione successiva è servita a formare in ogni uomo un’individualità sempre più marcata, grazie a un legame via via più profondo con la materia. La materia serve a separare gli esseri gli uni dagli altri. Penetrando sempre di più con la coscienza dentro la propria corporeità, all’uomo è stata offerta l’occasione di avere una «casa» tutta sua, dove poter concretamente tracciare i confini del proprio essere, fino a riconoscersi come un individuo del tutto a sé stante.

Il risultato finale di questo processo di individualizzazione è lo stato attuale, in cui l’uomo ha realmente la facoltà di viversi come un Io separato dagli altri, del tutto autonomo. Come un’unità chiusa in se stessa, in grado di pensare e di agire in modo indipendente, in base alle proprie convinzioni.

Se poi chiediamo qual è il senso più profondo di questa individualizzazione, non serve a niente una risposta astratta o teorica. Che l’individualità autonoma sia il bene umano sommo non può essere dimostrato grazie a qualcos’altro: l’esperienza di essere un Io, uno spirito indipendente, è di per sé soddisfacente in modo assoluto, non ha bisogno di giustificazioni dall’esterno né può fondarsi su paragoni.

L’uomo che comprende veramente se stesso sa per intuizione e per vissuto personale che essere un Io a sé stante rappresenta la massima dignità della condizione umana. Egli la sperimenta con vivace ed evidente immediatezza, come qualcosa di originariamente vero, bello e buono, ed è grato per questo valore supremo della sua vita. Non può far altro che approvare illimitatamente il fatto di potersi vivere come un essere spirituale unico, individuale e libero. Sente che ciò gli corrisponde in modo incondizionato. E per chi fa questa esperienza non c’è nient’altro da «dimostrare». Dove questa esperienza non sia ancora abbastanza incisiva, le dimostrazioni teoriche servono a ben poco. Ogni prova logica ha valore solo se è preceduta dall’esperienza della realtà che si vuole «provare».

La religione è un ritornare a casa, procedendo in avanti

Come nella prima fase dell’evoluzione gli uomini si sono separati gli uni dagli altri e dalla loro casa divina comune, così nella seconda ogni uomo, rendendo sempre più energico il proprio Io, tenderà a un ricongiungimento – la religione appunto – con tutti gli Esseri spirituali, con tutti gli uomini e con tutte le creature. È ciò che sta succedendo attualmente, e l’impulso viene proprio dalla libertà conquistata a livello individuale.

Questo processo di «ricongiungimento», tuttavia, non può verificarsi annullando l’evoluzione avvenuta finora, ritornando cioè indietro alla condizione originaria. L’individualità umana, frutto della caduta, non è sorta per esser di nuovo vanificata! La comunione futura con tutto ciò che esiste, e che nascerà su quelle strade che sono le varie religioni degli uomini, sarà completamente diversa dalla comunione che esisteva ai primordi.

L’unità iniziale era per l’uomo una sorta di uniformità, priva di articolazione e di varietà. La comunione che verrà realizzata alla fine avrà una qualità assolutamente diversa: sarà la reintegrazione in un unico organismo spirituale di uomini tutti diversi gli uni dagli altri. Il recupero della comunione con gli Esseri spirituali e con tutte le creature della Terra è una cosa sola con l’evoluzione del singolo che porta a compimento la sua fisionomia inconfondibile. Per fare dell’umanità un organismo unico, l’uomo deve esercitare l’amore, cioè le forze più individuali che ha, quelle che rendono ognuno diverso dall’altro.

Alla prima unilateralità – quella dell’unità iniziale senza varietà d’individui – è subentrata nel corso del tempo una seconda, ad essa opposta: quella dello smembramento in individui pieni di egoismo, che della comunione hanno solo la bella teoria. Emerge allora l’ulteriore compito evolutivo dell’uomo: quello di realizzare la terza fase volta alla sintesi delle prime due, nel senso che la comunione – la comune unione – e la varietà delle individualità, non vengono più vissute nell’esclusione reciproca, ma insieme.

Il singolo diventa perfetto solo promovendo, in virtù dell’amore, tutti gli altri uomini. Il rispecchiamento di tutta l’umanità nel cuore di ognuno rappresenta l’ideale supremo dell’individuo stesso. La reciproca appartenenza vuol essere vissuta d’ora in poi come ricchezza dell’individuo, come sua traboccante pienezza, proprio perché ogni singolo apporta al tutto qualcosa di completamente diverso dagli altri.

Anche l’evoluzione della religione va vista in questa ottica. Il ricongiungimento col mondo spirituale è la meta globale dell’evoluzione religiosa di ogni singolo individuo. Solo afferrando il senso generale dell’evoluzione si può comprendere anche il contributo particolare di ciascuna religione al cammino di ogni uomo. La religione nasce quando l’uomo, dalla solitudine di cui è divenuto consapevole, inizia a cercare il divino nell’intento di ricostruire con le proprie mani la comunanza che ai primordi gli dava la grazia divina.

Prospettiva metodica dell’evoluzione

Ci sono due modi fondamentali di accostarsi al mistero dell’uomo: quello «statico», che parte dal presupposto che l’essere umano, anche in epoche antiche, fosse costituito più o meno com’è oggi, e quello «dinamico», che mette in primo piano il divenire dell’uomo, cioè il graduale realizzarsi del suo essere – cosa che comporta enormi cambiamenti nella sua compagine fisica e spirituale.

Se applichiamo alle religioni questa seconda prospettiva evolutiva, possiamo fare una scoperta forse sorprendente, ma non meno liberatoria. Dove l’evoluzione viene presa sul serio, nessuna religione può essere considerata migliore o peggiore di un’altra. Ogni religione è vista come «buona» in quanto esprime per l’uomo un bene che è diverso in ogni tempo e per ogni popolo.

Se c’è stata una «caduta» dell’uomo dai mondi dello spirito e se è vero che è in atto una graduale «risalita», vuol dire che in un momento ben preciso dell’evoluzione si è verificata una «svolta», un’inversione di marcia che riguarda tutti gli uomini. L’autore di questo testo vede la grande svolta dei tempi nell’evento del Cristo, e le pagine che seguono vorrebbero spiegarne il perché. Ma visto che a proposito del cosiddetto «Cristo» negli ultimi duemila anni sono successe non solo molte cose belle, ma anche dei grandi pasticci, l’autore chiede al lettore di aver pazienza nel seguire il suo sforzo per dare fondamento a questa sua affermazione centrale. La stessa precauzione vale anche per la dimensione cosmica del Cristo, che il cristianesimo tradizionale ha perso completamente di vista, tant’è vero che quando uno parla dell’Essere del Sole, del Dio del Sole, fa subito la figura di un gran pagano, come se il Cristo non avesse nulla a che fare col sistema solare, delle cui forze tutti viviamo, giorno e notte.

Per ora possiamo dire: le religioni antecedenti alla grande svolta sono opera più della Divinità che dell’uomo. In questo senso tutte le religioni prima di Cristo non potevano che essere buone per l’uomo. Erano volute, ispirate e guidate da Esseri divini. I fondatori delle varie religioni ricevevano direttamente dalla Divinità le ispirazioni circa quel che di volta in volta era necessario per il cammino spirituale dei vari popoli dell’umanità.

Si parla di religioni al plurale, e questa molteplicità deriva dal necessario smembramento del genere umano, dal processo di individualizzazione che, con la svolta, giunge al termine ultimo della divisibilità: l’individuo, l’Io come atomo umano non ulteriormente divisibile – come dice la parola latina individuum. Questo processo di frantumazione, di differenziazione, non può che aver avuto inizio con una partizione in gruppi più grandi, che sono appunto i vari popoli.

La primissima «ramificazione» dell’umanità è avvenuta ai primordi mediante la separazione dei sessi, che ha permesso la comparsa di due diverse qualità fondamentali dell’umano. A questa prima differenziazione se ne sono poi aggiunte altre col sorgere delle varie razze e, successivamente, dei vari popoli con le loro culture, lingue e religioni. Le razze rappresentano delle differenziazioni basilari a livello fisico; tramite queste caratteristiche corporee, fra i vari popoli si sono poi manifestate le più svariate intonazioni animiche, soprattutto nelle ere postatlantiche.

Le epoche culturali indiana, persiana, egizio-caldea e greco-romana sono stadi culturali, a differenza dei precedenti stadi naturali legati alle razze. L’evoluzione nell’epoca atlantica procedeva sulle caratteristiche fisiche; nell’era postatlantica essa si fonda maggiormente sulle differenziazioni psicologico-culturali, che si manifestano nelle religioni e nelle mitologie dei vari popoli.

Le religioni precristiane sorgono dunque parallelamente alla nascita dei vari popoli, e sono perciò fondamentalmente religioni di popolo. Nella prospettiva della reincarnazione[3] – che riprenderemo più avanti come connessa all’ottica evolutiva –, ciascun uomo s’incarna di volta in volta in ognuna di queste qualità nazionali, e pertanto anche nelle loro diverse pratiche religiose. Ogni individualità umana percorre il suo cammino passando di religione in religione. Le religioni prima di Cristo – prima della grande svolta – rappresentano i vari gradini dell’evoluzione interiore trascorsa da ogni uomo.

Le religioni si sviluppano dapprima una dopo l’altra, in successione, presso i vari popoli, e poi permangono nel tempo le une accanto alle altre, quali espressioni delle qualità peculiari di ciascun popolo, e quindi inevitabilmente delimitandosi ed escludendosi a vicenda. Questo dà al singolo uomo la possibilità di compiere dentro di sé la grande svolta dell’evoluzione, che consiste nell’armonizzare fra loro tutte le religioni. Le religioni che sono sorte una dopo l’altra, e che sono rimaste una accanto all’altra, vengono così vissute dal singolo uomo l’una dentro l’altra. La svolta si compie per ognuno quando nel suo cuore vive quell’Essere che non porta una nuova religione da affiancare o da contrapporre alle altre, ma che rende l’uomo capace di fare in sé la sintesi di tutte le religioni a partire dalla propria libertà, con le forze dell’amore[4].

Prima della svolta, la nascita e lo sviluppo dei vari popoli e delle varie religioni, con le rispettive mitologie, erano opera della «grazia divina», che è paragonabile all’aiuto benevolo e provvidenziale che ogni genitore largisce ai propri figli ancora bisognosi di guida. Ma il senso di questa grazia è di condurre l’uomo verso quella libertà che lo rende capace di interiorizzare tutte le dimensioni dell’umano, quelle che in un primo tempo si sono espresse l’una dopo l’altra nelle varie religioni e nei vari popoli.

Dalle religioni dei popoli alla religione dell’uomo

Quanto più, dopo la svolta, l’individuo realizza in sé la sintesi delle varie dimensioni dell’umano, tanto più smette di parlare di «religioni» al plurale. Nasce in lui l’esigenza di vivere semplicemente «la religione». Ogni essere umano, come individuo, fa l’esperienza della libertà realizzando dentro di sé la sintesi di tutte le religioni. In quanto essere individuale, può vivere in sé l’armonia e il perfezionamento di tutti quei modi di rapportarsi al divino che si sono dispiegati nelle varie religioni, sorte una dopo l’altra.

La religione perfetta – la religione di tutte le religioni – è l’Uomo compiuto, il risultato finale di tutta l’evoluzione. Nel mondo umano non esiste nulla di più «religioso», di più sacro dell’uomo stesso. La libertà umana ha il compito di trasformare le religioni al plurale in una religione al singolare. Questa trasformazione interiore, più che essere il compito della libertà, ne è l’essenza.

L’Essere chiamato «Cristo», proprio come un Sole che tutto illumina, è quello che ha immesso nella Terra e nell’uomo le forze necessarie per ricongiungere tutto ciò che è frammentato, nella luce e nel calore della reciproca appartenenza. Ogni religione particolare attende di venir superata, di confluire in quella religione universale che è la pienezza dell’umano in ogni uomo.

Il futuro della religione è l’evoluzione futura dell’uomo stesso, che coltiva tutte le capacità di crescita che la Divinità gli ha dato. In avvenire l’uomo svilupperà un atteggiamento sempre più religioso nei confronti della natura umana. Egli ha in sé la nostalgia tutta religiosa di venerare profondamente i segreti dell’Uomo – dando voce a quel «rispetto di se stessi», a quel quarto tipo di venerazione di cui parla Goethe nel Wilhelm Meister. La religione del futuro, il futuro della religione, è riposto nell’animo di chi diviene capace di stupore e di responsabilità di fronte ai destini dell’Uomo. La parola «venerazione» – che nella sua radice latina viene da Venus, Venere, la dea della bellezza e dell’amore – è intesa qui nel senso di quell’amore spassionato, di quella intima dedizione che nasce di fronte alla meraviglia inesauribile della natura umana, ancora tutta da scoprire, tutta da realizzare. Dopo la grande svolta l’uomo non cerca più il divino fuori di sé, lo vuol vivere sempre di più dentro di sé.

Questo obiettivo pare forse contraddire il fatto che il cristianesimo degli ultimi duemila anni ha comunque assunto la forma di una religione accanto ad altre – e sovente persino contro le altre. Ma questo fatto, come vedremo più in là, va compreso esso stesso nella prospettiva di un’incessante evoluzione.

La «svolta», più che una fine è un inizio

L’Essere spirituale che suscita e irradia tutte le forze solari, che armonizza la vita della Terra e degli uomini, alla svolta dei tempi fa ingresso nella Terra per realizzare la sintesi di tutti i cammini religiosi degli uomini. Viene per dare a ogni uomo l’entusiasmo di realizzare dentro di sé la religione che affratella tutte le creature. Il suo amore si manifesta nelle forze di libertà e di amore di cui ricolma ogni essere umano.

L’essenza dell’evento Cristo non risiede in ciò che il Cristo ha detto, quanto in ciò che ha fatto e continua a fare per l’uomo e nell’uomo. Durante questi duemila anni Egli ha trasformato a poco a poco tutte le forze della natura, così che ora non impediscono più l’esperienza interiore della libertà a chiunque voglia farla. L’essenza del «cristianesimo» passato è stato l’agire del Cristo nell’anima umana. Solo a partire dalla nostra epoca l’uomo è realmente capace – proprio grazie a questo agire – di compiere la sintesi di tutte le religioni nei suoi pensieri e nelle sue azioni, movendo dalla propria libertà, per quanto essa sia solo agli inizi.

Prima della grande svolta, il «Padre» divino ha ispirato una dopo l’altra le varie religioni quali cammini di crescita offerti all’uomo. Il «Figlio» di Dio dà una svolta all’evoluzione rendendo ogni uomo capace di vivere le religioni una dentro l’altra.

La nascita di una moderna scienza dello spirito, quale inaugurata da Rudolf Steiner, segna l’avvio di un nuovo modo di vivere l’elemento religioso. Non viene fondata una ennesima «religione» accanto ad altre, ma vengono messi a disposizione di ognuno gli strumenti conoscitivi che gli consentono di superare ogni unilateralità. Ciò che è nuovo ai nostri tempi è che ogni uomo è ormai in grado di capire e di vivere ciò che è universalmente umano. L’Essere chiamato Cristo ha reso ogni uomo capace di creare «la» religione, che fa dell’Uomo in ogni uomo la realtà più sacra che esista sulla Terra.

Solo una conoscenza scientifica dei mondi spirituali rende possibile all’uomo un rapporto pienamente consapevole e libero con l’elemento divino-spirituale del mondo, quale compimento dell’operare del Cristo. Il cosiddetto «Spirito Santo» non è altro che lo Spirito dell’uomo stesso che accende la religione universale della libertà e dell’amore, perché solo in essa trova la sua pienezza – come la fiamma della Pentecoste che arde sul capo di ogni singolo apostolo. Una moderna scienza dello spirito non può che essere l’inizio di una religione dello Spirito Santo, cioè dello Spirito che rende libero e irraggiante ogni spirito umano.

Religione dei popoli al Nord e al Sud

Le religioni, espressioni del rapporto fra l’uomo e il divino sorte nei vari popoli della storia, si esprimono in due correnti fondamentali: una al Nord e l’altra più a Sud.

Nella corrente settentrionale, che interessa principalmente l’antico popolo persiano, ma anche le popolazioni europee e germaniche, il ricongiungimento col mondo spirituale si otteneva tramite un tipo di «iniziazione» che apriva l’uomo alla vastità dell’universo: in un tipo di esperienza estatica, egli veniva trasportato nel macrocosmo, nel grande mondo fuori di lui, al di là della Terra.

La corrente meridionale si è manifestata in particolar modo in India, poi in Egitto e successivamente anche in Grecia. Consisteva nell’intento di riunirsi al divino mediante un’esperienza mistica. Questa iniziazione alla realtà del microcosmo-uomo – o «piccolo cosmo», immagine rimpicciolita ma fedele del grande mondo – era un percorso che consentiva di fare esperienze completamente diverse da quelle di chi si espandeva nel macrocosmo.

Le religioni e le mitologie dei vari popoli sono l’espressione di queste due forme originarie dell’iniziazione: l’esperienza del sovrasensibile attraverso l’espansione del proprio essere nell’universo sconfinato, oppure attraverso la concentrazione nelle profondità della propria anima. Il carattere armonizzatore dell’operare dell’Essere chiamato Cristo si manifesta nella sintesi di questa polarità: i due pilastri fondamentali del suo farsi uomo corrispondono alle due forme originarie della religione.

Il concentrarsi del Cristo nell’angusta interiorità di un uomo, il suo amorevole «ridursi» ad essa, si esprime nel battesimo nel Giordano, con la successiva triplice tentazione – in cui fa l’esperienza della discesa nelle profondità dell’anima umana, propria di tutte le vie mistiche meridionali. Lì viene vissuto il risultato della «discesa» di tutti gli uomini nel corpo: l’egoismo. Lì ci si rende conto che il compito futuro di ogni cammino religioso consiste nel superamento dell’egoismo.

Tre anni dopo il suo battesimo, il Cristo sperimenta la seconda forma fondamentale della religione nella propria morte e nella propria resurrezione. Egli «va al Padre», si espande nel macrocosmo unendosi a tutte le forze attive nella Terra. L’immagine del Getsemani ci mostra l’istante in cui Egli prova la paura che hanno tutti gli uomini di fronte alla morte: è l’esperienza del modo settentrionale di connettersi al divino che è diffuso in tutto il mondo. L’uomo provava angoscioso terrore di morte perché, nel suo tentativo di mettersi in relazione con la vastità del cosmo, temeva di perdersi, di dissolversi nel nulla. Questo perché l’esperienza di essere un Io era allora solo agli inizi. La parola «estasi» (che non aveva solo quella valenza di beatitudine che oggi le attribuiamo) sta a dire che a quei tempi l’uomo, lasciando il suo corpo, veniva a perdersi nelle vastità del mondo esterno.

Il sentimento che caratterizzava il percorso tutto intimo delle religioni meridionali non era quello della paura, ma della vergogna. A mano a mano che l’uomo s’immergeva nella propria interiorità, provava un profondo turbamento di fronte al baratro di egoismo che scorgeva in sé. Percepiva nel suo profondo la gravezza della «caduta», tutto ciò che l’aveva portato – che aveva dovuto portarlo – a viversi come centro del mondo, reclamando tutto e tutti al suo servizio.

La costituzione dell’Io, l’individualizzazione dell’uomo, è stata possibile solo per il fatto che ognuno ha dovuto imparare a pretendere tutto quanto per sé – proprio come deve fare ancor oggi ogni bambino. Per diventare adulto il bambino deve essere in un primo momento un perfetto egoista: deve afferrare per sé tutte le forze della natura e tutte le persone che gli stanno accanto. Così, calandosi in se stesso, l’uomo meridionale comprendeva che cosa significasse aver usato a proprio vantaggio tutte le risorse del creato, aver voluto a propria disposizione tutti gli altri esseri umani. Vedeva che cosa aveva sottratto agli altri per avocarlo a sé.

La vittoria sulla vergogna l’uomo la consegue quando non considera più l’egoismo come una colpa, ma come un necessario compito di crescita. Inteso in questo modo, l’egoismo non è in contrasto con la dedizione agli altri esseri. L’amore verso di sé non va eliminato – non si può eliminarlo – ma va ampliato per estendersi anche a tutti gli altri uomini. È questo il significato della massima: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Solo chi è diventato egoista potrà superare l’egoismo, facendo rifluire nell’umanità tutti i doni ricevuti.

Iniziazione, fonte delle religioni

Le due forme fondamentali della religione prima di Cristo richiamano l’attenzione su un altro elemento decisivo nella storia del rapporto tra l’umano e il divino: le scuole misteriche del mondo antico. Gli iniziati sono i grandi «precursori» nell’evoluzione dell’umanità, sono coloro che hanno anticipato gli stadi futuri del cammino che riguarda tutti gli uomini. Hanno ammaestrato dei discepoli rendendoli a loro volta capaci di curare il rapporto con le Entità divine e di comunicare al popolo le loro direttive.

Grazie alla capacità di vivere nel mondo spirituale – è questo che s’intende per iniziazione –, le guide dell’umanità hanno potuto dare ai loro popoli degli impulsi religiosi di volta in volta salutari, ricevendoli direttamente dal mondo spirituale. Dalla Divinità che reggeva le sorti di un dato popolo gli iniziati apprendevano la missione specifica degli uomini la cui guida era stata loro affidata. Trasmettevano alla loro gente il compito da svolgere sotto forma di «religione», che diventava così l’espressione della volontà divina. L’origine delle religioni va quindi cercata nelle ispirazioni suggerite da Entità divine agli iniziati, che questi traducevano poi in riti, leggi, usanze sociali, racconti mitici.

Il ruolo svolto dagli iniziati ai misteri era duplice. Da una parte, conducevano all’iniziazione i pochi capaci di venir introdotti nel mondo spirituale senza subire danni. Dall’altra, a questi iniziati spettava il compito di guidare il proprio popolo sia a livello spirituale che in fatto di politica e di economia. Erano loro a dettare i ritmi della vita quotidiana, le leggi che reggevano la convivenza sociale, le usanze e le feste della natura legate alle stagioni.

La religione di ogni popolo, con tutte le sue pratiche, i riti e i culti, era una rappresentazione accessibile a tutti – fatta di scene e di gesti – delle esperienze realmente vissute nel mondo spirituale dai pochi eletti sulla via dell’iniziazione. La mitologia dava invece l’interpretazione conoscitiva, in forma di narrazione, dei vari passi percorsi dal discepolo per entrare ed orientarsi nella realtà sovrasensibile. Nel rito e nel mito, allora, anche la persona più semplice riceveva la sua educazione religiosa. Le mitologie e le religioni sono state le grandi pedagoghe del genere umano.

Nel vangelo, nel modo in cui il Cristo insegna e agisce fra gli uomini, troviamo un’ultima eco e nello stesso tempo una sintesi del rituale che viene compiuto e del mito che viene narrato. Al popolo il Cristo parla per parabole, per immagini che riassumono le conoscenze mitologiche di tutti i popoli; ai discepoli presenta le conseguenze morali, di comportamento, del suo insegnamento. A loro spiega il significato delle parabole sotto forma di concetti, alludendo alla sua iniziazione, alla sua morte e alla sua resurrezione, come compendio delle esperienze iniziatiche di tutti i misteri precristiani, come sintesi reale di tutte le religioni. Religione nel senso più vasto della parola è allora l’evoluzione nel suo insieme, quale morte e resurrezione di ogni «figlio dell’uomo».

L’essenza di ogni religione è l’anelito a vincere la morte. L’uomo vuole «confutare» la morte, non vuol esaurirsi nella precarietà, nella fuggevolezza del mondo fisico, vuol sentirsi un Essere spirituale eterno, a cui la materia non può far nulla di male. E che dopo la morte, dopo il dissolvimento del corpo, continua ad esistere anche senza fisicità.

Come l’iniziazione ai misteri era per pochi eletti un’anticipazione della morte, era l’entrata vittoriosa dello spirito umano nel mondo spirituale tramite l’abbandono temporaneo del corpo, così le religioni erano per tutti un’imitazione rituale dell’esperienza dell’iniziazione.

In questo senso le religioni sono delle rappresentazioni drammatiche, determinate dal livello evolutivo di ogni popolo, del modo in cui l’uomo varca la soglia che lo separa dal mondo sovrasensibile, e lo svela. Il superamento della morte è l’essenza sia dell’iniziazione sia della religione: entrambe le vie conducono al reale ricongiungimento con il mondo spirituale, mediante il superamento delle leggi della materia.

Tutte le religioni per ogni singolo uomo

È importante distinguere fra l’individualità spirituale che ogni uomo è, e le varie religioni che ognuno fa proprie, una dopo l’altra, nel corso della sua evoluzione.

Il dogmatismo religioso viene superato quando nessuna religione viene fatta passare per vera o falsa in assoluto. Nella prospettiva dell’evoluzione, tutte le religioni vengono riconosciute come tappe necessarie lungo il cammino di ogni uomo. Ogni religione è sorta come impulso adeguato ai suoi tempi, come stadio necessario nell’evoluzione di un dato popolo. Tutte le religioni sono «buone» nella misura in cui servono a superare ogni esclusività inserendosi nell’universale umano, contribuendo alla pienezza di ogni singola persona.

L’individualità in continua evoluzione – l’Io di ogni uomo che di vita in vita passa da una religione all’altra – supera l’altra faccia del dogmatismo: la tentazione ricorrente d’identificare l’individuo con una singola religione. Per chi torna a incarnarsi, le esperienze religiose particolari – cioè le religioni dei vari popoli – sono aspetti singoli di quella religione totale che è la propria umanizzazione. Uomini non si è, si diventa. Le esperienze religiose vissute lungo i millenni vengono a confluire nell’uomo stesso, e nascono così da un lato l’umanità come unità, e dall’altro l’individualità dotata di Io in ogni singolo.

Ognuno di noi è stato – o sarà – induista, ebreo, greco, persiano… L’individualità umana non si identifica con nessuna religione particolare. La stessa cosa vale anche per quanto riguarda le razze e i popoli. Nessun uomo può essere identificato con una caratteristica fisica o psichica, dal momento che ognuno, nel corso di un lungo divenire, ha modo di far sue, una dopo l’altra, tutte le tipologie fisiche, tutte le culture, tutte le religioni.

Il fatto che anche dopo la grande svolta continui la coesistenza di religioni particolari, se non addirittura conflittuali, va considerato come uno stadio da superare. Il compito di chi ha fatto lungo i millenni l’esperienza di una religione escludendo le altre è quello di cessare di viverle come separate, e di realizzarne la riconciliazione. L’uomo farà così l’esperienza di se stesso come sintesi vivente di tutte le religioni. La sintesi delle religioni sarà allora per lui come un’anamnesi personale: nel ricordo di ciò che si è vissuto nel corso del tempo, le varie religioni vengono interiorizzate come dimensioni eterne della propria anima.

Ciò che nella successione del tempo ha presentato un carattere di abito esterno, diverrà l’essere intimo dell’uomo che lo porta non più su di sé ma dentro di sé. L’uomo desidera trasformare tutte le religioni da prassi esterna a qualcosa di essenziale al proprio essere. Egli le innalza tutte all’unità diventando lui stesso la loro unione vivente.

Secondo capitolo

Le religioni DELL’ORIENTE

Nel ripercorrere i cammini religiosi degli uomini, si notano profonde trasformazioni nel rapporto che s’instaura tra discepolo e maestro. Basta considerare i tre modi d’insegnare, del tutto diversi fra loro, del Buddha, di Socrate e del Cristo.

Buddha, Socrate e Cristo

Il Buddha trasmette ai suoi discepoli ciò che lui ha conseguito mediante l’illuminazione. Lo scopo che si prefigge è di riversare nell’allievo la stessa saggezza che vive in lui, pura e immutata. Un buon discepolo del Buddha è colui che accoglie in sé l’insegnamento del maestro così da diventare interiormente sempre più simile a lui. L’obiettivo è raggiunto quando porta in sé lo stesso contenuto d’anima che vive nel Buddha, quando è una copia perfetta del maestro.

Completamente diverso è il modo d’insegnare di Socrate. Egli si rifiuta per principio di trasfondere nel discepolo qualcosa che lui, e non il discepolo, ha raggiunto tramite un lavoro tutto suo. Vuole fungere semplicemente da stimolo all’attività individuale dei suoi allievi. Per questo motivo definisce maieutico il proprio metodo. Il discepolo viene incoraggiato a produrre pensieri e impulsi volitivi suoi, originali, creati di propria iniziativa. Socrate non vuole che si possano riconoscere i suoi insegnamenti nell’ascoltare i suoi discepoli, ognuno di essi deve produrre qualcosa di diverso da quello che gli porge il maestro. Nulla deve essere accettato unicamente in base alla sua autorità, credendogli per fede. Ciò che avviene nel discepolo deve essere da lui vissuto come qualcosa che lui stesso ha creato, e non sia mai che ci siano anche solo due discepoli uguali fra loro.

Una sola volta Socrate ha insegnato come un Buddha, e una sola volta il Buddha ha insegnato come un Socrate: Socrate l’ha fatto poco prima di morire, quando era in procinto di ritornare nel mondo spirituale; il Buddha ha insegnato una volta sola in modo discorsivo, sotto forma di dialogo, al suo discepolo Sona, per indurlo a capire qualcosa di persona.

Nell’insegnamento del Cristo, nei vangeli, abbiamo una sintesi di questi due modi di rapportarsi ai propri discepoli. Come già accennato, con la folla il Cristo si comporta come un Buddha, insegna servendosi di immagini, di parabole. Queste immagini agiscono in chi lo ascolta anche senza una sua presa di posizione attiva e consapevole. Con i discepoli, invece, il Cristo si comporta come un Socrate che conduce ognuno all’autonomia sia nel giudizio sia nell’azione. A loro spiega il senso delle parabole usando il dialogo, il pensare discorsivo.

L’uomo tra il vecchio e il nuovo

Nel modo di rivolgersi agli uomini che fu del Buddha, di Socrate e del Cristo, abbiamo un quadro riassuntivo dei cammini religiosi dell’umanità. Il metodo d’insegnamento del Buddha è tipico dell’esperienza religiosa prima di Cristo. Socrate anticipa in un certo senso il maestro dei tempi nuovi, l’esperienza religiosa dell’uomo moderno. Il modo d’insegnare del Cristo rappresenta a sua volta una sintesi di entrambi i metodi o, se si vuole, l’arte di passare dall’uno all’altro.

Il Cristo costruisce sul passato rivolgendosi al popolo secondo il metodo del Buddha: collegandosi al vecchio vuole creare un ponte verso il nuovo, una transizione. L’uomo ne ha infatti sempre bisogno, poiché l’evoluzione può avvenire solo mediante una trasformazione graduale del vecchio nel nuovo. Il Cristo si rivolge a ciò che già vive negli uomini prima dell’ingresso delle forze dell’Io, per trasformarlo oltre. Questo tipo di insegnamento si adegua allo spirito delle religioni orientali, ne convalida il carattere preparatorio.

Dall’altro lato, quando il Cristo si pone, come un Socrate, in relazione con i suoi discepoli più intimi, vediamo anticiparsi tutta l’evoluzione futura. Nell’epoca successiva alla venuta del Cristo, ogni uomo è infatti chiamato a usare il suo pensiero in modo sempre più autonomo, a comprendere sempre meglio i fenomeni della vita per poter agire non più sulla base di una pura dottrina rivelata o di comandamenti impartiti da un’autorità esterna, ma per convinzione propria.

Con questo viene evidenziato il carattere fondamentale di tutte le religioni che hanno preceduto la venuta del Cristo: esse appartengono ad un periodo evolutivo di tipo preparatorio. A quei tempi l’uomo non era ancora in grado di vivere come un Io spirituale, come individualità capace di pensare e di agire autonomamente, ma veniva guidato dal gruppo di appartenenza, proprio come fa un bambino ancora piccolo nei confronti dei genitori e dell’ambiente che lo circonda.

La Bhagavad-Gita e le Lettere di Paolo

La spiritualità che si manifesta nella Bhagavad-Gita, uno dei testi sacri più belli della spiritualità indiana, presenta un’elevata perfezione non solo riguardo ai contenuti ma anche nella forma. Nelle Lettere (o Epistole) di Paolo, al contrario, troviamo qualcosa che in un primo momento sembra fin troppo «umano» e che, paragonato alla Bhagavad-Gita, ci dà l’impressione di essere meno perfetto sia nella forma che nel contenuto[5].

Per questo motivo spesso l’Oriente fa al cristianesimo la seguente obiezione: i messaggi di Paolo non sono forse imperfetti e rozzi, se paragonati ai nostri testi sacri? È talmente personale, il vostro Paolo! Dalle sue lettere traspaiono in continuazione le sue passioni umane. Com’è possibile considerare più perfetta la religione cristiana, più vicina al divino, se la si confronta con i contenuti di un testo del calibro della Bhagavad-Gita? Questa sì che è divinamente ispirata; dove sono, invece, le tracce della perfezione divina in Paolo?

Se affrontiamo questo enigma dal punto di vista della scienza dello spirito, impariamo a vedere da un’altra angolazione ancora il senso dell’evoluzione e dei suoi vari stadi. È fuori dubbio che la Bhagavad-Gita, la perla della religione orientale, non possa essere superata in perfezione di pensieri e di stile. Gli uomini di quei tempi sapevano ancora accogliere pensieri e parole che provenivano direttamente dalla Divinità. E finora, infatti, nessuna opera è stata in grado di sopravanzare la profondità della sua saggezza e la sublimità della sua lingua.

Ma è proprio questo il punto: nel caso della Bhagavad-Gita abbiamo a che fare con un’opera che non può essere ulteriormente perfezionata. Ci troviamo di fronte a una conclusione, a una vetta somma. In questa direzione l’evoluzione della religione non avrebbe più potuto progredire oltre. E quando in una direzione viene raggiunto l’acme, la sommità, se l’evoluzione non vuole arrestarsi deve riprendere da un’altra parte!

E proprio questo avviene con le Lettere di Paolo: in lui c’è un nuovo inizio che prende una direzione completamente diversa. Nell’evoluzione successiva alla venuta del Cristo, per l’uomo non è importante solo ciò che compie la Divinità, ma diventa non meno decisivo, per quel che lo riguarda, ciò che lui stesso può creare in libertà. Gli inizi dimessi e persino maldestri che riscontriamo in Paolo sono, se paragonati all’antica rivelazione divina, decisamente grezzi: e tuttavia nella dinamica dell’evoluzione rappresentano un nuovo inizio, che porterà a un gradino superiore. Questa realtà nuova ha ancora millenni davanti a sé, e proprio perché è solo agli inizi ha tutto il diritto alla sua «imperfezione». Il balbettare dell’uomo non va paragonato con la perfezione del linguaggio divino, ma col tempo in cui l’uomo non sapeva ancora parlare per niente.

L’uomo comincia a collaborare con Dio

La grande svolta dei tempi ha provocato un’inversione di marcia nella storia umana, e ciò vuol dire: la grazia divina cessa a poco a poco di rivestire un ruolo esclusivo, per far posto sempre di più al libero e responsabile agire dell’uomo. Gli inizi dovranno essere modesti e imperfetti, ma sono destinati a perfezionarsi nel corso del tempo.

L’antica chiaroveggenza scompare a poco a poco proprio perché la Divinità si ritira gradualmente dallo sguardo degli uomini, non volendo più colmarli di visioni senza che facciano nulla per averle. Vuole d’ora in poi risvegliare in ogni uomo la forza creatrice e libera del proprio spirito, mantenendo vivo l’atteggiamento interiore di gratitudine nei confronti della grazia, cioè della premura divina che permane sempre, a sostegno dell’evoluzione umana. D’ora in poi l’uomo deve prestare maggiore attenzione a coltivare ciò che egli stesso realizza in modo socratico, con le forze della sua libertà. Il senso della grazia divina è di rendere possibile la libertà umana. L’intero operare della grazia è la creazione della facoltà di libertà nel singolo uomo, come fa l’educatore buono col bambino che cresce.

Una grazia divina che non avesse intenzione di far posto alla libertà dell’uomo sarebbe una vera «disgrazia» per chi conosca veramente se stesso. L’uomo che intenda la grazia, l’azione divina, come qualcosa che si opponga alla libertà umana, che la ostacoli, ne ha completamente frainteso il senso. Chi non afferra la sua libertà assumendosi la piena responsabilità del proprio cammino interiore, rende vano tutto l’operare della grazia. L’uomo che realizza la volontà divina su di lui è quello che esercita la propria creatività, perché così facendo porta a compimento l’azione dell’amore divino. La Divinità non vuole privare l’uomo del suo meglio, che è la facoltà di creare. Al contrario, vuole metterlo a parte di questa capacità in modo sempre più intenso, dal momento che lo ha creato a sua immagine e somiglianza.

Dove l’uomo partecipa attivamente alla creazione sempre in corso, la grazia divina è ben lungi dal diventare superflua. Quando gli uomini sono agli inizi dell’uso della libertà, non possono che combinare un guaio dietro l’altro, e la grazia divina, la sua benevola azione a favore dell’uomo, ha molto più da fare che non ai tempi in cui gli uomini non erano ancora liberi. Anche i genitori tribolano di più con i figli nella fase della pubertà che non quando sono piccoli. La conduzione odierna di un mondo pieno di esseri umani «in età puberale» richiede un intervento della grazia divina ben più intenso che non il mantenimento del mondo quando gli uomini erano come bambini. Spesso si rimprovera a chi coltiva la scienza dello spirito che il rilievo dato alla libertà umana equivalga all’annullamento della grazia, che «l’autoredenzione» non possa che escludere la redenzione attraverso la grazia. Ma si tratta di un equivoco: l’azione della grazia che rende possibile la libertà è più colma d’amore di quella che volesse precluderla.

Dove nasce la libertà umana, la grazia divina ha il compito aggiuntivo di riparare tutto quel che l’uomo, nella fase infantile della libertà, guasta o distrugge: quella dell’umanità di oggi è ancora in gran parte una libertà fatta più di egoismo che di amore. L’azione divina ha potuto raggiungere un peso morale maggiore proprio grazie alla comparsa della libertà dell’uomo.

«Non c’è (più) spirito secondo la metrica»

Nel terzo capitolo del vangelo di Giovanni (3, 34) c’è una frase che di solito viene tradotta così: «Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio, il quale gli dà lo spirito senza misura». Per «senza misura» troviamo nell’originale greco ουκ εκ μετρου (uk ek mètru), che non significa «senza misura» o «illimitatamente», bensì non secondo la metrica.

Una moderna scienza dello spirito ci pone nella condizione di capire il senso di questo versetto, che è sempre stato un enigma per i teologi. Il Figlio di Dio è stato inviato dal Padre col compito di dare inizio alla libertà umana. Il mondo della necessità di natura fornisce d’ora in poi le condizioni di base, il materiale di lavoro per la libertà dell’uomo. Il senso del determinismo di natura è la libertà dell’uomo: in termini cristiani ciò si esprime nella formula «il Padre manda il Figlio». Vuol dire che la necessità di natura – il Padre – trova il proprio significato nel far da base alla libertà umana – il Figlio[6].

Nel versetto citato si dice inoltre: «Colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio». In greco per «proferisce» troviamo la parola λαλει (lalèi), che corrisponde al nostro «balbetta», alla nostra «lallazione», cioè al modo in cui si esprimono i bambini quando cominciano a parlare. È l’uomo che, come un bimbo, impara a parlare da solo, a far uscire da sé le parole che prima provenivano da Dio, dai genitori divini. Da principio questo modo di esprimersi è estremamente imperfetto – è una lallazione, come quella del bambino –, ma è l’inizio di un’evoluzione che ha tutto l’avvenire dalla sua parte. Ora sì che possiamo capire anche l’altra frase: «Non dà più lo spirito secondo la metrica», che vuol dire: secondo la perfezione del verso poetico divinamente ispirato, come avveniva in tempi antichi.

La parola «mètros», imparentata con il sanscrito «mantra», rappresenta la perfezione «metrica» di tutti i testi antichi ispirati da Esseri divini. La forma metrica perfetta che ammiriamo nelle scritture orientali, in molte parti del Vecchio Testamento – per esempio nei Salmi – e ancora nell’Iliade e nell’Odissea, è di origine divina. Cantami, o Musa..., comincia Omero, indicando che non è lui l’autore dei poemi. Il linguaggio divino è poeticamente perfetto nella sua metrica, cioè nell’espressione formale. Per questo nella frase del vangelo troviamo anche la parola «dà». Questo «dare» indica l’ispirazione divina, che l’uomo semplicemente «riceve», senza aggiungervi nulla di suo.

Ma è proprio a questo passivo ricevere che il Cristo vuol porre fine. Egli non dà lo spirito nella perfezione della metrica, nella bellezza compiuta del linguaggio divino, ma parla dall’interno dell’uomo stesso, inizialmente balbettando, in modo semplice, senza tante pretese. Egli vuole incoraggiare ogni uomo a far sgorgare le parole dal profondo del proprio cuore. Ognuno nel suo intimo può e vuole farlo, anche se l’inizio è quanto mai infantile. Ogni uomo è capace di pensare e di parlare a modo suo, basta che non si vergogni, all’inizio, di balbettare!

Così dall’ispirazione divina si passa al balbettìo umano. Dalla dichiarazione «È parola di Jahvè» – dabar Jahvè –, sempre ripetuta dagli antichi profeti per indicare la fonte sovrumana delle loro profezie, si passa alla parola che scaturisce dal pensare umano che fa così i suoi primi passi. Con la svolta dei tempi, dalla perfezione divina della Bhagavad-Gita si passa all’imperfezione umana delle Lettere di Paolo.

E a tutt’oggi il vecchio vuol far posto al nuovo: l’uomo non si accontenta più di fungere unicamente da portavoce della Divinità, da canale medianico dell’attività divina nel mondo. Tutte le cose sono manifestazioni dell’operare Dio – ma l’uomo è stato creato per collaborare con la Divinità. È chiamato da Dio stesso a prendere parte attiva all’evoluzione sua e della Terra.

Metempsicosi o reincarnazione?

Un altro aspetto importante per la comprensione delle antiche religioni orientali è la questione della reincarnazione o metempsicosi. Molti sostengono che una differenza fondamentale fra il cristianesimo e le religioni orientali sta nel fatto che in queste ultime è da sempre presente l’idea che l’uomo viva più di una volta, che ritorni ripetutamente sulla Terra[7].

Questa questione è di centrale importanza per la comprensione dell’evoluzione delle religioni. Va però distinta una concezione delle ripetute vite terrene che corrisponde all’attuale stadio evolutivo della coscienza umana, da quella che troviamo in Oriente, nell’induismo, nel buddhismo o, nei suoi ultimi echi, in Platone. La profonda differenza tra la reincarnazione come la concepisce Steiner in senso occidentale e cristiano, e quella delle religioni orientali sottolinea la distinzione fra la vita religiosa prima e dopo Cristo. La parola metempsicosi vuol dire trasmigrazione delle anime – il passare dell’anima da un corpo all’altro – mentre il termine reincarnazione, inteso in senso moderno, si riferisce all’evoluzione di uno spirito umano individualizzato.

Nelle religioni orientali non esistevano ancora i presupposti per parlare in senso proprio di reincarnazione dello spirito dell’uomo. Metempsicosi è il passare dell’anima umana da un corpo all’altro. L’uomo si viveva come «anima», come membro di un popolo o di una religione, non ancora come «spirito» individuale e autonomo.

L’uomo moderno non è formato solo da corpo e anima, ma a queste due componenti si è aggiunto lo spirito, cioè la coscienza di essere un Io che pensa con la sua testa e agisce di propria libera volontà. Questa triarticolazione dell’essere umano – chiamata una volta tricotomia – era ben nota agli iniziati dei primi secoli cristiani. È stata eliminata dal cristianesimo ufficiale nel concilio di Costantinopoli dell’869. In fondo, anche nei primi secoli del cristianesimo si poteva parlare dello spirito individuale dell’uomo solo a mo’ di profezia, annunciando ciò che ogni uomo avrebbe potuto realizzare nel corso dei secoli a venire. L’affermazione secondo la quale l’uomo è fatto di corpo, anima e spirito è in un certo senso equivoca. Egli può aggiungere sempre più sostanza spirituale alla sua parte corporea e animica, a condizione però che lavori su se stesso. È chiamato a diventare sempre di più uno spirito. Corpo e anima sono dati all’uomo per grazia, «funzionano» senza suo sforzo: lo spirito, invece, è tale solo in quanto viene conquistato individualmente, liberamente.

La distinzione fra anima e spirito può essere fatta risalire al doppio intelletto – il νους (nus) – di Aristotele, quello «attivo» e quello «passivo». Tutti i fenomeni interiori che l’uomo vive in modo passivo e ricettivo costituiscono il suo elemento animico. L’uomo in quanto anima subisce sia l’elemento corporeo, sia le leggi e le usanze del gruppo sociale cui appartiene. Come anima egli fa parte di un gruppo, non è ancora un individuo autonomo. È la pecora che non si è ancora staccata dal gregge, è il bambino piccolo ancora inserito nel suo ambiente.

Nella misura in cui l’uomo diventa creativo a livello interiore, diventa sempre di più uno spirito. Come l’anima è passiva e viene trascinata dal gruppo, così lo spirito è attivo, indipendente. Questa è la decisiva differenza fra l’anima – e la sua legge evolutiva, la metempsicosi – e lo spirito individuale – col suo reincarnarsi vivendo una vita individualizzata dopo l’altra.

La reincarnazione è allora la legge evolutiva dell’Io, dello spirito umano in quanto individualità unica ed eterna. Si può parlare di reincarnazione in senso proprio solo in riferimento a una effettiva esperienza dell’Io, a un’individualità che rimane uguale a se stessa grazie alla sua unicità e alla coscienza di sé, e che abita un corpo dopo l’altro per raggiungere delle mete del tutto individuali.

In epoca precristiana l’Io autocosciente era appena all’inizio della sua formazione, non si poteva ancora parlare di reincarnazione dello spirito umano in senso vero e proprio. Troviamo così nelle religioni orientali la metempsicosi secondo cui l’anima dell’uomo non si dissolve insieme al corpo, ma continua ad esistere nel mondo spirituale come un insieme coerente di desideri, d’istinti e di passioni. Questo organismo animico si unisce più tardi a un nuovo corpo, allo scopo di fare nuove esperienze animiche nel corso di una nuova vita sulla Terra.

L’anima, l’Io e la coscienza dell’Io

Prima della svolta dei tempi l’essere umano era già in un certo senso un Io, un essere spirituale individuale, ma non sapeva ancora di esserlo, non ne aveva ancora l’esperienza diretta. Il significato delle varie incarnazioni, delle ripetute vite nel mondo fisico, è proprio quello di acquisire una coscienza sempre più chiara del proprio Io. Finché un Io umano non ha coscienza di sé, è uno spirito in potenza (come dicono Aristotele e la scolastica medievale). La «potenzialità allo spirito» – cioè la capacità di diventare sempre più un essere spirituale che pensa e vive in modo autonomo – è proprio quel che abbiamo chiamato anima. È come dire: ogni bambino è un adulto in potenza, e ha bisogno di tutti gli anni della sua vita per diventare l’uomo che all’inizio egli è solo virtualmente.

La coscienza dell’Io sta all’Io, al nucleo vero e proprio dell’uomo, come l’immagine nello specchio sta alla realtà che vi si riflette. Un Io che non sappia di esserlo non può comportarsi e agire come un Io. Sarebbe simile a chi, pur avendo ereditato una fortuna, non ne fosse a conoscenza. È ricco potenzialmente, ma non ancora a tutti gli effetti. La distinzione fra «Io» e «coscienza dell’Io» è quindi non meno importante di quella fra anima e spirito. Per vivere come uno spirito indipendente, cioè come un Io, bisogna averne piena coscienza. Perciò quando parliamo di evoluzione dell’Io ci riferiamo in primo luogo alla presa di coscienza del proprio Io, poiché è solo questo cammino del pensiero a rendere possibile quella che chiamiamo libertà.

L’immortalità dell’anima e quella dello spirito sono due realtà fra loro non meno diverse. Volendo, possiamo parlare di immortalità anche a proposito degli animali: le forze animiche attive nel corpo di un animale, infatti, non scompaiono con la decomposizione del corpo. Continuano ad esistere, vengono riassorbite nell’anima di gruppo dell’animale, quella che gli antichi chiamavano la «specie» di un animale, intendendo con questa parola una realtà animica sovrasensibile («anima» e «animale» hanno la stessa etimologia). L’elemento animico dell’animale era visto passare, tramite la metempsicosi, da un corpo all’altro.

Anche l’insieme delle forze animiche dell’uomo dopo la morte continua ad esistere, cessa solo di essere unito al corpo. La questione della reincarnazione nel senso dell’evoluzione dopo Cristo è resa possibile grazie a una crescente presa di coscienza da parte dell’uomo di essere un Io spirituale. L’uomo può viversi sempre più non solo come un’anima determinata dal proprio ambiente, ma come un’individualità autonoma, capace di pensare e di agire poggiando su di sé.

Il Figlio di Dio è venuto fra gli uomini per trasformare a poco a poco le molteplici religioni dell’anima nella religione unica dello spirito umano, nella quale ogni uomo è chiamato a diventare sempre più un «figlio di Dio». L’unione con la fisicità genera la coscienza dell’Io, e questa a sua volta permette all’uomo di viversi come Entità spirituale a sé stante anche dopo la morte, anche quando è priva del corpo. In questo consiste la vera «immortalità» dell’uomo.

Immortali non si nasce, si diventa

Il fatto che dopo la morte rimanga qualcosa dell’uomo non vuol dire che l’uomo continui ad esistere come uomo, cioè in quanto essere spirituale individuale, cosciente del proprio Io. L’immortalità individuale è una graduale conquista dell’evoluzione. Alla morte di un uomo resta di lui tutto quello che nel suo essere non dipende dal corpo. E quel che non dipende dal corpo – un forte ideale, per esempio – non viene dato all’uomo per grazia, ma può essere voluto e realizzato solo dalla libertà individuale. L’immortalità non è allora qualcosa di uguale per tutti, ma ha vari gradi di intensità. La morte non può aggiungere nulla di nuovo all’essere umano: gli toglie solo il corpo. Questo significa, però, che possiamo parlare di reincarnazione dell’Io individuale solo dopo la grande svolta, e per di più solo a livello iniziale. La reale esperienza di sé come un Io che continua a vivere da spirito autonomo anche senza il corpo, prima del Cristo non era possibile. Dopo la morte non viveva un Io immortale, ma piuttosto un’anima a mala pena coscia di sé.

Più l’uomo vive e agisce come un Io nella sua esistenza terrena, più intensa è la coscienza dell’Io – l’immortalità – anche dopo la morte. Ognuno è chiamato a divenire sempre più «immortale», cioè sempre più autonomo e libero, e questo significa attribuire sempre meno agli altri la responsabilità delle proprie azioni. La coscienza dell’Io diventa a sua volta sempre più intensa a mano a mano che ognuno prende nelle proprie mani la sua evoluzione, partecipando personalmente ai destini dell’umanità e della Terra. L’essenza spirituale dell’Io è il risultato complessivo dell’evoluzione umana.

La Trinità divina e quella umana

In quasi tutte le religioni, comprese quelle precristiane, la Divinità viene intesa come Trinità. Dal punto di vista di uno studio comparato delle religioni, questo dato di fatto sembrerebbe sminuire la portata della svolta dei tempi. Proprio per questo è necessario gettare uno sguardo, seppur fuggevole, alla differenza fondamentale che c’è fra la concezione della Trinità divina prima e dopo Cristo.

C’è una Trinità induista costituita da Brahma, Vishnu e Shiva, una egiziana formata da Iside, Osiride e Horus… La domanda da porsi è: che cosa vive l’uomo nel suo rapporto con la Trinità divina, che cosa diventa grazie a questo rapporto? E la risposta a questa domanda indica a sua volta una differenza basilare nell’esperienza religiosa prima e dopo la grande svolta.

Nel mio libro Dal cristianesimo al Cristo[8] ho cercato di far vedere che tutte le grandi Trinità delle religioni prima di Cristo vanno intese come tre modi diversi dell’operare di Dio Padre, cristianamente parlando. Tanto Brahma, il Creatore, quanto Vishnu, il Mantenitore, che Shiva, il Distruttore, agiscono nel senso di una onnipotenza divina di tipo «paterno», in un’epoca in cui l’esperienza della libertà umana doveva ancora nascere.

La Trinità cristiana, invece, è del tutto diversa per il fatto che il Figlio introduce una dimensione evolutiva assolutamente nuova: quella della libertà umana. Il Figlio di Dio in senso cristiano non va allora confuso col Figlio delle Trinità precristiane.

Quando si tratta di Trinità divina, non basta fermarsi alle affermazioni teoriche e astratte. Occorre esaminare in modo concreto l’esperienza vissuta dall’uomo grazie al rapporto con l’una o l’altra Divinità. Le Trinità precristiane indicavano una triplice e ineluttabile esperienza che ogni uomo doveva attraversare in quanto condotto da una rigida autorità «paterna», a lui superiore ed esterna. Nella Trinità cristiana il Padre onnipotente, che pure c’è, recede per far posto al Figlio, aprendo così all’uomo la strada verso il divino. Tramite il Figlio, il Padre accoglie l’uomo nel movimento creativo e libero – fa spazio al Figlio ritirando dall’interiorità umana la sua onnipotenza, e imprimendo così la «svolta» decisiva all’evoluzione umana. La creatività e la libertà non possono venire di certo imposte all’uomo, secondo l’agire di Dio Padre. Solo in modo libero l’uomo può rendersi responsabilmente partecipe dell’evoluzione sua e del mondo. Vediamo allora che non sono i nomi «Padre, Figlio e Spirito Santo» ad essere importanti, e neppure la teoria teologica che vi si ricama intorno, bensì quel che succede realmente all’uomo e nell’uomo grazie al suo rapporto col cosiddetto Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo[9].

Dov’è il Buddha, oggi?

In una prospettiva di grandi trasformazioni della coscienza umana nel corso della storia, la domanda riguardo a ciò che il Buddha abbia detto e insegnato due millenni e mezzo fa è per l’uomo d’oggi meno importante di quella che si chiede che cosa il Buddha abbia costruito di duraturo dentro l’essere umano. E allora si può anche esplicitare un altro interrogativo: dov’è il Buddha adesso, e che cosa fa ora? Se partiamo dal presupposto che egli non sia un’astrazione, bensì un essere spirituale ben reale, allora dev’essere ancor oggi vivo e attivo nel mondo.

Se gli uomini fossero in grado di percepire la voce del Buddha come parla oggi, lo sentirebbero ripetere le stesse cose dette duemilacinquecento anni fa? Il Buddha non si è ulteriormente evoluto? Se in questi millenni l’umanità è diventata, anche proprio grazie al suo insegnamento, del tutto diversa da allora, se sui nostri tempi incombono delle responsabilità assolutamente nuove rispetto ad allora, non dovremmo pensare che il Buddha, oggi, abbia da dirci delle cose del tutto diverse? E che agisca anche in modo del tutto differente da allora, nonostante gli uomini non siano capaci di sentirlo e i suoi seguaci attuali vogliano a tutti i costi restare «fedeli» a ciò che ha insegnato tanto tempo fa?

Il Buddha vivente saprà bene che gli uomini d’oggi, proprio perché hanno interiorizzato ciò che lui stesso ha insegnato come giusto per quel tempo – il VI secolo a.C. –, sono profondamente cambiati. Per questo motivo le cose che ha da consigliare oggi non possono che essere del tutto nuove, e di esse ci occuperemo in particolare nel capitolo seguente.

Krishna e il superamento del sangue

C’è una Divinità indú chiamata Krishna. Riguardo alla domanda su chi sia Krishna vi sono anche nell’induismo opinioni controverse, a seconda che si prenda in considerazione il suo operare agli inizi della religione indiana – intorno al settimo e all’ottavo millennio a.C. –, oppure ciò che ha ispirato molto più tardi ad Arjuna, il suo auriga, nella Bhagavad-Gita. E qualcosa di ancora diverso dovrà emergere se ci chiediamo chi è, cosa ha da dire e come agisce Krishna ai giorni nostri.

Nella grande epopea del Mahabharata, di cui fa parte la Bhagavad-Gita, troviamo qualcosa di sorprendente: Krishna esorta Arjuna a mandare a morte i suoi consanguinei, senza esitare. Chi vuol vedere nelle religioni orientali solo amor di pace e compassione non tiene conto del fatto che una delle esortazioni fondamentali della Bhagavad-Gita è che Arjuna deve trovare il coraggio di superare i legami di sangue, di liberarsene.

In tempi antichi l’evoluzione del singolo era retta dalle forze ereditarie del sangue, ma proprio questa dipendenza doveva con la svolta dei tempi venir vinta. Anticamente la chiaroveggenza istintiva, ancestrale, era dovuta ai matrimoni fra consanguinei. Ma ora si avvicina il tempo, dice Krishna ad Arjuna, in cui la chiaroveggenza legata al sangue diventa anacronistica perché non consente lo sviluppo della coscienza desta del singolo. Se vuoi preparare il futuro, gli dice, devi superare dentro di te le forze del sangue, non devi più dipendere dalle sole forze dell’ereditarietà. I matrimoni fra consanguinei devono cessare, devono essere sostituiti dall’esogamia; la consanguineità deve a poco a poco cedere il passo all’affinità elettiva.

È descritta meravigliosamente questa soglia dell’evoluzione nelle mitologie e nelle religioni di tutti i popoli! Pensiamo per esempio alla narrazione del ratto delle Sabine nella storia romana, oppure al Vecchio Testamento, dove più volte viene rammentato che mescolare il sangue della propria stirpe con quello di popolazioni straniere avrebbe comportato la perdita del rapporto privilegiato con Jahvè, di ogni magia del sangue. Eppure i Patriarchi stessi cercano la moglie fuori dal popolo ebraico…

Anche nel vangelo troviamo riferimenti a questo mistero, per esempio nel primo «segno» compiuto dal Cristo a Cana, in Galilea. La parola «Galilea» significa mescolanza di sangue, mescolanza di popoli, che era appunto la caratteristica essenziale della Galilea: niente di buono può venire dalla Galilea, dicevano gli abitanti della Giudea, gli Ebrei «puro-sangue». Il Cristo, invece, poteva operare solo fra persone che avessero perlomeno cominciato a superare la consanguineità. È presso di loro che Egli può introdurre la seconda fase dell’evoluzione, quella sostenuta dall’affinità elettiva, cioè dalla libertà dell’individuo. Un aspetto essenziale della grande svolta è il passaggio dalla comunanza di sangue, in cui agisce la Divinità, all’affinità elettiva, come manifestazione della libertà umana. Le religioni antecedenti al Cristo erano basate sull’identità di popolo e di sangue, la religiosità dopo Cristo si fonda sulla libertà di ogni singolo uomo.

Possiamo allora capire perché Krishna dica ad Arjuna: combatti coraggiosamente, accetta la necessità del destino umano per cui ora il sangue deve insorgere contro il sangue ad esso imparentato. L’evoluzione futura richiede che ogni elemento di gruppo retto dall’ereditarietà divenga, da fattore determinante l’uomo, strumento della sua libertà.

Qual è allora la vera natura di Krishna in quanto Entità spirituale? Secondo Rudolf Steiner Krishna è una rivelazione parziale dell’Essere che alla svolta dei tempi si è incarnato nel Gesù di Nazareth di cui si parla nel vangelo di Luca (riprenderemo più avanti questo argomento). Fa parte dell’Anima dell’umanità rimasta pura al momento del peccato originale, rappresenta le forze dell’albero della vita che furono conservate in Paradiso, custodite dalla spada del Cherubino. Solo l’albero della conoscenza fu trascinato, come abbiamo già visto, nella corrente terrena del peccato originale.

Che Krishna sia una manifestazione del Logos universale è meravigliosamente descritto nella Bhagavad-Gita – in pagine che contengono vere perle dell’induismo – là dove Krishna rivela se stesso. Viene detto che lui è l’essenza di tutti gli esseri, il principio creatore, l’essenza spirituale più intima di ogni cosa, la causa attiva di tutta la creazione.

Krishna proclama testualmente: «Sono l’Anima Suprema situata nel cuore di ogni creatura, o Gudakesa. Sono l’inizio, la metà e la fine di tutti gli esseri. Tra gli Aditya Io sono Visnu, e tra le sorgenti luminose, il Sole radiante. Tra i Marut sono Marici, e tra le stelle sono la luna. Tra i Veda sono il Sama; tra gli esseri celesti sono Indra; tra i sensi sono la mente. Negli esseri sono la forza vitale. Tra i Rudra sono Siva, tra gli Yaksa e i Raksasa sono il signore delle ricchezze; tra i Vasu sono il fuoco. Tra le montagne sono il monte Meru. Tra i sacerdoti, o Arjuna, sappi che Io sono il capo, Brhaspati, il signore della devozione; e tra i generali sono Skanda, il signore della guerra. Tra le acque sono l’oceano. Tra i grandi saggi sono Bhrgu. Tra le vibrazioni sonore sono om, la sillaba trascendentale; e tra i sacrifici, il japa, il canto dei santi nomi. Tra le masse incrollabili sono l’Himalaya. Tra gli alberi sono il fico sacro, il bodhi, e tra i saggi e gli esseri celesti, sono Narada. Tra i Gandharva, cantori degli esseri celesti, sono Citraratha; e tra le anime realizzate, tra i perfetti, sono il saggio Kapila. Tra i cavalli, sappi che Io sono Uccaihsrava, che uscì dall’oceano e nacque dal nettare dell’immortalità. Tra i nobili elefanti sono Airavata, e tra gli uomini, il monarca. Tra le armi sono il fulmine, e tra le mucche la surabhi, dal latte abbondante. Tra i procreatori sono Kandarpa, il dio dell’amore, e tra i serpenti il re, Vasuki». (Bhagavad-Gita, cap. 10).

Krishna, Buddha e l’idealismo tedesco

Ciò che Krishna rivela parlando di sé come Logos creatore, come l’essenza o l’idea pura di ogni cosa, viene paragonato da Steiner a un fenomeno culturale che è sorto nell’umanità dopo la grande svolta: l’idealismo tedesco. Anch’esso parla dell’assoluto, dell’essenza di tutte le cose, che crea e si manifesta in tutto l’universo.

Esiste tuttavia una grande differenza fra il carattere precristiano della Bhagavad-Gita e quello postcristiano, anzi essenzialmente cristiano, dell’idealismo tedesco. I pensieri divini vengono rivelati da Krishna ad Arjuna senza che questi debba compiere alcuno sforzo conoscitivo. Nell’idealismo tedesco invece, per quanto astratto possa sembrare in un primo momento quel ragionare, gli stessi pensieri vengono conquistati dall’uomo attraverso le forze dell’Io, con un pensare individualizzato. L’idealismo non si è però radicato nella cultura europea, e questo è il segno di una evoluzione delle forze del pensiero ancora tutta da compiere: pochi nell’umanità di oggi sono ancora coloro che affrontano le battaglie conoscitive sostenute dagli idealisti tedeschi. Ma essi restano i migliori testimoni della forza dell’Io pensante nell’uomo, e della lotta per la libertà e la creatività dello spirito umano.

Nel sesto secolo avanti Cristo, molto dopo la realizzazione della Bhagavad-Gita, fa la sua comparsa il Buddha, che riunisce in una sorta di grande sintesi tutto quel che c’era nelle dottrine religiose orientali. Mentre iniziava a svolgersi l’epoca culturale greca, egli riassumeva la saggezza orientale che era stata rivelata nei Veda, nel Vedanta. La missione del Buddha era quella di tramandare tutto ciò all’umanità futura, poiché era finito il tempo in cui queste verità potevano ancora essere ispirate. Ecco allora che ogni rivelazione dei secoli passati doveva restare nel ricordo dell’umanità.

Il contributo originale del Buddha al futuro dell’umanità non è tanto un nuovo contenuto di saggezza. Ciò che è essenziale nel buddhismo è l’accento posto sull’esercizio pratico, sull’ottuplice via. In tal modo Buddha trasforma in una prassi morale l’antica religione orientale indú, che in passato aveva espresso elementi di saggezza, di pura manifestazione del divino nel mondo.

E questo è stato necessario, poiché l’umanità andava sempre più perdendo la facoltà di ricevere la rivelazione divina, si stava sempre più estraniando dal mondo spirituale. Perciò l’antica saggezza viene trasformata dal Buddha in un elemento morale, tramite il quale l’uomo aspira a ricongiungersi col divino mediante l’ascesi interiore. Il Buddha insegna agli uomini la via della purificazione dell’anima, l’ascesi che lo fa ritornare nei mondi dello spirito.

La filosofia del Vedanta e la filosofia greca

Per comprendere meglio lo spirito della religione orientale, possiamo fare un raffronto tra la filosofia del Vedanta e quella greca. Mettendo a fronte questi due fenomeni[10], si può vedere come nella filosofia del Vedanta le idee delle cose, i concetti, vengano percepiti per chiaroveggenza, mentre nella filosofia greca si passa a qualcosa di assolutamente nuovo, cioè a dei concetti che sono creati dall’uomo stesso.

Per l’uomo d’oggi non è facile immaginare come fosse possibile «vedere»[11] i concetti per mezzo della chiaroveggenza. Lo si può tuttavia tentare studiando per esempio i Dialoghi di Platone. Lì possiamo percepire ovunque la transizione dai concetti rivelati dalla Divinità a quelli conseguiti dall’uomo in modo discorsivo e logico – per mezzo del dialogo, appunto. Se per esempio si considera il dialogo platonico Teeteto, ci si accorge che le due tesi fondamentali che lo strutturano, l’una opposta all’altra, rappresentano proprio i due stadi evolutivi a cui si è appena accennato.

In questo dialogo, uno dei due interlocutori sostiene che i concetti vengono percepiti come tutte le altre cose: l’uomo li riceve dall’esterno insieme ai vari oggetti che si offrono alla percezione dei sensi. Il suo interlocutore, invece, ritiene il pensiero come qualcosa di opposto alla percezione: questa l’uomo l’accoglie passivamente attraverso i sensi fisici, mentre i concetti è lui stesso a crearli attivamente. Platone ci fornisce così una descrizione oggettiva di un salto evolutivo: entrambi gli interlocutori dicono in effetti la cosa «giusta», nel senso che ognuno di loro riferisce in modo oggettivo la propria esperienza interiore.

Il primo è un uomo più anziano che sperimenta contemporaneamente, ancora al modo vecchio delle religioni orientali, sia le percezioni sensoriali delle cose, sia la loro essenza spirituale (cioè il concetto). Questo avveniva in ogni antica rivelazione accolta con chiaroveggenza: la realtà visibile e il suo contenuto spirituale erano inscindibili, ambedue immediatamente «dati» alla visione spirituale.

L’altro interlocutore è invece l’uomo più giovane, che sostiene la tesi opposta non perché è di «parere» opposto – come se si trattasse di due teorie a confronto –, ma per il fatto che è un tipo di uomo diverso, che vive i pensieri davvero in modo completamente nuovo. Per lui la percezione di una cosa e il concetto corrispondente rappresentano due momenti non solo successivi del processo conoscitivo, ma per giunta opposti fra loro: l’uno di natura passiva, l’altro di natura attiva.

Ambedue i protagonisti di questo dialogo riferiscono allora fedelmente il modo in cui vivono interiormente il rapporto fra percezione e concetto. L’anziano, come dicevamo, li recepisce contemporaneamente, non li vive come due fenomeni distinti. Nel suo caso si può ancora parlare di «concetti percepiti per chiaroveggenza», come ai tempi del Vedanta. Per lui la percezione dà automaticamente anche il concetto: la realtà manifesta sia la sua forma esteriore che la sua essenza interiore – il significato, cioè. È come se entrambe venissero recepite da fuori, e suggerite alla chiaroveggenza mediante l’ispirazione divina.

L’altro uomo, il più giovane, non è più in grado di fare questo tipo di esperienza. In questo senso anche la sua affermazione è «vera». Lui è uno dei primi uomini che vivono i concetti in modo completamente diverso dalle percezioni. Per lui la percezione viene data a priori: egli si sente semplicemente esposto ad essa senza dover fare niente. L’opposto avviene per il pensiero: il sopraggiungere dei concetti, delle idee, è vissuto dal giovane come qualcosa di non dato, che non si ottiene in modo puramente ricettivo. Egli afferma, insomma, di sentirsi attivo nel pensare, altrimenti i concetti corrispondenti alle cose non sorgono proprio.

Questo ci fa capire la differenza fra la filosofia del Vedanta e quella greca. Prima della venuta del Cristo, persino il pensiero concettuale era un’azione diretta della Divinità nell’uomo! Non l’uomo bensì Dio stesso, mediante l’ispirazione e la rivelazione, faceva nascere nell’uomo i concetti.

La filosofia crea il passaggio da Platone – che presentava gli ultimi echi dell’esperienza orientale – ad Aristotele, che introduce chiaramente il nuovo con la sua «logica», il suo approccio tutto umano al conoscere, con la teoria della conoscenza che ne consegue. In Aristotele la «teoria» non è più un puro «guardare», come dice la parola greca: è la riproduzione al livello umano dell’antica sapienza, della quale viene ora afferrata conoscitivamente la legge dinamica, cioè il modo di «funzionare».

Con Aristotele ha inizio un modo assolutamente nuovo di affrontare il pensiero concettuale e la logica all’opera nel mondo. Ora l’uomo comincia a vivere il pensiero come creazione propria. La produzione dei concetti e delle loro associazioni è vissuta come un’attività schiettamente umana. Il Logos cosmico diventa logica umana. L’uomo comincia a viversi come ideatore dei propri concetti, ad assumersi la responsabilità di ciò che pensa o non pensa. Non gli è più concesso di vedere nei concetti un qualcosa generato in lui dalla Divinità.

Il Buddha e il Cristo

Un altro modo per capire meglio le religioni orientali è quello di raffrontare la figura del Buddha con quella del Cristo. Il loro rapporto è caratteristico, e può farci capire meglio anche la relazione che c’è fra il Cristo e i fondatori delle varie religioni precedenti al suo avvento.

L’affermazione di fondo di Rudolf Steiner riguardo al rapporto fra il Buddha e il Cristo è la seguente: Buddha è il grande Maestro che insegna: istruisce sulla dottrina dell’amore e della compassione; Cristo è il grande Essere che opera: conferisce all’uomo le forze reali dell’amore e della compassione.

Col suo insegnamento il Buddha risveglia nell’uomo la consapevolezza di quanto sia necessario coltivare le forze della compassione e dell’amore. Questa è la sua missione in un tempo in cui la Divinità ancora guidava l’umanità senza che il singolo fosse capace di rendersi più di tanto attivo. Col suo sottolineare la crescita morale mediante l’ottuplice sentiero, Buddha fa capire all’uomo che i tempi in cui poteva sentirsi armonioso per natura – o per grazia divina, che è lo stesso – sono finiti. Ora deve cominciare a darsi da fare anche lui, a lavorare su se stesso se vuol essere buono, se vuole intridersi delle tanto necessarie forze della compassione e dell’amore. Ma proprio questo fa sorgere nell’uomo l’altra domanda ancora più importante, quella che chiede: e da dove le prendo queste forze? Non posso mica farle spuntare semplicemente a suon di teoria! Come la pianta trae tutte le sue forze di crescita dal suolo, dalla luce, dall’aria, così anche per me ci dev’essere una fonte che mi mette a disposizione le forze d’amore di cui ho tanto bisogno.

Non basta che l’uomo abbia coscienza della necessità di essere amorevole e compassionevole. Non basta la teoria, ci vogliono le forze reali dell’amore e della compassione. E da dove vengono queste forze reali? Qual è l’Essere da cui l’uomo riceve la realtà, cioè l’essenza operante dell’amore e della compassione – e non solo la coscienza della loro imprescindibilità? Una cosa è infatti sapere che cosa va fatto, e un’altra è farlo. Una cosa è sapere qual è la funzione di una stufa, e un’altra è mettervi dentro la legna affinché possa riscaldare davvero.

La grande missione del Buddha consiste nel portare a coscienza il cosiddetto «peccato originale», la frammentazione dell’umanità in singoli individui dovuta all’egoismo, che ha creato alienazione, opposizione reciproca fra gli uomini. Nel sesto secolo a.C., poco prima della grande svolta, il Buddha ha portato a coscienza l’eccedenza di egoismo e la mancanza di amore e compassione. Ha sottolineato la necessità di un intervento da parte della Divinità che guida l’evoluzione umana al fine di riversare negli uomini le forze necessarie per vincere l’egoismo.

Come la caduta è stata una realtà, un insieme di forze evolutive impresse nella natura umana dalla Divinità per condurre l’uomo all’autonomia individuale, così ora la stessa Divinità deve aiutare realmente l’uomo a invertire la marcia. Occorre che in ogni uomo vengano infuse delle forze reali di amore e di compassione, perché possa vincere l’egoismo che porta in sé[12].

Il Cristo, proprio in risposta alla presa di coscienza di questa necessità, che si trasforma in invocazione che chiede aiuto, riversa nell’umanità le forze reali, vive e operanti dell’amore e della compassione. Così si conferma anche la verità di quanto dicono le religioni orientali a proposito dei bodhisattva, che diventano l’uno dopo l’altro dei Buddha. L’ultimo a diventare un Buddha è stato il bodhisattva nato nel VI secolo avanti Cristo, che ha raggiunto l’illuminazione nel suo ventinovesimo anno di vita. Questa è stata la sua ultima incarnazione terrena. Il suo successore diventerà a sua volta un Buddha fra tremila anni, e viene chiamato Buddha Maytreia. Il compito dell’ultimo Buddha fu quello di preparare le coscienze alla prima venuta, quella sul piano fisico, dell’Essere che racchiude in sé tutte le forze dell’amore. La missione del prossimo Buddha Maytreia è di ravvivare negli uomini la coscienza della seconda venuta di quell’Essere, non più sul piano fisico, ma nell’interiorità di ogni singolo uomo.

I dodici e il Tredicesimo

Nel mondo spirituale la schiera dei dodici bodhisattva principali si raccoglie intorno a una tredicesima Entità. I dodici sono come dei grandi missionari che portano all’umanità l’insegnamento inerente ai passi di volta in volta necessari all’evoluzione, e tutti fanno cerchio attorno a un Tredicesimo, che ha con loro lo stesso rapporto che ha il Sole con i dodici segni zodiacali. I bodhisattva s’inchinano davanti all’Essere Solare e da lui ricevono di volta in volta la loro specifica missione. Il Tredicesimo porta all’umanità la realtà degli impulsi zodiacali, la cui conoscenza è risvegliata nell’uomo dai bodhisattva.

L’immagine a livello macrocosmico dei dodici segni zodiacali che vengono «visitati» uno dopo l’altro dal Sole, è al contempo un’immagine dell’intera evoluzione. Vien da pensare all’Ultima Cena di Leonardo: anche lì i dodici, con al centro il Tredicesimo. I dodici grandi bodhisattva si trovano uno accanto all’altro e intervengono sulla Terra uno dopo l’altro come Maestri dell’umanità. L’Essere Solare, che in Occidente è chiamato Cristo, ha il compito di rendere realmente possibile ciò che la coscienza di ogni uomo, grazie ai bodhisattva, riconosce come necessario per i vari passi da compiere. «Rendere possibile» vuol dire: non limitarsi a portare qualcosa a coscienza, ma realizzare. Questo fa il Cristo.

Le Sacre Scritture delle varie religioni confermano il tipo di rapporto che c’è fra il Buddha e il Cristo. Basta che le prendiamo sul serio, così come sono. Se consideriamo le Scritture originarie del buddhismo, cioè le parole pronunciate dal Buddha seicento anni prima della venuta del Cristo, vediamo che egli è costantemente occupato a ridestare nei suoi discepoli la consapevolezza di quanto importanti siano l’amore e la compassione. Non lo sentiamo mai sostenere di essere, lui stesso, la reale forza cosmica dell’amore e della compassione.

Frasi come quelle pronunciate dal Cristo, e contenute nei vangeli, come «Io sono la luce del mondo», «Io sono la resurrezione e la vita», non appaiono nelle Scritture buddhiste in riferimento al Buddha. Le Sacre Scritture delle varie religioni sorte prima del Cristo sono veritiere: contengono oggettivamente ciò che rappresenta di volta in volta la missione dell’Entità in questione.

L’ottuplice sentiero – ieri e oggi

Se sfogliamo il libro di Rudolf Steiner L’iniziazione: come si conseguono conoscenze dei mondi superiori?[13], fra gli importanti esercizi per il cammino dell’anima troviamo anche l’ottuplice via del Buddha. E ci si può chiedere: ma allora, dobbiamo ritornare al buddhismo? In aggiunta, in tutto il libro non c’è alcun riferimento, perlomeno esplicito, all’evento del Cristo, la parola Cristo non ricorre… Forse qui la prospettiva evolutiva non gioca nessun ruolo?

Come abbiamo già accennato, il Buddha indica un cammino interiore, l’ottuplice via. Per percorrere questo cammino passo dopo passo, l’uomo ha bisogno di forze reali, non gli basta conoscere la teoria. E proprio queste forze gli vengono messe a disposizione dall’Entità chiamata Cristo.

Prendiamo un uomo che abbia seguito l’ottuplice sentiero cinquecento anni prima della venuta del Cristo, e uno che quegli esercizi li faccia oggi. Saranno gli stessi esercizi tutt’e due le volte? Sì e no. L’intenzione è la stessa, ma il modo dell’esecuzione e le esperienze interiori che via via si fanno saranno completamente diversi. Prima del Cristo questi esercizi non potevano essere fatti in base alla forza dell’Io individuale – l’allievo del Buddha ubbidiva ciecamente al Maestro. Dopo la grande svolta l’uomo può praticare il sentiero indicato da Buddha a partire da una decisione del tutto libera e personale.

Non è importante se la persona che oggi esegue questi otto esercizi si dica «buddhista» o «cristiana». L’importante è che questi esercizi vengano fatti in modo adatto all’uomo così com’è fatto nel nostro tempo. È importante di volta in volta quel che l’uomo vive mentre li effettua, chi egli diventa per mezzo di questi esercizi.

Dove il Buddha e il Cristo agiscono in collaborazione nel cuore dell’uomo – dove s’incontrano la coscienza del bene e la forza di compierlo – l’uomo riuscirà in maniera sempre nuova, sempre più libera e individualizzata

1. 1) a pensare giustamente;

2. 2) a decidere giustamente;

3. 3) a parlare giustamente;

4. ad agire giustamente;

5. a trovare la giusta missione, il suo compito individuale;

6. ad acquisire le giuste abitudini;

7. a far tesoro delle giuste esperienze;

8. a praticare il tipo giusto di meditazione, cioè quello confacente al suo essere così com’è al giorno d’oggi.

Ogni uomo può essere allora simultaneamente un buon «buddhista» e un buon «cristiano», nella misura in cui diventa sempre più umano.

Terzo capitolo

Zarathustra e Buddha

L’evoluzione dell’umanità dopo il «diluvio universale», come abbiamo visto, può essere intesa come evoluzione del fenomeno religioso. La prima forma di religione, manifestatasi particolarmente nella civiltà indiana, fu caratterizzata dalla nostalgia per il mondo spirituale. Nel settimo, ottavo millennio a.C. gli uomini erano ancora tutti dotati di una chiaroveggenza istintiva e molti avevano un’esperienza diretta dei mondi dello spirito. Si tramandavano ricordi di ciò che gli antenati avevano vissuto prima del diluvio, sull’antica Atlantide, quando gli uomini vivevano in comunanza con gli Esseri divini, e la Terra con il Cielo.

La prima forma di religione fu l’espressione del profondo rammarico per la perdita del legame diretto con il mondo spirituale. L’animo umano si sentiva pervaso di malinconica nostalgia per il grembo primordiale della Divinità, per il Paradiso originario perduto. A quel tempo l’uomo non poteva ancora apprezzare pienamente il proprio compito sulla Terra, non poteva vedere nello stato incarnato un senso positivo per la sua crescita spirituale.

Questo ci fa capire per quale motivo la prima forma di religione esprima una forte avversione nei confronti del mondo materiale. Il mondo fisico veniva vissuto come il luogo della caduta, del peccato, dell’oscuramento della coscienza. Era la maya, la grande illusione. L’uomo non poteva ancora capire che «la salvezza» consiste proprio nel fatto che egli è chiamato a trasformare il mondo materiale. La redenzione dell’uomo era vista nel suo staccarsi dalla materia, nel suo abbandonare il mondo terreno per far ritorno alla patria celeste. La prima forma di religione è stata una vera e propria fuga dalla Terra.

Zarathustra: la Terra come campo d’azione

La seconda civiltà postatlantica esprime qualcosa di completamente diverso. Il grande iniziato persiano Zarathustra ha introdotto in forma si può dire esemplare un nuovo tipo di religione, e la novità assoluta consiste nel superamento dell’avversione nei confronti del mondo fisico. L’uomo comincia a prender coscienza del senso positivo del suo rapporto col mondo della materia.

Zarathustra è stato il primo a considerare la Terra come un campo d’azione del tutto favorevole allo sviluppo dell’uomo. Le forze della materia vengono ancora viste come opposte al bene, vengono ancora attribuite alla tetra Divinità Angria Mainu (Arimane); ma la novità della religione persiana consiste nel vedere come favorevole alla crescita dell’uomo la lotta con le forze dell’oscurità e del male. Per mezzo della religione zarathustriana, l’uomo comincia a capire la sua missione di spirito in azione nel mondo della materia.

Già nel quarto e quinto millennio avanti Cristo, Zarathustra ha potuto proclamare la grande profezia che ha poi accompagnato tutta l’evoluzione dei misteri postatlantici: che l’Entità spirituale del Sole, la Grande Aura spirituale – Ahura-Mazda (Ormuzd), come la chiamava – si stava già allora avvicinando alla Terra. Abbandonava gradualmente il corpo solare per unirsi a tutte le forze della Terra, allo scopo di far di essa la sua nuova dimora. Zarathustra riteneva compito della religione venerare l’Essere Solare, accompagnarlo nel suo cammino verso la Terra. Si capisce allora come mai egli fosse così entusiasta della missione che l’uomo è chiamato a compiere sulla Terra.

Queste due prime forme della religione, quella indiana antica (la prima postatlantica, con inizio verso il 7000 a.C.) e quella persiana antica (la seconda postatlantica, 5000 a. C. circa) rappresentano i due tipi fondamentali di religione prima di Cristo. La prima riveste un carattere decisamente orientale: in essa l’uomo non dispone ancora delle facoltà che gli fanno accettare come un buon cimento evolutivo il confronto con la Terra e con il dolore ad essa legato. La seconda si rivolge, grazie a Zarathustra, alla missione terrena, a quel tipo di cammino interiore che l’uomo può compiere solo vivendo sulla Terra.

Un elemento predominante nelle religioni orientali è dunque il timore nei confronti della materia, l’intenso desiderio di liberarsi dal male della reincarnazione. Lo stesso vale ancora per il Buddha, poco prima della venuta del Cristo. Ancora per lui la purificazione interiore aveva lo scopo di estinguere ogni sete di esistenza, ogni tipo di attaccamento alla Terra.

Zarathustra volge invece lo sguardo all’Essere Solare che si accinge a venire sulla Terra per restarvi unito per sempre, per accompagnare l’uomo lungo quel cammino che si può svolgere solo sulla Terra e grazie alla Terra.

I due alberi del Paradiso

Queste due matrici tipiche della prassi religiosa vengono presentate nel primo libro della Bibbia, nella Genesi, con l’immagine dei due alberi del Paradiso.

Una parte delle forze di cui è dotato l’uomo viene fatta scendere nella corrente del peccato originale, e viene espressa nell’immagine dell’albero della conoscenza. Altre forze dell’anima umana vengono invece trattenute nel mondo spirituale, nello stato di innocenza paradisiaca. Queste forze sono rappresentate dall’albero della vita.

Questi due alberi simboleggiano le due componenti della sostanza animica dell’umanità, che nel corso dell’evoluzione postatlantica ispirano le due forme principali della religione di cui si è appena parlato.

La corrente del Buddha è ispirata dal suo profondo legame con le forze che hanno conservato la loro innocenza paradisiaca, come abbiamo visto a proposito di Krishna. È per questo che nelle religioni orientali troviamo sempre l’anelito a ritornare all’albero della vita, allo stato paradisiaco dell’innocenza primordiale.

Dall’altra parte, in Zarathustra, abbiamo un’individualità che, dopo aver fondato l’antica religione persiana, continua a restare connessa alla corrente dell’albero di quella conoscenza che si può acquisire solo sulla Terra. L’individualità di Zarathustra assume così un ruolo determinante in ogni ulteriore tipo di religione che ami la Terra

La grande svolta dei tempi consiste nella riunificazione di queste due grandi correnti religiose. I due alberi del Paradiso tornano di nuovo ad essere uno. La religione della nostalgia per il regno spirituale prende corpo nel Gesù di cui parla il vangelo di Luca. La religione dell’amore per la Terra s’incarna nel Gesù descritto all’inizio del vangelo di Matteo. Queste due figure si fondono in una sola nel dodicesimo anno di vita – come si vedrà più da vicino in seguito.

I frutti dell’albero della conoscenza sono tutte quelle esperienze che l’uomo fa sulla Terra, proprio grazie al peccato originale. È sulla Terra che l’uomo impara, attraverso una sempre maggiore individualizzazione e autonomia, a distinguere fra il bene e il male, usando la propria testa. Diventa sempre più autosufficiente nella sua coscienza, capace d’intendere e di volere a livello morale.

L’altra corrente religiosa si esprime nella venerazione di quelle forze nella natura umana che non hanno niente a che vedere col peccato originale. Ancora oggi ci sono dei residui di questa nostalgia d’innocenza: ovunque si parli dell’Io superiore dell’uomo. Queste forze non contaminate dal peccato dell’egoismo compaiono sulla Terra, concentrate al massimo, nel Gesù che è descritto nel vangelo di Luca e nella diciannovesima sura del Corano.

Queste due correnti – quella del peccato originale umano e quella della grazia divina – sono in forte contrasto fra loro, non potevano trovare una sintesi fin dall’inizio. Perciò hanno avuto per un certo tempo un’esistenza parallela, hanno dato vita a due tipi di uomo polarmente opposti, e solo a poco a poco è divenuta possibile la loro riunificazione.

Zarathustra, Ermete, Mosè e Gesù di Nazareth

La scienza dello spirito inaugurata da Rudolf Steiner trae fuori dalla sede degli antichi misteri una conoscenza integrale dell’essere umano, per offrirla al vaglio dell’attività pensante e dell’esperienza diretta di ognuno che voglia conoscere più a fondo se stesso. Le parti costitutive dell’uomo, all’attuale livello evolutivo, sono:

• il corpo fisico o di materia minerale, la cui esistenza non c’è bisogno di «dimostrare»;

• il corpo eterico o vitale, che è l’insieme delle forze formative e plasmanti, preposte alla crescita, allo sviluppo e al mantenimento dell’organismo. È il portatore della memoria, perché le sue forze, se libere dal corpo, sono forze di pensiero puro;

• il corpo astrale è quel terzo elemento costitutivo dell’uomo che solitamente chiamiamo «anima». È il mondo del vissuto di una persona. Nell’anima si muovono anche tutte le «passioni», e perciò essa ha carattere reattivo-passivo; gli impulsi astrali spingono l’uomo ad avvicinare ciò che ama e desidera (con moto di simpatia), e ad evitare o respingere ciò che non vuole (con moto di antipatia). Caratteristica del corpo astrale è il suo vivere sempre l’esperienza del presente, rispondendo alle sollecitazioni che gli giungono dal mondo circostante;

• l’Io infine è l’elemento propriamente spirituale, attivo e creativo in ogni uomo.

Partendo da queste conoscenze di base, si può gettare uno sguardo su uno dei risultati dell’indagine scientifico-spirituale, che può sorprendere chi ha familiarità col cristianesimo tradizionale. Il corpo astrale del fondatore dell’antichissima religione persiana, di Zarathustra, portatore della corrente religiosa di amore verso la Terra fino all’avvento del Cristo, si unì più tardi all’individualità di colui che dette l’impulso alla civiltà egizia: a Ermete Trismegisto, Ermete il tre volte grande. Cosa significa?

Premesso che il sovrasensibile non è soggetto alle leggi di esclusività e impenetrabilità proprie della materia, può accadere che delle individualità umane particolarmente evolute uniscano, in via d’eccezione, le loro più perfette parti costitutive a quelle di un’altra individualità, anch’essa adeguatamente progredita, per meglio svolgere un dato compito a favore dell’umanità. Questo è il caso di Zarathustra, spirito vigoroso, che regalò a Ermete il proprio corpo astrale.

E la religione ebraica nasce grazie al fatto che lo stesso Zarathustra trasmette a Mosè il proprio corpo eterico. Il corpo eterico conserva impresse in sé le esperienze fatte nel tempo, è come una cronaca vivente: per questo Mosè ha potuto svelare i misteri dell’evoluzione nel tempo – in particolar modo nella Genesi. Il corpo astrale invece è il punto focale di forze animiche diffuse nello spazio, quali correnti infinite che mettono in relazione l’uomo con l’universo: e per questo Ermete ha potuto dedicarsi, nella religione egizia, ai misteri astrologici dello spazio. «Corpo astrale» significa appunto «corpo stellare».

Vediamo allora l’individualità di Zarathustra coinvolta in modo diretto nella nascita della religione egizia, tramite Ermete, e di quella ebraica, tramite Mosè. Più tardi ancora, nel VI secolo avanti Cristo, nello stesso periodo in cui il Buddha viveva in India, Zarathustra s’incarnava in Caldea, dove si verificò un nuovo incontro con la civiltà ebraica per via della cattività babilonese degli Ebrei. In quella vita Zarathustra si chiamava Zaratas o Nazaratos.

Nell’incarnazione successiva Zarathustra è il Gesù di Nazareth che viene descritto nel vangelo di Matteo. Nel suo trentesimo anno d’età diventa «il portatore del Cristo».

Zarathustra è dunque un’individualità umana molto progredita, che lungo i millenni ha operato per introdurre nelle religioni precristiane l’apprezzamento dell’incarnazione, in modo da rendere possibile l’incarnazione sulla Terra della «Grande Aura», del Cristo. E la discesa del Cristo sarà davvero la sintesi di tutte le forze d’amore per la Terra, e avvierà per l’uomo il compito di rendere religione dell’umanità la trasformazione della Terra, la sua spiritualizzazione.

Ama il tuo Dio con forza, mente, anima e spirito

Nel vangelo c’è un’affermazione che, per la potente incisività dell’immagine, si può riferire all’evoluzione di Zarathustra: «E tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze» (Mc 12,30).

Vengono qui enumerate quattro cose, ma prima ancora viene detto: devi amare il tuo Dio, cioè il Dio dell’Io. Perché altrimenti dire «il tuo» Dio e non «il nostro» o «il vostro»? Il «tuo» Dio è il Dio dell’Io individuale di ogni uomo. Viene detto in altre parole: devi dedicare tutte le tue energie allo sviluppo dell’Io, perché il piano della Divinità prevede che l’uomo diventi sempre più un Io che accoglie in sé la saggezza e l’amore del «suo» Dio.

Questo processo di individualizzazione si manifesta, stando agli elementi costitutivi dell’uomo elencati prima, in modo quadruplice: 1. «Devi dedicare a questa trasformazione in un Io tutte le energie del corpo fisico («con tutte le tue forze»); 2. «Devi impiegare tutte le forze del tuo corpo eterico per trasformarti in un Io». Il corpo eterico è quello delle forze formanti e del pensiero («con tutta la tua mente»); 3. «Devi dedicare tutti gli impulsi della tua anima, del tuo corpo astrale, al Dio dell’Io. Devi ordinare tutte le tue forze animiche in modo da diventare sempre più un Io», («con tutta la tua anima»); 4. Il quarto elemento riguarda l’Io stesso, dove l’uomo sperimenta sempre più essenzialmente il nucleo regale cui tendono tutte le forze dell’anima («con tutto il tuo cuore»). L’Io, lo spirito individuale dell’uomo, agisce direttamente sul calore del sangue, che ha nel cuore il suo organo centrale.

È chiaro che l’Io spirituale di cui parla il vangelo non è quello che abitualmente intendiamo riferendoci a noi stessi. Quest’ultimo è solo il riflesso dell’Io vero, è l’ego «egoistico», una sorta di nucleo accentratore che padroneggia le forze dell’anima – che altrimenti se ne andrebbero ognuna per contro proprio. Potremmo anche chiamarlo «io normale», io quotidiano, coscienza ordinaria… È quell’io, per intenderci, grazie alle cui forze ognuno di noi ha un centro e può riferire tutto a sé.

L’evoluzione religiosa dell’uomo consiste nel rendere sempre più profonda l’unione di questo io personale, più ristretto e miope, con l’Io «superiore»; consiste cioè nella trasformazione delle forze egoistiche dell’io animico nelle forze di amore dell’Io spirituale.

«Ama il tuo Dio con la tua forza, la tua mente, la tua anima e il tuo spirito»: in queste monumentali parole si compendia la reale evoluzione dell’individualità di Zarathustra, quale fondatore delle religioni precristiane che affermano il valore della Terra. Zarathustra è quell’individualità del periodo postatlantico che ha compiuto in maniera esemplare ciò che è contenuto in questa frase del vangelo di Marco.

Gesù di Nazareth, che pronuncia queste parole, è la reincarnazione dell’Io di Zarathustra che, nel suo trentesimo anno d’età, si ritira dal corpo lasciando il posto al Cristo, mettendogli a disposizione il suo triplice involucro: il corpo fisico, quello eterico e quello astrale. Da questo triplice involucro dell’Io di Zarathustra, ora abitato dallo Spirito del Sole, risuona per l’umanità intera la Parola del quadruplice amore nei confronti delle forze dell’Io da conquistare sulla Terra, dell’esperienza divina dell’Io nell’essere umano: «Ama il tuo Dio (il Dio dell’Io) con tutta la tua forza (con il corpo fisico), con tutti i tuoi pensieri (con il corpo eterico), con tutta la tua anima (con il corpo astrale), con tutto il tuo cuore (con l’Io)».

In queste parole il Cristo descrive il modo in cui l’uomo – ogni uomo – è chiamato a rendere possibile nel suo spirito l’incarnazione del Logos: imitando l’esempio di Zarathustra, che ha consacrato il suo Io spirituale all’evoluzione dell’Io di ogni uomo, essendo stato il primo nell’antica civiltà persiana a venerare l’Essere dell’Io, quale Spirito del Sole. Per primo ha inteso l’evoluzione come «chiamata» dell’uomo a coltivare e a rendere sempre più reale dentro di sé – grazie alle forze della Terra – la forza stessa dell’Io.

Successivamente, Zarathustra ha realizzato la seconda parte di questa frase del vangelo: ama la Divinità che fa dell’uomo un Io con tutti i tuoi pensieri. Ha dedicato tutte le energie del suo corpo eterico, le forze del pensiero, alla cura dello sviluppo dell’Io nel genere umano, trasmettendo dopo la sua morte a Mosè il suo corpo eterico, così evoluto da rimanere intatto anche dopo la morte – mentre di solito il corpo eterico dell’uomo dopo la morte si dissolve nell’etere cosmico. In questo modo sono sorte la civiltà e la religione ebraiche.

E come terzo passo Zarathustra ha dedicato anche tutte le forze della sua anima all’evoluzione dell’Io nell’uomo, trasmettendo il suo corpo astrale a Ermete, il fondatore della religione egizia, di tipo mistico, come si diceva sopra.

Alla svolta dei tempi Zarathustra-Gesù nasce a Betlemme, per dedicare all’evoluzione dell’Io nell’umanità anche il suo corpo fisico, tutta la sua forza.

In questa espressione del vangelo abbiamo in senso spiritualmente reale da una parte la ricapitolazione dell’evoluzione dell’individualità di Zarathustra, e dall’altra la ricapitolazione delle religioni che si inseriscono nella corrente dell’evoluzione dell’Io, grazie alla dedizione alla Terra. «Ama il tuo Dio con tutte le tue forze, con tutti i tuoi pensieri, con tutta la tua anima e con tutto il tuo spirito». Questa frase non dice quattro volte più o meno la stessa cosa. Le Scritture sono quanto mai precise, sono scritte nel linguaggio tecnico dell’esoterismo, che bisogna imparare come s’impara ogni altro linguaggio tecnico.

La frase del vangelo immediatamente successiva aggiunge: «e ama il prossimo tuo come te stesso». L’amore per la Divinità dell’Io è nello stesso tempo l’amore per l’Uomo in ogni uomo, poiché l’evoluzione positiva dell’essere umano consiste nel suo diventare sempre più pervaso dal divino, a mano a mano che sviluppa le forze dell’Io.

Le due correnti in Gesù di Nazareth

Nell’evento di duemila anni fa, la corrente del Buddha e quella di Zarathustra si fondono nella personalità di Gesù di Nazareth. In lui vengono riunite tutte le forze che sono state ridestate nell’uomo dalle varie religioni. Ne troviamo un accenno nel vangelo di Luca, quando viene detto che i genitori Giuseppe e Maria, spaventati, non riconoscono più il figlio dodicenne che improvvisamente s’è messo a istruire gli scribi nel tempio. In realtà egli è diventato proprio un’altra persona.

Rudolf Steiner parla di due bambini Gesù – il natanico e il salomonico – descritti rispettivamente in Luca e Matteo[14]. Osservando le genealogie nei due evangelisti, si nota che Matteo segue la linea di sangue che risale a Salomone, figlio di Davide, mentre Luca segue la linea di Natan, altro figlio di Davide. I due evangelisti si riferiscono allora a due bambini diversi: il Gesù salomonico muore all’età di dodici anni, quando l’Io di Zarathustra lo abbandona per confluire nell’anima, nel corpo vitale e nel corpo fisico del Gesù natanico, presentato dal vangelo di Luca.

Nel Gesù fanciullo del vangelo di Luca si sono incarnate tutte le forze dell’innocenza paradisiaca dell’uomo, quelle che abbiamo chiamato «la corrente del Buddha», o «l’albero della vita». L’altra corrente spirituale, quella di Zarathustra, che ha dovuto svilupparsi separatamente per dodici anni nel bambino Gesù descritto nel vangelo di Matteo, si unisce a queste forze in occasione della presentazione al tempio, e si fa un tutt’uno con esse. La cosa straordinaria che spaventa i genitori del Gesù di Nazareth, è che il ragazzino manifesti all’improvviso un’acuta intelligenza nel suo dialogare con gli scribi, nel rispondere alle loro domande. Questo testimonia il fatto che l’individualità di Zarathustra, il suo Io, confluisce nel fanciullo descritto nel vangelo di Luca. In Gesù di Nazareth si sono così realmente unite le due grandi correnti dell’era postatlantica, quella del Buddha e quella di Zarathustra.

Quest’uomo – Gesù di Nazareth – rappresenta nel senso più reale la sintesi personificata di tutte le religioni dell’umanità. In lui viene rivissuta tutta la nostalgia umana per la riunificazione allo spirito, tutto l’anelito alla salvezza, la quale viene però attribuita ai valori legati all’esperienza che l’uomo fa sulla Terra.

Il Buddha alla svolta dei tempi

Nel sesto secolo a.C. tutta la vita e l’insegnamento del Buddha si riassumevano nelle quattro grandi verità da lui annunciate dopo l’illuminazione.

La prima grande verità dice che la vita è sofferenza: la nascita è sofferenza, la malattia è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza. La seconda grande verità afferma che l’origine di ogni sofferenza è la sete di esistenza, il desiderio d’incarnazione terrena, che porta l’uomo a unirsi ripetutamente col mondo della materia, della grande illusione. La terza grande verità si riferisce alla necessaria liberazione dalla sofferenza, che l’uomo consegue se estingue la sua brama d’esistenza, il bisogno d’incarnarsi. E la quarta grande verità indica il cammino lungo il quale l’uomo giunge alla purificazione, sciogliendo ogni brama nei confronti del mondo fisico, superando così ogni sofferenza e, insieme, la necessità d’incarnarsi. La via verso l’eliminazione della sete di esistenza è l’ottuplice sentiero a cui abbiamo già accennato: consiste di otto esercizi fondamentali che l’uomo deve eseguire costantemente.

Il Buddha è morto nel sesto secolo prima di Cristo con la consapevolezza di queste verità fondamentali, frutto dell’illuminazione raggiunta nel suo ventinovesimo anno di vita. La domanda che ora vogliamo riprendere è la seguente: come continua ad evolversi il Buddha dopo la sua morte?

Il fatto che un bodhisattva diventi un Buddha e ponga fine alla serie delle sue incarnazioni, non significa che cessi ogni suo rapporto con l’evoluzione degli uomini. Pur non rivestendosi più di un corpo fisico, egli può continuare ad agire sulla Terra grazie agli elementi spirituali di cui dispone, avendo raggiunto il suo perfezionamento. Uno di questi corpi viene chiamato nirmanakaya, o «corpo della trasformazione».

Nel vangelo di Luca si narra che ai pastori nei campi appare una schiera di Angeli che annuncia la nascita del Salvatore. Rudolf Steiner afferma che questa schiera di Angeli è un’immaginazione, un’apparizione reale del nirmanakaya del Buddha. Ai pastori appare il Buddha stesso che si è ulteriormente evoluto, e ora si accinge a contribuire con le sue forze migliori all’evento cristico.

Si parla poi del vecchio Simeone, che prende in braccio il bambino ed è grato per la venuta del Salvatore del mondo. Questo Simeone è, sempre secondo Steiner, la reincarnazione di Asita, vissuto ai tempi del Buddha nel VI secolo avanti Cristo, e che, anche allora in età avanzata, aveva espresso la propria amarezza per non aver ancora potuto vedere la salvezza del mondo. La stessa individualità può ora morire confortata, poiché i suoi occhi l’hanno vista. Anche il sermone di Giovanni il Battista nel vangelo di Luca palesa una spiritualità decisamente buddhista. È così che il Buddha fa fluire le sue forze reali nell’essere di Gesù di Nazareth.

Buddha e gli Esseni: una salvezza privata?

Rudolf Steiner narra come Gesù di Nazareth trascorse, prima del battesimo nel Giordano, sei anni della sua vita, dai ventiquattro ai trenta, in intenso contatto con gli Esseni di quell’epoca. Venne così messo a confronto con gli echi della visione buddhista ancora presenti nell’umanità.

A quei tempi gli Esseni della Palestina, come anche i Terapeuti in Egitto, vivevano da veri monaci buddhisti, nel senso che praticavano, attraverso un’esistenza ascetica e le severe regole del loro ordine, ciò che il Buddha aveva predicato sei secoli prima.

Durante questi anni di contatti con gli asceti Esseni, Gesù di Nazareth ha un giorno una visione in cui gli appare il Buddha stesso, che gli confida di accorgersi di un grave errore contenuto nel suo insegnamento. Esso consiste nell’aver ritenuto auspicabile che tutti gli uomini diventassero monaci buddhisti. Ma se ciò fosse accaduto, se per esempio tutti avessero praticato la castità – confessa il Buddha a Gesù – il genere umano si sarebbe estinto in breve tempo. Solo dopo la sua morte il Buddha si rese conto che il suo insegnamento non poteva essere realizzato che da pochi «privilegiati», e che ben altro era il significato della vita terrena – cioè quello di rendere possibile la salvezza a tutti gli uomini, senza distinzioni.

Grazie a questo dialogo spirituale con il Buddha, Gesù di Nazareth apprende qualcosa di decisivo per l’evoluzione della religione nell’umanità. Egli impara che gli Esseni potevano anche aver avuto delle ottime intenzioni, a livello personale, nella loro tensione verso il mondo spirituale, nel loro separarsi dal resto dell’umanità, ma che pur tuttavia mancava loro qualcosa di essenziale. Non avevano capito, gli Esseni, che l’umanità è un’unità inscindibile, che gli uomini stanno gli uni agli altri come le membra di un organismo vivente. È impossibile che il singolo si salvi senza la salvezza e la redenzione di tutti. Alla concezione buddhista mancava, in altre parole, la coscienza che l’umanità è un corpo solo e un’anima sola. In questo consisteva il carattere preparatorio, precristiano, di questa corrente religiosa.

Nel suo incontro con il Buddha vivente nel mondo spirituale, Gesù di Nazareth fa la sconvolgente scoperta che anche gli altissimi insegnamenti degli Esseni contenevano una cospicua dose d’illusione egoistica, volti com’erano, questi asceti pur pieni di buona volontà, a diventare perfetti pensando in fondo solo alla propria perfezione personale. Ciò vuol dire non riconoscere che l’evoluzione dell’umanità ha lo scopo di portare al superamento di ogni divisione – che è l’essenza del peccato originale – e alla riunificazione di tutti gli uomini.

Il Buddha confessa a Gesù di Nazareth la sua stessa grande illusione, gli dice di aver fatto dei passi in avanti dopo la morte, e di aver ora vinto il suo inganno. Questa conversazione, che ha luogo poco prima del battesimo nel Giordano, costituisce un punto di svolta nel cammino interiore di Gesù di Nazareth, nel cui cuore vive la speranza di redenzione dell’umanità. Egli apprende direttamente dal Buddha che essere veramente uomo significa amare indistintamente tutti gli uomini, e che nessuno può raggiungere la meta senza tutti gli altri.

Questo messaggio di universalità è l’ultimo preparativo che permette a Gesù di Nazareth di diventare il portatore del Cristo. E il Cristo porta agli uomini quella compassione e quell’amore a cui il Buddha ha ardentemente aspirato, e che ora diviene reale nella persona di Gesù, poiché il suo amore abbraccia tutti gli uomini.

Col Gesù abitato dal Cristo, sorge un essere umano che realizza in sé tutte le religioni grazie all’amore universale; in lui si compiono tutti i cammini religiosi che avevano preparato la venuta dell’Essere dell’Amore divino nell’umanità. Tramite le forze della compassione per il peccato originale che ha separato l’uomo dall’altro uomo, Gesù ha portato incontro al Cristo l’anelito di tutta l’umanità al riscatto dall’egoismo. E il Cristo ha immesso nell’umanità le forze di quell’amore che annulla ogni separazione, che prepara la via alla pienezza dell’umano.

Il Buddha «su Marte» e San Francesco d’Assisi

C’è una bella leggenda del medioevo cristiano, quella di Barlaam e Josaphat, che narra di come il cristiano Barlaam abbia convertito al cristianesimo il principe indiano Josaphat – nome che è una variazione di bodasat, bodhisattva. Questa leggenda viene fatta risalire a Giovanni di Damasco ed è citata anche nella Leggenda Aurea. Essa racconta qualcosa di realmente avvenuto, e precisamente il fatto importante che il Buddha, dopo la sua morte, si è unito nel mondo spirituale alla corrente cristiana.

Nel medioevo c’era ancora, perlomeno in alcune persone, una coscienza del modo in cui avviene spiritualmente l’unione delle religioni: attraverso il cammino interiore degli uomini e grazie all’opera di Esseri spirituali. La leggenda dice: il buddhismo è stato portato avanti dal Buddha vivente dopo la sua morte fisica ed è venuto a fondersi con lo spirito del cristianesimo. Dobbiamo però sempre distinguere fra il cristianesimo come realtà spirituale e le forme esteriori che esso assume di volta in volta nella cultura umana, nella prassi religiosa di un determinato periodo storico.

Questa meravigliosa leggenda descrive il modo in cui Buddha partecipa all’operare dell’impulso cristico nell’epoca successiva alla grande svolta. La leggenda cristiana afferma che egli è stato «convertito» al cristianesimo, che si è convinto del fatto che l’incarnazione dello Spirito che accomuna tutti gli uomini non ha creato una nuova religione accanto alle altre già esistenti, ma esorta a portare all’unità tutte le religioni che ci sono state.

Le varie religioni sorte nell’umanità vengono unite fra loro nel corso dell’evoluzione dai loro stessi fondatori. Abbiamo citato l’esempio di Zarathustra: per mezzo della loro ulteriore evoluzione, i grandi fondatori di religioni operano l’unificazione di ciò che a suo tempo hanno suscitato nei vari popoli. La scienza dello spirito di Rudolf Steiner descrive come siano fondamentali per la nostra evoluzione proprio i rapporti coscienti fra gli uomini che vivono sulla Terra e gli Esseri che vivono nel mondo spirituale, umani o divini che siano. Tutti siamo in cammino per raggiungere livelli di coscienza sempre più elevati, per riuscire a colloquiare con i defunti, per esempio, con l’Angelo custode…– e c’è chi è più avanti degli altri in questo cammino. Anche Christian Rosenkreutz è uno di questi.

Christian Rosenkreutz[15] è un’individualità che ha svolto un ruolo decisivo nell’evoluzione del cristianesimo esoterico (chiamato in riferimento a lui «rosicruciano»). All’inizio del diciassettesimo secolo – sempre stando a quel che Rudolf Steiner afferma di leggere nella cronaca dell’invisibile[16], e che offre come spunto di riflessione a chi ne sia interessato – egli fu in grado di concertare con il Buddha una missione da svolgersi spiritualmente nell’ambito planetario di Marte, per soccorrere l’umanità nei tempi bellicosi del materialismo e dell’egoismo esasperato.

Erano tempi, quelli, in cui l’aggressività interiore, l’elemento «marziale» appunto, andava aumentando minacciosamente. Gli uomini sprofondavano in misura via via maggiore nella sfera in cui regna la legge della lotta dell’uno contro l’altro, la cosiddetta lotta per l’esistenza. Nella cultura del materialismo che cominciava a dilagare, gli uomini si chiudevano sempre più nell’egoismo e nell’ostilità.

Per porvi rimedio, Christian Rosenkreutz pregò il Buddha, il grande Maestro dell’amore e della compassione, di concentrare la sua azione spirituale nella sfera di Marte, cosicché gli uomini che si accingevano ad incarnarsi nuovamente ottenessero una mitigazione della loro aggressività nel passare per quella sfera. A partire dal diciassettesimo secolo assistiamo a un vero e proprio sacrificio cosmico del Buddha allo scopo di attenuare l’elemento violento dell’egoismo umano. Questo sacrificio è stato fatto a imitazione del sacrificio d’amore del Cristo stesso.

Da allora ogni uomo, quando attraversa la sfera di Marte al ritorno verso una nuova incarnazione sulla Terra, riceve dal Buddha tante forze di amore e di compassione, così da poter vincere dentro di sé ogni istinto di guerra. Il Buddha aiuta tutti gli uomini a trasformare ogni aggressività in amore e in benevolenza.

L’evoluzione di Francesco d’Assisi è strettamente connessa alla corrente del Buddha. Le indagini spirituali di Steiner conducono in una scuola misterica sul Mare della Colchide, dove visse in tempi antichi l’individualità che poi si sarebbe incarnata come Francesco d’Assisi. I misteri della Colchide erano pervasi dallo spirito del buddhismo. I neofiti ricevevano una duplice iniziazione: il primo livello, a cui tutti avevano accesso, era incentrato sull’amore e sulla compassione; il livello superiore consisteva nell’incontro con lo Spirito del Sole, e solo pochi erano in grado di fare questa esperienza. L’individualità che divenne poi Francesco d’Assisi aveva attraversato entrambi questi gradini iniziatici.

Rinascendo come Francesco, portava in sé l’unione di buddhismo e cristianesimo. Il suo amore universale, rivolto a tutti gli uomini e a tutte le creature della Terra, è buddhista e cristiano ad un tempo. Solo tenendo conto dell’evoluzione compiuta nella sua precedente incarnazione lo si può capire, sapendo in che modo anche il Buddha ha preso parte a tale evoluzione.

Da questo esempio vediamo come non si possa dire che una certa religione sia vera e un’altra falsa. Si tratta di riconoscere il contributo positivo e duraturo di ogni religione all’evoluzione di ogni singolo uomo.

L’esperienza dell’Io: buddhismo, ellenismo, ebraismo

Una questione importante da affrontare prima di occuparci della religione ebraica è quella dell’Io, e della coscienza dell’Io, nei tempi prima di Cristo. Essa è collegata all’altra domanda non meno importante: cosa vuol dire che lo Spirito del Sole porta nell’umanità la pienezza delle forze dell’Io?

Tre sono le correnti rappresentative dell’umanità negli ultimi secoli prima di Crsito: la prima è il cosiddetto paganesimo, rappresentato dall’ellenismo; la seconda è il giudaismo, l’antico ebraismo, e la terza il buddhismo. Sulla scorta di queste tre grandi correnti religiose possiamo farci un’idea delle sorti dell’Io nell’umanità. Questo ci aiuterà anche a capire meglio la cosiddetta «redenzione», quale risposta divina alla ricerca religiosa degli uomini.

1) Nagasena dice a Milinda: l’Io è un’illusione…

Se esaminiamo l’insegnamento originario del Buddha, vi troviamo un messaggio fondamentale che dice: l’Io umano è una grande illusione. A scanso di equivoci, il buddhismo precristiano va nettamente distinto da tutto ciò che il buddhismo è diventato nei secoli dopo Cristo. Oggi molte persone conoscono il buddhismo solo nella forma che ha acquisito nel corso degli ultimi duemila anni. Ciò spiega il motivo per cui sono in molti ad obiettare quando si afferma che il Buddha ha considerato l’Io come un’illusione. Qui si tratta però di ciò che il Buddha ha insegnato durante la sua vita nel VI secolo a.C., non di quel che è entrato a far parte del buddhismo successivamente, grazie all’ulteriore evoluzione di tutta l’umanità. Ovunque nel mondo – e perciò anche nelle popolazioni di religione buddhista – gli uomini hanno vissuto nei secoli dopo Cristo in modo sempre più evidente la realtà dell’Io. Ma nel VI secolo a.C. il Buddha parla dell’Io come di un’illusione.

C’è un dialogo fra il re Milinda e il saggio Nagasena in cui quest’ultimo cerca di dimostrare al re che l’Io non è una realtà. Per farlo, si serve dell’esempio del carro e chiede al re: «Come sei arrivato fin qui?». Il re risponde di essere venuto col carro. «E allora dimmi», replica il saggio Nagasena, «che cosa è reale nel carro? Le ruote sono reali, il timone è reale, la cassetta, tutte le parti che puoi elencare sono reali. Ma non è affatto vero che la somma delle parti rappresenti una realtà in più, per il solo fatto che tu riassumi tutte le parti nella parola «carro». Con questa parola non si aggiunge proprio niente di nuovo al carro. Se hai tutte le parti hai l’intero carro, non ti manca nulla. E quando pronunci la parola «carro», non ti riferisci ad una realtà in più, perché «il carro» non è affatto una nuova realtà: solo le singole parti sono qualcosa di reale. Per comprensibili ragioni di comodità non vuoi elencarle tutte ogni volta, e così hai inventato un nome collettivo, la parola ‘carro’ appunto». E Nagasena si serve poi di altri esempi per dimostrare che anche al cosiddetto «Io», un altro nome collettivo, non corrisponde nessuna realtà di fatto.

Ci si può chiedere se sia possibile «provare» il contrario, cioè che il carro, o l’Io, sia una realtà, qualcosa di reale – un Io che va oltre la semplice somma delle caratteristiche fisiche, vitali e animiche di una persona. Abbiamo già accennato al fatto che si può dimostrare la realtà solo di ciò che prima viene realmente sperimentato. La prova dell’esistenza degli alberi, delle montagne, o di qualsiasi altra realtà fisica, convince solo chi ne fa l’esperienza reale. Ma allora che cosa vuole dire Nagasena, o il Buddha, con la sua «prova» che l’Io è un’illusione? Ciò che effettivamente si «dimostra» è il fatto che nel caso del Buddha stesso – come presso gli orientali di quei tempi – l’uomo non faceva ancora l’esperienza di se stesso come un Io a sé stante.

La prova data al re Milinda dal saggio Nagasena era dunque «giusta», cioè veritiera in quanto corrispondente all’autoesperienza dell’uomo di allora. L’insegnamento originario del Buddha nel sesto secolo a.C., è «vero» in quanto all’esperienza interiore dell’uomo orientale di quei tempi mancava proprio quel qualcosa che l’intera evoluzione avrebbe a poco a poco generato: l’esperienza reale di essere un Io, il sentirsi un essere spirituale dotato di pensiero e volontà propri.

Quando l’Io non viene dimostrato come astrazione teorica, ma vissuto quale realtà nell’esperienza che l’uomo fa di sé, allora la parola «Io» indica una realtà, anzi la realtà più importante che vi sia al mondo. E se ancor oggi una persona è a malapena in grado di vivere il proprio Io come qualcosa di reale e operante, per lei vale ancora in qualche modo «la prova» del saggio Nagasena.

Ricapitolando possiamo dire: ai tempi del Buddha non c’era ancora negli uomini l’esperienza di essere un Io. Le religioni prima di Cristo dovevano creare una dopo l’altra le condizioni necessarie all’esperienza dell’Io, mentre questa esperienza si fa vivendo quelle condizioni tutte insieme, come unità – analogamente alla realtà del carro che c’è solo quando ho le parti nel loro giusto insieme, non quando le ho una accanto all’altra!

2) Achille a Ulisse: Meglio un mendicante in Terra…

Passiamo ora all’ellenismo. Considerando dei personaggi come Pericle, Fidia, Socrate, Platone, Aristotele o Alessandro viene da dire: l’uomo comincia qui a fare l’esperienza di essere una personalità compiuta in se stessa, autonoma. Comincia a viversi come fonte indipendente di pensieri e di azioni, e non più unicamente come veicolo dell’azione divina, o degli impulsi di un popolo. Al concetto dell’Io comincia ad essere collegata una reale esperienza: l’uomo si vive sempre più chiaramente come un essere spirituale a sé stante.

Nell’ellenismo troviamo però anche qualcos’altro: i Greci dovevano l’esperienza dell’Io al vivere dentro il corpo fisico. Era grazie al corpo, al fatto di essere incarnati sulla Terra, che potevano viversi come personalità autonome. Le parole rivolte da Achille a Ulisse nell’XI canto dell’Odissea ci offrono un profondo spaccato della cultura greca. Ulisse è sceso nell’Ade, nel regno dei morti, e cerca di confortare il defunto Achille dicendogli che la sua fama resterà imperitura nel ricordo dei viventi. Achille però non ne vuol sapere e risponde con le memorabili parole: «Meglio essere un mendicante sulla Terra (in possesso di un corpo fisico) che un re nel regno delle ombre».

Per un greco la morte era una tragedia immane: la perdita della dimensione fisica metteva talmente in forse la sua esperienza dell’Io, il suo viversi come una personalità autonoma, che senza corpo egli non si sentiva più un essere completo, ma solo un’ombra d’uomo, una larva. E in effetti era davvero così. Non si trattava di una fisima strampalata, ma di una vera e propria esperienza interiore. I morti vivevano a quei tempi in uno stato di coscienza attenuato. Per i Greci degli ultimi secoli avanti Cristo la coscienza di sé era così condizionata dalla fisicità, che l’abbandono del corpo la metteva seriamente in forse.

Solo così possiamo capire il senso di tragicità vissuta dai Greci che lottavano nella loro coscienza con il mistero della morte. Per loro niente era più prezioso del corpo fisico. Questo popolo ha venerato a tal punto la forma fisica nelle sue opere d’arte da attribuire sembianze umane perfino agli dei. Nello stesso tempo i Greci venivano confrontati col «fato» inesorabile che con la morte strappa ad ogni uomo il corpo – lo strumento di maggior valore per la piena esperienza di sé.

Ecco allora che agli albori dell’esperienza dell’Io nella cultura greca vediamo sorgere la questione della morte nella coscienza umana, come preparazione al mistero della morte e della resurrezione dell’Essere dell’Io. I Greci sapevano della morte, ma non conoscevano le forze che consentono di attraversarla vittoriosamente, cioè di fare l’esperienza della resurrezione dell’Io in uno stato puramente spirituale, proprio lasciando il corpo.

È importante rilevare che nell’uomo greco c’era un’effettiva, seppur iniziale, esperienza dell’Io. Si tratta di un gran passo avanti rispetto al buddhismo. Un greco non avrebbe potuto affermare che l’Io è un’illusione: avrebbe invece sostenuto che il viversi come personalità era quanto di più prezioso l’uomo potesse sperimentare. Ma per lui l’annientante sconfitta era che tutto ciò dipendeva dal corpo fisico, e che la morte metteva in forse l’intera questione dell’Io, di cui nell’oltretomba rimaneva solo uno struggente ricordo.

3) La moglie a Giobbe: Maledici Jahvè, e così muori…

Nel giudaismo troviamo qualcosa di ancora diverso: qui nasce come esperienza di popolo la coscienza dell’Io. Il nome della Divinità del popolo ebraico è proprio quello dell’Io: «Jahvè» significa «Io sono», Io sono colui che era, è e sarà. Cioè: Io sono quell’Essere che resta uguale a se stesso nel corso del tempo, Io sono un Io: «Ehjèh ashèr ehjèh».

Nel regno dell’anima niente resta uguale a se stesso. Tutte le emozioni interiori subiscono un continuo mutamento. Una rabbia s’accende e si stempera, a differenza dell’Io che per natura mantiene la sua identità. Grazie all’operare di Jahvè, l’uomo ebreo può viversi come unità spirituale duratura, come un essere che può mantenere un riferimento costante a se stesso. In mezzo alla mutevolezza degli infiniti moti dell’anima, l’uomo fa l’esperienza di un nucleo immutabile, che è il suo Io. Può dire a se stesso: io sono la stessa persona che ero ieri, che sono oggi e che sarò domani. Con la memoria di ciò che ho fatto ieri rendo presente il mio passato, nei miei ideali rendo presente il mio futuro – il passato e il futuro del mio Io.

Questo rimanere identico a se stesso in tutti i cambiamenti che sopraggiungono col passare del tempo costituisce l’essenza dell’esperienza dell’Io, che fa la sua prima comparsa nelle popolazioni semitiche, e che nel giudaismo si manifesta in forma esemplare, archetipica. E l’esperienza dell’Io fa sorgere nell’umanità anche il tipo di religione monoteistico. Il monoteismo nasce quando l’uomo comincia a viversi come unità nella molteplicità.

Prima di viversi come un Io, l’uomo sente in sé una molteplicità di forze animiche che vanno e vengono. Quando l’uomo comincia a fare un’esperienza unitaria, cioè monoteistica, di sé, allora attribuisce anche alla Divinità il carattere di Io, la concepisce in senso monoteistico. L’uomo non può far altro che attribuire di volta in volta anche alla Divinità il meglio di ciò che trova in sé. Il meglio dell’umano nella sua massima espressione: questo è il divino, giacché la Divinità non può far altro che creare l’uomo a propria immagine e somiglianza, come fa ogni artista con la sua opera d’arte.

Nonostante l’esperienza dell’Io sorga nel giudaismo con maggior evidenza che nell’ellenismo – grazie all’influsso di Jahvè –, neanche qui essa è puramente spirituale, perché deve le sue origini a due fattori non propriamente spirituali: il corpo e l’anima. L’esperienza dell’ebreo antico di essere un Io è un’esperienza che deriva dal corpo per il fatto che Jahvè, in quanto Divinità di popolo, è attivo nel sangue che scorre di generazione in generazione. Solo perché un ebreo è immerso con il proprio corpo nel flusso sanguigno di Jahvè, solo perché è partecipe delle forze di Jahvè che gli pulsano nel sangue, può essere introdotto ai misteri dell’Io. Questo è l’aspetto fisico.

L’aspetto psichico consiste nel fatto che la chiamata a vivere come un Io viene inizialmente proposta all’uomo tramite la Legge di Mosè. Le forze dell’Io si esprimono nei Dieci Comandamenti, nell’osservanza di una Legge valida per tutto un popolo, in un’epoca in cui l’uomo aveva ancora un’anima di gruppo.

Ogni membro del popolo ebraico è pienamente inserito da un lato nelle forze dell’ereditarietà fisica, e dall’altro nell’esperienza animica della Legge che governa la sua vita. L’esperienza dell’Io veniva attribuita a Jahvè – al Dio che dà al suo popolo un corpo e un’anima – non all’individuo. È per questo che la moglie di Giobbe di fronte a un marito che, nonostante sia «giusto», cioè fedele a Jahvè e alle sue leggi, viene colpito da indicibili sventure, esclama: «Maledici Dio e muori… Se ti stacchi da ciò che Jahvè ti sta combinando, non resterà più nulla di te e smetterai finalmente di soffrire».

L’evoluzione della coscienza dell’Io in queste tre correnti culturali e religiose è rappresentativa per tutto il genere umano. Nel buddhismo l’uomo non faceva ancora l’esperienza dell’Io; nell’ellenismo e nel giudaismo essa vede i suoi primi albori, in preparazione alla svolta dei tempi. Si trattava di un’esperienza però appena abbozzata, non era ancora né del tutto spirituale né del tutto individuale: per realizzarsi pienamente, per poter sussistere intatta anche dopo la morte, doveva diventare un vissuto completamente indipendente dal corpo e da ogni anima di popolo.

L’esperienza iniziale dell’Io era ancora donata dalla Divinità, era ancora istintiva, legata alla corporeità e all’anima di gruppo. Proprio questa condizione della coscienza umana ci indica come il mistero dell’Io costituisca il punto focale dell’evoluzione religiosa di tutta l’umanità. La religione tende in ogni uomo al conseguimento della pienezza dell’esperienza dell’Io, cioè dell’esperienza della propria individualità spirituale ed eterna.

Quarto capitolo

La missione
del giudaismo

Nell’evoluzione dell’umanità prima della grande svolta dei tempi troviamo un popolo particolare con una particolare missione: l’antico popolo ebraico. La missione di questo popolo è documentata nelle Sacre Scritture che i giudei chiamano Torah e i cristiani Vecchio Testamento, per distinguerlo dal Nuovo Testamento. È un testo che ha rivestito un ruolo decisivo nella storia – anche in quella del cristianesimo fino ai nostri giorni, visto che la Bibbia dei cristiani è costituita non solo dal Nuovo, ma anche dal Vecchio Testamento.

Grazie al popolo ebraico hanno fatto la prima comparsa da una parte una coscienza morale e dall’altra una coscienza storica, cioè dell’evoluzione in quanto storia. E grazie al sorgere di una coscienza morale e storica, il giudaismo può essere visto in forte contrapposizione a tutto ciò che viveva nell’umanità di quei tempi, in particolar modo negli ultimi secoli prima della venuta del Cristo.

Ritmi ciclici ed evoluzione lineare

Fuori del giudaismo, i popoli orientali e in fondo anche i Greci guardavano agli eventi del mondo come a qualcosa di ciclico, vedevano l’operare della Divinità nella natura come un riflesso dell’eternità, sempre uguale a se stessa. In questa concezione del mondo non c’è posto per un’evoluzione lineare in cui accadono una dopo l’altra cose sempre nuove, mai successe prima, così come nella crescita dell’uomo la dentizione e la maturità sessuale non sono pure ripetizioni cicliche di qualcosa che c’è sempre stato. Il fenomeno originario degli eventi che scorrono veniva scorto nell’esistenza della pianta: la vecchia pianta contiene il seme per quella nuova che ripeterà, in base alle stesse leggi, senza che accada nulla di nuovo, tutto ciò che ha avuto luogo in quella vecchia. L’Oriente vedeva tutti i fenomeni, anche quelli umani, ripetersi in modo uguale, senza progresso, senza qualcosa di veramente nuovo. Ogni ciclo che giunge al suo termine ricomincia da capo e si ripete in modo uguale.

Il popolo ebraico antico, invece, grazie all’azione di Jahvè, comincia a individuare vari stadi nell’evoluzione dell’uomo, stadi progressivi, dei quali nessuno è la pura ripetizione di quello precedente: ognuno fa sorgere qualcosa di nuovo, che non c’era stato prima. E anche l’uomo singolo si sente chiamato a prendere parte in modo cosciente e responsabile a questa evoluzione progressiva dell’umanità e della Terra. Nel popolo ebraico l’uomo si rende conto che in lui l’operare della natura, coi suoi cicli sempre uguali, è solo la base per un cammino originale che non ripete nessuno dei suoi passi. L’ebreo antico è il primo a vedere la storia come la vita del singolo, ingrandita: con una nascita e un crescere che fanno acquisire facoltà sempre nuove – che vanno oltre i cicli ripetitivi della natura. Si sente chiamato a capire sempre più chiaramente la responsabilità che gli compete in questa evoluzione.

La coscienza di una responsabilità morale sorge nell’antico popolo ebraico grazie al suo rapporto con la Legge dettata a Mosè da Jahvè. In essa si preannuncia l’acquisizione della libertà da parte del singolo, e ciò fa nascere in lui anche la coscienza del bene e del male. La legge dell’evoluzione è, nella prima fase, il crescente sorgere dell’uomo libero; e la legge della libertà è, nella seconda fase, la responsabilità morale dell’uomo che decide l’esito finale dell’evoluzione stessa.

Questa visione storica, progressiva dell’evoluzione la riscontriamo già all’inizio del Vecchio Testamento, nella Genesi: lì la creazione viene presentata nel suo svolgimento lineare nel tempo, che prevede il sorgere di elementi sempre nuovi. Ci si accorge immediatamente di avere a che fare con una evoluzione progressiva. Vengono stabilite delle mete evolutive che vanno al di là della ripetizione ciclica propria di tutti gli eventi di natura. E la meta di tutte le mete è l’Uomo stesso, creato a immagine di Dio e chiamato lungo il suo cammino a diventare sempre più umano – o divino, che è poi lo stesso, essendo la natura umana il capolavoro sommo della creazione divina.

Creato l’uomo, Dio si riposa

Nel giudaismo c’è fin dall’inizio la consapevolezza che l’uomo sia l’obiettivo finale verso cui tende tutta la creazione di Jahvè. Il sesto giorno, dopo aver creato tutto il resto, Jahvè crea l’uomo. E il «riposo» di Jahvè al settimo giorno sta a indicare che l’uomo è in un certo senso destinato ad essere il continuatore dell’attività divina. Una volta creato l’uomo, la Divinità può «ritirarsi» per quanto riguarda le cose che l’uomo «si accollerà» nel corso del tempo. Dove entra in gioco l’uomo, la Divinità cessa di decidere da sola le sorti del divenire. I primi sei giorni della creazione la Divinità ha dovuto agire da sola, ma dopo la creazione dell’uomo le cose cambiano: ora la Divinità «si riposa». Il verbo Sabbat significa in ebraico «riposarsi».

Il testo sacro vuol dire, in altre parole, che l’uomo rappresenta il compimento della creazione proprio per il fatto che la Divinità può in parte cedergli il posto. Avendolo creato a propria immagine e somiglianza, cioè in grado di agire sapendo e volendo ciò che fa, Dio ha dato all’uomo tutta la sua fiducia.

La cabala giudaica, l’antico insegnamento esoterico ebraico, parla del sim-sum, del «digiuno» di Jahvè. Dio ha fatto digiuno il settimo giorno. Questa bella immagine rimanda allo stesso mistero: dove c’è l’uomo, la Divinità può «digiunare», rinuncia cioè a una parte della sua onnipotenza, si fa da parte per fare spazio alla sfera d’azione della libertà umana.

Questa coscienza storico-morale, che vede l’uomo e il mondo in continua evoluzione, è un modo di vedere le cose, come dicevamo, diametralmente opposto a quello che vede solo la ripetizione sempre uguale dei cicli della natura, come avviene nelle religioni orientali e agli albori della cultura greca. Se esaminiamo ad esempio l’Iliade o l’Odissea di Omero, vediamo che l’uomo non dispone ancora di una visione morale o storica degli eventi in senso vero e proprio. Anche il comportamento degli dei viene visto alla stregua degli eventi di natura: ogni dio ha un modo di fare specifico, e mostra sempre quello, così come la primula e la formica tornano sempre ad essere primula e formica. Persino Zeus agisce in un modo che noi potremmo considerare moralmente sindacabile nei suoi vari connubi, senza «coerenza»: fa anche lui come il tempo che una volta è bello e poi diventa brutto. Tutto è natura nella cultura orientale e greca antica: anche l’uomo e perfino gli dei!

Le categorie morali del bene e del male fanno la loro prima comparsa nella coscienza giudaico-cristiana. Questo presuppone a sua volta l’esperienza dell’Io cosciente di sé, della libertà. Seppure l’esperienza interiore della libertà sia ancora a uno stadio embrionale, essa è destinata a percorrere tappe evolutive che, a differenza della natura che si ripete sempre, non si ripetono mai, ma creano nell’uomo delle facoltà sempre nuove.

La struttura cerebrale di Abramo

Il primo grande passo verso una concezione evolutivo-morale della storia è costituito dalla missione affidata ad Abramo. Questi riveste un ruolo centrale nel passaggio da una visione ciclica prettamente orientale a quella storica e morale dell’ebraismo. Del tutto nuova in questo personaggio è la struttura del cervello fisico: Abramo riceve da Jahvè un cervello plasmato in modo completamente diverso da quello dei suoi antenati, in lui vengono create delle caratteristiche fisiche ben specifiche che per via di ereditarietà dovranno fare da fondamento a tutto quel che il popolo ebraico è chiamato a compiere, a livello sia psichico sia spirituale. Nel caso di Abramo il cervello fisico viene cesellato fin nelle più piccole fibre in modo tale che lui possa fare l’esperienza, seppur in maniera iniziale, di un pensiero capace di svolgersi in modo discorsivo, seguendo un filo logico.

Le tradizione ci trasmette questo evento singolare in svariati modi, per esempio affermando che Abramo è stato l’ideatore dell’aritmetica. Si accenna così al fatto che prima di lui gli uomini non sapessero contare, dato che il calcolare consiste nel passare in rassegna diversi elementi uno alla volta, in modo discorsivo-razionale, in successione logica. Tale capacità può nascere solo se si perde l’antico modo di vivere tutto contemporaneamente, con uno sguardo d’insieme, come fa il bambino piccolo, che non sa ancora distinguere le cose le une dalle altre. Gli antichi Babilonesi, i Caldei e ancora gli Egizi avevano l’antica «chiaroveggenza» che, come il ciclope dell’Odissea, guarda con occhio «circolare» la realtà, come in un grande quadro d’insieme – motivo per cui la scienza moderna non riesce a spiegarsi come potessero avere conoscenze astronomiche così profonde, e come riuscissero a progettare e realizzare le loro straordinarie opere architettoniche. Come ognuno di noi, quando pensa, non fa un assemblaggio di parole ma intuisce l’intero pensiero in sé compiuto e poi lo esprime attraverso le parole, così l’uomo antico intuiva l’interezza del mondo, ne sentiva le leggi e le armonie e, d’istinto, all’occorrenza sapeva renderle visibili.

Abramo è il primo uomo della storia che percepisce gli elementi del mondo come uno accanto all’altro nello spazio, uno dopo l’altro nel tempo. Tocca ora all’uomo passarli in rassegna singolarmente, creando i nessi che li armonizzano fra loro. E questo trovare i nessi delle cose segna l’inizio del pensiero discorsivo e logico.

La parola manas indica in sanscrito la facoltà del pensare, che ritroviamo nel latino mens. In ebraico antico la stessa parola, manah, significa «contare», passare le cose in rassegna una per una, il che sta a dirci che in Abramo la forza pensante si manifesta come capacità di calcolo. E saper calcolare significa poter prevedere, pianificare le cose. Jahvè prepara il suo popolo alla sua missione creando il sostrato fisico adatto per compierla.

Il passo successivo è consistito nel rendere cosciente Abramo della missione a lui affidata. Egli doveva concorrere in modo coscio e libero a ciò che Jahvè gli chiedeva, mentre gli altri intorno a lui non ne erano ancora capaci. Vediamo riflettersi la sua presa di coscienza della propria missione nel fatto di sentirsi spaesato a tal punto da dover abbandonare – cosa a quei tempi inaudita – la propria patria, Ur in Caldea. La cultura caldea rappresenta il vecchio, ciò che era invalso fino alla comparsa di Abramo. E poiché con Abramo ha origine qualcosa di assolutamente nuovo, egli deve lasciare la sua terra d’origine, deve spingersi verso Occidente. Così vediamo il destino dell’antico popolo ebraico, sempre in cammino, oscillare fra la Caldea e l’Egitto, visto che più tardi Mosè porrà fine anche alla schiavitù d’Egitto, portando il suo popolo verso qualcosa di ancora nuovo.

L’altro modo per render conscio Abramo della sua missione è che gli viene chiesto d’immolare suo figlio Isacco. Un dilemma lacerante: come può annientare proprio quella corporeità che ha ereditato tutto da lui, che racchiude in sé la sua stessa missione? Ma Isacco viene salvato, e la lezione che Abramo impara è un’altra: capisce ora che il corpo di suo figlio, come il suo, non è dovuto alle forze della materia, all’ereditarietà – altrimenti anche lui avrebbe ereditato un corpo uguale a quello di tutti i Caldei –, ma è dovuto a Jahvè che ha creato dal nulla un nuovo tipo di forze fisiche ereditabili, che prima non c’erano. E d’ora in poi Abramo sa con certezza che la sua missione gli viene dal Genio di Jahvè, non dai geni di cui parla la genetica di oggi.

Il giudaismo va inteso come il passaggio dal terzo periodo di cultura – quello degli Egiziani e dei Caldei – al quarto, quello che vede alla guida i Greci e i Romani, nel quale si compie l’evento del Cristo che segna la grande svolta dei tempi. Lasciare il vecchio per andare verso il nuovo è una costante della storia giudaica, che comincia con Abramo. Il progenitore lascia la Caldea, più tardi il popolo verrà portato via dall’Egitto e ancora più tardi dalla cattività babilonese… In questo modo il popolo ebraico prepara il nuovo in assoluto, la venuta del Messia.

Mosè e i Dieci Comandamenti

Con Mosè l’evoluzione del giudaismo raggiunge uno stadio ulteriore, non meno fondamentale di quello di Abramo. Come già detto, Jahvè è la Divinità dell’Io che conduce l’uomo a far l’esperienza di essere un Io individuale dotato di libertà. E dove c’è libertà l’evoluzione resta aperta, le cose possono andare sia bene sia male, a differenza dei processi di natura che si ripetono sempre uguali perché vanno bene così come sono, e perciò non possono che andar bene. Il nome «Jahvè» vuol dire: «Io sono colui che era, è e sarà». Jahvè agisce nell’uomo in modo che questi si renda sempre più responsabile dei propri pensieri e delle proprie azioni. Come Abramo ha dovuto lasciare la Caldea, così Mosè conduce il popolo ebraico fuori dall’Egitto. Come in Abramo ha avuto origine una costituzione fisica orientata verso l’autocoscienza dell’Io, così in Mosè nasce l’anima dell’Io: mediante l’osservanza della Legge, della Torah.

La tappa rappresentata da Mosè nell’evoluzione del popolo giudaico ha a che fare non più con la formazione del corpo, ma con quella della sua anima – dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, delle sue volizioni. Non si tratta più di formare una particolare struttura corporea – che a partire dal Padre Abramo è stata ereditata da tutte le generazioni successive –, bensì una particolare configurazione interiore, una psiche in grado di comprendere il senso dell’evoluzione volta alla formazione dell’Io individuale in ogni uomo.

L’impulso dello stadio rappresentato da Abramo si riassume nel comandamento di conservare puro il sangue, poiché Jahvè è una Divinità che agisce nelle forze ereditarie, di generazione in generazione. È «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». Con Mosè, l’accento si sposta sul mondo dell’anima. D’ora in poi l’importante è che l’uomo comprenda bene e osservi scrupolosamente la Legge dettata da Mosè. Egli può prosperare solo restando fedele a Jahvè, solo osservando i dieci comandamenti. Come il sangue rappresenta il fondamento fisico del giudaismo, così l’osservanza della Legge ne è il fondamento psichico, il modo in cui l’uomo ebreo vive interiormente se stesso.

A questo punto possiamo chiederci: qual è il significato più preciso dei dieci comandamenti? Rudolf Steiner getta una nuova luce su questi pilastri della cultura occidentale presentandoli come i dieci attributi fondamentali dell’Io umano in evoluzione. I dieci comandamenti sono quei modi di comportamento che aiutano a diventare sempre di più un Io autonomo, ad acquisire in misura via via crescente la coscienza della propria responsabilità nei confronti dell’evoluzione del genere umano e della Terra.

Steiner traduce come segue il primo comandamento (Esodo, 20, 2-6): «Io sono il divino eterno che tu senti dentro di te, nel tuo Io. Ti ho condotto fuori dalla terra d’Egitto, dove non ti era possibile seguirmi nel tuo stesso Io. D’ora in poi non devi porre alcun’altra Divinità al di sopra di me, al di sopra del Dio che parla dell’Io al tuo Io. Non devi riconoscere come Divinità superiori quelle che ti presentano un’immagine di qualcosa che appare lassù nel Cielo, che opera nella Terra o fra Cielo e Terra. Non devi adorare ciò che è al di sotto del divino in te, del Dio che vivi nel tuo Io, poiché Io sono l’eterno in te, che agisce nel tuo corpo e perciò anche sulle generazioni venture. Io sono il divino che è duraturo nel suo agire. Se non mi riconoscerai come Dio dentro di te, scomparirò dai tuoi figli, dai tuoi nipoti e pronipoti, e il loro corpo si inaridirà. Se mi riconoscerai dentro di te, nel tuo Io, vivrò come tuo Io fino alla millesima generazione e i corpi del tuo popolo prospereranno».

Questa traduzione rende chiaro che i comandamenti della Legge di Mosè tendono tutti a suscitare e a favorire nell’uomo l’esperienza dell’Io. Solo diventando sempre più cosciente del proprio Io, della capacità di pensare e amare liberamente, solo vivendosi come individualità autonoma, l’uomo diventa capace d’intendere e di volere anche in senso morale, di assumere cioè la responsabilità delle proprie azioni.

Sul Monte Sinai Mosè riceve – inizialmente ancora sotto forma di rivelazione divina, dall’esterno – le dieci leggi dell’evoluzione verso l’Io, che acquistano significato solo nella misura in cui l’uomo le interiorizza, facendone la sostanza del proprio Io, vita della sua vita. L’Io è pura interiorità, e per questo gli Ebrei non devono farsi nessuna immagine esterna di Jahvè. Ogni immagine visibile, ogni esteriorizzazione, sarebbe in contraddizione con l’esperienza del tutto interiore dell’Io. L’arte dei Greci è, al contrario, fatta tutta d’immagini. Nell’arte greca vengono realizzate immagini visibili anche degli dei. Da qui deriva l’opposizione al paganesimo di cui è pervaso l’intero Vecchio Testamento.

La missione di Mosè rappresenta però anch’essa solo una tappa, e il popolo ebraico deve di nuovo andare oltre. Ciò che Mosè ha ricevuto ancora dall’esterno come rivelazione divina dev’essere interiorizzato da ogni giudeo, fino a diventare la sua convinzione più intima e personale. A quel punto il ruolo d’intermediario rivestito da Mosè diventa superfluo. Ecco allora che comprendiamo come mai non gli sia concesso di entrare nella Terra Promessa, la terra dove l’Io non ha più bisogno d’intermediari che siano ancora esterni a lui.

Il monoteismo come autocoscienza dell’uomo

La rivelazione impartita da Jahvè sul Monte Sinai segna il sorgere della coscienza monoteistica nei suoi due elementi inscindibili: l’autocoscienza umana di essere un Io e la concezione della Divinità come Entità dotata essa stessa di tutte le qualità dell’Io. Quando l’uomo comincia a viversi come un Io unificato, non può far altro, come già accennavamo, che considerare questa unità come la caratteristica più elevata ed essenziale anche della Divinità che l’ha creato a sua immagine. In un certo senso Feuerbach ha ragione quando afferma che l’uomo può attribuire a Dio solo quelle qualità che vive in qualche modo come proprie, perché ciò di cui non fa l’esperienza per lui non esiste. In fondo, già un sofista greco come Protagora aveva sostenuto qualcosa di simile affermando che l’uomo è la misura di tutte le cose.

E come mai i Greci erano politeisti? Perché, a differenza degli Ebrei, vivevano in sé l’infinita molteplicità delle passioni dell’anima, e a malapena sperimentavano la forza dell’Io che ha il compito di armonizzare questa molteplicità. Ritroviamo qui la sostanziale differenza fra viversi come anima o come spirito. L’anima non è mai uguale a se stessa, è un mare ondeggiante di istinti, desideri e passioni. In essa non vi è nulla di durevole, tutto è transitorio; niente è valido per tutti, niente è oggettivo, tutto viene vissuto a livello soggettivo, del tutto personale. Lo spirito è invece unità e durevolezza, rimane identico a se stesso lungo lo scorrere del tempo. L’Io spirituale domina la varietà degli impulsi animici, è il Signore – κυριος (kýrios) in greco, dominus in latino – delle forze della psiche. E dire che c’è ancora gente che pensa di valere di più, che si sente più onorata se la chiamano «Dottore», anziché Signor Tal dei Tali!

Gli dei greci sono delle reali entità sovrasensibili che governano gli impulsi dell’anima nell’uomo e nel cosmo. Per il popolo di Jahvè, il popolo dell’Io, era questione di vita o di morte non ricadere nel politeismo dei pagani. Questo rappresentava una costante minaccia per l’esistenza del popolo del monoteismo, perché dove l’uomo cessa di viversi come Io non è più possibile parlare di libertà o di moralità – e neanche di evoluzione storica.

Tramite la guida di Jahvè, il giudeo deve fare in maniera sempre più reale l’esperienza di non restare in balia di passioni che vanno e vengono come impulsi di natura, ma di esser capace di padroneggiare l’infinita molteplicità degli impulsi dell’anima – i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi ideali. Deve viversi come un Io, cioè come un nucleo unitario che decide e determina lui stesso quel che avviene nell’anima.

All’ebreo viene detto: non devi farti nessuna immagine esteriore del tuo Dio. Del tuo Dio, un’espressione che va meglio tradotta, già lo accennavamo, con «del Dio dell’Io». Dove nel Vecchio Testamento troviamo espressioni come «il tuo Dio» oppure «mio Dio, mio Dio…» dovremmo sempre riferirle al «Dio dell’Io». Altrimenti non si capisce per quale motivo non si usi l’espressione «del nostro Dio», riferito all’intera comunità, vista l’importanza che il giudaismo dà alla realtà del popolo.

La legge interiore e la Legge esteriore

È nella natura dell’evoluzione dell’uomo di far gradualmente sua la legge che dapprima gli viene proposta dall’esterno – come fa ogni bambino che cresce nei confronti dell’educatore. La Legge mosaica – quella con la «L» maiuscola – raggiunge il suo scopo nel momento in cui scompare in quanto guida esterna all’uomo. La fedeltà alla Legge che dice cosa bisogna fare o evitare per diventare un Io cosciente e libero porta un po’ alla volta l’uomo al punto di non aver più bisogno di nessuna Legge che gli venga imposta dal di fuori. La Legge rivelata da Dio si trasforma in una legge compresa e voluta dall’uomo stesso, diventa una legge che l’Io fa sua perché la vede tutta positiva per il suo cammino. La Torah si trasforma così a poco a poco in libero arbitrio, in volontà libera. Nella libertà dell’uomo ogni Legge esteriore viene elevata a un livello superiore, e così portata a compimento.

In base a quanto sopra esposto possiamo considerare anche l’evoluzione del popolo ebraico secondo la triade di corpo, anima e spirito. Questa triade[17] fondamentale ha un’importanza metodica che può fornire una struttura di pensiero adatta a capire tanti fenomeni umani, anche storici.

Jahvè è lo spirito del popolo giudaico, lo spirito dell’Io. Nell’impulso di Abramo abbiamo l’origine della corporeità idonea all’Io come prima condizione necessaria per la realizzazione dell’impulso di Jahvè. Per mezzo di Mosè viene formata l’anima del popolo giudaico: essa si sviluppa in base a una Legge che va sempre più interiorizzata da parte del singolo. In tal modo la Legge perde via via il carattere di anima di gruppo, di popolo, e viene resa individuale nel senso dell’Io del singolo uomo. La terza tappa non può essere che quella dello spirito: lo spirito di Jahvè, dell’Io, viene sempre più vissuto nell’Io dell’uomo singolo che si percepisce come spirito individuale. Alla duplice base corporea e animica comune a tutto un popolo – grazie all’opera di Abramo e di Mosè – il singolo può aggiungere la dimensione del tutto spirituale-individuale, che porta a compimento la realtà sia del corpo sia dell’anima. Questo terzo stadio definitivo si preannuncia nella missione di Elia.

Elia e l’enigma di Giobbe

C’è una terza figura nel Vecchio Testamento che getta luce sull’enigma di Mosè, cui non è concesso di entrare nella terra promessa. Si tratta di Elia. Mosè ed Elia rappresentano due pietre miliari nell’evoluzione del popolo ebraico. Appaiono anche nei vangeli, ai lati dello Spirito del Sole, nella trasfigurazione sul monte Tabor.

La figura enigmatica di Elia va posta in relazione con un altro grande enigma, quello di Giobbe. Il libro di Giobbe è sempre stato una croce sia nella storia del popolo giudaico che in quella del testo stesso della Bibbia. Molti lo ritenevano addirittura una sorta di corpo estraneo e perciò sono stati fatti ripetuti tentativi di eliminarlo dal Vecchio Testamento.

L’enigma di Giobbe rappresenta il più profondo problema di coscienza per ogni ebreo, anche ai giorni nostri. Nel Libro di Giobbe si narra infatti, come già accennavamo, di un uomo assolutamente devoto alla Legge di Mosè, un uomo che vive nella sua totale osservanza. E nonostante questa sua fedeltà a Jahvè, tutto gli va storto. Viene colpito da una disgrazia dietro l’altra, al punto che alla fine tutte le persone che gli sono vicine, e la moglie per prima, cercano di indurlo a dubitare dell’onestà di Jahvè, se non della sua esistenza. Nella moglie di Giobbe è raffigurata l’anima stessa di Giobbe. È Giobbe medesimo come «uomo dell’anima», ancora fermo allo stadio mosaico della Legge, del cui carattere transitorio non si è ancora reso conto. E la voce della sua anima mosaica gli dice: rinnega Jahvè, abdica al tuo Dio e scomparirai finalmente nel nulla, terminando di soffrire.

Si esprime qui la profonda convinzione di ogni giudeo «giusto» e fedele alla Legge: quella di poter esistere solo in quanto inserito nel popolo di Jahvè e, perciò, nella realtà di Jahvè stesso. L’ebreo al tempo di Mosè non era ancora in grado di viversi come un essere del tutto autonomo, dotato di un Io davvero individuale. Si sentiva esistere solo in virtù dell’operare di Jahvè all’interno del suo popolo, di cui era membro grazie al suo corpo e alla sua anima. E allora, rinnegando Jahvè, dichiarando di non appartenere più a lui, pensava di sprofondare nel nulla.

La fedeltà a Jahvè nell’osservanza della Torah portava con sé la grande tentazione di considerare la sottomissione a una Legge come lo stadio ultimo nel cammino dell’uomo. E proprio questa tentazione di fermarsi a uno stadio transitorio come se fosse quello definitivo si manifesta nel fatto che nel corso del tempo l’osservanza della Legge venne sempre più esteriorizzata.

Rudolf Steiner afferma a questo proposito in una conferenza del 14 dicembre 1911[18]: «La religione di Jahvè, teneva lo sguardo levato verso un Dio sovrasensibile, che non può essere caratterizzato da altro se non dal dire: non è simile ad altro che a qualcosa di sovrasensibile e invisibile, di cui l’uomo fa esperienza quando si rende conto del proprio Io. Quell’elemento sovrasensibile era presente, ma lo si era inteso così che si cercava di capire attraverso le manifestazioni esterne della vita umana il modo di operare di Jahvè. Ci si era abituati a dire: Jahvè agisce in modo da ricompensare gli uomini e da mostrarsi benevolo quando nella natura si manifestano fertilità e abbondanza, e la vita scorre liscia. Ci si era però anche abituati a pensare che il Dio Jahvè mostra la sua ira, o che si allontana dagli uomini, quando si verificano guerre o carestie o cose simili».

La sofferenza come pegno dell’amore divino

La cultura giudaica era andata sempre più identificando l’operare di Jahvè con la prosperità e il successo esteriori, e sempre di meno con le esperienze interiori volte a far nascere l’esperienza tutta spirituale dell’Io. L’operare di Jahvè lo si cercava fuori dall’uomo, lo si faceva coincidere con gli avvenimenti della natura al punto che si diceva: se le faccende materiali di una persona prosperano, è segno che Jahvè è ben disposto nei suoi confronti. Se invece tutto va in malora, se uno deve soffrire, è segno che Jahvè gli sta voltando le spalle.

In fondo è vero proprio il contrario: la forza dell’Io aumenta al massimo quando le condizioni esteriori offrono più ostacoli. Nei momenti difficili occorre un più forte impegno dell’uomo, e questo lo fa crescere nella sua forza interiore. Si sviluppa invece meno forza quando esteriormente tutto va liscio: per affrontare situazioni facili non occorre evocare più di tanto l’energia robusta dell’Io.

È in questo contesto che va intesa la missione di Elia: è fondamentale il fatto che egli abbia svolto la propria missione in un tempo di terribile carestia. Durante una carestia la vita offre ad ognuno sofferenze e prove non inferiori a quelle sopportate da Giobbe. In tale situazione Elia propone però una soluzione opposta a quella suggerita dalla moglie di Giobbe a suo marito.

La tentazione di Giobbe consisteva nel pensare, di fronte alle sue tante disgrazie, che Jahvè gli avesse voltato le spalle e che dunque l’unico modo di sottrarsi al dolore fosse quello di voltare a sua volta le spalle a lui, di rinnegarlo. In Elia compare in altre parole l’interpretazione opposta della sofferenza: quando le circostanze esteriori sono particolarmente dure e gli ostacoli più grandi che mai, si ha la migliore occasione di esercitare la forza dell’Io, di crescere come uomini.

Rudolf Steiner aggiunge in riferimento ad Elia: «Il tempo di cui stiamo parlando è uno di questi tempi di penuria, un periodo di carestia. E molti si erano allontanati da Jahvè perché non potevano più credere al suo favore vedendo come trattava gli uomini con quella terribile carestia. Se si può parlare di progresso del concetto di Jahvè, lo dobbiamo caratterizzare in questo modo: doveva ora sorgere un concetto di Dio che, pur restando il concetto di Jahvè di prima, venisse per di più permeato da una maggiore comprensione da parte dell’uomo, al punto da potersi dire: qualunque cosa accada nel mondo esterno, comunque scorra la vita di una persona, felice e beata oppure afflitta da miseria e carestia, le vicende esteriori non costituiscono affatto una prova della benevolenza o della collera di Jahvè. No, solo chi intende correttamente il concetto di Jahvè e lo venera in modo giusto potrà non vacillare nella sua devozione al Dio invisibile, neppure nei momenti di maggior miseria e carestia – solo chi è pervaso dalla certezza che Egli esiste, una certezza che gli deriva unicamente dal profondo dell’anima e per niente da ciò che osserva all’esterno. Questa è la trasformazione interiore che doveva realizzarsi in quel periodo».

Ecco allora che abbiamo la soluzione pratica dell’enigma di Giobbe per mezzo della missione di Elia. Quest’ultimo dimostra che ogni essere umano è destinato a plasmare in modo sempre più intimo e individuale le forze dell’Io, che sono poi quelle di Jahvè, e dà un’interpretazione tutta nuova della funzione dell’ambiente esterno. Esso non è fatto solo per sostenere l’uomo, come quando tutto va bene, non è lì perché l’essere umano si adagi, fino a fondersi in esso. Il senso di tutto ciò che è esterno all’uomo, degli eventi della vita, è quello di offrire all’Io umano le giuste sfide, le occasioni necessarie perché diventi sempre più forte.

Grazie alla comparsa di Elia ha origine nell’umanità il pensiero che dice: un uomo, in quanto individualità, può anche affrontare un destino particolarmente difficile, e considerarlo non come una punizione per delle colpe commesse, né tanto meno come un abbandono da parte di Jahvè, ma in modo esattamente opposto: come occasione privilegiata per aumentare la forza del suo Io, cosa che avviene superando ostacoli e difficoltà. Senza sofferenza e senza lotta, l’evoluzione dell’Io non può aver luogo.

Il mistero di Elia annuncia allora chiaramente un’ulteriore individualizzazione dell’uomo grazie al confronto individuale con le forze dell’ostacolo che gli si presentano come occasione di crescita tutta positiva. Tradotto in un’immagine, vediamo Elia indicare l’Essere del Cristo – lo farà davvero più tardi, quando sarà Giovanni il Battista – ed esclamare: «Ecco l’Essere dell’Io, che va al di là di ciò che il corpo o l’anima danno all’uomo, l’Essere dello Spirito individuale e libero, che viene a benedire ogni sofferenza dell’anima e ogni morte del corpo trasformandole in un’esperienza di resurrezione dello spirito».

Individualismo come universalismo – e viceversa

Con la comparsa di Elia si annuncia che il bello e il buono della vita non consiste in un qualche successo esteriore, ma nel fatto che la forza divina dell’Io possa svilupparsi in modo sempre più puro e individuale.

Il cammino del popolo ebraico presenta, stando a quanto esposto, tre tappe principali: la prima è quella di Abramo, dove si tratta di formare la base fisica necessaria all’esperienza dell’Io, destinata nel corso del tempo a diventare patrimonio di tutto il genere umano; la seconda tappa è quella di Mosè con i suoi comandamenti, con la Legge mosaica quale pedagoga dell’anima; e infine c’è l’opera di Elia, tutta rivolta all’esperienza dell’Io individuale, all’autocoscienza dell’uomo in quanto spirito.

Per questo Elia ritornerà come Giovanni il Battista, colui che annuncia e indica l’Essere stesso dell’Io – «Ecco l’agnello di Dio» – portando così a compimento la missione del popolo ebraico. Che l’individualità di Elia sia la stessa del Battista viene detto nei vangeli: riferendosi al Battista, il Cristo afferma: «Egli (Giovanni) è quell’Elia che deve ritornare. Chi ha orecchi per intendere, intenda» (Mt 11, 14-15). E ancora in Matteo i discepoli, tornando giù dalla montagna della Trasfigurazione dove hanno visto il Cristo con accanto Mosè ed Elia, chiedono: ma come, non dicono le Scritture che doveva venire Elia ad annunciare il Messia? E il Cristo risponde: Elia è già venuto, e non l’hanno riconosciuto, ma l’hanno ucciso. E l’evangelista aggiunge: «Allora i discepoli compresero che parlava di Giovanni il Battista» (Mt 17,13).

Se interpretiamo la missione di Elia in questo modo, se cioè vediamo che per mezzo suo sia l’elemento fisico del sangue di popolo, sia quello animico dell’obbedienza alla Legge vengono vissuti come duplice strumento per far l’esperienza sempre crescente dell’Io individuale, allora comprendiamo anche l’universalità della missione del popolo ebraico. Finché l’esperienza dell’Io è governata dalle forze del sangue e dalla sottomissione alla Legge specifica di un popolo, l’evoluzione riveste un carattere preparatorio. Entrambi gli aspetti – la dimensione fisica e quella animica di gruppo – hanno un senso solo se spianano la via all’esperienza al contempo individuale e universale di essere un Io che nelle vicende avverse ha occasione più che mai di rafforzarsi.

Per l’Io singolo l’appartenenza a un determinato popolo non rappresenta un fattore di esclusione. Nella prospettiva della reincarnazione, ogni essere umano si incarna di volta in volta in un popolo diverso e fa l’esperienza di una religione dopo l’altra. Ognuno di noi in tempi andati ha preso parte in qualche modo anche all’evoluzione fisica e interiore specifica del giudaismo. In questo consiste l’universalismo dell’impulso di Jahvè: è nella sua natura sfociare alla fine nell’Io individuale che tutti gli uomini portano in sé, nonostante sia diverso in ognuno.

Si può allora riassumere il messaggio di Elia nel seguente modo: la forza dell’Io non si vive tanto nell’essere sostenuti da una realtà di gruppo – popolo o Legge che sia – o dal favore degli eventi naturali, quanto nel far fronte a tutti gli ostacoli che la vita presenta per trasformali in occasioni di crescita.

La «profezia» per eccellenza fatta al popolo ebraico è la venuta del Messia. La religione giudaica trova lì il suo fulcro e il suo senso. Il popolo ebraico sta aspettando ancor oggi questa venuta, e molteplici sono i modi in cui se la raffigura. Ma tutti hanno un elemento comune: questa venuta dovrà rivestire un carattere di compiutezza, di definitività. Compiuto nel suo essere l’uomo lo è solo in quanto spirito individuale libero e pieno d’amore. E questa realtà dell’umano vale in ugual misura per tutti gli uomini, non tollera di essere identificata con qualcosa di esteriore o di venir attribuita a questo o quel popolo. In questo senso è proprio nella natura della missione del popolo ebraico di portare l’individuo al superamento di ogni identificazione con dei tratti nazionali.

Anche se Jahvè viene inizialmente inteso come Divinità di popolo, il suo operare tende per natura al superamento di questo stadio: in quanto Io, l’uomo fa anche dell’appartenenza a un popolo uno strumento per costruire ciò che è individuale in ogni uomo. Come Divinità di popolo Jahvè non può che porsi al servizio di tutto ciò che è universalmente umano.

Il Messia è già venuto? Sì e no.

A questo punto si pone la domanda: se prima di Elia si era fatta l’esperienza dell’operare di Jahvè nelle forze del sangue e nell’osservanza della Legge di popolo, da dove viene la forza individuale assolutamente nuova che Elia proclama essere al di là del sangue e della Legge – al di là dell’operare di Jahvè – e che consente a colui che è «giusto», fedele a Jahvè, di esser grato persino per la sofferenza? La risposta a questa domanda è racchiusa nel mistero dell’atteso Messia.

La questione centrale che riguarda il rapporto fra giudaismo e cristianesimo è tuttora questa: al giorno d’oggi viviamo ancora nell’attesa del Messia, oppure Egli è già venuto?

Il cristianesimo tradizionale risponde: il Messia – Christòs è la traduzione greca letterale dell’ebraico Meschiàch, che significa l’Unto – è venuto duemila anni fa. Il giudaismo tradizionale dà la risposta contraria: il Messia non è ancora venuto, e quando verrà sarà la fine dei tempi.

La scienza dello spirito di Rudolf Steiner ritiene entrambe le risposte giuste in ciò che affermano, ed errate in ciò che negano. Ciascuna ha perciò bisogno di essere completata dall’altra. Il cristianesimo afferma: a partire dall’evento del Golgota – l’incarnazione e la morte di un Essere divino in un uomo – Colui che il giudaismo chiama il Messia vive spiritualmente sulla Terra, accompagna il cammino di ogni uomo verso una crescente autonomia intellettuale e morale. L’azione del Messia-Cristo spiritualmente presente nell’umanità rende possibile in ognuno l’esperienza dell’Io individuale, che non può essere superata da nessun altro livello evolutivo ancora superiore.

Il cristianesimo tradizionale è stato unilaterale proprio nella sua feroce opposizione al giudaismo, e ciò perché non ha saputo vedere che la venuta del Messia, del Cristo, ha due volti, non uno solo. Il primo è ciò che il Cristo è nel suo essere, ciò che Egli compie nell’umanità. Ma il secondo volto, la seconda dimensione del suo «venire», non meno importante, è il modo in cui ogni individuo prende posizione, intellettualmente e moralmente, nei confronti del Messia-Cristo. Ciò dipende dalla libertà individuale di ogni singolo.

Per la venuta del Cristo nella coscienza del singolo individuo occorre, perché diventi sempre più reale, tutta la seconda metà dell’evoluzione. Ciascuno di noi è ancora agli inizi nel far sua la forza del Cristo, e in questo senso l’affermazione fondamentale del giudaismo è molto più aderente alla realtà di quella del cristianesimo tradizionale, quella che dice: il Messia deve ancora venire, il suo avvento nella coscienza del singolo individuo è più una questione del futuro che del passato.

L’unilateralità del cristianesimo tradizionale proviene dal fatto che l’evento del Cristo è stato visto troppo poco come la reale prospettiva evolutiva del singolo uomo, come chiamata alla libertà rivolta all’individuo. «Il cristianesimo della fede» ha sperato in fondo che si potesse ricevere tutto per grazia dal Cristo, senza aggiungervi granché di proprio.

Il cristianesimo può avere un futuro soltanto se il singolo individuo considererà la venuta del Cristo nel proprio Io, cioè la cristificazione della sua individualità, come l’avvento futuro del Messia, come il compito sempre aperto della sua libertà. In questo ogni «cristiano» può dichiararsi pienamente d’accordo con «il giudeo».

E l’unilateralità dell’ebraismo ortodosso consiste a sua volta nel non cogliere il carattere di definitività che già da duemila anni ha assunto l’evoluzione umana. Il Messia, il Cristo, ha fatto allora definitivamente ingresso nella Terra e nell’umanità. La «pienezza dei tempi» è già presente per il fatto che grazie al suo operare ogni uomo ha ormai a disposizione tutte le condizioni necessarie per il suo ulteriore cammino. Il carattere di definitività che il Messia-Cristo ha conferito all’evoluzione risiede nell’esperienza della natura individuale dell’Io, resa accessibile a tutti. Tale esperienza c’è a partire dal momento in cui l’uomo considera tutto ciò che è di gruppo – sia a livello corporeo-naturale che animico-culturale – come uno stadio intermedio, come uno strumento per lo sviluppo di ciò che è individuale in ognuno.

Il cristianesimo tradizionale ha mostrato esso stesso fino ad oggi tutti i connotati di un’esperienza «di gruppo», se si considera anche solo il ruolo determinante della Chiesa. In fondo, si è continuato a vivere secondo la Legge – basti pensare al diritto canonico e all’Inquisizione. La libertà interiore, l’autonomia del singolo, sono state spesso ritenute nientemeno che «anticristiane», un autentico peccato. Anche il cristianesimo vero – come il Messia – deve ancora venire!

Guardando all’evoluzione con gli occhi di una moderna scienza dello spirito, si può far nascere un tipo nuovo di «tolleranza» fra le religioni. Il giudaismo può aprirsi all’affermazione del cristianesimo che dice: l’individuale e l’universale hanno già fatto il loro ingresso definitivo nella storia col farsi Uomo del Messia-Cristo. Il cristianesimo può a sua volta aprirsi all’affermazione del giudaismo che dice: la grazia divina trova la propria pienezza solo nella libertà individuale dell’uomo, e questa sta ancora muovendo i suoi primi passi.

L’ebreo errante e l’eterno cristiano

La leggenda medioevale di Asvero, il cosiddetto «ebreo errante», esprime in forma poetica il rapporto fra giudaismo e cristianesimo. Asvero è l’ebreo che rimane eternamente «ebreo», è «l’ebreo» nascosto in ogni «cristiano», non meno che in ogni essere umano. È ogni uomo nella misura in cui, anche dopo la venuta del Messia-Cristo, continua a identificarsi con un popolo o con un gruppo, senza aprirsi all’universalmente umano. È l’uomo dedito all’impulso specifico di un determinato popolo, di una particolare cultura o religione, che omette di compiere nel suo cuore quella svolta evolutiva che consiste nel superare ogni posizione parziale per cercare la totalità dell’umano, quale può viversi solo nel singolo individuo.

Il senso autenticamente cristico della leggenda dell’Ebreo errante risiede nel fatto che Asvero è ogni uomo che ritiene di essere già stato redento, di appartenere già in partenza alla schiera – al gruppo! – degli eletti. Inteso così, l’ebreo errante è ogni cristiano, ogni uomo che non diventa veramente uomo, poiché s’identifica con ciò che ha ricevuto dal sangue e da un gruppo – che sia un popolo o una chiesa, fa lo stesso. Dal momento che si ritiene cristiano per nascita, non lo può diventare per esercizio di libertà.

Asvero è l’essere umano che prova da un lato un’irresistibile attrazione per il Cristo-Messia che gli tende la mano: egli vorrebbe stringerla, ma poi sente in sé la forza del rifiuto, della ribellione. In questa sublime immagine si esprime l’eterno conflitto che imperversa in ogni uomo fra il suo Io superiore e il suo io inferiore, fra le forze dell’amore e quelle dell’egoismo.

La nostra coscienza ordinaria cerca le comodità e gli automatismi, all’io inferiore piace venir assorbito da una natura corporea o di gruppo. Nell’attrazione che Asvero prova nei confronti della mano che il Cristo-Messia gli porge, è raffigurato l’innato desiderio dell’Io superiore di ogni uomo verso la pienezza del proprio essere.

Quinto capitolo

La svolta dei tempi

Visto nella prospettiva dell’evoluzione di tutta l’umanità, il giudaismo ha avuto il compito di preparare l’incarnazione del Messia-Cristo. La natura umana – affetta dal peccato originale – è stata talmente purificata e nobilitata nel susseguirsi delle generazioni del popolo ebraico, da essere divenuta idonea ad accogliere in sé, nella persona di Gesù di Nazareth, lo Spirito preposto a tutta l’evoluzione della Terra, quella che fa di tutti gli uomini un cuor solo e un’anima sola.

Uomo cosmico e uomini terrestri

Alla cultura occidentale è venuta a mancare nel corso degli ultimi secoli la realtà dello spirito, e così è andata persa anche la dimensione cosmica dell’evento del Cristo. Il cristianesimo tradizionale è memore e custode di un Dio venuto incontro all’infinita piccolezza della sua creatura, per risollevarne le sorti. Ma come esattamente questo sia avvenuto, che cosa sia successo in Cielo e in Terra duemila anni fa, il cristianesimo tradizionale non lo sa più.

Con l’andar del tempo, anche per rendere più accettabile all’uomo moderno l’impresa della fede, il cristianesimo ha sempre più sfocato il Cristo, ed è rimasto alla fine, soprattutto in ambito protestante, solo l’uomo Gesù: «un brav’uomo, l’uomo migliore di tutti», ma niente più che un uomo.

Come le scienze naturali con i più vari strumenti di ricerca, indagano l’uomo fisico in relazione all’universo fisico, così d’ora in poi una vera e propria scienza dello spirituale – che venga ad integrare le scienze naturali – dovrà indagare il rapporto che c’è fra l’uomo e gli Esseri spirituali del mondo in cui viviamo, un rapporto che è ed è sempre stato all’origine di tutto ciò che si manifesta sul piano fisico.

Solo così la grande svolta impressa duemila anni fa all’evoluzione della Terra e degli uomini può riconquistare per la coscienza umana la sua vera fisionomia, e il suo respiro universale. Alla ricerca scientifico-spirituale risulta che lo Spirito unitario del sistema solare negli stadi primordiali dell’evoluzione aveva separato il Sole dalla Terra. E alla svolta dei tempi, col suo farsi uomo, è ritornato sulla Terra, avviando la graduale riunificazione di Terra e Sole, e quindi anche la progressiva riunificazione di tutti i pianeti del sistema solare. Perché tutto questo?

Nella sua opera La scienza occulta nelle sue linee generali[19], Rudolf Steiner descrive il lungo processo di «materializzazione» dell’uomo, il già accennato passare da «uomo paradisiaco» – l’Adamo quale idea vivente e unitaria nella mente del Creatore – a uomo incarnato e singolo. È una sorta di graduale solidificazione e frantumazione dell’umano: dall’Uomo che era uno solo, fino agli «uomini» che sono tanti.

L’uomo degli inizi era l’Anima umana una e purissima, priva di coscienza di sé. Un’Anima incapace di dire «Io» a se stessa, ancora effusa nella perfetta armonia dell’universo divino – e della cui sostanza innocente e piena d’amore era ancora ricolmo, l’abbiamo visto, il bambino Gesù descritto nel vangelo di Luca.

È il tempo in cui l’albero della conoscenza viene affidato all’uomo perché ne fruisca. Inizia così «la caduta», la discesa nella coscienza desta grazie al vivere nel corpo. L’anima umana dei primordi va in frantumi in quella dimensione ultima del cosmo in cui lo spirito agisce e si manifesta: la materia. L’albero della conoscenza è a tutt’oggi al centro del nuovo Paradiso che l’uomo abita, al centro del suo corpo d’uomo: è la colonna vertebrale con in cima il cervello, sorto per portare a coscienza l’attività del pensare e che lungo i millenni si andrà sempre più accendendo nelle singole anime umane, portandole all’esperienza autonoma dello spirito, dell’Io.

Nel corso della vicenda terrena, l’anima umana impara a viversi dentro corporeità sempre più dense, soggette a tutte le leggi di gravità, fino ad uscire completamente dal suo sonno cosmico d’innocenza. Richiamiamo di nuovo alla memoria le tappe di questo cammino: come un bambino cui venga tagliato il cordone ombelicale, l’uomo pone piede sulla Terra fisica, abita un corpo fisico, e passo dopo passo dà inizio, nella notte dei tempi, alla ricerca del suo Io divino, al suo lento risveglio. La materia è l’elemento in cui ogni uomo si distingue e si separa dall’altro uomo, e nella solitudine della propria anima, piena di limiti e di debolezze, può iniziare la lenta strada verso se stesso, verso lo spirito che non conosce confini, che si regge su di sé, che si sente uno con tutti e con tutto.

Perché potesse verificarsi la discesa degli uomini nella materia, ai primordi lo Spirito del Sole dovette abbandonare la Terra: in termini fisico-astronomici ciò significa che l’astro del Sole si staccò dalla Terra, ed ebbe inizio la configurazione del sistema solare che i nostri occhi vedono ancor oggi quando guardiamo il cielo.

Questo evento cosmico può essere visto come parte integrante del cosiddetto «peccato originale». Con la presa di distanza dalla fisicità terrena da parte dell’Essere Solare, venne data a un’altra entità, chiamata Lucifero[20], il compito di governare la prima metà dell’evoluzione umana, che rappresenta la fase negativa della libertà, la frantumazione dell’umanità in tanti singoli uomini, ognuno chiuso nel proprio egoismo.

L’individualizzazione, l’acquisizione della libertà da parte dell’uomo, è possibile solo se preceduta da una fase di distanziamento gli uni dagli altri: questa condizione illusoria (che il Buddha chiamava maya) della quale oggi abbiamo toccato il fondo, porta a una costante attenzione verso se stessi, a un’esperienza di grande amore verso la propria persona, alla sua promozione e difesa. Se l’Essere del Sole, che è tutto intessuto di forze d’amore, fosse rimasto unito alla Terra, l’ardore del suo Amore sconfinato e irraggiante avrebbe impedito quel freddo, ristretto amore egoistico che è però dapprima necessario per conseguire l’autonomia interiore.

Lo stesso si ripete in piccolo in ogni vita. Ogni bambino sperimenta, dopo la prima fase paradisiaca dell’identificazione con i genitori, la fase oppositiva della libertà – una libertà dapprima di emancipazione, di pura negazione, si potrebbe quasi dire. Negli anni della pubertà il giovane deve ribellarsi a tutto, deve prender le distanze da tutti, per trovare la propria identità e conseguire la sua indipendenza. È una fase che può essere paragonata all’abbandono della casa paterna, quale è descritto nella parabola del «figliol prodigo».

Libertà dell’egoismo e dell’amore

La seconda fase della libertà, quella positiva, ha inizio quando l’uomo comincia a vincere l’egoismo per mezzo delle forze dell’amore. È così che diventa a poco a poco veramente libero. La libertà illusoria dell’egoismo, la libertà negativa che ci fa essere gli uni contro gli altri, è solo la smania di libertà dell’uomo che non conosce ancora la vera libertà.

La libertà vera la si vive solo nella misura in cui si vince in sé l’egoismo: per mezzo delle forze dell’amore[21]. Quelle stesse forze di cui ci siamo appropriati quando pretendevamo in modo egoistico di avere tutto il mondo al nostro servizio, vogliono ora rifluire verso tutti gli altri.

Grazie all’amore, l’uomo sa che la separatezza è solo un’illusione, che la sua vera essenza consiste nell’essere come un membro vivente nell’organismo dell’umanità. L’umanità è come un unico organismo spirituale: l’uomo non può raggiungere la felicità e la perfezione se non insieme a tutti gli altri.

La pienezza dei tempi, la grande svolta dell’evoluzione, avviene col ritorno sulla Terra dell’Essere intriso d’Amore, venuto a porre termine alla prima fase evolutiva sotto il segno dell’egoismo. Questo evento è stato a lungo preparato, è stato predetto dagli iniziati ai misteri di tutti i popoli e di tutte le religioni. E poiché lo Spirito del Sole ha abbandonato duemila anni fa la sua dimora di luce per fare della Terra il suo nuovo corpo e dell’Umanità la sua anima, da duemila anni a questa parte Sole e Terra si stanno riavvicinando di nuovo, con l’intento di ritornare ad essere uno spirito solo e un’anima sola. Tutto questo ricondurrà all’unità anche gli altri pianeti del sistema solare.

Gesù di Nazareth e l’adempimento della Legge

Il popolo chiamato a preparare l’involucro corporeo e l’esperienza d’anima adatti per l’incarnazione del Messia-Cristo, l’abbiamo visto, fu il popolo ebraico. Gesù di Nazareth, che riassume in sé tutta l’evoluzione corporea e animica del popolo ebraico, diventa a trent’anni il portatore del Cristo. Tutto ciò che è avvenuto nella storia giudaica trova il suo significato unitario nella creazione di questo corpo e di quest’anima: nella nascita di Gesù di Nazareth come futuro portatore del Messia.

Al battesimo nel Giordano avviene l’ingresso dello Spirito del Sole nell’uomo Gesù. L’adempimento della Legge e di tutte le profezie – i due cardini della religione ebraica – si compie tramite l’incarnazione del Logos, dell’Intelligenza del sistema solare nel corpo e nell’anima di un uomo. Grazie al ritorno alla Terra dell’Essere pieno di amore si realizzano tutte le condizioni necessarie per la seconda metà dell’evoluzione, quella fondata sulle forze dell’amore e della libertà.

Alla luce delle tre tappe fondamentali dell’evoluzione del popolo ebraico che abbiamo più sopra descritto – Abramo, Mosè, Elia-Giobbe – possiamo dire che ogni uomo ha attraversato questo triplice percorso, poiché esso rappresenta i tre stadi dell’evoluzione di tutti gli uomini. Ai tempi nostri ogni uomo porta dentro di sé, come risultato della propria evoluzione, la fisicità di Abramo, la Legge di Mosè e l’individualità di Elia, e vuol divenire sempre più consapevole di questa triplice realtà.

In questo modo va inteso anche l’adempimento della Legge. Esso consiste nel fatto che ogni uomo vuol portare a compimento quella «legge», che è il piano complessivo dell’evoluzione, assumendo la propria responsabilità individuale. San Paolo afferma: non il peccato ha fatto sorgere la legge, bensì la legge il peccato. La legge dell’evoluzione dovette causare il «peccato», cioè la disgregazione degli uomini, per permettere la nascita dell’Io singolo autonomo. La separazione iniziale, questo «peccato», non va allora inteso in senso morale, come fosse un male che sarebbe stato meglio evitare, ma come tappa inevitabile, come presupposto imprescindibile per diventare un’individualità libera e responsabile. Non il sorgere dell’egoismo è il peccato originale, ma l’omettere di vincerlo ogni giorno (e per poterlo vincere bisogna prima che ci sia!)

«Io e il Padre (Abramo) siamo una cosa sola»

Il vangelo di Giovanni affronta i misteri dell’evoluzione in modo particolarmente profondo. Le lunghe, numerose diatribe fra il Cristo e gli scribi e i farisei vertono sulla giusta interpretazione della Legge di Mosè. Al Cristo viene rimproverato di trasgredire questa Legge, per esempio non osservando il riposo del sabato. Egli invece puntualizza costantemente che proprio grazie al suo operare l’uomo giunge all’adempimento della Legge, nel senso che con la sua venuta la Legge consegue la pienezza, il massimo dell’efficacia.

La prima parte del vangelo di Giovanni culmina nell’undicesimo capitolo, ove si narra il risveglio di Lazzaro. I tre capitoli precedenti – l’ottavo, il nono e il decimo – s’incentrano sui tre stadi percorsi dal popolo ebraico per preparare la venuta del Messia. Nell’ottavo capitolo si pone al centro della discussione l’impulso di Abramo. L’affermazione centrale, che esprime il modo in cui gli Ebrei di quei tempi vivevano se stessi, sostiene: «Noi siamo figli di Abramo», siamo il seme, i discendenti di Abramo. Con ciò vogliono dire: la nostra identità consiste nella nostra fisicità, nel nostro sangue che risale ad Abramo. Abbiamo un corpo in cui agisce lo spirito di Jahvè nel modo promesso ad Abramo. Solo chi condivide una fisicità ereditata da Abramo può sostenere di albergare in sé lo spirito di Jahvè. Gli scribi e i farisei riconoscono in questa appartenenza di sangue un segno distintivo, un privilegio. Pensano che solo coloro che fanno parte di questo popolo possono godere di un legame speciale con la Divinità. Tutti gli altri uomini ne sono esclusi.

A questa affermazione, che esprime l’identità degli Ebrei di quell’epoca, il Cristo ribatte con le lapidarie parole: «Prima che Abramo fosse, c’era l’Io Sono» – parole che normalmente vengono tradotte con: «Prima che Abramo fosse, io sono». In realtà il Cristo vuol dire: «Prima di Abramo c’era l’Essere dell’Io». La fisicità abramitica, ereditata da tutti i membri del popolo ebraico, rappresenta un elemento singolo nel piano complessivo dell’evoluzione, volto alla realizzazione dell’Io creatore in ogni uomo. L’Essere che assomma in sé tutte le forze necessarie per diventare un Io, Colui che chiama se stesso «Io sono», accompagna il cammino di tutti gli uomini dal primo inizio fino alla fine. Anche il nome Jahvè significa «Io sono»: tramite Jahvè viene suscitato un primo bagliore della coscienza dell’Io. Che questa coscienza fosse prima di Cristo solo iniziale si palesa nel fatto che è del tutto dipendente dal sangue di Abramo e dalla legge di Mosè – impulsi ancora di gruppo, non individuali.

La realtà che dev’esserci fin dall’inizio – ancor prima che vengano identificati i passi singoli, gli stadi intermedi – è il progetto nel suo insieme, la meta finale, il senso e lo scopo di tutta l’evoluzione umana. Prima ancora che si potesse concepire e realizzare il contributo specifico di Abramo, bisognava mettere in atto il piano globale: «Prima che Abramo fosse, c’era l’Io sono»: ciò vuol dire che la nascita dell’esperienza dell’Io è il senso del tutto. I singoli passi vengono subordinati a questo scopo valido in modo uguale per tutti gli uomini.

Il giudeo diceva: «Io e il padre Abramo siamo una cosa sola», identificandosi con un aspetto particolare dell’evoluzione. La risposta del Cristo omette la parola «Abramo» e afferma: «Io e il Padre siamo una cosa sola». La natura dell’Io viene vissuta nell’unione con il Padre spirituale di tutti gli uomini. La pienezza dei tempi consiste nel fatto che l’uomo comincia a identificarsi con il tutto, a far suo l’universale umano, a sentirsi uno con il Padre spirituale di tutti gli uomini. Questo Padre spirituale non opera solo nel corpo fisico – come il padre Abramo – ma vuole che ogni uomo venga dotato di Io, che prenda parte attivamente alla creazione in corso.

Mosè ha parlato dei misteri dell’Io

Nel nono capitolo del vangelo di Giovanni, si pone al centro della discussione l’altra affermazione degli scribi: «Noi siamo discepoli di Mosè». Alla fisicità ereditata da Abramo viene aggiunta la Legge mosaica. «Noi siamo discepoli di Mosè» vuol dire: la nostra identità, la nostra realtà interiore, sono i Comandamenti di Mosè, la Torah, la Legge ebraica. L’osservanza di questa Legge ci fa essere ciò che siamo. Sentiamo la nostra dignità di uomini grazie al fatto di avere in comune l’osservanza della Legge di Mosè.

A questa affermazione il Cristo replica: «Mosè ha scritto circa l’Io Sono» – la traduzione corrente dice: «Mosè ha scritto di me» (Gv. 5,46). Molti teologi trovano di non facile comprensione questa frase del vangelo. Essi si chiedono: quando mai Mosè ha scritto del Cristo? Abbiamo già visto in che cosa consiste l’essenza dei Dieci Comandamenti: sono le leggi evolutive che consentono all’uomo di diventare un Io cosciente e libero. In questo senso, allora, Mosè ha sempre parlato dell’evoluzione guidata dall’Essere che ha in sé tutte le forze dell’Io. L’ispiratore di Mosè non poteva essere altri che l’Essere dell’Io, lo Spirito del Sole.

Nel decimo capitolo abbiamo l’estrema conseguenza di questa grandiosa controversia. Prima affermazione: «Noi siamo figli di Abramo»; prima risposta: «Prima che Abramo fosse, c’era l’Io Sono». Seconda affermazione: «Noi siamo discepoli di Mosè»; seconda risposta: «Mosè ha parlato dell’Io Sono». L’estrema conseguenza dell’adempimento della Legge mediante l’evoluzione dell’Io viene espressa nella poderosa affermazione del Cristo nel decimo capitolo (Gv. 10,34): «Voi siete dei» (θεοι εστε = theòi esté). Anche qui il Cristo cita il Vecchio Testamento! Con queste parole Egli vuol dire: ogni uomo è chiamato a diventare sempre più divino, divinamente creatore. Nell’attivazione sempre più intuitiva e individuale del proprio pensiero, l’uomo si vive come un essere spirituale in un mondo spirituale, prende parte sempre più attiva alla creatività divina. E subito dopo, nell’undicesimo capitolo, il Cristo rende realtà vivente, col risveglio di Lazzaro, la profezia di tutte le profezie, che dice: «Voi siete dei». Il risveglio di Lazzaro è il fenomeno originario della deificazione dell’uomo, della sua cristificazione – o diciamo pure della sua umanizzazione, che ci capiamo meglio!

In questo modo si compie la pienezza dei tempi, l’adempimento della Legge nell’evento cristico: nel superamento di ogni impulso particolare ed esclusivo, di ogni identificazione con un gruppo. L’Essere che conosce solo amore rende possibile da un lato l’universale umano e dall’altro l’individualizzazione di ognuno portata fino in fondo.

Lapidare a morte l’adultera?

All’inizio dell’ottavo capitolo di questo sublime vangelo, come preludio alla grandiosa progressione or ora descritta, viene riferito il noto episodio dell’adultera. Una donna è colta in flagrante adulterio. Questo è il fatto storico esterno. E l’intervento del Cristo mostra anche qui il senso dell’evoluzione in quanto valido per tutti gli uomini e per tutti i tempi.

Gli scribi e i farisei pongono la donna di fronte al Cristo con la domanda: «Secondo la legge di Mosè una donna sorpresa in adulterio deve venir lapidata a morte. Tu che cosa dici?». Il Cristo si china e scrive per terra. E quando viene nuovamente esortato a prendere posizione risponde: «Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra».

La Legge di Mosè ci pone di fronte a due possibilità: o l’ingiunzione di lapidare una donna colta in adulterio è intesa in senso fisico, oppure in senso «figurato». Se intesa nel senso che una tale donna va messa a morte fisicamente, ciò vuol dire che una donna ai tempi di Mosè non valeva nulla in quanto individuo singolo, aveva valore solo come portatrice del puro sangue di Abramo in vista della nascita del Messia. Nel momento in cui rende impuro il suo sangue – era questo che si intendeva con adulterio – il suo corpo fisico deve venir distrutto, così da tener lontana dal popolo ebraico ogni impurità di sangue.

Stando a questa prima interpretazione risulta evidente che lo stadio evolutivo in cui l’individuo umano singolo non ha ancora nessun valore in sé, ma è puro strumento per la missione del suo popolo, non può esser considerato come definitivo: rappresenta una tappa di transizione, il cui senso si realizza quando viene superata, quando si comincia cioè a considerare l’individuo singolo come fine ultimo dell’evoluzione, e non come puro strumento a servizio di un gruppo di persone.

Ma c’è anche un altro modo di interpretare la Legge di Mosè che chiede di lapidare un’adultera. Se la Legge mosaica ha lo scopo di favorire l’evoluzione di ogni uomo, non si capisce che cosa si ottenga lapidando a morte chi commette adulterio. Una cosa simile non farebbe che impedire l’ulteriore evoluzione della persona in questione, che invece ne avrebbe un gran bisogno.

Per questo il Cristo dice: «Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra». Al che tutti si allontanano, a partire dai più anziani, che hanno avuto più tempo per «peccare». Quando rimane solo con la donna, il Cristo le chiede se c’è qualcuno che l’ha condannata. Nessuno, risponde lei. E Lui: neppure io ti condanno. Continua a crescere interiormente e non peccherai più.

Vista la cosa così, Mosè intenderebbe dire: nel popolo ebraico, a differenza degli altri popoli, si deve formare l’impulso dell’Io, l’impulso della liberazione dell’uomo singolo da ogni costrizione esterna, dai determinismi di natura e dalla legge del gruppo. Mosè dice all’ebreo: devi diventare sempre più cosciente del fatto che l’evoluzione umana tende all’Io in ogni uomo. Le leggi di natura per te devono servire solo da fondamento per ciò che dovrai edificarvi sopra: l’esperienza dell’Io nello spirito della libertà. Se comprenderai correttamente il senso di questa legge, capirai che una persona completamente preda degli istinti di natura, come quello sessuale, non è ancora un vero uomo. La Legge di Mosè ti aiuta a comprendere che chi non aggiunge alle forze della natura nessuna forza libera dell’Io è spiritualmente come morto. Capirai nel modo giusto la legge evolutiva che Mosè ti ha dato, ti farai un’idea giusta dell’uomo, se nel tuo pensiero considererai come «morte» all’Io le persone puramente istintive.

E dove trovi nella natura l’immagine esemplare di ciò che è morto? Nel regno minerale, nelle pietre. Se coltivi allora i pensieri giusti sulla legge dell’evoluzione che ti è stata rivelata tramite Mosè, di un uomo puramente istintuale penserai che è morto come una pietra. Nel tuo pensiero lo dovrai ritenere morto come la pietra, poiché una persona di questo genere è come ferma allo stadio minerale. È un puro essere di natura come la pietra, in lui non vi è ancora nulla di specificamente umano.

Gli stessi scribi e i farisei non sono in grado di aderire in perfetta buona fede a questa seconda interpretazione. Lo si deduce dal fatto che se da un lato hanno sperato in una legittimazione della lapidazione da parte del Cristo, dall’altro hanno pensato che Egli non avrebbe potuto approvare una brutale lapidazione. In tal modo evidenziano la loro profonda insicurezza nell’interpretare la Legge.

L’anima umana da sempre adultera

L’episodio storico dell’adultera ci presenta al contempo l’immagine di un fenomeno originario dell’evoluzione di ogni uomo. L’adulterio che ha luogo nel karma di questa donna è emblematico del cammino percorso da ognuno.

Ai primordi del divenire l’anima umana era unita al suo primo «sposo», lo spirito. Questo primo matrimonio, questa unione iniziale con lo spirito cosmico, dovette avere un termine. Per realizzare l’obiettivo dell’evoluzione, l’anima umana ha dovuto separarsi dal mondo spirituale. Questa «infedeltà», come più volte ripetuto, non è qualcosa di male in senso morale, ma una necessità evolutiva. L’anima umana ha dovuto lasciarsi alle spalle l’unione iniziale con il mondo dello spirito per unirsi con il secondo «sposo» – con l’elemento corporeo, con il mondo della materia – con cui creare un legame in vista dell’individualizzazione, della nascita dell’Io singolo in ogni uomo. Tanto è vero che l’anima degli uomini d’oggi vive solo ciò che le trasmette il corpo fisico.

Il fatto che questo «adulterio» vada visto nel suo significato positivo si esprime nell’atteggiamento del Cristo che non condanna l’adultera, cioè l’anima umana. Egli scrive sulla Terra l’evento dell’adulterio, inscrive nel corpo terrestre le necessità dell’evoluzione, poiché la Terra è il luogo dove si compiono tutti i passi degli uomini. È con la sua responsabilità terrena che l’uomo deve cominciare a fare i conti, senza aspettarsi più una guida celeste che gli dica dall’esterno quello che deve fare e pensare.

L’anima umana si è unita al corpo materiale perdendo di vista lo spirito, e alla svolta dei tempi l’Essere d’Amore torna ad unirsi al corpo terreno per accompagnare l’uomo nel suo cammino di riascesa verso lo spirito.

L’esortazione a continuare ad evolversi e a non peccare più rivolta all’anima umana significa: porrai fine alla separazione dallo spirito – all’adulterio, a quel «peccato» che fu reso necessario per l’evoluzione umana –, non tornando indietro allo stadio iniziale, ma procedendo in avanti (πορευου, porèu, che di solito viene tradotto con l’insignificante «va’!»).

L’Io umano può affrontare ogni evento come occasione di crescita, come palestra della libertà. Il Cristo dice all’anima umana: tu vuoi ricongiungerti allo spirito – ma questa volta lo vuoi fare liberamente. Ed è questo il significato della parola religione: è l’uomo che con le proprie forze ritorna al divino, ritrovandolo dentro di sé e nel mondo[22].

Cristianesimo, religione della Terra

L’essenza del fenomeno cristiano consiste nella decisione dell’Essere Solare di ritornare sulla Terra, per far l’esperienza della morte umana e rendere così possibile la «redenzione» dell’uomo.

Il peccato originale, l’adulterio cosmico che l’anima umana dovette compiere precipitando nell’elemento terreno della separazione – nella fisicità materiale –, l’aveva resa fin troppo dipendente dal corpo. L’uomo si sentiva sempre più impotente di fronte ai condizionamenti della natura e alle sue leggi ineluttabili.

L’evento del Golgota, la morte e la resurrezione del Cristo, mette nuove forze a disposizione di ogni uomo. Grazie all’opera del Cristo l’anima umana ritrova il suo anelito verso lo spirito. Egli scrive l’adulterio degli uomini nel corpo della Terra perché l’uomo può essere redento solo vivendo sulla Terra. Se l’abbandonasse, commetterebbe un secondo adulterio: dopo aver tradito lo spirito, tradirebbe anche la Terra, sua madre. Lascerebbe il luogo a lui assegnato per l’evoluzione futura.

Il Cristo che scrive sulla Terra le azioni degli uomini intende dire a ognuno di noi: tu continuerai a far ritorno sulla Terra finché non l’avrai redenta tutta. Il mondo si è indurito fino alla consistenza delle pietre per amor tuo, per permettere a te di diventare uomo. È per amor tuo che hanno avuto origine il regno minerale e gli altri regni della natura. Il tuo legame con il mondo delle pietre non ha lo scopo di «lapidarti a morte» ma di farti vivere da uomo. Le pietre però non vogliono neanche essere abbandonate, lasciate indietro da te, in modo ingrato; vogliono risorgere dentro di te. Nel corso dell’evoluzione futura tu le trasformerai nella realtà del tuo spirito.

Gesù e Cristo: aspettativa umana e risposta divina

Il nome «Gesù Cristo» contiene due realtà: «Gesù» è l’uomo quale portatore del Cristo; «Cristo» è il Verbo della sapienza cosmica, l’Essere Solare pieno di amore che si unisce all’uomo Gesù per agire in lui e attraverso di lui, compenetrandolo di sé durante i tre anni della sua incarnazione per poter fare come Essere divino l’esperienza della morte umana.

In Gesù di Nazareth, nella sua nostalgia di redenzione, si riassumono, come già accennavamo, tutte le esperienze religiose dell’umanità. Egli è la religione vivente del genere umano. È un’individualità in cui l’essenza dell’umano viene vissuta in modo così perfetto che possiamo riferirci a lui come all’essere umano per antonomasia.

Ciò che avviene nel trentesimo anno di vita di questo Gesù è qualcosa di cui nessuna religione precristiana avrebbe potuto concretamente parlare, perché quel fatto non si era ancora verificato. Quello che avevano predetto gli iniziati di tutte le religioni – che lo Spirito del Sole sarebbe tornato sulla Terra allo scopo di ritrasformare gradualmente la Terra in un Sole – è divenuto realtà nell’evento del Golgota. Ma in un modo che nessuno si aspettava, e che perciò all’inizio quasi nessuno ha compreso.

Quel che si è verificato non è stata la fondazione di una nuova religione. Lo Spirito unitario del sistema solare è venuto a farsi uomo: Colui che racchiude in sé tutte le forze dell’amore cosmico è venuto a riversarle sulla Terra. Proprio per questo l’evento cristico è universalmente umano: ha a che fare direttamente con tutti gli uomini, e solo il singolo uomo, non una qualche realtà di gruppo o di popolo, può accoglierlo in sé. In Gesù di Nazareth si concretizza la coscienza morale e religiosa dell’uomo in quanto uomo, di ognuno che divenga consapevole del suo bisogno di redenzione.

Nel corso degli ultimi duemila anni il cristianesimo ha perso sempre più di vista la dimensione cosmica dell’evento cristico. Il modo di considerarlo si è andato via via limitando alla sua dimensione umana. Nei primi secoli dopo Cristo c’erano ancora le ultime tracce dell’antica gnosi, e solo grazie a questa tradizione sapienziale alcuni sono riusciti a intuire la natura cosmica dell’evento del Golgota. Ma a partire dal quarto secolo è completamente scomparsa anche quest’ultima traccia dell’antica saggezza. Nei secoli successivi all’era di Costantino, nell’umanità non c’era quasi più nessuna possibilità di comprendere la portata universale dell’incarnazione del Cristo. L’interpretazione di questo mistero si è fatta sempre più «umana», fino all’estrema conseguenza di poter vedere solo «il semplice uomo di Nazareth».

Il cristianesimo come «fatto mistico»

Il fenomeno religioso prima di Cristo – ogni religione nel senso proprio della parola – consisteva nello sforzo dell’uomo di coltivare un rapporto con la Divinità. Le pratiche religiose – la preghiera, il culto o altro – erano azioni umane. Anche la teologia è un prodotto dell’uomo: è il suo patrimonio di sapienza relativo alla Divinità, anche se attribuisce la propria origine a una rivelazione divina.

Il fenomeno cristiano non è invece in primo luogo un’espressione della religiosità umana, bensì – come ama esprimersi Rudolf Steiner – una «faccenda divina». Per tutto il tempo prima di Cristo gli Esseri spirituali superiori all’uomo, dagli Angeli fin su ai Serafini, si sono trovati di fronte a un enigma per loro insolubile. Quella cosa che gli uomini da sempre chiamano «morte» era per loro del tutto incomprensibile, eppure giungeva sempre più intenso alla loro coscienza il lamento degli uomini per il dolore e l’angoscia di questo evento sconcertante.

Allora nel consiglio delle Gerarchie divine fu presa un bel giorno la decisione di inviare il Figlio di Dio, il Genio del Sole in loro amorevole rappresentanza sulla Terra, allo scopo di fare l’esperienza di ciò che gli uomini chiamano morte. Insieme a loro, e per amor loro, l’Essere pieno di amore deliberò di farsi uomo per poter vivere ogni aspetto della morte, anche quello quotidiano. L’uomo, costretto com’è nei limiti dello spazio e del tempo, muore ogni volta che nelle sue giornate deve fare una scelta, rinunciando, così, a un frammento del proprio essere… A favore di quel che decide deve infatti sempre lasciare indietro qualcos’altro che avrebbe voluto far suo – una persona cara, un’altra situazione favorevole, un progetto. A questo morire quotidiano nell’anima, si aggiunge poi la morte nel corpo. Ogni giorno che passa l’uomo invecchia e sente sempre più la pesantezza del suo corpo, e ogni malattia è un frammento di morte. E poi un bel giorno muore del tutto...

Ecco quindi che tutti gli Angeli trattennero il fiato quando il sangue prese a scorrere sul Golgota, quando lo Spirito del Sole abbandonò alla sua morte il corpo di Gesù di Nazareth. C’era in tutti i cieli un’indicibile aspettativa: che cosa avrà da dire LUI sulla morte umana? Anche Lui se ne lamenterà, definendola una minaccia all’esistenza, proprio come fanno gli uomini quando pensano che «morire» significhi finire di essere?

E come possiamo immaginare noi uomini il giubilo incontenibile provato in Cielo quando la domenica di Pasqua il Cristo annunciò a tutti gli Esseri divini che la morte non esiste! Gli uomini hanno paura di qualcosa di inesistente! – proclamò il Cristo. Quel che essi chiamano «morte» è in realtà solo la loro paura di terminare di esistere come Esseri spirituali, quali essi sono… Il peccato originale è la caduta della coscienza umana nell’illusione del dissolvimento di sé. È la coscienza dell’uomo che deve essere redenta. La morte esiste solo nella coscienza offuscata degli uomini, è un’illusione, ma questa illusione fa tanto male al cuore dell’uomo.

Il modo concreto in cui l’Essere Solare poté fare l’esperienza della morte umana rappresenta uno dei misteri più profondi che ci siano. La moderna scienza dello spirito di Rudolf Steiner contribuisce non poco al suo svelamento: essa, anche in questo caso, indica un Essere di natura animica che ha reso possibile l’unione fra un Essere puramente spirituale – il Cristo – e l’elemento corporeo nel quale si manifesta la morte.

Rudolf Steiner narra come già tre volte prima dell’evento del Golgota si fosse verificata una comunione fra l’Essere del Sole e l’umanità, grazie alla mediazione della più pura sostanza animica umana, di quell’Anima gemella di Adamo che abbiamo già incontrato, rimasta innocente in Paradiso, congiunta all’albero della vita. Era l’anima umana non decaduta, la futura anima del Gesù del vangelo di Luca: essa agiva con la vastità di coscienza di un Arcangelo, e aveva la facoltà di provare un’infinita compassione per l’umanità sofferente.

Già tre volte l’Essere Solare aveva potuto abitare in questo Essere d’Anima per intervenire nel cammino umano, anche se non ancora abitando direttamente in un corpo, come sarebbe avvenuto poi nell’evento di Palestina, che si può considerare come il quarto sacrificio del Cristo. La prima volta furono «redenti», cioè resi strumenti adatti all’evoluzione dell’uomo, gli organi di senso; la seconda volta gli organi vitali e la terza le forze dell’anima. La quarta volta, alla svolta dei tempi, dovettero venir armonizzate le forze dell’Io.

Grazie alla mediazione di quell’Anima Candida, sorella cosmica dell’anima umana immersa nella vicenda terrena, l’Essere ricolmo di amore ha potuto provare di volta in volta un’infinita compassione per le sorti del genere umano. E nel suo quarto sacrificio poté vivere in sé anche la paura che ogni uomo prova di fronte alla morte.

L’ascensione al cielo e la triplice discesa all’inferno

L’uomo vede la morte come termine del suo esistere nella misura in cui non vive più ciò che in lui è eterno e immortale. Se però fa l’esperienza del suo nucleo imperituro, quello che non conosce la morte, se si sforza di sviluppare in sé un pensare e un volere indipendenti dal corpo, allora la morte non gli può nuocere. Ma questa «immortalità», l’abbiamo già accennato, non può essere qualcosa di automatico, può essere solo frutto di un’ascesa individuale e libera. Sta quindi a ognuno darsi da fare per conquistare l’immortalità di quello spirito che lui stesso è.

La dimensione cosmica dell’evento di duemila anni fa si esprime nella discesa agli Inferi e nell’ascensione al Cielo da parte del Cristo. La coscienza del Cristo è il massimo livello di «Cielo» del mondo in cui viviamo. Il Cristo stesso, il regno del suo amore, è il reale «Paradiso», un altro non c’è mai stato. Nel momento in cui fa della Terra il proprio corpo, Egli dice ad ogni uomo: Io sono con te fino alla fine dei tempi. Il Cristo resta unito alla Terra per tutta la seconda metà dell’evoluzione, solo sulla Terra lo si può incontrare. Far proprio il suo spirito pieno di amore vuol dire vivere in Paradiso vivendo sulla Terra.

La cosiddetta «ascensione» del Cristo al cielo non va allora intesa come un lasciare la Terra, al contrario: il Cristo fonda il cielo sulla Terra, diventa egli stesso il Cielo degli uomini che camminano sulla Terra. La sua ascensione al cielo consiste nell’aver fatto della Terra il Cielo di tutti gli uomini.

E per diventare Lui stesso Cielo, il Cristo dovette scendere in un triplice inferno, in una triplice esperienza di morte.

Il primo inferno era l’oscurità nella coscienza delle Gerarchie celesti rispetto alla morte umana. Questo buio è stato trasformato in luce dal Cristo, Egli ha mutato le tenebre della morte nella luce della resurrezione. D’ora in poi gli Esseri delle Gerarchie celesti sanno qual è il loro compito nell’accompagnare gli esseri umani verso la morte. E sanno che l’uomo ha una missione nel divenire cosmico che nessun Angelo sarebbe capace di assolvere: quella di vivere da spirito incarnato sulla Terra e di vincere la morte.

La seconda discesa del Cristo all’inferno è stato il suo recarsi nel regno dei morti che – come diceva Achille ad Ulisse – senza la sua luce vivevano in un vero e proprio oscuramento della coscienza, in un’esistenza d’ombra. Con la sua morte il Cristo penetra nel regno dei morti per illuminare la coscienza di tutti i defunti. Grazie a Lui la coscienza umana dell’Io può restare accesa anche dopo la morte.

E la terza discesa agli inferi – che diventa una vera ascensione al cielo – è l’ingresso del Cristo nelle forze della Terra e nei regni della natura.

La triplice discesa del Cristo agli Inferi quale ascensione al cielo mostra allora una dimensione spirituale, una animica e una fisica: è un evento nel mondo delle Gerarchie spirituali, nelle anime degli uomini e nelle profondità della Terra. In questo senso l’incarnazione, la morte e la resurrezione del Cristo rappresentano un evento cosmico: celeste, umano e ctonico ad un tempo.

Il mistero del Golgota
come fenomeno ecologico originario

L’evento di Palestina può essere considerato il fenomeno ecologico originario. Nell’evento cristico si manifesta il modo esemplare in cui l’Essere d’Amore tratta la Terra: in esso troviamo la rappresentazione somma di come l’uomo, imitando il Cristo, dovrebbe entrare in rapporto con sua Madre, e con tutte le creature a cui lei dà vita.

Un primo aspetto di questa nuova coscienza ecologica è rappresentata dal modo di morire del Cristo. Il fluire del sangue dalle ferite del Redentore verso la Terra viene accompagnato da un fenomeno invisibile che Rudolf Steiner chiama «eterizzazione del sangue». Quello di Gesù di Nazareth è un sangue reso purissimo dalle forze cosmiche di amore del Cristo di cui è intriso. Penetrando nella Terra, le conferisce una nuova aura spirituale. Nelle forze della Terra vengono così create le condizioni per cui tutto l’egoismo che ha il proprio fondamento fisico nel sangue umano nel corso dell’evoluzione possa venir trasformato in forze di amore.

Questa trasformazione spirituale della Terra alla morte del Cristo Steiner la descrive così: se un abitante di Marte o di Venere avesse potuto seguire la Terra nei millenni prima della venuta del Cristo, e poi l’avesse osservata mentre Egli moriva sulla croce, avrebbe visto un’improvvisa trasformazione nell’aura della Terra. La Terra cominciò in quel momento a risplendere di nuove luci, di nuovi colori, manifestando così la presenza nella propria atmosfera spirituale di tutte le forze di amore che il Cristo è venuto a portare.

Nel corso della seconda metà dell’evoluzione ogni essere umano ritorna a vivere in questa corona luminosa della Terra. Più l’uomo si sforza di far suo l’amore del Cristo, più partecipa alla stessa forza vittoriosa sull’egoismo che agisce nel sangue, una forza che può vincere anche la morte.

Un altro aspetto di questo fenomeno ecologico originario è l’entrare nella Terra del corpo di Gesù tramite la sepoltura. La polvere – ciò che rimaneva di quella corporeità completamente consumata nel sacrificio di sé – penetrò nella Terra attraverso una fenditura che fu aperta dal terremoto. La Terra sussultò di gioia alla morte di Colui che le portava il pegno della sua redenzione, aprì la sua bocca in questo fremito di gratitudine e ricevette la comunione del corpo del Cristo, dopo essere stata imbevuta del suo sangue. E dal sepolcro vuoto è asceso il Corpo di Resurrezione, un corpo puramente spirituale. Tutte le forze formanti il corpo fisico dell’uomo, sintesi armonica delle forze che plasmano le pietre, le piante e gli animali, hanno la loro origine nel Corpo risorto del Cristo. In queste forze si cela il secondo grande compito ecologico nell’evoluzione dell’uomo.

Il primo è quello di trasformare tutto l’egoismo in amore, il secondo è il compito del pensiero: quello di redimere il creato dalle forze di gravità e dalle forme fisse di morte. Ciò avviene quando l’uomo conferisce ad ogni cosa, conoscendola e amandola, un «corpo risorto», cioè quel corpo sovrasensibile originario che è l’idea primigenia di ogni cosa, la sua realtà imperitura e spirituale. Così la Terra verrà trasformata dall’uomo in un corpo d’amore grazie al superamento dell’egoismo, e in un organismo di pensieri divini grazie alla resurrezione della carne nello spirito pensante e pieno di gratitudine di ogni uomo.

Ordine naturale e ordine morale s’incontrano

L’evento del Golgota è il fenomeno ecologico archetipico proprio perché ristabilisce l’armonia tra ordine naturale e ordine morale.[23] Gli uomini si sono abituati a vivere questi due ambiti come l’uno separato dall’altro. Da una parte c’è l’ordine naturale, con le sue leggi e le sue forze; dall’altra vive l’interiorità dell’uomo coi suoi pensieri, i suoi sentimenti e i suoi ideali morali – come un mondo che non ha nulla a che fare col primo. Gli ideali dell’uomo non possono né nuocere né giovare alla natura, non possono agire come un terremoto o un temporale.

Anche la separazione fra ordine naturale e ordine morale fa parte della «caduta» dell’uomo. È stato necessario far sì che ciò che l’uomo nutre dentro di sé a livello morale non abbia ripercussioni dirette sulla natura. Solo così si è resa possibile la libertà umana: l’uomo non potrebbe sentirsi libero se ogni suo pensiero, ogni suo sentimento o impulso volitivo avessero conseguenze immediate sul mondo esterno. Si sente libero proprio grazie al fatto che l’ordine (o il disordine) morale che porta in sé non incide direttamente sulla realtà fisica.

Questa «separazione» tra ordine naturale e ordine morale non è però irreversibile, è anch’essa sorta, come l’egoismo, per venir di nuovo superata. Una delle differenze fondamentali fra l’agire divino e quello umano – all’attuale livello di evoluzione – sta nel fatto che l’operare divino ha un effetto diretto e immediato sulla natura, è al contempo una creazione naturale. I pensieri degli Esseri divini sono simultaneamente azioni nei regni della natura. Nel caso dell’uomo, invece, la moralità resta dapprima una faccenda dell’anima, puramente interiore. È vero che l’uomo agisce nel mondo esterno in base ai suoi pensieri e ai suoi ideali, ma l’effetto immediato che questi hanno sul suo corpo e sul mondo circostante è quanto mai limitato. Solo a distanza di tempo le conseguenze effettive fanno la loro comparsa anche in ambito fisico.

Questo «differimento» nel tempo rende difficile per l’uomo rintracciare le cause vere di ciò che avviene tramite lui nel mondo fisico. Dal momento che oggi siamo in grado di capire solo la successione immediata di causa ed effetto, tipica dei fenomeni del mondo materiale, ci vien da pensare che ciò che avviene dentro di noi non provochi alcun effetto sul mondo della natura.

In tal modo si è persa anche – e ciò non può che apparire sorprendente a un cristiano di stampo tradizionale – la coscienza del fatto che ogni uomo ritorna più volte sulla Terra. La reincarnazione è il modo tutto umano di trasformare l’ordine morale in ordine naturale. Ciò che di morale l’uomo crea dentro di sé in una vita, viene trasformato nella vita successiva nelle forze che strutturano la sua stessa corporeità e l’ambiente naturale, con tutti gli eventi che ne fanno parte.

Grazie a questo dilazionamento nel tempo difficilmente intuibile, l’uomo ha una sensazione di libertà in campo morale. Può dire a se stesso: quello che avviene dentro di me sono solo affari miei. Questa «libertà» è però solo una specie di ignoranza circa gli effetti sulla natura di ciò che è morale. E perciò l’agire arbitrario è solo la prima fase della libertà, quella negativa, che va superata.

La riconquista della coscienza della reincarnazione – della diretta dipendenza, da una vita all’altra, dell’ordine naturale da quello morale – rappresenta un presupposto essenziale per una più profonda comprensione dell’evento del Golgota come archetipo di ogni riunificazione della sfera morale con quella naturale.

Tutta la fisicità attuale – i corpi umani e i regni di natura – sono la manifestazione esterna di ciò che gli uomini hanno pensato e compiuto a livello morale in vite precedenti. Se questa protrazione nel tempo ha regalato all’uomo la libertà, ha anche prodotto nella sua coscienza un estraniamento dalla natura. E anche questa alienazione reciproca fra uomo e natura viene superata con l’evento del Cristo e per mezzo di tutto ciò che Egli continua a compiere nell’umanità.

Una delle differenze fondamentali fra l’umano e il divino è che l’uomo vive la «separazione» fra natura e moralità come se fosse un fatto oggettivo. Per lui le leggi di natura devono ancora diventare una questione di coscienza. Il graduale conseguimento dello stadio di coscienza «divino» consiste nel divenire così creativi nel proprio spirito da agire sempre più direttamente sulla natura.

L’Essere pieno di amore vuol riunificare la sua moralità solare con tutte le creature naturali della Terra, vuol trasformare a poco a poco la Terra in un nuovo Sole. E l’uomo ne vuol seguire le orme, partecipando a questa riunificazione cosmica dell’ordine morale con quello naturale.

Non sono immagini vuote quelle che troviamo nei vangeli dove si dice che al momento della morte dell’Essere Solare il Sole si è oscurato e la Terra ha sussultato. Sole e Terra hanno preso realmente parte a quell’evento. Il fenomeno originario di ogni ordine morale, il dono di sé fatto per amore, è al contempo il fenomeno originario di ogni ordine naturale: essere espressione e strumento nelle mani dello spirito. Nel corso della propria evoluzione l’uomo dovrà comprendere sempre meglio questo mistero, per concorrere alla sua realizzazione. I millenni successivi all’evento cristico servono all’imitazione del Cristo, a realizzare di gradino in gradino la riunificazione fra realtà morale e realtà naturale, fra il Sole e la Terra, fra il Cristo e l’Uomo. L’imitazione di Cristo sta nel fare della natura la responsabilità morale dell’uomo.

L’iniziazione ai misteri come fatto storico

La morte e la resurrezione del Cristo costituiscono un fatto storico che assomma in sé e porta a compimento anche le esperienze iniziatiche degli antichi misteri. Comune a tutti i riti d’iniziazione nelle varie religioni era l’anticipazione della morte: l’esperienza del «morire» nel mondo della parvenza materiale per «rivivere» nella realtà dello spirito. Tramite la morte e la resurrezione del Cristo, «l’iniziazione» dell’uomo si svolge come fatto storico, sul palcoscenico della storia umana, viene cioè resa «pubblica» e quindi accessibile a tutti. Davanti agli occhi del mondo si svolge ciò che nei tempi antichi poteva avvenire solo nella segretezza dei misteri – e che restava un’esperienza di pochi eletti, non potendo ancora essere vissuta nel corpo in piena coscienza.

Nel decidere di mettere a morte Gesù di Nazareth, i sacerdoti di allora adducono a pretesto il tradimento dei misteri – avvenuto soprattutto col «risveglio» di Lazzaro, che era stato appunto una vera e propria iniziazione. L’universalità del cristianesimo consiste nel rendere percorribile a tutti il cammino che fa fare all’uomo l’esperienza della realtà del mondo spirituale; nello stesso tempo «l’iniziazione» viene trasformata nel cammino interiore del tutto individuale che ogni essere umano può compiere solo in piena libertà e coscienza.

Nei tre anni della sua incarnazione il Cristo ha consacrato allo spirito l’anima umana facendole ascoltare le sue parole, rendendola testimone delle sue opere. Da allora, l’uomo che si fa «cristiano» penetra sempre più a fondo nell’essenza spirituale del mondo, ne ascolta la Parola – il Logos – e ne ripercorre le azioni. Questa «imitazione» del Cristo, di cui parla anche la tradizione, non è un passivo affidarsi a ciò che qualcun altro ha detto o compiuto, ma è un diventare sempre più se stessi penetrando nella realtà essenziale dell’umano, di cui l’Essere Solare è l’espressione suprema. E così l’abisso tra la natura umana e quella divina viene a poco a poco colmato.

La decisione dello Spirito del Sole di farsi Spirito della Terra e dell’Umanità, portando a compimento l’iniziazione degli antichi misteri, facendone un fatto storico visibile a tutto il mondo: questa è l’essenza del mistero del Golgota[24]. Il Cristo inizia a rendere «pubblica» l’antica iniziazione con il risveglio di Lazzaro, che era il discepolo più avanzato. Il Cristo stesso l’ha accompagnato nel suo cammino verso i mondi spirituali. Come sempre avveniva nelle scuole misteriche, dopo la dovuta preparazione anche Lazzaro è stato posto per tre giorni e mezzo in uno stato di catalessi, di semimorte: in questo modo non solo il suo corpo astrale (l’anima) e il suo spirito (la coscienza dell’Io) si sono distaccati dal corpo – fenomeno che avviene ogni volta che ci si addormenta –, ma si è distaccato in parte anche il suo corpo eterico, il corpo delle forze vitali, il portatore della memoria. Ogni iniziando, come Lazzaro, penetrava così nel mondo spirituale: quando poi veniva risvegliato dal Maestro, al ritorno nel corpo conservava il ricordo di quel mondo e poteva farne da testimone e da messaggero.

Con l’iniziazione pubblica di Lazzaro, il Cristo crea il passaggio dalla vecchia alla nuova iniziazione, quella che una settimana dopo avrebbe lui stesso compiuto sul Calvario, a compimento delle aspettative di tutte le scuole misteriche e di tutti gli iniziati. Attraverso la passione, la morte e la resurrezione dell’uomo – Gesù di Nazareth – fatto divino dal Dio fatto uomo – il Cristo –, sono state portate a compimento in un evento storico, in forma esemplare per tutto il genere umano, le esperienze di tutte le scuole misteriche e di tutte le religioni, tutte le vie percorse per «ricongiungere» l’uomo al mondo spirituale.

Come è stato possibile tutto questo? Lo spirito incarnato dell’uomo può pensare, e quindi capire, solo quello che prima ha percepito con i suoi organi di senso fisici. «Il Verbo si è fatto carne, è morto ed è risorto» vuol dire: l’essenza spirituale di tutte le cose (il Logos, la Parola cosmica, il Pensiero creatore) si è offerta ai sensi umani parlando e operando in Gesù di Nazareth, soffrendo, morendo e risorgendo. Il divino si è reso visibile e tangibile, e perciò anche «pensabile». Il divino che l’uomo da sempre cercava sia nelle religioni dei popoli sia nel segreto delle scuole iniziatiche, si è manifestato ai suoi occhi in un evento storico. Il divino ha risposto all’anelito umano e si è reso visibile a tutti gli uomini.

Dopo tre giorni e mezzo l’iniziato ritornava dal Cielo nel suo corpo di carne: dopo tre giorni e mezzo il Cristo fa ingresso nel suo nuovo Cielo, che è la Terra, facendo di essa il Cielo di tutti gli uomini. Da quel momento non c’è più bisogno, per l’uomo, di lasciare la Terra (come accadeva negli antichi percorsi iniziatici) per entrare nel mondo spirituale: quel mondo è qui, è negli uomini, è sulla Terra. Il Logos stesso è venuto ad abitarla, il Pensiero creatore si è reso accessibile alla mente di ogni uomo.

E il corpo fisico di Gesù? Il sepolcro rimase vuoto, dicono i vangeli, la tomba fu trovata vuota. Egli ci ha preceduto, come un fratello maggiore, per mostrarci la vittoria sulla morte, che è la vittoria sulla caducità della materia. Il suo corpo minerale, consumato come la cera di una candela dai suoi pensieri divini e dal suo amore più che umano, è tornato ad essere quella polvere cosmica – la «materia prima», direbbe Aristotele – che non è più soggetta all’incantamento della forma visibile ed effimera, perché Colui che l’abitava l’ha liberata per sempre.

Sesto capitolo

Islam e cristianesimo

La contemplazione del mistero del Cristo ci ha condotto sulla vetta più sublime di tutta l’evoluzione, che permette una visione panoramica sui grandi ideali dell’umanità. E come Pietro sul monte della Trasfigurazione, dobbiamo anche noi comprendere che respirare in cima a quella vetta è solo l’inizio della trasformazione reale del nostro essere che è necessaria per condurci fin là. Il pensiero è l’inizio dell’azione, e solo l’azione porta il pensiero al suo compimento. Pietro voleva piantare tre tende sul Tabor, sul monte della contemplazione intellettuale, e il Cristo gli fa capire che chi pianta tende poi pianta anche le radici e prima o poi smette di camminare. Ed è proprio il cristianesimo di Pietro quello che ora ci accingiamo a considerare. Quel che l’uomo intuisce inizialmente col suo pensiero diventa realtà piena solo se egli «scende dal monte», se si cala nelle valli della vita quotidiana, per trasformarla in ogni suo aspetto. Scendiamo quindi anche noi dalla contemplazione del monte del Golgota e tuffiamoci nella vita concreta dei duemila anni successivi all’evento di Palestina.

Che cosa dobbiamo aspettarci nel passaggio dalle opere del Cristo a quelle dell’uomo? Che l’uomo sia solo agli inizi della realizzazione di ciò che nel mistero del Golgota si è compiuto come ideale di ogni cammino futuro. È vero che in questi secoli di cristianesimo in molti è stato presente il profondo sentimento – chiamato «fede» – che le parole e le opere del Cristo rappresentino la «redenzione» di ogni uomo. Ma, dal momento che non si era ancora in grado di valutarne pienamente a livello conoscitivo le conseguenze esistenziali, la redenzione dell’uomo è stata intesa in un primo tempo quasi esclusivamente come una «grazia» che viene elargita dal Cristo a colui che le si apre.

A questo punto devo perciò esortare il lettore a non sottovalutare il dramma interiore vissuto da tanti uomini in questi duemila anni. Non deve aspettarsi che la religione dopo Cristo sia automaticamente più «perfetta» di quella prima di Cristo. Prima della venuta del Cristo l’umanità veniva guidata dalla grazia divina; dopo Cristo la grazia divina fa sempre più spazio – come il pedagogo che porta a compimento il suo compito – alla libertà dell’uomo. La perfezione della Bhagavad-Gita – l’abbiamo visto – fa posto, proprio grazie all’evento del Cristo, al «balbettare» degli uomini, come avviene nelle Lettere di Paolo. I primi duemila anni di cristianesimo non possono che rappresentare un nuovo inizio pieno di imperfezioni, ma un inizio che porta in sé il seme di ogni evoluzione futura.

La libertà come criterio del bene e del male

Dopo la grande svolta, l’evoluzione entra nella fase definitiva in cui la libertà rappresenta il bene morale supremo. La grazia divina, da fattore determinante qual era, si pone ora al servizio della libertà umana, creando per l’uomo tutti gli strumenti, tutte le condizioni esistenziali che sono necessarie per farne l’esperienza individuale. Si è già visto che la «pienezza dei tempi» comincia quando all’uomo non manca più nulla di ciò che è necessario per l’esercizio della libertà. La libertà presuppone sempre una scelta, e per poter scegliere bisogna che ci sia la possibilità di andare sia a destra sia a sinistra. In altre parole: alle condizioni necessarie per l’esercizio della libertà appartengono anche le controforze – il noto «tentatore» che ti spinge ad andare a sinistra anziché a destra. Ogni forza può ulteriormente rafforzarsi solo grazie alla corrispondente controforza, esattamente come in palestra si beneficia della spinta contraria degli attrezzi per rafforzare i propri muscoli. Mettere a disposizione degli esseri umani tutti gli strumenti necessari perché divengano co-creatori significa anche dar via libera alle controforze necessarie.

La svolta dell’evoluzione sta allora nel fatto che l’uomo viene posto di fronte a un bivio, anche se la coscienza umana dapprima lo intravede appena. Dove la libertà è ancora in fieri, l’evoluzione procede su un’unica via, l’uomo è condotto per mano dalla Divinità tramite la rivelazione e i comandamenti. È il tempo dell’educatore col bambino. L’uomo non sa ancora scegliere fra bene e male: tutto ha ancora un carattere di preparazione.

Giunti alla svolta però, il bivio evolutivo si evidenzia sempre più chiaramente nella coscienza del singolo uomo che comincia a esercitare la libertà. Il bene e il male vengono intensificati dal crescente radicarsi della libertà nell’esperienza del singolo uomo. La libertà stessa diviene sempre più il criterio del bene e del male: bene è tutto ciò che rende l’uomo più libero, male è tutto ciò che lo rende meno libero.

Vivere da liberi nel pensare e nell’amare è la somma del bene morale, di quel bene che rende l’uomo sempre più umano, cioè sempre più partecipe del divino. Il divino è l’archetipo della moralità umana, e la libertà dell’uomo consiste nel pensare e nell’amare sempre più divinamente.

L’uomo prima di Cristo era religioso in quanto obbediva alla Divinità; dopo Cristo può esser religioso solo diventando sempre più libero, perché la libertà dell’uomo diventa il nuovo e supremo comandamento divino.

Male morale è ogni omissione di libertà. Tutti i criteri morali stabiliti da un’autorità esterna diventano sempre più anacronistici. Nell’era della libertà si può dire che qualcosa è male per l’uomo solo fornendo la prova che per mezzo suo l’uomo diventa meno libero.

Tutta la moralità è racchiusa nell’esperienza della libertà: solo l’uomo libero è totalmente buono. La libertà interiore non è una dimensione dell’uomo accanto ad altre, ma è l’essenza di tutto ciò che è umano. Ciò che rende l’uomo meno libero lo disumanizza, ciò che lo libera lo rende maggiormente Uomo.[25]

Cristianesimo «petrino» e materialismo

Nel vangelo il Cristo chiama Pietro uno dei dodici apostoli. Pietro rappresenta l’uomo che, nei secoli immediatamente successivi alla grande svolta, si unirà sempre più profondamente alle forze minerali inorganiche della natura, fino a identificarsi con esse. A quest’uomo petrino il Cristo dice di seguirlo a ruota, mentre l’altro discepolo, quello che il Maestro amava, dovrà aspettare fino al suo ritorno (Gv 21,19-22).

Il destino di Pietro è quello dei primi duemila anni di cristianesimo, quelli che seguono direttamente l’evento cristico. Nei primi tempi dopo la svolta l’umanità non può fare a meno di calarsi ancor più a fondo nel materialismo. Questo elemento petrino ha raggiunto il culmine nella nostra epoca, all’inizio del terzo millennio, e l’esercizio della libertà sta proprio nel superamento del materialismo sia teorico sia pratico. Per poter vincere il materialismo è necessario che esso ci sia, che abbia afferrato il nostro modo di pensare e di fare. Lo dicevamo poco fa: il bene si rafforza solo misurandosi con l’ostacolo, e per far questo bisogna che l’ostacolo ci sia! Per questo il Cristo predice a Pietro che la cultura dell’occidente cosiddetto cristiano dovrà assumere inizialmente un carattere petrino.

Le parole che il Cristo dice a Pietro e al discepolo amato racchiudono anche un altro mistero. Il Cristo è venuto per risvegliare in ogni uomo le forze che conducono alla libertà individuale. Il suo operare è polarmente opposto a quello della natura: la natura agisce di necessità, escludendo la libertà; il Cristo invece aiuta l’uomo a trasformare ogni necessità in un’occasione di libertà.

In altre parole: l’Essere fatto di amore non ci impone il suo agire. Egli può solo offrirci delle occasioni e destare dei talenti: l’uomo resta libero di cogliere le occasioni e di esercitare i talenti, ma anche di non farlo. È la libera presa di posizione dell’uomo dinanzi all’operare del Cristo a decidere le sorti dell’uomo, non ciò che il Cristo «gli fa» come per grazia divina.

Il cristianesimo passato è la storia degli albori della libertà umana. Mentre questa libertà è nella sua fase iniziale, la natura continua ad essere prepotente nell’uomo. Ciò che è libero può sempre venir omesso – proprio per questo è libero. La natura invece non conosce libertà – solo così è natura.

Non poteva essere diversamente: nella prima fase del cristianesimo, l’elemento deterministico di natura ha continuato a plasmare la cultura umana in modo molto più forte di quanto non sia riuscito a fare il tenero germoglio della libertà. Ma da un punto di vista morale il valore di questo germoglio appena spuntato è infinitamente maggiore di tutto ciò che può offrire la natura.

Scienze naturali: cristiane o islamiche?

Per il rilievo che dà all’onnipotenza indiscussa di Allah, l’Islam appartiene all’era del cristianesimo petrino. Questo cristianesimo, in tutto ciò che ha prodotto finora, si distingue molto di meno dall’islamismo di quanto si pensi comunemente.

Faremmo violenza alla storia considerando l’islamismo come il semplice opposto del cristianesimo. C’è cristianesimo e cristianesimo, e la teoria resta sempre diversa dalla pratica. Nella vita reale non sono mai il cristianesimo e l’islamismo nella loro idealità a trovarsi l’uno di fronte all’altro, ma sempre uomini in carne ed ossa che si definiscono «musulmani» o «cristiani». Perciò è importante vedere che cosa vive in queste persone, non solo a quale religione aderiscono a livello di teoria.

Il primo millennio del cristianesimo è stato segnato dalla fede, il secondo dalla scienza. La fede cristiana tradizionale si aspetta tutto, o quasi tutto, dal disegno di Dio, considerato non meno vincolante e onnipotente che nel Corano. Più tardi, sempre in occidente, le scienze naturali hanno sostituito la fede nell’onnipotenza divina con la fede nell’onnipotenza della natura. In entrambi i casi il fattore decisivo per l’uomo è l’impotenza della sua libertà. È sorta nei paesi cosiddetti cristiani una duplice negazione della libertà umana: quella della religione che vuole un uomo che viva di fede anziché di pensiero, e di grazia divina anziché di libertà; e quella della scienza che conosce solo determinismi di natura e considera la libertà come un’illusione. E proprio questa duplice mortificazione dell’uomo si confà molto di più allo spirito del Corano che a quello dei Vangeli cristiani.

I trionfi della scienza e della tecnica hanno prodotto nell’uomo moderno una specie di ebbrezza interiore che lo ha quasi narcotizzato. D’altro canto, l’occidente scientifico e materialista ha fatto sempre più ricorso alle antiche religioni dell’oriente, alla spiritualità orientale. Questa però, come abbiamo visto, è per natura in fuga dal mondo. Invece di servire al superamento del materialismo lo sancisce, facendo vivere all’uomo due vite parallele, quella del «materialista» da un lato e quella dello «spiritualista» dall’altro – e questo «parallelismo esistenziale» spacca la vita lungo due binari. Da una parte viaggia una spiritualità che non vuol cambiare nulla nella vita reale, e dall’altra procede inesorabile il duro mondo della concorrenza e delle brame senza limiti. Di conseguenza, lo spirito umano diventa sempre più impotente nei confronti del mondo materiale, lo vive come estraneo e schiacciante, e dentro di sé s’infiacchisce sempre di più. Se questo vogliamo chiamarlo cristianesimo è un cristianesimo molto più simile all’Islam che al cristianesimo vero.

Le scienze naturali occidentali sono un prodotto della cultura «cristiana», si dice. Ma sappiamo bene che la scienza moderna in realtà affonda le sue radici nell’arabismo. È sorta ignorando l’impulso cristiano: ha sempre considerato un’illusione la libertà umana e sempre più ha considerato la materia quale unica realtà causante. Per la scienza non è l’anima – se si può ancora parlare di anima –, e tantomeno lo spirito, la causa di ciò che avviene nel corpo, bensì il contrario.

Il carattere arabo-islamico delle scienze naturali moderne viene confermato da Rudolf Steiner nelle sue indagini circa la reincarnazione di singole individualità. Le stesse individualità, egli afferma, che avevano dedicato tutte le loro energie, il loro entusiasmo alla diffusione dell’Islam negli ultimi secoli del primo millennio ritornano, secoli dopo, per fondare le scienze naturali materialistiche moderne. Il punto focale della loro tensione interiore non è cambiato per niente: prima erano al servizio di Allah onnipotente e adesso è diventata per loro onnipotente la natura. Entrambe le visioni hanno in comune di disattendere la libertà dell’uomo.

È estremamente importante sapere che gli scienziati di spicco nell’occidente cristiano di questi ultimi secoli erano stati i condottieri dell’espansione dell’Islam nella loro vita precedente. Stando a Rudolf Steiner, si tratta delle medesime individualità! Quel cristianesimo che non sono state in grado di sconfiggere allora con le guerre di conquista islamica, lo conquistano oggi dall’interno, svuotandolo in modo quasi inosservato per mezzo della moderna scienza di stampo materialistico. Vista in questa prospettiva, la storia del cristianesimo e dell’islamismo appare completamente diversa da come ce la raccontiamo di solito!

Una nuova religione dopo Cristo?

L’Islam è la sola grande religione sorta dopo Cristo. Da quanto detto sinora, è chiaro che dove l’essenza del cristianesimo venga compresa correttamente se ne debba anche evidenziare il carattere definitivo, cioè il suo assoluto universalismo – rappresentato dall’anticipazione da parte del Cristo di tutta l’evoluzione resa possibile a ogni uomo a partire dalla grande svolta.

La fondazione di una nuova religione dopo la venuta del Cristo può aver luogo solo disattendendo l’impulso cristico stesso, o in opposizione ad esso. A questo proposito Rudolf Steiner afferma in una conferenza del 13 aprile 1922: «Con l’evento per cui un Essere divino ha attraversato il destino umano di nascita e morte è stato dato il suo significato alla Terra: un tale evento non potrà mai essere superato. Dopo il cristianesimo – e questo è assolutamente chiaro per chi ne conosce l’essenza – non è più possibile fondare una nuova religione. Si fraintenderebbe il cristianesimo se si credesse alla possibilità di fondare una nuova religione».

Abbiamo visto che la religione prima di Cristo consisteva nella ricerca da parte dell’uomo di un ricongiungimento con la Divinità. L’evento cristico rovescia completamente il fenomeno religioso: la ricerca di un ricongiungimento cessa di avere un senso perché la Divinità viene ora incontro all’uomo, trasformando il suo cercare in un trovare. Instaurando un rapporto personale col Cristo, l’uomo porta a compimento tutta la sua ricerca religiosa, quella compiuta da lui stesso nelle varie religioni lungo il corso delle sue vite passate. Questo compimento non può essere monopolio o patrimonio di una cultura, di un popolo o di una chiesa. Rappresenta l’esperienza e l’operare della libertà accessibili ad ogni essere umano. Il vero cristianesimo nasce là dove la libertà acquisisce per l’uomo un peso morale ancor maggiore della grazia divina, perché la religione della libertà è la sola che può portare a compimento l’opera della grazia divina.

L’essenza dell’Islam: monoteismo e predestinazione

L’elemento fondamentale dell’Islam in quanto religione va visto nel suo radicale monoteismo. Nel Corano l’affermazione più importante di tutte dice: «Allah è il solo Dio e Maometto è il suo profeta». Dove Allah viene presentato come l’unico Dio, a volte viene aggiunto: «e non ha nessun figlio». Questa affermazione può essere capita solo facendo riferimento al messaggio fondamentale del cristianesimo secondo cui Dio «Padre» ha mandato nel mondo suo «Figlio».

In questa questione di principio dobbiamo distinguere nettamente due livelli. Uno si riferisce a ciò che avviene nella mente dell’uomo: qui ha luogo tutto ciò che Maometto, in quanto uomo, sapeva e pensava del cristianesimo, e anche quel che gli stessi cristiani ne hanno capito o non capito. A questo livello umano ci sono stati di certo molti fraintendimenti, da entrambe le parti, per quanto riguarda l’evento Cristo. Il cristianesimo è in fin dei conti solo agli inizi della sua azione nell’umanità, quindi anche il modo in cui spesso è stata vista la Trinità cristiana può aver rappresentato, e non solo agli occhi di Maometto, un pericolo di ricaduta nel politeismo pagano. Questo può dare una spiegazione psicologica del rigoroso ritorno al monoteismo del Vecchio Testamento da parte di Maometto.

L’altro livello è però quello degli Esseri spirituali che sono la fonte d’ispirazione del Corano. Questi Esseri avevano certo le loro intenzioni quando hanno ispirato a Maometto di scrivere: «Allah è l’unico e non ha nessun figlio». Essi sapevano esattamente che effetto avrebbe avuto, o speravano che avesse, quell’affermazione sull’umanità: quello di cancellare la coscienza del Cristo, del «Figlio di Dio». Negando l’esistenza del Figlio di Dio, la sorgente ispirativa del Corano non poteva mirare ad altro che a questo.

Si può allora dire che le potenze spirituali che hanno portato alla nascita del Corano e dell’Islam nell’umanità si sono assunte il compito di offrire all’operare del Cristo la controforza necessaria. Chi riconosce solo l’onnipotenza di Allah si contrappone all’impulso della libertà.

Da questo punto di vista il contrasto fra cristianesimo e islamismo non può essere che la proiezione terrena di una lotta gigantesca che avviene nel mondo spirituale fra Esseri cristici e anticristici. Nella proiezione sul piano fisico molte cose appaiono spesso distorte o confuse: molto di ciò che gli uomini pensano sia «cristiano» è magari più islamico che cristiano, e viceversa. Il fenomeno originario di questo confronto-scontro va perciò ricercato nel mondo spirituale. Solo da questa prospettiva si può capire la natura eroica della lotta che ha imperversato nel medioevo fra gli scolastici cristiani e gli aristotelici arabi, di cui ci occuperemo fra poco.

Maometto, il profeta dell’Islam, attribuisce le sue ispirazioni ad un Essere che identifica nell’Arcangelo Gabriele, noto sia all’ebraismo che al cristianesimo. Nel Vangelo, Gabriele è colui che annuncia l’immacolato concepimento di Gesù di Nazareth. In base alle ricerche da lui compiute nel mondo sovrasensibile, Rudolf Steiner conferma che questo Arcangelo presiede in realtà alle forze della nascita e dell’ereditarietà.

Nell’evoluzione successiva alla venuta del Cristo devono esserci però due potenze contrapposte che agiscono in queste forze della nascita e della vita. Questa «spaccatura» dovette verificarsi in tutte le gerarchie spirituali in seguito all’evento cristico stesso: per rendere possibile la libertà, dovette aver luogo una «separazione degli spiriti celesti», allo scopo di creare in ogni ambito della vita dell’uomo una forza e la corrispondente controforza. E ciò è avvenuto anche nelle schiere degli Esseri «Gabrielici»: una parte di essi ha continuato ad agire come faceva prima del Cristo, a plasmare cioè le forze della natura in modo tale che precludano la libertà dell’uomo. Li possiamo chiamare potenze gabrieliche precristiane, che dopo Cristo però agiscono in senso anticristiano. A ragione Maometto le chiama «Gabriele»: esse rappresentano Esseri divini che esplicano la propria «onnipotenza» nelle forze dell’ereditarietà.

In questa cernita degli Spiriti che ha accompagnato la grande svolta, l’altra parte delle Entità Gabrieliche si è invece alleata col Cristo. A partire dalla sua venuta, intende plasmare le forze della nascita e dell’ereditarietà in modo che l’uomo non ne sia sopraffatto, ma venga favorita la sua libertà. Questo tipo di «Gabriele» cristiano vuole che l’uomo viva le forze della natura come fa con i pesi di cui si serve per rafforzare i propri muscoli.

Trinità cristiana: nuovo politeismo?

Non è facile tener salda l’unità, l’unicità di Dio, se non si vuol d’altro canto perdere di vista il fatto che la Divinità agisce sull’evoluzione umana in tre modi profondamente diversi l’uno dall’altro. Si corre sempre il rischio di riferire il triplice modo del suo operare all’essere stesso di Dio. Ma ogni affermazione diretta sulla natura di Dio in sé e per sé non è altro che una vuota speculazione. L’uomo infatti – compreso l’iniziato – non può mai fare l’esperienza dell’essenza di Dio in quanto tale, altrimenti sarebbe lui stesso Dio! La scienza dello spirito più saggia è allora proprio quella che non fa alcuna affermazione sulla natura di Dio «in sé e per sé» e si dedica alla descrizione di come lo spirito sia all’opera nel mondo.

A un’attenta osservazione risulta che la Divinità opera nel mondo in tre modi del tutto diversi l’uno dall’altro. Il primo modo di operare lo vediamo nella natura. Questo modo di agire può essere definito «paterno», nel senso che serve da base per tutti gli altri e li deve precedere. Dio Padre agisce da onnipotente in tutto ciò che è visibilmente fisico.

Il secondo modo di agire della Divinità fa sorgere nell’uomo un tipo di esperienza interiore fatta di pensieri, di sentimenti e di volizioni, che solo in un primo tempo sono un puro rispecchiamento di ciò che avviene all’esterno. È il modo «filiale» dell’operare divino: il Figlio di Dio agisce con amore nell’anima umana, rendendola sempre più capace di iniziativa propria.

Del terzo modo di agire della Divinità, quello puramente spirituale, l’uomo fa l’esperienza quando trasforma l’atteggiamento inizialmente passivo della sua anima in un’attività sempre più libera e più individuale. È il modo in cui l’uomo diventa spirito, fa cioè l’esperienza dello «Spirito Santo».

Il rigido monoteismo dell’Islam ignora l’operare di Dio come Figlio e come Spirito Santo. Ne conseguono un fatalismo e un determinismo estremi. La differenza fra spirito e materia viene di fatto eliminata, giacché si ritiene che anche nell’interiorità umana la Divinità agisca con la stessa onnipotenza con cui governa la natura. Necessità di natura e predestinazione sono sempre andate a braccetto.

Gli scolastici cristiani e l’aristotelismo arabo

Il fatto che l’Islam rappresenti la necessaria controforza al vero spirito cristiano si è manifestato in modo esemplare nella lotta che si scatenò nel medioevo fra gli scolastici cristiani e i pensatori islamico-aristotelici – in particolare Averroè e Avicenna, i sommi rappresentanti dell’arabismo. Che cosa si cela dietro questa controversia di principio fra cristianesimo e islamismo?

Vi sono dei dipinti di quell’epoca che ritraggono Tommaso d’Aquino seduto su un trono con in mano un libro aperto, e sotto i suoi piedi «i filosofi arabi – non ai suoi piedi, ma sotto i suoi piedi! Possiamo immaginare che il libro fra le mani di Tommaso sia la sua Summa contra gentiles, in cui entra ardentemente in campo contro i commentatori arabo-islamici di Aristotele. Il contesto è inequivocabile: si tratta di una vera e propria lotta spirituale di proporzioni titaniche, condotta con le armi della mente.

È la lotta senza quartiere dei pensatori cristiani per salvaguardare l’immortalità individuale dell’uomo! Solo che noi uomini d’oggi siamo talmente occupati in tutt’altre cose, che non riusciamo a spiegarci come una questione per noi di lana caprina abbia potuto a quei tempi infiammare gli animi fino a quel segno…

E che cos’avevano sostenuto di così atroce questi pensatori arabi? Ben prima dell’epoca di Tommaso, l’autorevole Averroè aveva dato un’interpretazione di Aristotele secondo la quale il filosofo greco avrebbe sostenuto che, alla nascita, in ogni singolo uomo viene instillata una goccia di intelligenza cosmica – il νους (nus) –, un intelletto che è lo stesso in tutti. Non esiste un intelletto individuale come espressione dell’attività pensante dell’uomo singolo, diceva; è l’intelligenza universale a pensare e ad agire nell’uomo, non l’uomo stesso. E quando il singolo muore, la sua goccia d’intelligenza viene riassorbita nel mondo dov’era prima della sua nascita. Perciò riguardo all’uomo non si può affatto parlare d’immortalità individuale, non esistendo alcunché di individuale neppure durante la vita.

Questa interpretazione di Aristotele si adatta perfettamente all’onnipotenza attribuita ad Allah: è Allah e solo Allah che pensa e agisce in tutte le sue creature, compresi gli uomini. Immaginarsi di essere degli individui autonomi nel pensiero o nell’azione è pura illusione. Il compito della religione, in senso islamico ortodosso, è di aiutare l’uomo a rendersi conto di questa illusione per vincerla. L’essenza della religione è la sottomissione alla volontà indiscussa di Allah.

Ma come stanno effettivamente le cose presso Aristotele? Ha davvero negato l’immortalità individuale? Rispondere a questa domanda non è facile perché Aristotele è il primo grande filosofo per il quale il rapporto con la fisicità è talmente determinante per l’acquisizione della coscienza di sé da parte dell’uomo, da fargli pensare che l’individualità umana nasca insieme al corpo, che non esista prima della sua formazione. In un certo senso in opposizione a Platone, Aristotele cercava lo spirito all’opera nel mondo della materia, e non separato da esso.

Per Aristotele lo spirito umano individualizzato sorge solo col corpo e dentro il corpo. Anche l’immortalità dell’anima è dovuta secondo lui al ricordo del corpo abbandonato che, facendo parte della natura, non contiene nulla di individuale. Non si può quindi dire che Aristotele sostenga in modo chiaro che l’uomo conservi anche dopo la morte, senza il corpo, una coscienza individuale.

A questo punto i filosofi cristiani del medioevo si sono detti: l’interpretazione che Averroè dà di Aristotele fa a calci e pugni con lo spirito del cristianesimo. La dignità dell’uomo sta nel fatto che il Cristo nel suo infinito amore rende ogni uomo capace di viversi come un essere individuale e autonomo, responsabile delle proprie azioni.

Gli scolastici volevano assolutamente dimostrare che l’uomo è un essere individuale e libero, capace di bene e di male, e perciò immortale in quanto individualità. Ma proprio questo punto ha fatto nascere un brutto equivoco. Se si afferma che l’uomo è libero in quanto uomo, allora si dice che è libero per natura – e quindi non libero! Se nasce libero, è «per forza» libero! L’elemento cristiano che gli scolastici volevano difendere era anche per loro solo agli inizi, dato che non riuscivano ancora a vedere chiaramente la libertà come coinvolta nel processo evolutivo, nel divenire dell’uomo.

I pensatori cristiani dicevano: l’uomo è libero. Quelli islamici controbattevano: l’uomo non è libero. Entrambi possono aver ragione. Ogni uomo decide nel corso della propria storia se dare ragione agli uni o agli altri: non per dimostrazione teorica, ma attraverso ciò che diventa o non diventa in realtà. L’affermazione fondamentale a proposito della libertà umana può essere allora solo quella che dice: l’uomo può diventare sempre più libero, ma non è costretto a farlo, altrimenti non sarebbe libero.

La lotta per l’immortalità individuale

Non si tratta allora semplicemente di «dimostrare» l’immortalità individuale, quanto di realizzare sempre più il proprio Io individuale. Grazie all’esercizio quotidiano, l’Io individuale di ognuno può diventare sempre più attivo, sostanziale e capace di causare qualcosa, di mostrare forza creativa. Grazie all’esperienza diretta di sé, l’uomo potrà sentirsi autorizzato non solo in teoria, ma anche in pratica, a parlare di un Io – il proprio – che anche dopo la morte, anche senza il corpo, può continuare ad esistere quale entità autonoma, spiritualmente individuale. Nessuno può essere dopo la morte più individuale di quanto non lo sia divenuto durante la vita.

Rudolf Steiner descrive anche degli impressionanti conflitti interiori che ebbero gli scolastici. Di giorno difendevano con tutta la loro passione e con tutti gli argomenti possibili l’immortalità individuale, giacché per loro l’essenza del cristianesimo dipendeva da questa questione; nei loro sogni però, o in certi momenti di estasi, appariva loro Averroè in persona, che era già morto da tempo, e gli dimostrava il contrario!

Certi scolastici avevano ancora la facoltà di percepire Averroè a livello sovrasensibile, così com’era dopo la sua morte. Egli aveva sostenuto in vita che dopo morto l’uomo non esiste come individualità spirituale autonoma: i suoi pensieri si dissolvono di nuovo nell’intelligenza universale, come una goccia nel mare. E Averroè appariva ora agli scolastici cristiani senza un proprio nerbo individuale nel suo spirito, e ne confondeva gli animi mettendogli letteralmente sotto gli occhi la correttezza della sua interpretazione di Aristotele! L’esperienza che Averroè aveva avuto di sé, i pensieri che aveva pensato durante la sua vita erano stati una tale negazione della realtà individuale dell’Io, da non permettergli di costruire per il suo spirito niente di individuale. E perciò alla sua morte si erano davvero ridisciolti, quei pensieri, nell’intelligenza universale.

La soluzione dell’enigma per cui avevano lottato gli scolastici, senza poterne venire a capo, sta nella consapevolezza delle ripetute vite terrene, della legge fondamentale dell’evoluzione umana: grazie alla reincarnazione ogni uomo ha la possibilità reale di divenire sempre più un Io individuale autonomo. L’immortalità individuale non viene data solo per grazia, né si può costruire tutta in una vita sola: la grazia rende l’uomo capace di conquistarla nel corso di un lungo cammino. Immortali non si è, lo si diventa – e in una vita si può appena appena cominciare. Ogni uomo ha in sé dopo ogni morte tanto d’immortale quanto ha reso indipendente dal corpo durante la vita.

Possiamo chiederci: se il determinismo di natura funziona in base alla necessità, e se veramente «cristiano» è solo tutto ciò che viene fatto in libertà, perché gli Esseri divini che guidano l’umanità hanno permesso che nascesse dopo Cristo una religione che mette al centro l’elemento della necessità, visto che l’impulso della libertà riceve già controforze a sufficienza da parte della natura stessa?

A questo riguardo Rudolf Steiner descrive quanto avveniva nella sfarzosa Accademia di Gondishapur, alla fine dell’ottavo e all’inizio del nono secolo dopo Cristo. Il grande califfo Harun al Rashid si era circondato dei migliori rappresentanti della saggezza orientale e dell’aristotelismo greco. Se le cose fossero andate secondo le intenzioni di certe potenze spirituali, questo centro culturale avrebbe anticipato uno stadio evolutivo che secondo i piani degli Esseri che vogliono il bene dell’uomo si sarebbe dovuto realizzare solo duemila anni dopo, ai nostri tempi.

Si voleva una realizzazione prematura – e «prematuro» vuol sempre dire: con l’esclusione della libertà – della nostra attuale epoca che Steiner chiama «dell’anima cosciente». Nell’Accademia di Gondishapur l’uomo aveva compiuto enormi progressi nella conoscenza e nell’uso tecnico delle forze occulte della natura, tutte conquiste fondate su pratiche magiche che per fortuna anche l’uomo d’oggi in gran parte ancora ignora.

A quel punto gli Esseri spirituali buoni sono intervenuti e hanno smorzato, hanno per così dire «smussato» per mezzo dell’Islam l’impulso culturale di Gondishapur, grandioso ma ostile all’uomo, perché non governato dalle forze della coscienza libera. L’Aristotele arabo fu così islamizzato da questi Esseri buoni, e l’Islam ha reso tutto astratto. In tal modo si è parzialmente evitato uno dei più grandi pericoli dell’evoluzione umana.

Una caratteristica essenziale del monoteismo islamico è infatti proprio l’astrattezza. Esso non ragiona nei termini concreti di un’infinita varietà di Entità spirituali e di Spiriti della natura. Da esso non scaturisce – come nell’accademia aristotelizzante di Gondishapur – una conoscenza scientifico-spirituale degli Esseri spirituali e dei fenomeni della natura. L’islamismo riconduce tutto a un unico Essere divino, tanto vago quanto incombente: Dio, o Allah. Attribuisce direttamente a lui tutto ciò che avviene nel mondo, senza ulteriori distinzioni.

«Se Allah lo vuole…»

La vita è piena di contraddizioni, sia logiche sia esistenziali. Le apparenti contraddizioni logiche sono fatte per affinare la mente. C’era un tempo in cui l’uomo ancora non si accorgeva delle contraddizioni, né poteva lottare con esse, facendone una sfida al pensiero per evolversi oltre. Fa parte della sua evoluzione sulla Terra che l’uomo apprenda a vivere con la contraddizione, riconoscendola come impulso tutto positivo per la promozione della libertà.

Oltre ai paradossi logici ci sono anche contraddizioni esistenziali, contrasti di vita, e uno di questi racchiude in sé tutti gli altri: è l’apparente contrasto fra la libertà divina – o anche umana – da una parte, e il ferreo determinismo delle leggi di natura dall’altra.

Anche all’Islam è stato offerto questo paradosso esistenziale, come un’occasione di crescita che è sempre a disposizione di tutti gli uomini. Questo apparente controsenso esistenziale si manifesta a ogni piè sospinto anche nella vita del musulmano ortodosso: costui infatti crede da un lato che tutto avvenga per immutabile necessità e dall’altro sostiene che accade solo ciò che Allah di volta in volta liberamente sceglie o vuole al momento presente.

E in che cosa consiste la contraddizione? Nel fatto che il determinismo di natura e il libero arbitrio della volontà da un punto di vista logico si escludono a vicenda. Con necessità di natura s’intendono tutti i fenomeni dei regni minerale, vegetale e animale – e per il musulmano ortodosso anche per il regno umano, dato che vede Allah operare con assoluta onnipotenza anche nell’uomo. Le leggi della natura non possono venir decise liberamente al momento presente neppure dalla Divinità. In esse vige un impulso evolutivo che Dio ha impresso all’inizio della creazione, e nemmeno lui è libero di cambiare ora a piacere le leggi della natura: non è libero di non far sorgere il sole.

D’altro canto la volontà divina – la volontà di Allah – non può essere che libera, va intesa come diametralmente opposta a ogni necessità di natura. Può essere la volontà di Dio solo essendo libera – libera in ogni momento e nei confronti di ogni evento. Dio è spirito sommo proprio perché è capace di prendere in ogni momento presente delle decisioni mai prese prima, senza dover seguire, come per inerzia, le leggi ferree della natura.

Ecco allora che la libera volontà di Allah si trova in flagrante contrasto con il determinismo di natura! Nelle leggi di natura tutto è già da lungo tempo deciso, non c’è nulla di libero al presente, e per essere «libero» lo stesso Allah non può essere determinato o predestinato dalla natura da lui creata, dal momento che la natura divina del suo essere è quella di creare al presente e liberamente. Visto in questo modo, per Allah niente accade per necessità, ma tutto – anche nella natura – deriva da una volontà libera che decide sempre al presente.

La domanda che ogni musulmano dovrebbe porsi è allora questa: se esiste un essere – Allah – il cui libero arbitrio agisce in senso opposto al determinismo di natura, perché di Essere siffatto deve essercene uno solo? L’affermazione fondamentale del monoteismo islamico rigoroso dice che solo Allah è un essere spirituale dotato di volontà creatrice e libera. Ma perché? Se la misericordia di Allah viene altrettanto sottolineata, non sarebbe in accordo col suo amore paterno conferire all’uomo la più alta delle sue qualità, cioè la capacità di creare liberamente?

La contraddizione fra la libertà di Allah e il determinismo di natura è solo apparente, perché la natura rappresenta le decisioni libere che Dio ha già preso nel passato. Il fatto che il passato resti quel che è non impedisce a un Essere Creatore di creare cose sempre nuove. E non è vero che tutto è immutabile nella natura, essa è difatti in continua evoluzione, e le sue leggi di funzionamento sono immutabili solo per lo sguardo miope dell’uomo.

Se l’uomo non disponesse del libero arbitrio, come gli si potrebbe attribuire la responsabilità per le sue azioni? Sarebbe come un essere di natura, incapace di bene e di male in quanto privo di libertà. Ma se l’uomo di fatto fa l’esperienza della libertà dentro di sé – e si sente capace di bene e di male –, questo libero arbitrio non è forse il seme divino in lui, che egli può o meglio deve sviluppare ulteriormente, dato che questo sviluppo rappresenta la volontà amorevole della Divinità stessa, nonché la sua pienezza in quanto uomo?

I cristiani avrebbero la possibilità, se capissero rettamente il loro cristianesimo, di risolvere questa contraddizione esistenziale mediante il loro modo di vivere – poiché essa non può essere sciolta a livello puramente teorico o logico. È proprio la struttura trinitaria del mondo e dell’esistenza a rendere possibile la soluzione dell’enigma determinismo-libertà. Il determinismo vale per il mondo della materia, nel quale sono cristallizzate tutte le decisioni libere dello spirito prese nel passato. Lo spirito si serve di tutto il suo passato per conseguire dei fini sempre nuovi e scelti non meno liberamente. E l’anima fa da mediazione fra i due mondi. Come abbiamo già visto, nell’evento cristico si incontrano questi tre mondi: il mondo terreno-corporeo grazie a Gesù di Nazareth; quello dell’innocenza animico-paradisiaca grazie al Buddha; e quello cosmico-spirituale, che feconda il mondo del corpo e dell’anima grazie al farsi uomo dello Spirito del Sole.

Nel Paradiso dei primordi avvenivano solo «miracoli». Quello è un mondo che non conosce necessità di natura, ma soltanto «creazioni dal nulla», che avvengono unicamente perché «Dio lo vuole». Il mondo in quanto soggetto a leggi di natura pare non conoscere più la meraviglia del gesto creatore, il miracolo, ma solo le regole ferree del già creato – che si chiama, proprio per questo, «il creato». È nella natura dell’evento Cristo di riunificare questi due mondi – quello della libertà divina e quello della necessità naturale. L’evento cristico risolve il paradosso dell’esistenza umana per mezzo dell’evoluzione stessa. Attraverso l’incessante divenire dell’Io umano, la fissità della natura si trasforma a poco a poco nella creatività libera dello spirito.

Gesù di Nazareth nel Corano

Nella diciannovesima sura del Corano viene descritta in modo quanto mai bello la nascita di Gesù – non quella del Cristo, ma dell’uomo Gesù. Questa nascita avviene – e qui la versione del Corano concorda con quella del vangelo di Luca – grazie a un «concepimento immacolato». Si tratta di un vero e proprio «miracolo», di un intervento della libertà divina che avviene solo «perché Dio (o Allah) lo vuole» – liberamente! Sia il Corano che il vangelo di Luca affermano che il concepimento di un uomo presuppone l’incontro di due mondi: c’è da un lato un essere spirituale-divino – in questo caso l’Io di Gesù di Nazareth – che decide liberamente di entrare nel corpo per trascorrere una vita sulla Terra. Dall’altro lato ci sono le forze di natura – compreso il seme paterno, cosa che la Chiesa cattolica fino ad oggi fa fatica a capire! – di cui il nascituro si serve come di uno strumento per raggiungere scopi tutti suoi, scelti liberamente, che non hanno nulla a che fare coi determinismi di natura.

Rudolf Steiner commenta la diciannovesima sura del Corano come segue: la bontà divina ha donato ad ogni musulmano una vera perla spirituale, che contiene il seme per un’evoluzione futura tutta positiva. L’immacolata concezione di Gesù è una rivelazione di libertà che infonde speranza a una religione dal rigido fatalismo. Ogni musulmano che mediti devotamente su questa 19ª sura può aprirsi al mondo della libertà, in cui non avvengono altro che «miracoli», «immacolati concepimenti», «creazioni dal nulla» per niente determinati dai meccanismi della natura.

Ecco cosa dice letteralmente il Corano nella Sura diciannove intitolata Maria:

16. Ricorda Maria nel Libro, quando si allontanò dalla sua famiglia, in un luogo ad oriente.

17. Tese una cortina tra sé e gli altri. Le inviammo il Nostro Spirito, che assunse le sembianze di un uomo perfetto.

18. Disse (Maria): «Mi proteggo da te ricorrendo al Compassionevole, se sei di Lui timorato!»

19. Rispose: «Non sono altro che un messaggero del tuo Signore, per darti un figlio puro».

20. Disse: «Come potrei avere un figlio, che mai un uomo mi ha toccata e non sono certo una meretrice?»

21. Rispose: «Così sia. Il tuo Signore ha detto: ‘Ciò e facile per me!’ Faremo di lui un segno per le genti e una misericordia da parte nostra. È cosa stabilita».

22. Ed essa lo concepì e con lui si ritirò in un luogo appartato.

23. I dolori del parto la colsero presso il tronco di una palma. Disse: «Fossi morta prima di ciò e fossi già del tutto dimenticata!».

24. Fu chiamata da sotto: «Non ti affliggere, ché certo il tuo Signore ha posto un ruscello ai tuoi piedi;

25. scuoti il tronco della palma: lascerà cadere su di te datteri freschi e maturi.

26. Mangia, bevi e rinfrancati. Se poi incontrerai un uomo,

27. di’: ‘Ho fatto voto di digiuno al Compassionevole e oggi non parlerò a nessuno’.

28. Tornò dal suo popolo portando il bambino. Dissero: «O Maria, hai compiuto qualcosa di inenarrabile!

29. O Sorella di Aronne, tuo padre non era un empio né tua madre una libertina».

30. Maria indicò il bambino. Dissero: «Come potremmo parlare con un infante nella culla?»,

31. E lui (Gesù) disse: «In verità sono un servo di Allah. Mi ha dato la Scrittura e ha fatto di me un profeta.

32. Mi ha reso benedetto ovunque io sia e mi ha comandato l’orazione e l’elemosina finché avrò vita,

33. e l’amore verso colei che mi ha generato. Non mi ha fatto né violento né miserabile.

34. Pace su di me il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò e il Giorno in cui sarò resuscitato a nuova vita».

35. Questo è Gesù, figlio di Maria – questa è la parola di verità che essi (i cristiani) mettono in forse.

36. Non si addice ad Allah generare un figlio. Gloria a Lui! Quando decide una cosa dice: «Sii», ed essa è.

37. In verità, Allah è il mio e vostro Signore, servitelo! Questa è la retta via.

Nella conferenza del 16 maggio del 1916 Steiner cita questi versi del Corano, e in quella successiva del 23 maggio commenta: «E a coloro i quali, come i musulmani, hanno nella loro confessione questa terribile contraddizione della predestinazione e del ‘se Dio lo vuole’, è stata concessa nello stesso tempo la rivelazione del Gesù natanico. Se avranno una forza di evoluzione tale che gli permetta un giorno di capirla, si diranno: se riconosceremo la natura di Colui che ci è stato rivelato nel Corano, allora capiremo in che modo si armonizzano fra loro predestinazione e libertà». Steiner intende dire che ogni uomo può capire sempre meglio in quale modo la libertà creativa dello spirito, resa possibile a tutti gli uomini dal Figlio di Dio, può irrompere quando vuole nel mondo della natura.

L’islamismo e il cristianesimo tradizionale si sono osteggiati a vicenda perché fino ad oggi sono stati entrambi unilaterali nel loro modo di pensare. I cristiani dicevano: noi siamo cristiani, abbiamo il Cristo, siamo liberi. L’Islam diceva in sostanza: l’uomo non è libero, esiste solo la volontà divina che agisce in lui esattamente come agisce nella natura.

Entrambe le parti non hanno ancora ben capito il «paradosso esistenziale» della libertà, la quale non è né automaticamente presente né per necessità assente. L’uomo può generarla in sé in ogni momento creando qualcosa di nuovo, di libero, nel suo pensare e nel suo volere.

Cristianesimo tradizionale ed ebraismo: due grandi unilateralità. Cristianesimo tradizionale e Islam: altre due grandi unilateralità. Un nuovo futuro aspetta l’umanità, un futuro in cui attesa e compimento non sono più viste in contraddizione – com’è per il cristianesimo e l’ebraismo – e non lo sono più neanche necessità e libertà – come per l’islamismo e il cristianesimo.

Una sfida reciproca

C’è un’immagine che esprime bene il tipo di rapporto che c’è stato finora fra islamismo e cristianesimo: è la coppa della Luna con sopra l’ostia del Sole. L’Islam è un religione lunare, e la Luna rappresenta nella saggezza delle scuole misteriche il mondo della natura, retto dalla necessità e privo di libertà. E l’Islam ha davvero avvolto il mondo cristiano come una falce di luna: dalla Spagna attraverso l’Africa, l’Arabia e la Turchia…

L’elemento potenzialmente solare, l’Europa cristiana, si è lasciato influenzare da questa religione lunare. Nel mondo cosiddetto cristiano le scienze naturali di stampo islamico hanno dato la loro impronta alla cultura molto più di quanto non abbia fatto l’autentico elemento cristiano. Persino la teologia in questi ultimi tempi va cercando la propria giustificazione presso le scienze naturali. La cultura occidentale ha subito l’impronta delle scienze naturali, e la religione cristiana è stata sempre più relegata ai margini della vita. Islamismo e cristianesimo sono davvero come una luna bella vistosa con su un’ostia solare che finora si è presentata buia come quella parte della Luna che non si vede. Invece quell’ostia dovrebbe essere il Sole, da cui la Luna stessa riceve la luce!

La presunta forza ascendente dell’islamismo testimonia in realtà della debolezza del vero cristianesimo. Il rilievo dato al determinismo e alla predestinazione non è nulla di nuovo nei paesi cristiani: dove l’uomo omette di esercitare ciò che è libero non restano che i determinismi di natura. Ovunque il cristianesimo fallisca – ovunque il singolo uomo non coltivi la propria libertà – trionferà il fatalismo, il fanatismo, non importa quale nome gli verrà attribuito. Il cristianesimo ha finora in buona parte fallito, nel senso che ha trascurato proprio il suo elemento essenziale: la coscienza dell’Essere divino e cosmico del Cristo, che porta nel mondo del Padre – nel mondo del determinismo di natura – le forze che danno luogo alla «resurrezione della carne». La resurrezione è proprio il rovesciamento di ogni necessità grazie alla libertà, e imprime una svolta a tutta l’evoluzione, chiamando ogni uomo a vivere sempre più da spirito creatore.

Per questo motivo un musulmano può avere una fede più profonda nel Gesù di Nazareth di molti teologi «cristiani» del giorno d’oggi. Grazie al Corano egli è capace di credere all’immacolato concepimento di Gesù, ritenendolo un miracolo che avviene senza aver nulla a che fare con le leggi di natura. La maggior parte dei cosiddetti cristiani non ha più accesso a questo mistero, e perciò il cristiano odierno non può onestamente permettersi di trattare l’Islam con presunzione. Non perché si debba tornare ai vecchi tempi della semplice fede, ma perché questa fede ha conservato la realtà dell’immacolata concezione che il pensiero scientifico ha perso e ancora attende di recuperarla al livello più alto di una scienza dello spirito.

Possiamo allora dire che la convivenza odierna di islamismo e cristianesimo può essere vissuta come sfida reciproca tutta positiva, volta a far camminare oltre sia gli uni che gli altri. L’Islam è in grado di mostrare al cristianesimo i suoi fallimenti come in uno specchio: lo esorta a prendersi sul serio e a diventare realtà di vita, a non restare solo teoria.

Se al cristianesimo non è tanto la teoria della libertà a mancare, quanto la sua attuazione, e se nell’Islam mancano tutt’e due, chi ha una responsabilità maggiore? Indubbiamente chi, pur avendo la bella teoria, non si decide a metterla in pratica! Dove esiste la coscienza che la vera dignità dell’uomo consiste nella libertà individuale, lì la responsabilità morale nei confronti dell’uomo è ben maggiore di quanto non lo sia là dove i presupposti per l’apprezzamento della libertà individuale ancora non ci sono.

La convivenza quotidiana fra musulmani e cristiani potrà diventare sempre più «umana» nella misura in cui ognuno, nel suo atteggiamento interiore nei confronti dei propri simili, imparerà a distinguere fra religione e individualità. Nessuno, in quanto spirito umano, è «musulmano» o «cristiano». Ognuno vive sia il cristianesimo – inteso come una religione fra le altre – che l’Islam, come stadi particolari della propria evoluzione. Forse nella vita precedente il «cristiano» di oggi era un musulmano, come è possibile che il musulmano di oggi sia stato un cristiano. E nella vita successiva i «ruoli» si possono di nuovo invertire.

Quando nell’incontro con l’altro non ci si limita a vedere il suo involucro esterno – quale è anche una data religione –, ma si cerca il suo nucleo essenziale immortale che passa d’involucro in involucro – di religione in religione –, si potrá amare in ogni uomo quell’individualità eterna che dopo la svolta dei tempi è chiamata a realizzare dentro di sé l’accordo di tutte le religioni. In ogni incontro si potrà vivere e promuovere l’umano in ogni uomo.

Che cosa cerca il musulmano in quanto uomo nell’incontro con chi si definisce cristiano? Cerca l’umano che sente in comune con lui. Ciò che il cristianesimo del passato sperimenta oggi con l’Islam, e che in futuro sperimenterà in misura forse ancora maggiore, deriva dal fatto che ogni islamico bussa alle porte del cristianesimo nel desiderio, inconsapevole forse ma reale, di trovare quella libertà e quell’amore che ogni uomo cerca. L’Islam è in fondo amaramente deluso per non averlo trovato o per averne trovato troppo poco! In questo modo possiamo spiegarci la sua aggressività nei confronti dell’occidente sedicente cristiano, prodotto di un’amara delusione per aver trovato, là dove si parla di libertà, forse più egoismo che vera libertà. E che cosa cerca il cristianesimo tradizionale quando viene sfidato dall’Islam? Cerca anche lui ciò che il materialismo gli ha fatto perdere di vista: l’Uomo perfetto, quello che chiama «Cristo».

Cristiani e musulmani hanno in comune la ricerca dell’Uomo che vive in ogni uomo. E mentre nasce in loro la consapevolezza che quel che hanno in comune è molto più profondo e più grande di ciò che li divide, nasce anche una grande speranza per il futuro: che tanto i cristiani quanto i musulmani si affratellino in un meraviglioso cammino che possono compiere insieme.

Settimo capitolo

Il futuro
della religione

L’uomo va in cerca di un tipo di religione che vada bene per tutti, e non solo per alcuni, una religione che abbia un senso su tutta la scena della vita, e non solo nella riservatezza del privato. Cerca una religione che diventi vita, e una vita che diventi religione.

E poi la religione dell’uomo moderno non può vivere solo di «fede». Con questa parola si è sempre voluto indicare la fiducia nei confronti del misterioso, di tutto ciò che non si riesce ancora a comprendere pienamente col pensiero. Ma l’uomo d’oggi vuol affrontare sempre più le cose col suo pensiero. La sua formazione scientifica lo porta a voler capire i fenomeni della vita. Perciò anche la religione può avere un futuro solo se alla fede si aggiunge sempre più la conoscenza – una conoscenza non meno scientifica e oggettiva di quella richiesta per le scienze naturali.

La «transustanziazione» cristiana

L’ingresso dell’Essere Solare nell’evoluzione della Terra inaugura il passaggio degli uomini dalla regia della natura all’esperienza della libertà. Questa esperienza l’uomo la fa sciogliendo tutte le creature da ogni determinismo, trasformando tutta la materia in spirito. Questa trasformazione è come un «cambiamento di sostanza» – questo vuol dire la parola «transustanziazione» – nel senso che per il pensare umano «caduto» è sostanziale-reale solo ciò che è materiale, mentre per un pensare «redento» è sostanziale e reale lo spirito.

Prima di compiere in sé questa «transustanziazione» l’uomo vive se stesso come un essere che pensa, sì, ma non si rende ancora conto che l’attività del pensare è una diretta manifestazione dello spirito che vive in lui. Per l’uomo non «redento» il mondo della materia resta più «sostanziale» di quello dello spirito, e ancor oggi regna la convinzione che solo ciò che si vede e si tocca sia una vera realtà. L’uomo vive ancor oggi perlopiù «prima della transustanziazione», prima della grande svolta nel suo cammino, dato che il mondo fisico-materiale gli appare più reale e causante di quello spirituale. La transustanziazione cristiana è quella conversione interiore, quella trasformazione della mente e del cuore che fa vedere in ogni uomo uno spirito eterno, che fa dell’incontro fra uomini il più sublime sacramento, il compimento dell’opera di tutte le religioni.

La trasformazione del proprio essere, del proprio modo di vivere nel mondo, si realizza dapprima nel pensiero. Quando pensa, l’uomo crea nel suo spirito la realtà degli esseri che pensa, quella che permane anche quando essi esteriormente muoiono. Nei suoi pensieri l’uomo afferra in ogni cosa l’idea divina, quella che l’immensa fantasia del Creatore ha fatto sorgere dal nulla. In quanto pensabili, gli esseri manifestano all’uomo il loro nucleo spirituale, imperituro. E così, grazie all’esperienza di un pensiero intuitivo, l’uomo può comprendere anche che l’invisibile non è un vuoto postulato, ma l’esperienza di sé più reale e concreta che si possa immaginare.

Pensando in modo creativo, l’uomo fa l’esperienza che nel suo spirito vive una realtà capace di far sorgere mondi. E può dire a ragion veduta: lo spirito è la realtà più forte che c’è! Paragonata a lui, la cosiddetta materia è qualcosa di irreale, visto che oggi c’è e domani svanisce; è una manifestazione passeggera dello spirito stesso[26].

Il pensare che crea diventa per l’uomo a poco a poco la forma di religione più elevata che vi sia. Quando l’uomo si vive come un essere spirituale che pensa e che ama, vive la «religione» – cioè il «ricollegamento» col divino – allo stato puro, tocca con mano quel che chiamiamo «il sacro». Fa dell’uomo stesso quanto di più degno di venerazione possa esistere sulla Terra, e come tali tratterà anche tutti i suoi simili.

Religione come «rispetto di se stessi»

L’uomo diventa religioso nella misura in cui vive lo spirito come una realtà, e la prima realtà spirituale a lui accessibile è l’attività del suo pensiero, la forza del suo amore! Quando il dato di natura – la percezione – si trasforma grazie al pensare in un frammento di spirito – nel concetto –, allora l’uomo fa l’esperienza del creare spiritualmente e può comprendere anche la natura dell’Io superiore. Nasce in lui un sentimento di venerazione nei confronti dell’Io spirituale di ogni persona, vede agire questo Io nel singolo come l’Io del Cristo agisce nell’umanità intera. Sorge allora il già menzionato «quarto rispetto religioso», proposto da Goethe nel suo Wilhelm Meister: il rispetto di se stessi. Le prime tre realtà degne di venerazione – quel che è sopra, quel che è sotto, quel che è di fronte all’uomo – l’uomo le venera contemplandole dal di fuori. Ma la venerazione del proprio Io non si limita a contemplare qualcosa che già c’è, ma vuol creare sempre qualcosa di nuovo. Lo spirito che l’uomo crea dentro di sé è quello per lui più sacro, quello che lo rende massimamente religioso. E come agisce l’Io superiore? Pianificando lui stesso tutti gli avvenimenti della vita, soprattutto quelli dolorosi, come occasioni di crescita, come sfide offerte all’io inferiore, all’ego della nostra coscienza ordinaria.

L’unione con la fisicità, l’abbiamo già visto, offusca non poco la coscienza dell’uomo, la fa diventare quella che chiamiamo coscienza ordinaria – che è poi quell’io miope nel pensiero e tirchio nell’amore che tutti siamo in partenza. Il futuro della religione sta nel fatto che ognuno può fare del suo Io spirituale – in quanto membro dell’Io grande del Cristo che ci affratella tutti – una religione tutta personale, quanto mai sentita. Fino al punto da vedere la propria situazione di vita così come la vede lui, l’Io migliore in noi: come intuizione scaturita dalla sua fantasia morale in vista della crescita propria e degli altri.

Per chi vive con amore, nulla è più religioso della vita – poiché nulla è più religioso dell’amore. Se tutte le situazioni della vita sono intuizioni morali del nostro Io superiore, allora la nuova prassi religiosa consiste nel prenderle sul serio. La volontà del mio Io superiore – del Cristo in me, direbbe il cristianesimo – vuol diventare una cosa sola con la mia libertà. Ognuno può capire sempre meglio il perché degli avvenimenti che gli capitano, ogni situazione di vita può venir accolta come una sfida a camminare oltre. Chi non ha questa venerazione del proprio Io superiore vive gli eventi come mero caso, come destino ineluttabile a cui gli tocca sottomettersi – né più né meno che a una solenne grandinata o al solleone.

Le «Sacre Scritture» come esperienza di sé

Un elemento importante nella storia religiosa dell’uomo è il suo rapporto con le Sacre Scritture. Prima di Cristo i testi sacri delle varie religioni hanno espresso dei contenuti sapienziali; le Sacre Scritture del cristianesimo, invece, s’incentrano sull’evento storico-cosmico verificatosi duemila anni fa, raccontano ciò che allora avvenne.

E le due pietre miliari dell’evento cristico sono: da una parte l’ingresso dell’Essere Solare nella Terra avvenuto al battesimo nel Giordano, seguito dalla triplice tentazione, dall’altra la scena del Getsemani, sul Monte degli Ulivi, in cui Gesù-Cristo comincia ad abbandonare la fisicità e a far esperienza della morte, del ritorno al mondo spirituale.

Il cristianesimo tradizionale ha considerato a tutta prima questi eventi come specifici della religione cristiana, che perciò fu vissuta come una religione fra le altre. Una moderna scienza dello spirito progetta invece un tipo di religione che offre a tutti gli uomini indistintamente la possibilità di partire, più che da un presupposto strettamente confessionale, da quell’esperienza di sé come spirito incarnato e in cammino, che ogni uomo è in grado di fare.

Chiunque si dedichi con sufficiente impegno alla propria crescita interiore, vedrà emergere prima o poi nella sua contemplazione spirituale immagini simili a quelle che nei vangeli descrivono la triplice tentazione e l’episodio del Getsemani. Ognuno potrà vivere queste scene come eventi reali nella biografia della sua anima. Questo lo convincerà che gli evangelisti non le hanno descritte in quanto specificamente «cristiane», ma in quanto universalmente umane, poiché vissute da quell’Uomo divino che vive in ogni uomo e che è il meglio di ogni uomo. Ognuno può «vedere» e vivere quegli eventi come tappe del suo cammino interiore, indipendentemente dalla religione in cui è cresciuto o che pratica.

Avendo gli evangelisti raggiunto nel corso della loro iniziazione gli stadi corrispondenti, hanno visto ciò che chiunque, allo stesso livello di crescita interiore, è in grado di percepire. Duemila anni fa, nessuno ha potuto testimoniare tramite i sensi fisici questi due episodi della vita del Cristo, poiché in entrambi i casi il testo sacro sottolinea che Egli era completamente solo. Il Cristo ha vissuto la triplice tentazione quando era «nel deserto»: nessuno dunque era presente per poter vedere coi suoi occhi fisici questa scena. E sul Monte degli Ulivi, nel Getsemani, i tre apostoli che erano con lui continuavano ad «addormentarsi». Anche questa esperienza viene dunque fatta in solitudine, senza che nessuno abbia potuto esternamente vedere o sentire alcunché. Non si tratta allora prevalentemente di qualcosa che è avvenuto sul piano fisico, ma di esperienze interiori iniziatiche, note negli antichi misteri.

Ogni uomo religioso del futuro potrà capire e far sue le esperienze del Cristo come qualcosa di universalmente umano, perché esse sono possibili per tutti. Chiunque cresca interiormente sarà prima o poi in grado di fare lui stesso queste esperienze a livello astrale-immaginativo. Riuscirà a capire per esperienza personale che i vangeli descrivono le tappe del cammino spirituale che ogni uomo è chiamato a percorrere.

La seconda venuta del Cristo

Le Sacre Scritture del cristianesimo distinguono fra la prima e la seconda venuta del Cristo. La prima venuta fu la sua incarnazione a livello fisico, avvenuta in Palestina duemila anni fa, e la seconda è una «venuta» che non si compie più sul piano fisico, ma nel mondo spirituale. Il Cristo ritorna «sulle nubi del cielo», per dirla col vangelo, o viene nel «mondo eterico», «in forma eterica», per dirla con la scienza dello spirito di Rudolf Steiner.

La prima venuta sta alla seconda come l’operare del Figlio sta all’esperienza dello «Spirito Santo». Nei suoi discorsi di commiato il Cristo stesso insiste che è importante che Lui se ne vada, altrimenti lo Spirito Santo non può venire. Con queste parole vuol dire che c’è una differenza tra il suo modo di operare e quello dello Spirito Santo.

L’operare del Figlio è tutto intriso di forze d’amore: duemila anni fa è venuto a morire e a risorgere per tutti gli uomini, senza distinzione. L’esperienza dello Spirito Santo ha a che fare col cammino interiore di ognuno: consiste nella presa di posizione cosciente di ogni singolo nei confronti del Cristo. Lo Spirito Santo è lo spirito del Cristo in quanto viene interiorizzato da ognuno, è un Cristo individualizzato, che vuol esprimersi in ogni uomo in modo diverso. L’amore del Cristo ha acceso nel cuore degli uomini la fede come preparazione al dono dello Spirito Santo, che è quello della conoscenza. L’esperienza della fede è la prima venuta del Cristo nell’uomo, la conoscenza è la seconda. L’amore del Cristo fa di noi degli uomini tutti uguali in quanto uomini; l’esperienza dello Spirito Santo fa di noi degli uomini tutti diversi in quanto individui.

Per mezzo dell’esperienza dello Spirito Santo, cioè della seconda venuta del Cristo, ogni uomo acquisisce una fisionomia interiore tutta sua. La seconda venuta del Cristo è uno stadio della coscienza umana, un evento che si svolge nell’interiorità di ogni uomo.

Se la prima venuta è stato lo scendere del Cristo verso l’uomo, la seconda dovrà consistere «nell’elevarsi» della coscienza umana alla comprensione del Cristo. La parola greca che viene tradotta con ritorno – παρουσια (parusìa) – non significa venire di nuovo o ritornare, ma presenza, una presenza spirituale. La traduzione ritorno implica l’idea fuorviante che il Cristo se ne sia andato via dalla Terra, si sia allontanato dall’umanità, e ora si appresti a farvi ritorno.

La novità della seconda venuta non consiste in un ritorno del Cristo, ma nel fatto che l’uomo gli si fa spiritualmente incontro mediante una trasformazione interiore, che lo rende capace di vivere la sua presenza spirituale in un modo non meno spirituale. L’uomo impara così a fare nella sua coscienza desta l’esperienza del Cristo, che per tutto questo tempo è stato presente spiritualmente e l’ha accompagnato nel suo cammino. Non è il Cristo ad essersi «allontanato» dall’uomo nell’era del materialismo, ma l’uomo da Lui. Soprattutto nel suo modo di pensare, reso sempre più dipendente dal cervello fisico, l’uomo ha perso di vista il Cristo, il Logos che pensa creando senza dipendere dal mondo della materia.

Una volta capito che nella prima venuta l’essenziale erano le azioni visibili e le parole udibili del Cristo, e che nella seconda l’essenziale dovrà essere la risposta dell’uomo nell’interiorità della sua mente e del suo cuore, ci verrà di dire: nessuno può fare l’esperienza del ritorno del Cristo se non conseguendo uno stato di coscienza del tutto nuovo. La prima venuta del Cristo ha redento il cuore dell’uomo dandogli la «fede» nello spirito, la seconda redime la mente rendendo l’uomo capace di una «scienza» dello spirito.

La scienza dello spirito di Rudolf Steiner può essere vissuta come una vasta e profonda esperienza dello «Spirito Santo». È come un organo di riconoscimento della presenza spirituale del Cristo, la premessa cosciente per farne l’esperienza reale. Lo studio di questa scienza dello spirito può essere vissuto come una seconda venuta del Cristo in forma di Spirito Santo, e questo ritorno può essere vissuto come forma definitiva della religione.

La religione del «Signore del karma»

Rudolf Steiner afferma che a partire dal ventesimo secolo la coscienza umana può comprendere il Cristo come «Signore del karma». Il Cristo diventa d’ora in poi il Signore del karma – ciò vuol dire che ogni uomo è chiamato a diventare in modo sempre più reale un membro vivente del «Corpo mistico del Cristo» che è l’umanità intera. Ogni uomo cresce interiormente nella misura in cui si sente sempre di più come un membro vivente nell’organismo dell’umanità.

Questo «rimembramento» spirituale degli uomini in un unico organismo fa superare la frammentazione generata dall’egoismo, è la vera «redenzione» dell’uomo. L’umanità una e infinitamente multiforme diventa per ogni uomo la realtà più sacra del mondo, il dedicarsi alla fratellanza di tutti gli uomini diventa la forma più alta di religione. Anche le religioni che prima si osteggiavano a vicenda diventano membra viventi di un unico organismo spirituale che vive nella mente e nel cuore di ogni uomo.

In futuro, ognuno si sentirà tanto più religioso quanto più non potrà sentirsi felice senza che anche tutti gli altri lo siano. L’uomo singolo smetterà di cercarsi dei vantaggi a spese degli altri. Considererà un’illusione volersi procurare un beneficio a scapito di altri o pensare gli sia di danno ciò che giova agli altri.

Se l’umanità viene vissuta dall’individuo come un organismo vivente e unitario, allora il singolo uomo vive il Cristo come lo Spirito comune dell’Umanità, come il grande Io che accomuna tutti gli uomini. In ciò consiste l’esperienza del Cristo come Signore degli intrecci karmici di tutti gli uomini.

L’incontro con il Cristo che ritorna a vivere nelle menti e nei cuori umani diviene allora l’inizio della riunificazione di tutti gli uomini. Avviene dapprima nella coscienza, sotto forma di concetti che poi a poco a poco trasformano anche la vita. Ognuno imparerà a sentire e trattare il prossimo come parte di sé, ad amare davvero il prossimo suo come se stesso.

Dalla Trinità divina alla triade umana

Dio si esprime sul palcoscenico di questo mondo, intende dire il cristianesimo parlando del Dio uno in tre «Persone», nel ruolo di Padre, di Figlio e di Spirito Santo. Ciò vuol dire: con onnipotenza (il Padre), con illimitato amore (il Figlio), con l’illuminazione propria del pensiero (lo Spirito Santo). La religione del futuro, quella capace di rendere fratelli e sorelle tutti gli uomini, nasce quando si smette di speculare su un Dio che sta dietro le maschere e si comincia a vedere la sua realtà dentro l’uomo. E il divino nell’uomo, ciò che nell’uomo è puro spirito, liberamente capace di pensare e di amare, si esprime non meno in tre modi fondamentali: pensando (che è lo Spirito Santo nell’uomo), amando (che è il Figlio dentro il cuore umano) e agendo (che è espressione diretta dell’onnipotenza del Padre nell’uomo). A questo punto non valgono più nulla le distinzioni di razza, di lingua, di popolo o di religione: tutti gli uomini in quanto uomini, e ogni uomo in quanto uomo diventa sempre più «divino», sempre più religioso nella misura in cui impara a pensare sempre meglio, ad amare sempre più sinceramente e ad agire con venerazione verso i suoi simili e verso la Terra.

L’uomo è strutturato in corpo, anima e spirito. Questa «triarticolazione» ci fa vedere il Padre divino all’opera in tutto ciò che è fisico, il Figlio di Dio in tutto ciò che è animico e lo Spirito Santo all’opera in noi quando riusciamo a viverci come esseri spirituali. La Trinità divina si toglie la maschera e si mostra nella sua realtà: nella triplice esperienza che l’uomo fa di se stesso. Ecco un altro esempio di religione che diventa universale nel momento in cui diviene umana e individuale.

L’incapacità di fare l’esperienza del Padre nel mondo fisico fa nascere l’ateismo, che è l’irreligiosità propria dell’uomo che porta nella propria fisicità, nel proprio corpo l’indurimento e il decadimento dovuti al peccato originale. Quest’uomo s’identifica talmente con la propria corporeità, subisce così profondamente la potenza della materia nella propria anima, sente il suo cervello così decisamente pensare al posto suo, da non riuscire a riconoscere nel mondo fisico lo spirito – lo spirito del Padre divino. E diventa ateo, nega cioè l’esistenza di Dio, di tutto ciò che è spirituale. Rudolf Steiner chiama questa tragedia una «malattia dell’anima».

Chiama poi una «sfortuna dell’anima» il tipo di esperienza interiore che preclude la via al Figlio, alla realtà dell’amore. La parola «fortuna» in latino indicava il destino: un’anima «sfortunata» è oggi quella che non ha esperienza del proprio karma, che non avverte di vivere una vicenda evolutiva del tutto individuale, se pur intessuta a quella degli altri uomini. Non incontra, come si diceva prima, il Cristo quale Signore del karma e perciò rimane imprigionata nelle strettoie della propria solitudine, del proprio egoismo. È un’esperienza, questa, che ha la sua origine nell’anima umana in quanto tale e non nel corpo, come per l’ateismo.

Come il Padre divino viene vissuto dall’uomo in relazione all’elemento fisico-spaziale (il corpo, la natura), così il Figlio viene vissuto in rapporto all’evoluzione progressiva nel tempo che consiste nel superamento del «peccato» (cioè dello stadio di oscuramento della coscienza umana). L’uomo comincia ad accorgersi che c’è stata una redenzione, una svolta dei tempi, che consente ad ognuno quella trasformazione interiore che gli fa vivere la presenza del Figlio cosmico, dell’Essere pieno di Amore.

La terza forma di irreligiosità – la terza controforza necessaria per l’esperienza del ritorno del Cristo – si presenta quando l’uomo non sa più di essere uno spirito. Egli resta allora semplicemente anima, imprigionato nell’anima collettiva di qualche gruppo, trascinato passivamente dall’esterno da qualche potere che s’impone. Non vuole decidersi a diventare attivo, a far l’esperienza della libertà, della creatività del suo spirito individuale grazie a un pensiero davvero intuitivo. Questa omissione Rudolf Steiner la chiama un «inganno dell’anima».

L’anima s’inganna quando vuol convincersi di non poter diventare attiva, e dice che la libertà è solo un’illusione. Ogni argomentazione messa in atto per dimostrare che la libertà è un’illusione fa parte dell’inganno che sottrae all’uomo l’esperienza dello Spirito Santo. E ingannandosi, l’uomo stabilisce anche per sé il dogma del determinismo, che vale per la natura.

La triplice religione del futuro la vive ogni uomo che celebra l’incontro col Padre nel superamento dell’ateismo quale malattia dell’anima; che vive l’incontro col Figlio nel superamento dell’egoismo come sfortuna dell’anima; e l’incontro con lo Spirito Santo nel superamento del materialismo come inganno dell’anima.

Dalle nozze mistiche alle nozze alchemiche

Nel medioevo si parlava di nozze mistiche, celebrate dall’uomo nell’interiorità della sua anima, e di nozze alchemiche, cui aspirava particolarmente l’esoterismo cristiano. Il cristianesimo «ufficiale», infatti, non era ancora in grado di fare l’esperienza dello spirito che è all’opera nel mondo della natura. Gli alchimisti, col loro motto ora et labora, intendevano vivere entrambi i tipi di nozze: l’unione estatica dell’anima col divino (ora, prega), e anche l’unione fra spirito e materia (labora, lavora).

Nella tradizione dell’esoterismo ci si soffermava prima nell’oratorium per purificare la propria anima, premessa necessaria per poter, nel laboratorium, compiere la Grande Opera (Opus Magnum) della magia bianca che trasforma la materia. Benedetto da Norcia ne ha dato una versione un po’ più essoterica, cioè in fondo accessibile a tutti: il suo ora è la preghiera che tutti conosciamo, e il suo labora è il lavoro manuale che tutti possono fare.

La religione del tutto universale e del tutto individuale nasce quando l’uomo si assume il compito tutto religioso di liberare, per mezzo delle nozze alchemiche eterne, tutta la natura – soprattutto la natura nell’uomo – dall’incantesimo della fisicità. La resurrezione della carne, la spiritualizzazione del corpo umano e di tutta la Terra è quello che s’intende per «nozze alchemiche». Nei pensieri e nelle azioni degli uomini nascono una Nuova Terra e una Nuova Umanità: quest’Opus Magnum, come lo chiamavano gli alchimisti, è la Grande Opera della religione di tutti gli uomini e di ogni uomo. L’uomo religioso diventa il gran sacerdote che trasforma tutto il creato con la magia bianca dell’amore, reso puro da un pensare cristificato.

All’origine del combattersi a vicenda delle varie religioni sta il fatto culturale del materialismo, nel quale teoria e prassi si combattono non meno a vicenda, fanno a calci e pugni fra loro. In chiesa, nel mondo della religione, si predicano gli ideali più santi che si possano immaginare, ma valgono solo per la domenica, anzi solo per quell’oretta che si passa in chiesa. E che spirito è mai quello che frulla solo per la testa dell’uomo senza aver la forza di trasformare la vita, di decidere in tutto e per tutto come si trattano i propri simili, o come si maneggia il proprio denaro? Una religione che non trasforma la vita è una religione dell’anima, ed è solo per l’anima. Non ha la minima idea di che cosa sia lo spirito: la realtà in assoluto, l’essenza delle cose, la forza di trasformare se stessi e il mondo.

La religione che fa vivere all’uomo la conversione interiore dall’anima allo spirito, dalle nozze mistiche alle nozze alchemiche, è la religione delle nozze di Cana, di cui parla il vangelo: sono le nozze eterne tra lo Spirito (il Cristo) e la materia (le giare d’acqua, il «vino») celebrate nell’anima umana (la «Madre di Gesù»). L’animo dell’uomo diventa davvero religioso quando sa e sente che la realtà della cosiddetta materia è lo spirito – lo spirito all’opera dappertutto nel mondo e nella storia. Il futuro della religione è tutto posto nelle mani dell’uomo che può decidere ogni giorno di nuovo di diventare spirito e di agire nel mondo e sul mondo sempre di più come spirito creatore. E che cosa vi potrà mai essere di più religioso, di più sacro al mondo, che non lo spirito dell’uomo che crea a immagine del creare divino?

Da eremita sulla Terra a cittadino del cosmo

L’uomo vivrà un nuovo tipo di religiosità quando tutti gli Esseri spirituali – Angeli, Arcangeli, Spiriti del Tempo, Spiriti della Forma, Spiriti della Saggezza, Spiriti del Movimento, Troni, Cherubini e Serafini – diventeranno nuovamente reali per lui. Quando sarà in grado di riconoscerli, di parlare con loro, di riceverne le ispirazioni piene d’amore.

L’uomo potrà riprendere a percepire gli spiriti all’azione nella natura, come li vedevano i Celti e i Germani nella figura luminosa di Baldur, seppure in modo ancora sognante. Baldur fu messo a morte col sopravvenire del crepuscolo degli dei, per dare all’uomo l’occasione di ridargli vita di propria iniziativa nella sua mente e nel suo cuore. Grazie alla conoscenza spirituale l’uomo si crea una via d’accesso agli spiriti della natura che sono in attesa di essere redenti, tramite lui e in lui, dal mondo delle forme fisse. Da eremita sulla Terra, da esiliato che non ha più alcun rapporto con gli Esseri spirituali che lo circondano, l’uomo potrà diventare di nuovo, ma questa volta con piena coscienza, un cittadino del cosmo.

Anche la comunicazione con i defunti fa parte dell’esperienza del sovrasensibile come futuro della religione umana[27]. I cosiddetti «vivi» cominceranno a prendere sul serio i cosiddetti «morti», e potrà aver luogo una reale comunicazione, uno scambio di doni. Il dialogo con gli uomini che vivono oltre la morte – o prima della nascita – potrà diventare per chi è in vita una importante forma di religiosità.

La persona religiosa non potrà che cercare e accogliere con gratitudine i consigli dei morti. E li seguirà volentieri, consapevole che chi vive nello spirito ha una visione più chiara, più spassionata delle cose, proprio perché si è liberato dall’egoismo dovuto ai limiti del corpo, alla necessità dell’esistenza. Chi ha varcato la soglia della morte è in grado di accogliere nel suo pensiero e nel suo cuore la saggezza divina in forma pura.

Il superamento dell’angoscia dell’esistere, così diffusa nel nostro tempo, avviene ritrovando il proprio posto nel cosmo. Nel riprendere «confidenza» con i mondi sovrasensibili, velati dall’opacità della materia e dall’ottusità della coscienza, l’uomo che vive sulla Terra può sciogliere la morsa della solitudine e dell’esilio, la paura del dissolvimento, il sentimento struggente dell’abbandono.

Dalle maschere di Dio ai volti dell’uomo

Le rappresentazioni che le varie religioni si sono fatte di Dio nel corso della storia sono in realtà delle «maschere»: l’uomo resta pur sempre uomo, e finché immagina Dio «fuori» di sé oppure «oltre», «al di là» dell’umano, ha in mano soltanto delle astrazioni, nulla di spiritualmente reale o sostanziale.

Il cristianesimo tradizionale ha parlato, come si diceva poc’anzi, di un Dio in tre persone. «Persona» viene dal latino «per-sonare», che vuol dire far risuonare la voce attraverso (per) una maschera. Era la maschera dell’attore che sul palcoscenico recitava una parte, un certo ruolo. Lo spettatore vede la maschera, sente la voce che parla «dietro» la maschera, ma non vede l’attore vero, in carne e ossa, che «impersona» questo o quel «personaggio».

La religione che si svolge nel quotidiano, dove abbiamo a che fare con i volti veri degli uomini e non con le maschere di Dio, è una trasformazione dell’uomo che avviene nel sociale. Rudolf Steiner chiama questo cammino profondamente religioso la triarticolazione dell’organismo sociale. La religione del futuro è quella che celebra la libertà del singolo e l’amore reciproco nella vita quotidiana.

La religione celebrata in templi di pietra, nelle chiese o nelle cattedrali, appartiene al passato. In futuro la religione verrà vissuta nel tempio dell’umanità, nella vita di ogni giorno, nel cuore degli uomini. Il dialogo fra esseri umani sarà visto come la forma suprema di «sacramento». L’incontro umano guarirà e santificherà l’uomo, diverrà per lui la «messa» quotidiana della trasformazione e della comunione interiori, la cui liturgia sono gli eventi della vita, il cui culto è la vita stessa.

La triarticolazione dell’organismo sociale mostra al di là di ogni maschera di Dio il triplice volto della religione dell’uomo, il triplice modo in cui l’uomo può diventare sempre più umano.

L’omaggio all’individualità di ogni uomo nella sua libertà è la prima delle tre grandi esperienze religiose dell’uomo d’oggi: la capacità di riconoscere e di apprezzare l’essere inconfondibile di ognuno. Per l’uomo religioso moderno diventa sacra la «capacità di giudizio» di ognuno nei confronti di tutti i fenomeni e di tutti gli ambiti dell’esistenza. Esser capaci di giudizio vuol dire esercitare la conoscenza senza timore delle autorità «competenti», significa aiutare tutti a conseguirla in ogni sfera della vita. Pur non potendo essere un esperto in tutti i settori della vita, l’uomo è comunque chiamato a pronunciare il proprio giudizio su ogni cosa, per potersi muovere sovranamente in ogni circostanza, e mai al traino. In questa dignità gli uomini si riconoscono tutti uguali, e l’onorarla diventa la seconda esperienza religiosa dell’uomo moderno.

Diametralmente opposto alla libertà è il mistero dell’amore. Esso irraggia in una vita economica fondata sulla fratellanza, la terza esperienza religiosa dei nostri tempi. Aiutandosi a vicenda, mettendosi vicendevolmente a disposizione tutti gli strumenti materiali, si creano le condizioni necessarie per vivere da spiriti liberi. L’essere gli uni al servizio degli altri verrà vissuto come servizio liturgico: ognuno «serve» nell’altro quell’essere divino che veramente è. In tedesco il «servizio» liturgico domenicale si chiama Gottesdienst: servizio reso a Dio. Proprio questo vuol diventare la vita quotidiana: un perenne porsi a servizio gli uni degli altri, perché ognuno riconosce l’Essere divino ed eterno che ogni uomo realmente è.

Dalla tolleranza della religione
alla religione della tolleranza

L’uomo vive la sua dignità nella libertà di pensiero e di religione. Alla capacità di giudizio come fondamento della libertà, all’interessamento all’altro come religione della fratellanza, si aggiunge un terzo elemento: la tolleranza. Un cuore tollerante concede all’altro piena libertà nella sua vita, e più che mai in quella religiosa, perché la sua dignità l’uomo la vive in modo sommo nel poter plasmare a modo suo il rapporto col mondo spirituale.

Ognuno di noi può provare una sincera gioia per il sorgere di un’infinita varietà nelle espressioni del religioso. Grazie alla tolleranza verranno liberate quelle forze che concedono a ogni uomo di esprimere in modo sempre più puro la propria individualità. Questa massima espressione del sacro, che è l’individualità spirituale ed eterna di ciascuno, diventa fonte di ricchezza anche per tutti gli altri. Le forze che si manifestano in modo unico in ognuno rifluiscono così nell’organismo dell’umanità e tornano utili a tutti.

La religione del futuro sarà una religione di assoluta tolleranza, del più alto e profondo interessamento di ogni uomo per ogni uomo, e della capacità di giudizio insita in ognuno rispetto a tutti gli ambiti della vita. Troppo a lungo la religione è stata «tollerata» nella società moderna, è stata cioè considerata come faccenda personale che deve rimanere nell’ambito della vita privata, senza immischiarsi negli affari pubblici. Questa bella tolleranza religiosa ha ridotto la religione a una vuota decorazione della vita, a un luogo di evasione che almeno per qualche ora possa far dimenticare la vita reale.

La religione della tolleranza sarà l’opposto della tolleranza della religione: il valore religioso supremo da «tollerare» diventa l’uomo stesso, ogni uomo. E tollerare l’uomo vuol dire mettere a disposizione di ognuno tutti gli strumenti di cui ha bisogno per diventare sempre più umano: sempre più vasto nel suo pensare, sempre più amorevole nel suo cuore, sempre più forte nella sua volontà.

Religione sarà allora ritrovarsi fra uomo e uomo, sarà riconoscersi compagni in un cammino che coinvolge Cieli e Terra, per il cui compimento la vita di ogni uomo è preziosa, è sacra, come lo è ogni stella per il firmamento.

[1] Sull’evoluzione del mondo e dell’uomo, V. R. Steiner, La scienza occulta nelle sue linee generali – Ed. Antroposofica

[2] Sul tema del peccato originale, della caduta e della risalita umana, V. P. Archiati, Equilibrio interiore – Ed. Archiati

[3] Sul tema della reincarnazione nelle sue linee generali, V. P. Archiati Arrivederci alla prossima vita – Ed. Archiati

[4] Sul tema dell’amore e delle sue forze infinite, V. P Archiati, Il mistero dell’amore – Ed. Archiati

[5] R. Steiner, La Bhagavad-Gita e le Lettere di Paolo – Ed. Antroposofica,

[6] Per un approfondimenti, V. P. Archiati, «Voi siete dèi». L’uomo in cammino 3 voll.

[7] R. Steiner, Teosofia – Ed. Antroposofica;

P. Archiati, Arrivederci alla prossima vita – op. cit.

[8] P. Archiati, «Voi siete dèi». L’uomo in cammino, vol. 3 – Ed. Archiati

[9] Per approfondimenti, V. P. Archiati, Atti dei seminari sul Vangelo di Giovanni, 11 voll. – Ed. Archiati

[10] V. R. Steiner, Il vangelo di Marco, settima conf. – Ed. Antroposofica

[11] Nella lingua greca antica la parola «idea» (che indica l’insieme dei concetti necessari per definire l’essenza di una qualunque realtà) viene dal verbo ειδομαι (èidomai) che significa «vedere». L’idea è dunque, ancora in Platone, l’essere intimo delle cose che una volta si vedeva nella percezione spirituale, facoltà che i suoi contemporanei sempre più andavano perdendo. Attraverso il dialogo Platone mostra come quest’idea vivente vada via via riducendosi a un processo articolato di pensiero di cui l’uomo-Socrate sempre più si appropria. Con Aristotele si passa poi decisamente all’attività umana dell’intelletto discorsivo, logico-astratto.

[12] Per un più ampio sguardo sul significato evolutivo del «peccato originale», V. P. Archiati, Equilibrio interiore – op. cit.

[13] Pubblicato dall’Ed Antroposofica. Sul tema V. anche: P. Archiati, Cammini dell’anima – Ed. Archiati

[14] V., per esempio, R. Steiner, Il vangelo di Luca Ed. Antroposofica

[15] Rosenkreutz, rosacroce, si riferisce a uno dei simboli più importanti del cammino umano: una croce con sette rose. La croce sta a indicare tutto ciò che l’uomo deve superare: l’egoismo, la paura, l’ottusità... Nella misura in cui la natura inferiore muore, risorge la realtà spirituale dell’uomo, composta di sette elementi che vengono rappresentati dalle sette rose rosse. Le varie religioni, le culture dei vari popoli, sono servite a creare nell’uomo uno dopo l’altro i suoi elementi costitutivi, e la religione universale è quella che gli consente di coltivarli tutti insieme, nella loro armonia.

[16] La cronaca dell’invisibile, in sanscrito cronaca dell’akasha, corrisponde al Libro della Vita della tradizione cristiana. È la traccia indelebile e sovrasensibile della storia umana cui l’iniziato è in grado di accedere.

[17] R. Steiner, Teosofia, op. cit.

[18] In R. Steiner, I profeti dell’Io – Ed. Tilopa

[19] Ed. Antroposofica

[20] P. Archiati, L’uomo e il male, un mistero di libertà – Ed. Archiati

[21] P. Archiati, Il mistero dell’amore – op. cit.

[22] P. Archiati, Cammini dell’anima – op. cit.

[23] P. Archiati, L’Uomo e la Terra – Ed. Archiati

[24] R. Steiner, Il vangelo di Marco – Ed. Antroposofica

[25] P. Archiati, L’uomo e il male. Un mistero di libertà – op. cit.

[26] Sulla realtà del pensare e sul dialogo fra scienze naturali e scienza dello spirito, V. P. Archiati, Il pensiero, via maestra alla felicità – Ed. Archiati

[27] V. P. Archiati, Angeli e morti ci parlano – Ed. Archiati

A proposito di Pietro Archiati

Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito – destinata a diventare la grande passione della sua vita – indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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